Lotte civili

By Edmondo De Amicis

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Title: Lotte civili

Author: Edmondo De Amicis

Release date: January 17, 2025 [eBook #75129]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1910

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LOTTE CIVILI ***


                           EDMONDO DE AMICIS


                              LOTTE CIVILI



                                 MILANO
                        FRATELLI TREVES, EDITORI
                                  1910




                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

     _I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per
      tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l’Olanda._

                         Milano. — Tip. Treves.




PREFAZIONE.


Il figlio Ugo e l’editore Emilio Treves non vogliono che alla serie
delle opere di Edmondo De Amicis manchi il libro che rappresenta
l’azione da lui esercitata nella vita politica italiana con gli scritti
d’argomento sociale, sparsi finora in giornali e in opuscoli di partito
o raccolti alla rinfusa in edizioni di propaganda; pensando che essi
pure hanno un singolare valore letterario e meritano di appartenere al
retaggio universalmente noto dello scrittore.

Si sa che il De Amicis, la cui anima affettuosa era sempre stata
riboccante di simpatia per gli umili e di pietà per i sofferenti,
si volse risolutamente al socialismo nel 1890, quando aveva
quarantaquattro anni.[1] Disse egli medesimo che il suo caloroso
aderire alle nuove dottrine era stato da prima l’espressione dei
sentimenti di carità e di giustizia, a cui tutta la sua persona
morale era preparata, anzi nata; ma poi era anche divenuto l’effetto
di un esame ragionato della questione sociale, quanto gli era stato
possibile di farlo, mettendosi coscienziosamente, sebben tardi, agli
studî necessarî a quell’esame. Persuasosi che “la sola idealità dei
tempi nuovi, la sola che abbia ancora virtù di muovere le masse e
che meriti nuovi sacrifizî di energie generose, è la redenzione delle
plebi„, sentì di non poter più avere pace nè dignità di coscienza se
non nel porre l’opera sua di scrittore in servigio di quella idealità,
immolando qualunque suo personale interesse al compimento di tale
dovere.

Nato di sentimento, maturato nella riflessione e nello studio, nudrito
di amplissime letture, il socialismo del De Amicis doveva avere pronta
e piena manifestazione in un romanzo, _Primo maggio_, ch’egli compose
fra il 1890 e il 1893, e di cui si conserva il testo manoscritto.
Ma quel libro, ideato nel fervido “entusiasmo apostolico dei primi
giorni„, atteso con appassionata curiosità in Italia e fuori, allorchè
fu compiuto non piacque più, come opera di pensiero e di arte, al
suo autore; il quale, con mirabile esempio di probità letteraria, non
volle dare alle stampe ciò che, prima dei lettori, la sua coscienza non
poteva sicuramente approvare; non volle tentare la pubblicazione come
un gioco di fortuna; e condannò il romanzo, famoso prima che noto, a
rimanere inedito. Solo ne aveva messo fuori il primo capitolo, nella
_Nuova Antologia_ del 1.º maggio 1892; altri brani e frammenti ne
diede liberalmente qua e là, a giornali socialisti che sollecitavano la
sua collaborazione; e sarà facile al lettore riconoscerli, anche come
confessioni palesemente personali, fra i racconti e dialoghi compresi
in questo volume.

In quegli stessi giornali, principalmente nell’_Avanti!_ di Roma e nel
_Grido del Popolo_ di Torino, allora e negli anni seguenti, mentre
proseguiva la sua azione militante nel partito, che fra asprissime
battaglie andava allora organizzandosi per la conquista dei pubblici
poteri, il De Amicis pubblicò un gran numero di articoli d’occasione
e scritterelli di propaganda, che ora non sarebbe possibile nè
conveniente raccogliere tutti quanti. E così si dica delle molte sue
pagine sparse contro il militarismo e per la pace fra i popoli.

Egli era stato soldato valoroso, ufficiale devoto alla patria e alla
bandiera. Ma per la guerra aveva sempre avuto anzi orrore che amore; e,
terminate le sante guerre dell’indipendenza nazionale, aveva deposto
la spada, rinunziando alla carriera delle armi, per la quale non era
fatto. E naturalmente, con quel medesimo spirito con cui aveva cercato
nell’esercito e nella vita militare gli elementi dell’umana fraternità
e l’ideale di una civiltà superiore, franca dalla violenza e dal
sangue, seguitò, confortato dalla nuova fede politica, e senza però mai
vituperare le istituzioni che aveva onoratamente servito, a combattere
contro la guerra, a vagheggiare la società dei popoli pacificata
dal progresso morale e dalla necessità stessa della comune esistenza
economica.

Col titolo di _Lotte civili_, già consacrato nell’uso dalle varie
stampe del Nerbini di Firenze (toltine i due discorsi _Per il 1.º
maggio_ e _Per la questione sociale_, che già si leggono, integri
e corretti, nel libro delle _Speranze e glorie_, e il capitolo _La
canaglia_, che appartiene al libro di _Capo d’anno, pagine parlate_),
sono ordinati nel presente volume i più notevoli scritti minori del De
Amicis per il socialismo e per la pace; nè soltanto quelli che altri
prima raccolse, ma parecchi di più, tratti da giornali e da opuscoli
dispersi, come _Una tempesta in famiglia_, _Un borghese originale_,
_Un episodio della battaglia di Custoza_: cose particolarmente
interessanti, alle quali la destinazione politica ha fatto torto,
lasciandole ignorare agli infiniti lettori che, fuor della politica,
ammirano l’arte e l’animo dello scrittore.

È giusto, è doveroso far sì che tutti possano leggere e serbare accanto
agli altri libri del De Amicis anche questo, non messo insieme da
lui, ma pieno del suo ingegno generoso, il quale vi appare incitato a
insoliti ardimenti, a nuove prove di pensiero e di stile, dal proposito
di guadagnare il consenso altrui alla sua concezione della giustizia
e dell’armonia sociale. Ottenga o no tale consenso, il De Amicis è pur
sempre quel maestro di rettitudine e di bontà che tutti possono amare,
qualunque siano le loro opinioni; è lo scrittore profondamente sincero,
a cui tutti debbono reverenza; ed è in ogni caso tale autore, che niuna
parte del suo lavoro ha da rimanere abbandonata.

  Torino, ottobre 1910.

                                                      DINO MANTOVANI.




PARTE PRIMA.

RACCONTI E DIALOGHI.


Il primo passo.

(FRAMMENTO DI UN ROMANZO INEDITO.)

Alberto Bianchini aveva scelto la carriera dell’insegnamento
letterario, non solo per la tendenza naturale del proprio ingegno,
ma anche per un sentimento capriccioso di vanità mondana: perchè
gli pareva che in lui, giovane agiato, elegante, addestrato a tutti
gli esercizi cavallereschi, e destinato a brillare nella società
signorile, avrebbe acquistato una grazia insolita, sarebbe parso una
qualità singolare ed amabile quel titolo di professore di lettere,
che suol dare l’immagine d’uno studioso un po’ pedante e un po’
sciatto, rifuggente dal bel mondo per necessità o per natura. Ma questa
vanità egli aveva perduta in parte nel corso dei suoi forti studi
universitari, e non gliene restava più traccia quando, terminati gli
studi, entrava a un tempo stesso nell’insegnamento e nell’arte.

Nell’arte era entrato di sbalzo con un’opera d’immaginazione e
d’analisi: le confessioni d’un uomo che, rifatto fisicamente fanciullo,
ricomincia la vita scolastica, e giudica dai banchi della scuola, con
l’intelligenza e l’esperienza dell’età virile, gli studi, i compagni,
gl’insegnanti, i piccoli avvenimenti d’ogni giorno; lavoro, per le
sue forze, prematuro, e in molti punti manchevole; ma vivo e ardito,
lampeggiante d’idee originali, e condotto, da un capo all’altro, a
ondate d’eloquenza colorita e sonora, che avevano avuto una fortuna.
Ma dopo questo, cui eran seguiti altri libri, il suo ingegno s’era
urtato a un intoppo misterioso e insuperabile. Aveva ottenuto ancora
qualche favore la «Storia d’una casa di montagna», nuova nel concetto,
ma errata nel disegno, nella quale eran descritti e narrati, giorno per
giorno, il lavoro di costruzione, le fatiche, le dispute, gli amori, le
piccole vicende degli operai e delle operaie, dalla scavazione per le
fondamenta fino alla festa tradizionale per il compimento del tetto,
con una sovrabbondanza pesante di particolari tecnici, fornitigli dal
muratore Peroni, abitante nella casa: poi egli non aveva fatto più
altro che ricercar sè stesso senza ritrovarsi. E uscito deluso anche
dalla prova degli studi d’erudizione e di critica, a cui si ribellava
la sua indole impaziente e la sua calda fantasia, era vissuto lungo
tempo in uno stato doloroso d’impotenza artistica, durante il quale
aveva assistito alla morte lenta della sua prima gloria, cercando
invano una grande idea onde far scaturire una grande passione, sentendo
spegnersi, l’un dopo l’altro, tutti i suoi entusiasmi, e le sue
migliori facoltà arrugginirsi nell’inerzia, e intristire nell’ombra
anche la bontà del suo cuore. A ventitre anni era quasi celebre, a
trentacinque era come morto.

Un piccolo avvenimento fortuito lo mise quasi a un tratto in un nuovo
corso di idee. Era entrato quell’anno, a lezioni incominciate, nel
primo corso del liceo Brofferio, dov’egli insegnava lettere italiane,
un giovanetto di sedici anni, pallido, serio, che il Preside gli aveva
annunziato un giorno avanti con cert’aria d’inquietudine, dicendogli
che era fratello di un avvocato Rateri, non conosciuto da tutti e
due che di nome, direttore d’un giornale socialista, la «Questione
sociale», fondato di fresco. Non essendosi occupato mai di tale
argomento, che gli appariva come un problema di meccanica celeste, egli
non aveva mai letto il giornale, che a Torino leggevano pochissimi,
e che gli altri giornali cittadini non rammentavano mai. La presenza
di quel giovinetto nella scuola gli destò una vaga curiosità, che lo
indusse a cercare il foglio, con la certezza di non trovarvi che dei
saggi, non nuovi, di quella vacua rettorica rivoluzionaria, di cui
finanche l’eco lontana l’aveva sempre seccato. Ma, leggendone un primo
numero, e altri dopo, stupì.

Il giornale era scritto quasi per intero dal direttore, che si celava
sotto vari pseudonimi. Il supposto rétore arruffapopoli era una mente
ordinata e ragionatrice, dotata d’una forza d’argomentazione mirabile,
che allacciava e serrava il lettore per modo, da dargli quasi un senso
d’oppressione doloroso all’orgoglio, e aveva una potenza d’espressione
tutta propria, attinta, in parte, a forti studi letterari, la quale
s’aiutava in mille forme ardite e felici col latino, col francese,
col tedesco, col vernacoli, e col linguaggio di tutte le scienze,
condensando le idee, con uno sforzo quasi violento in uno stile
pieno di asprezze e di scosse subitanee, e come rumoreggiante giù nel
profondo, dove pareva di sentir martellare delle incudini, soffiare dei
mantici, fremere delle folle.

Egli che ignorava ancora l’arte facile con la quale si fa il vuoto e il
silenzio intorno ai propagatori delle idee odiate, si maravigliò che un
pensatore e uno scrittore di quella fibra non avesse più autorità e più
rinomanza. Digiuno affatto com’era delle dottrine che quegli propugnava
con tanto vigore, non poteva seguitare il filo scientifico dei suoi
ragionamenti, che richiedevano nel lettore studi e consuetudini
intellettuali molto diverse dalle sue; onde si arrestava ad ogni tratto
nella lettura come chi ha smarrito la strada in un paese straniero; ma
la gagliardia delle critiche, simile a percosse di fruste metalliche,
con cui flagellava i vizi e le idee della sua classe; la profonda
limpidità dello sguardo col quale, attraversando i tempi, vedeva gli
indizi, gli aspetti, le vicende della grande quistione a tutti gli
orizzonti della storia; la fede irremovibile nella propria ragione;
la superba certezza della vittoria futura, che appariva in ogni suo
scritto, piantata sopra un fondamento saldissimo di meditazioni
continue e pacate, gli scossero l’animo, gli suscitarono un vivo
desiderio di avvicinarsi, studiando la questione, a quel singolarissimo
ingegno. Un giorno quegli venne alla scuola a domandare informazioni
del fratello e scambiò qualche parola con lui. Il suo aspetto gli rese
anche più vivo quel desiderio. Era un uomo sui trentotto anni, alto e
diritto, con un viso lungo e regolarissimo, d’una bianchezza e d’una
fermezza marmorea, al quale i capelli irti e corti e la barba piena
facevano una cornice nera, quasi funerea, e aveva due occhi azzurri
velati, che parevan sempre fissi sopra un orizzonte lontano: una
testa d’ostinato, una fronte d’uomo imperturbabile, un abito da prete
spretato, una cortesia fredda, una voce aspra, e nessun gesto, come se
avesse le braccia d’un morto.

Di qui ebbe l’impulso primo che lo volse agli studi sociali....

                                   *

Un caso lo spinse innanzi prima del tempo. Desideroso di conoscere
le prime manifestazioni dell’ingegno del Rateri, e un poco anche di
vedere in che specie di fucina egli martellava la sua strana prosa
di battaglia, andò un giorno a cercar la raccolta del primo semestre
all’ufficio del giornale, che era in una strada fuor di mano di Borgo
San Secondo, in due stanze a terreno, in fondo a un cortile silenzioso.
Visto l’uscio aperto, entrò senza picchiare, credendo di trovar nella
prima stanza un segretario o commesso che ricevesse i visitatori;
e invece si trovò subito nell’ufficio di redazione, in uno stanzone
lungo e nudo come un parlatorio di convento, dove, a capo d’una grande
tavola senza tappeto, coperta di giornali, stava seduto il direttore,
e ritto accanto a lui una signora e un operaio, che spiccavano sul
vano luminoso d’un finestrone. N’ebbe un senso di rispetto, come se
il desiderio della raccolta, che l’aveva condotto là, potesse parere
al Rateri un pretesto puerile per fargli indovinare l’animo proprio, e
quasi per offrirsi alla Causa.

Vedendolo entrare, il Rateri pronunziò il suo nome in accento
interrogativo, senza poter reprimere un piccolo moto di stupore, e gli
altri due lo guardarono con una curiosità evidente di saper con che
scopo fosse venuto. Gli passò sul viso un leggerissimo rossore, che
quelli notarono, e, rapidamente, guardando un busto di Carlo Marx che
era nel mezzo d’una parete, cercò un altro pretesto alla visita. Ma non
ce n’era altri che non dovesse parere anche più finto di quello.

Espresse il suo desiderio.

Allora quei tre lo fissarono con uno sguardo anche più intenso, col
quale egli incrociò il suo, curiosamente, indovinando il pensiero di
tutti e tre. Uno sguardo gli bastò per capire chi fossero l’uomo e la
donna che vedeva per la prima volta. La donna era certo quella Maria
Zara, della quale si parlava da un anno a Torino, dilaniandola, a
causa della propaganda che faceva tra le operaie, per raccoglierle in
associazioni, con articoli e conferenze, che si mettevano in ridicolo:
una specie di Luisa Michel, come la definivano. Il suo aspetto non
corrispondeva punto all’immagine che il Bianchini se n’era fatta,
udendone dire gli orrori che ne dicevano. Dimostrava un trentasei
o trentasett’anni: era alta di statura e pallida, e aveva gli occhi
scuri e profondi, con due grandi sopracciglia nere, da cui le risaliva
fino a mezza fronte una ruga sottile e diretta, che le dava un’aria di
energia virile, e sviava l’attenzione della grazia originale, benchè
un po’ appassita e quasi stanca, del suo viso pensieroso. Era vestita
di nero, col collo nudo, semplice, e pettinata semplicemente: pareva
una monaca che avesse buttato il velo, e il contrasto del suo viso
spirituale e triste con le belle forme del suo corpo robusto e fermo
nell’atteggiamento risoluto d’una donna abituata a parlare in pubblico,
aveva non so che di strano e seducente, da cui il Bianchini fu scosso.
L’operaio, meno alto di lei, un tipo di giovane russo, di viso fino ed
aperto, contornato d’una barba rossiccia, e vestito di panni logori,
ma pulitissimi, che lo guardava con gli occhi socchiusi d’un miope,
gli parve che dovess’essere — e non s’ingannava — un tal Mario Barra,
del quale la «Questione sociale» pubblicava certi articoli intorno
all’«organizzazione della classe operaia», veri torrenti di parole
e di pensieri monchi e disordinati, in cui si sentiva il balbettìo
impaziente d’una intelligenza affollata d’idee, che per la difficoltà
d’uscire s’ingorgavano come il liquido nel collo troppo stretto d’una
bottiglia capovolta.

Il Bianchini notò una diversa espressione nei tre sguardi che lo
fissarono: in quello del Rateri una fredda curiosità, come davanti al
semplice enunciato d’un problema aritmetico; in quello dell’operaio
una idea di simpatia, che s’avvicinava al sorriso; in quello della
donna il senso d’una interrogazione severa e quasi diffidente, ma in
cui gli parve pure di scorgere qualche cos’altro, come l’ombra d’una
rimembranza. E capì che tutti e tre gli avevano letto nell’anima.

Il direttore gli rispose lentamente, come distratto, che non essendo
pronta una raccolta intera, avrebbe cercato di farla mettere insieme,
e che, se anche fossero mancati dei numeri, siccome era stabilito che
i mancanti si ristampassero, egli sarebbe stato soddisfatto presto o
tardi: frattanto, gli avrebbe mandato a casa i fogli che c’erano.

Parlando, s’era alzato egli pure, e stava in mezzo agli altri due,
immobile, formando con essi come un gruppo statuario in fondo alla
stanza nuda; davanti al quale il Bianchini ebbe un pensiero che gli
scosse l’animo, e gli rimase impresso dentro indelebilmente insieme
con l’immagine di quelle tre persone raggruppate. Erano le tre grandi
forze del socialismo: un borghese; una donna, la grande ausiliatrice
invocata ed attesa, senza la quale nulla si sarebbe compiuto, quella
che doveva infonder la costanza ai valorosi, e suscitare gli inerti, e
svergognare i codardi, e sollevare, soffiando nell’oceano umano, l’onda
che avrebbe sepolto il vecchio mondo. Erano il simbolo vivente della
rivoluzione futura. E con questo pensiero gli s’affacciò alla mente,
quasi visibile come una realtà, l’abusata immagine dell’«alba d’un’età
nuova» e gli parve un momento che quelle tre figure immobili e ardite
si disegnassero sulla bianchezza di quell’orizzonte ideale.

Fu tentato di dire una parola; ma lo trattenne un senso di dignità, di
cui avrebbe saputo dar piena ragione. Si ristrinse a ringraziare, ed
uscì, facendo un saluto senza sorriso, a cui non risposero che i due
uomini, con un cenno del capo. Uscì socialista....


Come si diventa socialisti.

........ Spronato da quel desiderio, egli si gettò alle nuove letture
con la curiosità vivace di un viaggiatore che si affaccia a una terra
sconosciuta, sorvolando a tutto il socialismo sentimentale e filosofico
del primo periodo, per afferrarsi ai fondatori scientifici della
dottrina. Era, per sua natura, singolarmente preparato a ricevere da
quelle prime letture una impressione straordinaria, poichè il più vivo
e il più profondo dei suoi sentimenti era quello che chiamò «fondamento
d’ogni moralità» lo Scopenhauer: la pietà; raffinato in lui da una
calda immaginazione. In ogni periodo della sua vita, anche quando
egli aveva l’animo più offuscato dall’orgoglio, dalla sensualità, dai
rancori, quel sentimento aveva trovato aperta sempre e subito la via
del cuore, dal quale scacciava sull’atto, per più o meno tempo, tutti
gli altri. Egli non poteva veder soffrire senza soffrire egli stesso
con intensità quasi uguale a quella di chi l’impietosiva. La vista
di un vecchio povero, d’un fanciullo consumato dagli stenti, d’una
donna lacera e piangente, gli dava all’anima una stretta violenta, una
angoscia, un impulso di pietà appassionata, che gli faceva vuotar la
borsa, che gli avrebbe fatto dare anche i panni che portava addosso, se
non gli fosse rimasto altro da dare.

