I pescatori di trepang

By Emilio Salgari

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Title: I pescatori di trepang

Author: Emilio Salgari

Release date: June 8, 2024 [eBook #73796]

Language: Italian

Original publication: Milano: L. F. Cogliati, 1905

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I PESCATORI DI TREPANG ***


                             EMILIO SALGARI


                              I PESCATORI
                               DI TREPANG



                                 MILANO
                   TIPOGRAFIA EDITRICE L. F. COGLIATI
                          Corso P. Romana, 17
                                   —
                                  1905




                          Proprietà Letteraria




CAPO I.

La costa australiana


Ai primi d’aprile del 1850, una di quelle bizzarre navi che i chinesi
chiamavano giunche o meglio _ts’ao ch’wan_, di forme rozze e pesanti,
colla prua arrotondata e fornita di due grandi cubie[1] che danno a
quei velieri l’aspetto di mostri marini, essendo dipinti in modo che
quelle aperture sembrano due occhi smisurati, colla poppa larga e
molto rialzata e l’alta alberatura fornita di grandi vele, navigava
lentamente e con molta precauzione, lungo le coste occidentali della
terra di Carpentaria.

Trenta uomini coi crani rasati, ma forniti sulla nuca di una lunga
treccia, la pelle del viso giallastra, cogli occhi obliqui, parte
semi-nudi ed alcuni coperti da larghe casacche e da larghi calzoni di
tela fiorata, stavano allineati lungo i bordi della nave, tenendo in
mano i bracci delle manovre e le scotte, per essere pronti ad orientare
le vele.

A prua invece, ritto sul castello, un uomo di alta statura coi
lineamenti energici, la pelle bruna, vestito all’europea, esaminava
attentamente la costa australiana con un cannocchiale. Poteva aver
quarant’anni e s’indovinava, anche a prima occhiata, che doveva
essere il comandante di quell’equipaggio di chinesi. Dietro di lui
due giovanotti, l’uno che non dimostrava più di sedici anni e l’altro
venti, e colla pelle ancora bianca, parevano che attendessero, con una
certa ansietà, il risultato di quelle minuziose osservazioni.

— Vedi nulla? chiese ad un tratto il più giovane dei due volgendosi
verso il comandante.

— No, nipote mio, rispose questi. Non vedo alcun essere vivente.

— E la baia?

— È dinanzi a noi, a due leghe, Hans.

— Sei certo di non ingannarti, zio?

— Un uomo di mare ingannarsi?.... Sono venuto qui l’anno scorso a
pescare il _trepang_ e la baia non l’ho scordata.

— Ma perchè osservi così minuziosamente la costa?

— Perchè mi preme la pelle e sopratutto la vostra, nipoti miei.

— Ma cosa temi?

— Siamo in paese selvaggio, Hans. La spiaggia è deserta ora, ma
potrebbe, da un istante all’altro, gremirsi di australiani.

— Odiano gli uomini bianchi, forse?

— Non fanno distinzione di razze: bianchi o neri o gialli o rossigni od
olivastri, tutti sono buoni per questi mangiatori di carne umana.

— Mangiano gli uomini, questi selvaggi?

— Come noi mangiamo i polli.

— Che canaglie!...

— Hanno fame, Hans. La loro terra non produce, gli animali mancano
o sono rari e si rifanno cogli uomini che l’oceano spinge sulle loro
sponde.

— Ma noi siamo molti, zio mio.

— Molti!...

— E abbiamo dei fucili e due spingarde.

— Conti sui nostri chinesi, Hans? Bell’equipaggio di conigli!... Ai
primi spari si nasconderanno nella stiva.

— Ma non è facile assalire una nave.

— Ma quando saremo costretti a scendere a terra per collocare le
caldaie?

— Le caldaie!....

— Voi non sapete ancora cosa sia la pesca del trepang, è vero. Siete
ancora marinai d’acqua dolce.

— Oh zio!... esclamarono i due giovanotti.

— Ma diverrete veri marinai più tardi. Diamine! Non si improvvisano i
lupi di mare.

— È vero.

— Ehi, Wan-Horn, governa dritta quella punta!.... La vedi?... gridò il
comandante.

Un vecchio marinaio dalla barba bianca, colla pelle abbronzata dai
venti del mare e dal sole equatoriale e che stava ritto sul cassero,
tenendo in mano la ribolla del timone, disse:

— La vedo, capitano. I miei sessant’anni non mi hanno indebolito la
vista.

La giunca, che continuava avanzarsi lentamente lungo quella penisola
acuta, che si estende fra il mare del Corallo ed il golfo di
Carpentaria, prolungandosi attraverso i bassifondi dello stretto di
Torres, mise la prua verso una punta rocciosa che pareva celasse una
profonda insenatura.

Quella costa, che il comandante continuava ad esaminare con profonda
attenzione, appariva assolutamente deserta. S’alzava verso l’est,
con piccole ma profonde insenature, con roccie colossali che parevano
posassero su scogliere corallifere celate sott’acqua. Non si scorgeva
alcun cespuglio nei pressi di quelle spiaggie, ma più lontano si
vedeva qualche gruppo di quegli alberi gemmiferi chiamati _eucalipti
rostrati_, veri giganti, poichè raggiungono sovente un’altezza di cento
cinquanta metri, ma che non danno ombra alcuna, poichè le loro foglie
oscure si presentano sempre di profilo.

Il capitano però, non pareva rassicurato di quell’apparente
tranquillità che regnava su quelle spiaggie e di quando in quando
tendeva gli orecchi, come se volesse raccogliere qualche suono ben
differente dai muggiti che producevano le onde nell’infrangersi contro
le scogliere.

Anche l’equipaggio chinese pareva inquieto e guardava con diffidenza
quelle coste, come se da un istante all’altro dovesse comparire un
grave pericolo.

In pochi minuti la _giunca_, che navigava con velocità notevole,
essendo alzata una fresca brezza che veniva dall’ovest, superò la
punta rocciosa additata dal capitano ed entrò in una vasta baia cinta
da scogliere corallifere, le cui sponde scendevano dolcemente verso il
mare.

— È questa? chiesero i due giovanotti.

— Sì, rispose il capitano, che ora osservava attentamente l’acqua della
baia. Qui vi è una vera fortuna per noi e per l’armatore della giunca.

— Il trepang abbonda? chiese il giovinotto più anziano.

— Sì, Cornelio: faremo una raccolta miracolosa ed in poche settimane.

— Sono impaziente di assistere a questa pesca.

— Un giorno diventerai anche tu un abile pescatore e...

Un grido bizzarro, che pareva venire dalla spiaggia, gli tagliò
bruscamente la frase.

— _Cooo-mooo-èèè!..._

— Mille lampi! esclamò il capitano, aggrottando la fronte. L’istinto
non m’ingannava!...

— È il grido dei _trepang_? chiese Hans.

— I _trepang_ non hanno voce.

— Di qualche animale? chiese Cornelio.

— Peggio ancora: è il grido di raccolta degli australiani.

— Ma io non li vedo.

— Ma ci hanno veduti loro, disse il capitano, che era diventato
pensieroso.

— E temi che ci assalgano?...

— Non ora, ma temo pei miei chinesi. Sapendo di aver vicini quei
mangiatori di carne umana, rifiuteranno di sbarcare.

— Capitano Wan-Stael, avete udito? chiese il vecchio marinaio, che
aveva abbandonato la ribolla del timone ad un chinese.

— Sì, vecchio mio, ma io non rinuncierò alla pesca. La baia è
tappezzata di _trepang_ e non voglio perdere un simile carico che può
fruttarci ventimila dollari.

Poi rizzandosi sul castello di prua, tuonò:

— Giù le àncore ed imbrogliate le vele!...

In quell’istesso istante, fra le scogliere della spiaggia, si udì
echeggiare il bizzarro grido di prima:

— _Cooo-mooo-èèè!_

— Ancora!... esclamò il capitano. È una minaccia o quei furfanti
cercano di spaventare i miei uomini?

— È un grido di raccolta, capitano, disse il vecchio Wan-Horn.

— Che ci sia qualche tribù accampata nei dintorni?

— Voi sapete che durante la stagione della pesca quegli antropofaghi si
radunano verso la costa, colla speranza di guadagnare degli arrosti....
Anche l’anno scorso gli equipaggi di tre _giunche_ sono stati divorati
dai selvaggi del Capo Jork.

— Lo so, Wan-Horn. Ho veduto i rottami di una di quelle _giunche_,
arenati sulle isole Eduard Pellews, ma ci siamo noi e non abbiamo paura
degli australiani.

— State però in guardia, capitano. Voi sapete che sono capaci di
tagliarci le gomene o di spezzarci le catene delle àncore per mandare
la nostra _giunca_ sulle scogliere.

— Apriremo bene gli occhi, Wan-Horn. Intanto farai armare le spingarde
e porterai in coperta dei fucili, onde proteggere i nostri pescatori.

Mentre così discorrevano, l’equipaggio chinese aveva gettato le due
àncore di prua ed un àncoretto a poppa per meglio ormeggiare la piccola
nave, poi aveva calate sul ponte le due più grandi vele degli alberi di
trinchetto e di maestra ed imbrogliato il fiocco.

La _giunca_, spinta dalle lunghe ondate che venivano dal golfo di
Carpentaria, si era avvicinata alla spiaggia, arrestandosi a circa tre
gomene dalle prime scogliere.

— Affrettiamoci, disse il capitano, rivolgendosi verso l’equipaggio. Se
tutto va bene, fra tre settimane noi avremo compiuto il nostro carico e
fra sei rivedremo quell’ottimo Lià-Khing....

                             . . . . . . .

L’_Hai-Nam_, tale era il nome della giunca Chinese, era partita un
mese prima da Timor, isola che si trova nel mar delle Molucche e che
fa parte dell’arcipelago Malese, per la pesca del _trepang_, sotto il
comando del capitano Wan-Stael, un olandese di Batavia. In altri tempi
Wan-Stael, che godeva fama di valente uomo di mare, aveva navigato per
proprio conto e con nave propria, dedicandosi alla pesca dei _trepang_;
ma a quarant’anni, quando già si credeva tanto ricco da poter terminare
comodamente la sua vita in qualche opulenta città dell’estremo oriente,
un colpo di sfortuna l’aveva completamente rovinato.

Una notte tempestosa la sua nave era naufragata nel mar del Corallo,
presso le coste australiane, e dei venti uomini che componevano
l’equipaggio, lui ed il vecchio Wan-Horn erano riusciti a salvarsi
su di un rottame. La sua energia non era però stata fiaccata da
quel tremendo disastro. Si sentiva ancora tanto forte da rifare la
perduta fortuna, e ritornato a Timor si era tosto offerto ad un ricco
negoziante di _trepang_, il Chinese Lià-Khing, il quale non aveva
esitato ad affidargli il comando di una delle sue migliori _giunche_,
ben sapendo con quale ardito marinaio aveva da fare.

Wan-Stael, quantunque non avesse mai avuto molta fiducia per quelle
navi di costruzione chinese, che mal sopportano i furori degli oceani,
era partito per le coste settentrionali dell’Australia ed in poche
settimane aveva completato il suo carico di quei coriacei molluschi, ma
che pure sono cotanto apprezzati sui mercati chinesi e malesi.

Quantunque in quella prima campagna di pesca avesse già fatto dei
grossi guadagni, al principiare della nuova stagione aveva ripreso il
mare, ma questa volta aveva condotto con sè due nuovi compagni.

Erano due suoi nipoti, orfani da parecchi anni e che egli contava di
condurre con sè attraverso il mondo, per farne due abili marinai.

I due giovanotti, già figli di un valente capitano, morto sulle coste
del Borneo in uno scontro coi pirati del sultano di Varauni, avevano
accettato con entusiasmo la proposta, benchè non ignorassero i pericoli
che presenta la pesca del trepang, non perchè quei molluschi siano
dotati di armi difensive, tutt’altro, ma per le regioni ove si trovano,
le quali sono popolate da selvaggi di pessima fama e che godono una
triste celebrità, essendo quasi tutti ghiotti di carne umana.

Erano giovani entrambi, poichè Hans non contava che sedici anni e
Cornelio venti, ma il capitano Wan-Stael poteva fare assegnamento
sul loro coraggio poichè abituati fin dall’infanzia a scorrere le
cupe foreste di Timor, inseguendo arditamente gli animali selvaggi,
ed a scorrere il mare pericoloso delle Molucche, non erano tali da
indietreggiare dinanzi ad un pericolo qualunque fosse.

Ecco il motivo per cui quella _giunca_, montata da un equipaggio
chinese e comandata da uomini bianchi, aveva gettato l’àncora sulle
deserte sponde della terra di Carpentaria, in quella profonda baia
tappezzata di _trepang_.




CAPO II.

I pescatori di trepang


Non vi è forse un popolo così stravagante come quello chinese, in
fatto di cibi. Se apprezza immensamente le pinne di pesce-cane in salsa
zuccherata, se è ghiotto dei nidi di rondini marine che danno dei brodi
gelatinosi ma insipidi[2], di lombrichi salati, di ranocchi, di topi
salati o di cani, sopratutto è consumatore di _trepang_.

Si può dire che da secoli, anzi prima ancora che i navigatori europei
conoscessero l’esistenza del quinto continente, le loro navi si
recavano sulle spiaggie settentrionali dell’Australia o sulle coste
della Nuova Guinea a pescare questo bizzarro mollusco.

La quantità che si esporta sui mercati del Celeste Impero è immensa, ma
non è bastante, poichè il chinese tutto sacrificherebbe per un piatto
di _trepang_, e crederebbe di non offrire un banchetto completo senza
questo manicaretto che può ormai chiamarsi nazionale. Gli Europei,
quantunque ultimi venuti, non hanno trascurato questa pesca, e come
vi sono i pescatori di balene, di capidogli, di foche e di morse, vi
sono così pure i pescatori di _trepang_, i quali, tutti gli anni, nella
stagione propizia, salpano dai porti più lontani per recarsi nelle
acque dello stretto di Torres o del mar del Corallo o del golfo di
Carpentaria, ricavando dei lauti guadagni.

È bensì vero che parecchie navi non tornano più in patria o ritornano
cogli equipaggi decimati, ma gli altri pescatori non si spaventano per
ciò. Sanno che i selvaggi australiani o papuasi o dell’arcipelago delle
Lusiade li attendono, pronti ad approfittare della prima tempesta per
recidere le gomene e le catene e mandare le navi a frantumarsi contro
quelle pericolose scogliere; sanno pure che se cadono nelle mani di
quegli isolani finiscono la loro esistenza sulla punta d’uno spiedo od
in un immenso tegame a bollire colla salsa verde, ma ci tornano, perchè
i chinesi pagheranno ben cari quei molluschi.

Vedremo in seguito cosa sono questi _trepang_ che l’equipaggio della
_Hai-Nam_ si preparava a pescare, malgrado il grido di raccolta degli
australiani, che suonava come una funebre minaccia.

Ancorata solidamente la nave, colla prua volta verso l’uscita della
baia per essere pronti, in caso di pericolo, ad abbandonare quei
paraggi, il capitano Wan-Stael aveva fatto calare in mare una grande
scialuppa armata d’una grossa spingarda, e vi era disceso in compagnia
del vecchio Wan-Horn, di Hans e di Cornelio.

Curvatosi sul bordo, si era messo a osservare l’acqua con viva
attenzione, esplorando il fondo della baia che era perfettamente
visibile.

— Sette braccia, diss’egli, con aria soddisfatta. — I nostri pescatori
non faticheranno troppo.

— Ma dov’è il _trepang_? chiese Hans.

— Il fondo è tappezzato, rispose il capitano. Non scorgi nulla fra la
sabbia e le alghe?

— Mi pare di vedere dei cilindri che si muovono.

— Sono appunto quelle le _olutarie_, o, se ti garba meglio, i trepang
che noi pescheremo.

— E sono dei migliori, capitano, disse Wan-Horn. Ecco là i
_bankolungan_, più in fondo i _kikisan_, i _talipan_ e laggiù vedo
anche i _munang_.

— Che i chinesi pagheranno molto cari, vecchio mio, disse il capitano.
Qui vi è una vera fortuna da pescare.

— Ci spiegherete meglio cosa sono queste olutarie? chiese Hans.

— Certo, ragazzo mio, rispose il capitano. Orsù, Wan-Horn, fa scendere
i pescatori.

Dieci chinesi semi-nudi, che tenevano infissi, in una larga cintura,
dei lunghi coltelli leggermente ricurvi, armi necessarie in quei
paraggi che sono frequentati da mostruosi pesci-cani ghiotti di
carne umana non meno degli antropofaghi delle coste settentrionali
dell’Australia, ad un comando del vecchio marinaio scesero nella
scialuppa, recando nella mano sinistra una specie di rete, capace di
contenere parecchie _olutarie_.

— Giù, e senza perdere tempo, disse il capitano, dopo d’aver osservata
l’entrata della baia, per accertarsi dell’assenza dei pesci-cani.

I dieci pescatori, scelti fra i migliori nuotatori dell’equipaggio,
balzarono in acqua con mirabile accordo.

I due giovanotti, curvi sui bordi della scialuppa, seguivano con viva
curiosità le operazioni di quei valenti pescatori. L’acqua della baia,
che era tranquilla e trasparente come un cristallo, permetteva a loro
di distinguere nettamente quegli uomini, i quali agivano rapidamente,
strappando i molluschi, che tosto cacciavano nella rete.

Ben presto il primo, che non aveva impiegato un mezzo minuto,
ricomparve a galla. La sua rete, piena da scoppiare, venne tosto
afferrata dal vecchio Wan-Horn, il quale la rovesciò nel fondo della
scialuppa, facendo uscire una decina di _olutarie_.

— Che molluschi sono? chiesero Hans e Cornelio, che si erano curvati
per meglio osservarli.

— I _trepang_, disse il capitano, e dei migliori, ragazzi miei.

— Sembrano cilindri rugosi, disse Cornelio.

— Ma con dei tentacoli, disse Hans.

Il capitano prese uno di quei molluschi e lo fece vedere ai nipoti.
Quello strano abitante del mare, rassomigliava infatti ad un cilindro,
munito ad una estremità d’un circolo di tentacoli piumosi, ma senza
testa, senza occhi, e con un buco che doveva essere certamente la
bocca.

Misurava dai dodici ai quindici pollici da una estremità all’altra e la
sua pelle, che pareva assai resistente, mostrava lungo il corpo delle
cavità molto singolari, ma che ora apparivano ed ora scomparivano.

— È una _olutaria bankolungan_, diss’egli. È una specie assai pregiata
e che si paga cara dai chinesi.

— Ma come sono conformati questi molluschi? Io non vedo nè testa, nè
occhi.

— Non hanno nè l’una, nè gli altri, Cornelio, disse il capitano;
anzi, sono perfino sprovvisti di organi per l’odorato e per l’udito.
Il loro corpo è un vero sacco fornito di muscoli robustissimi, duri,
resistenti, che pare non abbia che una sola occupazione: quella di
divorare sempre.

Vivono in grandi famiglie in fondo alle baie, dove l’acqua è tranquilla
e trasparente, strisciando a mo’ dei vermi, aiutandosi colle sporgenze
che crescono sui loro corpi e si nutrono di alghe marine, di fuchi,
e ingoiano perfino della sabbia, delle pietruzze e dei pezzetti di
corallo.

— Che stomachi! esclamò Hans. Devono possedere un apparato digestivo
assai potente.

— Il loro stomaco è un tubo che si distende dalla bocca all’estremità
opposta del corpo, senza alcuna dilatazione. Il cibo non fa quindi
che passare; entra dalla bocca ed esce dall’altra parte, quasi senza
arrestarsi.

— Ma questi tentacoli che circondano la bocca, a cosa servono?

— Ad afferrare gli oggetti, le alghe, le pietruzze, ecc.

— Ma mi pare che ne manchino alcuni.

— È vero, Hans. I pesci assalgono spesso le _olutarie_ e se non
sono piccoli divorano i tentacoli, ma non sempre però, poichè questi
molluschi possono ritirarli a loro piacimento. Anche perdendoli, le
_olutarie_ non ne restano prive per sempre, poichè si riproducono in
capo ad un certo tempo. Prendi ora questa _bankolungan_ che è ancora
viva e stringila un po’ fra le tue mani.

Il giovanotto prese l’_olutaria_ e la compresse; subito si vide il
mollusco contrarsi in modo da formare una specie di palla, schizzare
fuori un getto d’acqua e poi una materia oscura che si distese
sull’orlo della bocca.

— Sono gl’intestini del mollusco, disse il capitano, prevenendo la
domanda dei nipoti. La loro contrazione muscolare è così potente, che
produce perfino l’espulsione dei visceri.

— Se io gettassi quest’_olutaria_ in acqua, morrebbe ora?

— No, anche se tu le strappassi gl’intestini, poichè non tarderebbe a
riprodurli.

— È strana! esclamarono i due giovanotti al colmo della sorpresa.

— E questa è più strana! esclamò il capitano, raccogliendo un’altra
_olutaria_ che stava emettendo dalla bocca un pesciolino lungo pochi
centimetri ed ancora vivo.

— È un pesciolino che non ha potuto digerire? chiese Cornelio.

— No, è il compagno delle olutarie, rispose il capitano.

— Non ti comprendo.

— Mi spiegherò meglio. Questi pesciolini, non si sa ancora per qual
motivo, vivono nel ventre di questi molluschi. Entrano per la bocca,
si cacciano fra le viscere e la pelle e stanno colà come se fossero in
casa loro.

— E le _olutarie_ li tollerano?

— Sì, poichè colla loro potente contrazione muscolare potrebbero
espellerli facilmente, ed invece li lasciano in pace, come fossero
amici di casa.

— È meraviglioso!... esclamò Hans. E non soffrono per la presenza di
quell’intruso?

— Non sembra; se soffrissero, lo caccerebbero via.

— Ma dimmi, o zio, chiese Cornelio, sono eccellenti questi molluschi?

— Hanno un sapore di gambero, ma sono duri, e per mangiarli ci vogliono
dei buoni denti, poichè sono elastici come la gomma. I chinesi, i
malesi ed i cocincinesi li apprezzano assai, ma noi europei li lasciamo
volentieri a quei ghiottoni e preferiamo i pesci che sono molto più
saporiti e più delicati.

— Pure si paga caro il _trepang_.

— Carissimo, Cornelio. Le qualità migliori si pagano sui mercati
chinesi dai venti ai trentacinque dollari il _pikul_[3]; altre più
scadenti, dieci dollari ed anche sei.

— I pescatori devono fare delle rapide fortune.

— Non sempre, Hans, poichè anche le olutarie, al pari delle balene,
cominciano a scarseggiare. Certe isole, che un tempo erano ricche
di molluschi, ora ne sono prive in causa della improvvida pesca
sterminatrice, fatta specialmente dalle navi europee ed americane.

Alcuni anni or sono le isole Sikana erano celebri per la quantità di
_trepang_ che vi si trovava, ma dopo che un capitano americano ne portò
via duecentosessantacinque _pikul_, durante il 1845, e il capitano
Muyne quasi altrettanti nel 1847, non si trovano più _olutarie_ su
quelle spiaggie.

Basta per ora, ragazzi miei, facciamo armare l’altra scialuppa e
andiamo a collocare le caldaie.

— Le caldaie! esclamò Cornelio. Cosa vuoi fare?

— Sono necessarie per la preparazione del _trepang_.

— Ed i selvaggi? chiese Hans. Ci lasceranno tranquilli?

— Non hai udito poco fa quel grido?

— Non oseranno avvicinarsi, per ora, almeno lo spero. Sanno che gli
uomini bianchi possiedono armi da fuoco e di queste hanno paura. Ehi,
Wan-Horn! Fa mettere in mare la seconda scialuppa!

Il vecchio marinaio, che era risalito a bordo della _giunca_,
s’affrettò ad obbedire. L’imbarcazione, che era sospesa alle grue di
poppa, venne calata in acqua col mezzo di paranchi e dieci chinesi
armati di fucili la occuparono.

— Giù le caldaie ed il combustibile, comandò Wan-Horn che era pure
sceso.

Due grandi bacini di rame, del diametro di un metro e della profondità
di trentacinque o quaranta centimetri, ed una grossa provvista
di legname vennero calati nell’imbarcazione, unitamente a delle
schiumarole di gran mole e ad alcuni arpioni.

— È carica la spingarda? chiese il capitano.

— A mitraglia! rispose il vecchio marinaio. Se ai mangiatori di carne
umana salterà il ticchio d’importunarci, scalderemo per bene i loro
magri dorsi.

— Andiamo, ragazzi miei, disse Wan-Stael ai nipoti.

Passarono sulla seconda scialuppa ed i chinesi si misero ad arrancare,
spingendola verso la spiaggia.

Bastarono pochi minuti per superare la distanza e le pericolose
scogliere che facevano corona alla spiaggia, contro le quali si
rompevano, con cupi fragori, le ondate della risacca.

— Alto, disse Wan-Stael, prima che la scialuppa toccasse la sponda.

Si rizzò sulla banchina di prua e lanciò un lungo sguardo sulla costa
che era cosparsa di roccie enormi, le quali si alzavano in forma di
anfiteatro. Malgrado il segnale di raccolta udito poco prima, non si
vedeva alcuna creatura umana e non si udiva alcun rumore sospetto;
solamente una piccola banda di _cakatoe_, splendidi uccelli dalle penne
porporine e bianche come la neve e il capo sormontato da un ciuffo
ricadente all’indietro, cicalavano fra i rami di un piccolo _black
wood_ (albero del legno nero) che cresceva stentatamente fra le sabbie.

— Nulla di sospetto? chiese Wan-Horn.

— No, vecchio mio; sbarchiamo.

La scialuppa, con pochi colpi di remo, s’accostò alla spiaggia,
incagliandosi nella sabbia.

Il capitano, i due giovanotti e il marinaio scesero, portando con loro
quattro fucili, quindi sbarcarono i chinesi recando il legname, le due
caldaie, le schiumarole e gli arpioni.

A breve distanza dalla spiaggia, Wan-Stael indicò due muricciuoli
circolari, formati di frammenti di roccia e che parevano destinati a
servire da forni.

— I selvaggi li hanno rispettati, diss’egli.

— Cosa sono? chiese Hans.

— I nostri fornelli costruiti l’anno scorso. Al lavoro, giovanotti, la
seconda scialuppa sta per giungere.

I chinesi accumularono nei due fornelli parte del combustibile che
avevano recato, vi diedero fuoco, poi collocarono sopra i due grandi
bacini riempiendoli d’acqua marina.

La seconda scialuppa montata dai pescatori, giungeva. La pesca era
stata veramente miracolosa, poichè l’imbarcazione era così carica, che
minacciava d’affondare.

Giunta sulla spiaggia, i venti chinesi procedettero sollecitamente allo
scarico. In meno di un’ora quei pescatori avevano raccolto duecento
chilogrammi di _olutarie_, ma non tutte d’una sola specie.

Vi erano le pregiate _bankolungan_, che raggiungono una lunghezza di
undici a quindici pollici, col dorso bruno, il ventre bianco, con una
crosta calcarea d’ambo i lati ed irti di verruche.

Queste si pescano ordinariamente sull’orlo interno dei banchi di
corallo, ad una profondità da uno a tre metri.

Si vedevano pure parecchie _kichisan_, lunghe trenta centimetri, di
forma ovale, dalla pelle nera, ma con una serie di verruche d’ogni
lato; le _talipan_ che raggiungono una lunghezza di soli trenta
centimetri, di colore rosso cupo, con una fila di spine rosse sul
dorso. Sono le più tenere e perciò esigono una cura speciale nella
preparazione.

Non mancavano nemmeno le _munang_, che sono le più piccole di tutte,
senza verruche, senza spine, liscie e colla pelle tutta nera, ma
che sono le più pregiate, pagandosi sui mercati chinesi perfino
trentacinque dollari il _pikul_; ma vi erano pure altre qualità
inferiori, come le _zapatos_, le _lowlovan_, le _balattimano_, le
_batan_ e le _hangenan_ che si acquistano a sei dollari il _pikul_.

Tutte quelle _olutarie_ che erano ancora vive e che sfogavano la
loro impotente collera schizzando getti d’acqua sui pescatori, furono
accumulate presso ai due fornelli.

Il capitano sorvegliava con attenzione l’ebollizione dell’acqua
contenuta nelle due grandi caldaie.

È necessaria una grande abilità ed una lunga pratica nella preparazione
del _trepang_, poichè basta una maggiore o una minore bollitura per
guastarlo.

Il soverchio calore copre le _olutarie_ di vesciche e le fa diventare
porose come una spugna; se l’acqua invece non ha ottenuto quel tal
grado d’ebollizione, fa perdere a loro la consistenza, e allora bastano
poche ore per imputridirle e quindi guastarle per sempre.

— Gettate, disse ad un tratto Wan-Stael.

I chinesi precipitarono i disgraziati molluschi nei grandi bacini. Per
alcuni istanti si videro dibattersi, contorcersi disperatamente, poi
ricaddero inerti nel fondo dell’acqua che bolliva frettolosamente.

Il capitano aveva estratto il suo orologio e non staccava gli occhi
dalle lancette.

— Otto minuti, diss’egli. Il _trepang_ è pronto.

A quelle parole i chinesi immersero le loro enormi schiumarole, ed i
molluschi vennero rapidamente levati e gettati sopra una grande tela da
vele che era stata stesa presso i forni.

Hans e Cornelio si erano curvati per meglio osservarli.

— La cottura è giusta, disse il capitano. — Sono molli come la
gomma elastica e la loro pelle è azzurrognola: ciò indica che si
conserveranno perfettamente.

— Mi hanno detto però, che si usa anche a seccarli al sole, zio, disse
Cornelio. È vero?

— Sì, ragazzo mio, e ti dirò anche che quelli seccati sono i più
pregiati; ma tale operazione è troppo lunga, poichè son necessari venti
giorni e noi non possiamo perdere tanto tempo.

Taluni pescatori li seccano anche al fuoco e per tale operazione
bastano quattro giorni, ma noi ci troviamo su di una costa che....

— _Cooo-mooo-èèè!_...

Quel grido bizzarro, che già avevano udito, echeggiò improvvisamente
dietro alle roccie, interrompendo bruscamente la frase del capitano.

Quasi contemporaneamente si udì Wan-Horn ad esclamare:

— Che brutta scimmia! Bada a non alzare le zampe o ti abbrustolisco il
dorso, parola da marinaio!...




CAPO III.

La pittura di guerra del selvaggio


Un negro orribile, che tramandava un acuto odore d’ammoniaca, era
improvvisamente comparso dietro ad una scogliera che si prolungava
verso la sponda settentrionale della baia.

Era di statura poco superiore alla media, ma di una magrezza
spaventosa, tale che si potevano contare le sue costole; aveva però
il ventre sporgente, ma le sue gambe, che erano mancanti dei polpacci,
parevano bastoni ricoperti di cuoio.

Il suo viso rassomigliava più a quello d’una scimmia che a quello di
un essere umano. La sua testa era schiacciata, la sua fronte depressa,
il naso camuso, le mascelle sporgenti, gli orecchi larghi, gli occhi
piccoli che scintillavano stranamente e una bocca così grande che gli
fendeva più di mezzo viso.

Delle strane pitture a colori svariati coprivano la sua pelle cuprea,
e dei tatuaggi assai marcati, rilevati in forma di piccole labbra,
ornavano il suo corpo.

Quel selvaggio ributtante si sbarazzò d’una pelle di kanguro che
coprivagli le spalle e parte dei suoi lunghi e ruvidi capelli, ed
impugnando, con aria comica, una piccola lancia colla punta d’osso e
adorna d’un ciuffo di penne variopinte, s’avanzò verso i pescatori,
fermandosi a dieci passi dai fornelli.

— Cosa vuole quel brutto antropofago? chiesero Hans e Cornelio, mentre
i chinesi operavano una prudente ritirata verso le scialuppe.

— Verrà ad intimarci di partire, disse il capitano. Questi luridi
selvaggi pretenderebbero che nessun straniero venisse a pescare presso
le loro coste, ma quel campione della razza australiana s’inganna se
crede che io me ne vada.

— M’incarico io di mandarlo alla sua tribù con un calcio, disse il
vecchio Wan-Horn. Non mi fa paura la sua lancia, capitano Stael.

— Vediamo un po’, signor selvaggio, disse il capitano avanzandosi verso
di lui, quali sono le vostre pretese.

L’australiano che se ne stava immobile impugnando la sua lancia,
vedendolo avanzarsi si battè con la mano sinistra il ventre, che
risuonò come un tamburo.

— Reclama la colazione, disse Wan-Stael. Noi non siamo albergatori,
signor selvaggio, ma se siete a digiuno potete rosicchiare questa
_olutaria_.

Prese un _zapatos_ che era stato già preparato e lo gettò
all’australiano, il quale lo prese di volo, portandolo avidamente alle
labbra.

— Che appetito! esclamò Hans.

— Non è da meravigliarsi, nipote mio. Questi selvaggi del continente
australiano sono in lotta colla fame tutto il tempo della loro vita e
soffrono dei digiuni straordinari.

— Forse che non produce alcuna pianta fruttifera l’Australia?

— Solamente alberi gommiferi; però, coltivate, tutte le piante
fruttifere d’Europa danno dei raccolti favolosi; ma questi selvaggi
disprezzano l’agricoltura, e non vivono che di caccia.

— E non abbonda la selvaggina?

— Tutt’altro, è scarsa assai. Qui non si trovano che pochi kanguri,
radi casoari, che sono specie di struzzi, ma più piccoli di quelli
africani, e delle bande di cani selvaggi chiamati _dingo_, assai
difficili ad uccidersi. È bensì vero che l’indigeno australiano non è
schizzinoso, nutrendosi persino di vermi, di bruchi, di lucertole, di
serpenti, ma anche questi non bastano per tutti. Aggiungi inoltre che
sono imprevidenti e che non pensano mai al domani. Uccidono un kanguro
od un casoaro?.. S’affrettano ad arrostirli e li divorano finchè non
rimangono che le ossa, dovessero scoppiare.

— Sono adunque grandi mangiatori?

— Eccone un esempio, disse il capitano. L’_olutaria_ è già sparita in
sei bocconi, in quel ventre che pare non abbia fondo.

Infatti il selvaggio aveva già divorato la _zapatos_, ma non pareva
soddisfatto; vedendo l’ammasso di molluschi, forse incoraggiato da quel
primo regalo, vi si gettò sopra abbracciando più _olutarie_ che potè,
ma Wan-Horn, che non lo perdeva di vista, afferratolo per una gamba lo
tirò indietro, dicendogli:

— Adagio, mariuolo; giù le zampe, brutta scimmia!

L’australiano, che contava di fare una scorpacciata, balzò rapidamente
in piedi e raccolta la lancia l’alzò minacciosamente.

— Quanto sei buffo!... esclamò il marinaio.

— Guardati, Wan-Horn, disse il capitano. Questi selvaggi sono traditori.

— Gli romperò la lancia sul dorso, signor Wan-Stael.

Fece per gettarsi sull’australiano per disarmarlo, ma questi balzò
indietro, dicendo in un linguaggio misto d’inglese e di malese:

— Bada, uomo bianco!... Questa è la terra dei figli di
_Mooo-tooo-omj_[4].

— Ed io ti dico che se non te ne vai, ti prendo a calci, brutto
antropofago, disse il vecchio marinaio, alzando il fucile. Mi hai
compreso?

L’australiano che non doveva ignorare la potenza delle armi da fuoco,
retrocesse sollecitamente, e piantando fieramente la lancia nella
sabbia, disse:

— Ci rivedremo presto.

Poi spiccando un gran salto s’allontanò rapidamente, scomparendo dietro
le rupi che chiudevano la baia.

— Che i cani selvaggi ti divorino! gli gridò Wan-Horn.

— Che ritorni? chiese Cornelio.

— È probabile, rispose il capitano che era divenuto pensieroso.
Quel selvaggio cercherà di giuocarci qualche cattiva azione, ma noi
veglieremo e al primo indizio di pericolo ci ritireremo nella _giunca_.

— Che vi sia qualche tribù nei dintorni?

— Mi pare che questa costa sia troppo sterile per nutrire una intiera
tribù, ma nell’interno della penisola i selvaggi non devono mancare.

— Sono coraggiosi?

— Sì, quando la fame li spinge, e molti sono stati gli equipaggi
divorati da questi antropofaghi. Apriremo per bene gli occhi però,
e non lasceremo avvicinarsi al nostro campo nessuno senza il nostro
permesso.

I chinesi, rassicurati, avevano ripreso il lavoro di preparazione del
_trepang_, mentre i pescatori avevano ripreso il largo per tuffarsi
nelle acque della baia. I due fornelli riattivati mandavano in aria
grandi fiammate, e l’acqua delle due immense caldaie bolliva, cucinando
le _olutarie_ le quali venivano ammucchiate le une sulle altre, sulla
tela che era stata riparata da una specie di tenda, onde impedire che
il sole le guastasse.

Hans e Cornelio, armati di fucili, perlustravano le roccie per
accertarsi che nessun altro selvaggio si aggirava, e facevano le
fucilate contro le bande di _kakatoe_ bianche, rosse o leggermente
tinte di rosa, abbattendone parecchie, mentre il capitano esaminava i
bassifondi della baia, per meglio assicurarsi della quantità e qualità
delle _olutarie_.

Erano già trascorse due ore ed i pescatori avevano sbarcato due altre
partite di molluschi e delle specie più pregiate, quando si vide
improvvisamente ricomparire il selvaggio di prima.

Era ancora solo, ma quale lugubre teletta aveva fatto!... A prima vista
si poteva scambiare per uno scheletro vivente, poichè si era dipinto
con terra gialla, una specie di ocra senza dubbio, le costole e le
membra, in modo da imitare l’ossatura d’un essere umano.

Non aveva alcuna arme, ma in mano, sospesa ad un bastone, portava un
pezzo di corteccia d’albero d’una tinta e forma particolare.

I chinesi nello scorgere quello strano emblema impallidirono,
mormorando:

— Il _wai-waiga_!

— Ah! brutto antropofago! esclamò Wan-Horn. Ancora ritorni? Hai
dell’audacia, scimmia!...

— E si presenta a noi colla pittura, disse il capitano.

— E colla corteccia del _wai-waiga_, aggiunse il marinaio. È una vera
dichiarazione d’ostilità, signor Wan-Stael.

— Ma cosa significa quella lugubre pittura? chiese Cornelio.

— È la loro teletta di guerra, rispose il capitano.

— E quel pezzo di corteccia d’albero?

— Una dichiarazione d’ostilità: è una corteccia di _wai-waiga_, ossia
di un albero velenoso, detto per ciò albero mortale.

— E quel furfante osa presentarsi solo? Ah! zio mio, vado a prenderlo
per un orecchio e lo porto a bordo della _giunca_.

Il coraggioso giovanotto stava per effettuare la minaccia, ma il
capitano lo trattenne:

— Lascia fare a me, Cornelio, disse. Forse non è solo e dietro quelle
rupi può nascondersi una intera tribù. Tu, Wan-Horn, raduna i chinesi
presso le scialuppe, e voi, nipoti, mettetevi alle spingarde.

Mentre l’equipaggio si ritirava precipitosamente verso la spiaggia, per
essere pronto ad imbarcarsi, il capitano, raddrizzata l’alta statura
e armato il fucile, si era avvicinato al selvaggio che lo guardava
insolentemente, come fosse sicuro del fatto suo.

— Cosa vuoi? gli chiese, usando lo stesso linguaggio che l’antropofago
aveva adoperato.

— Che gli uomini bianchi lascino la costa che appartiene ai figli di
_Mooo-tooo-omj_, rispose l’australiano.

— Noi non uccidiamo nè i tuoi kanguri, nè i tuoi casoari, nè i tuoi
_warrangat_ (cani selvaggi), disse Wan-Stael. Il _trepang_, nè tu, nè i
tuoi compatriotti sapete pescarlo e l’acqua del mare non ti appartiene.

— Allora la tribù dei Warrame ti darà battaglia.

— E sei tu che lo dici?

— Io, capo della tribù dei Moo-wiami.

— Prendi, cialtrone....

Wan-Stael, con un manrovescio che risuonò come un colpo di frusta, fece
stramazzare l’antropofago, poi afferratolo strettamente per le braccia
lo trascinò verso le scialuppe.

— Lega quest’uomo e portalo a bordo della _giunca_, disse rivolgendosi
verso Wan-Horn. Lo terremo prigioniero fino al termine della pesca, e
così gli impediremo di avvertire la sua tribù della dichiarazione di
guerra che ci ha fatta.

— Lo legherò con quindici metri di solido spago, disse il marinaio.
Vedremo se sarà capace di fuggire dalla cala.

Contrariamente ai suoi istinti, l’australiano non aveva opposto la
menoma resistenza; però i suoi piccoli occhi neri mandavano strani
lampi. Si lasciò legare senza pronunciare sillaba e trasportare a bordo
della _giunca_ dai chinesi che tornavano alla pesca delle _olutarie_.

— Non ci creerà degli imbarazzi, zio? chiese Hans.

— È probabile che i suoi sudditi lo cerchino, essendo egli un capo,
ma forse ignorano che noi siamo qui e rivolgeranno altrove le loro
indagini, rispose il capitano. D’altronde noi non rimarremo molto tempo
in questa baia, se la pesca continua ad essere così abbondante.

— Conosci qualche altro luogo ricco d’_olutarie_?

— Le isole Eduard Pellew ne danno molte e più tardi andremo a visitarle
per completare il carico.

— E poi, disse Cornelio, se i selvaggi verranno ad importunarci ci
difenderemo.

— Bravo ragazzo, disse il capitano sorridendo. Tu sei un uomo
coraggioso.

— Ed io non mi terrò indietro e combatterò al tuo fianco, zio, disse
Hans alzandosi sulle punte, per mostrarsi più alto.

— Sei un ometto che non ha paura, lo so, rispose Wan-Stael. Un giorno
voi diverrete due abili e intrepidi marinai. Alle caldaie, nipoti miei:
bisogna sorvegliare rigorosamente la preparazione delle _olutarie_, o
quei poltroni di chinesi ce le guasteranno.

La scialuppa dei pescatori, per la terza volta ritornava alla costa
e anche questa volta carica di molluschi. Le acque di quella baia,
che erano ricche di alghe e di fuchi, erano, si può dire, piene di
_olutarie_, ed i pescatori non dovevano far altro che abbassarsi per
raccoglierle, essendovi parecchie specie che vivono ad una profondità
di pochi piedi.

Prima di sera la tela era coperta di _trepang_. Quella prima giornata
fortunata aveva fruttato un guadagno di almeno cinquecento dollari,
somma rilevante, se si considerano le poche fatiche che costa la
raccolta di quei molluschi e la poca spesa che richiede la loro
preparazione.

Wan-Stael non poteva essere più soddisfatto. Se quella pesca continuava
ad essere così abbondante, in poche settimane poteva lasciare quelle
spiaggie pericolose con un carico quasi completo.

Non potendosi trasportare i molluschi a bordo, dovendo prima
stagionarsi qualche tempo all’aria libera per non correre il pericolo
di guastarli accumulandoli nella stiva ancora umidi, si rizzavano
parecchie tende per gli uomini di guardia.

I chinesi però che temevano un’improvvisa irruzione dei compatriotti
del prigioniero, si rifiutarono dapprima, preferendo dormire a bordo
della _giunca_ che poteva offrire un ricovero sicuro; ma avendo il
capitano fatto trasportare a terra le due spingarde delle imbarcazioni
ed affermato che terrebbe a loro compagnia in unione ai nipoti ed al
vecchio marinaio, si decisero a seguirlo.

Wan-Stael e Wan-Horn che non eran però molto tranquilli, non ignorando
che gli australiani attendono la notte pei loro attacchi, fecero
fortificare il campo, elevando una piccola trincea di sassi e di
frammenti di corallo ed avvicinare la _giunca_ alla spiaggia, per
essere più pronti, in caso di pericolo, a raggiungerla.

Quelle precauzioni furono però inutili. Quella prima notte passata
sulle spiaggie del continente australiano, malgrado le minaccie
dell’antropofago, trascorse tranquilla.

Solamente le lugubri urla dei cani selvaggi, i quali cacciavano forse
qualche branco di kanguri o di casoari, ruppero il silenzio che regnava
nell’accampamento.




CAPO IV.

Gli Australiani


Erano trascorsi cinque giorni. Nessun avvenimento era venuto a turbare
le operazioni dell’equipaggio della _giunca_; la pesca procedeva
sempre fruttuosa e pareva proprio che quella baia, a tutti gli altri
sconosciuta, fosse inesauribile, poichè i molluschi non accennavano a
diminuire, malgrado i grandi vuoti che quegli uomini facevano.

I due grandi fornelli non erano rimasti inattivi un solo momento e
delle vere tonnellate di _olutarie_ erano passate per le caldaie. Ormai
tutte le tende ne erano piene e degli ammassi enormi si rizzavano anche
presso le scogliere, pronti a venire caricati.

Dei selvaggi fino allora nessuna traccia.

Il capitano ed i due giovanotti, per rassicurare sempre più i chinesi,
i quali vivevano in continue apprensioni, avevano esplorato un lungo
tratto di costa, ma senza scoprire alcun australiano. Anche Wan-Horn
si era spinto nell’interno della penisola per parecchi chilometri, ma
non aveva veduto che delle bande di _kakatoe_ e di pappagalluzzi, o le
traccie di qualche kanguro o di qualche casoaro.

Senza dubbio, il capo della tribù dei Warrame aveva cercato di
spaventarli con una gradassata qualunque. Forse la sua tribù non
esisteva che nella sua immaginazione o doveva essere, per lo meno,
assai lontana.

Così almeno supponevano il capitano ed i suoi compagni, quantunque il
prigioniero, che era tenuto sempre in fondo alla stiva e con delle
solide corde ai piedi ed alle mani, si ostinasse a far credere il
contrario, minacciandoli di farli esterminare dai suoi sudditi.