Anche la sola idea astratta d’una creatura umana, che, in mezzo a una
grande città, con o senza sua colpa, non ha un tozzo o un pugno del
più vile alimento da cacciarsi in corpo per non morire, che manca di
quello che non manca al cane, alla belva, all’insetto più schifoso
e malefico, gli era insopportabile come un dolore fisico acuto; e
per poter vivere e lavorare doveva cacciar di continuo dalla mente,
con uno sforzo faticoso, il pensiero che siffatte miserie esistevano
intorno a lui, che gli passavano accanto non viste per la via, che
si nascondevan forse nella sua medesima casa, sopra il suo capo. Fino
allora, per altro, egli non aveva sentito che la pietà della indulgenza
e dei dolori individuali. Ma quando, nelle nuove letture, vide per
la prima volta la miseria delle classi inferiori, studiata in tutti
i paesi, esposta in tutti i suoi svariatissimi aspetti, esaminata
in tutte le sue conseguenze funeste, provata con cifre spaventevoli:
quando conobbe tutte insieme le forme più miserande e inumane della
fatica, gli orrori delle cave, delle risaie, degli opifici avvelenati,
delle terre miasmatiche, le moltitudini condannate all’ozio e alla
fame, le generazioni infantili falciate dalla morte, che sta in agguato
dietro al lavoro, i milioni di tane immonde dove milioni di uomini si
ammontano, si ammorbano e s’imbestiano, e ritto davanti a sè, come
una montagna di sozzure, il cumulo immenso di alimenti ripugnanti e
mortiferi di cui si pasce quotidianamente una moltitudine innumerevole
di gente che lavora per un consorzio civile da cui par segregata
e reietta; allora tutta l’anima sua ne fu sconvolta, come dalla
rivelazione d’un nuovo mondo. Per la prima volta egli vide scorrere
davanti a sè l’enorme fiume nero della miseria, e onde di sangue, di
sudore e di pianto, ciascuna delle quali travolge una vittima e manda
una maledizione e un singhiozzo, e come il «Faust» del Goethe sentì
tutte le angoscie dell’umanità pesare sulla sua fronte e schiacciare il
suo cuore.

E nel tempo stesso egli udiva dire per la prima volta che questi mali
non erano effetto di una legge misteriosa di natura, ma avevano le
loro cause nelle istituzioni umane, e queste cause vedeva per la prima
volta esposte e dimostrate. E si diede a studiarle avidamente. Era la
parte critica della dottrina, la più forte e la più persuasiva, quella
in cui regnava un quasi compiuto accordo fra le scuole più discordi,
e alla quale erano opposte meno valide ragioni dagli avversari. Qui,
nondimeno, errò per qualche tempo in una nebbia d’idee, cercando di
afferrarne una, che gl’illuminasse tutte le altre. E ne afferrò una,
che era già nella sua mente da un pezzo, ma confusa e fuggevole:
cagione prima d’ogni male, il possedimento concesso a un piccolo
numero d’uomini di quello che è l’origine di tutti i prodotti e di
tutte le ricchezze, e il grande serbatoio di quanto è necessario alla
vita comune: la proprietà privata della terra, su cui tutti nascono e
muoiono, e l’uso della quale è supremo interesse di tutti; la proprietà
che toglie all’uomo il diritto di partecipare al dominio della natura,
e fa che milioni d’uomini, trovando già tutto posseduto al loro
apparire nel mondo, nascono servi e mendichi. L’ingiustizia e il danno
di una tal legge apparvero con la stessa evidenza luminosa che avrebbe
avuto per lui l’assurdità di un monopolio dell’aria che respiriamo. E
per lo squarcio fatto da questa nella cerchia delle sue vecchie idee,
un’altra gli entrò nella mente subito dopo, legata stretta alla prima:
la lucida comprensione d’un’altra causa di mali infiniti: il disordine
immenso nella produzione di tutto ciò che alla società è necessario,
l’anarchia della industria ridotta un giuoco d’azzardo, di cui scontano
le perdite le moltitudini che non hanno parte dei profitti, una libera
concorrenza che mette in perpetuo contrasto l’interesse personale con
l’interesse collettivo, che fa della vita civile una guerra combattuta
con le armi dell’astuzia e della frode, che mette il lavoro, funzione
sociale senza protezione e senza diritti, in balìa della cupidigia e
dell’egoismo, che sperpera un tesoro enorme di tempo, di forze e di
ricchezza, trascurando ogni cosa utile ad altri che non frutti a chi
la produce, arricchendo gli uni colle spoglie degli altri, mantenendo
la società in uno stato perpetuo di affanno e di violenza, in cui si
logorano le più nobili facoltà e si scatenano le più tristi passioni
umane.

E infine egli comprese, per la prima volta, nelle sue origini e nei
suoi effetti, il grande fatto, che non aveva mai meditato della
ricchezza: intuì l’ingiustizia che presiede alla sua formazione
nell’apparente, non reale libertà di contratto tra chi compra il lavoro
e chi lo vende, la figliazione mostruosa del denaro che mantiene delle
dinastie di parassiti, vittoriosi fin dalla nascita nella lotta per
l’esistenza e conquistatori senza lotta fino alla morte; l’esenzione
iniqua della ricchezza individuale dal debito che ella avrebbe verso
la società per la grande parte in cui questa concorre a produrla;
e riconobbe nei suoi istituti e nell’opera sua la grande feudalità
finanziaria, che non contenuta da alcun freno nè di legge nè di morale,
posta quasi al disopra del diritto e dello Stato, fornita di tutti i
privilegi delle antiche classi spodestate, allaccia nella sua rete il
commercio, l’industria, l’agricoltura, incetta e gioca le ricchezze
nazionali, accaparra a suo profitto tutte le invenzioni a tutti i
progressi, impone ad ogni cosa un balzello enorme che fa duplicare a
tutti il lavoro, perturba coi suoi monopoli giganteschi le condizioni
dell’esistenza dei popoli, e raccogliendo a poco a poco nelle proprie
mani tutti i mezzi di produzione, con cui costringe una sempre maggior
moltitudine d’uomini a chiederle pane e a subire le sue leggi, tende a
dividere la società in una piccola schiera di dominatori che avranno
tutto e in una folla immensa che non avrà nulla, separate l’una
dall’altra da una disuguaglianza più odiosa, da un’avversione più
feroce, da una contrarietà d’interessi più inconciliabile e più funesta
di quella che separava la servitù e la signoria dell’età media.

Quetato il primo tumulto di queste idee, che lo misero in uno stato di
rivolta segreta contro la società, si presentò a lui pure quell’eterna
domanda: — che fare? — e allora prese ad esame i grandi rimedi, la
trasformazione fondamentale di ogni ordinamento, che il socialismo
proponeva. Era la parte più debole della dottrina, quella in cui
è a tutti più arduo e più lungo acquistare una salda persuasione
favorevole.

Egli fu lietamente meravigliato, sulle prime, trovando la teoria della
ricostruzione condotta già molto più innanzi di quello che si fosse
vagamente immaginato, una enorme quantità di materiali del nuovo
edifizio già lavorati e quasi ordinati dal pensiero scientifico di
mille intelletti poderosi e pazienti, la nuova vita sociale descritta
e dimostrata possibile e quasi perfetta fin nelle sue minime funzioni
e in ogni più difficile prova. Poi, voltandosi ad ascoltare le ragioni
degli avversari, s’arrestò, sgomentato. Al primo urto della loro
critica che affermava assurda la nuova teoria del valore, soffocata
dal collettivismo la libertà individuale, distrutto dall’abolizione
della proprietà privata lo stimolo al lavoro, impossibile proporzionare
legalmente il compenso alla varia natura dell’opera, inconcepibile
l’azione d’uno Stato proprietario d’ogni cosa e incaricato di tutte le
direzioni e di tutte le iniziative, gli parve che l’edificio crollasse,
ed egli indietreggiò, soverchiato per un istante dall’amarezza d’una
gran delusione. Ma se non riusciva a persuadersi della possibilità dei
rimedi, a che giovava l’indignazione contro le ingiustizie, a che la
pietà delle miserie e dei dolori? E questi sentimenti erano già in lui
così forti, che non poteva più rassegnarsi a crederli vani.

Una forza prepotente lo cacciava innanzi. Egli aveva bisogno di una
fede, oramai, e la voleva ad ogni costo. E allora si mise a cercarla
con la passione che vuol trovare quello che cerca e abbatte tutti gli
ostacoli sulla sua via. Si lanciò a capo basso contro alla critica
nemica del suo sogno, raccolse nuove ragioni contro i suoi argomenti,
si dissimulò fra questi i più forti, ingrandendo nella propria
immaginazione l’importanza di quelli che riusciva ad abbattere, si
afferrò all’idea che la trasformazione si sarebbe compiuta per effetto
di eventi imprevedibili e di forze non ancor conosciute, che i vizi
dell’ordinamento proposto sarebbero stati corretti con le modificazioni
suggerite ed imposte dall’esperienza, che la società nuova avrebbe
creato essa medesima, come la natura negli organismi animali, gli
organi necessari alle sue nuove funzioni, che dalla concordia dei
milioni d’oppressi già vicini alla mèta sarebbe derivato nella società
un tal mutamento morale da rendere agevole quasi miracolosamente
l’attuazione d’ogni più vasta ed ardita idea; che in fine, quello che
innanzi a ogni cosa premeva e s’aveva a fare era di consacrarsi alla
santa causa, di proclamare e diffondere il sentimento di giustizia e
della intollerabilità dello stato sociale presente, di ordinare per
ora le moltitudini intorno a questa sola bandiera, poichè esse non si
raccolgono che sotto alla bandiera della negazione, e di suscitare
nella gioventù colta e generosa, con l’esempio e con la parola, la
fiamma della fede che compie i prodigi e solleva il mondo. Così un po’
per virtù d’entusiasmo, un poco per effetto di persuasione, egli s’era
formato una illusione di certezza, che la gioia d’aver dato alla sua
vita un nuovo ideale gli fece creder così piena e ferma ed illuminata,
da non aver più bisogno di porla alla prova ritornando a pesar le
ragioni dei negatori. Datosi alla nuova idea con l’impeto della sua
natura, non comunicando più che con le menti che gliela avevano infusa,
trovava ogni giorno una nuova ragione in suo sostegno, esultava della
sua rapida diffusione, che su di lui aveva forza di argomento, e
l’accarezzava in segreto come un tesoro e n’era altero come di una
conquista aspettando d’essere abbastanza forte di meditazione di studi
per poter professarla arditamente e difenderla da valoroso.

Tutti i suoi ideali passati, intanto, tutte le sue ambizioni di
insegnante e d’artista impallidivano davanti a quella nuova ospite
dell’anima sua, come al sorgere dell’alba la fiammella del lume con cui
aveva vegliato a meditarla....


Fra padre e figlio.

(FRAMMENTO.)

La mattina alle dieci, quando fu tornato dalla passeggiata solita,
mentre sua moglie e la ragazza erano a messa, gli capitarono in casa
Alberto e la nuora.

Egli si slanciò incontro al figliuolo come se non l’avesse visto da un
mese. Entrarono tutti e due nella stanza di studio, inondata di luce,
tutti e due così freschi, belli, vestiti bene, splendidi di gioventù e
di allegrezza, che il Bianchini non potè trattenere un’esclamazione di
piacere e rimase un momento immobile ad ammirarli. Ah! quell’Alberto,
quel caro figliuolo! Ogni volta che lo vedeva era tentato di cacciargli
le mani in quei folti capelli biondi arricciolati, come gliele metteva
quand’ora bambino, che ci si perdevano come dentro un mucchio di
matassine di seta. Non era molto alto della persona, ma di membra ben
proporzionate e solide, e aveva il viso di suo padre, ma raffinato di
forme e nobilitato dalla luce dell’ingegno, e quella medesima aria di
bontà, ma ingentilita e mista a una franca espressione d’alterezza
virile. Egli risentiva sempre davanti al figliuolo la gioia d’un
artista mediocre che ha imbroccato per caso un capolavoro. E godeva
a metter giù davanti a lui ogni apparenza d’autorità paterna, e
a dimostrargli che sentiva la sua superiorità, per fargli meglio
comprendere il proprio affetto e la propria gratitudine.

Sedettero un momento tutti e tre intorno a un tavolino rotondo, di
contro la finestra, donde entrava un raggio di sole, che dorava il
capo del giovane, e metteva in vista la freschezza bianchissima di sua
moglie, e il Bianchini parlò subito degli avvenimenti del 1.º maggio,
scherzando, preparato a una scrollata di spalle del figliuolo, che
viveva tutto nei suoi studi letterari, incurante d’ogni altra cosa.

— Hai visto — gli disse — hai sentito, ieri sera, quei mascalzoni?...

Il figliuolo rispose con indifferenza. Sì, aveva visto. Era rimasto
un’ora sotto i portici della piazza, in fondo, davanti al caffè Rossi.
E s’arrestò a quelle parole, come se gli rincrescesse di soggiungere
quello che aveva in mente. Ma, domandandogli suo padre che cosa ne
pensasse, espresse il pensiero.

— Che cosa vuoi — disse. — Per me.... mi fa pena vedere una società
che, quando la gente che la fa vivere domanda un po’ più di benessere e
un po’ meno di lavoro, per tutta risposta le mostra le baionette.

Il padre lo guardò con due grandi occhi.

— Capisco — rispose poi — ma lo domandino in un altro modo.

— È un pezzo che lo domandano in un altro modo — osservò il figliuolo
sorridendo. — Che cosa hanno ottenuto finora?

Il padre tornò a guardarlo stupito.

— Ma, — disse dopo — bisogna vedere se le loro domande sono
ragionevoli. Infine.... la condizione degli operai è migliorata molto,
da una volta.

— È un’asserzione discutibile — rispose il giovane. — È migliorata per
alcuni, è peggiorata per altri, è diventata più precaria per tutti.
Ma, ammesso pure che stessero peggio una volta.... ti parrebbe giusto
negare un diritto ad un negro affrancato, per la ragione che suo padre
schiavo, non ne aveva nessuno?

Il Bianchini non afferrò l’argomento.

— Sta bene — obbiettò — ma.... lasciamo andare; il migliorare la
propria condizione dipende anche in gran parte da loro; se facessero un
po’ più d’economia, se non avessero dei vizi, se s’istruissero....

— Ma, caro papà — gli rispose con sorriso amorevole il figliuolo —
quando i salari bastano appena alla vita, come vuoi che bastino a
far delle economie? I vizi! Dio mio, noi lo sappiamo bene che grandi
vizi si possono avere senza danaro. E che tempo è lasciato loro per
istruirsi?

— Che tempo è lasciato loro per istruirsi! — ripetè il Bianchini un po’
imbarazzato. — Dunque, tu sei per le otto ore di lavoro?

— Certo.

— E credi che le otterranno?

— No.

— Vedi dunque che lo stato attuale delle cose è inevitabile.

— No, padre mio. Tu vuoi dire che lo stato attuale delle cose era
inevitabile che si producesse, come fase d’ogni svolgimento di fatti;
e questa è la verità. Ma è un’altra cosa. Come lo stato attuale è
derivato da un altro, così un altro col tempo succederà a questo,
necessariamente, per forze indipendenti dalla volontà dei privati e dei
governi.

Il padre lo guardò un’altra volta con stupore; poi crollò il capo, non
persuaso. E domandò recisamente:

— In che maniera?

— Ah! in quanto a questo — rispose il giovane sorridendo.... — io
non posso saperlo. Si può prevedere a che arriverà la società: ma non
seguire la via o le vie per cui passerà per arrivarvi.

— Vorresti dire una rivoluzione? — domandò il padre fissandolo.

— Può anche darsi. O se non una rivoluzione, una serie di scosse
violente, di convulsioni sociali, che a poco a poco muteranno
radicalmente lo stato attuale.

— E credi che comincerà presto questa serie di.... rivoluzioni? —
domandò il Bianchini col sorriso di chi dubita se il discorso sia serio
o faceto.

— Credo che sia già cominciata — rispose il figliuolo.

A queste parole il Bianchini e la signora s’alzarono tutti e due
insieme ridendo, come per fargli capire che non dubitavano più d’uno
scherzo.

— E da quando in qua hai queste idee? — gli domandò la moglie celiando.

E il padre ripetè la domanda, mettendogli scherzosamente una mano sulla
spalla: — Giusto; da quando in qua hai queste idee?

Alberto s’alzò piccato e rispose: — Ho parlato sul serio. Come potete
supporre che io scherzi sopra un argomento di questo genere?

Il padre cessò di ridere. — Perchè allora non ci hai mai espresso le
tue idee?

— Perchè prevedevo che non ci saremmo intesi. Vedete bene che avevo
ragione.

— Ma insomma — disse il Bianchini battendosi sulla fronte le dita
riunite della mano destra — dimmi proprio chiaro e preciso quello che
pensi.

Il giovane rispose con dolce pacatezza: — Ecco quello che penso.
Penso che la parte che è data ai lavoratori nel prodotto generale
della ricchezza non è proporzionata alla parte che essi rappresentano
nell’opera generale della produzione. Penso che non è giusto che quella
parte della società che fa il lavoro più necessario e più faticoso
per nutrirla, vestirla e ricoverarla e dare all’altra parte il tempo
e i mezzi d’istruirsi, non guadagni abbastanza da nutrirsi, vestirsi e
ricoverarsi umanamente, e sia esclusa dalla possibilità di istruirsi.
Penso insomma, che il lavoro non raccoglie tutti i benefizi, a cui
avrebbe diritto, del progresso della civiltà, perchè questi benefizi
gli sono intercettati da un difettoso e ingiusto ordinamento sociale.
Ecco il mio pensiero.

La signora, con la voce placida, si intromise nella discussione. — Ma,
Alberto, come vuoi che tutti si possan trovare nelle stesse condizioni
di fortuna?

Il Bianchini approvò con un cenno del capo.

— Non dico questo — rispose Alberto. — Ma perchè si debbono trovare,
regolarmente, nelle condizioni peggiori quelli che faticano di più e
che sono più necessari? Perchè ci deve essere tanta gente che lavora
troppo e non mangia abbastanza, tanta altra gente che lavorando
pochissimo, vive nell’agiatezza, e tant’altra che non lavorando punto,
nuota nell’abbondanza?

— Ma perchè il mondo è fatto così, figliuol mio! — esclamò il padre,
allargando le braccia, maravigliato dall’ingenuità del figliuolo. —
Perchè così è sempre stato e sarà sempre!

— No, papà. Così come ora non è sempre stato. C’erano la schiavitù e il
servaggio, e non ci son più; c’era il feudalismo, c’era il dispotismo,
e sono scomparsi; c’era l’ineguaglianza civile e politica delle classi,
ed è stata, almeno legalmente, soppressa. Vedi che il mondo si è
mutato; e se può mutarsi non è ragionevole il dire: — è fatto così —
per provare che non c’è rimedio alle sue ingiustizie e ai suoi mali.

Il padre esitò un momento.

— Ma come dovrebbe ancora mutare — domandò poi — se dici tu stesso
che abbiamo la libertà e l’eguaglianza, che è quanto dire che tutte le
strade sono aperte a tutti per migliorare la propria sorte?

Il figliuolo fece un leggiero atto d’impazienza. Poco tollerante della
contraddizione per vivacità di natura, lo impazientiva anche di più
la contraddizione di suo padre che pure amava tanto, appunto perchè in
tutte le altre questioni egli l’aveva sempre trovato cedevole, persuaso
o no, alle sue idee. Gli salì alle guancie un leggiero rossore.

— Ecco l’errore — esclamò. — La libertà e l’eguaglianza furono una
conquista di fatto per una parte della società; ma rimasero due parole
vuote per l’altra. L’eguaglianza vera non può sussistere fin che
l’esistenza del maggior numero dipende dalla volontà o dalla fortuna di
pochissimi. La libertà non è che per chi ha mezzi e coltura. Chi non
ha nè gli uni nè l’altra è schiavo della miseria, della sua ignoranza
e del caso. La via a migliorar la propria sorte non è aperta a tutti,
perchè tutti quelli che nascono in condizioni privilegiate di fortuna,
si trovano già a mezza strada e l’ingombrano, e non c’è uno su mille
degli altri che possa raggiungerli e aprirsi il passo fra loro. Pensaci
un poco, papà. È una ingiustizia che rivolta. Se non ce ne accorgiamo è
perchè i nostri interessi ci hanno fasciata la coscienza.

Il padre lo guardò un’altra volta, più profondamente stupito di prima.
Poi si ribellò, ripetendo una frase udita. — Oh, infine — disse con
energia insolita — il mondo è di quelli che se lo presero, che sono
stati i più forti.

— Saranno stati i più forti una volta — rispose Alberto. — Ora non
sono altro, in massima parte, che i più fortunati e i più furbi. — Ma
ammettiamo i più forti. Vuol dire che quando, mettendosi d’accordo,
saranno i più forti i lavoratori, avranno ragione di cacciarci il
tallone sul collo, come noi facciamo adesso con loro.

Il Bianchini ebbe una scossa.

— Ma, Alberto! — esclamò la moglie scandalizzata, guardandolo in
faccia, come se gli vedesse una faccia nuova

— Ma, figliuol mio! — disse il padre con un accento di severità triste
che non aveva mai usato con lui — chi t’ha ispirato queste idee....
così poco degne di te?

Un’ondata di sangue salì al viso di Alberto

— Poco degne di me?... — rispose, frenando la voce. — Ma scusami, a me
pare che fossero indegne di me quelle che avevo prima. E non ho detto
la metà di quello che penso. Penso che, così com’è ora, la società
è tutta ordinata e diretta a benefizio d’una piccola minoranza, la
quale sfrutta tutte le forze dei lavoratori sotto la protezione delle
leggi, leggi che ha fatto essa sola e per sè sola; che tutto l’edifizio
sociale si regge sull’ignoranza e sull’abbrutimento delle moltitudini;
che è la sola violenza che lo tiene insieme, e che questo stato di cose
ci corrompe tutti, che è come un’infezione nell’atmosfera morale, la
causa prima di tutte le più tristi passioni e delle azioni più nefande
e della menzogna d’ogni nostra istituzione e d’ogni nostra parola;
e che questo stato di cose non può durare e non durerà e che è sacro
dovere di tutti il far tutto il possibile perchè non duri, se anche si
dovesse sconvolgere il mondo....

La signora, turbata, con un rapido moto della mano gli chiuse le
labbra. Il padre lo fissò lungamente con gli occhi spalancati, e poi,
prendendogli le due mani e mettendosele sul petto, gli disse a voce
bassa, con accento di affetto profondo e di sincero dolore: — Alberto,
figlio mio, sei proprio tu che dici queste cose?

— Son io senza dubbio — rispose il giovane con un sorriso contratto,
sciogliendo lentamente le mani. — Mi rincresce di spiacerti. Ma con chi
dovrei esser sincero, se non con mio padre? Io vedo ora il mondo sotto
altro aspetto che per il passato, ed è il suo aspetto vero. Credevo
che il mondo fosse la scienza, l’arte, la politica e tutta la gente
fortunata che si occupa di queste cose; e non vedevo altro. Ora vedo
che il mondo è la moltitudine, quasi relegata fuor del progresso, che
alla società dà tutto e non ne riceve presso che nulla, che suda sopra
e dentro la terra e si consuma nelle officine e copre delle sue ossa i
campi di battaglia senza cavarne altro frutto che di non morir di fame;
che dalla miseria è costretta a vendere la carne, l’anima e l’onestà
della donna e il sangue dell’infanzia, e per miseria minaccia, ruba,
ammazza, si dispera, impazzisce, s’uccide, fa del mondo un inferno....

Il padre fece l’atto d’interromperlo.

— .... Mentre un piccolo numero — continuò il figlio risoluto —
raccolto in disparte, canta degli inni alla patria e alla civiltà e
trova che è bella la vita. Ora io mi son persuaso che a tutto questo
c’è rimedio, come milioni d’uomini lo sperarono per il passato, come
altri milioni lo credono al presente con molto più ragione dei primi.
Questa persuasione m’è entrata nell’anima come un raggio di sole. Sarà
un errore; il rimedio non sarà quello che si crede e si propone, sarà
un altro, saranno altri, complessi, lenti, difficili. Non importa.
La prima cosa da farsi per guarire un male è quella di riconoscerlo,
il primo dovere di chi vuol togliere un’ingiustizia è quello di
confessarla e di proclamare il buon diritto di chi la patisce. Io non
posso far altro, faccio questo; faccio eco alla voce degli oppressi e
dei miserevoli; rifiuto la complicità del mio silenzio all’oppressione,
e protesto. Non posso più aver pace e dignità di coscienza che
nell’adempimento di questo dovere. E lo adempirò a qualunque rischio e,
a qualunque costo!

Il padre diventò pallido. Egli domandò con voce alterata:

— E tu dirai queste cose a tutti?

— Le dirò, naturalmente.

— E lo scriverai? — domandò il Bianchini abbassando la voce.

— Le scriverò.

— Ma tu non sei in te, Alberto! — esclamò la moglie afferrandogli la
mano.

— Scriverai quello che hai detto a me, — riprese il padre con maggior
commozione — che tutto è ingiustizia, menzogna e violenza, che
bisogna.... equiparar le fortune, che è necessario mutar le cose anche
se si debba sconvolgere il mondo?... E pubblicherai queste idee col
tuo nome.... a costo di metter la discordia in famiglia, di inimicarti
tutti, di rovinar la tua carriera?

— Senza il menomo dubbio, perchè ho detto che lo credo un dovere.

Il padre stette un momento a guardarlo, con un viso che Alberto non gli
aveva mai visto. Poi gridò, tremante di collera: — Ebbene, tu sei un
altro da quello che credevo. Tu non hai affetto nè per tuo padre, nè
per tua moglie, nè per il tuo bambino. Non hai più nè ragione nè cuore.
E sei un ingrato. Non ti riconosco più per mio figlio.

E si slanciò nell’altra stanza.

La signora, sconvolta da quelle parole, gli corse dietro, chiamandolo;
ma egli chiuse l’uscio con violenza.

— Alberto, — disse allora, severamente a suo marito, stentando a
raccoglier la voce — io avevo diritto di conoscere prima d’ogni altro
queste tue idee. Perchè non me le hai mai confidate?

Scosso profondamente da quella scena, la più grave, la sola grave che
il padre gli avesse mai fatto in vita sua, il giovane si ricompose a
fatica, e rispose con voce commossa, ma risoluta: — Perchè m’avresti
fatto come papà; hai veduto.

— No — disse la moglie; — avrei cercato di moderarti, di farti
riflettere.... T’avrei impedito di dare a tuo padre questo dolore.

— Sì — rispose il giovane, passandosi una mano sulla fronte — ho
ecceduto.... Ma egli pure.

— Tu sai che t’adora — disse la signora. — Io son certa che soffre
immensamente. — E soggiunse sottovoce: — vagli a chiedere perdono.

Alberto fece uno sforzo sopra di sè, poi rispose risolutamente, ma con
rammarico: — Non posso.


Fra madre e figlio.

LA MADRE (afflitta). — Intanto tu sei socialista e non credi in Dio
(toccando un piccolo crocifisso che tiene appeso al collo) e non hai
più fede in questo, che baciavi da bambino.

IL FIGLIUOLO. — Quando mai l’ho detto? No, cara mamma. Io non affermo;
ma non nego. Io spero. Ecco il mio stato di coscienza, che è anche
lo stato vero, credilo, della maggior parte di quelli che si dicono
credenti. Se non ho la fede ferma non è già perchè io sia socialista,
ma perchè sono un uomo del tempo mio. Il dubbio mi è venuto da
un’educazione intellettuale che non mi fu data dai socialisti. Guardati
intorno; vedi fra i nostri amici e conoscenti quante persone d’ogni
età, rispettate anche da te, avversissime al socialismo le quali
non hanno fede e lo dicono, o dicono di averla e vivono come se non
l’avessero. Il socialismo non comanda punto di non credere: dice: — La
coscienza è libera. — E non ti pare abbia ragione? Non è forse vero che
soltanto in una coscienza libera può nascere la fede vera?

M. — Ebbene.... se in qualche momento tu credi in Dio, come mai non
pensi, povero figliuolo, tu che vuoi mutare il mondo, che se la società
è fatta come è, è perchè Dio lo consente?

F. — No, cara mamma, non lo posso pensare. Il mondo di ora è tutt’altro
da quello che era secoli fa. Questo lo ammetti? Ebbene, se si è mutato
è perchè Dio lo ha consentito. Se ha consentito che si mutasse per
il passato, perchè non dovrebbe consentire che si muti nell’avvenire?
Quale credente oserebbe di affermare che la forma attuale della società
sia l’ultima ch’egli consente, quella che egli ha designato a non più
mutare? Che tutti i disordini e i mali che le sono inerenti egli li
voglia mantenuti per sempre? Se c’è una cosa manifesta, è che Dio ci
_lascia fare_, perchè se ciò non fosse non avremmo la libertà; senza
la quale non ci sarebbero nè meriti nè colpe. Siamo dunque liberi di
fare tutto quello che ci par bene, di distruggere tutto quello che ci
par male, di mutare la società nel modo che ci par meglio per essa, e
potendolo fare, abbiamo, davanti a Dio, il dovere di farlo.

M. — Sarà così.... non lo nego.... Ma il vostro errore è questo, che
la vostra idea, come dicon tutti, è un’utopia, fondata sopra una idea
falsa della natura degli uomini....

F. — Ma allora, cara mamma, e l’idea di Cristo, che tutti gli uomini
si amino come fratelli, che i ricchi diano tutto ai poveri riducendosi
poveri anch’essi, che si perdonino tutte le offese, che non si curi
alcun interesse della terra, non ti pare forse un’utopia, fondata
sopra un concetto falso della natura degli uomini? Vedi che in mille e
novecento anni non è diventata realtà; credi che lo sarà mai?

M. — Oh, la cosa è ben diversa! Tutto quello che prescrive il Vangelo,
ognuno che lo voglia, lo può fare; supponi che tutti lo facciano, e
il mondo sarà mutato in meglio, e sarà trasformata la società, come tu
desideri. Vedi che basta la religione a far questo.

F. — No, cara mamma. Se bastasse la religione a mantenere e a mandare
innanzi gli uomini sulla buona via, perchè sarebbero necessarie, anche
tra i popoli più religiosi, tante leggi e tanta forza per proteggere
vita e proprietà, per frenare e punire, per conservar l’ordine e la
pace? Vuol dire che la religione non basta. Se non basta a mantenere
quel po’ di bene che esiste, non basta a conseguire il meglio a cui
aspiriamo.

M. — Io non so.... Ma tutti lo dicono; voi volete un cambiamento
impossibile, una società che avete immaginata voi, che non è mai stata
e non sarà mai.

F. — Ma neanche la società quale è ora non è mai stata. È quella
che ora non sta, ma cammina. Vedi un po’ intorno a noi, cara mamma,
quante istituzioni, leggi, idee, costumi, tendenze, di cui, quando eri
giovine, non c’era indizio, o se ne parlava, se te ne ricordi, come di
idee stravaganti di pochi, che non si sarebbero attuate mai. Considera
un po’ tutte queste cose: organizzazioni operaie, società cooperative,
leghe di resistenza, leggi protettrici del lavoro, giurì popolari, idee
di solidarietà e d’eguaglianza, rivendicazioni di diritti e di riforme,
lotte formidabili fra lavoratori e padroni; precorri col pensiero lo
svolgimento di tutte queste cose nuove nell’avvenire, come faresti
con l’occhio di tante linee convergenti, poichè tutte quelle forze
tendono a un fine solo, che è uno stato migliore delle moltitudini, e
interroga la tua ragione, e vedi se non ti dice che nel punto in cui
s’incontreranno ci sarà il socialismo, o qualche cosa di molto simile,
donde si verrà a quello naturalmente. Tu vedi che il mondo muta. Tu
sei certa che fra cento anni sarà molto diverso da quello che è adesso.
Ebbene, credi tu che allora sarà molto più vicino, o molto più lontano
che adesso, dall’ordinamento sociale che noi invochiamo?

M. (turbata). — Di queste cose io non sono in grado di discutere, caro
figliuolo.... Ma per quanto tu dica, io sento per le vostre idee una
ripugnanza.... un terrore, che vuol dir qualche cosa.

F. — Ma codesta ripugnanza, codesto terrore, pensaci bene, non sono
proprio le nostre idee che lo destano: te l’hanno destato le persone
che le travisano e ci calunniano. Pensa che milioni di uomini, per
lunghissimo tempo, hanno creduto in buona fede che i primi cristiani,
che pure vivevano in mezzo a loro, fossero gente malvagia e corrotta,
capace di ogni sozzura e di ogni delitto....

M. — Ah! non far di questi confronti, figliuol mio! Può darsi che il
mondo s’abbia a mutare, come tu dici; ma non muterà in meglio se non
sarà con Dio. Da lui solo vengono i buoni sentimenti e le buone idee.
E il cuore mi dice, che voi non siete con lui. Che cosa sarà mai il
progresso, la civiltà, tutto quello che tu vuoi, senza la religione?

F. — E che cos’è mai la religione senza le opere, cara mamma? Esamina
un poco, uno per uno, i nostri propositi. Il socialismo vuole una
società in cui non si possa arricchire sul lavoro altrui nè vivere
senza lavorare, in cui chi lavora abbia diritto a vivere, in cui,
lavorando tutti, il lavoro non sia per alcuno eccessivo, e quindi
non abbrutisca e non torturi alcuno, e dia al lavoratore il tempo e
il modo di ristorar le forze, di curar la famiglia e di coltivar lo
spirito; vuole che cessi questa necessità fatale che, per alimentare
la officina, strappa le madri ai figliuoli o i figliuoli alla
casa e alla scuola, estenuando e corrompendo donne e fanciulli,
perpetuando l’ignoranza nella moltitudine e seminando la morte fra
i deboli: vuole che cessi questa concorrenza sfrenata che è causa di
tante basse passioni, angoscie e rovine, questa furia d’acquistare,
questo terrore di perdere, questa mischia feroce degli uomini che
si disputano a morsi il palmo di terra e il boccoli di pane; vuole
che cessi tutto questo per dar luogo ad una società non più divisa
da orgogli e da odii di classe, non più irritata da uno spettacolo
d’ineguaglianze, d’ingiustizie e di miserie immeritate, che contrista
e scoraggia ogni coscienza onesta; vuole, insomma, che gli uomini
si accordino e si compongano, per quanto è possibile, in una grande
famiglia operosa, in cui, se non sono soppressi l’egoismo, i dolori,
le ineguaglianze della natura, l’egoismo è contenuto, i dolori sono
consolati, le ineguaglianze sono attenuate dall’affetto reciproco e
dal sentimento dell’interesse comune e non sieno possibili la fame e
la disperazione accanto all’abbondanza e alla festa. Ebbene, di tutti
questi desideri e propositi, cara mamma, c’è uno solo che contrasti la
religione? Uno solo che il tuo cuor buono e generoso possa rifiutare?
E dimmi ancora: si può credere in Dio buono e giusto, senza credere
ch’egli desideri che quell’ideale s’avveri? E si può creder questo
e non sentire il dovere imperioso di lavorare con tutte le forze al
conseguimento di quell’ideale? Tu dici che i buoni sentimenti vengon
da Dio. E allora, madre mia, donde mi vien mai questo sentimento che
provo per la moltitudine che fatica e che soffre, questa pietà che mi
fa pianger l’anima, questo desiderio del bene, quest’odio del male e
dell’ingiustizia che ha distrutto la pace della mia vita e che pure mi
dà le più nobili gioie che si godano sulla terra?

M. (commossa). — Certo.... se ti sento parlare.... Ebbene, se sei
sincero (con risoluzione improvvisa, prendendo il piccolo crocifisso
che tiene al collo e sporgendolo, con un dolce sorriso verso il
figliuolo) bacia un po’ questo....

F. (semplicemente). — Ha amato i poveri, ha consolato gl’infelici, ha
predicata la giustizia, è morto per i suoi fratelli. Con tutta l’anima
mia. (Bacia il crocifisso tre volte).

M. (con vivo slancio di commozione). — Figliuolo mio! (ma si rattiene
subito, ripresa da un turbamento, e passandosi una mano sulla fronte,
dice con accento di tristezza): Eppure.... non so.... non capisco....

F. (tra sè, con un sospiro). — Ecco la gran disgrazia.... Non capisco.
(Poi con profonda tenerezza e con vigore): O madre mia, io non posso
amarti di più; ma se invece di dubitare, di farmi dei rimproveri e di
frenarmi, tu mi dicessi un giorno: — Ebbene, figliuolo, sì hai ragione,
sono con te, va, combatti per il tuo santo ideale, la benedizione di
tua madre ti segue.... — io cadrei in ginocchio davanti a te e alla tua
croce, e sarei buono come un angelo e forte come un eroe!

M. (mettendosi il fazzoletto agli occhi). — Non dir più altro,
figliuolo.... va.... lasciami pensare.


Fidanzata e fidanzato.

(DA UN RACCONTO INEDITO.)

Si fidanzarono. E tutto andò bene fra i due cugini, stretti dal nuovo
vincolo, fin che egli non le palesò la sua nuova fede. Ma dopo che
le ebbe fatta una aperta confessione, accolta da lei, per dire il
vero, senza meraviglia e senza rammarico, cominciò tra il giovane e la
sua nuova fidanzata una lotta tranquilla, ma continua; una di quelle
infinite piccole lotte famigliari di cui si compone la grande guerra
delle idee fra un’età che muore e un’età che sorge; guerra nella quale
il cozzo meno visibile, ma più forte e più doloroso, è quello dell’uomo
audace, che corre all’avvenire, con la donna misoneica che s’avvinghia
al passato. Egli avrebbe dovuto scansare quei discorsi; ma legandosi
la grande questione quasi a ogni idea e a ogni fatto della vita d’ogni
giorno, non gli sarebbe riuscito di scansarla se non rinunziando
affatto a parlare. D’altra parte, egli sperava di conquistar l’animo
di lei lentamente, senza mostrare di volerlo, insinuandole un’idea
dopo l’altra, e ciascuna idea a poco a poco, per via della ragione
e dell’affetto ad un tempo, e quasi rifacendo la sua educazione
intellettuale e morale, come avrebbe fatto con un ragazzo.

Ma riconobbe subito una grande difficoltà: essa non ragionava. Tutte
le nuove idee ch’egli esprimeva andavano a urtare contro cinque o sei
idee confitte e immobili nell’animo di lei, che opponevano alle sue la
resistenza molle, ma tenace, d’un’imbottitura in cui nessun argomento
penetrava. Egli comprese per la prima volta che per accogliere certi
sentimenti generosi non basta esser buoni e delicati d’animo, come gli
pareva la sua fidanzata; ma si richiede una sensività particolare che
vien soltanto da un certo ordine di cognizioni e di riflessioni, a cui
raramente la donna si eleva. Non gli era possibile di farle deviare
la visuale ordinaria del pensiero quanto e come occorreva perchè ella
vedesse quelle anomalie sociali che a lui parevano mostruose. Anzi,
quanto più queste erano grandi tanto meno essa le vedeva, e tanto
più si meravigliava ch’ei le vedesse, e faceva il viso di una persona
ragionevole a cui un allucinato indicasse con la voce e col gesto uno
spettro.

Quando, cadendo il discorso sulle condizioni della donna, egli diceva
che è ingiusto che le sian chiuse tante vie di guadagnarsi il pane,
poichè milioni di donne non trovan marito e rimangono senza mezzi di
sussistenza; che è immorale che esse sian poste nella necessità di dar
una caccia sfrontata al marito come l’uomo dà una caccia impudente alla
dote; che è iniquo che, a lavoro eguale, esse siano meno ricompensate
degli uomini, perchè, se han meno bisogni, ci rimetton più di forza e
di salute; che è illogico che non possan votar le leggi, di cui come
figliuole, come madri, come contribuenti lavoratrici subiscon gli
effetti; che non è ragionevole che sian private dei diritti civili e
politici, come gli interdetti per imbecillità o per delinquenza, mentre
incorrono nelle stesse pene che l’altro sesso quando falliscono, e
sono sottoposte alle stesse prove intellettuali per essere ammesse agli
stessi uffici: che è assurdo il parlar d’uguaglianza fra gli uomini se
è esclusa da questa una metà del genere umano; a tutte queste ragioni
essa ne opponeva una sola. — Ma, caro Enrico — rispondeva placidamente
— la missione della donna è la famiglia!