La sesta notte, mentre ormai tutti si tenevano certissimi di non
venire più importunati dagli abitanti di quella selvaggia penisola, un
avvenimento inatteso produsse fra l’equipaggio una viva emozione.

Mentre i pescatori russavano tranquillamente sotto le tende, gli uomini
di quarto che vegliavano attorno ai forni avevano scorto, verso le tre
del mattino, un punto luminoso che brillava sulla cima di un’altura
situata a tre miglia dalla costa.

Non era fisso poichè cambiava spesso di posizione e di dimensione, ora
assumendo delle proporzioni gigantesche ed ora rimpicciolendo a tale
segno che diventava appena visibile.

Non ci voleva di più per spargere l’allarme fra quei chinesi, che da
cinque giorni vivevano in continua agitazione per tema di un improvviso
attacco. In pochi istanti pescatori e marinai furono in piedi, e
non pochi si affrettarono a battere in ritirata, avvicinandosi alle
scialuppe che erano state legate presso la spiaggia.

Il capitano e Cornelio, che dormivano sotto una tenda mentre Hans e
Wan-Horn riposavano a bordo della _giunca_, furono tosto avvertiti.

— Che sia un segnale? chiese il giovanotto.

— Lo temo, Cornelio, rispose il capitano, che fissava attentamente quel
fuoco.

— Fatto a chi?

— Forse a qualche tribù.

— O al nostro prigioniero? Forse ignorano che è in nostra mano.

— È possibile anche questa supposizione.

— Che si preparino ad assalirci?

— Chi può dirlo? Odi nulla, tu?

— No, zio.

— Hai paura?

— Paura? Ah no, zio mio!

— Prendi il fucile e andiamo a vedere.

— Vuoi spingerti fino al colle?

— No, ma voglio esplorare i dintorni per rassicurare i nostri chinesi.
Se questi poltroni cominciano a spaventarsi, interromperanno la pesca e
non scenderanno più a terra.

— E Wan-Horn?

— Rimarrà qui con Hans od i chinesi fuggiranno.

— Andiamo, zio. Il mio fucile è carico.

Wan-Stael mandò a bordo della _giunca_ alcuni pescatori ad avvertire
il vecchio marinaio di ciò che accadeva, poi si diresse verso la rupe
che chiudeva la baia, seguito dal giovanotto che non manifestava alcun
timore.

La notte era oscurissima, essendo la luna tramontata da parecchie ore;
ma quel fuoco che continuava a brillare su quelle alture, bastava per
guidarli e senza tema che si smarrissero.

Procedendo con precauzione, per non cadere in qualche agguato, il
capitano e Cornelio giunsero ben presto ai piedi delle prime rupi e si
misero a scalarle, quantunque la salita fosse tutt’altro che facile,
essendo assai erta e quasi priva di passaggi.

Giunti sulla cima gettarono uno sguardo sul versante opposto. Dinanzi
a loro si estendeva una pianura leggermente ondulata, interrotta qua
e là da pochi gruppi d’alberi, e più oltre si drizzavano le alture, le
quali si estendevano in forma di semi-cerchio, a circa due miglia verso
l’est. Il fuoco continuava a brillare sulla cima più alta ed aveva
assunto gigantesche proporzioni. Pareva che colà ardesse un gruppo
d’alberi o un gruppo di cespugli.

— Vedi nulla? chiese il capitano al giovanotto.

— Mi sembra di scorgere delle forme umane, agitarsi dinanzi a quella
cortina di fiamme, rispose Cornelio.

— Infatti scorgo anch’io delle forme oscure a muoversi.

— Che siano selvaggi o scimmie?

— Il continente australiano non ha scimmie e poi i quadrumani non sanno
accendere il fuoco. Odi alcun rumore?

— Le urla dei _warrangal_ e nient’altro.

— Che gli antropofaghi cerchino di spaventarci? si chiese Wan-Stael.
Se sperano di farmi levare le àncore prima che termini la pesca,
s’ingannano, poichè son deciso a difendermi se verranno ad assalirci.

— Cosa facciamo, zio?

— Andremo innanzi. Bisogna mostrare a questi mangiatori di carne umana,
che noi non abbiamo paura.

— Sono pronto a seguirti.

— Forse saremo costretti a sparare il fucile.

— Tu sai che sono un buon tiratore.

— Lo so, sei il migliore di tutti noi. Andiamo, mio valoroso giovanotto.

Si misero a scendere le roccie per giungere nella sottostante pianura.
Cornelio, più agile e più destro del capitano, apriva la marcia,
cercando i passaggi, lasciandosi scivolare attraverso alle rupi, o
balzando di sasso in sasso senza vacillare.

Giunto nella pianura s’arrestò, guardando attentamente dinanzi a sè,
ma non vide nulla di sospetto. Colà si estendeva un piccolo bacino,
una specie di stagno, le cui sponde erano coperte di _mulghe_, macchie
foltissime di cespugli, che raggiungono sovente un’altezza di quindici
piedi, e di marra, dette anche madri delle liane per la loro smisurata
lunghezza.

— Non avanzare, Cornelio, disse il capitano. Fra queste piante possono
nascondersi i selvaggi.

— Non odo alcun rumore, zio.

— Ma mi sembra di aver veduto agitarsi quel _lys_ reale.

— Quale?

— Quello che lancia il suo stelo a venticinque piedi di altezza.

Cornelio guardò nella direzione indicata, ed ai primi chiarori
dell’alba, scorse, a trenta passi da un gruppo di _mulghe_, un lungo
stelo sormontato da un fiore che doveva avere un diametro di almeno un
metro, splendidamente vellutato.

Quantunque non soffiasse un alito di vento, quel fiore oscillava come
se fosse stato toccato da qualcuno.

— È vero, zio, diss’egli, armando rapidamente il fucile. Qualche
selvaggio è passato accanto a quel lungo stelo.

— Forse ci spiano, Cornelio.

— Andrò a rovistare le _mulghe_.

— Sei pazzo, ragazzo mio?... Tu vuoi prenderti un colpo di lancia in
petto o farti fracassare la testa da un _boomerang_.

— Cosa sono questi _boomerangs_? Sono freccie, forse?

— No, ma sono peggiori e non fallano mai. Sono bastoni leggermente
ricurvi che gli australiani lanciano a cinquanta ed anche a sessanta
metri di distanza e con tale precisione che ti uccidono perfino un
uccello. Forse li conosceremo ben presto e tu... ma to’!... questa è
strana!...

— Cosa vedi?...

— Guarda laggiù quella fila di cespugli.

— Li vedo, zio.

— Esisteva prima?

— Ma... no, ne sono certo: prima io non l’ho veduta.

— Ed infatti, Cornelio, poco fa ho guardato quel tratto di terreno ed
era assolutamente scoperto.

— Ma vuoi che da un istante all’altro sieno spuntati dei cespugli?...
Non lo crederò mai, zio.

— Ma ti ripeto che prima il terreno era scoperto.

— Che ci sia sotto qualche diavoleria?

— O qualche mariuoleria? Cornelio mio, io non ci vedo chiaro in questa
faccenda.

— E nemmeno io, zio mio, ma sapremo presto di cosa si tratta.

Il giovanotto, imbracciato il fucile per essere più pronto, si avanzò
risolutamente verso quei venti o trenta cespugli che formavano una fila
regolarissima, a circa cinquanta metri dalle _mulghe_.

Cosa davvero strana: di passo in passo che si avanzava, pareva che
quei cespugli pure indietreggiassero, conservando la distanza. Era
una illusione ottica o quelle piante erano proprio dotate di un vero
movimento?

Il giovanotto, al colmo della sorpresa, affrettò il passo, ma la
distanza non scemava, anzi aumentava.

— Ma zio! esclamò. Quei cespugli fuggono!...

— Lo vedo, rispose il capitano, che lo aveva seguìto e che non era meno
sorpreso di lui.

— Che noi siamo vittima di qualche inesplicabile fenomeno?...

— Hai mai veduto tu delle piante a camminare?

— No, zio, lo confesso.

— E nemmeno io, e non ho mai udito a raccontare che dei naturalisti
abbiano trovato delle piante munite di gambe.

— E cosa vuoi concludere?

— Che noi siamo corbellati.

— In qual modo?

Il capitano stava per rispondere, quando si videro due esseri bizzarri
alzarsi bruscamente a pochi passi da quei cespugli e fuggir rapidamente
verso la pianura, ma con certi salti che li facevano rassomigliare a
giganteschi ranocchi.

— Una coppia di kanguri! esclamò Cornelio.

Puntò rapidamente il fucile verso i due animali che fuggivano colla
rapidità di vere freccie, ma Wan-Stael gli abbassò la canna dicendo:

— Lascia andare i kanguri, vi è qualche cosa di più importante che
meriterebbe la tua palla.

— Cosa vuoi dire?

— Che dinanzi a noi stanno gli australiani.

— Ma dove? Io non li vedo.

— Son dietro a quei cespugli che camminano.

— Oh!...

— Sì, Cornelio. Quei furfanti, per sfuggirci o per attirarci lontani
dal campo, forse in qualche agguato, hanno strappato quei cespugli, e
tenendoli in mano strisciano all’indietro con un’agilità di serpenti.
Non è una manovra nuova per gli australiani, ora che ci penso.

— Che sia proprio così, zio?

— Sì, ragazzo mio, e se facesse un po’ più di chiaro potremmo vederli.

— I furbi!...

— Ma noi non saremo così stupidi da seguirli fino ai piedi di quelle
alture. Sono certo che in mezzo a quel bosco di _eucaliptus_ si tiene
celata l’intiera tribù, pronta a piombarci addosso.

— Che sappiano che teniamo prigioniero il loro capo?

— Forse lo sospetteranno. Animo, Cornelio, manda una palla al cespuglio
più vicino.

Il giovanotto, che era un valente bersagliere e che voleva mostrare a
suo zio come non temesse quegli antropofaghi, non si fece ripetere il
comando. Puntò rapidamente il fucile, mirò qualche istante e lasciò
partire il colpo.

Il cespuglio più vicino, spezzato a metà dall’infallibile palla del
giovine cacciatore, cadde, ma caddero contemporaneamente anche tutti
gli altri. Quindici australiani balzarono in piedi con un’agilità di
quadrumani, alzando le loro scuri di pietra, ma Wan-Stael non lasciò a
loro il tempo di fare un passo.

Due detonazioni echeggiarono ed una pioggia di pallettoni cadde su quel
gruppo d’uomini. Non ci voleva di più per metterli in fuga. Partirono
tutti a corsa disperata in direzione del bosco, gettando urla di
dolore.

— Mi ero ingannato? chiese il capitano.

— No, zio, disse Cornelio.

— Spero che questa lezione basterà per ora.

— Ma poi? Credi che ritorneranno?

— Su ciò riservo i miei dubbi. Una di queste notti li avremo tutti
addosso, Cornelio, ne sono certo. Conosco gli australiani e so quanto
sono cocciuti; ma ci troveranno pronti a riceverli e non ci lasceremo
sorprendere. Ritorniamo, mio bravo ragazzo. Wan-Horn e Hans saranno
inquieti.

Era inutile continuare l’esplorazione di quella pianura che poteva
celare degli agguati. Oramai sapevano che gli australiani li avevano
scoperti e ciò bastava per metterli in guardia.

Certi di non venire inseguiti, almeno pel momento, avendo gli indigeni
del continente australiano l’abitudine di assalire solamente di notte,
tornarono a scalare le rupi e scesero nell’accampamento.

Con loro grande sorpresa videro che ogni lavoro era ancora sospeso,
quantunque il sole fosse già spuntato. I pescatori s’erano ritirati
verso la scialuppa e discutevano con animazione fra di loro, ed i
preparatori di _trepang_ non avevano ancora accesi i fornelli e pareva
che altercassero violentemente col vecchio marinaio, il quale, di
quando in quando, lasciava andare dei sonori scapaccioni su quelle
teste pelate.

— Cosa succede qui? chiese Wan-Stael, aggrottando la fronte.

— Che i selvaggi abbiano assaltato il campo durante la nostra assenza?
chiese Cornelio.

— Non è possibile; nè io, nè tu abbiamo udito colpi di fucile.

Attraversarono rapidamente la distanza, s’accostarono ai preparatori
che urlavano come ossessi contro Wan-Horn e contro Hans.

— Cosa significa questo tumulto, tuonò Wan-Stael, aprendosi il passo
fra quella turba di chinesi che parevano furibondi. — Perchè non si
lavora?...

— Perchè non vogliono più rimanere qui, capitano, disse Wan-Horn.
Queste canaglie dicono che non vogliono farsi mangiare per i begli
occhi dell’armatore, nè per i nostri.

— È la paura adunque che vi fa ribellare?

— Vogliamo andarcene, capitano, disse un Chinese, che portava una coda
lunga un buon metro. Ne abbiamo abbastanza di questa costa, dove i
selvaggi pullulano come le peonie nei nostri giardini.

— Ed io desidero di portare le mie ossa in patria e non lasciarle
rosicchiare dagli antropofaghi, disse un altro.

— Ed anche noi vogliamo andarcene, gridarono gli altri.

— Ed io, tuonò Wan-Stael, rizzando la sua alta statura e mostrando le
sue mani callose, ho una voglia matta di afferrarvi tutti quindici per
le vostre code e di gettarvi nella baia, furfanti!.... Ah! voi avete
paura, conigli del celeste impero? Eh per mille lampi!.... Non vi ho
assoldati per condurvi a passeggio attraverso il mondo, signori miei.
Wan-Horn, afferra questo pauroso che dice che ne ha abbastanza di
questa costa e fallo mettere ai ferri per tre giorni, e voi altri al
lavoro o, parola di marinaio, vi faccio sentire se pesano le mie mani.
Ai selvaggi, se avete paura, ci penso io!... andate!...




CAPO V.

L’assalto notturno


Wan-Stael se era un valente marinaio era pure un uomo di grande
energia, e il suo equipaggio non lo ignorava. Conoscitore profondo
degli uomini di razza gialla, sapeva che la minima debolezza poteva
causare un’aperta ribellione, e compromettere l’esito della stagione di
pesca così bene cominciata.

Quelle minacce, necessarie in tal momento, fecero buon effetto su
quell’equipaggio turbolento per indole, ma niente coraggioso. I
pescatori furono i primi a riprendere il lavoro, poi i preparatori li
seguirono accendendo i fornelli, ma non lavoravano più colla lena dei
giorni scorsi.

Ormai la paura s’infiltrava nei loro animi, e se non avessero saputo
che Wan-Stael non era uomo da scherzare, non avrebbero tardato a
ripararsi sulla giunca e ad abbandonare il _trepang_ che si stagionava
sotto le tende.

Malgrado l’attiva sorveglianza del capitano, del vecchio marinaio e dei
due giovanotti, si scambiavano rapide parole, s’indicavano le alture
sulle quali avevano veduto brillare quel fuoco misterioso e gettavano
sguardi inquieti sulle roccie che circondavano la baia, come se
temessero di veder sbucare improvvisamente le orde degli antropofaghi.

Nemmeno il capitano ed i suoi compagni erano però tranquilli. Sentivano
per istinto che al di là della pianura, nei boschi di _eucaliptus_,
qualche cosa di grave stava per accadere.

Forse le bande degli antropofaghi si radunavano in silenzio, per
prepararsi ad un furioso attacco notturno. Quantunque non si scorgesse
nella pianura alcun essere umano e non si udisse alcun grido, alcun
segnale sospetto, mille indizi indicavano che sotto quei grandi alberi,
quegli abbominevoli mangiatori di carne umana si concentravano.

Verso il mezzodì parecchi stormi d’uccelli erano stati veduti alzarsi
sopra quei boschi e volare verso il settentrione. Erano bande di
pappagalluzzi grossi come tortore, colle penne gialle, verdi ed
azzurre, appartenenti alla specie dei _trichoglosses_; poi bande di
_chionis-alba_, specie di colombe, ma un po’ più grosse delle nostre
e colle penne biancastre: di _milvus_, specie di falchi colle penne
screziate di bianco e di nero, di _kakatoe_ e di colombe magnifiche,
splendidi volatili grossi come un fagiano, colle piume del petto d’un
azzurro brillante a riflessi ramigni, e quelle del dorso verdi cupe a
riflessi d’oro con screziature gialle.

Se quegli uccelli abbandonavano quei boschi in così gran numero, ci
doveva essere un grave motivo. La presenza di pochi selvaggi non li
avrebbe di certo spaventati.

Più tardi il capitano e Cornelio, che si erano accampati in cima alle
roccie per sorvegliare la pianura, avevano pure veduto uscire da quei
boschi parecchi _warrangal_ e fuggire verso il sud. Quei cani selvaggi,
che chiamansi anche _dingo_, somigliano più alle volpi che ai lupi, ma
sono forti, tarchiati, con una lunga e folta coda e non temono l’uomo
se sono in parecchi. Se fuggivano, ciò indicava che quel bosco per loro
non era più sicuro.

Verso sera, anche alcuni casoari, grossissimi uccelli che raggiungono
un’altezza di un metro e sessanta, ma che invece di ali possiedono dei
moncherini che non permettono a loro di volare, furono veduti fuggire
attraverso alla pianura a tutta corsa.

— Mio caro Cornelio, disse il capitano, le cui inquietudini
aumentavano, credo che ci si prepari una brutta notte.

— Temi un assalto?

— Sì, ragazzo mio.

— Siamo in quaranta, zio.

— Conti sempre sui chinesi, tu. Ai primi spari fuggiranno nelle
scialuppe, e lasceranno noi a far fronte ai selvaggi.

— Ma abbiamo le due spingarde, zio, e possiamo sbarcarle.

— È vero, ma non basteranno ad arrestare l’assalto di quei bruti.

— Temi che siano molti?

— Sulle coste meridionali i coloni inglesi a poco a poco li hanno
tutti distrutti, ma su quelle settentrionali sono ancora numerosi e noi
possiamo trovarci di fronte a quattro o cinquecento uomini.

— Un vero esercito per noi, se non possiamo contare sui chinesi. La
cosa diventa seria, zio mio.

— Sì, Cornelio.

— Ritiriamoci nella _giunca_. Mi hanno detto che i selvaggi australiani
non possiedono canotti.

— È vero, ma il nostro _trepang_?.... Se si accorgono che noi abbiamo
abbandonato la spiaggia, saccheggieranno il campo ed in poche ore
perderemo la fatica di sette giorni e parecchie migliaia di dollari.
Sai che già possediamo una vera fortuna.

— Non possiamo imbarcarla?

— È troppo presto e si guasterebbe.

— Siamo in un brutto imbarazzo, zio. Credi tu che i chinesi dormiranno
a terra? Ho i miei dubbi.

— Li costringerò, dovessi usare la forza; se gli antropofaghi ci vedono
in grosso numero, possono frenarsi, ma se si trovano di fronte a noi
quattro, non esiteranno ad assalire il campo. Scendiamo, Cornelio.

La notte era scesa, ma una notte oscura come il fondo di un barile
di catrame, essendo il cielo coperto di grandi nuvoloni, che un vento
caldo spingeva sopra il golfo di Carpentaria. La luna era già scomparsa
e anche le ultime stelle stavano per venire nascoste.

I chinesi avevano già sospeso il lavoro, e dopo d’aver divorato la
cena, si erano aggruppati sulla spiaggia, discutendo animatamente col
vecchio marinaio e con Hans. Non volevano saperne di rimanere a terra e
tutti dichiaravano di volersi ritirare a bordo della _giunca_.

Quando il capitano e Cornelio giunsero al campo, avevano già messo in
acqua le scialuppe che erano state tirate sulla spiaggia, e malgrado le
minaccie di Wan-Horn stavano imbarcandosi. Vedendo però Wan-Stael non
osavano prendere i remi per allontanarsi.

— Dove andate? chiese questi, armando risolutamente il fucile.

— A bordo, risposero alcuni.

— A bordo!... Massa di poltroni, abbandonate qui il _trepang_!...
Sbarcate, o il primo che tocca un remo lo uccido come un cane. Qui ci
stiamo noi e resterete anche voi.

— Ma i selvaggi ci minacciano, signore, disse un capo pescatore.

— E minacciano pure il mio _trepang_ e ci tengo a non perderlo, rispose
Wan-Stael. A terra, vi ripeto!...

— Difendetevelo voi il vostro _trepang_, gridò una voce.

— Eh, furfante, vieni qui a ripetermi la frase, se tu l’osi, o lascia
che io veda il tuo viso, disse il capitano che perdeva la sua calma.

Nessuno rispose, ma nessuno si mosse per ridiscendere a terra.

— Ah! voi vi ribellate!... riprese il capitano. Wan-Horn, Cornelio,
Hans, sbarcate le spingarde e se questi uomini tentano di allontanarsi,
fate fuoco sulle scialuppe.

Il marinaio ed i due fratelli non si fecero ripetere l’ordine.
Aggrappatisi ai bordi delle scialuppe, con due vigorose spinte le
arenarono sulla sabbia della spiaggia e sbarcarono le due spingarde.

I chinesi, che avevano forse più paura del loro capitano che dei
selvaggi, pur brontolando, non indugiarono a ridiscendere a terra. Del
resto si sentivano più sicuri in compagnia dei bianchi che soli anche a
bordo della _giunca_.

Wan-Stael, per animarli un po’, fece spillare un barilotto di
_sam-sciù_, specie d’acquavite che si fabbrica in China con riso
fermentato, e ne distribuì a tutti senza economia. Se sapeva farsi
temere da quei turbolenti marinai, sapeva anche farsi amare.

— Animo, diss’egli. Non siamo poi tanto pochi da lasciarci mangiare in
un solo boccone dagli australiani, e nè le armi, nè la polvere, nè le
palle ci fanno difetto. Mostriamo a quei bruti come si difendono gli
uomini di mare.

Quelle parole incoraggianti produssero poco effetto, però,
sull’equipaggio chinese, il quale invece di accamparsi presso i
fornelli e intorno al _trepang_, si tennero presso la spiaggia per
essere più pronti ad imbarcarsi. Decisivamente gli olandesi non
dovevano fare alcun conto su quegli uomini già invasi dalla paura e più
pronti a fuggire che a porgere a loro qualsiasi aiuto.

Wan-Stael dovette rassegnarsi, ma non trascurò di prendere delle
precauzioni per respingere l’assalto, molto probabile, degli
antropofaghi.

Fece piazzare le due spingarde sulla spiaggia in modo da poter
difendere due passaggi aperti fra le roccie della costa e pei quali
potevano irrompere gli assalitori, poi fece portare a terra un
centinaio di bottiglie vuote, e, fattele spezzare, disperse i cocci
intorno ai depositi di _trepang_. Quelle punte acute e taglienti
dovevano essere un formidabile ostacolo pei piedi nudi degli
antropofaghi.

Terminati quei preparativi, attese tranquillamente l’assalto delle
orde, montando il primo quarto di guardia in compagnia di Hans e di
sei chinesi, scelti fra i meno paurosi. Wan-Horn e Cornelio dovevano
surrogarli dopo la mezzanotte.

La notte era cupa e proprio adatta per un assalto; il vento che
soffiava con violenza sibilando fra le rocce e le strette gole e lo
sfasciarsi delle ondate contro le scogliere, producevano tal fracasso,
da spegnere i rumori prodotti da un esercito di selvaggi.

Wan-Stael e Hans vegliavano però attentamente e aguzzavano gli sguardi
verso gli sbocchi delle rupi. Di tratto in tratto, mentre i chinesi,
più spaventati che mai, stavano rannicchiati verso le tende, si
spingevano verso i depositi di _trepang_, per tema che gli antropofaghi
fossero già giunti colà strisciandosi come i serpenti, o perlustravano
la spiaggia già spazzata dalle onde, per assicurarsi che le àncore
della _giunca_ non cedevano.

Nessuno però compariva, nè alcuna ombra umana si scorgeva nè presso le
scogliere, nè presso le rupi che chiudevano la baia. Senza dubbio gli
antropofaghi non osavano ancora assalirli.

A mezzanotte Wan-Horn e Cornelio, che avevano dormito con un solo
occhio, montarono il secondo quarto di guardia insieme a dieci altri
chinesi.

— Nulla di nuovo, zio? chiese Cornelio al capitano.

— No, finora, ma vegliate attentamente. Non sono ancora tranquillo e
non so se la notte passerà senza allarmi.

Scivolò sotto la tenda assieme ad Hans che cadeva pel sonno, ed il
vecchio marinaio e Cornelio si assisero accanto al fuoco, che non era
ancora stato spento, tenendo i fucili fra le ginocchia.

Vegliavano da mezz’ora, quando udirono a breve distanza dei lugubri
ululati.

— I _warrangal_, disse Wan-Horn, alzandosi. Come mai quei cani selvaggi
osano spingersi fin qui? Cosa ne dite, signor Cornelio?

— Sarà qualche cane in cerca di preda, Wan-Horn, rispose il giovanotto.

— Hum!... ci credo poco, signor Cornelio.

— Cosa vuoi che sia?

— Se fosse un segnale?

— Infatti mi parve che quell’urlo non fosse naturale, Wan-Horn.

— Vedete nulla?

— No.

In quell’istante l’urlo si fece ancora udire e questa volta più vicino.

— Non è un _warrangal_, signor Cornelio, disse Wan-Horn impallidendo.
Questo è un segnale; io non m’inganno.

— Che gli antropofaghi si avvicinino? chiese il giovanotto, alzandosi
rapidamente.

— Zitto!...

— Cos’hai udito?

— Guardate laggiù.... presso i forni.... vedete?...

— Sì, scorgo un’ombra nera. La notte è oscura, ma la vedo a muoversi.

— Ed io ne vedo delle altre scendere le rupi.

— È vero, aspetta un momento.

Cornelio uscendo dallo spazio illuminato dal fuoco si gettò a terra e
puntò il fucile. Stava per sparare, quando delle urla acute s’alzarono
presso i fornelli e presso i depositi di _trepang_. Non erano però urla
di guerra o di trionfo, erano di dolore.

— Ah! esclamò Wan-Horn. I cocci delle nostre bottiglie fanno effetto e
storpiano i mangiatori di carne umana. Fuoco di bordata!...

Si curvò rapidamente sulla spingarda che gli stava presso e vi diede il
fuoco, scagliando sulle ombre che si agitavano presso i forni un nembo
di mitraglia. Vi tennero dietro sette od otto colpi di fucile sparati
dai chinesi di guardia.

Le urla di dolore si cangiarono in vociferazioni spaventevoli. Una
massa di corpi precipitava giù dalle rupi con velocità vertiginosa:
erano cento, duecento, quattrocento, poichè pareva che non finissero
più.

Wan-Stael, Hans ed i chinesi svegliati di soprassalto erano balzati
in piedi, ma mentre i due primi si dirigevano verso i depositi di
_trepang_ per impedire che venissero saccheggiati, i secondi s’erano
rovesciati confusamente verso la spiaggia per salvarsi nelle scialuppe.

— Avanti, miei prodi, aveva gridato il capitano, ma sette od otto
uomini solamente l’avevano seguito.

Era un pugno contro un esercito, ma non era il momento di contarsi. Si
scagliarono innanzi scaricando i fucili nel più fitto degli assalitori,
mentre il vecchio marinaio, quantunque rimasto solo, faceva tuonare
le spingarde, spazzando il terreno con una grandine di ferraccio e di
piombo.

D’improvviso l’assalto furibondo degli antropofaghi s’arrestò. I
primi, giunti presso i depositi, avevano messo i piedi sui rottami
delle bottiglie e si erano sbandati emettendo urla strazianti.
Alcuni, caduti proprio in mezzo a quei cocci che laceravano le loro
carni, si dibattevano disperatamente, rigando il terreno di sangue.
Gli altri, spaventati, ignorando forse con quale pericolo dovevano
lottare, s’arrestarono esitando, poi volsero le spalle e fuggirono
disordinatamente su per le rupi.

Una scarica di mitraglia e di fucili affrettò la loro ritirata, ed in
breve sparvero sul versante opposto.

— Bravi, miei valorosi! gridò Wan-Stael. È una lezione che se la
ricorderanno per un po’ di tempo. Ai depositi di _trepang_, amici miei!
Vedo degli uomini che si agitano laggiù.

Si slanciò verso le tende, fra le quali si dibattevano ancora alcuni
australiani fra le ultime strette dell’agonia, ma ad un tratto emise un
grido di furore.

— Oh!... miserabili!...

— Cosa succede, zio mio? chiesero Hans e Cornelio, accorrendo.

— Siamo rovinati, ragazzi miei.

— Hanno saccheggiato i depositi?

— Peggio, poichè non potremo più pescare: gli australiani ci hanno
rubato le caldaie e non ne possediamo altre.

— Le caldaie! esclamò Cornelio.

— Sì, nipote, disse il capitano con voce rauca. Come prepareremo il
_trepang_, d’ora innanzi?... E la stagione di pesca è appena cominciata
e non abbiamo che la decima parte del carico.

— Inseguiamoli, zio!... esclamò Cornelio.

— Chi?... I ladri?...

— E perchè no?... Vuoi ritornare a Timor con queste poche _olutarie_,
mentre possiamo pescarne dieci volte tante?

— E nemmeno io, disse Hans. Approfittiamo della loro sconfitta per
inseguirli.

— Ma ci seguiranno i chinesi?

— No, signore, disse Wan-Horn, avvicinandosi. Quei poltroni si sono già
imbarcati e non ridiscenderanno a terra.

— Canaglie!... esclamò il capitano, con ira. Allora tutto è perduto.

— Ma cosa volete che ne facciano gli australiani delle nostre caldaie?
Se potessero mangiarle, ma sfidano i loro denti per quanto siano
solidi. Io sono certo, capitano, che le hanno abbandonate nella
pianura, per non caricarsi d’un peso inutile.

— Forse tu hai ragione, vecchio Horn. Orsù, non perdiamo tempo, e se
i selvaggi sono ancora a tiro di fucile, cerchiamo di affrettare la
loro ritirata. Chissà!... Vedendosi assaliti, possono abbandonarci le
caldaie. Animo, scaliamo le rupi.




CAPO VI.

L’orgia dell’equipaggio


Quell’ardito progetto poteva evitare la sospensione della pesca, la
quale diventava inutile senza le caldaie occorrenti per la preparazione
del _trepang_. Era bensì vero che avrebbero potuto seccare i molluschi
al sole, ma questa operazione che richiedeva un tempo troppo lungo, non
poteva ormai più farsi coi selvaggi così vicini.

Come ben aveva osservato il vecchio marinaio, gli australiani non
dovevano trasportare per parecchie miglia quei grandi e pesanti bacini,
che per loro non erano di alcuna utilità, tanto meno poi se si fossero
accorti di essere inseguiti.

Bisognava però non perdere tempo. Se i fuggiaschi raggiungevano
le boscaglie di _eucalitys_ senza aver abbandonato il bottino, pei
pescatori di _trepang_ non rimaneva altro che di spiegar le vele e
d’abbandonar quella baia così ricca di _olutarie_.

Il capitano perciò si era slanciato di corsa verso una delle due
gole aperte tra le rupi, seguìto da Wan-Horn, da Cornelio e da Hans.
Quantunque quel passaggio fosse aspro e difficile, lo superarono in
pochi minuti e scesero nella pianura.

L’oscurità era tale da non poter discernere l’orda degli antropofaghi;
però si udivano i clamori selvaggi che si allontanavano verso l’est, in
direzione delle colline e del bosco.

— Non sono lontani che un miglio, disse il capitano, dopo d’aver
ascoltato alcuni istanti con profondo raccoglimento.

— Cercano di raggiungere il bosco, disse Cornelio.

— È lontano? chiese Wan-Horn.

— Sei o sette miglia.

— Bisogna affrettarsi, capitano. Voi sapete che gli australiani sono
rapidi camminatori.

— Ma anche le nostre gambe sono buone. Se possiamo guadagnare due o
trecento metri apriremo il fuoco. Avanti e guardatevi d’intorno per non
cadere in qualche agguato.

— E per vedere se hanno abbandonate le caldaie, aggiunse Wan-Horn.

Ripresero la corsa costeggiando lo stagno, e cercando di dirigersi
verso l’est, ma gli australiani, a quanto pareva, fuggivano sempre
rapidamente, poichè le loro voci se non si allontanavano non
diventavano nemmeno più vicine. Il capitano, che non era più agile come
i due giovanotti, mandava al diavolo le gambe dei selvaggi, e Wan-Horn,
che sbuffava come una foca, brontolava incessantemente.

Facendo sforzi inauditi avevano superato due chilometri in poco meno di
un quarto d’ora, quando il vecchio marinaio incespicò improvvisamente
contro una massa oscura la quale mandò un suono metallico.

Il capitombolo era stato così brusco, da schiacciargli il naso, pure si
era alzato con sorprendente sveltezza.

— Oh!... esclamò. Non m’ingannavo io!...

— Cos’hai trovato, vecchio mio? chiese il capitano accorrendo.

— Ve lo dicevo io, che quei mangiatori di carne umana si sarebbero
sbarazzati ben presto d’un peso inutile?... Mi sono rotto il naso
contro una delle nostre caldaie.

— Quale fortuna!... che vi sia anche l’altra in questi dintorni?

— O più innanzi?... Se hanno abbandonata questa, debbono essersi
sbarazzati anche dell’altra.

— Zitto! disse Cornelio.

— Cos’hai.

— Non odo più le grida dei selvaggi, zio mio.

— Che abbiano già raggiunto il bosco?

— O che si siano accorti che gl’inseguiamo?

— Preferirei che ci lasciassero ritornare alla spiaggia, ora che
possediamo questa caldaia. Dell’altra possiamo far senza.

— Oh!... Oh!... esclamò Wan-Horn. A terra!

In aria si udiva uno strano ronzìo che s’avvicinava rapidamente. I
quattro olandesi si lasciarono cadere a terra, quantunque Cornelio e
Hans ignorassero il pericolo che li minacciava.

Poco dopo, a pochi passi da loro, udirono un leggiero colpo, come se un
corpo duro avesse urtato contro il suolo, indi un nuovo ronzìo, ma che
s’allontanava verso il punto dond’era partito.

— Era un _boomerang_, disse Wan-Stael. Quei bricconi si sono accorti
che noi davamo a loro la caccia.

— È uno di quei bastoni leggermente ricurvi dei quali mi hai parlato?
chiese Cornelio.

— Sì, e poteva rompere il capo a qualcuno di noi.

— Ma mi pare che fosse ritornato indietro dopo d’aver toccato il suolo.

— È ritornato nelle mani dell’uomo che lo ha lanciato.

— Quel bastone?

— Sì, Cornelio; i _boomerangs_, che sono semplici pezzi di legno lunghi
dai sessanta ad ottanta centimetri, un po’ arrotondati ad una delle
estremità, sono armi sorprendenti, ma che solamente gli australiani
possono adoperare. Lanciati innanzi, sia contro un capo di selvaggina,
od un uomo, od un uccello, invece di perdere la forza come avverrebbe
per qualunque altro pezzo di legno, la riacquistano e ritornano
nelle mani del cacciatore dopo d’aver descritto una parabola molto
accentuata. Dipende ciò dal colpo che imprime l’australiano o dalla
loro forma speciale? Ancora lo si ignora; guardati però da quegli
strani proiettili, perchè possono fracassarti un braccio o romperti il
capo.

— Che sia lontano il selvaggio che lo ha lanciato?

— Forse a cinquanta od a sessanta passi. Scorgi nulla tu?....

— L’oscurità è così fitta, che non permette di discernere un uomo a
quindici passi di distanza.

— Battiamo in ritirata, capitano, consigliò Wan-Horn. Se si accorgono
che siamo solamente in quattro, ci daranno addosso e non abbiamo tempo
da perdere, poichè fra mezz’ora comincierà ad albeggiare.

— Ma la caldaia?

— La porteremo noi due. I vostri nipoti che sono valenti tiratori,
s’incaricheranno di tener lontani i selvaggi.

— Hai ragione, vecchio mio. Se l’alba ci sorprende lontani dal
campo, quei furfanti ci piomberanno alle spalle e saremo costretti ad
abbandonare la caldaia. Hans, Cornelio, vi affidiamo la nostra difesa.

— Il primo che si avvicina troppo è uomo morto, disse Cornelio. Le mie
palle vanno diritte a loro destinazione.

— Spicciati, zio, disse Hans. Mi pare di scorgere delle forme nere
agitarsi laggiù.

— Partiamo, Wan-Horn.

Atterrarono la caldaia che pesava una quarantina di chilogrammi e
si misero in marcia, allungando il passo, mentre i due giovanotti,
armati i loro fucili, pure indietreggiando, sorvegliavano le mosse
degli antropofaghi, i quali si avanzavano strisciando per offrire meno
bersaglio alle palle.

Ormai non vi era più dubbio. Accortisi di essere inseguiti si erano
arrestati, ed ora si preparavano ad assalire, ma con estrema prudenza,
non sapendo contro quali forze avevano a lottare. Di quando in quando
qualche _boomerang_ ronzava in aria, ritornando poi nelle mani di colui
che lo aveva lanciato, ma l’oscurità proteggeva i quattro olandesi, i
quali affrettavano la ritirata per non venire scoperti.

L’alba non doveva però essere lontana e se gli australiani riuscivano
a scorgerli non avrebbero certo esitato ad assalirli. Quattro uomini,
quantunque armati di fucili e ben decisi a difendersi, non era tal
numero da spaventarli.

— Avanti, ripeteva Wan-Stael, che cercava di guadagnare via. Fra breve
arriveremo al campo e ci porremo in salvo sulla _giunca_.

Quel grande e pesante bacino impediva però a loro di retrocedere con
rapidità; inoltre il terreno, sparso di grossi massi e di cespugli,
li costringeva a dei giri viziosi facendo perdere a loro un tempo
preziosissimo.

Erano giunti ad un chilometro dalle roccie che nascondevano la baia,
quando gli australiani, che fino allora li avevano seguiti sempre
strisciando, balzarono in piedi. Si erano accorti dell’esiguo numero
dei nemici e s’erano decisi ad assalirli?

— Hans!.. Cornelio!... esclamò Wan-Stael. State in guardia!...

Due colpi di fucile vi risposero; i due bravi giovinotti avevano
cominciato il fuoco e le loro palle non dovevano esser andate perdute,
poichè si udirono quasi subito urla feroci e urla di dolore.

— Fuggite!... gridò Wan-Stael.

— Non ancora, zio disse Cornelio. Tira in mezzo, Hans, e bada a non
sprecare le palle.

— Non sono che a cento passi da noi e li vedo benissimo, Cornelio.

— Fuoco adunque!...

Altri due spari echeggiarono un momento dopo. Le urla degli australiani
li avvertirono che anche quei colpi avevano fatto un vuoto fra i ranghi
degli assalitori.

I due giovanotti retrocessero sollecitamente caricando le armi e
raggiunsero il capitano e Wan-Horn, i quali non avevano abbandonata la
caldaia.

— Siete feriti? chiese Wan-Stael.

— No, ringraziando Iddio, risposero.

— Tenetevi fuori di portata dai _boomerangs_ e dalle zagaglie. È
lontana la baia?

— Non è che a seicento metri, ma l’alba comincia a spuntare. Vedo
laggiù le stelle a impallidire rapidamente, disse Hans.

— Un ultimo sforzo, Wan-Horn.

— Tengo duro, capitano.

— Eccoli!... esclamò Cornelio. A me, Hans!...

Gli australiani infatti giungevano a rapidi passi, urlando, ed agitando
minacciosamente le loro scuri di pietra verde, attaccate colla gomma
_xantorrea_ che è più tenace del mastice, e le loro lancie colle punte
di osso.

I primi albori permettevano di distinguerli senza fatica. Erano tre
o quattro cento, di statura media, colle membra gracili, i ventri
sporgenti, i lunghi e grossi capelli ondeggianti, i petti coperti di
tatuaggi e adorni di collane di denti di animali selvaggi. Indosso non
portavano che dei miseri mantelli di kanguro che coprivano a mala pena
le loro spalle, ma tutti avevano la pittura di guerra che dava a loro
un lugubre aspetto.

Alla loro testa marciavano i capi, riconoscibili per le penne di
_kakatoe_ che portavano infisse nei capelli e per le code di cani
selvaggi che portavano appese alla cintura. Non mancavano nemmeno i
_malgara docks_ o _kerredais_, specie di stregoni che sono ad un tempo
medici e celebratori di matrimonî.

Quell’orda feroce, affamata, si preparava ad assalire i quattro
bianchi, coi cui corpi contava di regalarsi dei grossi arrosti, ma non
osava però ancora precipitarsi innanzi all’impazzata.

Cornelio ed Hans, nascosti dietro un grosso macigno, avevano riaperto
il fuoco, cercando di abbattere i capi e gli stregoni, mentre il loro
zio ed il vecchio marinaio s’allontanavano correndo, per raggiungere le
rocce che ormai erano a poche centinaia di passi. Se i due coraggiosi
giovanotti riuscivano a ritardare l’assalto di pochi minuti, potevano
trasportare la caldaia alla costa.

Gli australiani però, che temevano di perdere le loro prede, non
s’arrestavano, malgrado gli spari continuati di Hans e di Cornelio.

S’avanzavano scagliando nembi di lancie, di scuri e di _boomerangs_,
emettendo spaventevoli vociferazioni ogni volta che uno di loro,
colpito da qualche palla, stramazzava a terra.

I due valorosi giovanotti resistevano però, per lasciar tempo al
loro zio ed al marinaio di guadagnare via: combattevano come due veri
soldati, anzi come due veterani, caricando e scaricando i loro fucili
senza posa.

Quando i primi _boomerangs_ giunsero fino a loro, abbandonarono il
posto e tenendosi al coperto di alcune macchie di mulghe, s’appostarono
duecento metri più indietro.

— Mira giusto e picchia sodo, Hans, disse Cornelio. Lo zio e il vecchio
Horn sono vicini alle rupi e se noi possiamo ritardare la marcia dei
selvaggi di qualche minuto la caldaia è salva. Guardati dai bastoni
volanti e dalle scuri.

— Non temere, Cornelio. Le mie palle non vanno perdute.

— Orsù, fuoco!...

Altri due selvaggi che urlavano più forte degli altri e che precedevano
i compagni, caddero alla distanza di centocinquanta metri. La morte di
quei due uomini, uno dei quali era uno stregone, parve che rendesse i
selvaggi furibondi.

Abbandonando ogni precauzione si scagliarono innanzi come un torrente
impetuoso, emettendo vociferazioni orribili, gettando lancie,
_boomerangs_ e scuri.

Non era più possibile arrestarli; ci avrebbe voluto un cannone carico a
mitraglia. Cornelio ed Hans scaricarono ancora una volta i loro fucili,
poi fuggirono raccomandandosi alle gambe.

Ma già il capitano e Wan-Horn erano giunti presso le rupi e stavano
arrampicandosi su per le rocce, spingendo innanzi la caldaia.

— Presto, ragazzi miei! gridò Wan-Stael, vedendo i nipoti inseguiti
dall’orda intera.

— Non temere, zio, rispose Cornelio. Le gambe sono solide!...

Ed infatti i selvaggi, quantunque corressero disperatamente, pur
continuando a scagliare le loro armi, non riuscivano a guadagnare un
passo sui due giovanotti che pareva avessero le gambe di un cervo.

In pochi momenti questi raggiunsero le rupi e le scalarono senza
arrestarsi.

Stavano già per volgersi per scaricare un’ultima volta le loro armi,
quando videro il capitano abbandonare la caldaia.

— Sei ferito, zio? chiese Cornelio, slanciandosi verso di lui.

— No... odi?... ascolta anche tu, Wan-Horn!

Tutti tesero gli orecchi. Cosa strana! mentre verso la pianura
echeggiavano le urla selvagge degli australiani, verso la baia
s’udivano scrosci di risa, voci rauche che cantavano, grida d’uomini
che parevano avvinazzati.

— Gran Dio! esclamò Wan-Horn. Cosa fanno i nostri chinesi?...

— Che siano impazziti per lo spavento? chiese Cornelio.

— O che si siano ubbriacati? disse il capitano, impallidendo. Vi erano
cinque barili di _sciam-sciù_ nella mia cabina. Accorriamo, amici,
presto o qui accadrà un massacro.

Abbandonarono la caldaia, che precipitò nella pianura rimbalzando di
roccia in roccia, e col cuore stretto da un’angoscia inesprimibile,
e la fronte bagnata d’un freddo sudore, superarono le ultime rocce
scendendo verso la baia.




CAPO VII.

I mangiatori di carne umana


Il capitano, pur troppo, non s’era ingannato!... Qual disordine regnava
nel campo, e quale scena offriva!...

L’equipaggio Chinese che li aveva vilmente abbandonati nel momento in
cui loro stavano per lanciarsi dietro ai selvaggi per riacquistare
le caldaie, non era più a bordo della _giunca_: era tutto a terra,
disperso attorno ai depositi di _trepang_, alle tende ed ai fornelli,
ma in quale stato si trovava!...

Quei miserabili, anzichè vegliare sui depositi e prepararsi alla
difesa nel caso d’un ritorno offensivo degli antropofaghi, avevano
approfittato dell’assenza degli uomini bianchi per saccheggiare la
dispensa della nave e la cabina del comandante.

Dimenticando la più elementare prudenza, erano tutti sbarcati senza
più curarsi della _giunca_ che le onde potevano arenare sulla costa
strappando le àncore, e si erano dati in preda all’orgia più sfrenata.

Dopo d’aver divorate le conserve alimentari le cui scatole si vedevano
disperse dovunque, di aver dato fondo alle provviste di zucchero e di
_thè_, di aver sfondati i barili di carne salata e di acciughe, avevano
spillato i cinque barili di _sciam-sciù_, ubriacandosi sconciamente.