Quando, discorrendo della educazione pubblica dei fanciulli, su
cui pure non aveva ancora un’idea ferma, egli opponeva alle sue
esclamazioni d’orrore che l’errore di lei e degli altri era di posare
il quesito sopra la supposizione d’una famiglia ideale, e le domandava
quante famiglie rimanessero, a suo giudizio, capaci di educare, se si
toglievano quelle in cui i coniugi si odiano, leticano e si tradiscono
a vicenda, quelle a cui il padre è tutto il giorno al lavoro, la madre
in visita o in chiesa e la prole in balìa dei servitori, e quell’altre
in cui i figliuoli hanno l’esempio continuo della vanità, della
dissipazione e dell’ipocrisia, e le altre moltissime in cui i genitori
tristi o leggieri lascian crescere i figli senza alcun freno, o li
intristiscono con una durezza tirannica, o li corrompono con scandali
manifesti, o li inimican fra loro con preferenze inique, o istillano
in essi i propri odi, il proprio scetticismo, i propri vizi, e tutte
le false idee che hanno ereditate essi stessi; a tutte queste domande
essa rispondeva invariabilmente: — Ma, Enrico! Strappare i fanciulli al
santuario della famiglia! Ma come lo puoi dire seriamente?

Quando, cadendo sul tappeto la questione del lusso, egli diceva che
il lusso è pernicioso alla società e agli individui, perchè divora i
capitali che, accumulati, produrrebbero un rialzo dei salari, perchè
storna dalle industrie veramente utili un gran numero di lavoratori,
perchè assoggetta il lavoro alla mutabilità continua dei suoi capricci,
perchè provoca ambizioni e gare rovinose, eccita la sensualità,
corrompe i gusti e le tendenze di tutti a danno della intellettualità
e della cultura e trascina alla colpa chi ha mezzi modesti e irrita
il sentimento della miseria in chi manca del necessario, a queste
osservazioni essa mostrava grande meraviglia, e rispondeva sorridendo:
— Ma, Enrico, se non ci fosse il lusso, come vivrebbe tutta la povera
gente che il lusso fa lavorare? — E non lo diceva, ma lasciava capir
chiaramente che, a suo giudizio, se si fossero soppressi i ricchi, il
popolo sarebbe morto di fame.

Se, venendo a parlare della giustizia, egli le diceva che, nella
società presente, il principio che «la legge è uguale per tutti» è
un’aperta menzogna, perchè il povero non può litigare col ricco, perchè
le pene pecuniarie, che schiacciano l’uno, sono derisorie per l’altro,
perchè, irresistibilmente, quanti esercitano la giustizia la violentano
a difesa degli interessi della propria classe o cedono al potere da
cui dipendono, o alle simpatie e agli influssi del ceto sociale in
cui son nati e in cui vivono; e le adduceva in prova l’abbominevole
sproporzione delle pene fra il grande latrocinio finanziario e il
piccolo furto volgare, le scandalose assoluzioni dei ladri e delle
ladre in guanti gialli, i processi impediti, le fughe protette, le
prigioni addolcite, le mille complicità e indulgenze infami con cui la
classe dominante nasconde od attenua i delitti che si commettono nel
suo seno, mentre è punito senza pietà persino il grido solitario ed il
canto che s’innalza contro i suoi privilegi: a tutto questo rispondeva
ingenuamente: — Ma, Enrico, a me par naturale che la giustizia sia
più severa con la classe che commette più reati e che, essendo la più
pericolosa, ha bisogno di maggior freno, per la sicurezza di tutti! È
una necessità, caro Enrico!

Quando infine, negando che il socialismo voglia sradicare dal cuore
dell’uomo l’amor di patria, egli le diceva che questa parola si
fraintende e si abusa ipocritamente, perchè essa non ha senso alcuno
se non significa amore delle creature umane, e questo amore non sente,
e quindi non ama la patria, chi non soffre e non s’indigna di vederla
formata da due popoli e quasi da due razze diverse, di cui l’una che
lavora per essa, vive nella povertà e nell’ignoranza, amareggiata dallo
spettacolo della ricchezza e dell’ingiustizia e offesa nell’animo dal
disprezzo che si sente pesare sul capo; quando egli le diceva questo,
e soggiungeva che come la patria stava al di sopra della famiglia, la
umanità sta al di sopra della patria, e che il patriottismo chiuso e
orgoglioso non è che l’egoismo larvato d’una classe, essa rispondeva,
quasi scandalizzata: — Ma, Enrico! Anche la patria! Ma non è il più
sacro dei nostri affetti, dopo Dio?

E se, accalorandosi un poco, egli insisteva, essa metteva fuori
quel benedetto: — Non t’alterare! — che gli urtava i nervi: o
faceva di peggio: gli dava, tutt’a un tratto ragione, accarezzandolo
affettuosamente e sorridendo, come si fa per rabbonire un fanciullo
caparbio. Ma quello che più lo feriva, quando egli esprimeva le sue
idee intorno alla donna, alla famiglia o alla patria, era il sentirsi
dire a bassa voce: — Bada che ci ascoltano! — come s’ei tenesse dei
discorsi immorali, e il veder gli atti premurosi e i pretesti con cui
essa cercava di allontanare i suoi parenti, perchè non sentissero.

Un giorno, finalmente, essa fece un’uscita che decise del loro destino.
— Ma già — gli disse con un sorriso — è impossibile che tu rimanga un
pezzo in queste idee.... Cambierai, ne son certa. — E se non cambiassi?
— domandò il giovane mutandosi in viso. — Se non cambiassi — rispose
essa con vivacità insolita — io ne sarei infelice per tutta la vita.

Egli la guardò lungamente, pensieroso, senza dir parola, e poi si
asciugò con la mano una lagrima che essa non vide.

                             . . . . . . .

Tre mesi dopo, nello stesso giorno in cui Enrico, con la ferita ancora
aperta nel cuore, parlava per la prima volta in un Comizio socialista,
la bella cugina sposava placidamente un banchiere.


Fratello e sorella.

(FRAMMENTO.)

Dopo quella sera che sua sorella gli s’era buttata al collo, durante
la sua disputa col suocero, Alberto aveva notato in lei uno stato
d’animo insolito, il quale ad ogni nuova discussione, cui ella fosse
presente, intorno a questo argomento, si tradiva in lampi degli occhi,
in rossori improvvisi, in movimenti nervosi della persona, che pareva
ella si sforzasse di reprimere, quasi con un senso di vergogna; ma non
ci aveva badato gran fatto, credendo quello effetto di una sensitività
malata di ragazza romantica, tocca dai suoi discorsi più nella fantasia
che nel cuore. S’era invece operato in lei un mutamento profondo, che
non conoscendola intimamente, egli non poteva aspettare. Perchè non
era e non pareva bella, essa non era mai stata amata da sua madre la
quale disperava che potesse fare un bel matrimonio degno della casa,
e si vergognava un poco di lei, come un artista d’un’opera d’arte mal
riuscita.

Sin da bambina ella si era accorta di questa malevolenza della madre
dagli sguardi scontenti, e qualche volta astiosi, con cui si vedeva
spesso osservata da lei, da capo ai piedi, come una persona sconosciuta
e importuna. La signora Bianchini l’aveva sempre fatta sgobbare ai
lavori di casa per risparmiar fatica alle cameriere, le aveva sempre
dato sulla voce in conversazione, come se non dicesse che sciocchezze
o fanciullaggini, l’aveva sempre tenuta nell’ombra, quando poteva, come
se, mostrandosi o parlando, avesse fatto sfigurare la famiglia. E sotto
questa oppressione, ella era venuta su penosamente, diffidente e quasi
vergognosa di sè, con un sentimento esagerato della sua imperfezione
fisica, che la rendeva timida e impacciata, e le toglieva quasi ogni
grazia. E menava una vita triste, poichè anche la consolazione di
essere amata dal padre le era diminuita dai continui contrasti che,
per cagion sua, nascevano tra sua madre e quel buon uomo; il quale non
poteva tollerare ch’ella fosse aspreggiata ed umiliata.

Anche suo padre, d’altra parte, si mostrava più affettuoso col
figliuolo e quest’aperta parzialità dei suoi parenti era stata cagione
ch’ella non avesse mai amato il fratello, che assorto nei suoi studi
prima, e poi felice dei suoi trionfi, gli era parso sempre un poco
egoista e troppo ambizioso. Alberto, dal canto suo, invanito alquanto
fin dall’infanzia, e soddisfatto dei privilegi di cui godeva nella
famiglia, non solo non s’era mai curato gran fatto della sorella; ma
vedendola triste e fredda con lui, e credendola per questo invidiosa,
s’era fatto un falso concetto di lei, come d’un animo gretto e
acrimonioso, col quale, anche negli anni della sua più affettuosa
espansione non aveva mai potuto entrare in dimestichezza fraterna. Per
qualche tempo, dopo terminate le scuole, essa aveva preso passione per
le letture letterarie, e in ispecie per la poesia; ma non potendone
ragionar mai, nè con suo fratello che le metteva soggezione, nè con
suo padre che non ci aveva il capo, nè con sua madre che le tagliava
in bocca quei discorsi, come un’ostentazione ambiziosa disdicevole
alla sua persona, aveva rinunziato anche a questo conforto. In
seguito, s’era messa in capo di studiare da maestra; ma sua madre vi
s’era opposta a spada tratta, come a un proposito che offendesse il
decoro del casato. Da ultimo, aveva posto affetto alla cognata e al
nipote; ma non potendo star con loro che raramente, e di scappata,
per il molto lavoro che le era imposto in casa da sua madre, nemmeno
da quell’affetto poteva trar la consolazione che le abbisognava.
E s’era tornata a chiudere nella sua malinconia solitaria, qualche
volta piangente, spasso inasprita, il più del tempo rassegnata, ma
con un gran vuoto nell’anima, e come oppressa dalla sua vita arida e
senza scopo. Eppure v’era in lei una intelligenza aperta e viva, un
cuor gentile e forte, qualche cosa di dolce e di profondo, che non si
manifestava, in parte, nemmeno a lei stessa, per mancanza d’un oggetto
su cui si potesse espandere. Ora, tutto questo si scosse e si rischiarò
nell’anima sua al primo raggio della nuova Idea che udì annunziare dal
suo fratello. V’era dunque fuori della religione e della famiglia,
fuori dell’amore dell’arte, un mondo a lei sconosciuto, un grande
ordine di sentimenti e di idee, al quale anch’essa poteva sollevare
il suo spirito, e in cui, fra tanti altri propositi vasti e generosi,
primeggiava il concetto di dare alla donna la libertà, la dignità,
l’indipendenza della vita, di far sì che il suo avvenire non dipendesse
più soltanto dal suo viso e dalla sua borsa! Ella che era un’oppressa
della sua classe, che era umiliata e infelice, s’afferrò subito a
quest’idea, sentì prontamente una simpatia profonda per la moltitudine
sconosciuta degli oppressi e degli infelici, su cui non aveva mai
fissato il pensiero. Prestò attenzione a ogni parola di suo fratello,
entrò a poco a poco nell’animo suo, riconobbe di averlo mal giudicato:
nei suoi lunghi silenzi di ragazza trascurata, prese a volgere e a
rivolgere nel suo cervello tenace di piemontese le nuove idee; salì
più sovente da sua cognata, per sfogliare furtivamente i nuovi libri
di Alberto; se ne portò in casa parecchi, l’un dopo l’altro, e li
lesse avidamente la notte. Uno di questi, un discorso appassionato
e bello d’una signora socialista, diretto alle fanciulle borghesi,
che dimostrava loro il bene immenso che potevan fare dedicandosi alla
grande causa, e finiva con le parole: — Vieni dunque, o desiderata,
nelle nostre file!... — la commosse fino al pianto. Un ribollimento
nuovo di immagini, di affetti, di speranze le prese il cuore e
la mente, e divenne più violento per lo sforzo ch’ella faceva di
comprimerlo, per non provocare lo sdegno o il disprezzo di sua madre.
Ma sentiva che a tutti avrebbe potuto celarlo fuorchè a suo fratello,
che già la guardava con occhio scrutatore, in cui ella vedeva un
principio di simpatia, che le faceva battere il cuore. Sennonchè in lei
la timidezza antica, in lui il sospetto di ingannarsi e la dissuetudine
d’ogni famigliarità cordiale con essa, li rimovevano entrambi da
un’aperta spiegazione. Finalmente, questa avvenne. Salita un giorno in
casa di lui, per non lasciar solo il ragazzo con le donne di servizio,
essa entrò nello studio e si mise a leggere delle pagine sparse del
libro del «Lavoro dei fanciulli», che trovò sul tavolino.

Mentre essa, leggeva, Alberto, di ritorno dalla scuola, entrato un
momento da sua madre, era attirato da lei nella quistione solita
con un’asprezza e un’imperiosità di linguaggio, che per poco non gli
facevan perder la testa. Per non trascendere, la lasciò bruscamente, e
salito in casa con un nodo alla gola, stanco alla fine, e sconsolato
della dura guerra che sosteneva solo da vari giorni, entra a rapidi
passi nello studio, dove sorprese sua sorella. Questa, che stava
leggendo del martirio dei ragazzi nelle zolfatare in Sicilia, una di
quelle pagine potenti che escon dall’anima e vanno all’anima con un
grido d’angoscia, balzò in piedi con un tremito e, voltandosi, presentò
al fratello il viso pieno di lacrime, in cui splendeva la santa
commozione della pietà, e a cui si aggiunse in quel punto un raggio
d’ammirazione e d’amore per chi l’aveva commossa. Alberto la guardò
un momento stupito, si chinò a guardare i fogli, capì, — e aperse le
braccia, ed essa vi si gettò con un grido: — O fratello mio! — O mia
Ernesta! — gli rispose Alberto, e con un ardore che chiedeva perdono
d’averla per venti anni disconosciuta, le coperse il capo di carezze
e di baci. Nel santo amore dell’umanità si sentirono fratelli per la
prima volta.


Un “malfattore„.

Alberto — un ragazzo di dieci anni — giuocava nella stanza di suo
padre, il quale stava leggendo la «Superstizione socialista» del
Garofalo, quando la donna di servizio entrò dire: — C’è il tal dei
tali: ho da farlo entrare?

— Cospetto! — esclamò il padrone, scattando in piedi. — Dopo cinque
mesi di carcere! Entri sul momento.

A queste parole «cinque mesi di carcere» il ragazzo lasciò cadere
il suo balocco e si ritirò in un angolo guardando all’uscio con gli
occhi inquieti; perchè l’idea del carcere, naturalmente, non si poteva
disgiungere in lui da quella d’un delitto.

E rimase immobile dallo stupore vedendo suo padre correre verso l’uscio
e abbracciare affettuosamente il visitatore; il quale era un uomo sui
trentacinque anni, di viso pallido e risoluto, vestito poveramente, ma
pulito e di modi semplici e franchi.

Visitato e visitatore si fecero al vano d’una finestra e attaccarono
una conversazione vivace, che era da una parte un incalzare di domande
e dall’altra un succedersi di risposte, senza un momento di sosta.
Quando, fra le altre cose, il ragazzo udì che l’amico di suo padre era
stato condotto a traverso un villaggio, in mezzo a quattro carabinieri,
con le manette ai polsi, come un famoso assassino ch’egli aveva visto
uscire un giorno dalla Corte d’Assise, il suo stupore si cangiò in così
aperto sgomento che il nuovo entrato, dandogli una occhiata per caso,
se ne accorse. Ma prima di lui se n’era accorto suo padre.

Questi a un certo punto andò a prendere un pacco di giornali da un
cassetto e, portandoli all’amico, gli disse:

— Tutto quanto le vorrei dire è stampato in questi fogli, che ho
raccolti e serbati per lei. Ci dia una scorsa, vedrà che è stato sempre
ricordato durante la sua assenza. Qui è espresso il sentimento mio e
quello di tutti gli altri «malfattori».

Il visitatore prese i giornali, sedette con le spalle alla finestra, e
cominciò a leggere. Il suo ospite lo lasciò solo e tornò dal ragazzo,
aspettando una domanda che già gli leggeva negli occhi.

Il ragazzo, infatti, gli domandò a voce bassa:

— Che cos’ha fatto.... quel signore?

— Ha fatto — rispose il padre sorridendo — cinque mesi di prigione.

Il ragazzo rimase un momento perplesso. Poi domandò timidamente:

— Chi è?

— Alla buon’ora — rispose il padre, sedendo e attirando il figliuolo
a sè; — a questa domanda mi è più facile rispondere. Ma temo che tu
non capisca. Ascolta bene. Tu devi sapere che v’è in ogni paese una
quantità di gente, fra cui molti uomini di grande scienza e di grande
ingegno, e anche molti ricchi, i quali credono che a una gran parte
delle infinite miserie e ingiustizie che affliggono il mondo ci sia
rimedio. E pensano che il rimedio sia questo: che la società presente,
in cui la vita di ciascuno è una lotta contro tutti, si trasformi in
una grande associazione, nella quale tutti lavorino non più per il
vantaggio e nella dipendenza e legati alla fortuna d’un piccolo numero,
ma direttamente per la società che li retribuisca tutti equamente;
in una grande associazione, in cui non ci sia più, come c’è ora, un
gran numero d’uomini che faticano da ammazzarsi e son poveri, un altro
gran numero che non trovan lavoro e sono affamati, e delle migliaia
e migliaia che non lavorano e vivon nell’agiatezza. Mi hai capito?
Ebbene, tutti costoro che desiderano e sperano che venga un giorno in
cui tutti gli uomini lavorino concordemente per il bene proprio e per
il bene comune, senza strapparsi il pane di bocca l’un l’altro, senza
odiarsi e temersi a vicenda, e partecipando tutti ai benefizi della
vita civile, come figliuoli di una famiglia nella quale tutti sono
amati e protetti ad un modo, si chiamano socialisti. E che cosa fanno
essi? Fanno questo. Si adoperano con tutte le loro forze a dimostrare
agli altri che un tale stato della società è possibile, non solo, ma
che si attuerà a poco a poco, necessariamente, per forza delle cose;
ma che per conseguirlo più presto e senza violenze bisogna che tutti
lo desiderino e lo preparino infondendo nelle moltitudini un concetto
lucido di che cosa esso sia e un sentimento profondo della concordia
fraterna necessaria ad attuarlo, educandole all’adempimento dei loro
doveri e all’esercizio dei loro diritti, persuadendole che l’unico
modo di raggiungere la mèta è che esse affidino la rappresentanza dei
loro interessi e delle loro volontà ad uomini che siano interessati a
raggiungerla, ossia che appartengono anch’essi alla immensa famiglia
su cui pesa la povertà e l’ingiustizia. Mi sono spiegato? Ora questo
signore che vedi, è un socialista. È un lavoratore che lavora per
vivere, ma in tutto il tempo che gli resta libero va attorno fra la
gente, e ragiona, spiega loro la cosa, cerca di trasfondere negli altri
la propria fede, senza istigare all’odio contro alcuno, non solo, ma
adoperandosi a spegner gli odii dove li trova, esortando i violenti
a temprarsi, gli incolti a studiare, i discordi a conciliarsi, tutti
i poveri e malcontenti a confidare in un avvenire migliore, a cui si
verrà pacificamente e legalmente, per la sola forza della verità e
della giustizia, quando la verità sarà compresa da tutti e la giustizia
sarà da tutti voluta. E bada che egli non si affatica e non si affanna
se non per produrre un bene, del quale egli è certo che non arriverà in
tempo a godere. Egli vive come un povero perchè è povero; ma dà agli
altri anche quel pochissimo che a lui par superfluo e a noi parrebbe
necessario. Se fosse ricco, darebbe per la fede tutto il suo avere. Se
gli chiedessero la vita, darebbe anche la vita, perchè non vive che
per quell’Idea. E ha un passato senza macchia, ed è buono e semplice
come un ragazzo. Puoi pensare quanti uomini ho conosciuto in vita mia;
ebbene, egli è uno di quegli uomini più onesti, più disinteressati, più
rispettabili che io abbia conosciuti. Io gli voglio bene e lo ammiro.

Il ragazzo rimase un po’ sopra pensiero, guardando ora suo padre, ora
«il libero dal carcere». Poi domandò:

— E allora.... perchè l’hanno messo in prigione?

— Perchè pensa e dice tutto quello che t’ho detto, — rispose il padre.

— Ma dunque.... potrebbero mettere in prigione anche te, che dici le
stesse cose?

— Certo.

— E perchè ci hanno messo lui soltanto?

— Perchè dice tutte quelle cose più forte e più apertamente, che è
quanto dire che è più disinteressato e più sincero, che desidera più
ardentemente il bene, che è più coraggioso e più generoso di me.

Il ragazzo non ribattè più parola e stette guardando con gli occhi
spalancati il suo ospite, che continuava a leggere.

— Animo, — gli disse il padre all’orecchio; — quando è entrato egli s’è
accorto che tu hai avuto paura di lui come di un brigante; tu gli devi
una riparazione; vagli a domandare se sta bene.

Il ragazzo si mosse lentamente e s’andò a mettere fra le ginocchia
del «pregiudicato» senza osar di parlare, ma come offrendo la testa
bionda alle sue carezze. Quegli smise il giornale e dato uno sguardo
a lui e al padre, capì e sorrise. Ma il suo saldo cuore che in mezzo
alle persecuzioni e sotto l’affronto delle manette non aveva mai avuto
un momento di debolezza, fu scosso dall’atto del fanciullo, il quale
rappresentava ai suoi occhi una nuova generazione gettata da un impulso
generoso dell’anima nella causa che gli era sacra. Lo fissò un momento
con gli occhi scintillanti, poi prese con le mani quella testa bionda e
vi stampò un bacio.... che gli fu reso con effusione.

Riavvicinandosi a suo padre il ragazzo gli accennò con un gesto di
meraviglia, che la sua fronte era inumidita.

— Non t’asciugare, — rispose il padre — è acqua di battesimo.


Discussioni.

Trovò in casa del Cambiari una dozzina di convitati i quali avevan
finito allora di sparecchiare uno dei succolenti pranzi che il padrone
imbandiva ogni quindici giorni a un numero sempre incerto di amici,
poichè egli faceva gli inviti e se ne scordava, e fissava spesso a
parecchi delle ore diverse. Il piccolo salotto, in cui la disarmonia
dei mobili e dei colori e l’arruffio delle chincaglie scheggiate e
sbreccate dai ragazzi raffiguravano il tenor di vita della famiglia,
era affollato. Ma ad Alberto, tutto acceso della sua idea, non spiacque
quell’affollamento inaspettato che in altra occasione gli sarebbe
riescito molesto. Appena entrato, però, s’accorse da più d’un viso e
da un leggero mormorio che, durante il pranzo, dovevano aver parlato
dei fatti suoi, e di quali fatti s’immaginava. C’eran due ingegneri,
un impresario costruttore, degli impiegati in riposo, ch’egli aveva
trovato là qualche volta; degli sconosciuti, quasi tutti panzuti e
brizzolati, e tre giovani signore; oltre alla numerosa progenitura del
padron di casa di cui spuntava un musino roseo dietro ogni spalliera
di seggiolone. Vedendo a vari convitati gli occhi lustri e le guancie
scarlatte che tradivano il prurito della discussione, Alberto si
tenne preparato a un assalto. E questo gli fa dato quasi subito, prima
in forma di scherzo, poi a poco a poco, seriamente; ma con una così
manifesta ignoranza degli elementi della quistione, con un così ingenuo
sfoggio dei più vieti luoghi comuni, che egli seguitò a parar le botte
a colpi d’arguzia, senza perdere un momento il suo buon umore. Quando
gli assalitori cominciavano ad eccitarsi, capitò la visita dei coniugi
Luzzi, e, la comparsa della piccola signora sfavillante di vita, chiusa
in un fresco vestito avana che dava al suo visetto bruno, segnato d’un
neo, una grazia adorabile, troncò di netto la discussione.

Alberto espose allora al Cambiari, a quattr’occhi, l’idea del suo
lavoro, e gli disse il suo desiderio di parlare col Baldieri. — Con
l’anarchico Baldieri? — esclamò il Cambiari, dando un passo indietro;
e soggiunse in tuono d’avvertimento amichevole: — Alberto, bada!...
— La cosa, d’altra parte, non era così facile: il Baldieri parlava a
cuor libero con lui perchè (e glielo diceva) era un borghese logico
e sincero, ossia un aperto nemico; ma un borghese socialista, con
un rivoluzionario tartufo, come egli li chiamava, razza anche più
odiosa a lui dei reazionari arrabbiati, doveva essere un altro paio di
maniche; c’era il rischio di pigliarsi un «no» tanto fatto. Nondimeno,
insistendo Alberto, egli promise che gli avrebbe parlato. E gli diede
qualche informazione: era un operaio colto, aveva fatto il ginnasio
inferiore, pareva un ufficiale in borghese; ma, si tenesse per
avvisato! Non doveva aspettarsi dei complimenti da lui. Poi gli disse
piano, accennando alla compagnia: — Se la riattaccano tira in avanti a
celiare, te ne prego.

La riattaccò subito, infatti, un vecchietto arcigno, invalido, decorato
di non so qual ministero, di conosciuta avarizia; il quale domandò
bruscamente ad Alberto, agitando una mano per aria: — Ma insomma, a
quale delle scuole del socialismo appartiene lei, si può sapere?

Alberto rispose: — A che serve dire di che scuola sono a chi non ne
accetta nessuna? E a che pro parlar di rimedi sociali con chi crede i
mali irreparabili e nega che ci siano?

— Noi non neghiamo i mali — rispose l’altro, — ma vogliamo ripararvi
con la carità.

Alberto si ricordò in quel punto che in una sottoscrizione pubblica
dello scorso inverno, quel signore aveva mandato ad un giornale
due lire per sè e cinquanta centesimi per ciascun membro della sua
famiglia, tutti firmati in colonna, in modo che era riuscito a far
stampare sette volte il suo nome con uno scudo: la tariffa, presso
a poco, delle inserzioni. — Con la carità? — gli disse allora, —
faccia...; ma non si rovini.

La stoccata era forte: le signore non poterono rattenere un sorriso; la
Luzzi si coperse il viso col ventaglio.

Uno sconosciuto, balbuziente, coperse la ritirata del vecchietto
ripetendo la sua domanda: — Dica dunque: è collettivista? è comunista?
— È per l’uguaglianza assoluta, per un ordine sociale che metterebbe
alla pari Dante Alighieri e un cretino?

— E perchè mai, — ribattè Alberto, facendo un viso ingenuo —
respingerebbe «lei» un tale ordinamento?

Si udirono scricchiolare alcune seggiole; ma il colpito non sentì il
colpo alla prima. Vedendo però sorridere la signora Luzzi, sospettò
qualcosa e disse piccato: — Lei fa il socialista con un secondo fine.

Alberto lo guardò con stupore, e domandò sorridendo: — Per aver
stipendi e decorazioni?

Quegli rimase un po’ incerto; poi rispose: — Per farsi elegger deputato!

Alberto diede in una risata. — Ma caro signore, trovi un modo più
sensato di darmi dell’asino. Sarebbe come andarmi a imbarcare a Genova
per arrivare più presto a Venezia.

Lo sconosciuto volle rispondere; ma il vecchio impiegato gli coprì
la voce, dicendo aspramente: — Non credo che si possano professare
sul serio quelle idee. Un borghese socialista non è che un negro
incipriato!

— Questa immagine non è sua! — esclamò Alberto.

— Oh! Signor cavaliere, — rincalzò la Luzzi — lei, dunque, riconosce
d’appartenere a una razza inferiore!

Il motto fece ridere. Alberto si voltò a guardarla, e disse: — Ah! Ecco
la mia alleata!

Ma varie voci lo assalirono tutte insieme, domandandogli perchè, se
era un socialista, non cominciasse a spartire l’aver suo fra chi non
n’aveva.

— Oh bella, — rispose Alberto, — per due ragioni semplicissime:
prima, perchè se mi conducessi povero, perderei la mia indipendenza, e
dovendo chieder lavoro e danaro alla borghesia, non sarei più libero di
manifestare le mie idee; e poi, perchè, com’è costituita la società,
non potendo mio figlio guadagnarsi da vivere prima dei trent’anni, o
morirebbe di fame, o dovrebbe lasciar gli studi e mettersi a fare un
mestiere.

— Benone! — uscì a dire l’impresario, con un’aria trionfale, — ma se è
socialista, perchè non mettere suo figlio a fare un mestiere?

— Perchè non ho diritto di forzare la sua volontà, di toglierlo
violentemente dalla classe in cui l’ho posto; perchè se anche lo
facessi col suo consenso, egli per l’effetto delle idee che oggi
regnano, sarebbe disprezzato e creduto un pazzo tonto dalla classe da
cui uscirebbe, quanto da quella in cui vorrebbe entrare.

— Magre ragioni! — rispose un vecchio maggiore pensionato, amico
del Luzzi. — Chi è persuaso d’un’idea, deve tutto sacrificarle! Lei
dovrebbe essere il primo a dar l’esempio.

A costui rispose la signora Luzzi: — Se è così, signor maggiore, lei
vuole liberare Trieste dall’Austria, perchè non prende il fucile e
parte per il primo per la frontiera?

Il maggiore si rivoltò, dicendo che il paragone non calzava; ma la
signora Luzzi ribattè: — E poi, mi scusi, c’è contraddizione. Se un
socialista è ricco, gli dite: — Dovete dar tutto agli altri. Se è
povero gli dite: — Siete socialista perchè non avete nulla da perdere.
Che logica è questa?

Rimasero tutti un po’ sconcertati; ma se la cavarono fingendo
di prendere quell’argomento in ischerzo, e voltarono il discorso
per domandare ad Alberto che idee avesse sulla proprietà, e se il
socialismo volesse obbligar tutti a lavorare.

— Non si riuscirà mai a questo! — esclamò il maggiore. — La proprietà
è un istinto! Persin lo scoiattolo, persino il topo campagnolo
sono proprietari, perchè ammassano per l’inverno delle provvigioni
sovrabbondanti, di cui resta loro una parte nella primavera. Vede
dunque che perfino tra le bestie ci sono i ricchi, che hanno del
superfluo perchè sono stati previdenti.

— Ma le bestie — rispose Alberto — fanno le loro provviste da sè,
non le fanno fare agli altri, e non son provviste che fruttino altre
provviste senza fatica come il danaro, e i topi non le lasciano ai
figliuoli perchè marciscan nell’ozio.

— Queste son celie! — gli rispose uno dei due ingegneri. — Non c’è
bisogno di ricorrer alle bestie. Lei che è letterato, dovrebbe sapere
la definizione che ha dato dell’uomo un grande scrittore: «L’uomo è
un animale proprietario». Che cosa gli avrebbe da rispondere, signor
professore?

— Gli risponderei che non discuto quell’epiteto, con chi si appropria
quel sostantivo.

La Luzzi rise: l’ingegnere fece una spallata. — Non sono questioni, mi
scusi, da trattarsi con giuochi di spirito!

— Ma come vuol che me la cavi altrimenti, — rispose Alberto ridendo —
se m’assaltano tutti insieme e non mi lascian rifiatare.

— La proprietà è frutto del lavoro!

— Non tutta, nè sempre.

— Eh, andiamo — osservò il Cambiari all’ingegnere battendogli una mano
sulla spalla, — che lavoro ti sono costate le ottantamila lire che
guadagnasti rivendendo il tuo terreno fabbricabile di San Salvario a
dieci volte il prezzo che ti era costato?

— Sei socialista tu pure? — gli domandò l’ingegnere indispettito.

— Quando son disoccupato, — rispose il Cambiari.

— Ma quello è un caso eccezionale, — ribattè al Cambiari il maggiore. —
Prendiamo il nostro impresario qui presente. Egli non lavora più con le
braccia, ma è più benemerito che se lavorasse, perchè con la proprietà
acquistata dà del lavoro ogni anno a duecento operai.

— Dà del lavoro! — interruppe Alberto. — Perdoni, signor maggiore: io
domando se non sono duecento operai che danno il loro lavoro a lui....

— Ma come?

— Ma certo! Se il lavoro di quei duecento operai non fruttasse a lui
molte migliaia di lire, lo darebbe loro?

— Ma questa è una capriola.

— Una capriola da avvocato — aggiunse l’impresario.

— Già, è l’avvocato del lavoro, adesso, il cavaliere degli
sfruttati.... l’_amico degli operai_: il titolo d’un almanacco a dieci
centesimi! È anche amico degli operai che _fanno_ il lunedì? — domandò
un signore grasso, amico del Bianchini padre, che teneva le mani
incrociate sul ventre.

— E perchè no? — gli disse la signora Luzzi con un sorriso vezzoso —
non è amico di lei, che «fa» tutta la settimana?

Risero tutti, anche il signore grasso. E questa volta Alberto si voltò
verso la signora con un moto di viva simpatia che essa vide.

— Eh, caro signore, — riprese l’avvocato — lei fa l’avvocato dogli
operai senza conoscerli; ma cambierebbe idee se ci avesse che
fare. Restii al lavoro, briaconi, ignoranti e presuntuosi insieme,
maldicenti, feroci dei padroni: un bravo operaio è una mosca bianca, lo
creda pure....

— Io non capisco.... — rispose Alberto — ma se gli operai sono
fannulloni, chi è che fa tutto l’enorme lavoro manuale di cui la
società ha bisogno ogni giorno? Vanno a ubriacarsi all’osteria! Si
vanno a ubriacare anche molti signori in luoghi più puliti, è vero;
ma senza la scusa di aver per case delle buche, in cui ripugni di
passar la sera, o col vantaggio di poter nascondere l’ubriacatura in
una _cittadina_. Sono ignoranti! Questo è certo, e non hanno scusa:
quando li vedo tornare a casa la sera, rotti da dieci ore di lavoro,
io domando: O perchè non vanno al Circolo filologico? Dicono anche male
dei padroni. Ma mi pare che lei, dal canto suo, non faccia di loro dei
panegirici.

— Ben risposto, davvero! Ma le ripeto una cosa sola: vorrei che ci
avesse da fare per una settimana e mi darebbe poi il suo bravo parere
sopra le _otto ore di lavoro_!

— Il lavoro è un freno! — sentenziò il vecchio impiegato.

— Un freno che ammazza — rispose Alberto — non è più un freno; è un
capestro.

— E lo vogliono allentar bene il capestro i profeti socialisti che
profetizzano il lavoro di tre ore al giorno!

— È un assurdo — disse dolcemente uno dei signori che non aveva parlato
— anche per rispetto alla religione. Il lavoro è un gastigo che Dio ha
inflitto agli uomini. Non sarebbe più un gastigo se fosse ridotto a tre
ore.

— Allora, — gli rispose Alberto, — lei che vive di rendita non discende
da Adamo, perchè Dio non l’ha condannato al lavoro?

— Ma per me ha lavorato mio padre.

— E perchè, — domandò la signora Luzzi — Dio ha condannato suo padre e
non lei?

Il signore rimase così impacciato che per salvarlo, l’ingegnere suo
vicino apostrofò improvvisamente la padrona di casa:

— Ci dice lei il suo parere, signora Cambiari?

La signora voltò verso l’interrogante il suo viso ingenuo di bella
paciona e rispose con amabile semplicità: — Il mio parere è quello di
tutti, mi pare. Perchè si lavora? Per vivere. Dunque, quando si ha da
vivere, perchè si dovrebbe lavorare?

Applaudirono tutti, ridendo, eccettuato Alberto, che cercava con gli
occhi quelli della signora Luzzi, i quali sfuggivano.

Ma la discussione si ravvivò intorno al solito argomento, se gli
operai avessero ragione o torto a lagnarsi, e tutti diedero addosso
al Bianchini. Il maggiore disse che era il benessere che li guastava.
Il signore grasso, che teneva ancora le mani sul ventre, approvò,
soggiungendo che appunto per quella ragione non era neppure da
desiderarsi un miglioramento notevole del loro stato. — È provato....
— disse. — È provato — ripetè, alzando la voce per coprir quella dei
ragazzi che facevano passeraio in un angolo — che col diminuire del
prezzo dei generi alimentari, e specialmente della carne, aumenta il
numero dei delitti contro la proprietà e.... — soggiunse più basso —
contro il pudore.

— Ah, se fosse vero, — rincalzò la signora Luzzi — lei che è un così
fino gastronomico, sarebbe già stato arrestato.

Molti risero, altri fecero dei cenni di disapprovazione. — Ma lei
ha torto — riprese la signora, senza turbarsi, — perchè è la cattiva
nutrizione, che intristisce gli uomini. Sa il proverbio tedesco: «Der
Mensch ist was er isst». L’uomo è ciò che egli mangia!

— Ma signor Luzzi! — esclamò il Cambiari, voltandosi verso il marito —
la sua signora è socialista! È forse lei che la catechizza?

Il Luzzi, che non aveva ancora aperto bocca, crollò il capo in atto
di compatimento verso sua moglie, come per dirle che era una pazza,
poi espose la propria idea, mettendo nei suoi occhietti di topo
un’espressione di finissima astuzia. Eran tutti malati d’immaginazione.
Il socialismo era un fantasma creato dalla borghesia, la quale
rassomigliava a certi malati che a furia di parlare di una malattia
che non hanno, finiscono con soffrirne davvero. Egli aveva affermato il
proposito di non aprir bocca in quelle controversie, perchè gli facevan
compassione.

Tutti scrollarono le spalle; quel Luzzi che non aveva senso comune. Il
socialismo esisteva, anche troppo; ma erano «i socialisti borghesi,
borghesi dilettanti» quelli che gli fortificavano la vita. — Sono
loro — disse il vecchio impiegato ad Alberto, ripetendo delle parole
lette di fresco — loro che giuocano col mostro ancor piccolo, ancora
innocente, con un nastro al collo come un agnello, e lo tiran su a
bocconcini, senza pensare che un giorno mostrerà i denti e divorerà
loro stessi e tutti quanti.

— Ma è appunto quello che io penso! — rispose Alberto.

— E anche quello che desidera?

— Io non desidero che il bene di tutti.

— A spese di alcuni, non è vero?

— Sarebbe sempre più giusto che il bene di alcuni a spese di tutti.

Tutti protestarono in coro, l’impiegato fece un atto di sdegno e
la discussione stava per volger alle brutte quando il Cambiari la
interruppe con uno scherzo, e la troncò poi affatto la comparsa di un
cameriere con un gran vassoio pieno di bicchieri.

Allora tutti si levarono in piedi e formarono vari gruppi conversanti
a voce bassa e concitata, nei quali Alberto argomentò dai gesti e
dagli sguardi che gli si levava la pelle. E si accorse che le signore
non gli erano meno ostili degli uomini. Già, durante la conversazione,
nonostante le risatine, provocate da certe sue risposte epigrammatiche,
egli aveva colto a volo da tutte, fuorchè dalla padrona di casa, delle
occhiate malevoli, quasi sprezzanti. E quell’abbandono, a cui non era
preparato, del sesso gentile, che l’aveva sempre accarezzato cogli
occhi e con la parola, lo rattristò. Si trovava solo in un angolo:
cercò con lo sguardo la signora Luzzi.

Era accanto a lui, come se avesse indovinato il suo pensiero.

Egli le disse piano, con calore: — Grazie.

E vide che i suoi occhi, belli come non gli erano mai apparsi, si
velavano.

                             . . . . . . .


Amicizia nuova.

..... a quell’uscita tutti e tre protestarono, ridendo, e uno più forte
degli altri, picchiando un pugno che fece sobbalzare i bicchierini del
cognac, con cui stavano coronando la colazione:

— Sì, — ripetè con garbo, ma con fermezza il professore, — ve lo
ripeto. E volete che ve lo dimostri che non conoscete il mondo? Siete
qui un conferenziere sociologo, che insegna a rimpastare la società, e
due romanzieri che scrutate dentro e fate parlare persone di tutte le
classi sociali, e non c’è uno di voi che conosca un operaio.

Uno dei romanzieri fece una spallata. — Ne conosco cento — rispose. —
Non è mai venuto un operaio a fare una riparazione in casa mia che io
non mi sia intrattenuto con lui per un’ora.

— A interrogarli come i generali interrogano le sentinelle: di che
classe? quanti mesi di servizio? avete a lagnarvi di nulla? E credi
d’averne conosciuto uno solo in codesta maniera? Credi che si possa
studiare un uomo delle classi inferiori, a cui non ci lega nessun
vincolo, da cui ci separano cento idee false, nello stesso modo che ci
facciamo un concetto d’un romanzo nuovo scartabellandolo distrattamente
in un momento d’ozio?

— Andiamo, — osservò il conferenziere agli altri due — l’amico non ha
torto. Quanto a operai, voi vi rigirate fra le mani il burattino della
letteratura romantica di cinquant’anni addietro, un po’ ritoccato dal
pennello zoliano.