Alcuni, vinti dall’ebbrezza potente causata da quel forte
liquore, russavano sdraiati gli uni sugli altri, in una confusione
indescrivibile; altri stavano ingollando grandi tazze dinanzi a dei
giganteschi _punch_ fiammeggianti, cantando rauchi ritornelli; altri
ancora, in preda ad un vero delirio, si azzuffavano, strappandosi le
code o tempestandosi reciprocamente di pugni che cadevano con un sordo
rumore su quei crani pelati, o giocavano i loro ultimi _taels_[5] o
_sapeke_[6] fra un urlìo incessante, mentre il capo dei pescatori,
a braccetto del mastro d’equipaggio, danzava attorno ai barili,
storpiando i versetti di Licu-jen, il poeta più popolare dell’impero
Chinese, o di Kiai-giù-y.

Nessuno di quegli ubbriachi più pensava ai selvaggi e forse nemmeno
al capitano ed ai suoi compagni, che forse credevano già morti e
fors’anche messi ad arrostire su d’un braciere, infilzati in uno spiedo
gigantesco.

Wan-Stael, pazzo di rabbia, si scagliò in mezzo a quella banda di
ebbri, urlando:

— Miserabili! Cosa avete fatto?...

Il capo dei pescatori gli mosse incontro traballando sui suoi alti
zoccoli dalla suola di feltro, dicendo con voce rauca:

— To’!... Vi credevo.... morto.... capitano....

— E vi siete ubbriacati, canaglie! urlò Wan-Stael, alzando su di lui il
pugno.

— Eh!... Eh.... avevate.... del _sciam-sciù_.... eccellente.... ma non
l’abbiam.... consumato.... tutto ve lo assicuro.

— Ma, sciagurato, non odi tu le urla dei selvaggi?

— I selvaggi!... Ah.... sì.... sì.... sì.... ebbene, vi è ancora del
_sciam-sciù_.... berranno.

— Ti mangeranno, furfante.... A bordo!... a bordo, miserabili!...

Il Chinese crollò il capo e tornò a danzare attorno ai barili,
riprendendo le sue canzoni. Wan-Horn con una potente pedata lo mandò a
ruzzolare verso la spiaggia.

Intanto Hans e Cornelio si erano precipitati verso gli altri per
costringerli a fuggire nelle scialuppe, ma quei disgraziati non
intendevano più alcuna ragione, nè riuscivano a comprendere il tremendo
pericolo che li minacciava. Uno solo, che era il meno ubbriaco, si era
affrettato a raggiungere una delle scialuppe, ma gli altri continuavano
a bere, a giocare, a picchiarsi o a dormire.

— Zio, disse Cornelio. Sono tutti ubbriachi fradici e non comprendono
più nulla.

— Oh!... miserabili!... esclamò il capitano, che scuoteva rabbiosamente
il mastro ed il capo dei pescatori, spingendoli verso le scialuppe.
Anche questo disastro ci voleva! Presto, Wan-Horn, Hans, Cornelio,
afferrate queste canaglie e portatele nelle imbarcazioni.

— Avremo il tempo necessario? Odo le urla degli australiani a breve
distanza, disse il marinaio.

— Cerchiamo di salvarne più che possiamo. Presto, amici, non perdiamo i
minuti che sono preziosi.

Si gettarono tutti e quattro in mezzo a quell’orda di ubbriachi, che
non voleva intendere ragione, ed a pugni ed a calci, a spinte, malgrado
cercassero di ribellarsi, ne trassero dieci o dodici verso la spiaggia,
gettandoli l’un su l’altro nella prima scialuppa. Alcuni però, testardi
come tutti gli ubbriachi, ridiscendevano tosto, cercando di raggiungere
i barili per bere un ultimo sorso.

I quattro olandesi stavano per spingerne degli altri, quando i
selvaggi, che erano già giunti alle due gole, irruppero nel campo con
impeto irresistibile.

— Fuggite! urlarono Wan-Stael, Wan-Horn e i due giovanotti, afferrando
le armi.

I chinesi, udendo i clamori dei cannibali e vedendosi piombare addosso
un turbine di lancie, di scuri, di _boomerangs_ compresero finalmente
il pericolo che li minacciava, ed i fumi dell’ebbrezza in gran parte
svanirono. Disgraziatamente era ormai troppo tardi per raggiungere le
scialuppe, malfermi in gamba com’erano.

In meno che lo si dica, le orde degli antropofaghi li circondarono,
ma il capitano ed i suoi compagni avevano avuto il tempo di fuggire
verso la spiaggia ed avevano cominciato un fuoco violento, sparando
specialmente sui capi e sugli stregoni.

Vani sforzi!... I selvaggi ormai non lasciavano più le loro prede,
quantunque le palle facessero strage fra le loro file. Rovesciate le
tende, si erano gettati sui depositi di _trepang_ per evitare i cocci
delle bottiglie ed avevano cominciato il massacro.

I chinesi però, quantunque ancora mezzi ebbri, non cadevano senza
difesa. Addossati gli uni agli altri, si difendevano disperatamente
colle schiumarole, cogli arpioni, coi coltelli, coi tizzoni accesi
raccolti nei fornelli, coi sassi, coi pugni e persino coi calci,
cercando di ributtare gli assalitori e di raggiungere il capitano ed i
suoi compagni.

Parecchi antropofaghi erano caduti e si dibattevano fra le strette
dell’agonia, ed altri, gravemente feriti dagli arpioni o coi volti
abbruciati dai tizzoni, si trascinavano sulla sabbia emettendo lugubri
urla, ma i chinesi cadevano a tre a quattro alla volta.

Due volte Wan-Horn aveva scaricate le spingarde delle scialuppe col
pericolo di uccidere contemporaneamente nemici e marinai, e due altre
volte Wan-Stael aveva tentato di aprirsi il passo fra le orde per
portare un soccorso al disgraziato equipaggio, ma senza felice esito.

Anzi, un centinaio di quei bruti, volendo finirla anche coi bianchi ed
esterminare i chinesi caricati nella scialuppa, che assistevano alla
pugna senza osare di muoversi, si scagliarono verso la spiaggia.

Non vi era un istante da perdere. Ormai l’equipaggio che si trovava
a terra era perduto senza speranza di salvarlo, tanto più che era già
stato quasi tutto distrutto.

Se i selvaggi riuscivano ad impadronirsi anche delle scialuppe, nessuno
avrebbe più potuto raggiungere la _giunca_.

— A me, Horn!.... gridò il capitano. A me, Hans, Cornelio!... Cerchiamo
di salvare gli uomini della scialuppa!...

Si gettarono furiosamente addosso ai selvaggi, servendosi dei fucili
come di mazze, fracassando le lancie ed i _boomerangs_. Per alcuni
istanti riuscirono a respingerli, ma quei mangiatori di carne umana
tornavano alla carica incoraggiandosi con urla feroci.

— Fuggite! gridò il capitano ai chinesi della scialuppa, che parevano
istupiditi.

Poi balzò nell’altra imbarcazione, seguìto da Horn, da Hans, da
Cornelio e da un giovane pescatore che era riuscito ad aprirsi il passo
attraverso le orde degli assalitori, a colpi d’arpione.

Diedero mani ai remi e s’allontanarono rapidamente, difesi dai due
giovanotti che avevano riaperto il fuoco. I chinesi della seconda
scialuppa tentarono di seguirli, ma i selvaggi riuscirono ad afferrarla
per la sponda prima che si allontanasse, ed a rovesciarla con tutti i
disgraziati che conteneva.

— Alla spingarda, Horn! gridò il capitano con accento disperato. Spazza
la spiaggia!...

Il vecchio marinaio, abbandonato il remo, in un baleno caricò il grosso
fucile e scagliò sulla spiaggia un nembo di mitraglia. Sette od otto
antropofaghi caddero, ma gli altri si gettarono in acqua, afferrarono i
chinesi per le code e per i piedi e li trascinarono a terra.

Per alcuni istanti si udirono le urla strazianti dei prigionieri, poi
furono soffocate fra i clamori spaventevoli dei vincitori.

Wan-Stael, pazzo di dolore e d’ira, voleva ritornare a terra per
impegnare una lotta suprema o farsi uccidere, ma Wan-Horn, Hans e
Cornelio spinsero invece la scialuppa verso la _giunca_.

Ormai tutto era perduto e l’equipaggio era già stato massacrato.
Ritentare una pugna contro quelle orde cento volte più numerose,
sarebbe stata una pazzia, un sacrificio inutile.

— Lasciatemi andare a terra! esclamava il povero capitano, strappandosi
i capelli. Lasciate che vada a vendicare il mio equipaggio!...

— Per farvi uccidere, signore? rispondeva il vecchio marinaio. No, noi
abbiamo fatto abbastanza per tentare di salvarli, e non dovete esporre
la vostra vita e questi valorosi nipoti.

La scialuppa, attraversata la baia, giunse sotto la _giunca_, la quale
era stata abbandonata dall’intero equipaggio. Salirono sul ponte, poi
s’affrettarono ad issare coi paranchi l’imbarcazione, onde impedire
ai selvaggi d’impadronirsene, e piazzarono la spingarda sul cassero,
caricandola a mitraglia.

— Signore, disse Wan-Horn, avvicinandosi al capitano, che gettava
sguardi feroci sulle orde dei selvaggi affollate sulla spiaggia. Credo
che ormai più nulla ci trattenga in questa baia.

— Cosa vuoi dire, Horn?

— Che la miglior cosa sarebbe di sciogliere le vele ed andarcene
prima che i selvaggi trovino il mezzo di giungere fin qui e tentare
l’abbordaggio della _giunca_.

— E tu vuoi ch’io abbandoni i chinesi?

— Non ne avranno risparmiato uno, signore. Guardate: si accendono dei
grandi fuochi sulla spiaggia.

— Ma noi non li lasceremo divorare tranquillamente quei disgraziati,
mio vecchio Horn. Abbiamo ancora una spingarda e i nostri fucili.

— Ed i selvaggi si ritireranno dietro le rupi e banchetteranno al
riparo delle nostre palle.

— Ma credi tu che i chinesi sieno tutti stati uccisi?... Se ve ne fosse
qualcuno vivo?...

— Lo si udrebbe a gridare o lo si vedrebbe. Gli antropofaghi sono tutti
sulla spiaggia ed in mezzo a loro non vedo che dei morti.

— È vero, mormorò Wan-Stael con cupo dolore. Me li hanno tutti uccisi e
mi hanno preso tutto il _trepang_. Quale perdita. Wan-Horn!

— Non siamo stati noi ad ubbriacare i nostri marinai, signore. Se non
avessero approfittato della nostra assenza per abbandonarsi ai loro
istinti rapaci e turbolenti, sarebbero tutti vivi ed a bordo di questa
nave.

— È vero; noi tutto abbiamo tentato per salvarli. Ma cosa dirà il
nostro armatore quando ci vedrà ritornare senza una _olutaria_ e senza
equipaggio?

— Tanti altri pescatori di _trepang_ non sono più ritornati, signor
Wan-Stael, voi lo sapete, ed hanno perduto le navi e la vita.

— È vero, Wan-Horn.

— Partiamo, signore. Non siamo che cinque e gli antropofaghi sono
almeno quattrocento; se riescono ad abbordarci, per noi è finita.

— Si salpino le àncore e si spieghino le vele, Wan-Horn. Non voglio che
i miei nipoti cadano nelle mani di quei ributtanti selvaggi.

— Signor Hans, signor Cornelio, e tu, Lu-Hang, disse il marinaio,
rivolgendosi verso i due giovanotti ed al giovine pescatore,
all’argano!...

— Salpiamo l’àncora di poppa, disse il capitano. Il vento soffia
dell’est e metteremo la prua verso l’uscita della baia.

Wan-Horn salì sul cassero per esaminare prima la posizione dell’àncora,
ma ad un tratto fu veduto impallidire e fare un gesto di furore.

— Capitano! esclamò con voce rauca.

— Cosa succede? chiese Wan-Stael.

— La catena è spezzata e l’àncora perduta.

— Spezzata?.... È impossibile!..... Era solida e grossa assai.

— E quella di prua è scomparsa! gridò Cornelio, ch’era salito sul
castello.

Wan-Stael si slanciò verso la prua e vide infatti che anche la catena
della seconda àncora era stata spezzata. Non ne rimaneva che un pezzo,
il quale pendeva fuori dalla cubia di babordo, per una lunghezza di
mezzo metro. L’ultimo anello era stato tagliato, a quanto pareva, a
colpi di scure.

Wan-Stael s’avvicinò al giovine pescatore chinese e scuotendolo
ruvidamente, gli chiese a denti stretti:

— Canaglie, cosa avete fatto durante la nostra assenza? Non vi bastava
saccheggiare la dispensa dei viveri e la mia cabina, volevate anche
mandare in rovina la nave?...

— No, signore, rispose il Chinese. Nessuno di noi ha tagliato le
catene, lo giuro su Buddha e su Confucio.

— Sei ben certo, Lu-Hang?

— Sì, capitano. Io mi trovava sul ponte quando i miei compatriotti
ebbero la malaugurata idea di ubbriacarsi col vostro _sciam-sciù_ e non
vidi alcuno a spezzare le catene.

— Ma chi vuoi che sia stato adunque?

— Io non lo so, signore.

Ad un tratto il capitano si battè la fronte emettendo un grido.

— Wan-Horn! esclamò.

— Signore!...

— Dov’è il selvaggio che abbiam fatto prigioniero?

— Deve essere ancora nella cala.

— Andiamo a vedere.

Scesero nella camera di prua e passarono nella stiva, ma il selvaggio
non v’era più. In sua vece si vedevano dei pezzi di fune sfilacciati e
che pareva fossero stati rosi da dei solidi denti.

— Ora comprendo! esclamò Wan-Stael. Il furfante, approfittando
dell’orgia dei chinesi, ha tagliato le funi coi suoi denti ed ha
spezzato le catene a colpi di scure, sperando di far naufragare la
_giunca_ sulle scogliere della baia.

— Ma perchè la nostra nave è immobile, mentre non è più trattenuta
dalle catene? Il riflusso dovrebbe trasportarla fuori della baia.

— Mi fai paura, Wan-Horn, colle tue parole.

— Mi comprendete?...

— Sì, noi siamo arenati.

— Ho questo timore, capitano.

— Saliamo, Wan-Horn.

Lasciarono la stiva e risalirono in coperta, curvandosi sulla murata di
babordo. Solo allora si accorsero che la nave era leggermente sbandata
e che la sua carena s’appoggiava, a tribordo, su di un banco di sabbia
coperto da un solo metro d’acqua.

— Siamo proprio arenati, disse il capitano tergendosi il freddo sudore
che bagnavagli la fronte. Scende la marea?

— Sì, capitano.

— Sono?

— Le undici.

— Fra quattr’ore l’alta marea raggiungerà la sua massima altezza.
Speriamo che ci rimetta a galla.

— E se non riuscisse a discagliarci?

— Abbiamo la scialuppa: ci affideremo a Dio e alle onde!




CAPO VIII.

Il golfo di Carpentaria


Gli australiani, intanto, non avevano abbandonata la spiaggia.
Non contenti di aver macellato l’equipaggio chinese e di essersi
impadroniti dei depositi di _trepang_ che dovevano servire a numerosi
pranzi, pareva che ora cercassero d’impadronirsi degli ultimi
superstiti e della _giunca_, credendola forse zeppa di viveri e
fors’anche di liquori.

Si aggiravano intorno alle scogliere vociferando, misuravano la
profondità dell’acqua colle loro lancie, sperando di trovare dei banchi
che si prolungassero fin sotto la _giunca_, e scagliavano i loro
_boomerangs_ e ciottoli, ma senza riuscita, poichè quei proiettili
non giungevano a destinazione, in causa della distanza che superava
i trecento metri. Tuttavia non parevano disposti ad allontanarsi e
continuavano a scagliare armi e sassi, a urlare ed a minacciare.

Hans e Cornelio non restavano però inoperosi. Di tratto in tratto
sparavano sui più audaci, e le loro palle non andavano perdute, poichè
degli uomini stramazzavano sulla spiaggia per non più rialzarsi.
Anche la spingarda di tratto in tratto tuonava e le sue pallottole
foracchiavano i magri dorsi od i ventri prominenti di quei bruti.

— Lasciateli urlare a loro comodo, disse il capitano. Per ora non
oseranno assalirci; occupiamoci invece a disincagliare la _giunca_,
nipoti miei.

— Cosa dobbiamo fare, zio? chiesero i due bravi giovanotti.

— Innanzi tutto getteremo un’àncora a poppa per impedire che qualche
ondata sollevi la _giunca_ e la spinga verso la spiaggia. Ciò forse
non accadrà, poichè siamo incagliati troppo bene, ma le precauzioni non
sono mai troppe.

— Abbiamo ancora un ancorotto, disse Wan-Horn. Sarà sufficiente per
trattenere la nave.

— Poi spiegheremo le vele per essere pronti a lasciare questa baia,
appena galleggieremo.

— Si può alleggerire la nave, capitano, disse il marinaio. Abbiamo più
di venti botti d’acqua nella stiva e quindici tonnellate di zavorra.

— Getteremo tutto in acqua. Che uno di noi vegli sul ponte accanto alla
spingarda, per non farci sorprendere da quei feroci antropofaghi.

— Lasceremo Lu-Hang, disse Cornelio.

— Lui! esclamò il capitano, crollando il capo.

— Potete fidarvi di me, signore, disse il pescatore, cadendo alle
sue ginocchia. Non sono un traditore io, ve lo giuro e vi servirò
fedelmente.

— Ti credo: basta, va a metterti presso la spingarda e se gli
australiani si gettano in acqua, fa fuoco su di loro.

— Grazie, capitano, rispose il Chinese. Mi farò uccidere, se sarà
necessario, ma nessuno di quei brutti negri si accosterà alla _giunca_.

— Al tuo posto e noi al lavoro!

Scesero tutti e quattro nella stiva e cominciarono a rimuovere le
botti per rotolarle sotto il boccaporto maestro, prima d’innalzarle sul
ponte.

Ne avevano già spostate tre, quando s’accorsero che la zavorra che vi
stava sotto era impregnata d’acqua.

— To’! esclamò il capitano. Cosa vuol dire ciò? Si è sfasciata qualche
botte o la _giunca_ fa acqua?

— Tutte le botti sono in ottimo stato, signore, disse Wan-Horn.

— Che si sia aperta una via d’acqua?

— È impossibile, capitano. Noi non abbiamo urtato contro alcun scoglio
e la _giunca_ è stata varata tre anni or sono.

— È vero, ma tu sai che le navi chinesi non sono troppo bene costruite.

— Forse si tratta d’una semplice filtrazione, disse Wan-Horn. Abbiamo
una pompa a bordo e più tardi la metteremo in opera.

— Salite e calate il paranco, disse il capitano a Cornelio e ad Hans.

I due fratelli tornarono in coperta e calarono nella stiva due grosse
funi sospese ad una grossa carrucola. La prima botte venne legata,
innalzata in coperta, spaccata e vuotata in mare, poi vennero issate le
altre, quindi la sabbia costituente la zavorra.

Mentre i quattro olandesi eseguivano la gravosa manovra, il Chinese
vegliava attentamente. Era questi il più giovine dei pescatori
imbarcati sulla _giunca_, poichè non aveva che diciotto o diciannove
anni, ma pure era uno dei più abili, essendo un nuotatore valentissimo.

Nativo di Boccatigris, isolotto che si trova presso la foce del
Si-Kiang o Fiume delle perle, che bagna la città di Canton, si era
imbarcato giovanissimo e da tre anni si trovava alla dipendenza del
capitano Wan-Stael, il quale aveva saputo subito apprezzare i suoi
meriti.

Era un perfetto campione della razza mongola: statura media, ma
robusta, tinto della pelle giallastra, zigomi assai sporgenti, occhi
leggermente obliqui, baffetti pendenti, cranio pelato ma adorno della
coda nazionale, la _pen-see_, come la chiamano i figli del celeste
Impero.

Accoccolato dietro la spingarda, semi-nascosto sotto il suo monumentale
cappello di bambù intrecciati, che aveva la forma d’un fungo, spiava
le mosse degli antropofaghi, pronto a far piovere sulla costa una
grandine di proiettili. Però quei mangiatori di carne umana pareva che
pel momento avessero abbandonata l’idea d’impadronirsi della _giunca_,
poichè dopo d’essersi sfiatati senza frutto e di aver perduto quasi
tutti i loro _boomerangs_, i quali non potevano più ritornare nelle
loro mani, non trovando un punto d’appoggio sull’acqua della baia,
si erano gettati sui depositi di _trepang_, divorando le olutarie con
avidità bestiale.

Però ai piedi delle roccie si vedevano a fiammeggiare dei grandi
fuochi, segno evidente che stavano preparando gli arrosti di carne
umana.

Alle due pomeridiane le botti d’acqua erano state vuotate e la zavorra
era stata gettata tutta in mare, alleggerendo la nave d’un peso di
circa quaranta tonnellate. Il capitano però, onde rendere più certo lo
scagliamento, aiutato dal vecchio marinaio lavorava accanitamente per
trasportare a babordo le provviste di viveri, le casse dell’equipaggio
e tutti gli oggetti più pesanti, per alleggerire vieppiù il tribordo
che si appoggiava sul banco.

Cornelio e Hans erano invece risaliti in coperta ed esaminavano
il banco sabbioso, che l’alta marea rendeva sempre meno visibile,
innalzando l’acqua della baia.

— Credi che riusciremo a rimetterci a galla? chiese Hans a Cornelio.

— Lo spero, rispose questi, poichè non sarà un’alta marea ordinaria, mi
disse lo zio.

— L’acqua s’innalzerà lungo questa costa più del solito?

— Sì, Hans, poichè questa regione oggi è sotto l’influenza diretta
della luna.

— È vero, disse il capitano, che era ritornato in coperta. Alle 4 e 30
noi avremo un’alta marea straordinaria.

— Ma non sono sempre eguali le maree, zio?

— No, Hans.

— Ma non sono prodotte dalle correnti marine?

— No, dall’attrazione lunare e un po’ anche dall’attrazione solare.

— Non riesco a comprendere questo fenomeno, zio. Questo innalzarsi e
abbassarsi del livello dei mari ogni sei ore, è per me inesplicabile.

— Lo credo, poichè ha imbarazzato per lunghi secoli anche degli
eminenti scienziati. Gli antichi chiamavano questo fenomeno la tomba
della curiosità umana, quantunque alcuni astronomi e scienziati romani,
quali Cleomede, Plinio e Plutarco sospettassero l’influenza della luna.
Perfino il grande Galileo e l’illustre Kleper dubitavano, e fu Newton
il primo che dimostrò la possibilità di una attrazione da parte del
nostro satellite, e più tardi Laplace lo provò in modo chiarissimo.

— In tal caso, è permesso anche a me di non saper spiegare questo
sorprendente fenomeno.

— Eppure, ragazzo mio, è così semplice! Come sai, la superficie del
nostro globo è in gran parte coperta d’acqua, la quale, in causa
della sua fluidità, può muoversi. Esercitando la luna, sul nostro
pianeta, una forte attrazione, cosa ne deriva? Che le acque poste
direttamente sotto di lei, si accumulano, tendendo ad innalzarsi. Le
acque più lontane seguono il movimento, ma più lentamente, subendo
un’attrazione minore: quelle poi che si trovano dalla parte opposta
della terra, tendono invece a rimanere indietro. Abbiamo quindi due
grandi accumulamenti d’acqua, i quali formano sulla nostra superficie
due prominenze assai accentuate: una sotto la luna, l’altra dalla parte
opposta dell’attrazione lunare.

— Comprendo, zio, ma le maree cambiano; ora s’innalzano qui e fra sei
ore s’innalzano in un altro punto del globo.

— Ciò deriva dalla rotazione della terra. Girando su se stessa nello
spazio di ventiquattro ore, espone successivamente le varie parti della
sua superficie verso la luna, costringendo le acque ad un continuo
spostamento.

Ora noi ci troviamo sotto l’influenza diretta della luna, e qui le
acque si accumulano; ma girando la terra, quelle acque si riverseranno
dietro l’attrazione lunare e si rialzeranno in altre regioni.

— Dunque la luna mantiene i nostri oceani in una perturbazione
continua, disse Cornelio.

— Sì, continua, ma non è solamente l’attrazione lunare che trascina le
acque intorno al nostro globo. Anche il sole ha la sua parte.

— Quantunque sia così lontano da noi? chiese Cornelio.

— Sì, ma la sua attrazione è meno intensa di questa della luna, appunto
in causa dell’enorme distanza. Esso produce maree assai più deboli e
non fa che modificare quelle della luna, ora avanzando ed ora ritirando
l’ora della massima piena, ossia aumentando o diminuendo l’intensità
del fenomeno.

— Sarà però sempre considerevole.

— La sua attrazione è di due terzi inferiore a quella che esercita
l’astro notturno.

— Accade talvolta che si uniscano le due attrazioni?

— Sì, Cornelio, ed allora succedono le grandi maree; se la luna
innalza, per esempio, l’acqua di 55 centimetri, il sole l’aumenta fino
a 74.

— Ditemi ora, zio, mi hanno detto che in certi punti del nostro globo,
le alte maree raggiungono delle altezze enormi.

— È vero, Cornelio.

— Forse perchè la luna esercita una maggiore attrazione?

— No, poichè è sempre eguale, ma ciò dipende dalla configurazione
speciale di certe coste. In pieno oceano tu vedrai che l’alta marea
raggiunge sempre l’eguale altezza, salvo nei casi in cui si uniscono
le attrazioni della luna e del sole; ma presso i continenti vi sono
delle forti differenze, specialmente entro certi mari dove raggiungono
perfino un’altezza di 14 metri ed anche di più, poichè nella baia di
Fund, alla Nuova Scozia, tocca perfino 24.

Le acque trascinate dall’attrazione s’accumulano entro certe spiaggie
ristrette, ma in causa della celerità loro acquistata, continuano
il loro movimento ascendente anche dopo il passaggio della luna al
meridiano, innalzandosi più di quanto dovrebbero.

— E la luna, non esercita alcuna attrazione su noi?

— Certamente, Cornelio, ma con molto minore intensità non essendo
noi masse liquide. Supponi che un corpo pesante dieci chilogrammi si
trovi sotto l’influenza immediata dell’attrazione lunare, perde un
milligramma del suo peso.

— Dunque noi trovandoci direttamente sotto la luna, pesiamo meno in
questo momento. La cosa è assai strana, zio.

— Sì, Cornelio: io che dovrei pesare 90 chilogrammi, in questo istante
sono diminuito di un... centigramma!.. Ben poca cosa, come vedi.

— E la terra eserciterà pure una forte attrazione sulla luna?

— Sì, e molto più potente essendo molto maggiore dell’astro notturno.
Chi sa quali spaventevoli maree deve aver prodotto, quando il satellite
era ancora liquido e pastoso!

Devesi certamente a questa influenza, se esso si è allungato nel nostro
senso e se non può più volgersi liberamente su sè stesso, come doveva
fare un tempo.

— Capitano, gridò in quell’istante Wan-Hom. Comincio a udire degli
scricchiolìi sotto la carena della _giunca_.

— Buon segno, disse Wan-Stael, alzandosi precipitosamente. Affrettiamo
a spiegar le vele, per approfittare del vento dell’est.

Il marinaio, i due giovanotti ed il pescatore salirono sulle griselle
(scale di corda), e raggiunti i pennoni sciolsero le contro-rande,
quindi, ridiscesi in coperta, le rande, poi il fiocco, il controfiocco
e la trinchettina.

I selvaggi, accortisi di quelle manovre ed immaginandosi che i
superstiti si preparavano a lasciare la baia, si precipitarono verso la
spiaggia urlando furiosamente ed agitando le armi.

Alcuni, più audaci, si gettarono in acqua, mentre altri si spingevano
fino sulle estreme sponde delle scogliere, ma un colpo di spingarda che
fece cadere tre o quattro uomini, frenò il loro ardore.

— Passate la gomena dell’ancorotto all’argano, gridò il capitano a
Wan-Horn ed al chinese. È sempre a babordo l’àncora?

— Sempre, signore, rispose il marinaio.

— Credi che terrà fermo?

— Lo spero, capitano!

— Virando all’argano, potremo dunque esercitare un poderoso sforzo sul
tribordo e disincagliare il fianco di tribordo.

— Aiuteremo l’azione della marca.

In quell’istante la _giunca_ provò una leggiera vibrazione e parve che
accennasse a spostarsi. Il capitano si curvò sulla murata di tribordo e
guardò, ma la marea che continuava a crescere aveva ormai coperto tutto
il banco e non si poteva più vederlo.

I fremiti però continuavano e le vele, esercitando una spinta verso
babordo, aiutavano potentemente l’azione della marea.

D’improvviso s’udirono sotto la carena degli scricchiolìi che
crescevano d’intensità, e la _giunca_, che il vento spingeva in mezzo
alla baia, si spostò ancora.

— Scivoliamo sul banco! gridarono Hans e Cornelio.

— Ed i selvaggi s’avanzano! gridò Wan-Horn. Eh! Lu-Hang, manda un po’
di zuccherini a quelle canaglie!...

Il chinese scaricò la spingarda, tempestando gli australiani che si
erano gettati in acqua, avanzandosi sui banchi semi sommersi, per
giungere a tiro colle loro lancie e coi loro boomerangs.

Quasi contemporaneamente la giunca, completamente sollevata dall’alta
marea, si staccava dal banco con un forte ondeggiamento.

— All’ancorotto!... gridò Wan-Stael.

Wan-Horn, Cornelio e Hans si precipitarono verso l’argano e facendo
forza con tre o quattro vigorose scosse strappavano dal fondo la
piccola àncora.

Wan-Stael salì sul cassero ed afferrò la ribolla del timone, mentre i
suoi compagni lasciavano le scotte delle rande per prendere il vento in
poppa e Lu-Hang mitragliava un’ultima volta i selvaggi che mandavano
spaventevoli vociferazioni. Pochi minuti dopo la _giunca_, così
miracolosamente salvata, usciva a gonfie vele dalla baia, lanciandosi
sulle onde del golfo di Carpentaria.




CAPO IX.

Il naufragio durante l’uragano


I selvaggi, vedendo fuggire la nave, mentre si credevano certi di
vederla immobilizzata sul banco, quantunque ormai avessero da cibarsi
a esuberanza coi depositi di _trepang_ e coi cadaveri dei disgraziati
chinesi, si erano gettati verso la spiaggia e superate le roccie si
erano messi a correre lungo la costa urlando ed agitando le armi,
sperando forse che il capitano ed i suoi compagni cercassero di
riprendere terra.

Fu una corsa però vana, poichè l’_Hai-Nam_, spinta dal vento che
frescava dall’est, filava rapidamente, inoltrandosi nell’ampio golfo
di Carpentaria. Le vele gonfie da scoppiare, la spingevano verso il
nord-est, ed il capitano la guidava verso il lontano stretto di Torres,
per riguadagnare più tardi il mar delle Molucche e quindi l’isola di
Timor.

Pareva che, malgrado l’arenamento, la nave non avesse sofferto, poichè
si comportava benissimo e s’alzava agilmente sulle onde spumeggianti
del golfo, quantunque quei velieri di costruzione chinese siano
generalmente assai pesanti.

— Urlate finchè volete, non ci prenderete più, disse Wan-Horn,
guardando i selvaggi che rimpicciolivano rapidamente. Vi sfido a
seguirci fino allo stretto di Torres.

— Ormai non ci fanno più paura, vecchio Horn, disse Cornelio.

— Lo credo, ma quelle canaglie possono vantarsi di aver fatto delle
buone prede. Poveri chinesi!... A quest’ora cucineranno sui carboni, in
attesa di venire inghiottiti da quei ributtanti selvaggi, ma la colpa
non è nostra. Se non si fossero ubbriacati, forse sarebbero tutti salvi
a bordo di questa giunca.

— E riusciremo noi a toccare le coste di Timor?

— E perchè no, signor Cornelio? Siamo solamente in cinque, ma la
manovra delle nostre vele non richiede numerose braccia, e poi
attraversato lo stretto di Torres più nulla avremo da temere, poichè
i pericoli non esistono che in quel braccio di mare che è così irto di
banchi coralliferi e di bassifondi.

— Purchè non ci sorprenda qualche tempesta! Guarda laggiù, vecchio
Horn, non scorgi tu delle nuvole alzarsi all’estremità del golfo?

— È vero, signor Cornelio, disse il marinaio, aggrottando la fronte.
Soffierà vento forte, questa notte; ma la _giunca_ sembra solida ed ha
provato già non poche tempeste.

— Non dico il contrario, ma se nell’arenamento si fosse guastata? Tu
sai che le carene di queste navi non sono così robuste come quelle dei
velieri costruiti sui cantieri europei.

— Anche questo è vero, signor Cornelio. Tutte le giunche chinesi,
siano _ts-as-ch’wan_ ossia grosse navi, o _towmeng_ ossia piccole
giunche, o _ta-yü-ch’wang_ che portano un solo albero, sono in generale
assai difettose. Si dice anzi che un gran numero di esse non possono
affrontare i pericolosi cicloni che imperversano nei mari della China e
che il solo dipartimento marittimo di Canton perde annualmente non meno
di diecimila marinai, appunto in causa della cattiva costruzione delle
navi chinesi.

— Ciò non è incoraggiante per l’equipaggio della _Hai-Nam_.

— La nostra _giunca_, ve lo dissi già, è una delle migliori e porta una
velatura perfetta e molto più maneggiabile delle altre. Vostro zio non
avrebbe assunto il comando di una carcassa.

— Ehi, Wan-Horn! gridò in quell’istante il capitano, che si teneva
alla ribolla del timone. Non ti sembra che la giunca sia sbandata sul
tribordo?...

Il marinaio, sorpreso per quella domanda, lanciò un rapido sguardo
sul ponte e s’avvide infatti che era leggermente inclinata a tribordo,
mentre avrebbe dovuto esserlo sul babordo, in causa dell’azione delle
vele.

— Questa è strana! esclamò. Se vi fosse un carico nella stiva, direi
che s’è spostato, ma non abbiamo nemmeno una tonnellata di zavorra.

— Ebbene, Wan-Horn? chiese il capitano.

— Non so spiegare questo fenomeno, signor Wan-Stael, rispose il
marinaio. Si direbbe che la nostra giunca è zoppa, o per lo meno gobba.

— Mi pare però che navighi bene, vecchio mio.

— Infatti tiene il mare a meraviglia, capitano.

— Lascia andare; più tardi spiegheremo da cosa dipenda questo difetto
che prima non ho mai osservato. Prendi la ribolla, Horn.

— La rotta? chiese il marinaio, salendo sul cassero.

— Nord-nord-ovest, dritto all’isola Wessel. Uhm! il tempo si abbuia ed
avremo mar grosso fra poche ore.

— L’ho notato anch’io, signor Wan-Stael. Se il vento raddoppierà,
prenderemo terzaruoli.

I due lupi di mare non s’ingannavano.

All’estremità meridionale del golfo di Carpentaria s’accumulavano
rapidamente delle masse di vapori di tinta oscura, ma coi margini color
del rame, e si distendevano pel cielo, minacciando di coprirlo fino
agli estremi limiti dell’orizzonte.

Da quella direzione soffiavano, ad intervalli, delle folate di vento
caldo provenienti senza dubbio dalle ardenti regioni del continente e
forse da quel grande deserto di pietre che occupa buona parte di quella
grande terra.

Anche il mare cominciava ad agitarsi e le sue onde perdevano la loro
brillante tinta azzurra, diventando giallo-sporche e si coprivano di
spuma.

Alle sette di sera, mentre il sole radeva già l’orizzonte, verso il
sud cominciarono a rullare i primi tuoni e qualche lampo guizzò in
mezzo alle masse vaporose. Il vento quasi subito accrebbe di violenza,
fischiando fra il sartiame e l’alberatura della nave, sollevando delle
forti ondate le quali si cozzavano fra di loro con cupi muggiti.

— Brutta notte, disse il capitano a Cornelio e ad Hans che osservavano
l’avanzarsi delle nubi. Fortunatamente il golfo di Carpentaria è ampio
e non ha dei banchi pericolosi che intorno alle isole Eduard Pellew,
ed i frangenti e le scogliere corallifere dello stretto di Torres sono
assai lontane.

— Prendiamo terzaruoli, zio?

— Sarà cosa prudente il farlo. Aiutatemi, giovanotti, ed anche tu,
Lu-Hang.

Le rande, che avevano uno sviluppo notevolissimo, potevano sbandare
la _giunca_ al punto da farle imbarcare acqua sul tribordo, se la loro
superficie non veniva diminuita ed il vento aumentava.

Il capitano ed Hans s’affrettarono a prendere terzaruoli sulla vela
di trinchetto, e Cornelio ed il Chinese su quella di maestra. Questa
manovra che consiste nell’abbassare il picco, ossia il pennone
superiore, dopo d’aver imbrogliate le due vele triangolari superiori,
chiamate contro-rande, e nell’annodare delle cordicelle, diminuendo
la superficie delle vele inferiori di una metà o di un terzo, fu tosto
eseguita, malgrado le furiose scosse che subiva la _giunca_ ed i soffi
impetuosi del vento.

La nave, che era fortemente inclinata sul tribordo, si raddrizzò
alquanto, ma subito ricadde mentre nella stiva si udiva un sordo
muggito.

— Che cos’è? chiese il capitano, stupito ed inquieto. Avete udito, voi?

— Sì, disse Cornelio, che tendeva gli orecchi. Ho udito uno strano
fragore. Che ci sia qualcuno nella stiva? Forse dei selvaggi nascosti?

— Non è possibile; li avremmo veduti quando abbiamo levata la zavorra.

Ad un tratto si battè la fronte ed impallidì:

— Gran Dio! mormorò.

— Cos’hai, zio? chiesero Hans e Cornelio.

— Wan-Horn! gridò invece il capitano. Ti sembra che la _giunca_ si sia
abbassata?

— Cosa volete dire, signore? chiese il vecchio marinaio.

— La sua immersione è sempre uguale a poppa?

Wan-Horn si curvò sul coronamento del cassero e guardò giù. Un grido
gli sfuggì.

— Capitano! esclamò. Noi andiamo lentamente a picco! La poppa si è
immersa di un mezzo metro da oggi; l’acqua ha coperto tutto il timone e
rade l’orlo inferiore del quadro!

— Hans, Cornelio, Lu-Hang, nella stiva! gridò il capitano, con voce
rotta. Triste fatalità che pesa su noi!...

Scesero tutti e quattro a precipizio nella stiva, col cuore stretto
da un’angoscia inesprimibile, le fronti imperlate d’un freddo sudore.
Sfuggiti ai denti degli antropofaghi mentre già si credevano salvi,
stavano ora per venire inghiottiti dai flutti del golfo di Carpentaria,
e nel momento in cui la tempesta stava per assalirli!...

Giunti in fondo alla scala, s’arrestarono. Wan-Stael, che era dinanzi a
tutti, aveva messo un piede in acqua.

— Un lume!... diss’egli.

Lu-Hang, che era l’ultimo, risalì in coperta, scese nel quadro di poppa
e ritornò con una lanterna accesa.

— La stiva è inondata! esclamarono Hans e Cornelio, impallidendo.

Infatti la stiva della _giunca_ era coperta d’acqua, la quale si
precipitava ora verso babordo ed ora verso tribordo con sordi e paurosi
muggiti, frangendosi contro i puntali e contro i piedi degli alberi
di trinchetto e di maestra. Come era entrata?... Si era aperta una via
d’acqua in causa della cattiva costruzione della nave o qualche madiere
si era spezzato durante l’arenamento?...

Wan-Stael, pallido per l’emozione, colla fronte aggrottata, gettava
sguardi disperati a tribordo, a bordo, a prua ed a poppa, cercando, ma
invano, di scoprire l’apertura.

— Ebbene, zio? chiese Cornelio, possiamo ancora salvare la nave?

— È impossibile! rispose Wan-Stael, facendo un gesto di rabbia. È
troppo tardi!

— Abbiamo una pompa a bordo.

— E qui vi sono ormai duecento botti d’acqua.

— Se si potesse turare la falla?

— La vedi tu?... E noi non ci siamo accorti prima di questo nuovo
disastro!...

— Possiamo cercarla; non vi è che un metro d’acqua per ora e...

— Zitto!...

Il capitano si era curvato verso l’acqua, tendendo gli orecchi.
Verso poppa si udiva come un sordo mormorìo che pareva prodotto
dall’irrompere d’una violenta corrente.

— È là!... diss’egli. Scendi, Lu-Hang.

— Sotto il quadro di poppa? chiese il chinese, sbarazzandosi della
hen-pu (larga casacca dalle ampie maniche) e dei ken-ku (specie di
calzoni usati dai pescatori, pure assai larghi e che formano sul ventre
una doppia piega).

— Sì, all’estremità del paramezzale, verso bordo.

Il pescatore s’immerse e si diresse verso poppa, portando seco la
lanterna. Lo si vide curvarsi, immergendo il braccio destro, poi
ritornare correndo, malgrado le ondate che si precipitavano da una
estremità all’altra della stiva.

— Capitano, diss’egli, con accento di terrore. Qualcuno ci ha traditi.

— Cosa vuoi dire?

— Che la nave è stata, come dite voi, sabordata.

— Forata da qualcuno?

— Sì, capitano, ed ho sentito sotto la mano una scure ancora infissa
nel legno.

— Ma chi vuoi che sia stato a fare quel foro?

— Il selvaggio, signore.

— Ah!... il miserabile!... gridò Wan-Stael. Sì, ora comprendo:
quell’infame, dopo d’aver reciso le catene delle ancore, ha sabordata
la _giunca_ per impedirci di fuggire. È vasta l’apertura?

— Le onde devono averla ingrandita, poichè ha un diametro di mezzo
metro.

— Allora siamo perduti. La nostra pompa non riuscirà a vincere l’acqua
che entra.

Risalì in coperta. Le tenebre erano allora calate, ed il golfo di
Carpentaria offriva uno spettacolo pauroso.

Larghe ondate, colle creste coperte di candida spuma, salivano dal sud
con lunghi muggiti, frangendosi impetuosamente contro i fianchi della
_giunca_, la quale si sollevava penosamente, scricchiolando.

Il vento non più frenato, urlava su tutti i toni, strideva attraverso
al sartiame, fischiava fra i boscelli delle manovre correnti, ruggiva
fra le vele che sbatteva in tutti i sensi, non avendo una direzione
costante, e laggiù, verso le coste della Terra d’Arnheim e quelle di
Torres, lampeggiava e tuonava.

Frequenti colpi di mare, superando le murate, si rompevano sulla
coperta della nave, correndo all’impazzata verso prua o verso poppa e
sfuggendo, col fragore di una cateratta, attraverso gli ombrinali[7] di
tribordo e di babordo.

Il vecchio Horn, quantunque rimasto solo in coperta, affrontava
serenamente e senza impallidire l’uragano. Ritto sul cassero, coi
capelli e la lunga barba bianca arruffati dal vento, colle mani strette
attorno alla ribolla del timone, guidava intrepidamente l’affondante
nave.

— Wan-Horn, disse il capitano, raggiungendolo. La giunca ci affonda
sotto i piedi.

— Con questa tempesta che ci assale?

— Il selvaggio l’ha sabordata e l’acqua entra come un torrente.

— Ah!... la canaglia! Cosa volete fare, signore? Se la costa fosse
vicina si potrebbe tentare di raggiungerla e spingere la _giunca_ sui
banchi.

— La terra di Torres è a cento miglia da noi e la _giunca_, fra un’ora,
s’immergerà negli abissi del golfo.

— Non ci sarebbe il tempo necessario per costruire una zattera?

— Con queste onde? Anche se il tempo ci fosse, tale costruzione sarebbe
assolutamente impossibile.

— Volete tentare la sorte colla scialuppa? Resisterà alla tempesta?

— Con l’aiuto di Dio, speriamo di vincere anche questa terribile prova.

— Miserabile selvaggio!

— I rimpianti sono inutili, Horn: bisogna agire prima che la nave ci
affondi sotto i piedi.

— Non dimenticate le armi; chissà dove approderemo!...

— Saranno le prime a essere imbarcate. Cornelio, Hans, Lu-Hang,
seguitemi!...




CAPO X.

L’uragano


Un triste destino pesava sui disgraziati pescatori di _trepang_.

Dopo d’aver perduto l’equipaggio, sterminato dai mangiatori di carne
umana della costa australiana; dopo di aver veduto disperdere i
depositi di _olutarie_, che rappresentavano per loro e per l’armatore
chinese di Timor una vera fortuna, e di essere sfuggiti miracolosamente
all’abbordaggio di quei feroci selvaggi, stavano per venire inghiottiti
dalle onde del golfo di Carpentaria.

Se il mare si fosse mantenuto tranquillo come nei giorni precedenti,
non si sarebbero inquietati troppo per la perdita di quel pesante
vascello che non potevano più maneggiare con un così scarso numero di
braccia, quantunque si trovassero in una regione pericolosissima, poco
nota anche attualmente, irta di scogliere e di banchi sottomarini e
popolata di selvaggi gli uni peggiori degli altri, e quasi tutti grandi
amatori di carne umana allo spiedo o alla salsa verde.

Avventurarsi però con simile notte, su quel golfo che la tempesta
sollevava su di una semplice scialuppa, era tal cosa da spaventare
i più audaci marinai. Avrebbe potuto resistere quella fragile
imbarcazione che non misurava che sei metri di lunghezza e che stazzava
a mala pena otto tonnellate, ai tremendi colpi di mare ed alla furia
del vento? Avrebbero riveduto il sole dell’indomani?

Tali erano le inquietudini che tormentavano il capitano e Wan-Horn, più
pratici di tutti in fatto di cose marinaresche e sopratutto d’uragani.
Pure quei due arditi lupi di mare non si perdevano d’animo, e per non
spaventare i loro giovani compagni cercavano di mostrarsi tranquilli e
fiduciosi.

Del resto ormai la _giunca_ era perduta e bisognava assolutamente
abbandonarla e senza perdere tempo. L’acqua entrava con sordo fragore,
avendo ormai allargata la falla e la trascinava rapidamente a picco.

Già cominciava a oscillare e le onde montavano facilmente sulla
coperta, balzando sopra le murate. Nel quadro di poppa, ove erano le
cabine di Wan-Stael, di Cornelio e di Hans, l’acqua aveva fatto la sua
comparsa ed ora stava per occupare la camera comune di prua, riserbata,
un tempo, all’equipaggio chinese.