— E in che maniera l’avremo da studiare? — domandò uno dei romanzieri.
— Abbiamo da andare travestiti a lavorar nelle fabbriche come il
pastore Goerhe, o da aprire uno spaccio di liquori in un sobborgo come
Enrico Leyret.

— No, — rispose il professore, — v’è un mezzo solo.

— Quale? — domandarono tutti e tre a una voce.

— L’amicizia.

Tutti e tre risero. E uno gli disse: — Sei tu che caschi nel romanzo
falso. È un’amicizia impossibile. C’è troppa differenza di cultura, di
maniere e d’abitudini.

— Ecco il gran pregiudizio! Strano davvero. Ciascuno di noi ha nella
propria classe qualche amico che è nei modi, nel linguaggio, in tutte
le sue abitudini un ribelle brutale alle forme convenzionali della vita
signorile e che, salvo un po’ di grammatica, non ha maggiore istruzione
d’un operaio infarinato di qualche lettura; e questo non c’impedisce
l’amicizia.

— Ammettiamo; ma intendiamoci. Quest’amico operaio l’hai veramente, o
non è che un tuo ideale? Se non è che un ideale, è un discorso finito.

— È una realtà.

— E come te lo sei fatto? Sentiamo. Con che arte? Insegnaci l’arte.

— Senz’arte. Ho capito subito che v’era un sol modo di guadagnarmi la
sua confidenza, senza la quale non c’era amicizia possibile: quella
di provargli che la meritavo dimostrandogli immediatamente la mia:
anticipazione che nessuno della nostra classe fa mai a una persona
di classe inferiore. Appena capii che era un galantuomo e un buon
uomo, lo trattai come un amico, senza restrizioni nè di parola nè di
pensiero: gli parlai delle cose mie, gli confidai dei dispiaceri gravi
che avevo in quel tempo. Ne fu meravigliato, e me ne fu grato. Se
avessi incominciato con chiedergli quanto non gli avevo dato ancora,
con interrogarlo, cioè, riguardo alla sua vita, alle sue opinioni e
ai suoi sentimenti, come tutti fanno, mostrandomi curioso di lui come
d’un animale esotico, non avrei ottenuto nulla nè subito nè poi. Con
tutto questo, non riuscii così alla lesta a quello che era mio intento,
ebbi ancora delle diffidenze da superare, delle ritrosie da vincere.
La cosa era nuova per lui. Per un pezzo, nonostante la simpatia che
gl’ispiravo, rimasi per lui un oggetto di stupore. Mi scrutava con gli
occhi, s’arrestava spesso tutt’ad un tratto, parlando; gli rinasceva
a quando a quando un senso di suggezione, ch’io credevo già strappato
dalle radici, e vi ripeto, senza arte, quasi senza volerlo, con la
famigliarità spontanea dei modi, con l’intonazione del discorso più
che con le parole, piantandogli sempre in viso gli occhi aperti e
sinceri, per cui mi poteva leggere in fondo all’animo senza scoprirvi
nessun secondo fine, senza trovarvi altro sentimento che quello di una
schietta stima e di una viva benevolenza.

— Un momento! — interruppe il conferenziere — il tuo operaio è
socialista?

— Sì.

— Tu dici che non hai usato arte con lui; ma ti sei professato
socialista.

— No, perchè non lo sono. E non sono neppure antisocialista. Il
socialismo è un problema. Non lo so risolvere. Sto a vedere come
procedano passo passo verso la soluzione, sulla gran lavagna della
pratica, quelli che lo credono solubile, desidero che ci riescano, ecco
tutto. Ma con l’amico non m’infinsi: sarebbe stato indegno, e anche
peggio che inutile, perchè avrebbe finito con scoprire l’inganno.

— Ti ha almeno illuminato l’_amico_, riguardo alla soluzione?

— M’ha fornito dei dati che ignoravo.

— Riflettici la luce, dunque.

— Ne avete bisogno, infatti. Fra l’altro, ho capito per la prima
volta dai suoi discorsi la vera natura e misurato tutta la forza
del sentimento collettivo che anima ora la classe a cui appartiene:
sentimento non prima intuito da me che in confuso: assai più profondo,
più vivo, più facile a essere urtato e ferito di quanto noi tutti
pensiamo. Ho capito che la natura di quel sentimento, in tutti i
casi di conflitto, richiede da parte della autorità, dei padroni,
della stampa, di ogni gente delle altre classi, forme di trattamento
e di linguaggio, dalle quali si discostano molto ancora le forme
generalmente usate; che una quantità di conflitti s’inaspriscono e si
prolungano non per altro che per la trascuratezza di quelle forme, le
quali non sarebbe soltanto prudenza, ma giustizia l’osservare; e che
quando questo nuovo Galateo da classe a classe, che ora manca, sarà
formato ed osservato, molti dissidi saranno facilmente composti, e
molti, ora frequentissimi, non sorgeranno più. Io ne son persuaso come
d’una verità psicologica elementare.

— Avanti, — disse uno dei commensali — a un’altra scoperta.

— Mi sono persuaso che v’è nella maggior parte, come in quell’uno, un
sentimento, il quale li spinge al socialismo con altrettanta forza, se
non maggiore, del desiderio e della speranza d’un miglioramento della
vita materiale, ed è la coscienza ribelle, come a un’ingiustizia, allo
stato d’inferiorità sociale e morale in cui li tiene l’opinione della
borghesia, la coscienza del loro diritto a una maggior dignità di
vita, anche fuori d’ogni considerazione di agiatezza, un’aspirazione
alla coltura, all’educazione, a tutte quelle cose, la cui mancanza li
separa, più che la disuguaglianza economica, dalle classi superiori.
Mi sono persuaso che non deriva da pigrizia o da sollecitudine della
salute il desiderio d’una riduzione della giornata di lavoro; ma da un
vero imperioso bisogno di vivere un po’ di vita del pensiero, di avere
il tempo di mescolarsi, se non altro come spettatori, alla vita del
mondo, di rompere con qualche sosta più lunga quella fuga quotidiana,
affannosa come la corsa di gente inseguita, dalla casa all’officina,
dall’officina alla pentola, dalla pentola al letto, che travolge
come un vento affetti e pensieri e opprime il respiro dello spirito e
confonde quasi come in un sogno faticoso il sentimento dell’esistenza

— La seconda scoperta — osservò uno dei romanzieri — non val quella
dell’America; ma val più della prima.

— Taci: è tutto un nuovo mondo per te, che non sei mai uscito dal
vecchio continente della letteratura. Ho scoperto che noi siamo
tutti in un grande errore supponendo che per effetto della distanza
da cui son separate le classi, la nostra si sottragga in gran parte
all’osservazione e all’indagine censoria delle classi lavoratrici;
mi sono accertato, studiandone uno solo, che anche fra gli operai più
incolti v’è ora l’intuizione acuta d’una quantità d’abusi dei signori,
di ingiustizie e di lacune delle leggi, d’immoralità mascherate della
vita politica e del commercio finanziario, delle quali li crediamo
ignoranti affatto come di cose dell’alta scienza; che v’è fra di loro
un gran numero di «dilettanti critici» di processi e di cronache
mondane scandalose, di «specialisti» che conoscono le sorgenti
impure della fortuna di molti loro concittadini, che segnano a dito
i figliuoli ricchi e rispettati di padri usurai o falliti con frode,
che indicano le palazzine guadagnate in un’ora con un colpo fortunato
alla Borsa, che conoscono vizi ed imbrogli di faccendieri illustri e
potenti, come giornalisti di professione, che portano in tasca e cavan
fuori a proposito, per leggerli nei crocchi, dei giornali vecchi, nei
quali sono accennati i milionari pensionati del Governo a ottomila
lire l’anno e i professori d’Università che riscuotono lo stipendio di
un decennio senz’aver fatto una lezione, e che citano esatte le somme
enormi profuse da municipi dissestati in festeggiamenti adulatorii e
le gratificazioni favolose largite da certe grandi amministrazioni ai
loro pezzi grossi, mentre fanno aspettare per anni dei miseri sussidi
a vedove e a orfani di lavoratori manuali che, faticando diciotto
ore al giorno per sessanta lire al mese, si sono accorciata la vita
a benefizio degli azionisti. Mi sono persuaso che sono tutte queste
cognizioni accumulate nei cervelli, tutti questi sentimenti, ribollenti
negli animi, che fanno trasmodare molte volte le moltitudini mosse
da prima da un intento pacifico, e che la più parte di coloro che
le condannano, accorderebbero loro molte «circostanze attenuanti» se
sapessero.... quante cose esse sanno.

— Ci hai dell’altro? — domandò il conferenziere.

— E del meglio? — domandarono gli altri due.

— Dell’altro e del meglio. Ho capito quanto sia erroneo il concetto
che noi ci facciamo, generalmente, del lavoro manuale, e quindi
ingiusto nel più dei casi il rimprovero che si fa agli operai di non
«amare il lavoro» nel senso e nel modo che noi amiamo il nostro. Ho
capito quanto si debba essere indulgenti, per questo riguardo, col
grandissimo numero che compiono un lavoro monotono, il quale è duro e
opprimente per modo che molti l’abbandonano per darsi a fatiche anche
più gravi e men retribuite, non per altro che per liberarsi dall’eterna
intollerabile uniformità dei movimenti muscolari a cui li costringe
l’attuale divisione del lavoro nella grande industria, e per cui, alla
lunga, nasce in loro un abborrimento invincibile. Molte cose avevo
lette nei libri al proposito; ma il mio amico per il primo, con certe
frasi e immagini vive del suo vernacolo, molte volte ripetute, mi fece
comprendere e sentire quasi come per esperienza la tortura della fatica
avvelenata dalla noia, la tristezza delle lunghe giornate passate nelle
officine oscure, tra il fumo e il polverio, in uno strepito assordante,
l’aspettazione interminabile del suono liberatore della campanella,
il continuo affannoso desiderio che spinge tutti i pensieri verso la
domenica come a una terra promessa lontana, dove si potrà respirare e
pensare, essere un uomo per un giorno.

Mi son quindi persuaso anche di questo: come in moltissimi non si ha
che sonnolenza, atrofia morale, prodotta da estenuazione di forze e
da un enorme tedio accumulato, quello che a noi pare rassegnazione
ragionevole al proprio stato; mi son persuaso che quello che noi
giudichiamo in molti indifferenza o avversione al socialismo che li
cerca, non è altro che inettitudine o ripugnanza allo sforzo necessario
per comprendere e appropriarsi le proprie idee, impotenza della mente
paralizzata da un lavoro macchinale di molti anni, il quale non è più
in loro, come dicono i fisiologi, di pertinenza del cervello, ma del
midollo spinale, e li ha ridotti a vivere come le rane, a cui sono
stati tolti i lobi cerebrali. A voi, romanzieri: ecco un argomento
degno dei vostri studi più dei cuoricini delle contesse.

— Sta bene; — gli rispose uno degli apostrofati — ma.... _passez au
déluge_.

— Eh, il diluvio verrà, se non metterete giudizio. Tutte queste cose il
mio amico non me le disse come io le ho dette a voi, si sottintende;
ma io le compresi dai frammenti dei suoi discorsi o glie le lessi
dentro per gli spiragli che mi lasciava aperti tra parola e parola.
Incoraggiato, ho continuato a scavare nell’animo suo, aprendogli
sempre il mio tutto quanto, e v’ho scoperto delicatezze di affetto
che non immaginavo, sentimenti e pensieri che non venivano fuori se
non perchè non trovavano la via d’uscita, o ne uscivano travisati
dall’espressione monca ed impropria; ho afferrato a volo idee e
intuizioni nette di una mente vergine, non viziata, come la nostra,
dalla consuetudine di guardar le cose a traverso le reminiscenze dei
libri e di giudicarle in relazione coi giudizi altrui; ho inteso da
lui giudizi sulla società e sulla vita originali e sensati, domande
elementari e profonde di bambino, che mi mettevano in impiccio, e
ragioni semplici e lucide, alle quali, con mio stupore, non trovavo
nel mio magazzino intellettuale nessuna ragione da opporre, che non
fosse un giuoco di parole. Per tutte queste cose mi son legato a lui,
e ho provato nella sua compagnia come un ringiovanimento del senso
dell’amicizia, certe compiacenze vive e delicate delle prime intimità
fraterne dell’adolescenza, delle quali non avevo quasi più memoria.
L’amicizia dura da vari anni. S’è stabilito un commercio intellettuale
fra di noi. Io gl’impresto dei libri; egli, dopo lettili, mi domanda
delle spiegazioni le quali non di rado non valgono i suoi commenti
impreveduti, che mi fanno pensare anche quando battono in falso. Ho
veduto la sua intelligenza allargarsi e rischiararsi rapidamente, come
quella d’un ragazzo che, invece d’imparare, riacquistasse la memoria
di cose dimenticate. E ciò non ostante, non so proprio chi di noi
due abbia giovato all’altro di più. Per me egli è stato la chiave che
m’aperse la porta d’un mondo ignorato. E gli sarei grato per il solo
fatto di avermi indotto questa persuasione: che il miglior modo di
istruire e di educare il popolo, di riuscirgli utili e di essere giusti
con lui, è quello di legarglisi con dei vincoli individuali d’amicizia,
e che se ogni borghese colto avesse un vero amico nelle classi operaie,
il mondo procederebbe certo egualmente verso la mèta a cui la legge
della vita lo sospinge, ma forse per altra via e con altro passo, con
maggior vantaggio di tutti.

— Applausi dal settore di destra — disse uno dei romanzieri. — M’hai
persuaso benchè tu abbia parlato come un professore. Cedimi dunque il
tuo amico.

— Ah no! — rispose il professore. — Fate voi altrettanto per conto
vostro. Un’amicizia di tal genere non serve a nulla, anzi non si può
avere se non si conquista. Vi trovereste a dover rifare il lavoro
medesimo, a vincere le stesse difficoltà e le stesse diffidenze ch’io
ho dovuto vincere. Non è uno di quegli amici che s’imprestano come un
soprabito.

— E allora come trovarne?

— Ci dovrebbero essere delle agenzie speciali.

— Dobbiamo ricorrere alla «Camera del Lavoro».

— Ridete pure, — rispose il professore mentre tutti si alzavano per
uscire. — Avete ingegno: son ben certo che quello che vi ho detto, vi
rimarrà stampato nel cervello, e che ci penserete molte volte.... senza
ridere.


Fra anarchico e socialista.

(FRAMMENTO.)

La visita che Alberto aspettava con maggiore impazienza era quella del
Baldieri. Il concetto un po’ fantastico che s’era fatto di lui, il
pensiero di trovarsi per la prima volta davanti a un operaio d’idee
profondamente discordi dalle sue, a un agitatore audace, provato da
processi e da prigionie, che forse gli veniva in casa di mala voglia,
e col proposito di dirgliene delle dure, lo tennero per vari giorni in
uno stato di curiosità viva; la quale diventò vivissima quando, all’ora
indicatagli dal Cambiasi con un biglietto, egli sentì una vigorosa
scampanellata.

Dal viso con cui la cameriera gliel’annunciò e dall’incertezza con
la quale disse _un uomo_ invece di _un signore_, capì che doveva aver
visto una faccia straordinaria.

E quando l’«uomo» gli fu davanti, egli dovette fare uno sforzo per
dissimulare l’impressione che gli produsse il suo aspetto.

Non vide sul primo momento che due occhi azzurri potentissimi in una
testa bionda più alta della sua; la quale pronunziando il suo nome,
s’alzò invece d’inchinarsi.

Lo fece sedere, e l’osservò a varie riprese, di sfuggita, cominciando
subito le sue interrogazioni, come se non s’occupasse punto della
sua persona. Il Cambiasi aveva ragione. Egli non avrebbe saputo
immaginare un viso che esprimesse più audacemente l’idea dell’anarchia
rivoluzionaria. Era un viso lungo e sanguigno, con un gran naso
arcato e sottile, che dava l’idea d’un’arma offensiva, e una bocca
ferma, guernita di baffi petulanti, e un poco torta verso la guancia
sinistra, dove s’apriva una cicatrice piccola e profonda, come il buco
d’una palla di pistola. Ma più fieramente parlanti erano gli occhi,
coi quali, fissando Alberto mentre rispondeva breve e netto alle sue
domande, pareva che dicesse: — Chi è costui? Cosa cova? Che fine può
avere la sua impostura? — Mai due occhi umani non gli avevano frugato
dentro all’anima come quei due. Tutto ciò che v’è ancora di dubbioso
nella sua nuova fede, tutti i pensieri e sentimenti che lo legavano
ancora alla sua classe, gli parve che si agitassero, si scontorcessero
sotto quello sguardo come un gruppo di bisce sferzate. Tanto che il
suo cuore ardito se n’adontò e si ribellò, mandandogli un’ondata
di sangue fino al collo, e invece di restringere la conversazione
come aveva fissato, al lavoro dei fanciulli, egli decise d’assalirlo
nel campo stesso delle sue idee, quando il primo argomento fosse
esaurito. E cominciò a fissarlo, alla sua volta, negli occhi. E di
volo riconobbe in lui quello che altri già riconobbero negli anarchici
idealisti e sinceri: i caratteri fisici anticriminali: fronte larga,
cranio ampio, una folta barba castagna, le pupille chiarissime. Era
un bell’uomo; ma di quella bellezza che lascia l’animo incerto fra la
simpatia e l’avversione; una di quelle figure vistose ed insolite, che,
quando s’incontrano per la strada, vi fanno dire: — chi sarà costui?
— A un certo punto sorrise, e Alberto fu stupito della espressione
singolare di quel sorriso; pensò al sorriso, come lo chiama l’Antonino,
_fantastico_, di Cola di Rienzo. Anche nella calma con cui parlava, il
suo viso, il suo gesto, la voce, la parola, tutto aveva qualche cosa di
tagliente e di aggressivo.

Quando capì che l’interrogatorio era finito, s’alzò a un tratto, con
impeto, come se le sue gambe fossero due molle d’acciaio che avessero
dato uno scatto a suo malgrado. Ma una curiosità imperiosa costrinse
Alberto a trattenerlo.

— Come, — gli domandò sorridendo — se ne va senza cercar di convertirmi?

Il Baldieri lo guardò, senza comprendere: — Convertirla a che?... —
Ma nell’atto stesso che fece quella domanda, comprese. — Ah! — disse
— intendo.... No: non credo che sia il caso. Mi scusi, sa. Ha qualche
cos’altro da domandarmi?

Alberto fu urtato da quella durezza: — Poichè rifiutate la discussione,
non mi resta nulla da dire.

— Rifiuto la discussione! — ribattè l’anarchico. — Non la rifiuto
mai quando credo che possa servire a qualche cosa. Ma a che cosa può
servire.... tra me e lei?

Alberto volle rispondere; ma quegli lo prevenne. — Allora — disse
— sarò franco; me lo permetterà. Noi non ci possiamo intendere. Un
borghese non può esser con noi. Si può illudere, può essere qualche
volta in buona fede....; ma alla prima occasione ci volterà le
spalle, per forza, perchè non si può cambiare il midollo delle ossa.
Tutt’al più, loro possono essere socialisti. Ma socialista e borghese
è tutt’una per noi..... come per loro anarchico o pazzo. A che pro
discutere coi pazzi? Dica la verità: per lei l’anarchismo è una pazzia.

Alberto gli fece cenno di sedere: quegli sedette sull’orlo della
seggiola, come per fargli intendere che non si voleva trattenere.

— Non la credo una pazzia, — disse Alberto in tuono cortese — non
mi pare irragionevole lo sperare che gli uomini potranno un giorno
far di meno delle leggi, quando avranno raggiunto quel grado di
moralità in cui la legge è superflua, perchè le basta la coscienza.
Ma credo la moralità attuale ancora tanto lontana da quel termine, da
rendere impossibile l’attuazione del vostro ideale, il quale è tutto
fondato sulla esistenza d’uomini quasi perfetti. Crede lei in una
trasformazione miracolosa della natura umana?

— Ma che miracolosa! — rispose il Baldieri con atto di impazienza.
— Ecco la loro fissazione! Naturale, logica, non miracolosa; logica
e certa, per effetto delle condizioni d’esistenza, affatto nuove,
che dovranno mutar gli uomini per necessità, come il cambiamento del
recipiente muta la forma del metallo fuso. — E fece un gesto come per
dire: — È così chiara!