I quattro olandesi e Lu-Hang si affrettavano. Avevano già portato in
coperta i fucili, alcune scuri, provviste di polvere e di palle, una
certa quantità di viveri bastanti per una settimana, un barilotto
d’acqua della capacità di ottanta litri, alcuni remi, un piccolo
albero, una vela ed alcune coperte.

— Imbarca! comandò il capitano.

In pochi istanti tutti quegli oggetti furono collocati nella scialuppa,
assicurati con funi, ed i viveri, le armi e le munizioni avvolti
accuratamente in una grossa tela cerata.

— Caliamola dalle grue di poppa, disse il capitano.

— Le onde non la sfracelleranno contro la nave? chiese Wan Horn.

— Lu-Hang e Cornelio scenderanno assieme e cercheranno di tenerla
lontana. Aiutatemi, amici!

Riunirono le loro forze e alzarono la scialuppa sul capo di banda della
murata poppiera, legando i paranchi delle grue alle banchine.

— Salite! gridò Horn.

Il giovine chinese e Cornelio s’imbarcarono e la scialuppa fu calata
in mare, lasciando scorrere le funi dei paranchi. Appena toccò acqua,
un’onda la prese e l’alzò, ma essendo stata abbassata sottovento,
invece di venire spinta contro il fianco della _giunca_, fu portata al
largo finchè lo consentivano la lunghezza delle gomene.

— Resiste? chiese Wan-Stael.

— Balza sulle onde a meraviglia, zio, gridò Cornelio.

— Imbarca acqua?

— No, finora.

— Scendi, Hans.

Il giovanotto s’aggrappò ad un paranco e tenendosi ben stretto, per
non venire portato via dalle onde, raggiunse felicemente il fratello.
Wan-Horn, malgrado la sua tarda età, lo seguì, quindi scese il
capitano.

— Lasciate andare! gridò questi.

Le due funi furono sciolte e la scialuppa, non più trattenuta, fu
portata via da un’onda gigantesca.

Era tempo. La _giunca_, già piena d’acqua fino alla sottocoperta,
affondava rapidamente, trascinata negli abissi marini dall’enorme peso
che conteneva.

S’alzava però ancora faticosamente sulle onde, ma erano gli ultimi
sforzi. Ben presto l’acqua della stiva irruppe sul ponte, mentre quella
esterna, superate le murate, si riversava a babordo ed a tribordo,
quasi fosse impaziente d’inghiottire la preda.

Per alcuni istanti, alla livida luce d’un lampo, fu vista emergere
ancora una volta la prua, poi la nave sparve fra le onde, formando un
vortice gigantesco.

I suoi alberi oscillarono un momento fra le onde che li assalivano con
furore senza pari, poi s’immersero entro quella specie d’imbuto mobile
e più nulla si vide.

L’_Hai-Nam_ era scesa negli umidi baratri del golfo di Carpentaria e
forse stava fracassandosi sulle scogliere del regno dei coralli.

— Povera nave! esclamò il capitano con voce commossa, e forse... noi ti
seguiremo!...

Intanto la scialuppa s’allontanava rapidamente dal luogo del naufragio,
sospinta dalle onde che salivano dall’estremità meridionale di
quell’ampio golfo.

Wan-Horn si era seduto a timone e Cornelio e Hans, aiutati dal giovane
pescatore, avevano rizzato l’alberetto e spiegata la vela con due mani
di terzaruoli, per dar maggior stabilità alla fragile imbarcazione.

— Dove ci dirigiamo, signore? chiese il marinaio al capitano.

— Cerchiamo di poggiare verso la costa australiana che è la più vicina.
Non oso, con quest’uragano, intraprendere ora la traversata del golfo,
nè di spingermi verso le isole Eduard Pellew, Wellesley o Groote.
Cercheremo più tardi di raggiungere le spiaggie settentrionali della
terra d’Arnheim. Attenti alla vela, ragazzi miei, e te, Horn, bada ai
colpi di mare.

— Non lascio la barra, signor Stael.

La situazione dei naufraghi dell’_Hai-Nam_ stava per diventare
estremamente pericolosa; si poteva dire che la loro esistenza era
appesa ad un semplice filo, il quale poteva da un istante all’altro
spezzarsi.

L’uragano si scatenava allora con furia incredibile. Alla notte
tenebrosa era successa una notte di fuoco! I lampi si seguivano quasi
senza interruzione, squarciando le masse di vapori che s’accavallavano
confusamente nella profondità del cielo, correndo all’impazzata verso
lo stretto di Torres.

Tuoni formidabili, assordanti, che cominciavano verso il sud e che si
propagavano verso il nord con una intensità straordinaria, echeggiavano
senza posa, gareggiando coi ruggiti, cogli ululati e coi fischi del
vento e coi muggiti e gli scrosci delle onde.

La scialuppa, vero giocattolo perduto su quel vasto golfo che
potrebbe chiamarsi un vero mare, poichè per estensione supera i più
vasti, subiva delle spaventevoli oscillazioni. Ora veniva scagliata
furiosamente sulla cima delle immense ondate, sulle quali si librava
per un miracolo d’equilibrio fra i nembi di spuma, ora veniva
trascinata ne’ profondi avvallamenti, veri baratri entro i quali
pareva che ad ogni istante dovesse scomparire ed ora si rovesciava
impetuosamente sul babordo o sul tribordo, tuffando i margini nel seno
di quei giganteschi marosi.

Pareva un trastullo in mano di giganti; pure resisteva a meraviglia.
Colla sua vela ridotta a minime proporzioni, galleggiava come fosse un
pezzo di sughero od un battello insommergibile e saliva intrepida le
ondate e pure intrepida le discendeva.

Il capitano, colla scotta della vela in mano, a capo scoperto, coi
capelli al vento, pallido ma risoluto, sfidava serenamente la morte
che lo minacciava da tutte le parti e impartiva i comandi con voce
sicura; Wan-Horn, aggrappato alla barra del timone, colla barba
arruffata, gli occhi bene aperti, stava attento alle onde e cercava di
evitarle e di non lasciarsi cogliere di traverso; Hans, Cornelio ed il
chinese, pallidi, un po’ atterriti, s’affannavano a vuotare l’acqua che
irrompeva sui bordi.

Wan-Stael, di tratto in tratto li incoraggiava con una parola o con un
gesto e chiedeva:

— Avete paura?

— No, rispondevano invariabilmente Hans e Cornelio, ma la loro voce non
era più sicura.

La scialuppa intanto guadagnava via con estrema rapidità. Spinta dalle
onde e dal vento filava come uno steamer lanciato a tutto vapore,
avvicinandosi alla costa australiana, la quale ormai non doveva essere
molto discosta.

Se non veniva subissata prima di giungervi, i naufraghi della _giunca_
potevano sperare di porsi in salvo, poichè le spiaggie della così detta
terra di Torres sono solcate da un certo numero di fiumi, i quali alle
loro foci formano delle piccole baie.

Disgraziatamente Wan-Horn non poteva mantenere la rotta verso l’est,
in causa delle grandi ondate, le quali, salendo dal sud, prendevano la
scialuppa di fianco. Era costretto a drizzare la prua verso nord-est
e talvolta verso il nord, allungando di tal modo la via di parecchie
decine di leghe. Per di più l’uragano non accennava a calmarsi, anzi
tendeva sempre ad aumentare, mettendo a dura prova il coraggio di
quei disgraziati. Il vento soffiava sempre con impeto irresistibile,
spingendo innanzi a sè veri nembi d’acqua che rubava alle onde;
doveva aver raggiunta una velocità di almeno ventidue metri per minuto
secondo, cifra che acquista nelle tempeste, ed il mare s’alzava sempre
con muggiti più spaventevoli, con urla impossibili a descriversi,
rovesciando verso il nord onde mostruose, vere montagne d’acqua.

Alle due del mattino, per poco la scialuppa non s’immerse. Presa fra
due ondate, dopo di esser stata sollevata in aria a grande altezza, era
stata scagliata fra due baratri che si erano rinchiusi sopra di essa.

Fu un momento terribile: tutti credevano che più mai si risollevasse e
uscisse da quell’abisso.

Cornelio e Hans avevano gettate due grida disperate, ritenendosi
perduti, ma una terza onda l’aveva tosto ripresa scagliandola più
innanzi, quantunque fosse già quasi piena d’acqua. Alle tre, un’altra
onda, investendola di fianco, la rovesciava; ma Wan-Horn, che non
abbandonava la barra, l’aveva rialzata con un colpo di timone, mentre
il capitano, che non perdeva il suo sangue freddo, aveva lasciato
filare rapidamente la scotta della vela.

Quasi nel medesimo istante, Cornelio, che si trovava a prua, segnalava
una costa.

L’aveva veduta al balenar d’un lampo, ma l’oscurità era subito
ripiombata su quel mare procelloso, nascondendola agli sguardi del
capitano.

— Sei certo di non esserti ingannato, Cornelio? chiese questi.

— No, zio, l’ho veduta perfettamente.

— Dinanzi a noi?

— Verso il nord-est.

— Lontana?

— Forse tre miglia.

— È la costa della Terra di Torres; badiamo a non urtare contro qualche
scogliera, Horn.

— Sono pronto a virare di bordo, signore.

— Approderemo, zio? chiese Hans. Comincio ad avere paura.

— Hai dimostrato fin troppo coraggio per la tua età, povero ragazzo,
ma è l’ultima prova. Se la costa è dinanzi a noi troveremo un qualche
rifugio. La vedi, Cornelio?

— No, ma mi pare di udire dei muggiti laggiù, che mi sembrano prodotti
dallo sfasciarsi delle onde contro una costa od una scogliera.

— Che ci siano dei frangenti dinanzi a noi? Navighiamo in un golfo che
è poco conosciuto e che abbonda di scogliere corallifere.

Abbandonò la scotta della vela al giovane pescatore e malgrado le
scosse furiose che subiva la scialuppa, raggiunse Cornelio. Guardò
innanzi a sè, ma non vide che onde mostruose; però, tendendo gli
orecchi udì distintamente dei muggiti ben diversi da quelli prodotti
dalle onde quando s’urtano fra di loro.

— Sì, diss’egli, vi è una terra od una scogliera presso di noi:
attendiamo un lampo.

Non aspettò molto. Poco dopo un lampo abbagliante solcava le tempestose
nubi, illuminando il golfo fino agli estremi limiti dell’orizzonte. Un
comando precipitato uscì dalle labbra dell’olandese.

— Scogliera dinanzi a noi!.... All’orza la barra, Wan-Horn!

Il vecchio marinaio ricacciò la barra a babordo senza perdere un
istante, e la scialuppa fuggì verso il nord, mentre il chinese lasciava
scorrere tutta la scotta della vela.

Al chiarore di quel lampo, Wan-Stael e Cornelio avevano veduto
una scogliera ergersi fra le onde, a soli cinquecento passi
dalla scialuppa. Un momento di ritardo od una falsa manovra e si
sfracellavano su quei frangenti.

— Siamo salvi per miracolo, disse il capitano. Ma dove sarà la costa?...

— Non può essere lontana, zio.

— Ma io non la scorgo all’est, Cornelio. Dovremo lottare fino all’alba
fra queste onde che sembrano ansiose d’inghiottirci? Potremo noi
resistere fino allora?...

— Zio! esclamò Hans. Guarda laggiù!...

— Cosa vedi?

— Un vivo chiarore; non lo scorgi tu?

— Un chiarore!... I fanali di qualche nave forse?

— No, si direbbe un incendio.

Tutti volsero gli sguardi nella direzione indicata dal giovanotto, e
scorsero infatti ad una grande distanza, una luce strana che spiccava
vivamente fra la profonda oscurità.

Non pareva prodotta da un incendio, come aveva dapprima creduto Hans,
ma non si poteva lì per lì spiegarla.

Era una specie di nebbia luminosa che aveva dei riflessi d’argento e
d’oro, e sotto di essa si vedevano agitarsi delle masse strane, che
parevano d’argento fuso, venato di verde pallido o solcato da striscie
di porpora.

— Cosa succede laggiù? chiesero Hans e Cornelio.

— Si direbbe che il mare fiammeggia, disse Wan-Horn, che si era alzato,
pur tenendo sempre, fra le robuste mani, la barra del timone.

— Che avvenga qualche fenomeno a noi sconosciuto? si chiese il capitano.

— O che arda, su qualche costa, una grande foresta? chiese Cornelio.

— Si vedrebbero delle fiamme, disse il capitano. E poi con questo vento
impetuoso, le scintille si eleverebbero a grande altezza, mentre io non
ne scorgo.

— Che avvenga laggiù qualche eruzione vulcanica?

— Io non ho mai veduto alcun vulcano su queste coste, Cornelio.

— E poi, disse Wan-Horn, quella luce sarebbe alta, mentre appare a fior
d’acqua.

— Si direbbero onde luminose, disse il capitano, dopo d’aver osservato
con maggior attenzione. Guarda, Horn, come si agitano, s’alzano, si
abbassano e si sfasciano.

— Sono onde che si rompono, capitano.

— Contro una costa?

— Ne sono certo.

— Ma da cosa deriva adunque quell’intenso chiarore?

— Lo sapremo ben presto, capitano. L’uragano ci spinge in quella
direzione.

La scialuppa infatti filava verso quella luce misteriosa, la quale
si estendeva come un’immensa fascia dal nord al sud. Quel fenomeno
stranissimo, inesplicabile pel momento, subiva delle forti ondulazioni,
pur mantenendo sempre la sua linea quasi diritta; ora s’alzava, ora
s’abbassava, si raddrizzava in forma di molteplici punte o di creste e
lanciava in aria una specie di nebbia scintillante, ma che aveva pure
delle bizzarre vibrazioni.

In mezzo a quella luce argentea, si vedevano guizzare linee che
parevano di fuoco o si vedevano dei bagliori d’oro che tosto
scomparivano per apparire più lontani.

Già la scialuppa non era lontana che due o tre miglia, quando il
capitano esclamò:

— Una costa laggiù!

— Dietro quel fuoco? chiese Cornelio.

— Non è un fuoco; è una splendida fosforescenza marina: ecco là le
onde luminose che si sfasciano sulle scogliere e che lanciano in aria
la loro spuma fosforescente. Attenzione, Wan-Horn! La barra sempre in
mano!...




CAPO XI.

L’isola di Corallo


Uno dei più splendidi fenomeni che s’ammirano sugli oceani è senza
dubbio la fosforescenza marina, la quale è, a seconda dei climi e della
minore o maggiore quantità di molluschi che popolano le acque, più o
meno intensa, più o meno splendida.

Come è facile immaginarsi, non è visibile che di notte, quando i flutti
diventano così neri che sembrano d’inchiostro, e sopratutto riesce più
ammirabile quando manca la luna e le stelle sono coperte delle nubi.

Allora tutto d’un tratto, dai profondi abissi si vedono a salire
degli strani bagliori, dei punti luminosi, delle linee di fuoco, o dei
circoli, o dei gruppi, i quali diventano rapidamente più brillanti.

Vanno, vengono, si agitano, si raggruppano, formando degli strani
disegni o si sciolgono: qua sono bagliori d’un rosa pallido, più oltre
d’un azzurro brillante, o rossi o giallognoli. A poco a poco coprono il
mare, le luci si fondono, le acque s’impregnano di quei bagliori e pare
che giù, nei profondi e misteriosi baratri dell’oceano, splenda una
luna, o una lampada elettrica d’una potenza incalcolabile.

Chi sono i produttori di quella luce? Dei molluschi gelatinosi, senza
consistenza, che sembrano per lo più ombrelli stravaganti forniti di
certe code ancora più strane, di tentacoli lisci o piumati o coperti di
ventose o pesci che sembrerebbero muniti di lanterne.

Si chiamano anemoni alcuni di quei molluschi, altri pelagie, ed i pesci
fosforescenti _scopelus, ergyropeletas, chauliodas_, ecc.

Ma una fosforescenza ancora più meravigliosa è quella prodotta dalle
nottiluche, molluschi piccolissimi, invisibili per lo più, aventi la
forma d’una pesca, con un’appendice mobile, rivestita d’una membrana
resistente. Salgono alla superficie a milioni e milioni e saturano le
acque.

Non si sa ancora se quei piccolissimi organismi siano di natura animale
o vegetale; si sa solo che la loro fosforescenza è dovuta ad una
sostanza particolare che ricopre il loro corpo e che pare s’accenda
contraendosi.

Comunque sia, quale spettacolo offre l’oceano, quando è invaso da
queste nottiluche!... La superficie scintilla come se fosse sparsa
da migliaia di pagliuzze d’argento o come se sotto di essa scorrano
getti di metallo liquefatto, di ferro, di oro, d’argento o di zolfo
fiammeggiante.

Gettate in mare un oggetto qualsiasi e vedrete sprizzare delle
scintille o che sembrano tali; spingete la nave attraverso a quel mare,
ed a prua, a babordo, a tribordo vedete balenare lampi luminosi, o
scorrere qua e là ondate di punti luccicanti, mentre a poppa si estende
una striscia che pare fiammeggiante e che si conserva a lungo.

Ma il fenomeno è più ammirabile quando il mare è agitato. Allora sono
le onde che diventano luminose; pare che non siano più d’acqua, ma di
fosforo liquefatto.

Ogni volta che si urtano, quei bagliori diventano più intensi, salgono,
scendono, si mescolano confusamente, intrecciando linee d’oro e
d’argento, e la spuma che rimbalza è pure luminosa. Se poi si frangono
contro una costa ripida o contro una scogliera, sembra allora che
intorno a quella terra o quelle rocce avvampi un incendio e s’alza una
specie di nebbia luccicante, d’un effetto sorprendente, meraviglioso.

Tale era il fenomeno che aveva cotanto sorpresi i naufraghi della
giunca. Wan-Stael, per la grande distanza, non si era subito accorto
di cosa si trattava, ma ora che la scialuppa era vicino non poteva più
ingannarsi.

Le onde fosforescenti, rompendosi con furia incredibile contro la costa
segnalata, scagliavano in alto la schiuma satura di quei microscopici
organismi fosforescenti, ed il vento, mantenendola per qualche istante
sollevata, la faceva splendere come una nebbia luminosa.

— È mirabile quella fosforescenza! esclamò Cornelio. Non ne ho mai
veduto una così intensa.

— Ed è doppiamente superba con questa tempesta, disse il capitano.
Ringraziamo queste nottiluche che ci hanno fatto scorgere a tempo la
costa australiana. Lu-Hang, preparati a far cadere la vela.

— Sperate di trovare un rifugio sotto la costa, signor Stael? chiese
Wan-Horn.

— Lo spero, ma non posso essere certo. Io non so dove l’uragano ci ha
spinti.

— Fuori del golfo, no di certo.

— Dio non lo voglia! Piuttosto di trovarmi nello stretto di Torres con
questo tempaccio, preferirei cadere in mezzo ad una scogliera deserta.

— E credo che ci troviamo presso una scogliera deserta, signor Stael,
disse Wan-Horn, che si era bruscamente alzato.

— Non è la costa australiana quella che sta dinanzi a noi?

— No, è una lunga linea di frangenti.

— Non t’inganni, Horn? chiese il capitano con ansietà.

— No, li ho veduti al chiarore d’un lampo, mentre voi discorrevate col
signor Cornelio.

— Saremo adunque costretti a virare al largo e riprendere la lotta
colla tempesta?

— No, capitano: forse là troveremo un rifugio migliore di quello che
può offrire una baia della costa australiana. Se non mi sono ingannato,
io ho veduto un _atollo_ e anche degli alberi.

— Aperto?...

— Sì, ho scorto un canale aperto attraverso i coralli. Aspettiamo un
lampo, capitano.

— È un porto questo _atollo_? chiesero Hans e Cornelio.

— Ed è uno dei più sicuri, rispose il capitano. Se laggiù esiste,
vedrete di quali costruzioni sono capaci i coralli.

— Guardate!... gridò Wan-Horn.

Un lampo abbagliante illuminava il tempestoso golfo e la linea dei
frangenti contro la quale si sfasciavano le onde luminose.

— Avete veduto? chiese il marinaio.

— Sì, disse il capitano, respirando. In mezzo alla scogliera ho veduto
l’_atollo_ circondato d’alberi e anche il canale. Governa sempre dritto
colla prua all’est.

— Resisterà la scialuppa alle contro-ondate?

— Se non è andata a picco fra queste enormi onde, supererà
vittoriosamente anche quelle. Cornelio, apri bene gli occhi; vi possono
essere delle scogliere dinanzi all’_atollo_.

— Le onde luminose ce le mostreranno, zio mio.

La scialuppa spinta dal vento e portata dalle onde che correvano verso
i frangenti, s’avvicinava rapidamente all’atollo segnalato, che la
nebbia luminosa, prodotta dal polverizzarsi dei flutti, rendeva ormai
visibile.

In breve si trovò in mezzo a quella splendida fosforescenza. Le onde
scintillavano come se fossero sature di pagliuzze d’argento o di zolfo
liquefatto, spruzzando i naufraghi di quei microscopici molluschi i
quali rilucevano, per qualche tempo, anche fuori dell’acqua.

La scia della scialuppa spiccava nettamente in mezzo alla cupa notte
e pareva che fiammeggiasse attraverso alle ondate, indicando la rotta
percorsa.

Il capitano e Cornelio, curvi sulla prua, mentre Hans ed il pescatore
stavano alla vela, esaminavano attentamente le acque per non
urtare contro qualche scogliera a fior d’acqua, la quale avrebbe
infallantemente sfasciata di colpo la debole imbarcazione.

L’_atollo_ non era più che a tre o quattrocento passi. Era una specie
d’isolotto circolare che misurava una circonferenza di forse un quarto
di miglia, ma quale bizzarra forma!... Pareva un anello, largo trenta
o quaranta metri, basso assai, con un’apertura verso il sud-ovest, ma
assai stretto. Nell’interno si vedeva una specie di lago, le cui acque
erano pure fosforescenti.

Degli alberi, che la bufera incurvava furiosamente, si agitavano
intorno a quell’isolotto e si vedevano le onde a rompersi ai piedi dei
tronchi.

Al nord ed al sud, due file di scogliere si staccavano, prolungandosi
in quella direzione per parecchie miglia.

Il mare era tempestosissimo intorno a quell’isolotto ed ai frangenti.
Le onde si scagliavano con furia estrema contro quegli ostacoli, con
muggiti e scrosci spaventevoli, rompendosi, indietreggiando, ritornando
alla carica con maggior foga, ma senza vincerli.

— Attento al passo, Wan-Horn! gridò il capitano, che era diventato
pallido.

— Vi sono scogliere dinanzi? chiese il marinaio con voce leggermente
alterata.

— No.

— Speriamo di passare.

La scialuppa, sollevata da un’onda mostruosa, fu scagliata innanzi,
verso il canale. S’immerse in un nembo di spuma, parve che tutto
d’un colpo s’inabissasse, ma un’altra onda la sollevò e la spinse più
innanzi.

— Governa dritto, Horn! gridò il capitano.

Erano ormai entrati nel canale dell’_atollo_; l’attraversarono in un
lampo e si trovarono nel piccolo mare interno dell’isolotto.

— Giù la vela! comandò Wan-Stael.

Hans ed il chinese la fecero cadere, mentre Wan-Horn cacciava la barra
all’orza, spingendo la scialuppa verso la sponda interna dell’_atollo_.
Quale tranquillità in quel bacino riparato tutto all’ingiro dalla
corona di scogli o meglio da quel cerchio di roccie corallifere che non
dava passaggio alle onde!... Mentre al di fuori l’uragano imperversava
con tremendi ruggiti e le onde si sfasciavano con furore estremo, quel
laghetto era assolutamente calmo, e la sua superficie, scintillante per
la fosforescenza, appena s’increspava.

— Ma dove siamo noi? chiesero Hans e Cornelio.

— In un porto sicuro, entro il quale possiamo sfidare i più tremendi
uragani, rispose il capitano.

— Ma che isola è questa?

— Chi può dirlo? Io non so dove ci troviamo e per ora non mi curo di
saperlo.

— Ma è meravigliosa, zio! esclamò Cornelio. Io non ne ho mai veduta una
simile.

— Pure nell’Oceano Pacifico sono numerose e ve ne sono di quelle che
sono perfettamente circolari e senza passaggi.

— Con un piccolo mare interno?

— Sì, Cornelio.

— Sono veri anelli di roccia.

— Non di roccia, di corallo, poichè le isole aventi quelle strane forme
sono state costruite dai polipi.

— Ma in qual modo? Io so che i polipi coralliferi dell’Oceano Pacifico
costruiscono delle scogliere e anche degli isolotti, ma non comprendo
come possano dare a taluni queste forme circolari con un mare interno.

— La spiegazione è facile, Cornelio. Nell’Oceano Pacifico si trovano
molti vulcani spenti, sommersi da tempi certamente antichissimi, forse
nell’epoca preistorica, quando la crosta terrestre non si era ancora
interamente solidificata.

Taluni di questi vulcani spingono le loro vette fino a poche decine
di metri dalla superficie dell’oceano. I polipi coralliferi un giorno
occupano quelle sommità e cominciano le loro costruzioni, innalzandosi
gradatamente.

Come tu sai, i vulcani hanno un cratere più o meno circolare e nel
loro interno sono vuoti. I polipi costruendo solamente sui margini,
conservano pure la forma circolare e formano queste bizzarre isole alle
quali fu dato il nome di _atolli_.

Alcuni cratèri però, conservano sui loro margini qualche profonda
spaccatura e non potendo i polipi coralliferi sopportare delle
pressioni troppo enormi, costruiscono solamente là dove possono vivere,
lasciando la spaccatura anche nell’isolotto. Ecco il motivo per cui
alcuni _atolli_, come il nostro, hanno un canale.

— Sono robuste le costruzioni dei polipi?

— Più resistenti delle rocce di porfido, di granito o di quarzo. È
un fenomeno meraviglioso, Cornelio, incredibile!... Eppure quegli
esseri infinitamente piccoli, molli, gelatinosi elevano delle barriere
che i flutti non possono nè distruggere nè atterrare. Togliendo essi
alle onde spumose, uno ad uno, gli atomi di carbonato di calce per
trasformarli in materiali di costruzione, formano delle rocce che
sfidano le più tremende tempeste.

— Non riescono ad abbatterle gli uragani? Mi pare impossibile.

— I marosi, è vero, battendo continuamente contro il corallo e le
madrepore, qua e là le demoliscono, ma quelle distruzioni passeggiere
sono un nulla in confronto all’operosità di quei miliardi di architetti
sempre in lavoro di giorno, di notte, per anni, per secoli. — Sono
moltissime le isole costruite da quei meravigliosi zoofiti?

— Si calcola che la superficie di tutte ascenda complessivamente a
circa duemilacinquecento leghe quadrate.

— Non sono molte, zio. Io credevo che quasi tutte le isole dell’Oceano
Pacifico posassero sui coralli.

— Un tempo lo si credeva, ma oggi si è constatato che gli zoofiti
costruttori non possono vivere a soverchia profondità. Si diceva che si
radunavano anche in luoghi assai profondi e che là cominciavano le loro
costruzioni innalzandosi gradatamente verso la superficie dell’oceano,
mentre non possono vivere oltre i dodici od i quindici metri sotto le
onde.

— Dunque non è esatto quello che si disse da taluni....

— Vuoi dire?

— Che gli zoofiti, continuando le loro costruzioni, possano un giorno
riunire tutte le isole disseminate sull’Oceano Pacifico.

— È una frottola, Cornelio, poichè, come ti dissi, gli zoofiti
cominciano a costruire sulla cima dei monti o dei vulcani sottomarini.

— Vi sono adunque moltissimi monti e vulcani sottomarini, nell’Oceano
Pacifico.

— È vero, Cornelio, ed è per questo che sono numerose le costruzioni
corallifere.

— E perchè il Pacifico ha tanti monti sottomarini?

— Unicamente perchè in queste regioni le oscillazioni della crosta
terrestre furono meno forti e meno numerose che nelle contrade ove le
terre erano più compatte ed estese; quindi non avvennero sollevazioni
potenti ed i monti non poterono spingersi fuori dell’acqua.

Infatti, rarissime sono le isole madreporiche sollevatesi nell’Oceano
Pacifico, e ciò indica la grande quiete ch’ebbe questa parte del nostro
globo. Se fossero avvenuti, come altrove, dei potenti sollevamenti,
oltre all’Australia esisterebbero altri continenti od altre grandi
isole.

— Qualche isola fu però sollevata?

— Sì, quella di Tonga-Tabù, per esempio, il cui corallo apparisce
ondulato all’altezza di parecchie centinaia di piedi dal livello del
mare.

— Non possono essere stati gli zoofiti a costruirlo fino a tale altezza?

— No, Cornelio, poichè le isole costruite da loro si arrestano a fior
d’acqua, non potendo, quei piccoli costruttori, vivere fuori dal loro
elemento. Basta, curioso: approfittiamo della tranquillità che regna
in questo _atollo_ e cerchiamo di dormire qualche ora. Abbiamo bisogno
d’un po’ di riposo.




CAPO XII.

Lo stretto di Torres


L’uragano non cessò d’infuriare durante il resto della notte. Un vento
tremendo che spirava dal sud, caldo come se uscisse da un immenso forno
acceso o come fosse prima passato sopra un deserto infuocato, soffiò
continuamente sopra il golfo di Carpentaria, torcendo, come se fossero
fuscelli di paglia, gli alberi che crescevano attorno all’isolotto
corallifero.

Il tuono non cessò un solo istante e le onde batterono tutta la notte,
con crescente furore, la scogliera, frangendovisi contro con muggiti
assordanti, formidabili, ma senza scuotere quelle salde costruzioni.

I naufraghi della _giunca_, che ormai se ne ridevano dei furori della
natura sconvolta, dormirono placidamente nella loro scialuppa, sotto
una grande tela cerata e la vela, che li proteggevano dalla pioggia e
dagli spruzzi delle onde.

Non si svegliarono che dopo le 9 del mattino, nel momento in cui la
tempesta perdeva rapidamente la sua forza.

Le nubi sparivano verso il nord, in direzione dello stretto di Torres
e della Nuova Guinea o Papuasia, spinte innanzi dalle ultime raffiche,
ed uno splendido sole brillava verso la costa australiana, indorando
le onde del golfo di Carpentaria, le quali però non si erano ancora
calmate.

Fra gli alberi di cocco che crescevano sull’isola, battaglioni di
pappagalluzzi verdi e rossi, di _loris_ colle penne cremisine e le gole
nere e di piccoli _pardalotus_ colle penne grigie striate di giallo,
cinguettavano o chiacchieravano allegramente, salutando il sole, mentre
alcune _bernicle jubate_, brutti e sgraziati volatili, grossi come
piccioni, con un collo lungo e sottile, le piume nere e bianche e le
zampe palmate, volavano agilmente sulle onde o sopra le scogliere,
cercando i granchi ed i pesciolini.

— Zio mio! esclamò Hans, che si era arrampicato sull’isolotto. T’invito
a colazione.

— Hai trovato qualche animale?... Io lo dubito, non vedendo che degli
uccelli.

— Vedo delle noci di cocco che ci daranno un latte delizioso.

— Che non rifiuteremo, Hans. Prendi una scure, vecchio Horn e andiamo a
far cadere qualche noce.

— Ve ne sono però poche assai, signor Stael, disse il marinaio. Che
degli australiani siano venuti qui a raccoglierle?

— No, le avranno mangiate i granchi ladri; vedo qui una noce vuota
e semi spezzata e le traccie di quei crostacei impresse su questa
leggiera sabbia.

— To’! esclamò Hans. Vi sono dei granchi che mangiano le noci di cocco?

— Sì, ragazzo mio, e come sono ghiotti!... Sono granchi giganteschi,
armati di morse potenti e quando scoprono degli alberi di cocco,
s’affrettano ad arrampicarsi sui tronchi ed a far cadere le noci.

— Ma come fanno a romperle, se sono così solide da sfidare una scure?

— Introducono una delle loro morse nel così detto _occhio_
della scorza, e girando intorno aprono un foro. Se non basta, lo
ingrandiscono e vuotano il contenuto delle noci.

— E si mangiano quei granchi?

— Sono squisiti e mi dispiace di non trovarne uno da offrirti a
colazione. Guarda però attentamente fra i rami degli alberi, poichè
quei crostacei hanno l’abitudine, durante il giorno, di dormire fra le
foglie sospesi alle loro zampe.

— Aprirò bene gli occhi, zio mio.

Le sue ricerche furono senza risultato però, poichè nessun granchio
ladro si trovava sull’isolotto. Però dieci o dodici noci furono
scoperte, e fatte cadere a terra e spaccate a colpi di scure.

Non essendo però mature, non diedero che dell’acqua dolce e assai
fresca e un po’ di quella polpa biancastra, delicatissima, che somiglia
alla crema. Cornelio e Hans si rifecero cogli uccelli, abbattendo una
dozzina di pappagalluzzi ed anche una _bernicla jubata_, che avevano
sorpresa presso la sponda interna dell’_atollo_.

La colazione quindi non mancò, anzi fu deliziosissima e tutti i
naufraghi fecero molto onore all’arrosto, sapientemente cucinato dai
giovani cacciatori.

Dopo il mezzodì, il capitano diede il segnale della partenza.

L’uragano era cessato e le onde a poco a poco si spianavano e non
erano più pericolose. Fermarsi ancora su quel deserto isolotto, privo
d’acqua dolce, non era il caso, trovandosi in mezzo ad un golfo di rado
visitato dalle navi.

Urgeva invece raggiungere lo stretto di Torres e la Nuova Guinea,
per guadagnare il mare delle Molucche prima che i viveri venissero a
mancare o che scoppiasse qualche nuovo e più tremendo uragano.

Spiegarono la vela, attraversarono il canale ed uscirono in mare
mettendo la prua verso il nord-nord-ovest, per tenersi lontani da quei
pericolosi gruppi d’isole che si estendono nello stretto di Torres e
che sono popolati da selvaggi voracissimi di carne bianca.

Il vento, che frescava dal sud-est, favoriva la rotta della scialuppa,
la quale sormontava agilmente le ondate del golfo, procedendo con una
velocità media di cinque a sei nodi all’ora.

Nessuna nave appariva in alcuna direzione e nessuna isola. Solamente
l’_atollo_ e le sue scogliere emergevano, distendendosi per tre quarti
di miglio dal nord al sud.

Non mancavano invece i pesci. Gran numero di velieri, chiamati con tale
bizzarro nome per la loro natatoia dorsale che spiegano sopra l’acqua
e che permette a loro di raccogliere il vento come fossero muniti
d’una vela, sfilavano verso il nord-nord-ovest, mostrando di quando in
quando il loro corno osseo, arma formidabile della quale si servono fin
troppo. Somigliano ai pesci-spada, ma il loro corno non è piatto, ma
rotondo. Raggiungono dimensioni straordinarie poichè taluni misurano
perfino dodici piedi di lunghezza, ossia quattro metri.

Nemici spietati di tutti i grandi pesci, non temono di assalire le
balene ed i pesci-cani, ferendoli a morte colla loro arma e se ne sono
veduti taluni scagliarsi perfino contro le navi.

Si vedevano pure, guizzare fra le acque, anche numerose murene,
le quali in quei mari raggiungono delle dimensioni notevoli, e
lasciarsi dolcemente cullare moltissime meduse, stravaganti molluschi,
somiglianti a borse rivolte in basso e munite di tentacoli. Alcune
erano grandissime e Cornelio ne scoprì una che doveva pesare una
ventina e più di chilogrammi.

— Non ne ho mai veduta una di così grande, disse il giovanotto. Ha la
dimensione di un ombrello.

— Ve ne sono anche di maggiori, disse il capitano e che di notte
splendono come se nella loro borsa contenessero una vera lampada
elettrica.

— Sono gelatinose, quelle meduse? chiese Hans.

— Estremamente gelatinose, tanto che non si possono conservarle. In
acqua tu le vedi così belle e gonfie, ma se tu le prendi ti rimane in
mano una specie di straccio incolore. Una medusa che in acqua pesa
dieci chilogrammi, fuori dal suo elemento non pesa più di cinquanta
grammi.

— E tu dici, zio, che si sono vedute di quelle grandi assai? chiese
Cornelio.

— Di quelle colossali. Quarant’anni fa, nei pressi di Bombay, il flusso
spinse sulla spiaggia una medusa che pesava due tonnellate ed era così
fosforescente, che dapprima fu creduta un pezzo di cometa.

Si dice che il suo splendore era tale, che anche dopo morta, per
parecchie notti illuminò la spiaggia a grande distanza.

— Se era così gigantesca, doveva avere dei tentacoli lunghissimi.

— Misuravano trenta metri ciascuno.

Mentre chiacchieravano, la scialuppa diretta dal vecchio marinaio, il
quale non abbandonava la barra del timone, continuava ad avanzarsi
nel golfo di Carpentaria, dirigendosi costantemente verso il
nord-nord-ovest. Il vento era ridiventato regolare e la spingeva
innanzi con crescente velocità, ma nessuna terra si scorgeva
all’orizzonte, quantunque i naufraghi aguzzassero continuamente gli
sguardi, sperando di scoprire le prime isole dello stretto di Torres o
le spiaggie australiane.

Non avendo potuto salvare gl’istrumenti necessari per avere la
latitudine e la longitudine, non potevano sapere esattamente
dove si trovavano, ma orizzontandosi con una piccola bussola che
avevano portato con loro, erano però certi di uscire dal golfo e di
raggiungere, presto o tardi, il mare delle Molucche.

La giornata trascorse senza che nulla di straordinario accadesse.
Nessuna nave, nessuna barca era apparsa sull’orizzonte e nessuna terra
era stata veduta.

Calate le tenebre, come la notte precedente, il mare si illuminò. Una
splendida fosforescenza avveniva sotto le onde, ma prodotta dalle così
dette _nottiluche miliari_, secondo l’opinione del capitano.

Questi infusori sono pure piccolissimi, in forma di foglie un po’
arrotondate, con un picciuolo piccolo, ma splendono assai. Raccogliendo
una bottiglia d’acqua satura di questi piccoli esseri, scintilla e dà
una luce sufficiente da permettere di leggere un libro ad un metro di
distanza.

Quantunque non più nuovo, Hans e Cornelio ammiravano quello spettacolo
sorprendente e immergevano le mani in acqua per ritirarle coperte di
punti luminosi.

A mezzanotte però la fosforescenza scomparve e il mare diventò buio
come se fosse coperto di catrame.

Alle due, mentre il capitano ed il chinese davano il cambio a Wan-Horn,
ad Hans ed a Cornelio, scorsero verso l’ovest, ma ad una grande
distanza, un punto luminoso che pareva brillasse a fior d’acqua.

— Che sia il fanale di qualche nave? chiese Wan-Horn.

— Mi sembra troppo basso, disse il capitano, che lo osservava con
profonda attenzione.

— Che sia acceso su qualche barca di selvaggi?

— O su qualche isola? Mi sembra un fuoco fisso, vecchio mio.

— Che abbiamo già passato il golfo di Carpentaria?

— Non sarei sorpreso. In queste trentasei ore abbiamo percorsa molta
via, specialmente durante la burrasca.

— Allora quel punto luminoso può essere il fanale di qualche nave. Voi
sapete che alcune, per evitare il giro dell’Australia, s’avventurano
attraverso i bassifondi dello Stretto di Torres.

— Lo so, Horn, ma io ti dico che non è un fanale, ne sono certo.
To’!... guarda, vedo un altro punto luminoso più al nord e mi pare che
muova incontro al primo.

— Allora sono barche montate da selvaggi.

— Lo temo.

— Brutto incontro, capitano. Se all’alba ci scorgono, ci daranno la
caccia.

— Che siano australiani? chiese Cornelio.

— Gli australiani non sono marinai e non posseggono barche, disse il
capitano. Gl’isolani dello stretto di Torres e sopratutto i papuasi, ne
hanno molte e assai bene attrezzate. Talvolta intraprendono perfino dei
lunghi viaggi.

— Senza bussola?

— È un oggetto sconosciuto per loro, ma sanno dirigersi egualmente
e senza tema di smarrirsi. Si regolano colle stelle e col sole o
posseggono un istinto meraviglioso come gli uccelli emigranti? Ecco
quello che s’ignora.

— Sono cattivi, gl’isolani dello Stretto?

— Perfidi, Cornelio, e coraggiosi.

— Anche i papuasi?

— Vi sono alcune tribù che non sono più selvagge, avendo avuto
frequenti contatti coi nostri compatriotti che visitano sovente il
porto di Dorj per acquistare gusci di tartarughe, _trepangs_, uccelli
del paradiso, nidi di salangana, ecc., ma tutte le altre non godono
buona fama, ed alcune dell’interno sono antropofaghe.

— La nostra situazione adunque non è migliorata.

— Abbiamo i nostri fucili e sapremo difenderci. Andate a riposarvi e
non temete; non perderò di vista quei due punti luminosi.

Il vecchio marinaio ed i giovanotti si stesero in fondo alla scialuppa,
su di una coperta di lana, ed il capitano si sedette a poppa, alla
barra del timone, mentre il pescatore si sedeva presso la scotta della
vela.

I due punti luminosi brillavano sempre sull’oscuro orizzonte,
quantunque la scialuppa procedesse rapidamente. Pareva che si
dirigessero anch’essi verso il nord, seguendo i naufraghi.

Il capitano cominciava a diventare inquieto. Sentiva per istinto che
dovevano essere non già due navi, ma due barche e forse montate da
pericolosi isolani.

Le seguiva attentamente cogli sguardi, per vedere se s’avvicinavano,
temendo un improvviso abbordaggio, e dal chinese aveva fatto preparare
le armi, per essere pronti alla difesa; ma la distanza non scemava,
anzi sembrava che a poco a poco aumentasse, poichè diventavano sempre
meno distinti.

Verso le tre uno di quei punti si spense, ma l’altro continuava a
scintillare fra le tenebre e pareva che ora tendesse ad avvicinarsi.

— Odi nulla? chiese il capitano al chinese.

— No, signore, ma il fanale mi pare che voglia passarci a poppa.

— È vero, ragazzo mio. Ah! se non facesse tanto oscuro!.. Ma forse è
meglio per noi, poichè non dev’essere il fanale di una nave.

Alle 4 il punto luminoso, che aveva cambiata rotta, passava infatti a
poppa della scialuppa, ma ad una distanza di almeno sei o sette miglia,
dirigendosi verso l’est.

Mezz’ora dopo il sole spuntava sull’orizzonte e verso il nord apparvero
delle lontane montagne che si ergevano ad una grande altezza e verso
l’ovest parecchie isole e gruppi di scogliere.

Il capitano si rizzò di colpo.

— Lo stretto di Torres! esclamò. Horn, Cornelio, Hans, in piedi!... Il
golfo di Carpentaria è stato attraversato!...




CAPO XIII.

I Pirati della Papuasia


Lo stretto di Torres, che separa la grande isola di Nuova Guinea o
Papuasia e l’estrema punta del continente australiano chiamata Terra di
Torres o di Carpentaria, è uno dei passi più pericolosi e più difficili
che esistano.

Scoperto dagli spagnuoli Ortiz de Rez e Bernardo della Torre nel 1545,
per molti anni fu quasi dimenticato in causa dei gravi ostacoli che
presentava, e anche oggidì è assai poco frequentato, quantunque si
posseggano delle ottime carte topografiche, eseguite per cura del
governo inglese e delle colonie australiane.

È lungo solamente trentaquattro leghe, ma quante fatiche costa
la sua traversata! È una successione continua di bassifondi che
cambiano troppo spesso di posto in causa delle correnti; una selva
di scogliere madreporiche che gli zooliti sempre più allargano e che
spingono gradatamente a fior d’acqua; un caos d’isolotti e d’isole
che intralciano la navigazione non solo ai velieri, ma bensì anche
ai piroscafi. Oltre a ciò, gli abitanti di quelle terre godono una
fama tristissima e non temono d’assalire le navi che si arenano o che
si fracassano su quei banchi e su quelle scogliere, e disgraziati i
marinai che naufragano vivi!... Uno spiedo o un pentolone li attendono!

Molti sono gli equipaggi che caddero sotto i denti di quegli
antropofaghi, e si ricordano ancora quelli delle due navi il
_Chesterfied_ e l’_Hormuzier_, che nel 1793 furono divorati dagli
isolani di Mua e di Warmwasc.

Quelle isole sono quasi tutte piccole, ma assai popolate. Formano
un arcipelago conosciuto sotto il nome di Principe di Galles, e le
principali terre sono: Mua o Murray che è la più grande, Rennell,
Warmwasc, Bristan, Dalrymple, Retam, Cornwallis, Talberet e Delinance.

Gli abitanti, che pare appartengano ad un incrocio di papuasi e di
polinesiani, sono in generale di statura alta, ben fatti, colla fronte
larga, il naso regolare, la capigliatura cresputa che amano tingersi di
rosso, la pelle assai oscura e sono assai bellicosi.

Usano portare al collo delle mezzelune di madreperla e monili di ossa
ed agli orecchi scagliette di tartaruga incastrate nei lobi, i quali
sono tagliati in due.

Valenti marinai al pari dei papuasi della costa e dei polinesiani,
posseggono delle barche lunghe oltre venti piedi, con vele di vimini o
di foglie intrecciate, e scorrazzano lo stretto assalendo ora le tribù
della costa australiana o quelle della Nuova Guinea, per procurarsi dei
prigionieri che poi divorano.

Udendo il capitano a gridare: Lo stretto di Torres!... il vecchio
marinaio, Cornelio e Hans erano balzati in piedi.

— Di già! esclamò Cornelio. Abbiamo filato colla rapidità d’un veliero!
Ma dov’è la costa australiana?

— Vedo laggiù, alla nostra destra, una specie di nebbia, disse
Wan-Stael. Deve essere la terra di Carpentaria.

— E quei monti che si ergono dinanzi a noi?