— È impossibile — disse Alberto. — Voi credete gli uomini pronti alla
trasformazione, perchè, già sin d’ora, li giudicate migliori di quelli
che sono, perchè non pensate che gran parte del male che non fanno, non
lo fanno se non perchè non lo possono, perchè sono disarmati, compressi
dall’ordinamento civile in cui vivono; ma togliete domani tutti i
freni, come volete fare, e gli uomini ricadranno nelle barbarie d’un
salto.

Il Baldieri scrollò le spalle in atto di pietà. — Lo dicevo che non
ci possiamo intendere! — E ribattè con vivacità febbrile, picchiando
il pugno sulla fronte e facendo scattar le parole: — Ma in che
maniera un uomo intelligente non capiva che ogni crimine, ogni trista
passione di adesso era l’effetto necessario d’una violenza, d’una
restrizione imposta alla libertà, d’un vizio o d’una ingiustizia
inerente all’organizzazione sociale? — Ma questo non si discute, —
gridò — questo è patente come una verità elementare d’aritmetica!
Ma non lo vede, non lo riconosce dieci volte al giorno, anche in sè
stesso? — E dicendo questo, piantò in viso ad Alberto due occhi ch’ei
non li aveva ancor visti, e che lo stupivano, quegli occhi fissi di
smalto delle figure dei mosaici, che il Renan dice esser propri dei
fanatici. Ed egli intuì rapidamente quella verità: che la fede assoluta
in qualche cosa è per noi, uomini del presente, un fatto assolutamente
sconosciuto, e che però ci è impossibile il metterci coll’immaginazione
in quello stato dello spirito umano. Comprese che c’era un abisso fra
quell’uomo e lui. Stette guardando un momento quegli occhi, poi disse:
— Ebbene, supposto pure un miglioramento morale immediato negli uomini,
come si può concepire una società senza organizzazione?

— Ma non si tratta di sopprimere ogni organizzazione! — rispose
l’anarchico, impazientendosi da capo. — Questo è un altro dei loro
chiodi. Si tratta di sostituire all’organizzazione autoritaria una
volontaria, una federazione d’associazioni di lavoratori, che abbracci
la società intera!

— Ma non sono possibili associazioni senza patti contrattuali, io
credo; e questi patti saran sempre delle leggi!

— Non saranno leggi, perchè saranno spontanei e liberi, e si potranno
mutare e distruggere quando si vorrà!

— Ma io non capisco neppur questo. In che maniera codeste associazioni,
e nella loro federazione, si potrà mantenere l’accordo e ottenere
l’operosità di tutti? Come potranno funzionare regolarmente l’una e
le altre senza controllo, ossia senza autorità, senza leggi, senza la
coazione dello Stato?

— Oh, curiosa! E come funzionava la società, prima che ci fosse tutto
questo?

— Appunto: voi volete ritornare allo stato di natura; ebbene ci siamo
stati, e siam venuti al segno in cui ci troviamo adesso.

— Ma noi ci torniamo con l’esperienza e con la scienza.

— Sta bene: dunque in condizioni affatto diverse, che ci permetteranno
di rimanervi. Io comprenderei l’anarchia se si potesse tornare in tutto
e per tutto allo stato primitivo. Ma non ci possiamo tornare con la
complessità attuale della società, con l’attuale sistema di produzione,
col macchinismo, con la divisione del lavoro, che richiedono la
cooperazione metodica, armonica, puntuale d’una collettività di
lavoratori, i quali debbono sacrificare la loro libera volontà. Come la
sacrificheranno, se non ci saranno costretti?

Il Baldieri sorrise.

— Ma non ci sarà bisogno di costringerli perchè non avranno da fare
un sacrificio! Esca un momento col cervello dallo stato presente.
Lavoreranno spontaneamente, senza sforzo, non solo perchè avranno da
lavorar meno, e vivranno meglio, ma perchè nello stato sociale in cui
si troveranno sarà evidente, chiarissima a ognuno l’idea del dovere di
ciascuno e di tutti, e questa sarà il più grande stimolo al lavoro e la
regola migliore della condotta!

Alberto non rispose. La discussione ritornava sempre allo stesso
punto, andava a battere contro la fede in un mutamento miracoloso degli
uomini. Era inutile proseguire. Tutte le sue obbiezioni si sarebbero
spezzate contro quell’idea. Ma non voleva parer vinto.

— No, — disse — è impossibile. Non posso concepire che due forme
d’anarchia. Una, possibile, dopo una rivoluzione, anche domani: quella
del vostro Stirner, uno dei padri dell’anarchismo; uno stato di libertà
assoluta, in cui ciascuno combatta contro tutti, e dove si formerebbero
dei gruppi di forti, per libero e mutuo consenso, senz’altro pensiero
che l’interesse personale; lo sfruttamento di tutti, insomma, fatto
da ciascuno; l’altra che sarebbe l’attuazione del vostro ideale, ma
soltanto possibile dopo che la società sarà passata per un periodo
di preparazione collettivista, in cui l’individuo svolgendosi e
perfezionandosi, ridurrà a poco a poco superflua e poi nulla l’azione
delle leggi e dello Stato: ma ciò in un tempo incalcolabile lontano.
Fuor di queste due, non c’è altra anarchia che non sia un sogno.

L’operaio balzò in piedi col viso in fiamma.

— E allora è peggio che un sogno — gridò — è un’assurdità, è una
stupidità il loro socialismo, con le sue leggi e col suo Stato! Come
non capiscono che lo Stato è la peste, perchè non è e non può esser mai
altro che l’organizzazione della forza per proteggere la proprietà, lo
sfruttamento, l’usurpazione? che se si lascia in piedi una sola delle
istituzioni presenti, si riformerà intorno a quella, per necessità,
tutto ciò che era prima? Che pazzia! Si rada tutto una buona volta
dalle fondamenta, come vogliamo noi, e quando non ci saranno più classi
nemiche perchè non ci sarà più proprietà individuale, non sarà più
soltanto inutile lo Stato, ma impossibile, ma ridicolo, come l’insegna
d’una bottega bruciata! Finchè non vi sarà entrata nel cranio questa,
voi altri signori socialisti non sarete mai altro che puntelli, senza
saperlo, di tutte le istituzioni odiose che volete buttar giù, e noi
vi combatteremo, noi vi odieremo peggio dei borghesi! Se non comanda
altro, la riverisco.

Alberto notò il tremito violento della mano con cui egli riprese il
suo cappello, e capì che gli bolliva dentro un’ira anche più forte
di quella che avevano espresso le sue parole; l’ira che accende in
ogni uomo di fede la discussione, come un atto offensivo e pericoloso
insieme, per la sua fede. Per non irritarlo di più, cambiò sveltamente
di tattica.

— E sia pure — disse. — Rimanga ciascuno nella sua idea. Non le
faccio più che una domanda: lei non crede in altri mezzi che nella
rivoluzione?

— In nessun altro — rispose il Baldieri, avviandosi per uscire. — Senza
di questo, tutto è impostura e buffoneria, e l’inferno attuale durerà
in eterno.

— E crede nell’azione rivoluzionaria senza organizzazione?

— Fermissimamente, perchè l’organizzazione della rivoluzione sarebbe
la tirannia preparata, com’è stata sempre finora. E senza capi. E se
verran fuori dei capi, saranno per loro le prime fucilate.

— E senza organizzazione e senza capi, chi manterrà l’ordine e la
giustizia nella presa di possesso del capitale sociale?

Con questo, credette d’averlo messo al muro. Ma l’anarchico gli diede
una risposta meravigliosa:

— Nessuno avrà interesse a prendere più di quello che gli occorre per
lavorare.

A questa risposta inaspettata, a vedere la sincerità assoluta
che brillava nei suoi occhi chiarissimi e fissi, Alberto si sentì
disarmato, e l’obbiezione che stava per fargli ancora riguardo al
principio: «ciascuno secondo i suoi bisogni», non attuabile se non
nel caso d’una produzione sovrabbondante per i bisogni di tutti, gli
morì sulle labbra. Egli sentì una specie d’ammirazione attonita per
quella fede cieca, per quell’uomo così saldamente, così invincibilmente
persuaso della sua idea.

— E crede anche — si restrinse a dirgli — i tempi già maturi per una
rivoluzione?

— Magari per vincerla, no. Ma per cominciarla, per avviarla con delle
rivolte, che scuotono l’opinione pubblica, poichè non c’è altro che
la violenza che mandi avanti una causa, e non si fanno proseliti che
con degli esempi d’audacia. La miglior propaganda è di sgomentare il
nemico, di fargli tremare la terra sotto i piedi, di rendergli la vita
così tribolata e miserabile, di far desiderare anche a lui la fine di
tutto. I primi si sa, pagheranno i vasi rotti, come accade sempre; ma
ne verrà dopo degli altri, che s’andranno moltiplicando; e poi verrà
il momento favorevole, in cui agiranno tutti insieme, e allora sarà
un uragano, che non lascierà più un sasso sull’altro di questa infame
galera. E sarà presto, com’è vero che io e lei siamo qui, e che ci
guardiamo in faccia.

E questo disse con un tale accento, con un tale sguardo che Alberto,
con sua intima vergogna, sentì scorrere un freddo istantaneo dentro il
suo sangue borghese, e si passò una mano sulla bocca per nascondere lo
sforzo di mandar giù la saliva. Dopo una breve pausa gli domandò: — È
anche per l’azione individuale?

Quegli lo guardò fisso, e poi scrollando le spalle come si fa a una
domanda fanciullesca, rispose sprezzantemente, ma vigorosamente:

— No!

— E in un’azione collettiva — gli domandò Alberto — sarebbe pronto a
sacrificarsi fra i primi?

— Io?... — quegli disse guardandolo. E soggiunse con un accento
tranquillissimo: — E non me lo legge sulla faccia?

Alberto lo fissò senza parlare. E non sapendo dir altro: — Grazie —
disse — delle informazioni.

— Era mio dovere, — rispose l’operaio. — Se occorrerà altro, potrà
avvertir l’ingegnere. Al piacere di rivederla.

E senza dargli il tempo di porger la mano, se n’andò a passi risoluti,
facendo risonare i tacchi sul palchetto come tanti colpi di martello.

Alberto rimase pensieroso in mezzo alla stanza, e gli prese un dubbio
improvviso intorno a quell’idea, la quale neppur nei libri dei suoi
propugnatori più eloquenti, egli aveva mai potuto, non che accettare,
comprendere. E fece ancora uno sforzo per concepire la società come un
tutto così fuso ed uno che non fosse possibile determinarvi la parte
che spetta a ciascuno delle ricchezze che essa produce; e in cui tutti
avessero uguale diritto sul prodotto dell’opera comune; e si compiesse
la partecipazione senza abusi, senza disordini, come una immensa
famiglia concorde.... Ah, no, era un’illusione, un sogno, una follia!
Ma lo distolse da questo un altro pensiero: — Da che poteva nascere
quella fede in una grande bontà ed equità futura degli uomini, se non
da un così appassionato desiderio del bene altrui che gli facesse velo
al giudizio? Che altri impulsi poteva egli avere, se non generosi,
poichè in un nemico d’ogni superiorità e d’ogni autorità sociale
l’ambizione non poteva essere, e la probabilità di migliorar la sua
sorte era tanto minore di quella di perder la vita o la libertà per
riuscirvi?

                                   *

Poi domandò a sè stesso: — Ma quanti avranno la fede e la fibra di
costui? Forse un altro nella sua città — pensò — forse non dieci nel
suo paese, forse non mille nel mondo.

— Ah, no, — concluse. — Non si fa un esercito di eccezioni umane.
L’esercito siamo noi, e travolgeremo nel nostro corso enorme anche
loro. Essi non sono che la schiuma delle nostre onde, che andrà perduta
nel mare....


Agitazioni e scioperi.

Il buon cavaliere, data appena una scorsa alla rubrica quotidiana
«Agitazioni e scioperi» dove gli cadde sott’occhio la notizia d’un
vasto sciopero agrario imminente in una provincia dell’Emilia,
buttò via il suo fido giornale ed esclamò con accento di grande
scoraggiamento: — Insomma, non si campa più! Questa non è più vita, è
una convulsione perpetua, è il ballo di San Vito della Nazione, è una
esistenza d’affanno a cui il mio temperamento non può reggere. Se ha
da seguitare così, piuttosto di continuare a vivere in queste ansie
dell’inferno, com’è vero il sole, io vado a finire i miei giorni in
un’isola disabitata dell’Oceania.

E ciò detto, piantò il gomito sulla tavola, appoggiò una guancia sulla
palma della mano, e stette così, scotendo il capo, come per riaffermare
il suo proposito di emigrazione dal mondo civile.

L’amico che conosceva a fondo la sua natura di don Abbondio borghese,
gli si fece accanto e gli disse con molta pacatezza: — Senti, caro
mio. Il solo modo di vivere in pace, quanto si può, è di persuadersi
che la pace al mondo non è possibile, perchè il mondo in pace
sarebbe un mondo morto. Noi italiani siamo male avvezzi. Dal 1866 in
qua, da quasi quarant’anni, non abbiamo più avuto scosse nazionali
profonde. La spedizione di Roma del 1870 è stata una festa. La guerra
d’Africa, oltrechè non mise in pericolo la nazione, non ci diede che
delle commozioni molto attenuate dalla lontananza dei fatti. Questi
quarant’anni di bonaccia hanno fatto nascere e crescere in tutti
l’illusione che la civiltà d’un popolo possa progredire come va avanti
un piroscafo sulla faccia d’un lago dormente. Quindi il movimento
attuale del proletariato, che ci riscuote dal lungo dormiveglia, ci
pare il finimondo. Ma voltiamoci un poco indietro col pensiero. Non
parlo del periodo della rivoluzione francese e del primo impero, che
fu anche per l’Italia una convulsione d’un quarto di secolo. Parlo
della rivoluzione nostra. Dimmi che cosa sono le agitazioni presenti
appetto a quelle per cui passò la borghesia in quel periodo. Prima le
cospirazioni e i conati falliti, con le conseguenze tragiche delle
persecuzioni, delle confische, degli esigli, delle prigionie, delle
morti; poi una sequela di guerre, ciascuna delle quali poteva finire
con l’invasione straniera e con una reazione terribile, e in cui tutto
era messo a rischio: la vita, gli averi, la libertà, l’esistenza stessa
della nazione; per una lunga serie d’anni si visse come un esercito
accampato, non davanti ad un nemico, ma in mezzo ad un cerchio di
nemici, minacciati, insidiati di fuori e di dentro da mille pericoli,
senz’alcun benefizio della pace negli intervalli di tregua, in procinto
perpetuo di un fallimento disastroso, in una vicenda continua di
speranza e di disperazione. Non ti pare che i pericoli e gli affanni
d’oggi siano ben poca cosa in confronto di quelli passati?

Il cavaliere scrollò il capo, e rispose tre volte no. — No;
l’agitazione e i pericoli d’allora li volevamo noi, e sapevamo
quello che volevamo. Era un movimento storico, necessario, chiaro,
circoscritto. Ma questo chi sa dove andrà a finire?

— E anche questo è determinato da una necessità storica, è un fenomeno
naturale della vita sociale. Credi che le forze della vita e della
storia agiscano in una classe sola della società? Quello era un
movimento circoscritto! Da che confini? Forse che la borghesia s’è
contentata dell’unità e della libertà? Conseguite queste, non abbiamo
noi cercato di ricavarne tutti i possibili vantaggi individuali e di
classe, morali e economici? Ora le moltitudini voglion fare lo stesso:
migliorare il proprio stato, come abbiamo fatto noi, servendosi delle
stesse conquiste che a noi giovarono. E questo non facciamo noi ancora,
tutti quanti? Chi non s’agita, in un modo o in un altro, per migliorare
lo stato proprio? Chi è pago delle proprie condizioni di vita anche
fra i più fortunati? Non diciamo noi che il malcontento è padre d’ogni
progresso? Rifletti un poco. Noi giudichiamo naturale, giustificabile,
anche lodevole che si dia moto e s’affanni per accrescer la sua fortuna
il milionario, perchè riesce a vantaggio comune l’attività ch’egli
spiega a quel fine, e non vorremmo che le classi sociali più povere
s’agitassero per innalzarsi a una condizione di vita più umana! Ti par
che sia logico? Ti par che sia umano?

— Non c’intendiamo. Non son contrario al fine: mi spaventano i mezzi,
m’inquieta il fatto che queste classi si organizzino, si leghino e si
muovano di concerto: in questo è il pericolo, e questo condanno.

— Ma questo condanni in loro soltanto: ecco l’ingiustizia. Non sono
collegati per l’interesse comune cittadini di altri molti ordini e ceti
sociali? C’è forse un ceto, una classe qualunque della società che, se
sperasse di conseguire un vantaggio con l’associazione degl’intenti
e degli atti, anche con lo sciopero, anche con l’arma spuntata e
prudente delle minaccie, non lo tenterebbe? Non fecero, non fanno
anche dei ceti borghesi dimostrazioni per le strade, leghe contro
il fisco, intimazioni e minaccie al Governo? Non si sono accordati
degli industriali a chiudere le loro fabbriche, mettendo sul lastrico
una folla d’operai, per forzare lo Stato ad allentare il laccio
dell’imposta? Che c’è di più naturale e di più giusto che i lavoratori
ricorrano anch’essi al mezzo riconosciuto più efficace, al solo mezzo
che possa recare effetti immediati, e di cui hanno avuto tanti esempi
al di sopra di loro? Che se, avendo essi il numero, dalla loro azione
concorde ci viene un’inquietudine che l’azione degli altri non ci
desta, che colpa hanno essi d’essere in molti? È giusto il giudicare un
diritto non per sè stesso, ma dal grado d’apprensione che può destare
in noi chi lo esercita?

— Lasciamo andare il diritto. Quello che mi dà più pensiero è la
molteplicità, la simultaneità, la violenza dei moti, e l’esorbitanza
delle pretensioni, che rivelano un intento lontano, più grave assai dei
desideri presenti.

— Vediamo un po’. Le pretensioni saranno inopportune e eccessive in
certi luoghi e in certi momenti; ma non son tali da pertutto nè sempre:
non si può onestamente affermare il contrario. È la tendenza generale
nelle sue cause e nei suoi effetti generali che bisogna considerare.
Quando, fra cent’anni, si giudicherà con mente di storici il movimento
attuale, chi darà importanza al fatto che esso non sia stato opportuno
e ragionevole in tutte le sue manifestazioni parziali, che in alcuni,
e anche in molti casi e punti le richieste abbiano superato la
possibilità delle concessioni? E a chi non parrà naturale il fenomeno,
che ora si chiama _febbre_ o _contagio_, voglio dire quest’altro
fatto: che l’agitazione si sia propagata con troppa rapidità, che i
moti siano stati simultanei in una gran parte del paese, assumendo
una apparenza, e qualche volta anche un carattere inquietante? Ossia,
che ogni concessione giustamente ottenuta abbia destato intorno
cento speranze inappagabili, che in ogni parte si sia manifestata
una gran furia d’afferrare il momento che pareva più propizio, quello
in cui era lasciata per la prima volta alle moltitudini una libertà
relativa nell’esercizio dei diritti comuni, la quale esse temevano
ragionevolmente che fosse passeggiera come il Governo che s’arrischiava
a concederla?

Il cavaliere tacque un momento; poi rispose, corrugando la fronte: —
non temo le classi lavoratrici; temo chi le consiglia e le muove. C’è
un branco di mentecatti tristi che le hanno nel pugno.