— Appartengono alla nuova Guinea.

— Ha dei monti alti, quella grande isola?

— Ha delle catene colossali, Cornelio, e delle montagne immense, che
sono coperte di neve per la maggior parte dell’anno. Si dice che alcune
misurino perfino 6000 metri di altezza ed anche 6500.

— Siamo lontani da quell’isola?

— Forse quaranta miglia.

— Non la raggiungeremo?

— Le coste meridionali sono poco note, Cornelio, ed i loro abitanti
sono quasi tutti pirati. Cercheremo invece di raggiungere le isole
Arrù, che si trovano all’entrata del Mar delle Molucche e dove spero di
trovare dei pescatori di _trepang_ olandesi.

— Ohe!... ohe!... esclamò in quell’istante Wan-Horn. Noi chiacchieriamo
mentre un brutto uccello da preda, anzi due, stanno per darci la
caccia.

— Cosa vuol dire, vecchio Horn? chiese il capitano.

— Che fra poco saremo costretti a far tuonare i fucili, se non troviamo
un rifugio. Non vedete a poppa due barche che eseguiscono una manovra
sospetta, signor Wan-Stael?

Il capitano si volse verso il sud e fece un gesto di stizza.

— Ecco cos’erano i fanali che abbiamo scorti! esclamò. Altro che
navi!... Sono due uccelli da preda e forse assai pericolosi.

Infatti a sette od otto miglia verso il sud, si scorgevano non già
due uccelli, ma due imbarcazioni, le quali procedevano di conserva,
seguendo la stessa rotta della scialuppa.

Non ci voleva molto a riconoscerle per due imbarcazioni d’isolani,
essendo ben diverse da quelle che usano gli uomini bianchi. Ognuna era
formata da due grandi piroghe scavate in tronchi d’albero, lunghe oltre
dodici metri, riunite con una specie di ponte e munite, ai lati, di due
bilancieri di bambù per impedire alle onde di rovesciarle.

Portavano entrambe una vela triangolare, di grandi dimensioni,
fabbricata con vimini strettamente intrecciati, e sul ponte si vedevano
parecchi uomini semi-nudi, colla pelle assai nera.

— Sono papuasi, se non m’inganno, disse il capitano. Brutti compagni,
amici miei.

— Che siano pirati? chiese Wan-Horn.

— Lo temo, vecchio mio, e mi pare che cerchino di raggiungerci.

— Che siano molti, quegli uomini? chiese Cornelio.

— Una quarantina per lo meno, disse il capitano.

— Posseggono armi da fuoco i papuasi?

— No, ma hanno delle freccie avvelenate col succo dell’upas e che
lanciano colle cerbottane, delle zagaglie e certe sciabole pesanti
chiamate _parangs_, che con un sol colpo decapitano una persona.

— Non c’è da scherzare con quei selvaggi.

— C’è da temere, Cornelio, e faremo bene a fuggire.

— Ma dove? Ci raggiungeranno, signor Stael, disse Wan-Horn. Con quelle
grandi vele devono filare più di noi.

— Ci getteremo verso la costa.

— Su quella delle isole dello stretto?

— Sei pazzo, vecchio mio!... Quegli abitanti sono peggiori dei papuasi
e ci daranno subito addosso.

— Allora su quella della Nuova Guinea?

— Sì, Horn, e cerchiamo di non perdere tempo. Mi pare che quelle
scialuppe guadagnino su di noi e se non ci affrettiamo fra un paio
d’ore saranno qui.

— Cosa dobbiamo fare? chiesero Hans e Cornelio.

— Spiegare più tela che possiamo. Alzeremo un remo a prua ed un altro
a poppa e spiegheremo la tela cerata ed una delle nostre coperte.
Affrettiamoci, ragazzi miei.

Il chinese, Hans e Cornelio, aiutati dal vecchio marinaio, si misero
tosto all’opera. Avendo portato con loro delle funi, alzarono a prua ed
a poppa della scialuppa due remi che legarono saldamente alle banchine,
ne spezzarono un terzo onde servisse da pennoni e spiegarono la tela
cerata ed una coperta, legando i due angoli inferiori ai bordi della
scialuppa.

Il vento che soffiava dal sud e molto fresco, ben presto fece
raddoppiare la corsa dell’imbarcazione, la quale scendeva e saliva le
larghe ondate dello stretto di Torres.

Parve che i selvaggi s’accorgessero di ciò, poichè in lontananza
s’udirono delle grida, e poco dopo sulle due scialuppe accoppiate si
videro spiegare altre due piccole vele triangolari e si videro dei remi
che battevano febbrilmente le acque.

— Ve lo dicevo io, che quei furfanti si preparavano a darci la
caccia!... esclamò Wan-Horn. Se non avessero delle cattive intenzioni,
non cercherebbero di affrettare la loro corsa.

— Speriamo di giungere sulle coste della Nuova Guinea prima che ci
siano addosso, disse il capitano. Se il vento non cede, fra quattro ore
noi saremo a terra.

— Ma perderemo la scialuppa, disse Cornelio.

— Troveremo qualche fiume, nipote mio e lo saliremo.

— Ma anche quei pirati lo saliranno.

— Ma nascosti in mezzo ai boschi, ci sarà facile respingerli a colpi di
fucile.

— E non troveremo qualche tribù ostile a terra?

— La Nuova Guinea è grande, Cornelio, e la sua popolazione è scarsa e
quindi le tribù non si trovano dappertutto. Guadagnano, Horn?

— Non mi pare, rispose il marinaio, che non perdeva di vista le
piroghe. Arrancano disperatamente, ma la distanza non scema, per ora.

— Attenti alle vele, voi, e lasciate a me la cura di dirigere la
scialuppa.

I papuasi, che miravano a raggiungere i fuggiaschi per farli
prigionieri o forse per saccheggiarli, facevano sforzi disperati per
guadagnar via. Si vedevano i remi agitarsi rapidamente per aiutare le
vele, e far spruzzare l’acqua assai alta, ma non s’avvicinavano che
assai lentamente, filando la scialuppa otto e forse nove nodi all’ora.

Di tratto in tratto si udivano le loro grida, che il vento portava
agli orecchi dei naufraghi e parevano intimazioni di arrestarsi, ma pel
momento nessuno si occupava delle loro minaccie.

I monti della grande isola diventavano di minuto in minuto più distinti
e anche la costa cominciava a delinearsi confusamente verso il nord,
estendendosi dall’est all’ovest.

Alle nove del mattino la scialuppa non era che a venticinque miglia,
ma il vento, che fino allora s’era mantenuto molto fresco, accennava a
scemare.

Il capitano e Wan-Horn cominciavano a diventare inquieti, perchè se
il vento veniva a mancare, non potevano gareggiare colle piroghe,
che avevano un equipaggio quattro volte più numeroso ed abituato fino
dall’infanzia alla manovra del remo.

Una piroga era già assai innanzi e non distava che quattro miglia.
L’altra invece, che doveva essere una cattiva veliera, era rimasta
molto più indietro, ma continuava vigorosamente la caccia.

Senza dubbio quegli astuti selvaggi si erano accorti delle intenzioni
dei naufraghi e si sforzavano di raggiungerli prima che toccassero le
spiagge della grande isola.

— Ah! esclamò il capitano. Se avessi ancora la spingarda non si
avvicinerebbero di certo, quei birboni! Ma non disperiamo e teniamoci
pronti a far tuonare i fucili.

Alle dieci la costa era ancora lontana dodici o tredici miglia,
continuando il vento a scemare. Si scorgevano già gli alberi che la
coprivano, e verso l’est una profonda baia, ma che poteva anche essere
la foce d’un fiume.

La prima piroga era assai vicina e continuava a guadagnare, essendo
spinta innanzi da venti remi vigorosamente manovrati. Ormai la si
scorgeva perfettamente, senza bisogno di cannocchiali.

Quantunque quel piccolo veliero fosse stato costruito da selvaggi
malamente provvisti d’armi taglienti, era veramente ammirabile.

Come si disse, consisteva in due scialuppe accoppiate, formate da due
grandi tronchi di cedro scavati con molta cura, lunghi dieci metri,
armati a prua d’una specie di sperone pazientemente scolpito e colla
poppa assai alta, che si prolungava come una specie di scala, simile ad
un affusto degli antichi pezzi d’artiglieria.

Una specie di ponte li riuniva, coperto da una piccola tettoia di
foglie sostenuta da una leggiera armatura, ed a prua ed a poppa si
rizzavano due bizzarri alberi formati ognuno da tre bambù uniti alla
cima ed allargati alla base, ma senza antenne, senza sartie, senza
paterazzi, sprovviste insomma di qualunque corda.

Non erano del resto necessarie, poichè le vele dei marinai papuasi non
si spiegano dall’alto in basso, ma dal basso in alto, e per eseguire
questa manovra facile basta una sola corda sulla cima dell’albero.

Quelle vele sono costruite con nervature di foglie intrecciate con
una specie di lanugine che si raccoglie sugli alberi sagù e misurano
sei metri in lunghezza e due in larghezza ordinariamente, ma sono
usate anche quelle di forma triangolare. Se il vento manca, si tengono
arrotolate ai piedi degli alberi, se soffia si issano fino alla metà o
fino alla cima, a seconda della violenza delle raffiche.

Un lungo remo che serve da timone ed un bilanciere formato da una
tavola larga che poggia sull’acqua, trattenuta da bambù e che si mette
a babordo ed a tribordo, completano quei piccoli velieri.

Sul ponte della piroga più vicina si distinguevano alcuni uomini
occupati nella manovra delle due vele e parecchi altri seduti nelle due
imbarcazioni, i quali arrancavano con sovrumana energia.

Di quando in quando si udiva una voce che gridava: _miro!... miro!_...
ma il capitano si guardava bene dal prestarvi fede. Quelle parole di
“pace! pace!„ suonavano troppo male in bocca a quei selvaggi, i quali
parevano pronti a piombare addosso alla scialuppa colle armi in mano.

Invece di fermarsi, il capitano, Cornelio, Horn ed il chinese avevano
afferrati i remi ed arrancavano furiosamente. Hans si era messo alla
barra del timone.

Alle undici, solo tre miglia separavano i naufraghi dalle coste della
Nuova Guinea, ma la prima piroga non distava che ottocento metri e la
seconda millecinquecento.

— Vedo un fiume! esclamò Hans.

— Dinanzi a noi? chiese il capitano, che non poteva scorgerlo, volgendo
le spalle alla costa.

— Sì, zio, proprio dinanzi a noi.

— Guida la scialuppa in quel corso d’acqua. È largo?

— Una cinquantina di metri.

— Lo saliremo e sbarcheremo nei boschi. Non perdiamo un colpo di remo,
amici miei; i papuasi si sono accorti delle nostre intenzioni.

— Zio, disse Cornelio, non sono che a quattrocento metri da noi.

— Cosa vuoi dire?

— Che posso mandare una palla a quei pirati.

— Lo farai più tardi; animo, arrancate!

La scialuppa, sotto la spinta di quei quattro remi vigorosamente
manovrati, fendeva impetuosamente le onde, anzi volava, ma anche il
veliero dei papuasi s’avanzava rapidamente e guadagnava sempre.

Fortunatamente la costa non era che a poche centinaia di metri. Si
distinguevano nettamente gli alberi di cocco, le arenghe saccarifere,
le palme, i fichi, le felci arborescenti, le sensitive giganti, gli
artocarpi, ecc. che coprivano le sponde, formando delle foreste quasi
impenetrabili.

— Uno sforzo ancora, gridò Hans.

La scialuppa, spinta innanzi da quell’ultimo e supremo sforzo, superò
la distanza, attraversò un banco di sabbia e si cacciò nella foce del
fiume, arenandosi presso un isolotto coperto d’un ammasso gigantesco di
paletuvieri, le così dette piante della febbre.

I naufraghi, abbandonati i remi, afferrarono i fucili, mentre la prima
piroga virava di bordo dinanzi al banco di sabbia.




CAPO XIV.

La Nuova Guinea


Quantunque la Nuova Guinea o Papuasia, sia una delle più grandi isole
del nostro globo, una delle più splendide e fors’anche una delle più
produttive e più atte alla colonizzazione[8], cosa davvero strana,
inesplicabile, è una delle meno note ed a tale punto, che anche
oggidì non si conoscono esattamente le sue coste, senza parlare poi
dell’interno che è stato visitato da pochissimi esploratori.

Magellano, Serrano, Gaetan, Villalobos, Mendana, Drake, Cavendisk,
Wan Noort, Quiros, Schouten, Hertoge, Edels, Witt, Pool, Tasman,
Dampier, Roggewin, Byron, Wallis, Carteret, Bougainville, Cook,
Surville, Lapérouse, Marshall, Gilbert, Baudin, Flinders, Dillon,
Dupetit, Thouars, ecc., che solcarono l’Oceano Pacifico in tutti i
sensi, alla scoperta di nuove isole e d’isolotti senza importanza, o
che rilevarono esattamente le coste del continente australiano, quasi
tutti trascurarono quella grande isola, ed è molto se si degnarono di
toccarla in qualche punto.

Due soli, due esploratori italiani, il Rienzi nel 1826 e ultimamente
il De Albertis, s’occuparono della Nuova Guinea, esplorando una parte
delle sue coste ed alcuni fiumi, malgrado le ostilità degli abitanti.

Quest’isola però, fu una delle prime scoperte, perchè il portoghese
Abron vi approdò fino nel 1511, poi fu visitata da Ortiz de Retz e
da Bernardo della Torre nel 1545 e da questi fu chiamata la Nuova
Guinea per essere direttamente opposta alla Guinea africana secondo
alcuni, e secondo altri perchè i suoi abitanti che hanno la pelle
nera, somigliavano agli africani; poi dal pirata Dampier nel 1669, che
impose il proprio nome ad un gruppo d’isole che si trova sulle coste
settentrionali ed a uno stretto, quindi da Bougainville nel 1768,
da Cook nel 1770 e da Entrecasteaux nel 1793, ma, come si disse, non
fecero altro che toccare quelle spiagge.

Gli olandesi però, tentarono di occupare qualche punto. Nel 1822
stabilirono una colonia sulle coste occidentali, ma l’abbandonarono
dopo sette anni; pure trafficano ancora con quegli isolani, e anche nel
1858 mandarono una spedizione col vapore Etna, occupando alcuni punti.

Comunque sia, quest’isola è la più vasta dell’Oceania, dopo il
continente australiano, e la sua superficie si calcola a 38.000 leghe
geometriche, con una lunghezza di quattrocento leghe e una massima
larghezza di centotrentotto.

Questa grande terra ha delle vaste baie che potrebbero ricevere
comodamente delle intere flotte, quale quella di Geelvinc ad occidente,
larga ben settanta leghe e profonda più di sessanta; quella di
Macluer che è assai stretta ma che s’interna nella terra per lungo
tratto; quella d’Huom sulla costa orientale, quella dell’Astrolabio
e di Humboldt al nord, il porto naturale di Dori nella penisola più
occidentale, molto frequentato dagli olandesi, dai malesi e dai cinesi,
sicurissimo, essendo protetto da due isolotti, poi la baia del Tritone,
poco lontana dal mar delle Molucche.

L’interno è poco noto, ma si sa che contiene delle grandi catene di
montagne, di cui alcune sono altissime. Quelle dell’Astrolabio spingono
le loro vette a milletrecento metri, gli Arfak a quasi cinquemila, ma
si dice che ve ne siano altre ben più elevate.

Poche notizie si hanno sui corsi d’acqua. Si conosce la Durga, che
sbocca presso il promontorio di Valk e si afferma che sia uno dei
più grandi, ma molti altri si scaricano al nord ed al sud e uno di
considerevoli dimensioni deve trovarsi verso l’ovest poichè molti
navigatori hanno osservato, che non lungi dalla punta orientale della
baia di Geelvinc, le acque del mare sono scolorite a parecchie leghe
della costa.

L’interno è tutto coperto da foreste immense le quali nulla hanno
da invidiare a quelle tanto splendide delle isole della Malesia. A
migliaia si contano le specie degli alberi e quanti di questi sono
preziosi!... Le noci moscate crescono senza cultura accanto agli alberi
del garofano; i tecks dal robusto legno così ricercato dai costruttori
di navi, crescono presso gli alberi del cedro; i pandani alle
casuarine, gli alberi del cocco e quelli del pane, il prezioso sagù al
betel, al pepe nero, all’arenga saccarifera, ai latanieri, agli alberi
che dànno la cannella, ai bambù, ecc.

Ma là, sotto a quelle immense foreste, dove svolazzano i più splendidi
uccelli della creazione, vivono altresì degli uomini che godono una
fama assai triste e che non vedono di buon occhio gli stranieri.

Se taluni trafficano colle navi degli uomini bianchi, vendendo a
loro il _trepang_ che abbonda anche su quelle spiaggie, le preziose
spezierie, i meravigliosi uccelli del paradiso per le eleganti
europee, o l’argento e l’oro che traggono in gran copia dai loro
monti, nell’interno vivono gli alfurussi, gli arfaki ed i karon,
montanari bellicosi che hanno una spiccata passione per la carne umana
allo spiedo, e sulle spiaggie abbondano i pirati i quali esercitano
specialmente la tratta degli schiavi, vivendo anche di rapina, e lo
sanno le tribù costiere, le quali li temono e assai.

Wan-Stael, che conosceva la Nuova Guinea ed i suoi abitanti, avendo più
volte trafficato cogli indigeni di Dori ed avendo pescato il _trepang_
parecchie volte in diverse baie, conosceva pure i pirati papuasi e non
ignorava la loro ferocia, per cui appena la scialuppa si trovò nascosta
dietro l’isolotto, organizzò tosto la difesa, per impedire agli
inseguitori l’entrata nel fiume.

— Presto, prendete le armi ed imboschiamoci fra questi paletuvieri,
diss’egli ad Hans, Cornelio, al Chinese ed a Wan-Horn. Guardatevi
sopratutto dalle freccie, poichè chi viene toccato, è uomo morto.

— Le munizioni abbondano e siamo tutti buoni bersaglieri, disse il
vecchio marinaio. Non oseranno entrare nel fiume.

— L’acqua di questo corso è poi così scarsa, che non sarà bastante per
le loro pesanti imbarcazioni, osservò Cornelio.

— Ma sono capaci di salire lungo i boschi, disse il capitano. Si vedono?

— Sì, disse Hans, che si era aperto il passo attraverso a quelle folte
piante, esalanti miasmi pestilenziali.

— Cosa fanno?

— Cercano di entrare nel fiume.

— Vediamo.

Wan-Stael strisciò fra le piante e giunto all’estremità dell’isolotto
si curvò innanzi, cercando però di non farsi scorgere.

La piroga aveva girato il banco di sabbia e si avanzava lentamente e
con precauzione lungo la sponda destra, cercando di non arenarsi sui
bassifondi.

Alcuni uomini scandagliavano l’acqua coi remi per accertarsi della
profondità, mentre altri cercavano di discernere i naufraghi, celati
fra le piante dell’isolotto. Si udivano a parlare ad alta voce, e si
vedevano agitarsi ora a prua ed ora a poppa.

Quei selvaggi erano tutti di statura alta, bene sviluppati ed a prima
vista sembravano africani avendo la pelle fuliginosa, ma con dolci
sfumature rosso-cupe od olivastre; avevano anche i tratti del viso più
eleganti, il naso regolare e non schiacciato, labbra sottili, bocca
piccola, volto ovale. I loro capelli erano abbondanti, lanosi, raccolti
attorno ad un grande pettine di legno dipinto di rosso.

Il loro vestito si componeva d’un semplice sottanino, chiamato da loro
_tiidako_, fabbricato colle fibre d’una corteccia d’albero, ma avevano
abbondanza d’ornamenti: collane di denti di maiale e di scagliette di
tartaruga e braccialetti di spine di pesce e di conchiglie.

Uno solo indossava una specie di camicia di tela rossa, ma quello
doveva essere il _koranas_, ossia il capo.

Erano tutti armati di lancie, di pesanti sciaboloni chiamati _parangs_
ed alcuni portavano delle cerbottane di bambù, le quali dovevano
contenere delle freccie intinte nel succo estremamente velenoso
dell’_upas_.

La loro piroga s’avvicinava all’isolotto inoltrandosi lungo la
spiaggia occidentale, ma con grande fatica, non trovando forse acqua
sufficiente, quantunque la marea montasse con discreta rapidità.

Giunti a circa centocinquanta metri, s’arrestarono bruscamente. Pareva
che la piroga si fosse arenata, poichè si videro i pirati correre da
prua a poppa osservando la corrente, poi mandare delle grida furiose.

— Si sono arenati, disse il capitano.

— Ma la marea sale e fra poco ci raggiungeranno, disse Wan-Horn.

— Se cominciassimo il fuoco? chiese Cornelio. Sapendoci provvisti di
armi, potrebbero spaventarsi e rinunciare all’attacco.

— L’idea non è cattiva, Cornelio, ma finchè non aprono le ostilità, non
sprechiamo le nostre palle. Per ora non ci hanno fatto nulla.

— E se approfittassimo della loro immobilità per fuggire? disse Horn.
Aspettando, avremo addosso anche l’equipaggio della seconda piroga.

— Ma dove ci condurrà questo fiume? chiese Cornelio.

— Non ne so più di te, rispose il capitano. Lo risaliremo finchè
troveremo un luogo addatto per accamparci, e quando i pirati saranno
ripartiti, riguadagneremo il mare e continueremo il viaggio.

— Imbarchiamoci, signor Wan-Stael. Ecco la seconda piroga che giunge.

Il marinaio non si era ingannato. La seconda piroga, che era rimasta
indietro, era giunta alla foce del fiume e cercava di unirsi all’altra
che era ancora arenata.

Quel rinforzo poteva riuscire fatale ai naufraghi, poichè aumentava
considerevolmente il numero dei pirati. Quantunque nella scialuppa vi
fossero abbondanti munizioni, non era il caso d’impugnare una lotta
contro cinquanta o sessanta selvaggi muniti di freccie avvelenate.

— Fuggiamo, disse il capitano. Giacchè la via è libera, rimontiamo il
fiume.

Ritornarono verso la scialuppa e s’imbarcarono, mettendo i fucili sulle
banchine, per essere più pronti a servirsene.

Tenendosi dietro l’isolotto, le cui piante erano sufficienti per
coprirli, si misero a salire il fiume remando in silenzio, aiutati
dall’alta marea che rimontava, respingendo le acque dolci.

I pirati occupati a disincagliare la prima piroga, non si erano accorti
di nulla, a quanto pareva, poichè non si udivano più a gridare.

— Che brutta sorpresa per loro, quando non ci troveranno più
sull’isolotto! disse Cornelio.

— Ci cercheranno però, ne sono certo, disse il capitano. Quei furfanti
non rinuncieranno così facilmente alla loro preda, ma ci troveranno
pronti a difenderci e non ci lasceremo sorprendere.

— Che ci siano dei villaggi su questo fiume?

— Non lo so, ignorando perfino come si chiami questo corso d’acqua.
Procederemo però con prudenza e se vediamo un villaggio ci affretteremo
a nasconderci nei boschi.

— Mi pare che il fiume descriva lassù una curva, disse Wan-Horn.

— Meglio per noi; sfuggiremo più facilmente agli sguardi dei pirati.
Avanti e non perdete di vista le due sponde.

Il fiume conservava sempre la sua larghezza di cinquanta o sessanta
metri, ma era scarso d’acqua e seminato di banchi sabbiosi che i
naufraghi erano costretti ad evitare.

Le due sponde erano coperte di alberi enormi e così addossati gli uni
agli altri, da rendere quasi impossibile il passaggio. Si vedevano
i giganteschi tek lanciare i loro grossi tronchi a sessanta metri
d’altezza, sostenendo delle reti di liane e di _nepentes_; dei
mangostani, somiglianti ai nostri olmi, ma carichi di frutta grosse
come aranci, colla buccia bruno-violetta, delicatissimi e squisiti a
mangiarsi; dei superbi artocarpi, detti anche alberi del pane, le cui
frutta danno una polpa giallastra la quale si cucina sui carboni e che
ha il sapore di certe specie di zucche e dei carciofi; delle magnifiche
_arenghe saccarifere_, specie di palme con lunghe foglie piumate, le
quali danno il _gomiti_, ossia una specie di crine vegetale che viene
adoperato nella fabbricazione di certe stuoie assai pieghevoli, mentre
incidendo il tronco dell’albero si ricava un liquido assai dolce, che
può convertirsi in zucchero; degli alberi di cocco pure carichi di
frutta, poi numerosi gambir, piante arrampicanti che danno un liquido
molto attaccaticcio, adoperato con molto successo per fissare i colori
sui tessuti di lusso e specialmente sulle sete; poi casnarine, alberi
della gomma e bambù che formavano delle vere piantagioni.

In mezzo a quelle piante si vedevano svolazzare bande di splendidi
uccelli, pappagalluzzi grossi come un gabbianello, coi becchi gialli,
pappagalluzzi rossi e neri forniti di lunghe code gialle appartenenti
alla specie dei _charmasirra papua_; poi dei _promerops superbi_,
grossi come un piccione, colle penne nere ma che sembrano di velluto,
la coda lunga e larga adorna, superiormente, d’uno stravagante ciuffo,
e alcuni di quei magnifici _cicinnuros regii_, grossi come un merlo,
ma colle penne scintillanti dei più bei colori che immaginare si possa.
Sembrano fiori svolazzanti o meglio ancora gemme mescolate confusamente
e gettate in aria, avendo riflessi rossi come i rubini, verdi come gli
smeraldi, e gialli come l’oro o argentei.

Se abbondavano le piante e gli uccelli, mancavano però assolutamente
gli uomini, poichè non si scorgeva alcun isolano su quelle rive.
Erano approdati, i naufraghi della _giunca_, su di una costa deserta?
Bisognava crederlo, ma per questo non erano inquieti, anzi tutt’altro,
non potendo sperare alcun aiuto da parte di quegli abitanti, anzi
avendo molto da temere invece.

Alle due, a circa tre miglia dalla foce, il capitano fece accostare la
scialuppa alla sponda più vicina per dare un po’ di riposo ai rematori
e per allestire la colazione, non avendo ancora avuto il tempo di
rosicchiare un biscotto.

Non osarono però accendere il fuoco, per non attirare l’attenzione
dei selvaggi che potevano accampare in mezzo a quei fitti boschi,
e s’accontentarono d’alcuni biscotti e di una scatola di aringhe
affumicate, alle quali aggiunsero alcuni durion, frutta squisitissime,
grosse come la testa d’un uomo, armate esteriormente di spine assai
acute, ma contenenti nell’interno dei semi avviluppati in una polpa
bianca, delicata come una crema, ma che tramanda uno sgradevole odore
di cacio marcio. Per chi non è abituato a quell’odore, riesce difficile
il mangiare quelle frutta, ma quale squisitezza quando s’inghiottono!
Sono senza dubbio le migliori di tutte, superiori perfino agli ananas
ed ai mangostani.

Alle quattro, non vedendo nulla di sospetto sulle due rive, e volendo
frapporre una notevole distanza fra loro ed i pirati, che forse avevano
ripreso l’inseguimento, ripartivano salendo il fiume il quale non
accennava ancora a restringersi.

La loro corsa però non durò molto, poichè verso le sei, mentre
le tenebre cominciavano ad addensarsi sotto i boschi e la marea a
ridiscendere rapidamente, la scialuppa si arenava su di un banco di
sabbia, situato quasi in mezzo al corso d’acqua.




CAPO XV.

L’assalto dei coccodrilli


Tutti gli sforzi tentati per rimettere a galla l’imbarcazione erano
riusciti vani. La bassa marea li aveva lasciati proprio in mezzo a quel
banco, il quale pareva che avesse una grande estensione, e anche al
di là l’acqua scarseggiava, poichè agli ultimi bagliori del crepuscolo
avevano potuto scorgere, senza difficoltà, il letto del fiume.

Non volendo abbandonare la scialuppa che poteva cadere nelle mani dei
pirati, troncando così il loro viaggio verso il mare delle Molucche e
ritenendosi ormai abbastanza lontani dalla foce e quindi dai nemici,
decisero di dormire su quel banco fino al ritorno dell’alta marea.

D’altronde quella scialuppa era più sicura, non sapendo ancora se quei
boschi erano abitati da qualche tribù di papuasi o deserti. Oltre a
ciò, potevano riposare più tranquilli senza correre il pericolo di
venire disturbati dai serpenti che abbondano in quell’isola e anche
dalle tigri, che non sono scarse in certe regioni e presso certe coste.

— La nostra prigionia non sarà poi di lunga durata, disse il capitano
a Cornelio e ad Hans, che lo interrogavano. Appena l’alta marea ci
rimetterà a galla, approderemo sull’una o sull’altra sponda, prima di
ridiscendere alla foce.

— Ma temi tu, zio, che i pirati ci blocchino per lungo tempo? chiese
Cornelio.

— Quando saranno convinti che noi siamo fuggiti nell’interno, spero che
spiegheranno le vele e che se ne andranno.

— E se si ostinano?

— Aspetteremo che si stanchino. Abbiamo viveri per due settimane e
possiamo raddoppiarli, essendo quest’isola ricca di selvaggina e di
piante da frutta.

— Vorrei tentare di sloggiarli a colpi di fucile, zio.

— Per attirarci addosso altri nemici? Chi mi dice che quei furfanti
non abbiano degli amici su questa costa?... Lasciamo che si stanchino,
Cornelio, e vedrai che finiranno per andarsene. Rosicchiamo un biscotto
e poi riposiamoci. A chi tocca il primo quarto di guardia?

— A me, disse il giovanotto. Potete dormire tranquilli: nessun pirata
s’avvicinerà senza il mio permesso.

— Ti terrà compagnia Horn. Vedono meglio quattro occhi che due.

— Ed i miei sono ancora buoni, disse il marinaio. A noi signor
Cornelio, voi a prua ed io a poppa.

Divorata la magra cena, il capitano, il pescatore ed Hans si coricarono
in fondo alla scialuppa in attesa del loro quarto di guardia, mentre
il marinaio e Cornelio si sedevano l’uno a prua per sorvegliare l’alto
corso del fiume e l’altro a poppa, per non lasciarsi sorprendere dai
pirati che dovevano venire dalla parte della foce.

Un silenzio quasi assoluto regnava sotto i boschi, i quali proiettavano
nel fiume una cupa ombra; non si udivano se non lievi ronzìi prodotti
dagli insetti ed il lieve stormir delle fronde leggermente mosse da un
venticello che veniva dal mare. Anche sul fiume non udivansi che dei
mormorìi prodotti dall’acqua che calava colla bassa marea, rompendosi
contro le sponde e contro i banchi.

Di quando in quando, attraverso il fitto fogliame, si vedevano
scintillare dei punti luminosi che tosto scomparivano per mostrarsi
più lungi, ma nè Cornelio nè il vecchio Horn s’inquietavano, sapendoli
causati da certe lucciole della specie dei _lampiris_, molto comuni in
tutte le isole della Malesia e che le eleganti malesi racchiudono in
bolle di vetro, puntandosele fra i capelli con dei bellissimi spilloni
d’argento.

Era già trascorsa un’ora senza che fosse accaduto alcunchè di
straordinario, quando Cornelio credette di vedere una massa oscura
attraversare rapidamente il fiume, descrivendo una parabola assai
allungata. Si era staccata da un grande albero situato sulla sponda
destra ed era scomparsa sotto i boschi della sponda opposta.

— Wan-Horn, hai veduto? chiese, raccogliendo precipitosamente il fucile.

— Non ho veduto nulla, nè udito nulla, signor Cornelio, rispose il
marinaio.

— M’è passata dinanzi agli occhi una cosa nera, che non ho potuto ben
distinguere.

— Sarà stato un uccello.

— No, Wan-Horn, era grosso assai e non aveva le forme d’un volatile.

— Cosa volete che sia?

— Non lo so, ma se fosse qualche proiettile inviatoci dai papuasi?

— Non fanno uso che di freccie e di lancie, signor Cornelio...

— Lo so, ma... guarda!

Una massa nera, un’altra senza dubbio, si era staccata da un albero
della sponda destra, aveva attraversato il fiume con uno strano
dondolìo, producendo una lieve corrente d’aria ed era scomparsa fra le
piante dell’opposta riva.

— L’hai veduta, Horn? chiese Cornelio.

— Sì, e so cos’era.

— Un proiettile?

— No, signor Cornelio, era uno di quei volatili che i malesi chiamano
_kubung_, noi gatti o volpi volanti e gli scienziati _galeopithecus_,
se non erro.

— Che animali sono?

— Sembrano scimmie, più che volpi; sono alte mezzo metro, con una testa
piuttosto piccola che rassomiglia un po’ a quella degli scoiattoli,
col pelo rosso-oscuro, e spiccano delle vere volate di sessanta metri.
Ve ne sono pure delle altre che hanno una coda lunga un buon piede, ma
spiccano dei voli meno lunghi.

— Ma come fanno a volare?

— Colle ali.

— Delle scimmie colle ali? Ma tu sogni, Horn.

— No, signor Cornelio, ma non vi dico che le loro ali siano uguali
a quelle degli uccelli, tutt’altro. Hanno una specie di membrana
che parte dalle zampe anteriori, si unisce a quelle posteriori e si
prolunga fino alla coda. Agitando in fretta le zampe, agitano pure
quella membrana e spiccano la volata, ma come dissi, non si reggono per
più di sessanta od ottanta metri.

— E ve ne sono in quest’isola?

— Ne ho vedute molte nel porto di Dori e nei boschi della baia di
Geelwinc.

— Taci!

— Ancora?

— Ma questa non è una scimmia volante.

Tesero gli orecchi rattenendo il respiro e udirono, verso l’alto
corso del fiume, un tonfo che pareva prodotto dalla caduta di un corpo
pesante. Guardarono in quella direzione, ma l’ombra dei boschi era così
cupa che non riuscirono a distinguere nulla.

— Hai udito, Horn?

— Sì, signor Cornelio, rispose il marinaio, che era diventato inquieto.

— Che qualcuno si sia tuffato nel fiume?

— Lo temo.

— Qualche pirata forse?

— Ma i pirati devono venire dalla parte della foce.

— È vero, ma possono aver preso terra per sorprenderci d’ambe le parti.

Wan-Horn non rispose, ma crollò il capo come non prestasse fede.

— Cosa facciamo? chiese Cornelio, dopo alcuni istanti di silenzio.

— Sorvegliamo le acque, per ora. Se è un uomo, bisognerà che salga sul
banco di sabbia per giungere fino a noi e si scoprirà, non essendoci
acqua intorno a noi.

— È vero... to’!... un altro tonfo!...

— Ed un altro più lontano.

— Che siamo circondati?...

— Oh!... esclamò il marinaio. Guardate laggiù!...

Cornelio guardò nella direzione indicata e distinse, a fior d’acqua,
delle masse nerastre, assai lunghe, che s’avvicinavano lentamente verso
il banco di sabbia facendo gorgogliare la corrente.

— Dei canotti? chiese egli, alzandosi.

— O dei coccodrilli? disse il marinaio.

— Ve ne sono qui?...

— Su tutti i fiumi.

— Che vogliano assalirci?... Fortunatamente siamo sulla scialuppa.

— Ma arenati in mezzo ad un banco, signor Cornelio, e nell’assoluta
impossibilità di fuggire verso le sponde. Se giungono qui, non avranno
difficoltà a entrare nella scialuppa e fors’anche a sfondarla colle
loro formidabili code.

— Svegliamo mio zio, Horn.

— Tutti, signor Cornelio; stiamo per passare un brutto quarto d’ora.

Il capitano ed i suoi compagni furono tosto svegliati e messi al fatto
di ciò che stava per accadere.

— La faccenda può diventare grave, disse Wan-Stael. I coccodrilli dei
fiumi della Nuova Guinea sono feroci, e non temono l’uomo. Comincia a
salire la marea?

— Da un quarto d’ora, rispose Wan-Horn.

— Bisogna difenderci finchè ci rimetterà a galla.

— Ed i pirati non udranno le fucilate?

— Senza dubbio, Horn, e saliranno il fiume, ma non possiamo lasciarci
divorare per evitare il loro ritorno. Appena potremo muoverci, ci
salveremo nei boschi. Attenti che i coccodrilli arrivano, e badate a
scaricare le armi nelle loro gole o le palle si schiaccieranno sulle
loro robuste scaglie.

I coccodrilli infatti giungevano, ma non erano due o tre, ma una
vera banda, trenta, quaranta e forse di più. Come si erano radunati
colà tanti sauriani, mentre i naufraghi non ne avevano veduto nemmeno
uno durante il giorno? Provenivano forse da qualche grande palude o
da qualche lago situato più oltre, verso la sorgente di quel corso
d’acqua? Era probabile.

Quegli spaventevoli anfibi, accortisi della presenza di grosse prede,
giungevano da tutte le parti, circondando il banco.

Alla luce degli astri si scorgevano le loro enormi mascelle irte di
lunghi denti, le quali si richiudevano con un fracasso analogo a quello
che produce un cassone quando viene lasciato cadere il coperchio.

Le loro code sferzavano l’acqua con impeto irresistibile, sollevando
delle vere ondate, e nell’urtarsi si udivano le scaglie risuonare come
piastre d’osso vuote.

Circondato il banco, s’arrestarono, come se volessero prima assicurarsi
di che specie era la preda che stavano per assalire, poi uno, il più
audace ed il più lungo, poichè misurava almeno nove metri, con un
poderoso colpo di coda si issò sul banco che la marea a poco a poco
copriva e marciò dritto verso la scialuppa.

— È orribile! esclamò Hans rabbrividendo.

— Coraggio, ragazzi! disse il capitano, che non perdeva la sua calma.
Questo è mio.

Il sauriano non era che a sei passi: con un colpo di coda poteva
lanciarsi contro la scialuppa.

Wan-Stael puntò freddamente il fucile e fece fuoco fra le mascelle
spalancate del mostro.

Questi, colpito a morte dalla palla che doveva avergli attraversato il
corpo dalla gola alla coda, si raddrizzò come un cavallo che s’impenna,
vibrando uno spaventevole colpo di coda, poi ricadde, contorcendosi
furiosamente, sollevando dei larghi sprazzi di fango.

Gli altri, lungi dallo spaventarsi alla detonazione che per loro doveva
riuscire nuova, non adoperando i papuasi armi da fuoco, nè per la
morte del loro compagno, balzarono sul banco precipitandosi verso la
scialuppa.

— Coraggio! ripetè un’ultima volta il capitano, che caricava
precipitosamente il fucile.

L’assalto fu tremendo. Quei formidabili sauriani, credendo forse che
anche la scialuppa fosse una preda da inghiottire, si arrampicavano
l’un sull’altro per giungere primi ad afferrare i bordi. I loro aliti
caldi e fetenti giungevano fino in volto ai disgraziati naufraghi.

Questi però, malgrado fossero terrorizzati, non erano rimasti
inoperosi. Scaricate le armi sui più vicini, avevano afferrate le
scuri, i ramponi e perfino i remi e si difendevano con sovrumana
energia, picchiando furiosamente sui crani e sulle mascelle, spezzando
i denti o lacerando le gole di quei mostri.

Fortunatamente la scialuppa era alta di bordo ed i coccodrilli
non potevano superarla e rovesciarsi nell’interno, ma cercavano di
riuscirvi colle code o di sfasciarla tentando di azzannarla. Wan-Horn
e il capitano, armati di scure, non li lasciavano avvicinarsi troppo,
e ogni testa che appariva sui bordi ricadeva fracassata, mentre Hans
e Cornelio, ritti sui banchi, avevano riprese le armi, scaricandole in
quelle enormi gole.

Quella difesa accanita, quelle detonazioni, quei lampi, quelle grida
parvero sconcertare gli assalitori, i quali si decisero a retrocedere
verso i margini del banco, ma senza abbandonarlo però.

Cinque di loro giacevano distesi sulla sabbia e altri tre, feriti
gravemente, fors’anche mortalmente, si dibattevano in preda a
spaventevoli convulsioni.

I naufraghi, ripresi i fucili, avevano ricominciato il fuoco.
Incoraggiati dal primo successo, cercavano ora di respingere nel
fiume i sauriani, i quali, invece, parevano più propensi a rinnovare
l’assalto.

— Non perdete colpo, disse il capitano. Se possiamo resistere ancora
dieci minuti, la scialuppa lascerà il banco.

— È già tutto coperto, disse Cornelio. La marea monta rapidamente.

— Ma quei coccodrilli non si decidono ad andarsene, disse Wan-Horn.
Ecco un altro che torna all’assalto.

— A voi, ragazzi! gridò il capitano.

Due spari echeggiarono formando quasi una sola detonazione. Il sauriano
fece uno scarto che lo portò sull’orlo del banco, poi rotolò nel fiume
scomparendo sott’acqua.

Gli altri, che parevano indecisi, retrocessero, ma poi tornarono
all’assalto urtandosi e accavallandosi confusamente, decisi a finirla
colle prede umane. Già stavano per raggiungere la scialuppa quando
questa, che da qualche istante subiva delle oscillazioni, sollevata
dalla marea, si spostò fuggendo attraverso al banco.

— Galleggiamo! gridò Cornelio.

— Ai remi, Horn! gridò il capitano, scaricando il suo fucile in mezzo
alla banda di coccodrilli.

Il marinaio, il chinese ed Hans afferrarono i remi e si misero ad
arrancare disperatamente, dirigendo la scialuppa verso la sponda
sinistra, mentre Cornelio ed il capitano, con frequenti fucilate,
tenevano lontani i sauriani, i quali scoraggiati, non parevano più
risoluti a continuare l’assalto.

In pochi istanti la scialuppa attraversò il fiume e si arenò sulla
riva, in mezzo ad un gigantesco mazzo di erbe acquatiche.

Stavano per sbarcare, quando verso il basso corso del fiume udirono
delle voci umane ed uno sbattere di remi.

— Chi s’avvicina? chiese il capitano.

— I pirati senza dubbio, disse Wan-Horn. Hanno udito i nostri spari e
accorrono per assalirci.

— Dopo i coccodrilli i pirati! esclamò Cornelio. Che brutto paese e che
brutta notte!

— Tacete, disse il capitano.

Si curvò verso l’acqua e tese gli orecchi.

— Sì, diss’egli, dopo alcuni istanti. Devono essere pirati che salgono
il fiume. Ho udito lo sbattere di molti remi.

— Che salgano colle piroghe?

— Forse le hanno sciolte per renderle più leggiere e private dei ponti
e delle tettoie. Nascondiamo la scialuppa e salviamoci nei boschi.




CAPO XVI.

La capanna aerea


Non vi era un momento da perdere. I pirati, attirati da quei numerosi
spari, si erano affrettati a salire per cercare farli prigionieri prima
che cadessero in altre mani.

Forse credevano che fossero stati assaliti dagli indigeni e
accorrevano non già per difenderli, ma per tema che i nuovi arrivati
s’impadronissero di quelle prede viventi e saccheggiassero la scialuppa
senza di loro.

I naufraghi, che udivano le voci avvicinarsi e che ormai distinguevano
perfettamente i colpi dei remi, tirarono la scialuppa a terra e la
coprirono con un ammasso di rami e di foglie, per non perderla e
venire privati dei viveri e delle coperte che non potevano portare
con loro. Per maggior precauzione si caricarono delle munizioni, non
volendo lasciarle nella scialuppa, la quale poteva venire scoperta e
saccheggiata quantunque fosse ormai bene nascosta.

— A terra, disse il capitano.

Alla svolta del fiume era apparsa una piroga montata da parecchi uomini
e più oltre si vedeva la prua di un’altra. I naufraghi ne sapevano
abbastanza: balzarono in mezzo ai cespugli e si lanciarono sotto la
foresta, volgendo le spalle al corso d’acqua.

Quella boscaglia era fitta assai e tanto oscura che a malapena si
potevano distinguere i tronchi degli alberi, ma Cornelio, che aveva
già scorrazzato per lunghi anni le foreste di Timor, si era messo alla
testa del drappello e lo guidava dirigendosi verso l’ovest.

Gli alberi si succedevano agli alberi: alcuni alti, lisci, enormi,
che spiegavano i loro rami a sessanta o settanta metri d’altezza,
altri più bassi, nodosi, curvati innanzi od indietro ed altri ancora
sottili, coperti di foglie gigantesche che misuravano non meno di sei
metri di lunghezza su uno di larghezza. Liane interminabili, nepentes
o piante arrampicanti, s’intrecciavano dovunque, correndo da un tronco
all’altro, formando delle reti immense, capaci di accalappiare perfino
gli elefanti, mentre da terra sorgevano radici mostruose le quali
serpeggiavano qua e là, rendendo difficile il passaggio, specialmente
con quell’oscurità. Cornelio procedeva con precauzione per non urtare
contro quei centomila ostacoli e sopratutto per non mettere il piede su
qualcuno di quei serpenti pitoni, lunghi sette e perfino otto metri,
dotati d’una forza così prodigiosa da stritolare un bue fra le loro
spire e che sono così numerosi nelle foreste delle isole Malesi e anche
in quelle della Nuova Guinea.

Camminavano da un’ora, sempre allontanandosi dal fiume per far perdere
le loro traccie ai pirati, quando si trovarono improvvisamente dinanzi
ad una piccola pianura, circondata da altre foreste.

Con sua grande sorpresa, Cornelio vide elevarsi, quasi in mezzo a quel
terreno scoperto, una massa nera, enorme, che pareva sospesa in aria,
ad un’altezza di quattordici o sedici metri.

— Zio! esclamò.

— Cos’hai scoperto? chiese Wan-Stael, uscendo dalla foresta.

— Guarda!

— È un’abitazione di papù, disse il capitano. Brutta sorpresa, se è
abitata.

— Un’abitazione!...

— Sì, Cornelio. I papù, per non farsi sorprendere dai nemici o dalle
fiere, fabbricano le loro capanne su dei pali giganteschi.

— Ma quella è immensa.

— Abitano parecchie famiglie in quelle case aeree. Sono costruzioni che
meritano di essere vedute.

— Che sia abitata? chiese Wan-Horn.

— Lo sapremo subito. Alla sera gli inquilini ritirano i bambù
intagliati che servono a loro di scale, e se a quella capanna mancano
sarà segno che è abitata.

— Se la fosse, i papù avrebbero udito i nostri spari e non
dormirebbero, osservò Hans.

— Hai ragione, disse il capitano. Quale fortuna se fosse vuota!...

— La occuperemo? chiese Cornelio.

— Senza perdere tempo. Di lassù potremo difenderci contro i pirati, se
vengono ad assalirci.

— E non cadrà, quella baracca? Ho poca fiducia, zio mio, di queste
costruzioni.

— Sono solidissime, Cornelio; appoggiano su grosse canne di bambù e tu
sai come sono robuste, malgrado la loro leggerezza. Seguitemi, amici,
ma senza far rumore.

Tenendosi nascosti fra i cespugli e le piante arrampicanti che
ingombravano la piccola pianura, i naufraghi s’avvicinarono a quella
bizzarra costruzione che aveva delle dimensioni enormi e si arrestarono
dinanzi ai primi pali.

Quella casa aerea, situata a sedici metri dal suolo, quantunque
costruita da selvaggi che nulla hanno appreso dagli ingegneri europei,
era veramente meravigliosa e faceva molto onore ai suoi costruttori.

Nulla può darvi un’idea dell’arditezza di quelle case, le quali
inoltre sono d’una solidità a tutta prova, tale anzi da poter sfidare
impunemente i venti più impetuosi.

Per costruirle, i papuasi piantano dapprima, e molto profondamente, dei
grossi e lunghi bambù leggieri ma resistenti, incorruttibili poichè mai
marciscono, incrociandoli e legandoli con fibre di rotang o con liane,
ma in modo da sorreggersi gli uni con gli altri.

A dieci metri dal suolo costruiscono un primo pavimento, una specie di
terrazzo, con bambù più leggieri e con nervature di foglie intrecciate,
il quale riunisce tutte le pertiche consolidandole maggiormente.

Più sopra, a quattordici metri d’altezza, ne costruiscono un secondo
assai più vasto, più sporgente del primo e anche più solido, dovendo
reggere gli abitanti della casa.

Sopra questo elevano l’abitazione, colle pareti di bambù e di stuoie
ed un tetto a due pioventi, coperto da larghe foglie, le quali bastano
per impedire i filtramenti delle scarse pioggie che cadono in quelle
regioni.

Per evitare che i nemici possano sorprenderli nel sonno si servono di
due o tre pertiche per salire, fornite di tacche ad una certa distanza.
Appoggiano sulla seconda piattaforma, ma non sono fisse, poichè alla
sera si ritirano, e terminano su di un piccolo pianerottolo situato a
sei metri da terra e sul quale si giunge servendosi di altre pertiche
pure mobili.

Quando le famiglie papù si trovano nella loro capanna aerea, possono
sfidare le fiere e anche i nemici, poichè senza quelle pertiche non si
può salire lassù. Se alcuni volessero tentare l’ascensione, sarebbero
costretti ad appoggiare nuove pertiche, ma il solo urto basterebbe per
far oscillare l’intera costruzione e mettere in allarme gli abitanti.

Il capitano, che aveva veduto ben altre di quelle capanne, girò
attorno ai bambù di sostegno e trovò due pertiche che mettevano sul
pianerottolo, e più sopra ne vide altre due che s’appoggiavano alla
piattaforma superiore.

— Quest’abitazione è stata abbandonata, disse.

— Che i proprietari siano stati uccisi? chiese Cornelio.

— Può essere; i papù della costa e quelli dell’interno si odiano
ferocemente e si distruggono a vicenda con guerre sanguinosissime; però
aggiungerò che i papù emigrano sovente.

— Approfittiamo dell’assenza dei proprietari e occupiamo questa
bizzarra abitazione.

Stava per issarsi sulle pertiche, quando il capitano lo arrestò.

— Adagio, diss’egli. Gli abitanti possono essere discesi, ma ve ne
possono essere altri lassù e cacciarti in petto una freccia avvelenata.
Prima voglio assicurarmi se questa casa è proprio disabitata.

Afferrò due bambù e li scrollò furiosamente. L’intera costruzione
oscillò dalla base alla cima con un forte rumore, senza però cedere,
tanto era solida.

— Se vi sono degli abitanti che dormono, si sveglieranno, disse.

Attesero cogli occhi fissi sulla capanna aerea, ma nessun essere
umano apparve sulla grande piattaforma. Solamente alcuni uccelli, che
dormivano sul tetto, volarono via emettendo strida di spavento.

— Non vi è nessuno, disse Wan-Horn. Possiamo salire.

Cornelio si mise ad arrampicarsi su una pertica, appoggiando i piedi
e le mani sulle tacche, mentre il capitano si inerpicava sull’altra e
giunsero sul pianerottolo.

Diedero all’edificio una seconda scrollata, ma non udendo alcun
rumore, nè vedendo comparire alcuna persona, salirono più su, giungendo
felicemente sulla grande piattaforma sostenente la capanna.

Colà furono costretti ad arrestarsi, poichè quel pavimento era
tutt’altro che praticabile pei loro piedi. Infatti i papù, che sono
agili come le scimmie, non si prendono grandi cure pei pavimenti delle
loro abitazioni, e lasciano i bambù scoperti.

Essendo questi disposti ad intervalli di venti ed anche di trenta
centimetri, lasciano fra loro delle aperture che possono causare delle
cadute mortali, per chi non è abituato ad una ginnastica indiavolata
e soffre i capogiri. Gli abitanti non ne coprono che una parte, quelli
che si trovano nell’interno della casa e non sempre.

La terrazza esterna è priva di stuoie, quindi per attraversarla bisogna
avanzarsi a salti, e con piede molto sicuro, se si vuole evitare il
pericolo di cadere sulla piattaforma inferiore.

— Diamine! esclamò Cornelio. Questo pavimento è un vero trabocchetto,
zio mio.

— Non è molto comodo per noi, ma i papù se ne accontentano, Cornelio.

— Ma è pericoloso pei ragazzi.

— Sono agili come gli scoiattoli e non si trovano imbarazzati. Avanti,
Cornelio.

— Non voglio correre il pericolo di mettere i piedi nel vuoto e di
capitombolare fino a terra, zio mio, cosa facile con questa oscurità.
Preferisco avanzarmi a carponi.

— È più sicuro, disse il capitano ridendo.

Tenendosi stretti ai bambù attraversarono la piattaforma ed entrarono
nella casa, il cui pavimento era coperto da grosse e solide stuoie.

Quell’abitazione era vastissima, in forma d’un quadrilatero, con un
tetto ampio e assai sporgente, per coprire l’intera piattaforma. Era
diviso in quattro stanze lunghe otto o dieci metri, larghe altrettanto
e provviste tutte di porte, le quali mettevano sulla galleria esterna.

Il capitano accese l’esca, diede fuoco ad un pezzo di carta che aveva
trovato in una tasca della giubba e spinse lo sguardo nelle stanze,
ma non vide alcun abitante, nè alcun oggetto: erano tutte disabitate e
perfettamente vuote.

— Meglio per noi, disse. Passeremo qui il resto della notte e dormiremo
tranquillamente.

— Ritireremo le scale, disse Cornelio.

— L’ho già detto ad Horn.

Intanto Hans e il Chinese erano giunti sulla piattaforma ed erano
entrati nell’abitazione, ed il vecchio marinaio saliva ritirando le
pertiche per impedire ai pirati di raggiungerli.

— Finalmente possediamo una casa! esclamò Hans.

— Una vera fortezza, soggiunse Cornelio. Sfido i pirati a farci
sloggiare ed a trovarci.

— Se non ci hanno già scoperti, disse il marinaio entrando. Temo che
quelle canaglie siano più furbe di noi.

— Hai veduto qualche cosa di sospetto? chiese il capitano, con
inquietudine.

— Posso essermi ingannato, signor Wan-Stael, ma mentre ritiravo le
pertiche, mi parve di aver udito un leggiero fischio dalla parte della
foresta.

— Che abbiano scoperte le nostre traccie?

— Non so cosa dire, capitano.

— Ma con questa oscurità? disse Cornelio.

— I selvaggi hanno degli occhi migliori dei nostri, rispose il vecchio
marinaio. Talvolta danno dei punti agli animali notturni.

— Ma cosa sperano di guadagnare prendendoci?

— I nostri fucili, Cornelio, disse il capitano. Questo accanimento non
può spiegarsi diversamente.

— Apprezzano molto le armi da fuoco?

— E con ragione, non possedendo che delle cerbottane e degli archi.
Muniti di armi da fuoco, quei pirati possono diventare veramente
invincibili contro i loro compatriotti della costa.

— Ma se vorranno salire, avranno molto da fare.

— Purchè non ci taglino le pertiche di sostegno e ci facciano
capitombolare assieme alla casa, disse il marinaio. Hanno dei
_parangs_, e quelle pesanti sciabole tagliano meglio delle scuri.

— Che brutta caduta!

— Mortale, signor Cornelio.

— Usciamo, disse il capitano. Non bisogna lasciarli avvicinare.

Lasciarono la casa e si curvarono sui bambù della piattaforma esterna,
i quali essendo così larghi e permettevano di sorvegliare tutti i
dintorni della costruzione.

Non si udiva alcun rumore dalla parte della foresta: solamente la
brezza notturna sibilava debolmente fra i pali di sostegno, su diversi
toni.

Essendo sorta la luna si poteva distinguere un uomo ad una notevole
distanza, ma nessuno appariva su quella piccola pianura.

— Non odo nulla di sospetto, disse Cornelio.

— Ed io non vedo alcun pirata, disse Hans.

— Ma la pianura è coperta di cespugli e di piante arrampicanti assai
fitte, e quei bricconi possono avanzarsi strisciando, osservò Horn.

In quell’istante, quasi a conferma delle sue parole, una leggiera
striscia oscura fendette l’aria e venne a piantarsi sulla parete
esterna della capanna, a mezzo metro dalla testa del Chinese.

— Oh! esclamò il capitano.

Si rizzò rapidamente e la staccò.

— Una freccia, disse, prendendola con precauzione. È stata lanciata da
una cerbottana, non m’inganno.

Quella freccia era lunga venti centimetri; era un leggiero cannello di
bambù spinoso, aguzzato da una parte e fornito dall’altra d’un piccolo
fiocco di cotone e da un tappo di midolla vegetale.

— È avvelenata? chiese Cornelio.

— Certo, e vi ordino di ritirarvi nella capanna, perchè a chi tocca una
ferita è uomo morto. L’upas è un veleno che non perdona.

— Che l’abbiano lanciata i pirati?

— Senza dubbio, Cornelio; affrettiamoci a metterci al sicuro.

Abbandonarono la piattaforma e si ritirarono nella capanna nel medesimo
istante che una seconda freccia, partita da un cespuglio, sibilava
attraverso ai bambù, piantandosi sul tetto.




CAPO XVII.

Fra le freccie ed il fuoco


I papù in generale sono male armati e non possono resistere ad un
attacco degli uomini bianchi muniti di buoni fucili; ma se i loro
archi sono di poca efficacia, le loro mazze, ruvidi bastoni malamente
lavorati, e le loro lancie poco meno che inutili avendo per lo più le
punte di osso, posseggono però un’arma che produce ferite mortali e che
si presta molto nelle guerre d’imboscate.

Non è certo di loro invenzione avendola probabilmente appresa dagli
isolani malesi e specialmente bornesi, ma se ne servono con abilità
straordinaria: è la cerbottana o, come la chiamano i malesi, la
_sumpitan_.

È un tubo di bambù lungo generalmente un metro e mezzo, di legno duro,
trapanato con un ferro appuntato, ma con molta precisione, dovendo il
foro interno essere rigorosamente eguale.

In questo tubo introducono un cannello di bambù od un nervo di foglia
munito superiormente d’una spina lunga ed assai acuta, e inferiormente
d’un tappo a cono di midolla vegetale, che corrisponde al calibro
dell’arma.

Soffiando entro la cerbottana, la freccia, spinta dall’aria, esce e
s’innalza per quaranta ed anche cinquanta metri, colpendo l’uccello, o
il nemico imboscato, con una precisione straordinaria.

L’uomo, o l’animale, o il volatile toccato, non ha scampo e morranno
fra pochi minuti, perchè le punte della freccia sono tinte nel succo
dell’upas, uno degli alberi più venefici che esistono.

Appena ricevuta la ferita, l’uomo prova tosto un tremito convulso,
il polso si accelera, poi prova una debolezza estrema, un’ansietà
angosciosa, respirazione difficile, spasimi, vomiti, espulsioni fecali,
convulsioni tetaniche e quindi spira dopo dieci o quindici minuti.

Sembra che quel veleno agisca sul sistema circolatorio e sul sistema
nervoso.

Altre volte invece quelle freccie sono tinte nel succo del _cetting_
(_strichnos tientè_), pianta arrampicante più velenosa ancora
dell’_upas_, poichè la morte è più rapida, quasi fulminante.

Come si vede, non era il caso di rimanere all’aperto per difendere
meglio i dintorni della capanna aerea. Quelle due freccie, salite
lassù, e che il capitano aveva avuto tempo di vedere, dicevano
abbastanza di quali mezzi disponevano i pirati per tenerli lontani.

I naufraghi però, anche tenendosi dentro la capanna, potevano
difendersi e mandare le loro palle a destinazione, essendovi molte
aperture fra le pareti di graticcio dell’abitazione e parecchie porte.

Si dispersero per la casa per sorvegliare i dintorni da tutte le parti,
e si tennero pronti a rispondere alle provocazioni di quegli accaniti
assalitori.

Non attesero molto, poichè pochi minuti dopo scorsero dei corpi
neri strisciare fra i cespugli e le piante arrampicanti, tentando
d’avvicinarsi alle palizzate di sostegno.

Cornelio mirò il primo e fece fuoco. L’uomo colpito dall’infallibile
palla del bravo bersagliere, girò due volte su sè stesso, stramazzò al
suolo senza mandare un grido.

Quel colpo maestro sgomentò gli assalitori, poichè si videro tornare
rapidamente indietro e nascondersi fra i fitti alberi della foresta.

— Ecco uno che non tornerà più sul mare, disse Wan-Horn. Il confetto è
stato un po’ amaro per quel povero diavolo, ma meritato. Ah! furfanti,
ne avrete ben altri, prima di prenderci le armi!

— Sono pronto a ricominciare, disse Cornelio. Un altro che si mostri e
lo stendo a terra.

— In guardia! gridò il capitano.

Sette od otto freccie s’alzarono sibilando, ma erano partite troppo
lontane e due sole si piantarono nei bambù della piattaforma esterna.

— Grandina! esclamò Cornelio.

— Ed è grandine avvelenata, aggiunse Wan-Horn. Fortunatamente siamo
fuori di pericolo, almeno per ora.

— Ma più tardi? disse il capitano, che pareva fosse diventato inquieto.
Se quei briganti prolungano l’assedio, cosa accadrà di noi?

— Non abbiamo fretta, zio, disse Cornelio. Si sta molto bene in questa
gabbia d’uccelli.

— Ma i viveri? Chi di noi possiede dell’acqua?

— È vero, zio. Io non ho che due biscotti e nemmeno una goccia d’acqua.

— Che vogliano proprio assediarci? chiese Wan-Horn.

— Ne sono certo, vecchio mio. Essi calcolano di farci capitolare per
fame.

— No, zio, disse Hans. Non aspetteranno tanto, poichè li vedo a
ritornare: guarda!

Tutti si affacciarono alle porte e videro infatti i pirati avanzarsi
attraverso alla pianura. Strisciavano fra i cespugli e le piante
arrampicanti come i serpenti, cercando di non farsi scorgere.

— Che vengano a tagliare i pali di sostegno? brontolò Wan-Horn. A voi,
signor Cornelio.

Il giovanotto che aveva ricaricato il fucile, mandò una palla in mezzo
ad un cespuglio, le cui cime si movevano, ma nessun grido seguì lo
sparo.

— Mancato o ucciso sul colpo? disse il marinaio.

— Vedo i rami agitarsi ancora, disse Cornelio. Quei furfanti non
mostrano un pezzetto dei loro corpi, tanto sono ben nascosti.

Il capitano ed Hans fecero fuoco mirando i cespugli che si muovevano,
ma i pirati ormai non si scorgevano più e non risposero.

— Che si siano nascosti sotto terra? chiese il marinaio. Come va questa
faccenda?

Ad un tratto quindici o venti uomini balzarono dai cespugli e si
scagliarono verso l’abitazione, menando furiosi colpi di parangs contro
i pali di sostegno. In un momento sette od otto, troncati da quelle
pesanti sciabole, caddero a terra.

— Fuoco! gridò il capitano.

Tre colpi di fucile echeggiarono: due pirati caddero fulminati,
un terzo fuggì urlando ed andò a cadere in mezzo un cespuglio poco
discosto, e gli altri ritornarono precipitosamente nel bosco, salutati
da altre due fucilate.

— Hanno del coraggio, quelle canaglie! esclamò Wan-Horn. Speriamo però
che ne abbiano abbastanza delle nostre palle per ora. Se continuavano a
lavorare di sciabole, facevan capitombolare la nostra gabbia.

— Non c’è pericolo, marinaio, disse il capitano. Vi sono almeno
duecento pali da tagliare, e prima che li recidano tutti li
distruggeremo.

— Credete che non ritentino l’attacco?

— Dopo questa seconda lezione spero che non oseranno avvicinarsi
ancora. Corichiamoci sulla piattaforma e teniamci pronti a mandare
un’altra grandinata di palle se tornano a mostrarsi.

Si sdraiarono dinanzi alle porte tenendo a fianco i fucili e attesero.

I pirati non abbandonavano la foresta che li proteggeva, ma non si
erano allontanati, poichè di tratto in tratto si udivano le loro voci
e di quando in quando qualche freccia saliva in aria, ma senza giungere
fino alla casa aerea.

Senza dubbio ne avevano avuto abbastanza delle palle degli assediati e
si erano accampati fra i tronchi d’albero per impedire ogni tentativo
di fuga. Probabilmente contavano di costringerli alla resa colla fame,
piano più sicuro e di esito certo, poichè i naufraghi non potevano
durare a lungo senza un sorso d’acqua.

La notte trascorse senza che i pirati rinnovassero il tentativo e
senza che gli assediati riaprissero il fuoco, volendo economizzare le
munizioni, quantunque avessero un migliaio di colpi da sparare.

Quando il sole apparve, illuminando le foreste circostanti,
la situazione non era cambiata. I pirati si udivano sempre a
chiacchierare, ma si erano affrettati a porsi in salvo dietro ai grossi
tronchi degli alberi.

— La va male, disse Wan-Horn. Se questo assedio continua, non so come
potremo resistere senza un sorso d’acqua.

— Se ci fosse qualche stagno in questa pianura, proverei a discendere,
disse Cornelio. Comincio ad essere annoiato di questa prigionia, Horn.

— Ed è appena cominciata!... Avrete del tempo per annoiarvi di più,
signor Cornelio. I pirati non se ne vanno.

— Se provassimo a sloggiarli?

— In qual modo?

— Scendendo nella pianura e attaccandoli.

— Ci crivelleranno di freccie prima di toccare terra e voi sapete che
sono avvelenate.

— Ma se questo assedio si prolunga?

— Speriamo che si stanchino, signor Cornelio.

— Ma la sete si avanza, Horn.

— Resisteremo fin che potremo.

— Ah! se potessi scorgerli!...

— I furbi si tengono nascosti.

— Vediamo se possiamo costringerli a mostrarsi, vecchio Horn. Vedo i
rami di quel cespuglio a muoversi; forse là vi è una sentinella.

Armò il fucile e fece fuoco, ma i pirati risposero con una volata di
freccie, senza però abbandonare la foresta protettrice. Alcune giunsero
fino sulla piattaforma, ma le altre caddero a mezza via.

— Non si muovono, Wan-Horn, disse il giovinotto con stizza.

— Lo vedo, signor Cornelio. Sanno oramai che siamo abili tiratori e ci
tengono alla loro pelle; invece di sprecare le nostre palle, facciamo
colazione.

— Sarà molto magra, Horn.

— Ho tre biscotti.

— Ed io due.

— E voi, capitano?

— La mia pipa.

— E noi abbiamo le tasche vuote, dissero Hans ed il chinese.

— Non c’è pericolo di fare una indigestione, disse il marinaio, il
quale però non perdeva il suo buon umore.

Si divisero fraternamente i cinque biscotti, che in pochi bocconi
fecero sparire, poi si stesero sui graticci e s’addormentarono sotto
la guardia del marinaio, avendo passata l’intera notte in continui
allarmi.

La giornata lentamente trascorse senza che i pirati tentassero un nuovo
assalto; non avevano però abbandonato il bosco, poichè di quando in
quando lanciavano qualche freccia. Quando calarono le tenebre i poveri
assediati erano già alle prese colla fame e sopratutto colla sete. Dal
mattino non avevano messo sotto i denti che quei pochi biscotti e dalla
sera precedente non avevano ingoiato un sorso d’acqua. Nessuno però si
era lamentato, e perfino Hans che era il più giovine di tutti aveva
resistito eroicamente, quantunque avesse la gola arida e la lingua
ingrossata. La brezza della notte recò qualche sollievo ai poveri
assetati, ma era ben poca cosa, e se quell’assedio non cessava non
avrebbero potuto sopportare un digiuno di altre ventiquattro ore.

— Bisogna tentare qualche cosa, disse il capitano con voce risoluta.
Hans non può sopportare simili privazioni.

— Non mi lamento, zio, rispose il giovane. Se resistete voi, terrò duro
anch’io.

— No, mio povero ragazzo, tu non ancora sei un uomo. Questa notte andrò
in cerca d’acqua.

— Ti uccideranno, zio.

— Cercherò di scendere senza farmi vedere.

— Verrò anch’io, zio, disse Cornelio.

— Ed io? disse Horn. Lasciate che tenti io la discesa, capitano; ho
sessant’anni e uccideranno un uomo che ha vissuto abbastanza.

— No, mio bravo Horn, rimarrai qui a vegliare sui nipoti miei. Non sei
più agile come un tempo e la discesa non è facile.

— I muscoli sono ancora solidi, capitano, e scenderò meglio d’un mozzo.
Se vi uccidono, chi ricondurrà in patria i vostri nipoti?

— Tu sei un marinaio che può condurre una scialuppa anche più lontano
dell’isola di Timor. D’altronde non mi hanno ancora ucciso quei
birbanti, e dubito che vi riescano.

— Lascia che vada io, zio, disse Cornelio. Corro come un cervo, e se i
pirati m’inseguiranno, li farò scoppiare prima che mi raggiungano.

— No, mio valoroso nipote, non voglio... oh!

Wan-Stael si era bruscamente voltato verso le boscaglie occupate dai
pirati ed era divenuto pallido.

— Cos’hai veduto, zio? chiesero Hans e Cornelio, montando
precipitosamente i fucili.

— Ho veduto un punto luminoso, una fiammella solcare le tenebre.

— Dove? chiesero tutti.

— Verso il bosco.

— Che i pirati cerchino d’incendiarci la casa? chiese Wan-Horn.

— Lo temo, disse il capitano. Vedo un fuoco brillare nella foresta.

— Ed io i pirati che strisciano fra le piante, disse Cornelio.

— Preparate le armi; se riescono a incendiare i bambù, questa
abitazione cadrà come un fastello di paglia. Li vedi, Cornelio?

— Si sono nascosti dietro a quel macchione. Ah!..

Una fiammella si era alzata dalla macchia ed era caduta sulla parte
anteriore della piattaforma, lasciandosi dietro parecchie scintille.
Cornelio, a rischio di cadere nel vuoto e di ricevere una freccia nel
petto, balzò attraverso ai bambù e la gettò via prima che comunicasse
il fuoco ai legnami dell’edificio.

— Sono freccie, gridò egli.

— Freccie! esclamò il capitano.

— Sì, zio, ma sulla punta portano un fiocco di cotone acceso.

— I birbanti! esclamò Horn. Cercano di appiccare il fuoco alla capanna
senza mostrarsi.

Un’altra freccia infiammata s’alzò dalla macchia e s’infisse nella
parete della casa, minacciando d’incendiare i tralicci e le stuoie di
nervatura di foglia. Hans fu però pronto a staccarla ed a spegnere il
fiocco di cotone.

— Se vi è cara la vita e non volete morire arrostiti, aprite il fuoco,
disse il capitano. Bisogna ricacciare i pirati nella foresta, o fra
breve la casa sarà in fiamme.

I naufraghi si accostarono presso le porte e cominciarono un fuoco
nutrito, mandando le palle entro la macchia e fra i cespugli, in mezzo
ai quali supponevano che si celassero i pirati.

Le scariche si succedevano alle scariche e le palle fischiavano ovunque
fracassando i rami e massacrando le foglie, ma i pirati, che parevano
decisi di finirla con quel pugno di difensori, non abbandonavano i loro
nascondigli e continuavano a lanciare le loro freccie ardenti, le quali
cadevano sulla piattaforma ed attorno alla casa.

Hans e il chinese correvano qua e là per spegnerle, mentre i loro
compagni continuavano a scaricare le armi, ma non potevano tener dietro
a tutte.

Due volte, nello spazio di cinque minuti, i bambù e le stuoie della
piattaforma avevano preso fuoco ed i due giovanotti avevano spento
l’incendio non senza fatica e riportando delle ustioni.

Quella lotta non poteva durare a lungo. Il capitano, Cornelio ed il
vecchio marinaio sparavano senza posa, ma le freccie diventavano più
numerose e si vedevano solcare le tenebre in tutte le direzioni, cadere
dinanzi e dietro la casa aerea e talune sul tetto.

— Zio! esclamò ad un tratto Hans, con voce angosciata. Non possiamo più
resistere: il tetto è in fiamme.

— Maledizione! gridò Wan-Stael, con rabbia.

— Stiamo per morire arrostiti! gridò Cornelio. Fuggiamo o la casa ci
mancherà sotto i piedi!




CAPO XVIII.

Caccia alle testuggini


La costruzione aerea, crivellata di freccie incendiarie, fiammeggiava
in diversi luoghi, minacciando di rovinare e di trascinare nella caduta
gli assediati.

Il tetto, costruito di foglie di arecche, di cocco e di leggieri bambù,
aveva preso fuoco alle due estremità e si erano pure incendiate le
pareti e il margine posteriore della grande piattaforma.

Le vampe, che ingigantivano rapidamente, trovando un buon alimento in
quelle foglie ed in quei legni secchi, illuminavano la notte, tingendo
la sottostante pianura e le boscaglie d’una luce sanguigna. Densi
nuvoloni di fumo s’alzavano vorticosamente sotto i soffi della brezza
notturna, e dal tetto rovinavano stuoie e graticci infiammati, tizzoni
ardenti che rimbalzavano sulla piattaforma provocando altri incendii
e nembi di scintille le quali volavano via, solcando le tenebre come
stelle. Anche la piattaforma inferiore aveva preso fuoco e si udivano i
bambù a crepitare sotto le fiamme e cadere al suolo con sordo rumore.

Il capitano ed i suoi compagni, impotenti a resistere in mezzo a
quell’abitazione che diveniva una fornace ardente, balzarono sulla
piattaforma esterna attraversando i vortici di fumo che li acciecavano.

I pirati, vedendoli comparire in mezzo alle fiamme, si slanciarono
fuori dalle piante mandando urla di trionfo e agitando minacciosamente
i loro pesanti _parangs_.

— Canaglie!... urlò Wan-Horn. Prendete!

Il più vicino, colpito dalla palla del marinaio, stramazzò a terra
emettendo un grido disperato.

— Presto, scendiamo!... gridò il capitano.

Approfittando dello scompiglio prodotto da quel fortunato colpo di
fucile, gli assediati calarono rapidamente le pertiche e due a due si
lasciarono scivolare sul pianerottolo, passando fra il fumo e le fiamme
che si alzavano sulla piattaforma inferiore.

I pirati, che si erano arrestati attorno al cadavere del loro
compagno, si lanciarono innanzi per farli prigionieri, ma ad un tratto
retrocessero vivamente.

In lontananza, verso il fiume, si erano udite delle urla, le quali
crescevano d’intensità. Cosa succedeva all’estremità della foresta?...
Qualche grave avvenimento senza dubbio, perchè gli assediati videro i
loro nemici raggiungere rapidamente il bosco e fuggire precipitosamente
verso l’est.

— Se ne vanno! esclamò Cornelio, stupito.

— Lasciali correre, gridò il capitano. Scendete: la casa sta per
crollarci addosso.

Si lasciarono scivolare a terra e s’allontanarono rapidamente, correndo
in direzione opposta a quella dei pirati. S’arrestarono solamente
all’estremità della pianura, celandosi in mezzo ad una folta foresta di
arecche e di banani selvatici.

La casa aerea fiammeggiava come un’immensa torcia e stava per crollare.
Lunghe fiamme s’alzavano e si abbassavano colle selvagge contrazioni
dei serpenti, lanciando in aria nuvoloni di fumo e nembi di scintille.

Il tetto era crollato, le due piattaforme, già quasi tutte distrutte,
cadevano a pezzi, ed i bambù, consumati alle estremità superiori e
nei punti d’appoggio, precipitavano al suolo con grande fracasso,
minacciando d’incendiare i cespugli e le piante arrampicanti.

— Era tempo! esclamò Cornelio. Pochi minuti di ritardo e noi
precipitavamo da un’altezza di sedici metri, e mezzo arrostiti.

— Ma i pirati, perchè sono fuggiti, mentre ormai ci tenevano in mano?
chiese Hans.

— Verso il fiume succede qualche cosa di grave, disse il capitano. Non
udite queste grida?

— Pare che laggiù succeda una battaglia, disse Horn. Che i pirati siano
stati assaliti?

— Ma da chi? chiese Hans.

— Forse da qualche tribù nemica, rispose il capitano. Gli abitanti
dell’interno, come vi dissi, sono in continua guerra con quelli delle
coste.

— Li hanno assaliti in buon punto, disse Cornelio. Udite?

Verso il fiume si udivano dei clamori assordanti: erano urla feroci,
urla che parevano di belve anzichè emesse da gole umane, e di tratto
in tratto dei sordi rulli che parevano prodotti da qualche istrumento
musicale, forse da un tamburo o da qualche cosa di simile.

Pareva che laggiù si combattesse furiosamente, poichè di quando in
quando s’udivano anche delle urla strazianti, come emesse da persone
che vengono sgozzate.

— Sì, succede una battaglia, disse il capitano. I pirati sono stati
assaliti, forse dagli Arfaki o dagli Alfurassi.

— Che i vincitori vengano poi ad assalire anche noi? chiese Cornelio.
Questa casa che fiammeggia può attirare la loro attenzione, zio.

— Non rimarremo qui ad attenderli, Cornelio. Lasciamoli uccidere a loro
comodo e pensiamo a prendere il largo.

— E la scialuppa? esclamò Wan-Horn.

— Torneremo più tardi a cercarla.

— La troveremo ancora?

— Speriamo che sia sfuggita alle ricerche dei pirati. Sarebbe un vero
disastro per noi se l’avessero scoperta.

— Lo credo, poichè non so come potremo poi guadagnar Timor.

— Andiamo, amici, prima che giungano i pirati od i loro avversari.
Cerchiamo un corso d’acqua per dissetarci e delle frutta da porre sotto
i denti.

Si ricacciarono nella foresta e si misero in marcia, procurando di
dirigersi verso l’ovest. Faceva molto oscuro sotto quegli alberi,
che erano così fitti da intercettare la luce della luna, ma ben
presto i loro occhi si abituarono a quelle tenebre e s’avanzarono con
sufficiente rapidità, malgrado le radici immense, le liane e le piante
arrampicanti che li costringevano a fare dei lunghi giri.

Le grida dei combattenti s’udivano sempre echeggiare verso il fiume,
ma di passo in passo che i naufraghi si allontanavano in quella nuova
direzione, diventavano sempre più fioche e meno distinte.

Dopo mezz’ora di marcia non si udivano quasi più, quindi cessarono
completamente. Era terminato il combattimento o gli avversari si erano
allontanati?... Pel momento i naufraghi non si occuparono di saperlo,
poco premendo a loro che avessero avuto la peggio i pirati o gli
Alfurassi, avendo da temere da parte di entrambi.

Verso la mezzanotte, dopo d’aver percorso sei o sette chilometri, i
naufraghi giungevano sulle sponde di un piccolo corso d’acqua, ingombro
di banchi sabbiosi e di piante acquatiche, e le cui sponde erano
coperte da una fitta vegetazione.

— Fermiamoci, disse il capitano. Ormai i vincitori non ci
raggiungeranno più.

Scesero la riva e si dissetarono, poi si misero in cerca di frutta per
calmare gli stiracchiamenti dello stomaco. La cosa non fu difficile,
contando la flora papuasiana un numero immenso di piante che danno
frutta squisitissime e che nascono senza bisogno di coltura.

Sulle rive di quel fiume abbondavano i mangostani che producono delle
frutta colla polpa bianca, divisa in chicchi, racchiusa in una buccia
amara e somigliante a quella di un melogranato. Sono senza dubbio le
migliori che esistano, riunendo l’aroma di mille frutta, ed in bocca si
fondono come un gelato.

Non mancavano nemmeno i _pombo_, aranci colossali, grossi come la testa
di un fanciullo, prodotti dal _citrus decumanus_, chiamato dai malesi
_bua kadangsa_, ottimi a mangiarsi.

Calmata la fame, rassicurati dal silenzio profondo che regnava sotto
quella gigantesca foresta e sulle rive del fiumicello, si sdraiarono
in mezzo ad una folta macchia di cespugli e s’addormentarono
tranquillamente, in attesa del sole. Il loro sonno non fu turbato da
alcun avvenimento. Le grida d’una banda di pappagalluzzi che aveva
preso dimora fra i rami d’un gigantesco tek li svegliò ai primi albori.

— Erano molte notti che non dormivo così bene, disse Cornelio, che si
stirava le membra. Era tempo che i pirati ci concedessero un po’ di
riposo.

— Si ode nulla? chiese il capitano.

— Non odo che gli uccelli a chiacchierare, zio. Pare che il
combattimento sia finito.

— Avessero almeno avuto la peggio i pirati, disse Wan-Horn. Ci
lascerebbero tranquilli per sempre.

— Lo sapremo presto, vecchio mio.

— Contate di riguadagnare il fiume, signor Stael?

— Sì, Horn: sono inquieto per la nostra scialuppa.

— Però ci lascerete prima far colazione. Il mio stomaco è vuoto e non
può accontentarsi di sole frutta.

— Io mangerei volontieri un paio di bistecche, disse Hans. La
selvaggina non deve mancare in questa foresta.

— È anzi vicina, disse il chinese, che da qualche istante osservava
attentamente le piante acquatiche.

— Hai scoperto qualche animale? chiese Cornelio, alzandosi col fucile
in mano.

— Guardate laggiù; non vedete le piante del fiume a muoversi?

— È vero, disse il giovanotto. Che vi siano dei grossi pesci, in questo
corso d’acqua?

— O qualche coccodrillo? disse Wan-Horn.

— No, disse il capitano. Laggiù vi è una colazione deliziosa, vecchio
mio.

Wan-Stael non s’ingannava; attraverso alle piante acquatiche si
vedevano avanzarsi sui banchi di sabbia degli animali bizzarri, di
forma circolare, ma un po’ allungata, del diametro di oltre mezzo
metro, con delle brevi gambe che pareva uscissero da una specie di
scudo.

— Cosa sono? chiesero Cornelio e Hans.

— Testuggini, disse Wan-Stael.

— A Timor non ho mai veduto simili rettili, zio, disse Cornelio.

— Ti farò assaggiare un arrosto squisito; a me, Horn.

Balzarono tutti e due sul banco che si allungava fino in mezzo al fiume
e si precipitarono sulle testuggini che non si erano accorte della
presenza dei nemici. In un batter d’occhio afferrarono due delle più
grosse e le rovesciarono sul dorso per impedire a loro di fuggire, ma
le altre si affrettarono a cadere in acqua ed a tuffarsi, nascondendosi
fra le piante acquatiche.

— Lasciale andare, Horn, disse il capitano. Abbiamo carne a esuberanza.

Chiamarono in loro aiuto Cornelio ed il chinese e trasportarono i due
rettili sulla riva. Erano lunghi più di ottanta centimetri, larghi
quaranta e pesavano complessivamente circa cento chilogrammi.

— Ma questi animali sono corazzati, disse Cornelio, che li esaminava
con viva attenzione.

— E la loro corazza è a prova di scure, nipote mio, disse il capitano.

— Ma come si trovano qui delle testuggini?... Mi hanno detto che vivono
solamente in mare, zio.

— Ve ne sono di quattro specie: quelle terrestri, che sono le più
comuni, grosse, corte, colle gambe che sembrano monconi; quelle
palustri che sono le più piccole, quelle fluviatili e le marine. In
quest’isola abbondano tutte le specie ed i selvaggi ne fanno un enorme
consumo, essendo la carne di questi anfibi eccellente.

— Ma di cosa si nutrono?

— Di erbe, di radici, di lombrichi, di insetti acquatici, e quelle
marine di alghe e di piccoli crostacei.

— Si trovano anche in altri paesi?

— Sì, Cornelio, in Asia, in Europa e sopratutto nell’America del sud.

— E sono così grosse?

— Ve ne sono di più piccole, ma anche di quelle enormi. Quelle
che vivono fra i boschi della catena dell’Himalaya dànno perfino
duecentocinquanta libbre di carne, senza contare il peso dei gusci che
è rilevantissimo; ma le più colossali sono quelle chiamate elefantine
che si trovano in Africa, nel canale di Mozambico, nell’isola di
Madagascar, nell’isola Riunione e alle Borbone.

Sono lunghe come queste che abbiamo prese, ma raggiungono una grossezza
straordinaria, le dimensioni di una botte di vino di media grandezza.
Sono poi talmente robuste, che portano sul loro dorso perfino dei
ragazzi.

Anche nelle isole Gallapagos se ne trovano di quelle grandissime dei
veri mostri che sembrano appartenere all’epoca antidiluviana, al mondo
del mammouth.

— Servono solamente a mangiare?

— Tutt’altro, Cornelio. Sui fiumi dell’America del sud si cacciano per
averne i gusci, i quali hanno molto valore in commercio, adoperandosi
nella fabbricazione dei pettini, dei ventagli di lusso, dei manichi di
coltello di pregio, degli occhiali, ecc. Alcune specie di testuggini,
specialmente fluviatili, dànno delle scaglie bellissime che si pagano
assai care, altre invece si cacciano per ricavare dal loro grasso
un olio finissimo, chiaro, d’una squisitezza incredibile. Di questi
poveri anfibii si fa un consumo veramente enorme, e, se continua la
distruzione, fra non molti anni spariranno. Già nell’America del sud
cominciano a diventare scarsi.

— Quantunque i cacciatori di testuggini non uccidano sempre l’animale,
disse Wan-Horn.

— È vero, disse il capitano. Quando le prendono, prima si assicurano
della bellezza del guscio, poi della grossezza del corpo, facendo una
profonda incisione presso la coda per vedere se possono dare una certa
quantità di olio. Se la scaglia è brutta e l’animale è magro, lo si
rigetta in acqua perchè si ingrassi.

— E se sono magre e hanno il guscio bello?

— Le privano del guscio e lasciano andare l’animale.

— Il quale non tarderà a morire, così spaventosamente mutilato.

— No, Cornelio. Quantunque privo del suo guscio, che fu la sua culla
e che dovrebbe essere anche la sua cassa mortuaria, il povero anfibio
vive. Va a nascondersi in qualche fessura che diventa il suo ospitale,
rifà la pelle scorticata dall’avido cacciatore ed a poco a poco il suo
guscio, il quale però non sarà più così bello, nè così liscio come il
primo.

— Poveri anfibi!... Perdono la casa e rifanno un abituro forse incomodo.

— Pure vivono, trascinando il loro corpo deforme ed il loro guscio
imperfetto, lungo le sponde dei fiumi.

— Deve essere un martirio atroce, zio, disse Hans.

— Certo, specialmente quando si sentono scorticare dal coltello del
cacciatore e privare della loro casa protettrice. Wan-Horn, dimentichi
la colazione.

— È vero, capitano, disse il marinaio.

Aiutato dal chinese raccolse parecchi rami secchi e accese un allegro
fuoco. Quando furono semi consumati, prese una testuggine, la decapitò
con un colpo di coltello e senza estrarla dal guscio la depose sui
carboni ardenti.

Ben presto un odore appetitoso si sparse nella foresta. La testuggine
si cucinava nel suo guscio, friggendosi nel proprio grasso.

Quando fu cotta appuntino, il marinaio l’aprì con pochi colpi di scure,
e depose quella massa di carne deliziosa e profumata dinanzi ai suoi
compagni.

Non sarebbe necessario il dire che tutti fecero onore all’arrosto,
dopo venti ore di digiuno. Ne divorarono mezzo, mettendo il restante in
serbo pel pranzo.

Terminato il pasto, il capitano ed il marinaio accesero le loro pipe,
poi diedero il segnale della partenza, portando con loro la seconda
tartaruga che contavano di arrostire all’indomani.

Procedendo cautamente, ma con notevole velocità, verso il mezzodì,
giungevano presso le rive del fiume, sulle cui sponde speravano di
ritrovare la loro scialuppa.




CAPO XIX.

Gli alberi sagu


Un silenzio quasi assoluto, essendo solamente rotto dal cicalare d’una
coppia di pappagaluzzi, regnava sulle rive di quel corso d’acqua.

Le grida di guerra, che si erano udite durante la notte, erano cessate
e non s’udiva più nemmeno il rullo di quella specie di tamburo. Pareva
che i pirati ed i nemici che li avevano assaliti avessero abbandonato
definitivamente quei luoghi.

Aprendosi il passo attraverso ai cespugli ed alle piante arrampicanti
con mille precauzioni, e sostando ogni momento per ascoltare, temendo
di cadere in qualche agguato, i naufraghi s’avvicinarono alla sponda,
gettando un lungo sguardo sul fiume.

Non videro alcuno: nè i pirati, nè le loro piroghe, nè i misteriosi
nemici; però si scorgevano le tracce d’un furioso combattimento.

I cespugli erano spezzati, calpestati; le erbe acquatiche strappate, il
banco di sabbia, che la bassa marea aveva lasciato scoperto, era sparso
di pezzi di lancia, di mazze scheggiate o rotte e sui tronchi degli
alberi si vedevano infisse numerose freccie. Più oltre, verso la riva
opposta, si vedeva sorgere dal letto del fiume un rottame che pareva
la chiglia d’un canotto, e fra le erbe gli avanzi d’alcuni uomini che
parevano fossero stati semi-divorati dai coccodrilli.

— I pirati sono stati assaliti e distrutti o messi in fuga, disse il
capitano.

— Dagli Alfurassi? chiese Cornelio.

— Di certo, rispose Wan-Stael.

— Che ci sia qualche villaggio in queste vicinanze?

— Lo temo, Cornelio, e sarà cosa prudente allontanarci presto da questi
luoghi.

— Purchè ritroviamo la scialuppa.

— Andiamo a vedere: comincio ad essere inquieto.

— Temi che l’abbiano scoperta?

— Sì, Cornelio.

— Sarebbe un disastro irreparabile per noi, zio.

— Sì, ragazzo mio. Ecco laggiù quel tek, che deve servirci di guida; la
scialuppa deve essere a pochi passi da quel colosso.

— Sì, capitano, confermò Wan-Horn. Non possiamo ingannarci.

— Affrettiamoci; ardo d’impazienza.

Scesero la riva del fiume e si misero a costeggiare la foresta,
avanzando sempre con mille precauzioni, non sapendo ancora se quel
luogo era proprio deserto. Di passo in passo che si avvicinavano
al tek, il quale torreggiava sulla sponda, bagnando le sue radici
nell’acqua, le loro inquietudini crescevano ed i loro sguardi si
fissavano angosciosamente sulle piante e sui cespugli, sotto i quali
doveva trovarsi la loro imbarcazione.

Ad un tratto Cornelio, che precedeva i compagni, si arrestò.

— Zio, diss’egli, con voce alterata. Non vedo più l’ammasso di rami che
avevamo gettato sulla scialuppa.

— Che ce l’abbiano proprio rubata? esclamò Wan-Stael, impallidendo.

Si slanciò innanzi e aprì i cespugli: un grido mal frenato gli uscì:

— Infami!...

— L’hanno rubata? chiesero Wan-Horn, Hans e Cornelio accorrendo.

Il capitano mostrò a loro, con un gesto disperato, i cespugli che
giacevano a terra, spezzati e strappati,

— Ah! ladri!... esclamò Cornelio, pallido d’ira.

— Siamo rovinati! esclamò il marinaio.

La scialuppa infatti, non esisteva più. Quantunque fosse stata bene
nascosta fra i cespugli e poi ricoperta di rami e di foglie, era
stata trovata dai pirati o dai loro nemici, e portata via assieme agli
attrezzi ed ai viveri che conteneva. Non avevano lasciato a terra che
un remo spezzato, affatto inservibile e pochi pezzi di corda.

— Cosa faremo ora noi? si chiese Wan-Stael, che pareva avesse perduta
tutta la sua energia e tutto il suo coraggio. Chi ci condurrà ora a
Timor? Miserabili, perfino gl’istrumenti nautici hanno tentata la loro
cupidigia!...

— E non ci hanno lasciato nemmeno un biscotto, disse Cornelio.

— Quale disastro se non si avesse avuta la precauzione di portare con
noi le munizioni, disse Wan-Horn. Fortunatamente abbiamo ancora sette
od ottocento cariche, e quando si hanno delle armi, in questo paese non
si muore di fame.

— Ma come riguadagneremo la nostra isola, ora che ci manca la
scialuppa? chiese Hans.

— Udiamo, capitano, disse Horn. Sapreste dirci dove ci troviamo?

— Che siamo qui o più lontani, che importa, Horn? disse Wan-Stael.

— Forse la nostra situazione non è disperata, capitano, e con un po’
di coraggio possiamo uscire da questo ginepraio. Volevo sapere se siamo
molto lontani da Dory.

— Dal porto di Dory!... esclamò Wan-Stael, che ebbe un lampo di
speranza.

— Sì, e se possiamo giungervi non avremo difficoltà a tornare in
patria. Voi sapete che quel porto è frequentato dai pescatori di
_trepang_ malesi e chinesi e dai nostri compatrioti che si recano colà
ad acquistare gusci di tartarughe, noci moscate, garofani e uccelli del
paradiso imbalsamati.

— È vero, Horn; non avevo mai pensato a quel porto.

— Sapreste dirci se è molto lontano?... Credete che si possa
raggiungerlo?

— Lo temo, Wan-Horn, trovandosi a settentrione della penisola
occidentale, al di là della baia di Geelwink. Bisognerebbe attraversare
più di mezza isola, passando fra foreste impenetrabili e popolate da
gente feroce. Ho un altro progetto però, che mi sembra migliore e più
facile.

— Gettatelo fuori, signor Stael.

— Tu sai che al sud-ovest si scarica la Durga, che è uno dei più
considerevoli fiumi dell’isola. Cerchiamo di raggiungerla, scendiamola
fino alla foce costruendo o una zattera o scavando una scialuppa nel
tronco d’un albero, e di là ci spingeremo verso le isole Arrù che sono
pure frequentate dai nostri compatrioti e dai pescatori di _trepang_.
Non deve essere lontana più di venti o trenta leghe, ossia ottanta o
centoventi chilometri, e possiamo giungere sulle sue sponde fra sei od
otto giorni.

— Bell’idea, capitano! esclamò Wan-Horn.

— E non possiamo costeggiare l’isola, evitando così le foreste? chiese
Cornelio.

— Raddoppieremmo la via, disse Wan-Stael. La costa meridionale è assai
frastagliata e verso il sud-ovest s’avanza verso il mare per molte e
molte leghe. Non basterebbe un mese per giungere alla Durga.

— Ma siamo senza viveri, zio.

— Non ci metteremo in marcia senza provviste, Cornelio. Non possiamo
contare sempre sulla selvaggina, la quale può mancare.

— Ma io non vedo altro che delle frutta molto deliziose sì, ma poco
nutritive.

— Porteremo con noi una grossa provvista di biscotti e migliori di
quelli che ci hanno rubati.

— Hai trovato qualche fornaio o qualche campo di frumento? chiese
Cornelio, ridendo.

— Nè l’uno nè l’altro, ma ti dico che in breve avremo del pane a
volontà. È vero, Horn?

— Per bacco! E che pane, signor Cornelio!... disse il marinaio. Voi
sarete il fornaio e noi i mugnai.

— Voglio vedere questo miracolo.

— E anch’io, disse Hans.

— Prima di tutto troviamo un accampamento più sicuro e più adatto,
disse il capitano. Qui non spira buona aria per noi e ci occorre
un luogo deserto, dove possiamo lavorare senza timore di venire
disturbati. Coraggio, ragazzi miei, allontaniamoci da questo fiume e
andiamo a nasconderci in una foresta.

La prudenza li consigliava ad allontanarsi, per tema di veder
ricomparire in quei luoghi od i pirati che potevano essere stati
solamente respinti, od i loro nemici che potevano abitare in quei
dintorni.

Ripresero la loro testuggine che non volevano abbandonare e si
rimisero in marcia attraverso alla foresta, dirigendosi verso l’ovest.
Il marinaio, che possedeva una piccola bussola, li guidava senza
tema di errare, quantunque quelle foreste fossero assai fitte e non
permettessero di mantenere una via retta.

Hans e Cornelio, pur strisciando fra quelle migliaia di piante che
diventavano sempre più fitte e più intricate, nella loro qualità di
cacciatori stavano attenti per non lasciar sfuggire qualche capo di
selvaggina che poteva da un istante all’altro alzarsi fra i cespugli;
ma non si vedevano che uccelli, ma quali splendidi volatili!... Ora
apparivano stormi di superbe colombe coronate, ora delle coppie di
_epimachus magnificus_, uccelli di taglia elegantissima, colle penne
nero-vellutate sul dorso, la gola ed il petto azzurro-cupo con riflessi
verdastri, la coda lunga, adorna di barbe sottili che sembrano peli, o
di _epimachus albus_, bizzarri volatili grossi come i nostri piccioni,
colle penne d’una bianchezza abbagliante nella parte posteriore del
corpo, e nerissime, a riflessi verdastri, nella parte anteriore e
forniti d’una coda stravagante, composta di sei o sette pungiglioni
arricciati, o delle bande di _promerops superbi_, neri di penne, con
una coda lunga e voluminosa ed un grosso ciuffo di penne arricciate sul
capo, senza poi contare gli stormi numerosi di pappagalli chiassosi e
dalle penne smaglianti.

Pareva invece che i quadrupedi mancassero in quella regione, poichè
non si scorgevano nè porci selvatici, nè babirussi che sono pur tanto
abbondanti in certe regioni di quella grande isola.

Verso le tre, mentre attraversavano una piccola pianura, i tre
naufraghi fecero una scoperta singolare. Era un albero, un _fico
pisocarpa_, il quale invece di portare sui rami delle frutta, era
coperto di strani uccellacci, forniti di un pelame color marrone ma con
riflessi rosso-giallastri, grandi come polli e che stavano appesi per
le gambe, tenendo il capo in giù. Ve n’era almeno duecento e parevano
addormentati, tenendosi strettamente avviticchiati nelle loro ali
membranose.

— Cosa sono? chiesero Hans e Cornelio, stupiti.

— _Pteropus eduli_, rispose il capitano, ridendo, o, se vi piace
meglio, pipistrelli giganti che attendono le tenebre per spiccare il
volo.

— Dei pipistrelli così grossi! esclamò Hans. Ma cosa fanno, appesi ai
rami di quest’albero?

— Dormono, dopo d’averlo spogliato delle sue frutta, essendo molto
ghiotti di quei fichi.

— Devono essere cattivi, questi brutti volatili.

— Niente affatto, Hans.

— So che tutti li temono.

— E hanno torto, poichè invece sono utilissimi, distruggendo un numero
considerevole di insetti nocivi all’uomo, le zanzare e tanti altri che
ci succhiano il sangue durante il sonno.

— So che dappertutto si uccidono, zio.

— È vero, questi disgraziati volatili, che sembrano topi volanti,
sono esecrati da tutte le popolazioni, senza motivo, o per causa di
stupide superstizioni. Da noi usano inchiodarli sulla porta della casa,
i bretoni fanno altrettanto, perchè credono che quei poveri animali
vadano a bere l’olio dei vasi sacri e delle lampade degli altari, e le
popolazioni dell’Europa meridionale li bruciano vivi perchè li credono
spiriti delle tenebre.

— Dimmi, zio, sono ciechi i pipistrelli? chiese Cornelio. Non si vedono
volare che di notte.

— No, ma pare che i loro occhi non siano a loro di alcuna utilità. So
che molti si sono provati ad acciecarli, ma pure volavano egualmente,
senza mai toccare dei sottili fili tesi dinanzi a loro. Pare che si
dirigano col tatto e che posseggano anche un udito acutissimo, mentre
invece il loro odorato sarebbe mediocre. Andiamo, ragazzi; il pane ci
aspetta.

— Ma dov’è? chiesero i nipoti.

— Presto lo troveremo.

Si rimisero in marcia, mantenendo costantemente la direzione primitiva,
passando da una foresta all’altra e raccogliendo di quando in quando
delle frutta; ma un’ora dopo il capitano si arrestava in mezzo a
un’altra radura, assai ristretta, circondata da foreste.

Egli indicò un albero alto cinque o sei metri, del diametro di un
metro, fornito di un ciuffo di foglie lunghe parecchi metri e che
invece di crescere dritto era piegato obliquamente.

— Ecco il nostro pane, disse.

— Il nostro pane! esclamarono i due giovinotti stupiti.

— E molto delizioso, signori miei, disse Wan-Horn. La farina è matura,
poichè vedo le foglie coperte d’una polvere giallastra.

— Ma dov’è nascosta questa farina?

— Nel tronco dell’albero, signor Cornelio.

— Vuoi scherzare, vecchio Horn.

— No, ve lo assicuro: ora lo vedrete.

Il marinaio afferrò la scure e si mise a picchiare furiosamente il
tronco dell’albero, il quale però opponeva una resistenza incredibile.
Il capitano dovette surrogarlo dopo un quarto d’ora e finalmente la
pianta, recisa circolarmente, a trenta centimetri dal suolo, cadde con
grande fracasso.

— Guardate, disse il marinaio.

Hans, Cornelio ed il giovane pescatore s’avvicinarono e con loro grande
sorpresa videro che quel tronco era ripieno d’una materia leggermente
rosea e molto dura, a giudicarla a colpo d’occhio.

— Che cos’è questa? chiese Cornelio.

— Farina, o, se ti va meglio, _sagu_, disse il capitano.

— Ma l’ho udito nominare ancora, anzi l’ho assaggiato a Timor, zio.

— Ti credo, crescendo anche in quell’isola.

— E ti dirò che l’ho trovato molto nutriente e buonissimo.

— È una pianta meravigliosa! esclamò Hans.

— E assai preziosa, disse il capitano, crescendo senza bisogno di
coltura e producendo assai. Bastano tre alberi per nutrire una famiglia
per un intero anno.

— Vi sono molte di queste piante, zio?

— Moltissime e non si trovano soltanto qui. Le migliori e le più
produttive sono quelle chiamate dai naturalisti _metroxilon sagus_
e _metroxilon rumphii_, ma ve ne sono molte altre. Crescono in quasi
tutte le isole della Malesia, specialmente nel Borneo, nelle Filippine,
nelle Molucche, in quest’isola, in India, alle Maldive, a Sumatra
ed in America, a Nuova Orleans, ma la farina che producono non è
sempre eguale. Quella delle Maldive, per esempio, è granulosa, dura,
grigiastra, ma non uniforme; quella di Sumatra ha grani rotondi o
gialli o bianchi; quella di Nuova Orleans è pure grigiastra e quella
delle Molucche e della Nuova Guinea è rossa o bianca o grigia, ed ha la
proprietà di diventare lucidissima, se si lascia per qualche tempo in
acqua.

— Si ricava molta farina da un albero di questa grossezza?

— Circa trenta _toman_[9], ossia 450 chilogrammi.

— Che paese fortunato, zio!...

— Lo credo, perchè in quattro o cinque giorni di lavoro una persona può
assicurarsi il pane per dodici mesi.

— Ma come si prepara questa farina?

— Ora lo vedrai. Al lavoro, mio vecchio Horn.

Il marinaio non aveva perduto il suo tempo. Recise le grandi foglie,
percuoteva a gran colpi di scure il tronco atterrato, tagliandolo
in pezzi lunghi sessanta o settanta centimetri; ma aveva molto da
faticare, poichè, quantunque la corteccia non avesse che uno spessore
di tre centimetri, era talmente dura, da fare talvolta rimbalzare il
ferro.

I suoi sforzi però trionfarono e il tronco fu finalmente tagliato in
otto pezzi.

— La mazza, chiese il marinaio, tergendosi il sudore che gli irrigava
la fronte. Bisogna sfondare le radici interne.

Il capitano, che aveva tagliato un grosso e pesante ramo squadrandolo
con cura ad una estremità, stava per porgergliela, quando ad un tratto
si udì echeggiare un urlo terribile.

Tutti si volsero e videro il giovane pescatore dibattersi
disperatamente fra le spire di un gigantesco serpente, che si era
improvvisamente rizzato in mezzo ad un cespuglio vicino.

— Gran Dio!... esclamò il capitano, mentre tutti indietreggiavano
atterriti... Un pitone!




CAPO XX.

I boschi della Papuasia


Se la Nuova Guinea è la patria prediletta dei più splendenti uccelli
della creazione, è pure la patria dei serpenti e sopratutto dei pitoni,
che sono i più grandi ed i più formidabili rettili delle boscaglie.

Non hanno altri che li sorpassino in lunghezza, tranne i boa
dell’America tropicale, e raggiungono i cinque, i sei e perfino i sette
metri, ordinariamente però non oltrepassano i tre e mezzo.

Si trovano in quasi tutte le isole della Malesia, in India, dove sono
numerosi, ed in Africa, ma in Europa mancano. Si trovano però allo
stato fossile, specialmente nei terreni terziarii, e ciò dimostra che
un tempo non erano rari nemmeno nei nostri paesi.

Questi rettili non sono velenosi, mancando delle glandole che si
trovano in quasi tutti gli altri, ma perciò non sono meno temibili,
anzi sono più feroci e più pericolosi, perchè osano assalire non
solo l’uomo, ma perfino i grossi animali e anche le tigri. L’inglese
Hadington ne vide uno sulle rive del Gange, sorprendere una di quelle
terribili fiere, stringerla fra le potenti spire e soffocarla, malgrado
i colpi d’artiglio che lo squarciavano.

La loro forza muscolare è così potente, che stritolano fra le loro
viscose anella dei buoi, spezzando a loro le robuste ossa, e la loro
vitalità è così potente che talvolta, anche dopo uccisi, per parecchie
ore trattengono la preda.

Schouten, nel suo viaggio in India, narra a questo proposito il
seguente fatto.

Durante la raccolta del riso, alcuni contadini del Malabar avevano
lasciato nella loro capanna un ragazzo, il quale, essendo malaticcio,
non poteva seguirli nei campi.

Essendo il ragazzo uscito, era stato sorpreso da un pitone gigante,
mentre erasi addormentato all’ombra di una palma. Tornati i contadini,
udirono dei gemiti soffocati, ma sulle prime non vi fecero caso;
continuando però, uscirono dalla casa e videro il mostruoso serpente
che stava ingoiando la preda ancora vivente. Il padre del ragazzo,
fattosi animo, afferrò una scure e tagliò a metà il serpente, ma
questo, sebbene mozzo, continuò a ritenere il ragazzo, il quale non fu
estratto dalle spire che dopo parecchie ore ed affatto privo di vita.

Questi serpenti vivono per lo più nelle foreste calde e umide e là
attendono la preda, o sospesi a qualche grosso albero mercè la loro
coda prensile o appiattati in mezzo ai cespugli. Preferiscono celarsi
presso i fiumi, per sorprendere gli animali che vanno a dissetarsi.

Quantunque non siano molto grossi, pure sono capaci di inghiottire
delle prede che pesano venti volte più di loro e che sono dieci o
quindici volte più voluminose, essendo straordinaria la dilatabilità
delle loro mascelle. Assorbono, per così dire, la preda tutta d’un
pezzo, non avendo unghie per lacerarla, impiegando però molto tempo,
delle giornate intere e qualche volta perfino una settimana.

Il pitone che aveva sorpreso il giovane pescatore era uno dei più
giganteschi, poichè misurava almeno sei metri. L’orribile rettile,
che forse dormiva in mezzo a quel fitto cespuglio, accortosi della
vicinanza della preda, era strisciato fuori senza produrre alcun
rumore, e con una mossa fulminea l’aveva avvinto fra le formidabili
spire. Il disgraziato chinese, quasi soffocato da quelle anella
che cercavano di stritolarlo, pallido come un cadavere, cogli occhi
schizzanti dalle orbite, agitava disperatamente le braccia rimaste
libere, tentando di respingere la testa del serpente, il quale faceva
vibrare su di lui la lunga lingua biforcata.

Cornelio, Hans e lo stesso Wan-Horn, paralizzati dal terrore,
erano rimasti come inchiodati al suolo, ma il capitano si era
slanciato innanzi impugnando una scure. Egli sapeva che un momento
di ritardo poteva essere fatale pel povero chinese, le cui ossa già
scricchiolavano sotto la potente stretta.

L’arma piombò con forza irresistibile sulle scaglie del mostro,
troncando nettamente il corpo a due metri dalla coda. Colpito a morte,
svolse rapidamente le anella lasciando cadere il chinese, e quantunque
così mutilato e sanguinante, si volse contro quel nuovo nemico
emettendo sibili di rabbia.

Wan-Stael però non era uomo da spaventarsi. Retrocesse rapidamente per
non venire investito, poi la sua scure piombò per la seconda volta sul
serpe, il quale cadde sull’erba col cranio fracassato, contorcendosi
disperatamente.

— Mio povero ragazzo! esclamò il brav’uomo, precipitandosi verso il
chinese. Ti ha spezzato le costole?

— No, signore, rispose il pescatore, con voce rotta. Mi ha mezzo
soffocato, ma mercè il vostro pronto intervento mi ha risparmiate le
ossa.

— Non ti eri accorto del suo assalto? Non lo avevi veduto?

— No, signore. Volgevo le spalle al cespuglio e tutto d’un colpo mi
sono trovato fra le spire del serpente. Ah! che paura, capitano!

— Lo credo, mio povero giovanotto. Fortunatamente sono giunto a tempo
per spacciarlo.

— Ah zio! esclamò Cornelio. Non ho mai provato un terrore simile; mi
sono sentito mancare le forze.

— Lo credo; questi serpenti fanno più paura delle tigri. Còricati e
riposa, Lu-Hang e noi mettiamoci al lavoro prima che giunga notte.

Wan-Horn, che si era riavuto dallo spavento, si mise animosamente
all’opera. Afferrò il grosso randello preparato dal capitano,
somigliante ad una mazza, e si mise a pestare la midolla rosea del
sagu, che si trovava nel pezzo di tronco ancora piantato in terra.

— Perchè la pesti qui dentro, invece di estrarla? chiese Cornelio che
seguiva attentamente quell’operazione.

— Perchè è trattenuta da una vera rete di fibre, rispose il marinaio.
Se non si spezzano, non si potrebbe estrarla. Ecco, guardate!

Il capitano che si era rimboccate le maniche, cacciò le braccia nel
tronco ed estrasse un cumulo di farina la quale era mescolata a delle
sottili fibre bianchissime, ma molto resistenti.

— Mangeremo anche quelle fibre? chiese Cornelio.

— No, rispose il capitano. Guasterebbero il pane, poichè sono legnose.

— Bisogna levarle?

— Sì, e per far ciò fabbricheremo uno staccio con delle fibre di cocco,
onde perdere meno tempo.

Il capitano vuotò quella specie di mortaio costituito dal tronco
inferiore dell’albero, saldato solidamente in terra dalle poderose
radici e ammucchiò la farina sulle grandi foglie della pianta.

Prese poi uno dei pezzi del tronco, tagliati prima da Wan-Horn, lo
sovrappose al mortaio e maneggiando robustamente la mazza, fece cadere
la farina, pestandola per bene.

La manovra fu ripetuta anche per gli altri pezzi, ottenendo in poche
ore un ammasso enorme di farina, del peso di circa quattrocento
chilogrammi.

Era però da depurare, contenendo ancora le fibre, ma essendo calata la
notte, quella seconda operazione fu rimandata a domani.

Alcuni chilogrammi di quella fecula nutriente furono però sbarazzati di
quelle radici, impastati con un po’ d’acqua e ridotti in focaccie, le
quali furono messe a cucinare sui carboni.

Tutti fecero molto onore a quel pane gustoso, servito caldo e alla
testuggine arrostita. Dopo cena Wan-Horn piantò in terra alcuni rami
d’albero che coprì, superiormente, colle immense foglie d’un banano,
formando una specie di tettoia che doveva difenderli dall’umidità della
notte e per renderla più sicura, la circondò coi cilindri formati dai
pezzi del tronco di sagu, i quali potevano difenderli dalle freccie dei
selvaggi.

Cornelio montò il primo quarto di guardia imboscandosi in mezzo ad un
cespuglio e gli altri s’addormentarono.

Quelle precauzioni furono inutili perchè la notte passò tranquilla.
Nè uomini, nè belve si fecero vedere nei dintorni, e il silenzio più
perfetto regnò nelle vicine foreste.

L’indomani, all’alba, erano tutti al lavoro per preparare le loro
provviste di pane. Wan-Horn aveva costruito una specie di staccio con
delle fibre di noce di cocco e sbarazzava rapidamente la farina dalle
radici.

Il capitano e Hans versavano l’acqua nello staccio per far passare la
fecola, e Cornelio ed il chinese la impastavano, formavano dei pani del
peso di due chilogrammi, che poi esponevano al sole per seccarsi.

Avrebbero potuto ridurla anche in granelli per fare delle minestre
eccellenti, ma sarebbe stato necessario un recipiente di ferro e non
possedendolo furono costretti a rinunciarvi. Per ottenere il sagu
granulato, come si smercia in Europa, si lascia cadere la farina
in una grande caldaia posta sul fuoco, prima però che sia secca. Si
lascia torrefare leggermente, mescolandola continuamente, poi si leva
e s’impacchetta nelle scatole. I granellini così ottenuti acquistano un
sapore più gradevole e assumono una tinta più rossastra.

A mezzodì, già duecento pani stavano seccando al sole. Essendo
sufficienti, non potendo i naufraghi caricarsi d’un peso enorme,
abbandonarono la rimanente farina agli uccelli.

Alla sera quei pani, che si erano perfettamente asciugati, furono
avvolti in foglie di banano onde si conservassero meglio ed ammucchiati
sotto la tettoia.

— Ne avremo per un mese, disse il capitano. Domani potremo rimetterci
in viaggio, senza tema di dover soffrire la fame.

— Ma ci manca la carne, disse Hans.

— Ce la procureremo lungo il viaggio, ghiottone. Gli uccelli non
mancano in questa foresta e nemmeno gli animali.

— Sarà invece cosa prudente portare con noi una provvista d’acqua,
disse Wan-Horn. Non troveremo sempre dei fiumi o degli stagni per
dissetarci.

— Ma noi non possediamo alcuna bottiglia, disse Cornelio. Dove vuoi
metterla?

— Nemmeno i papuasi posseggono bottiglie, disse il capitano, pure hanno
dei recipienti e nei loro canotti l’acqua dolce non manca mai.

— Cosa hanno adunque?

— Ora lo vedrai.

Raccolse la scure, s’avvicinò ad un gruppo di bambù grossi come una
coscia d’uomo e ne abbattè uno, tagliandolo a pezzi.

— Ecco il recipiente, disse, raccogliendone uno. Come sai, i bambù sono
vuoti fra un nodo e l’altro; questo ha un nodo sopra ed uno sotto.

— Ti comprendo: fai un buco nel nodo superiore, vi introduci l’acqua ed
ecco ottenuto una botticella.

— È proprio così, Cornelio. Come vedi, qualche volta i selvaggi possono
insegnare anche a noi. Orsù, corichiamoci e domani ci metteremo in
cammino per giungere alla Durga.

Stavano per sdraiarsi sotto la tettoia, quando con loro grande sorpresa
udirono i latrati d’un cane, che venivano dalla parte del bosco.

— I papuasi? chiese Cornelio, balzando in piedi.

— È impossibile! esclamò il capitano, afferrando il fucile e
slanciandosi all’aperto.

Horn ed i tre giovanotti, assai inquieti, erano pure usciti portando
con loro i fucili. I latrati continuarono, ad intervalli regolari, ma
senza avvicinarsi.

— È impossibile che vi siano dei papuasi, ripetè il capitano, che non
staccava gli sguardi dal bosco.

— Per quale motivo? chiese Cornelio.

— Perchè non hanno mai avuto cani, anzi non li conoscono.

— Pure sono latrati di cane, zio.

— Che ci sia qualche cacciatore europeo? chiese Wan-Horn.

— Qui, in mezzo a queste foreste, così lontane dai porti frequentati
dalle navi?

— Qualche esploratore, signor Stael.

— Uhm! Non ci credo, Wan-Horn.

— Ma come volete che vi sia un cane senza padrone?

— Sarà un cane, Horn?

— E cosa volete che sia? Questi sono abbaiamenti.

— Ma se fosse uno di quegli animali, a quest’ora sarebbe qui, mentre mi
pare nè che s’avvicini, nè che s’allontani.

— È vero, capitano.

— Tenete pronte le armi e andiamo a spiegare questo mistero.

Tenendosi riparati dietro i cespugli, per non ricevere improvvisamente
una volata di freccie avvelenate, raggiunsero il bosco che cominciava
a diventare oscuro, essendo il sole prossimo al tramonto. La loro
sorpresa raggiunse il colmo udendo i latrati venire dall’alto.

— Tò!... esclamò Cornelio. Che abbiano legato un cane fra i rami degli
alberi? Cosa ne dici, zio?

Il capitano, invece di rispondere, scoppiò in una fragorosa risata.

— Ridi?... esclamarono Hans e Cornelio.

— Vi è da slogarsi le mascelle, ragazzi miei, diss’egli. Volete vedere
il preteso cane? Guardate fra i rami di quel _durion_.

Tutti alzarono gli occhi e scorsero, appollaiato su di un grosso ramo,
un uccello nero, grande come un corvo, il quale emetteva a regolari
intervalli dei latrati così perfetti, che parevano uscissero dalla gola
d’un cane.

— Bizzarro paese!... esclamò Cornelio. Si sono mai veduti in altri
luoghi degli uccelli che latrano?...[10].

— Fortunatamente sono innocui, disse il capitano. Andiamo a dormire,
amici.

Anche quella seconda notte, passata in quella piccola radura, trascorse
tranquilla. Vi fu solamente un falso allarme durante il quarto di
guardia del marinaio, essendosi uditi dei rumori nel vicino bosco, ma
li attribuirono a degli animali pascolanti fra i cespugli.

Alle sei del mattino i naufraghi erano in piedi, pronti a mettersi
coraggiosamente in marcia verso l’ovest. Ripartirono le loro provviste
di _sagu_ proporzionatamente alle forze di ognuno, riempirono d’acqua
i loro bariletti di bambù, e dato un addio alla loro capannuccia si
cacciarono sotto a folti boschi, decisi a raggiungere la Durga.

La marcia non era facile in mezzo a quelle piante che impedivano ai
raggi del sole di penetrare, tanto erano così fitte. I tek, i sagu,
i mangostani, i cedri, i bambù, le _arenghe saccarifere_, i _betel_,
i _rotang_ si succedevano gli uni agli altri intrecciando i loro rami
e le loro radici, mentre le piante arrampicanti e le liane formavano
delle reti impenetrabili, correndo da un tronco all’altro, salendo,
discendendo, serpeggiando per terra.

Non mancavano gli alberi da frutta, i quali crescevano senza coltura
alcuna. Si vedevano numerosi mangostani carichi di quelle frutta
deliziose che ormai i naufraghi avevano assaggiate e che hanno il
vantaggio, come quelle dei banani, di essere sanissime e di non
produrre alcun disturbo anche se prese in grande quantità; giganteschi
_durion_ i cui rami si piegavano sotto il peso delle loro grosse frutta
che sono pericolosissime se cadono sul capo a qualcuno, essendo irte
di acute spine, e grosse come la testa di un uomo; i _buà nangha_ od
_artocarpi integrifoglia_, altissimi, con grossi rami e che danno le
frutta più colossali, poichè occorrono due uomini per portarle, ma
assai nutrienti e che maturano tutto l’anno, e dei _manghi_, ma di
qualità scadente e poco fruttiferi, crescendo allo stato selvaggio.

Dopo cinque ore di marcia continua, i naufraghi giungevano in mezzo
ad un grande gruppo d’alberi, i quali tramandavano un odore speciale e
assai acuto.

— Non senti questo profumo delicato, zio? chiese Cornelio.

— Sì, disse il capitano, che s’era arrestato.

— Sono quegli alberi che lo esalano?

— Sì, Cornelio, e aggiungerò che qui vi sarebbe la fortuna d’un uomo
che avesse meno fretta di noi.

— Perchè, zio?

— Perchè questi alberi sono noci moscate. Guardali, Cornelio: meritano
di essere veduti.




CAPO XXI.

Il Babirussa


Le piante delle noci moscate (_myristica moschata_) sono bellissimi
alberi somiglianti ai nostri allori, alti circa sette e qualche volta
otto metri, che crescono anche allo stato selvaggio, in mezzo alle
foreste umide e calde. La loro produzione è ristretta solamente a poche
isole, alle Molucche, dove ora si coltivano su vasta scala, alla Nuova
Guinea, a Banda, essendo state distrutte tutte le altre piantagioni
dagli Olandesi.

Non dà frutto prima dei nove anni, ma generalmente, se è curata, dura
fino a settantacinque od ottanta.

Non si creda però che produca le noci così come sono poste in
commercio. Dà delle specie di albicocche assai grosse colla
corteccia giallastra la quale però si apre quando è giunta a perfetta
maturazione, mostrando una polpa rossastra, reticolosa e carnosa, ed in
mezzo si trova la noce, la quale è coperta d’un guscio sottilissimo, ma
duro.

Questi alberi producono tutto l’anno, mettendo fiori e frutta nello
stesso tempo, ma le noci che giungono a maturanza dopo nove mesi si
raccolgono ordinariamente in aprile, luglio e novembre.

Per conservarle si seccano dapprima al sole per tre giorni, avendo cura
di coprirle sempre per impedire che la rugiada non le guasti, e quando
si sbarazzano dal guscio, s’immergono in una tina d’acqua mescolata
con della calce, per preservarli dagli insetti. Per essere più certi
della loro conservazione, si usa anche, prima di bagnarle, richiuderle
in foglie o in vassoi di bambù e tenerle esposte a lento fuoco tre
lunghi mesi. Le migliori sono quelle che si raccolgono colle mani dai
rami degli alberi coltivati; quelle più scadenti sono quelle che si
raccolgono da terra, quando sono cadute da loro e le meno pregiate,
sono quelle che producono le piante non coltivate.

Un tempo gli Olandesi, padroni di gran parte delle isole della Malesia,
assunsero il monopolio delle noci moscate, e per impedire che altre
nazioni potessero acquistarle dagli indigeni, distrussero immense
piantagioni, adoperando anche la violenza e commettendo delle crudeltà.
Limitarono la coltivazione nell’isola di Banda, che dà le più pregiate,
ed a tre altre isolette, ma ben presto si convinsero della stupidità
di quel sistema, trattandosi d’una spezieria di puro lusso e poco
adoperata e lasciarono liberi i malesi di piantarle dovunque.

— Belle piante! esclamò Cornelio, che s’era avanzato verso il
boschetto. E che profumo acuto che esalano le frutta!

— Vi è qui una fortuna, disse il capitano. Che disgrazia non poterle
raccogliere!

— Verranno a raccoglierle gl’indigeni.

— Non le apprezzano, Cornelio, e non le adoperano.

— Questo è strano, zio.

— Nemmeno i garofani che da noi sono così usati, entrano fra
gl’ingredienti della loro cucina.

— Nascono anche quegli alberi qui?

— Sì, eccone là uno, Cornelio. Crescono sui terreni delle noci moscate,
ma preferiscono quelli vulcanici.

Cornelio, Hans e lo stesso Wan-Horn s’avvicinarono all’albero indicato,
che cresceva sul margine del boschetto, osservandolo curiosamente.

Era alto circa sei metri, coperto di fiori rosso cupo, uniti in piccoli
mazzi, i quali spandevano un profumo delicatissimo.

— Quei fiori sono i chiodi di garofano che si pongono in commercio?
chiese Hans.

— Sì, rispose il capitano. Prima però di metterli in vendita si
lasciano perdere i petali e si mettono a seccare al sole finchè
diventano quasi neri.

— Ne dànno molti?

— Moltissimi, Hans, e una sola pianta costituisce una bella rendita,
perchè produce fiori per un gran numero d’anni. Comincia a sette e non
finisce che dopo i centocinquanta.

— Nascono dappertutto?

— In quasi tutte le isole della Malesia, ma la loro vera patria sono le
Molucche. Sono state trapiantate anche nelle isole Mascarene, ma vivono
molto meno e rendono poco.

— Quante piante preziose nasconde quest’isola, così trascurata dai
coloni europei! disse Cornelio.

— È vero, disse il capitano. Hanno popolato delle meschine isole e
delle terre aride, e hanno dimenticato questo paradiso terrestre.

Stavano per rimettersi in marcia, quando ad un tratto uno stormo
di grossi uccelli calò sul boschetto di noci moscate, mettendosi a
divorare ingordamente le frutta.

— Che volatili sono? chiese Cornelio.

— _Colombe carpofaghe_, rispose il capitano.

— E mangiano le noci moscate?

— Sono molto ghiotte di quelle frutta, e se vuoi saperne di più
aggiungerò che sono esse che fanno crescere questi boschetti di noci
moscate.

— Vuoi scherzare, zio?

— No, Cornelio. Queste colombe, e specialmente le _carpofaghe
concinna_, mangiando le frutta, evacuano i semi intatti, quantunque
siano passati fra gli intestini, e cadendo a terra si sviluppano e
germogliano. Infinite sono le piante cresciute in tal modo, anzi si può
dire che qui nascono per opera di quelle colombe, poichè i papuasi non
si occupano di seminarli.

— In tal caso quegli uccelli devono essere deliziosamente profumati e
possono servirci di cena.

Il giovinotto stava per puntare il fucile, quando udì Wan-Horn a
gridare:

— Fermatevi: ecco la cena che fugge!...

Cornelio si volse rapidamente e vide passare di galoppo, sul margine
del bosco, un grosso animale che pareva un porco. Fece rapidamente
fuoco, ma la selvaggina, dopo d’aver fatto uno scarto rapido e di aver
emesso una specie di grugnito, scomparve in mezzo agli alberi.

— È ferito!.... esclamò Wan-Horn. Inseguiamolo, signor Cornelio.

— Ma cos’era? chiese il giovane cacciatore.

— Un _babirussa_: affrettiamoci o perderemo le sue traccie.

Si slanciarono tutti e due nel bosco e si misero a inseguire l’animale,
il quale aveva spruzzate di sangue le erbe ed i cespugli.

Non doveva essere lontano, perchè lo udivano galoppare dinanzi a loro,
grugnendo e urtando furiosamente le liane, le piante arrampicanti ed i
rami dei cespugli.

Cornelio, che era più agile, correva come un daino saltando le radici,
scivolando sotto quella rete di corde vegetali, seguìto da Wan-Horn che
faceva sforzi disperati per non perderlo di vista; ma il _babirussa_,
quantunque continuasse a perdere sangue, fuggiva sempre.

Quella corsa durava da mezz’ora, quando Cornelio, che aveva ricaricato
l’arma, lo scorse in mezzo ad una rete di liane che lo aveva, in
certo qual modo, imprigionato. Fece fuoco la seconda volta e lo vide
stramazzare fulminato.

— Toccato? chiese Wan-Horn, che era rimasto indietro di due o trecento
passi.

— Non si muove più, rispose il cacciatore.

— Che cena, signor Cornelio!... Costolette deliziose come quelle di
maiale!

— Varranno più delle colombe profumate, Horn.

Si cacciò in mezzo alle liane e raggiunse l’animale, il quale aveva
cessato di dibattersi. Era un vero _babirussa_, così chiamato dai
malesi e che vorrebbe significare porco-cervo, quantunque nulla abbia
di comune con questi ultimi animali.

Appartiene alla specie dei pachidermi moltungulati, ma forma un genere
particolare della famiglia dei porci.

Somiglia infatti al maiale, ma ha il collo più grosso, il grugno
assai sporgente, gli occhi piccolissimi, le gambe alte e un’andatura
più snella e molto più rapida e forse per questo i malesi lo chiamano
porco-cervo.

Il pelo non è rado come negli maiali, ma corto e lanoso,
grigio-rossastro, e la bocca è armata da due denti assai lunghi e
ricurvi, che si ripiegano verso gli occhi.

Vivono i _babirussa_ nelle folte foreste delle isole Malesi, in
Papuasia e anche a Ceylan, ma presi da giovani si addomesticano
facilmente. Gl’indigeni li cacciano attivamente e non hanno torto,
essendo la loro carne eccellente quanto quella dei nostri maiali.

— È morto? chiese Horn, giungendo fra le liane.

— Ha ricevuto la seconda palla nel cranio.

— Tagliamone un pezzo per ora e ritorniamo presso al capitano.

— Non ce lo mangeranno le fiere?

— Le belve feroci della Nuova Guinea sono molto problematiche, signor
Cornelio. Si dice che vi siano delle tigri, ma io non ne ho mai veduta
una.

— Ma i pitoni, i coccodrilli...

— Non sono dappertutto. Ritorniamo, signor Cornelio: siamo lontani
almeno quattro chilometri e ci si perde facilmente in questa foresta.

— Non hai la bussola?

— No, l’ho lasciata al capitano.

— Allora affrettiamoci, Horn. Mio zio può inquietarsi.

Il marinaio con pochi colpi di scure fece l’animale a pezzi, prese
una dozzina di costolette e si misero in cammino per ritrovare i
loro compagni, cercando possibilmente di rifare la strada percorsa.
Disgraziatamente avevano dimenticato di notare i luoghi che avevano
attraversato correndo o di marcare gli alberi con qualche tacca,
precauzione indispensabile per chi si avventura in una foresta vergine,
e per colmo di sventura le traccie di sangue lasciate dal _babirussa_
si erano completamente seccate e non erano più visibili in mezzo a quel
caos di vegetali. Percorsero due chilometri, poi tre, poi quattro, poi
cinque, ma la macchia degli alberi moscati non appariva. Entrambi, in
preda ad una viva ansietà, s’arrestarono.

— Che ci siamo smarriti? chiese Cornelio.

— Lo temo, rispose il marinaio. Senza dubbio noi abbiamo deviato.

— Ciò non è difficile, in mezzo ad una foresta, Horn. Tu, marinaio, sai
che l’uomo privo di direzione o di segnali ha una tendenza a descrivere
dei circoli più o meno allungati.

— È vero, signor Cornelio, e sempre da destra a sinistra.

— Che sia toccata anche a noi l’istessa cosa e che ci siamo allontanati
invece di avvicinarci?

— Comincio a crederlo.

— Quale disgrazia!

— Abbiamo le nostre armi.

— E cosa vuoi dire?

— Che possiamo fare dei segnali.

— Cominciamo, prima di smarrirci di più, Horn.

Alzò il fucile e lo scaricò in aria, ma parve che la detonazione si
soffocasse sotto le immense arcate di quella fitta foresta. Attesero
parecchi minuti in preda ad una crescente ansietà, sperando di
raccogliere qualche lontano sparo.

— Hai udito nulla? chiese Cornelio.

— Nulla, rispose il marinaio, che era diventato pallido. Questa massa
di verzura, che si estende sopra le nostre teste, impedisce alla
detonazione di espandersi.

— Continuiamo il fuoco, Horn.

Il marinaio scaricò il suo fucile tenendolo più alto che potè, poi
fece fuoco Cornelio, poi entrambi insieme spaventando gli uccelli della
foresta, ma nessun segnale fu udito, nè lontano, nè vicino.

— Ci siamo smarriti, disse Cornelio.

— Vediamo, disse il marinaio. Il boschetto di noci moscate si trova
all’ovest.

— Sì, Horn.

— Dove siamo noi?... Mi pare che ci troviamo verso l’ovest, se i raggi
del sole non c’ingannano.

— Ma di quanto?

— Ecco quello che non possiamo sapere; ma mi parve che il _babirussa_
fosse fuggito verso il sud, quindi avanzandoci verso il nord noi
dovremmo incrociare, più o meno lontano, il capitano.

— E se si fosse già messo in cerca di noi e ci avesse oltrepassati
avanzandosi verso l’ovest?

— In tal caso cercheremo di giungere sulla riva della Durga. Noi
sappiamo che egli si dirige colà e lo troveremo in qualche luogo.

— Non perdiamo tempo e tentiamo di trovare i compagni prima che calino
le tenebre.

Si rimisero in cammino, procurando di orizzontarsi col sole che
declinava rapidamente verso l’ovest, ma non era cosa facile, perchè
non sempre gli alberi permettevano a loro di vederlo. Le foreste della
Papuasia sono forse le più difficili da percorrersi, poichè sono, per
modo di dire, incastrate le une dentro le altre, ossia doppie.

Prima si ergono gli alberi giganti, i quali espandono i loro rami a
quaranta, a cinquanta e perfino a ottanta metri d’altezza, cinti e
recinti da immense liane, poi sotto di loro crescono gli alberi minori,
i quali formano una foresta inferiore. I raggi del sole che penetrano
fra la vôlta di verzura dei primi, si arrestano su quella più bassa,
sicchè è quasi impossibile che possano giungere fino a terra.

Anche in pieno mezzogiorno regna una semi-oscurità che più tardi, e
specialmente alla notte, diventa fittissima tanto, che è impossibile
muovere un passo senza rompersi il capo contro quelle migliaia di
tronchi quasi riuniti.

Queste doppie foreste hanno però il vantaggio di essere prive di
cespugli, di piante arborescenti e di erbacee, poichè mancando la luce
e l’aria, queste non si possono sviluppare e ben presto muoiono.

Wan-Horn e Cornelio procedevano quindi speditamente ma un po’ a
casaccio, passando sotto quella moltitudine di palmizi, di canari, di
tek, di alberi del ferro, di latanieri, di sagu, di mimose, di alberi
del pane, di sensitive giganti, di fichi, di _durion_, di mangli e di
_gambir_ che incrociavano i loro rami e le loro enormi foglie in tutti
i modi possibili ed immaginabili.

Di tratto in tratto si arrestavano per sparare un colpo di fucile, e
tendevano gli orecchi, sperando di ricevere una risposta, ma invano.

Alla sera, sfiniti per quella rapida marcia, affamati, inquieti,
s’arrestarono ai piedi d’un albero del pane dal tronco colossale.

— Povero zio! disse Cornelio con voce triste. Fra quali angoscie sarà!

— Lo ritroveremo, signor Cornelio, disse Wan-Horn, per consolarlo.
Domani all’alba ci rimetteremo in cammino e sono certo che udremo le
sue fucilate.

— Ma quale triste notte passerà, Horn! Forse ci crederà prigionieri dei
papuasi e fors’anche morti.

— Sa che siamo armati e che siamo tali uomini da non farci prendere da
quei mangiatori di carne umana. Non disperiamo; Dio veglia su tutti.

Il marinaio, quantunque fosse in preda a tristi pensieri, per rompere
quel discorso scoraggiante accese il fuoco e mise sui carboni alcune
costolette di _babirussa_, poi, non avendo il sagu, che era stato
lasciato nel boschetto di noci moscate per essere più lesti a inseguire
quella disgraziata selvaggina, raccolse alcune frutta dell’albero sotto
il quale si erano sdraiati.

Erano grosse come la testa d’un fanciullo, coperte d’una buccia rugosa,
ma dentro contenevano una polpa giallastra e tenera che si taglia a
fette mettendola ad abbrustolire sui carboni. Si fanno servire da pane
e sono eccellenti avendo il sapore di certe specie di zucche e anche un
po’ di carciofi.

La cena però non fu allegra, quantunque fossero affamati: assaggiarono
appena le costolette e le frutta dell’albero del pane, tanto erano
inquieti ed angosciati.

Spento il fuoco, per non attirare l’attenzione dei selvaggi che
potevano abitare in quei dintorni, si stesero fra le erbe, aspettando
impazientemente l’alba per rimettersi in cerca dei loro compagni.




CAPO XXII.

Le vendette dei Papuasi


Quantunque fossero stanchi, non furono capaci di chiudere gli occhi. Le
loro inquietudini, anzichè calmarsi, crescevano di momento in momento,
ed i loro pensieri correvano sempre al capitano ed ai suoi compagni, i
quali forse stavano cercandoli in mezzo a quelle immense boscaglie.

Si voltavano e si rivoltavano sul loro letto di foglie, tendevano
gli orecchi trattenendo il respiro, credendo sempre di udire qualche
lontana detonazione o delle grida, e di frequente si alzavano per
spingersi in mezzo agli alberi per poter meglio ascoltare; ma le ore
passavano lente, lente, senza che alcun rumore venisse a turbare il
silenzio che regnava nella grande, sconfinata foresta.

Verso la mezzanotte però, stanchi di vegliare e d’ascoltare stavano per
addormentarsi, quando udirono improvvisamente delle lontane grida.

Entrambi balzarono in piedi colle armi in mano.

— Hai udito, Wan-Horn? chiese Cornelio con voce soffocata.

— Sì, signor Cornelio, rispose il marinaio che era in preda ad una viva
emozione.

— Che siano i nostri compagni, mio zio, mio fratello?...

— Non lo so, ma io comincio a sperare.

— Accorriamo, Wan-Horn, prima che si allontanino.

— Con questa oscurità?...

— Non importa: cercheremo di dirigerci come potremo.

Abbandonarono l’albero e si misero in cammino più rapidamente che
poterono, cercando di evitare i tronchi d’albero, le liane e le
radici. Le grida continuavano a echeggiare nella notte e pareva che
s’avvicinassero.

Facendo sforzi disperati, cadendo e risollevandosi, urtando contro
gli alberi che non potevano distinguere, tanto era fitta l’oscurità,
Cornelio ed il marinaio correvano sempre.

Avevano già percorso un chilometro, quando le grida improvvisamente
cessarono. Cornelio stava per scaricare il fucile per attirare
l’attenzione dei compagni, quando Horn lo trattenne bruscamente,
dicendo:

— Vedo un fuoco brillare laggiù!

Cornelio si volse e vide infatti, ad una distanza di cinque o seicento
metri, brillare attraverso al fogliame una fiamma.

— Che si siano accampati? chiese egli.

— E se non fossero loro? chiese Wan-Horn. Non commettiamo imprudenze,
signor Cornelio, senza essere certi che siano proprio i nostri
compagni.

— È vero, Horn, ma non possiamo restare qui.

— Tutt’altro, ci avanzeremo, ma con precauzione.

— Silenzio ed avanti.

La fiamma continuava a brillare e si dilatava sempre più, spandendo un
vivo chiarore fra gli alberi della foresta. Cornelio ed il marinaio,
tenendo in mano i fucili per essere pronti a qualunque evento, si
misero a strisciare verso quella direzione, procurando di non far
rumore. Giunti a trenta passi da quel fuoco, s’arrestarono di comune
accordo, facendo un gesto di collera e di sorpresa.

Seduti intorno ad un falò, dodici papuasi stavano discutendo
animatamente, mentre un tredicesimo, legato solidamente con parecchie
liane, stava coricato fra le erbe, facendo sforzi disperati per
liberarsi da quelle corde vegetali.

I primi erano tozzi, muscolosi, coi petti ampii, i volti duri ed
angolosi come quelli della razza malese, la chioma ricciuta ed
abbondante, i denti assai acuti e anneriti per l’uso del bétel[11] e la
pelle color del rame, ma smorta e sucida.

Erano completamente nudi, ma portavano un osso passato fra le
cartilagini del naso ed erano armati di pesanti mazze, di lancie colla
punta d’osso e di archi.

Il prigioniero, poichè doveva essere tale, era invece di statura più
alta, col volto ovale e regolare, con una chioma copiosa, lanosa,
sorretta da un largo pettine di bambù ed aveva la pelle nera come
quella degli africani.

Aveva le braccia ed il collo adorni di braccialetti di rame, di
catenelle, di collane di denti e di nocciuoli, il petto coperto da una
strana fascia di foglie di kakada e alla cintola portava una specie di
sottanino di cotone rosso, il quale, sul dinanzi, gli scendeva in forma
di grembiale.

— Chi sono? chiese Cornelio.

— Quelli seduti accanto al fuoco sono Alfurassi o Arfaki, montanari
dell’interno insomma, disse il marinaio; il prigioniero mi sembra un
papuaso della costa in costume da guerra.

— Che si preparino a mangiarlo?

— È probabile, perchè gli Arfaki sono antropofaghi e odiano mortalmente
i papuasi della costa.

— E noi li lasceremo divorare quel disgraziato?

— No, signor Cornelio, tanto più che i papuasi costieri non sono
cattivi e che hanno frequenti rapporti cogli uomini bianchi. Forse,
salvandolo, può renderci molti servigi e farci ritrovare il capitano o
condurci sulle rive della Durga.

— Stiamo prima a vedere cosa sta per succedere, Horn.

La loro attesa non fu lunga, perchè poco dopo giungeva un selvaggio,
nudo al pari degli altri Arfaki, ma di statura più alta, adorno di
collane di denti e di scagliette di tartaruga, di due grandi anelli
di metallo sospesi agli orecchi e di un ciuffo di piume variopinte,
conficcato nella folta capigliatura.

— Deve essere un capo, disse Horn a Cornelio.

Il nuovo arrivato s’avvicinò al prigioniero che in quel momento
manifestava un vivo terrore, e lo interrogò a lungo poi fece un segno
ai suoi compagni i quali s’affrettarono ad alzarsi, radunando attorno
al fuoco dei grandi fasci di rami spinosi, che dovevano avere colà
portati prima.

Quand’ebbero formato una specie di circolo del diametro di otto o dieci
metri, afferrarono bruscamente il prigioniero, gli legarono le mani
dietro al dorso, ma gli sciolsero le gambe.

— Si preparano ad arrostirlo, disse Cornelio.

— Non credo, rispose Wan-Horn.

— Non vedi che danno fuoco ai fasci di spine?

— Credo che si tratti invece d’una vendetta. Tuttavia prepariamoci a
fare una scarica.

Intanto gli Arfaki fissavano sul dorso del disgraziato mediante grosse
liane, un fascio di rami e di foglie secche. Il prigioniero urlava come
se lo scorticassero vivo, si dibatteva coll’energia della disperazione
e gettava sguardi di terrore sulle spine, che fiammeggiavano
scoppiettando e contorcendosi.

Ad un tratto gli Arfaki diedero fuoco al fascio di foglie secche
che gli avevano appeso al dorso e afferrate le lancie e le mazze, lo
spinsero in mezzo alle spine infiammate, gettandovelo sopra.

— Ah! canaglie!... urlò Cornelio. Fuoco, Wan-Horn!

Due spari rimbombarono, formando una detonazione sola. Due uomini
caddero, e gli altri, spaventati da quella detonazione che forse non
avevano mai udita, e dalla morte dei loro compagni, fuggirono a corsa
precipitosa, emettendo urla di terrore.

Cornelio con un salto varcò la linea di fuoco, afferrò il prigioniero
che si dibatteva fra le spine, gli strappò di dosso il fascio di
foglie ardenti e sollevatolo fra le robuste braccia lo trasse di là,
adagiandolo ai piedi d’un albero.

— Non temere, gli disse, sciogliendogli le mani.

— Non fermiamoci qui, signor Cornelio, disse Horn. I selvaggi possono
avere dei compagni accampati in questi dintorni, e ritornare in maggior
numero.

— Ma vuoi abbandonare questo povero diavolo?

— Se gli preme la pelle, ci seguirà!

— Grazie, disse il papuaso in perfetto olandese.

— Tò!.... esclamò Cornelio, stupito. Conosce la nostra lingua.

— Non mi stupisco, disse Horn. I nostri compatrioti visitano di
frequente queste spiagge.

— Vuoi seguirci? chiese Cornelio al papuaso.

Questi non rispose, ma lo guardò con due occhi che parevano volessero
dire: spiegatevi.

— Non può sapere molte parole, signor Cornelio, disse Horn. Forse
comprenderà meglio il malese, lingua che è parlata sulle coste
occidentali dell’isola.

Ripetè l’invito in quella lingua ed ebbe subito la risposta.

— Sono vostro schiavo: vi seguirò dove vorrete.

— Non sappiamo cosa farne degli schiavi, rispose Wan-Horn. Sarai nostro
amico: seguici.

Partirono correndo preceduti dal papuaso, il quale indicava a loro i
passaggi, allontanando premurosamente i rami e le liane che potevano
offenderli o intralciare il loro cammino.

Quantunque le grida degli Arfaki non si udissero più, pure continuarono
la corsa per una buona ora, sempre inoltrandosi nella tenebrosa
foresta.

Giunti in mezzo ad un macchione di piante arrampicanti, si fermarono
per riposare.

— Credi tu che i tuoi nemici ci inseguiranno? chiese Horn al papuaso.

— Hanno avuto troppo paura delle armi da fuoco degli uomini bianchi,
rispose egli.

— Ma cosa hai fatto?... Da dove vieni?... Chi sei?...

— Sono un papù del fiume Durga, figlio del capo Uri-Utanate.

— Del fiume Durga!... esclamò il marinaio. Ah! quale fortuna! È molto
lontano il tuo villaggio?

— A due giornate di marcia.

— Ma perchè ti sei allontanato?

— Perchè volevo uccidere Orango-Arfaki, capo dei montanari, nemico di
mio padre e della mia tribù.

— E invece Orango ti ha preso. Comprendo: si tratta di una vendetta.

— Cosa dice, Horn? chiese Cornelio.

— Ve lo spiego. Dovete sapere che quando due tribù sono in guerra, i
più valenti giurano di andare a uccidere i capi nemici e cercano di
farlo sapere a tutti.

I capi, messi sull’avviso, tentano con tutti i mezzi di impadronirsi di
quei guerrieri, e se vi riescono, li fanno perire bruciati fra fasci di
spine infiammate. È un’antica usanza di questi popoli.

— E questo papuaso è figlio d’un capo, a quanto ho potuto comprendere.

— Sì, signor Cornelio, e il suo villaggio è situato sulle rive della
Durga.

— Allora ci guiderà colà.

— Sì, ma prima cercheremo di ritrovare vostro zio e vostro fratello.
I selvaggi sanno guidarsi nei boschi e sanno seguire una traccia per
quanto sia lieve.

— Informa il nostro uomo.

Wan-Horn non se lo fece ripetere e narrò al papuaso ogni cosa.

— Voi mi avete salvato la vita ed io sono vostro schiavo, rispose
l’indigeno. Cercheremo i vostri compagni, poi vi condurrò tutti da mio
padre e vi farò dare una grande piroga, onde possiate tornare al vostro
paese. Noi non amiamo gli uomini bianchi, dei quali abbiamo avuto
di frequente da dolerci; ma mio padre e la mia tribù faranno buona
accoglienza ai miei salvatori. Partiamo: l’alba sta per sorgere.

— Ma come farai tu a trovare i nostri compagni? chiese Horn.

— So dov’è il boschetto delle noci moscate. Ho cacciato colà i piccioni
che mangiano i semi e gli uccelli del paradiso la scorsa settimana.

— Ma hai le spalle abbrustolite.

— Il figlio di Uri-Utanate è un guerriero.

— Andiamo adunque, disse il marinaio.

Il sole cominciava a spuntare, indorando le cime degli alberi giganti e
svegliando gli uccelli, i quali cominciavano a cicalare svolazzando di
ramo in ramo.

Grandi stormi di _charmascyna papua_ e di _eos sanamata_ dalle penne
rosse, gialle e nere chiacchieravano scaldandosi ai primi raggi
dell’astro diurno, mescolati a truppe di _cicinnuras regia_ col
dorso rosso cupo scintillante e ondulato, di _parozie del paradiso_
splendidissime, nere come il velluto, colle penne semi-arricciate,
con una specie di collare d’un verde smeraldo ed il capo sormontato
da cinque barbe lunghe venti centimetri e terminanti in un fiocco, a
coppie di uccelli grossi come piccioni, colle penne che sembravano di
seta nera con un collare che si rialzava in forma di quello che usavano
i cavalieri spagnuoli del secolo XIV, vagamente screziato d’oro, e
certe code lunghe cinque volte più del corpo, leggermente arcuate. Si
vedevano pure altri uccelli più piccoli, pure neri, ma con onde color
marrone, con due piccole ali sotto il collo a riflessi verde-dorati,
ma che dovevano servire di puro abbigliamento, possedendo le altre due
maggiormente sviluppate e più perfette.

Il papuaso, Cornelio e Wan-Horn non si arrestavano ad ammirare
quei superbi uccelli e affrettavano il passo per giungere presto al
boschetto di noci moscate, sperando di ritrovare colà il capitano, Hans
e il chinese.

Erano però costretti a fermarsi ogni qual tratto per aprirsi il passo
attraverso le liane che impedivano a loro di avanzarsi, ritardando
la loro marcia. Per maggiore disgrazia, verso le dieci del mattino
giungevano sul margine di una vera selva di piante arrampicanti, ma
così fitte, così ammucchiate le une addosso alle altre, da non potersi
attraversare senza immensa fatica.

— Cosa sono? chiese Cornelio a Wan-Horn.

— Piante di pepe, rispose il marinaio. Vi sarebbe da riempire di semi
la stiva d’una nave di trenta tonnellate.

— Una vera fortuna.

— Lo avete detto, signor Cornelio. Ma questa fortuna per noi
improduttiva, ci farà molto sudare.




CAPO XXIII.

I Prigionieri


Il marinaio non si era ingannato. Quella foresta era così irta di
ostacoli, che non erano capaci di superarli nemmeno strisciando come
serpenti, costringendoli a fare degli immensi giri sotto quell’ammasso
enorme di gambi, di foglie e di fiori che li soffocava e li
imprigionava in tutti i modi.

Vi erano colà migliaia e migliaia di piante addossate confusamente
le une addosso alle altre, non potendo reggersi da sole, poichè il
pepe è un arrampicante che ha molta somiglianza colle nostre viti.
Avendo trovato un terreno adatto, senza dubbio alluvionale, si erano
sviluppate enormemente, incrociandosi in tutti i versi e allungandosi
in tutte le direzioni.

Queste piante, che sono di specie diverse, _piper nigrum, piper lungun,
magro piper,_ ecc., crescono in India, a Ceylan, in parecchie isole
americane, nelle Guiane, specialmente in quella francese, ma la loro
vera patria è la Malesia.

Come si disse, somigliano alle nostre viti, crescono liberamente nelle
isole Malesi, ma se si vuol ottenere un raccolto abbondante e scelto,
bisogna coltivarlo con molta cura.

Producono fiori senza calice, in grappoli, lunghi, bianchi, e da questi
escono le bacche che dapprima sono verdi, poi rosse, quindi gialle.

Si raccolgono prima che siano perfettamente mature, poichè allora
perderebbero il loro sapore bruciante e si mettono a seccare al sole,
quindi a fuoco lento finchè diventano nere o brune e rugose.

Questo è il pepe nero, ed è il migliore; quello bianco invece si
ottiene in un altro modo. Si lascia maturare fino ad un certo grado,
poi si mette a macerare uno o due giorni in una soluzione di acqua e di
calce, spogliandolo in tal modo delle parti esterne del pericarpo, poi
si fa asseccare come l’altro. Questo pepe è meno forte e meno aromatico
e la sua azione è meno attiva.

Quello che cresce nella Nuova Guinea, nelle Molucche e isole vicine, ha
grappoli lunghi un pollice, grossi come una piccola penna da scrivere e
le bacche sono grigie. Il sapore di queste è più acre e meno grato del
pepe che si raccoglie nell’India, ma l’odore è eguale.

Quello coltivato nella Giamaica, e che viene chiamata pimento o pepe
garofolato dagli inglesi, dà le bacche grosse come un pisello, rugose,
d’un color grigio-rossastro. È più aromatico del nero, avendo il
profumo della cannella e del garofano, ed è ugualmente piccante.

Il pepe di Caienna, che è il più forte di tutti, tanto che non lo si
può inghiottire se non si è abituati, è una capsula prodotta da una
pianta speciale che è ben diversa dal pepe comune, chiamata _capsicum
baccatum._

È strano che questo misero granello abbia potuto mettere in
comunicazione, in tempi anche molto antichi, le genti dell’Europa con
quelle dell’India! Infatti anche al tempo dei romani, era un articolo
importantissimo e si mandavano in quelle lontane regioni indostane
degli uomini ad acquistarlo.

Si pagava però molto caro allora, a peso d’oro e d’argento, ed è
rimasto il proverbio: caro _come il pepe_. Serviva perfino d’imposta ai
vinti ed ebbe l’onore di servire di riscatto a Roma.

Il papuaso, Cornelio e Wan Horn, sternutando fragorosamente e
continuamente, essendo il suolo sparso di bacche già mature esalanti
acri odori, si dibattevano furiosamente in mezzo a quelle migliaia di
tronchi contorti ed arruffati, atterrandoli, recidendoli colla scure o
strappandoli per farsi un po’ di largo.

Procedevano però con molta lentezza ed erano costretti ogni qual tratto
a riposare ed a tergersi il sudore che li inondava, facendo un caldo
insopportabile sotto quegli ammassi di vegetali.

Verso la una però, le piante cominciarono a diradarsi e poco dopo i
naufraghi riguadagnavano la grande foresta.

— Era tempo! esclamò Cornelio, fra uno sternuto e l’altro. Là dentro si
correva il pericolo di soffocare.

— Fumo come una zolfatara, disse il marinaio. Se non sono cotto, poco
ci manca.

— Ci riposeremo un po’ all’ombra di quell’arecche, Wan-Horn.

Stavano per dirigersi verso l’albero, quando videro il papuaso celarsi
rapidamente dietro ad un cespuglio.

— Cosa succede?... Che vi siano gli Arfaki? chiese Cornelio, guardando
intorno.

— Non vedo nessuno, rispose il marinaio.

Ad un tratto s’abbassò bruscamente, facendo segno a Cornelio d’imitarlo.

— Cos’hai veduto? gli chiese il giovanotto.

— Sta per giungere una splendida colazione, rispose il marinaio.
Guardate lassù, su quell’albero: ah! come sono belli!...

Cornelio guardò in alto e non potè trattenere un grido di meraviglia.

Quindici o venti uccelli si erano posati su d’un grosso ramo e
saltellavano, scaldandosi ai raggi del sole, ma quali splendidi
volatili!... Tutte le tinte dei tessuti più splendidi, tutti i riflessi
metallici, tutti i colori del prisma si confondevano sulle loro penne.

Erano un po’ più grossi dei piccioni, quasi come una gallina faraona,
colla testa giallo-dorata sopra, verde-dorata sotto, il dorso color
marrone con ondeggiamenti leggermente dorati, la coda arricciata e di
sotto le loro ali sfuggivano, d’ambe le parti, due grandi ciuffi di
penne leggiere, morbidissime, giallo-pallide, con riflessi argentei.

In mezzo ai raggi di sole, che facevano scintillare tutte quelle
splendide tinte, non parevano più uccelli, ma stravaganti mazzi di
fiori cosparsi di pietre preziose.

— Che superbi volatili! esclamò Cornelio. Non ne ho mai veduti di più
belli, nè credo che ne esistano in altri paesi.

— È vero, signore, disse Wan-Horn. Questi superano tutti e non hanno
avuto torto a chiamarli uccelli del paradiso.

— Ah! sono i famosi uccelli del paradiso?...

— Sì, signor Cornelio.

— Se sono così belli, non devono esser cattivi allo spiedo, Wan-Horn.

— Sono deliziosi, anzi profumati, nutrendosi di noci moscate e di
fiori del garofano, e poi il nostro amico papuaso sarà ben contento di
tenersi le penne. Guardate con quali occhi spia quegli uccelli.

— E cosa farà delle penne?

— Ve lo dirò dopo: facciamo fuoco, prima che fuggano.

Alzarono i fucili, mirarono con somma attenzione, e fecero fuoco
simultaneamente.

Due uccelli, colpiti a morte, caddero roteando, mentre gli altri,
spaventati da quella fragorosa detonazione, fuggivano via come una
volata di fiori.

Cornelio s’affrettò a raccogliere le prede, osservandole con viva
curiosità, mentre Wan-Horn accendeva un allegro fuoco, premendogli più
la carne che le penne.

Il papuaso, che pareva contentissimo di quella doppia scarica, preso un
uccello si mise a spennarlo delicatamente, mettendo da parte, con somma
cura, le piume.

— Ma che cosa vuol farne? chiese Cornelio al marinaio. Forse ornarsi la
capigliatura?...

— No, signor Cornelio, serviranno a fabbricare due uccelli del paradiso
che poi venderà ai chinesi, ai malesi od ai nostri compatrioti.

— Fabbricherà due uccelli?...

— È la parola esatta, signor Cornelio, disse Horn, ridendo.

— Non ti comprendo.

— Mi spiegherò meglio. Vi dirò adunque che gli uccelli del paradiso
sono ricercatissimi, sia dai chinesi che li adoperano per abbellire le
loro stanze, sia dagli europei, i quali poi li vendono ai musei ed ai
grandi negozi antichi di penne di lusso.

I chinesi e sopratutto i malesi vengono quindi ad acquistarli nella
Nuova Guinea o alle isole Arrù, non essendovene in altri luoghi e
li pagano bene, guadagnando molto. I papuasi, perciò, fanno a quegli
splendidi volatili una guerra accanita.

Per non guastarli o rovinare le penne colle freccie, si servono della
cerbottana, lanciando dei sottili cannelli, muniti all’estremità
superiore d’una pallottola di creta, o di archi che lanciano delle
freccie formate con nervature di foglie di latanieri.

Talvolta invece spiano l’albero fra i cui rami gli uccelli vanno a
dormire, lo salgono durante la notte e ai primi albori lanciano i loro
proiettili. La pallottola di creta basta per stordirli e farli cadere.

— I furbi!... esclamò Cornelio.

— Come ben potete immaginare, con simile guerra accanita, gli uccelli
cominciarono a diventare diffidenti e rari; i papuasi allora pensarono
di ricorrere all’inganno.

Cambiando, gli uccelli, le penne una volta ed anche due all’anno,
gl’indigeni le raccolgono con somma cura, poi prendono delle colombe od
altri uccelli bellissimi e somiglianti ai primi e vi accomodano quelle
splendide piume dai colori smaglianti. Sanno imitarli così bene e con
tanta valentia, che è molto difficile accorgersi dell’inganno, e vi
assicuro che molti musei di zoologia possiedono delle parozie e delle
colombe, credendo in buona fede d’avere dei veri uccelli del paradiso.

— E i malesi lo sanno?

— Non ignorano che i papuasi falsificano quei volatili, ma non sanno
distinguerli dai veri.

— Così il nostro amico papù, con queste penne fabbricherà due nuovi
uccelli.

— E anche quattro, signor Cornelio, e otterrà in cambio delle
ghiottonerie o delle bottiglie di liquori o delle armi.

Mentre chiacchieravano, il figlio del _koranos_[12] Uri-Utanate aveva
impacchettato le piume entro una grande foglia d’arecche, e aveva messo
i due volatili sui carboni.

Mezz’ora dopo i due naufraghi e il selvaggio assalivano l’arrosto
che era delicatamente profumato di noci moscate, poi si mettevano in
marcia, essendo impazienti di ritrovare il boschetto e quindi i loro
compagni.

La foresta non era più fitta come prima, quantunque fosse ingombra di
piante arrampicanti conosciute dai malesi col nome di _giunta wan_
(_urcola elastica_) appartenente al genere delle apocinee, le quali
producono una specie di gomma che viene adoperata anche come vischio e
da immensi _rotang_ (calamus), specie di liane che hanno un diametro
di pochi centimetri, ma che raggiungono delle lunghezze inverosimili
di duecento e perfino di trecento metri. Vi erano però qua e là degli
spazi quasi liberi, i quali permettevano ai naufraghi di procedere
molto speditamente.

Il papuaso, da vero uomo dei boschi, li guidava senza mai esitare
e mantenendo una via più o meno dritta, ma che doveva condurlo
infallantemente al boschetto di noci moscate. Ogni qual tratto guardava
il sole per regolarsi, poi raddoppiava il passo scostando i rami o
abbattendo o strappando le liane che potevano offendere o impedire il
passo ai suoi salvatori.

Verso le tre egli si volse a Wan-Horn, e dopo di aver dato una rapida
occhiata in giro, disse:

— Il boschetto è laggiù, dietro quei tek.

— Sono vicini, signor Cornelio! gridò il marinaio. Possono udire un
colpo di fucile.

— Ah! esclamò Cornelio. — Finalmente, rivedrò mio zio e Hans.

Alzò il fucile e lo scaricò in aria, ma nessuna detonazione vi rispose.
Il marinaio ed il giovanotto si guardarono in viso con viva ansietà.

— Nulla, disse il marinaio impallidendo.

— Che siano partiti?

— Io non lo so, ma le mie inquietudini raddoppiano.

— Che siano addormentati?

— A quest’ora?... Non sono che le tre, signor Cornelio.

— Si saranno messi in cerca di noi.

— È possibile, ma spero che troveremo qualche segnale. Affrettiamoci.

Si misero a correre tutti e due, preceduti dal papuaso, il quale aveva
compreso che doveva essere accaduto qualche grave avvenimento, e dopo
dieci minuti giungevano nel boschetto di noci moscate.

Cornelio e Wan-Horn s’arrestarono, entrambi pallidissimi, gettando
sguardi ansiosi sotto quelle piante, ma non videro alcuno. Solamente
delle colombe coronate occupavano i rami, mangiando le frutta
saporitissime.

— Non ci sono più!.... esclamò il giovinotto con voce strozzata. Gran
Dio!... Dove li ritroveremo noi?

— Vediamo, signor Cornelio. Non è possibile che siano partiti, senza
lasciare qualche cosa per noi.

S’inoltrarono sotto gli alberi e giunsero sul luogo ove si erano
accampati il capitano, Hans ed il chinese. Vi erano delle tracce:
dei pezzi di pane di sagù, gli avanzi d’un fuoco, una piccola tettoia
semi-sfasciata, delle penne di colombe, ma null’altro.

— Niente, nemmeno un biglietto che ci indichi la via da loro presa!
esclamò Wan-Horn, con disperazione.

Ad un tratto, mentre stavano frugando le erbe ed i cespugli, videro
il papuaso, che si era allontanato per cercare le traccie del capitano
e dei suoi compagni, ritornare correndo. Il suo volto manifestava una
profonda ansietà.

— Là! esclamò egli, mostrando al marinaio il margine della grande
foresta.

— Cos’hai veduto? chiese Horn, che ebbe un lampo di speranza. Degli
uomini bianchi forse?

— No, ma vieni.

Cornelio e Hans lo seguirono e giunsero sotto alcuni colossali
_durion_. Colà, con grande angoscia, scorsero a terra alcuni pani
di _sagù_ che parevano fossero stati schiacciati, delle palle di
fucile, un pezzo della giacca del capitano e che pareva fosse stato
violentemente strappato, un cappello che riconobbero appartenente al
chinese, poi alcune freccie infisse nei tronchi degli alberi, una mazza
semi-spezzata e dei cordami di fibre di _rotang_.

— Cos’è accaduto? esclamò Cornelio, con voce rauca.

— Qui si è combattuto! esclamò Horn, strappandosi i capelli. I selvaggi
hanno assalito i nostri compagni!...

— E forse mio zio, mio fratello, il Chinese sono stati uccisi.

— No..., aspettate!...

Il marinaio si era precipitato fra le erbe e aveva raccolto un pezzo
di carta semi-strappato, che giaceva ai piedi di un arecche. Sopra vi
erano delle parole scritte colla matita.

— Leggete, signor Cornelio, diss’egli.

Il giovanotto lo spiegò e lesse:

“Rapiti dai selvaggi: ci portano verso la Durga. — Wan-Stael„.

— Sono stati sorpresi e fatti prigionieri, disse il marinaio. Ma da
chi?... Dai Papuasi o dagli Arfaki?... Che li serbino schiavi o che li
mangino più tardi?... Uri-Utanate!...

Il papuaso parve che non lo udisse: egli aveva staccata una freccia
infissa nel tronco d’un albero e la guardava con viva attenzione.

— Uri-Utanate!... ripetè il marinaio.

Il selvaggio questa volta lo udì e gli si appressò dicendo:

— Io conosco queste freccie.

— Le conosci?... esclamò Horn.

— Sì, e appartengono ai guerrieri della mia tribù.

— Sei certo di non ingannarti?

— Non m’inganno.

— Ma per quale motivo la tua tribù si è spinta fin qui?

— Mio padre l’ha condotta.

— Per sorprendere i nostri compagni?...

— No, poichè non poteva saperlo, ma per salvare me dalle mani degli
Arfaki. Egli deve essere stato avvertito della mia prigionia da un mio
compagno, il quale potè fuggire all’agguato tesomi.

— E per vendicarsi della tua morte, se la prende coi nostri compagni.

— No, noi facciamo la guerra anche agli uomini bianchi che ci hanno
maltrattati più volte, e mio padre può averli creduti suoi nemici.

— E li ucciderà?...

— No, mio padre non uccide i prigionieri e non li mangia: li tiene
schiavi.

— Ma noi li libereremo; dovremmo dare fuoco al tuo villaggio.

Il papuaso sorrise:

— Il figlio di Uri-Utanate è stato salvato da voi ed è vostro schiavo.
Quando mio padre lo saprà diverrà l’amico degli uomini bianchi e vi
farà condurre tutti alla vostra patria.

— È lontana la Durga?

— Due giornate di marcia.

— Quando credi sia avvenuto l’assalto?

— All’alba, poichè questi rami spezzati sono ancora umidi di linfa. Se
fossero stati recisi ieri sera, sarebbero ormai asciutti.

— Signor Cornelio, partiamo senza perdere un minuto, disse il marinaio.
Fra quarantotto ore noi riabbraccieremo il capitano, Hans ed il
chinese.

— In cammino, Wan-Horn. Mi sento tanto forte ora, da fare dieci leghe
senza arrestarmi.

Raccolsero il _sagù_ disperso fra le erbe, poi si rimisero in marcia
inoltrandosi nella gran foresta che si estendeva verso l’ovest.




CAPO XXIV.

Il capo Uri-Utanate


Il capitano, Hans ed il giovane pescatore, rimasti nel boschetto di
noci moscate, invano avevano atteso il ritorno dei cacciatori, lanciati
sulle tracce del _babirussa_.

Dapprima non si erano inquietati, credendo che l’animale li avesse
condotti assai lontani, ma vedendo trascorrere le ore senza che
apparissero, cominciarono ad agitarsi ed a temere che fosse a loro
toccata qualche disgrazia.

Trovandosi in paese selvaggio, abitato da tribù ostili, sospettose e
talune antropofaghe, e anche popolato da non pochi animali feroci, i
loro timori non potevano essere infondati.

Il capitano, le cui apprensioni crescevano vedendo il sole volgere al
tramonto, decise di mettersi in cerca dei disgraziati compagni. Dopo
di avere raccomandato ad Hans ed al chinese di non abbandonare il
boschetto e di vegliare attentamente, si mise in marcia verso il sud,
seguendo le tracce del _babirussa_, ma avendo anche la precauzione
di segnare gli alberi alla sua destra, vibrando di tanto in tanto dei
colpi di scure sui loro tronchi per poter ritrovare la via percorsa.

S’inoltrò nella foresta per parecchi chilometri, ma procedendo
a casaccio, avendo ben presto smarrite le traccie dell’animale e
lanciando di tratto in tratto delle tuonanti chiamate, ma senza
ottenere risposta alcuna.

Declinando il sole e temendo di non ritrovare più la via percorsa, fu
costretto, suo malgrado, a ritornare, sperando che i compagni fossero
già giunti al boschetto percorrendo altro tratto di foresta.

La sua disperazione fu al colmo quando non vide che Hans ed il chinese.

— Si sono smarriti, disse. Cosa sarà di loro? Gl’imprudenti, nella
fuga dell’inseguimento, hanno dimenticato di fare delle incisioni agli
alberi e chissà dove saranno ora.

— Non possono essersi molto allontanati, zio, disse Hans. Il
_babirussa_ perdeva sangue e non può aver percorso molta via; forse
ritorneranno più tardi.

— Ma la foresta è immensa, Hans, ed è facile perdersi fra migliaia e
migliaia di alberi.

— Wan-Horn è un marinaio e tu sai che gli uomini di mare sanno sempre
trovare la tramontana, il levante, l’occidente e il mezzodì.

— Sul mare, ma in questi boschi che non lasciano vedere il sole?...
Tuttavia non disperiamo.

Costruirono una piccola tettoia con alcuni rami incrociati e delle
foglie di arecche e s’accamparono senza osare dormire, per tema di non
poter udire i segnali dei loro compagni.

Le ore però passavano senza che Cornelio e Wan-Horn ritornassero.
Solamente verso la mezzanotte parve a loro di udire una lontana
detonazione e delle grida, ma non si ripeterono.

Il capitano avrebbe voluto partire sull’istante, ma essendo l’oscurità
profonda e temendo a sua volta di smarrirsi, fu costretto a rinunciare
al progetto. All’alba, vinti dalla stanchezza e da quella lunga veglia
angosciosa, s’addormentarono, ma il loro sonno fu di breve durata,
poichè furono bruscamente svegliati da selvaggi clamori.

Stavano per balzare in piedi, quando videro precipitarsi addosso trenta
o quaranta papuasi armati di cerbottane, di mazze e di lance, adorni di
piume e di collane di denti d’animali e di scagliette di tartaruga.

Hans ed il chinese in un baleno furono atterrati e ridotti
all’impotenza prima che potessero far uso delle loro armi; ma
il capitano, impugnando una scure, era balzato fuori cercando di
guadagnare la foresta, ma giunto colà era stato assalito da una seconda
orda di papuasi e fatto prigioniero, malgrado la sua disperata difesa.

Un vecchio papuaso, di alta statura, col capo adorno di piume d’uccelli
del paradiso ed i fianchi stretti da una larga fascia di nanchino che
gli ricadeva sul dinanzi, avvicinatosi al capitano gli chiese in lingua
malese:

— Dov’è mio figlio?...

— Tuo figlio!... esclamò Wan-Stael. Non so chi sia.

— Era qui venuto per uccidere il capo degli Arfaki.

— Non l’ho mai veduto.

— Tu menti, bianco, gridò il papuaso. Tu l’hai ucciso.

— Ma se ti dico che non l’ho mai veduto.

— Gli uomini bianchi sono nostri nemici.

— Io non sono mai stato tuo nemico.

— Tu vuoi ingannarmi, ma sei mio e diventerai mio schiavo o ti farò
mangiare dai miei sudditi.

— Tu sei ubbriaco, papù, disse il capitano, che perdeva la sua calma.
Quali istorie vieni a raccontarmi?...

— Cosa facevi in questi boschi?...

— Sono naufragato su queste coste spintovi dalle tempeste e cercavo
di raggiungere la Durga per poi guadagnare le isole Arrù e di là
tornarmene in patria.

— E non hai veduto gli Arfaki?...

— Nemmeno uno.

— Ma cos’è avvenuto di mio figlio?

— L’avranno ucciso.

— Sono tuoi amici gli Arfaki?

— Mi avrebbero mangiato, se li avessi incontrati.

— Non ti credo: sarai mio schiavo finchè non avrò ritrovato mio figlio.

— Come vuoi, ma bada, papù, che se tocchi un capello ai miei compagni,
io ti ucciderò, dovessi poi venire divorato dai tuoi sudditi. Dov’è il
tuo villaggio?

— Sulla Durga.

— È la mia via, mormorò il capitano. Cornelio e Wan-Horn sanno che noi
dovevamo recarci a quel fiume, speriamo quindi che ci raggiungano colà.
Sarà però meglio avvertirli, nel caso che ritornino qui.

Strappò dal suo libretto una pagina e scrisse quelle parole che più
tardi dovevano venire lette dai suoi compagni, e la gettò in mezzo
all’erba.

— Cos’hai fatto? gli chiese il capo.

— Una offerta al mio genio protettore, rispose il capitano. Ti
consiglio di non toccarla, se non vuoi morire.

Il papuaso, superstizioso come tutti i suoi compatrioti che credono
ai geni del mare e della notte, si guardò bene dal toccarla; anzi, per
tema che fosse qualche potente malefizio dell’uomo bianco, si affrettò
a dare il segnale della partenza.

Convinto che ormai suo figlio fosse stato ucciso o dagli Arfaki o dai
suoi prigionieri, ritornava al suo villaggio.

La marcia attraverso a quelle grandi boscaglie fu penosa, sopratutto
pei tre naufraghi ai quali erano state legate le mani dietro al dorso
per impedire che si ribellassero o che fuggissero durante le fermate
notturne.

All’alba del terzo giorno, però, la tribù giungeva sulle rive della
Durga, grande fiume, dal corso rapido, che solca gran parte della vasta
isola verso occidente e che scaricasi presso il capo Valke, in quel
tratto di mare che bagna l’arcipelago delle isole Arrù.

Un grande villaggio acquatico occupava un lungo tratto della sponda
sinistra. Era formato da una quarantina di enormi capanne rettangolari,
con terrazze spaziose comunicanti fra di loro e sorrette da grossi
bambù, i quali immergevano le loro estremità inferiori nella corrente.

Alcuni ponti mobili le univano alla riva, e sotto di essi, legati a
quella selva di pali, si vedevano galleggiare gran numero di quelle
doppie barche, scavate nei tronchi di colossali cedri, fornite di
bilancieri, di alberi e di vele.

I papuasi, attraversati i ponti, entrarono nel villaggio, accolti dagli
abitanti da grida di giubilo e trassero i prigionieri nell’abitazione
del capo, che era situato nel centro e che era la più vasta di tutte,
avendo una lunghezza di oltre quaranta metri su una larghezza di venti.

Il capitano ed i suoi compagni dovettero eseguire una ginnastica
indiavolata, essendo i pavimenti delle terrazze composti, come
quelli delle case aeree, di travi distanti l’uno dall’altro venti o
venticinque centimetri e senza tralicci. Più volte corsero il pericolo
di cadere, senza l’aiuto dei loro guardiani, i quali invece non
mettevano mai i piedi nel vuoto, tanto sono abituati a quei pavimenti
incomodi sì, ma che hanno il vantaggio di lasciare cadere le immondizie
della casa senza bisogno di scope.

— Ed ora, cosa intendi di fare? chiese il capitano al capo, quando si
vide rinchiuso in una stanzuccia assieme ai suoi compagni.

— Il Consiglio degli anziani della tribù deciderà la tua sorte, rispose
il selvaggio. Se voi avete ucciso mio figlio, morrete.

— Capo testardo! esclamò il capitano, che usciva dai gangheri. Ti ho
detto che noi non siamo tuoi nemici.

— Gli uomini bianchi sono miei nemici.

— Gli altri forse, ma non noi.

— Fa lo stesso, poichè anche voi siete bianchi.

— Ma se io non ho mai veduto tuo figlio.

— L’avranno ucciso gli Arfaki tuoi alleati.

— Sei una canaglia!...

— Sono Uri-Utanate.

— Un brigante! urlò il capitano, esasperato.

— Bada!... uomo bianco!...

— Non ho paura dei tuoi uomini.

— Me lo dirai più tardi.

— Bada, vecchia pelle negra, che ho dei compagni ancora liberi nella
foresta e che se tu tocchi me o mio nipote od il chinese, ti faccio
incendiare il villaggio.

— I miei guerrieri lo difenderanno.

— Oh furfante!...

Il capitano, furibondo, si era alzato tendendo le pugna verso il
papuaso, quando improvvisamente udì echeggiare due colpi di fucile e
subito dopo dei clamori assordanti.

— Degli spari! esclamò Hans. Forse sono Cornelio e Wan-Horn!...

Il capo papù si era precipitato fuori dell’abitazione colla mazza
in pugno, forse credendo che degli uomini bianchi assalissero il suo
villaggio. Ad un tratto emise un grido di gioia.

— Uri! Uri! gridò, correndo attraverso alle terrazze sulle quali era
radunata l’intera popolazione.

Un papuaso, che era seguito da due uomini bianchi, superato un ponte
gli correva incontro colla velocità di una freccia.

— Padre!... esclamò.

Il capo, che pareva estremamente commosso, se lo strinse al petto
dicendo:

— Vivo, vivo ancora!

— Sì, padre: gli Arfaki non mi hanno ucciso, come ben vedi.

Poi, dopo di avere lanciato un rapido sguardo all’ingiro, chiese:

— Hai fatto prigionieri degli uomini bianchi?

— Sì, rispose il capo.

— Dove sono? Voglio vederli!

— Sono nella mia capanna.

Il giovane papuaso balzò attraverso alle terrazze ed entrò nella stanza
dove stavano il capitano, Hans ed il chinese.

Si avanzò verso di loro e con un gesto che non mancava di una certa
nobiltà, disse:

— Siete liberi e ospiti graditi del capo Uri-Utanate.

— Ma chi sono costoro? chiese il capo che lo aveva raggiunto. Non sono
nostri nemici?

— No, padre; essi sono i fratelli degli uomini bianchi che mi hanno
strappato dalle mani degli Arfaki, quando ero già votato alla morte.

In quell’istante Cornelio e Wan-Horn apparvero sulla porta. Quattro
grida echeggiarono.

— Zio!...

— Nipote!...

— Hans!...

— Wan-Horn!...

I quattro naufraghi, che credevano di non più rivedersi, si
abbracciarono, mentre il chinese, fuori di sè per la gioia, sgambettava
per la stanza come se fosse impazzito.

— Uomini bianchi, disse Uri-Utanate, che ormai sapeva ogni cosa. La
mia casa, i miei guerrieri e le mie barche sono a vostra disposizione.
Voi mi avete ridato il figlio, l’erede del mio grado: io vi ridò la
libertà.

— Padre, disse il giovane guerriero. Questi uomini vengono dai lontani
paesi situati all’ovest e vogliono raggiungere le isole Arrù per
ritornare in patria. Io li guiderò fino all’arcipelago.

— Mio figlio è un valoroso: segua e protegga gli uomini bianchi fino
alle isole.

— Grazie, Uri-Utanate, disse il capitano. Quando sarò tornato in
patria, dirò che se nella Papuasia vi sono degli uomini cattivi, non
mancano però gli uomini generosi.




CONCLUSIONE


L’indomani i naufraghi della giunca lasciavano il villaggio di
Uri-Utanate, scendendo la Durga su una delle più grandi e meglio
attrezzate barche.

Il figlio del capo e dodici dei più abili marinai li accompagnavano per
difenderli contro i pirati della costa e per guidarli all’arcipelago.

Il capo, prima di separarsi da loro, aveva restituite le armi e fatta
caricare la piroga di viveri sufficienti per parecchi giorni.

La discesa del fiume non fu ostacolata, essendo tutte le tribù
accampate su quelle rive alleate di Uri-Utanate.

Tre giorni dopo giungevano al capo Valke, mettendo la prua al
sud-ovest, e favoriti da un fresco vento veleggiarono verso le Arrù,
che si trovano in mezzo al così detto mare di Banda, compreso fra
le isole omonime che lo racchiudono verso l’ovest e la costa della
Papuasia che lo cinge verso il nord e l’est.

Dodici giorni dopo giungevano in vista di quell’importante arcipelago
composto di circa trenta isole, basse, ma fertilissime, coperte d’una
vegetazione esuberante.

Sono tutte piccole, ad eccezione di Trana che è lunga venti leghe e
larga quattro, ma popolate da molti papuasi e malesi, ripartiti in
ventiquattro villaggi, sedici dei quali cristiani, cinque maomettani e
tre idolatri.

Quantunque non vi sia alcuna colonia di bianchi, appartengono
agli Olandesi, i quali le visitano sovente per acquistare gusci
di tartarughe, _trepangs_ e uccelli di paradiso. Anche i _prahos_
(velieri) malesi trafficano cogli abitanti e si recano su quelle
spiaggie a pescare le olutarie.

La piroga, guidata da Uri, approdò nel porto naturale di Dabo, che è
formato dalle isole Varna e Vacam e che è il più importante di tutto
l’arcipelago, arrestandosi dinanzi al vecchio forte olandese.

I naufraghi con loro grande gioia trovarono colà una goletta olandese
di loro conoscenza, che stava caricando del _trepang_. Era la
_Batanta_, di Timor, comandata da un vecchio amico di Wan-Stael.

Rinunciamo a descrivere l’accoglienza avuta dal loro compatriota, il
quale mise la nave a loro disposizione.

Il giovane Uri si trattenne due giorni a Dabo per tenere cara compagnia
ai suoi salvatori, poi, prima di partire, levò da un nascondiglio
esistente nella piroga due grandi pacchi accuratamente avvolti in
foglie e strettamente legati con liane e consegnandoli al capitano,
disse:

— Questo metallo giallo, che abbonda nel nostro paese e nelle sabbie
della Durga, so che è apprezzato dai bianchi. Conservatelo per mio
ricordo.

Ciò detto balzò nella piroga, fece alzare le vele e uscì in mare
salutando un’ultima volta i suoi amici bianchi.

Il capitano ed i suoi compagni, non avendo compreso il significato
di quelle parole, credettero che quei pacchi contenessero dei regali
di nessun valore, ma quale fu la loro sorpresa, quando, apertili, li
trovarono ripieni di polvere d’oro!...

V’erano almeno quaranta chilogrammi di quel prezioso minerale, che è
così abbondante fra le sabbie dei fiumi papuasi: era una vera fortuna
che li ricompensava largamente della perdita della _giunca_ e del
_trepang_.

Quattro giorni dopo la _Batanta_ spiegava le vele, ed una settimana più
tardi approdava a Timor, dinanzi alla fattoria dell’armatore chinese.

Il capitano ha rinunciato a navigare: possiede una grande fattoria, si
occupa dello smercio del _trepang_ e dei prodotti delle sue terre. Hans
e Cornelio invece navigano ancora con una nave acquistata coll’oro del
papù, in compagnia del vecchio marinaio e del giovane pescatore, che
non hanno voluto abbandonarli.




INDICE


  CAPO     I. — La costa australiana                Pag. 5
   »      II. — I pescatori di trepang               »  13
   »     III. — La pittura di guerra del selvaggio   »  23
   »      IV. — Gli australiani                      »  31
   »       V. — L’assalto notturno                   »  41
   »      VI. — L’orgia dell’equipaggio              »  53
   »     VII. — I mangiatori di carne umana          »  63
   »    VIII. — Il golfo di Carpentaria              »  75
   »      IX. — Il naufragio durante l’uragano       »  85
   »       X. — L’uragano                            »  95
   »      XI. — L’isola di Corallo                   » 109
   »     XII. — Lo stretto di Torres                 » 121
   »    XIII. — I Pirati della Papuasia              » 131
   »     XIV. — La Nuova Guinea                      » 139
   »      XV. — L’assalto dei coccodrilli            » 149
   »     XVI. — La capanna aerea                     » 161
   »    XVII. — Fra le freccie ed il fuoco           » 171
   »   XVIII. — Caccia alle testuggini               » 181
   »     XIX. — Gli alberi sagu                      » 193
   »      XX. — I boschi della Papuasia              » 203
   »     XXI. — Il Babirussa                         » 213
   »    XXII. — Le vendette dei Papuasi              » 223
   »   XXIII. — I Prigionieri                        » 233
   »    XXIV. — Il capo Uri-Utanate                  » 245
  CONCLUSIONE                                        » 257




NOTE:


[1] Sono larghi buchi che servono per le catene delle àncore.

[2] Specie di rondini che fanno dei nidi gelatinosi che si pagano assai
cari dai ghiottoni chinesi.

[3] Dalle 100 alle 175 lire ogni 133 libbre.

[4] È il dio degli australiani.

[5] Moneta che vale circa 70 lire.

[6] Piccola moneta di bronzo, forata nel mezzo, che vale meno di un
centesimo.

[7] Fori aperti nei parapetti delle navi, a fior della coperta, per lo
scolo dell’acqua.

[8] Nel 1879 in Italia era sorta l’idea di occupare una parte della
Guinea o di mandarvi degli emigranti, circa 3000, ma poi fu abbandonata
e forse a torto.

[9] Il _toman_, peso che è in uso nella Malesia: equivale a 15
chilogrammi.

[10] Questi uccelli sono comuni anche nell’isola di Nuova Brettagna che
si trova all’est della Nuova Guinea.

[11] Il bétel è un miscuglio formato di foglie aromatiche del _siri_
(_piter betel_), di noci areca e di calce viva. Si mastica emettendo
dei getti di saliva rossa, ma col tempo annerisce i denti.

Il bétel è largamente usato da tutti gli abitanti delle isole
indo-malesi e dai papuasi.

[12] Capo.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I PESCATORI DI TREPANG ***


    

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