— Ma no, amico; questo è il vostro errore capitale, cagione di tanti
altri errori: quello di credere, di voler credere a ogni costo che
pochi bastino a sommuovere delle moltitudini, a stornarle dal lavoro
per settimane intere, a spingerle incontro a pericoli e a danni, a
farle volontariamente digiunare e patire mille disagi. E perchè lo
farebbero? Dite: per acquistar popolarità. Ma è un gioco rischioso, in
cui la popolarità si può acquistare e si può perdere. Nella più parte
dei casi si perde, e si mette a cimento anche dell’altro. Ma se anche
fosse vero, se bastano veramente pochi a mover le migliaia, questa è
una prova indubitabile che la disposizione nelle moltitudini c’è, che
l’idea, il sentimento, l’impulso interno preesistono, e che quindi
prima o poi, in un modo o in un altro, anche senza quei pochi, il
movimento avverrebbe. In che illusione vivete! Anche i passati governi
dicevano dell’agitazione nazionale che gli agitatori, i colpevoli di
tutto eran pochi, e si cullavano nell’illusione che, sopprimendo quei
pochi, tutto si sarebbe quetato. E credi, amico, credi che non ultima
causa dell’irritazione delle classi lavoratrici è il sentirsi ripetere
eternamente quell’antifona, la quale, insomma, equivale a dir loro:
— Noi sappiamo bene che se un pugno di mestatori non v’istigassero di
continuo per fare il vantaggio proprio alle vostre spalle, voi sareste
incapaci di qualunque accordo fra di voi, di qualunque risoluzione
e azione collettiva diretta all’utile vostro: voi non siete che
un enorme pecorame umano, senza idee e senza volontà, che qualche
ciarlatano spinge di qua e di là a suo talento, ubriacandovi di parole
e d’illusioni. — Come volete che, al sentirsi dir questo, quando pure
sarebbero disposte a seguire i consigli di moderazione che anche dagli
agitatori molte volte ricevono, le moltitudini non siano tentate
a respingerli e a passar oltre, per provarvi che non sono mandre
incoscienti, ma folle d’uomini che pensano col loro cervello e vogliono
con la volontà propria?

Il cavaliere rimase silenzioso, stropicciandosi con le dita un orecchio.

— Vedi — riprese l’amico: — quello che ci fa guardare con animo
inquieto e ostile al movimento presente è il pensiero che in esso
sia un pericolo prossimo per il nostro superfluo, che noi ci siamo
assuefatti a considerare come necessario. Parlo del superfluo, non del
resto, perchè sarebbe insensatezza l’affannarci di quello che potrà
seguire nel mondo quando di noi non ci sarà più che cenere. Ora è certo
che il movimento non potrà aver buoni effetti per le classi lavoratrici
senza sacrifizi gravi della borghesia. Ebbene, persuaditi che questo è
giusto, e rassegnati fin d’ora a quei sacrifizi, rinunzia fin d’ora,
dentro di te, con volontà ferma, al tuo superfluo. Tu vedrai come ti
sentirai sollevato, come si chiarirà il tuo giudizio, con che occhio
diverso guarderai a quello che accade. Il movimento è giusto: ecco la
verità che ci dobbiamo fermare saldamente nella ragione e nel cuore.
La nostra classe, con la rivoluzione italiana, è stata portata su da
un’ondata che a noi parve d’un fiume fecondatore. Ora ci pare onda di
fiumana devastatrice quella che porta su le classi inferiori. E non
è: è un’altr’onda delle stesse acque benefiche. Cerca di metterti con
l’immaginazione in un atteggiamento benevolo verso quelle moltitudini
di cui l’ascensione si turba, e dico: con l’immaginazione del vero.
Fatti sempre presente al pensiero che manca a loro tutto quello che
rende a noi più cara l’esistenza: la soddisfazione del presente, la
sicurezza del domani, il godimento dell’intelletto, il senso della
libertà e della leggerezza della vita. Considera pure che in un tempo
lontano, quando, tenendo conto delle loro condizioni materiali e del
loro stato di cultura presenti, si farà un raffronto fra la vastità
del movimento attuale e il piccolissimo numero di casi di violenza che
l’hanno accompagnato, questo sarà argomento di grande maraviglia. In
fine, se tu non mi trattassi di predicatore, ti suggerirci ancora una
considerazione molto semplice: che sono nostro sangue, che ci son fra
loro i figliuoli delle migliaia che insanguinarono i nostri campi di
battaglia, che sono le ossa e la carne della nazione, anzi la nazione
medesima, in somma, poichè non solo essa non sarebbe senza di loro, ma
non ne potremmo neppur concepire l’esistenza.

Il cavaliere fece uno di quei gesti indeterminati, — coi quali si
scansa di dare una risposta.

— Andiamo, dunque —, rincalzò l’amico sorridendo, e mettendogli una
mano sulla spalla —, tu che sei manzoniano! Ricordati di quello che
dice il Cardinale a don Abbondio, rimproverandolo che la carne l’abbia
fatto tremar per sè, mentre la carità doveva invece farlo tremare per
gli altri: che di quel timore egli si sarebbe dovuto umiliare, che
avrebbe dovuto invocar la forza per vincerlo e che l’amore l’avrebbe
reso intrepido. — Ah! — gli dice — se v’avessero umiliato, offeso,
tormentato, vi direi d’amarli, appunto per questo: amateli perchè hanno
patito, perchè patiscono, perchè son deboli, perchè son vostri.

Il cavaliere continuò a star zitto per qualche momento; ma si sarebbe
potuto dir di lui quello che dice il romanziere del curato: che il
suo silenzio non era più quello di poc’anzi, che s’egli non sentiva
tutta la commozione che la predica voleva produrre, sentiva un certo
dispiacere di sè, una compassione per gli altri, un misto di tenerezza
e di confusione.

Non si diede per vinto però, e disse tutt’a un tratto, un po’
bruscamente: — Tu abbellisci ogni cosa.

— Non abbellisco — rispose l’amico — no. Abbellisce la verità chi ne
nasconde i lati spiacevoli. Questo io non faccio nè con gli altri nè
con me stesso. Io non mi dissimulo i guai, i dolori che porteranno
a tutti gli avvenimenti di cui vediamo il principio; prevedo dei
giorni tristi, dei conflitti lamentevoli. Ma guardo pure al di là
di questi, vedo i resultati lontani, uno stato di cose migliore del
presente. In questo pensiero mi conforto. Nel fatto, vedi, io sono
ancora un borghese come te, immobile in un atteggiamento di difesa.
Eppure v’è un recesso in fondo alla mia coscienza, nel quale, come
filosofo antiveggente e previdente nell’avvenire, già svincolato d’ogni
interesse personale del presente, festeggio di nascosto il mio primo
maggio.

— Ah, questo poi — esclamò scattando il cavaliere — io non lo farò mai!

— Non lo puoi giurare, mio caro. Nell’animo d’ogni uomo di cuore e
di buon senso c’è oramai un seme segreto di socialismo, che si può
negare, che si può comprimere; ma che resta e germoglia a nostro marcio
dispetto. Germoglierà anche nel tuo cuore.

— Ne dubito.

— Vedrai.

— Starò a vedere.

Il cavaliere stette un po’ sopra pensiero, e poi, rasserenandosi
all’improvviso, disse all’amico, tendendogli la mano: — Sia come si
sia, non ti nascondo che con le tue parole m’hai un po’ risollevato
l’animo. Che cosa vuoi? Vivo in un cerchio di buona gente che vede ogni
cosa a traverso agli occhiali d’una così maledetta paura!

— Ecco la mia prima vittoria! — esclamò l’amico, stringendogli la mano.
— Ti ho strappato gli occhiali.


Passano le tessitrici.

Nel momento che s’alzavano da tavola udirono il rumore confuso d’una
folla, che s’avvicinava.

Tutti corsero alle finestre e ai terrazzi; la padrona di casa
s’affacciò alla finestra più vicina, con una delle sue figliole.

Venivano innanzi, per una via diritta, le operaie tessitrici,
scioperanti da due giorni; varie centinaia di ragazze e di donne,
fra le quali si vedevano delle teste grigie; tutte in capelli, molte
scarmigliate e coi panni in disordine; gruppi serrati, come grosse
pattuglie, che gridavano parole incomprensibili; schiere di dieci o
dodici, che si tenevano a braccetto e cantavano a voce altissima; molte
scompagnate, che correvano avanti e indietro e rompevano qua e là la
colonna, gesticolando, come se diffondessero una parola d’ordine, e i
canti, le grida, i discorsi, le risa stridule facevano tutt’insieme un
frastuono tra di battaglia e di baccanale, che si smorzava a quando a
quando come nel mormorio sordo d’un fiume, e poi riscoppiava più forte.

Quando le prime furon tanto vicine da poterne vedere i visi accesi e
le bocche squarciate, la signora fece un passo indietro dalla finestra,
esclamando: — Che orrore!

In quel punto si vide accanto uno dei molti invitati, del quale le era
noto il nome da quella mattina soltanto: un amico di suo fratello, un
giovine alto e pallido, che durante il pranzo era stato quasi sempre
silenzioso, e che per questo, o per l’espressione severa e dolce del
viso, le aveva destato curiosità e simpatia.

Il giovine aveva udito la sua esclamazione.

— Infatti — disse pacatamente, con un sorriso —, non è quello l’aspetto
più gentile in cui si possa presentare il suo sesso, signora. Ne
convengo.

La signora rispose con vivacità: — Il mio sesso! Mi perdoni, signore:
lei coglie un brutto momento per farmi osservare che quelle son donne
al pari di me.

— È vero. Ma ci sono delle verità che è bene ricordare appunto nei
momenti in cui riescono più sgradevoli. Io le ho ricordato questa con
un’intenzione cortese: per attenuare in lei una impressione penosa.
Quelle donne sono infiammate da una passione. Una passione violenta è
come una lesione passeggiera del cervello, la quale produce effetti
consimili in tutti gli esseri umani, a qualunque classe sociale
appartengano. Vada a vedere, signora, in una Casa di salute a che cosa
una lesione del cervello riduce la dignità, il pudore, l’educazione, la
gentilezza delle più nobili dame.

— Ma quelle son pazze, signore!

— E perciò fanno mille volte peggio di queste. Ma neanche queste
sono nel loro stato normale, voglio dire in uno stato in cui si possa
giustamente giudicare la loro indole, il loro grado d’educazione, il
loro modo abituale di sentire e di vivere. Pensi un po’, in questa
folla che ci passa davanti, quante donne ci saranno, capaci di fare
i sacrifici più generosi per la loro famiglia, che si strappano il
pane di bocca per i loro figliuoli, che li allattano fra mille cure,
fatiche, privazioni, e quante altre, di quelle che non son madri,
faranno lo stesso.

— Questo lo so; ma non giustifica....

— Non dico per giustificare, signora; dico per rendere lei più
indulgente. Quelle che a lei più ripugna di vedere in codesto stato
di eccitamento scomposto, che paion briache, sono le ragazze. E a me
pure. Ebbene, quando le vedo così, io penso, guardandole, a quante di
esse hanno visto fin da bambine, forzatamente, i più brutti aspetti
della natura umana e del mondo, a quante prima dei vent’anni hanno già
avuto dalla vita delle delusioni tristissime, non confortate neppure
dalle distrazioni dello spirito e dagli agi materiali, che soccorrono
le ragazze infelici della nostra classe sociale; in quante è un vero
miracolo che si sia salvato dai contatti inevitabili della volgarità e
della brutalità umana la bontà dell’animo, l’affetto per la famiglia,
la sincerità dell’amore. E anche penso quanto saranno brevi in loro
la gioventù e la bellezza, e quante di esse, dopo aver perduto l’una
e l’altra, logorate innanzi tempo dal lavoro avranno una maturità
più travagliata dell’età bella, dei figliuoli poveri come loro, e una
vecchiaia abbandonata, che finirà all’ospedale. E allora, se è scappata
anche a me l’esclamazione che è uscita dalla sua bocca, signora, me ne
pento... e me ne vergogno, mi perdoni.

La signora non badò alle sue ultime parole: era tutta intenta alle
operaie, che s’erano arrestate sulla piazza, formando un vasto
assembramento, intorno al quale accorrevano curiosi da ogni parte.
Pareva che tenessero consulta sul dove dirigersi, o che aspettassero un
rinforzo d’altre scioperanti; alcune, nel mezzo, agitavano le braccia
come se arringassero le compagne, scoppiavano applausi, la folla si
rimescolava, il gridìo cresceva.

La signora fu presa da una viva inquietudine. — Chi sa che cosa stanno
macchinando, ora! — esclamò. — Ah, fortuna che ci sono ancora dei
soldati.

— È giusto — osservò il giovane con un sorriso leggermente ironico,
che essa non vide. — Pensi a quanti soldati daranno all’esercito tutte
quelle tessitrici.

La signora riattaccò il discorso interrotto. — Ma intanto —, disse
— lei che parla di tante virtù, perchè non sono al lavoro le sue
protette, invece di star qui a far baccano e a spaventar la gente?

— Andiamo, cara signora: supposto pure che siano qui per puro spasso,
bisogna convenire che si danno di questi spassi assai di rado, perchè
li pagan troppo cari. Vogliamo contare cinque giorni dell’anno?
Ebbene, pensi che in tutti gli altri trecento e sessanta, escluse
le domeniche, quando lei si sveglia, esse sono già al lavoro da due
ore; che quando la sera lei ritorna a casa a desinare stanca del suo
giro di visite, esse staranno ancora al lavoro altre due ore, e che
son lì, tutti i giorni, anche nei mesi che lei passa sul mare, o in
collina, o in montagna, e che la maggior parte, con dieci ore almeno
di fatica quotidiana, non guadagnano quanto occorre giornalmente a lei
per l’acqua da profumarsi. A lei, che è buona e ragionevole, non pare
scusabile che facciano del chiasso qualche volta per migliorare un po’
la loro condizione?

— Migliorare! — rispose la signora. — Ma quasi sempre.... Ma nel caso
presente, per esempio, hanno delle pretensioni esorbitanti; tutti lo
dicono; i padroni non possono; si dovrebbero ridurre sul lastrico, per
contentarle....

— Un momento, signora. Supponiamo pure che siano in errore, che abbiano
delle pretensioni inappagabili: il fatto è che esse non lo credono.
Ecco il punto. Credono fermamente che i padroni possano: facendo dei
sacrifici, si capisce. Come può pensare che, se non credessero questo,
farebbero quello che fanno, che, se stimassero impossibili ai loro
padroni le concessioni che loro domandano, vorrebbero, smettendo il
lavoro, costringerli a chiuder le fabbriche, e ridursi a perdere per
conseguenza anche quel pezzo di pane che ora si guadagnano? Dunque
sono in buona fede, dunque sono scusabili. E lo sono anche per un’altra
ragione. Esse vedono intorno a sè, in tutte le forme più appariscenti,
il lusso, la prodigalità, lo sperpero: capiscono vagamente che
tutto questo esce in grandissima parte dal lavoro delle classi a cui
appartengono: domandano che una parte maggiore del frutto del loro
lavoro rimanga a loro invece di convertirsi in superfluo per gli altri:
a chi hanno da rivolgere questa domanda se non a chi le fa lavorare?
Sbaglieranno; quei tali appunto a cui si rivolgono, nel caso attuale,
non potranno contentarle; ma sono pure i soli nei quali esse possano
fondare la loro speranza; se fanno male i conti, sono compatibili, e
anche se non credono al _non possumus_ che loro si oppone, perchè sanno
che è una risposta che si dà quasi sempre, e spesso anche dal ricco al
povero che gli chiede un soldo. Si lasci intenerire un poco, signora.
Basta un po’ d’immaginazione per questo. Pensi come debbono aver
mangiato stamani quelle donne, e a che tavola sederanno questa sera,
e domani; si raffiguri le loro povere case, la loro vita di tutti i
giorni, il centesimo lesinato, l’ansietà continua del giorno che verrà,
le sere eterne che passano ad aspettare con trepidazione il marito o il
padre che non torna, e i mille «no» dolorosi con cui debbono rispondere
ai mille desideri dei loro bambini, tentati nella grande città da tante
cose desiderabili, che essi credono fatte per loro come per gli altri.

— Io saprei sopportare tutti questi sacrifici, se la necessità me li
imponesse —, rispose con accento d’alterezza la signora. — Molte donne
della nostra classe li hanno affrontati coraggiosamente nel periodo
della rivoluzione nazionale.

— Lo credo di lei, e delle altre lo so. Ma convenga che chi non si
trova in tale necessità deve usare qualche indulgenza verso quelli
che vi si trovano, perchè tra il sentirsi capaci di patire e il patire
c’è qualche divario. E poichè lei mi ricorda i sacrifici fatti dalle
«signore» alla rivoluzione, mi permetta di dirle ancora una cosa.
È vero: molte, in quel tempo, hanno sopportato nobilmente povertà,
esilio, separazioni dolorose. Ma crede lei che esse e i loro mariti e
i figliuoli avrebbero fatto quanto fecero se avessero potuto prevedere
che, liberata e unificata la patria, il popolo sarebbe rimasto
perpetuamente nelle stesse condizioni materiali e morali in cui si
trovava allora? Non crede invece che li eccitasse sopra tutto all’opera
la speranza, anzi la certezza che con la libertà e l’unità nazionale
sarebbe cominciato un grande movimento d’ascensione delle classi
popolari verso uno stato migliore di vita, economicamente migliore
per prima cosa, poichè la miseria è il primo degli impedimenti a ogni
progresso civile? E crede che questo movimento d’ascensione, sperato
allora, considerato come l’ultimo e più santo scopo d’ogni lotta, e
desiderato adesso da quanti hanno cuore e ragione, perchè è giusto,
perchè è necessario, perchè è l’adempimento d’una legge del mondo,
crede lei che si produrrebbe se il popolo lavoratore, se queste donne
come tutti gli altri non chiedessero, non si accordassero per strappare
delle concessioni, non si agitassero a quando a quando per sferzare
l’inerzia delle classi superiori, per ricordarci le promesse dei nostri
padri, e anche per impaurire l’egoismo dei soddisfatti?

La signora non rispose.

— E non pensa pure, signora, che l’inquietudine che essi ci danno con
questi perturbamenti dell’ordine sia per la maggior parte di noi una
piccola espiazione dovuta del non aver fatto per loro quanto potevamo,
del non pensare a loro che quando vi ci costringono?

La folla delle scioperanti s’era riformata in colonna, e s’allontanava.
Un’operaia, che era rimasta indietro, passò sotto le finestre correndo,
per raggiungere le compagne. Era incinta.

— Anche quella! — esclamò la signora, accompagnando la sua corsa
faticosa e scomposta con uno sguardo nel quale, però, appariva un
sentimento più di pietà che d’avversione.

Il giovane le disse: — Sentiamo un po’, signora: sarebbe in collera
anche con lo scioperante che quella porta con sè?

— Con quello no —, rispose la signora con un sorriso che non potè
reprimere.

— Ebbene, non lo dev’essere nemmen con la madre perchè, sicuramente, va
a gridare con le altre non tanto per sè quanto per lui. Sia certa che
la spinge alla corsa l’illusione di sentir la sua voce che le dica: —
Va, mamma, va; fatti sentire: avrai forse un pezzo di pane di più, o
otterrai almeno di riportarmi a casa dalla fabbrica un’oretta prima.

La signora ebbe uno di quei movimenti involontari della bocca che
tradiscono una scossa del cuore; ma cercò di dissimularlo, e disse
vivamente, un po’ piccata:

— Ma sa lei che ha parlato come un socialista?

— No, signora —, rispose con dolcezza il giovane —, semplicemente come
un cristiano.


Una tempesta in famiglia.

La sera del sei maggio, la casa del cavalier Bianchini sfolgorava per
la solita festa dell’anniversario del suo matrimonio. Ma, come accade
spesso nelle famiglie, il ricevimento fu preceduto da una burrasca.
La signora aveva fatto un colpo di testa. Informata dal marito delle
nuove idee del figliuolo Alberto, dopo avergli promesso di serbare il
segreto, aveva creduto atto di alta saggezza l’andar di nascosto ad
avvertire il suocero «commendatore», affinchè venisse preparato al
ricevimento e, giovandosi dell’uditorio che avrebbe fatto eco alla
sua voce e rincalzato la sua autorità, ricondusse il giovane alla
ragione; e quella sera stessa, a desinare, aveva annunziato al cavalier
Bianchini il proprio tradimento con una così baldanzosa sicurezza
d’aver fatto bene, ch’egli ne era andato fuor dei gangheri. Quando il
buon Moretti, arrivato il primo, entrò nel salotto, col suo viso rosato
e ilare di vecchio ottimista, vide ancora il suo amico con una faccia
fremente, su cui si confondevano le vampe del Barolo e quelle della
collera, e la signora con l’aria altera e ostinata di chi ha difeso
tenacemente un’idea

Ma il Bianchini sperava ancora di scongiurare la battaglia a forza di
diplomazia. E si mise subito all’opera. Tirato da una parte il Moretti,
gli raccomandò, con viso grave, che non facesse, nella serata, cadere
il discorso sul _primo maggio_ e sulla questione sociale, perchè, su
quell’argomento, sarebbe potuto seguire un urto tra il suocero e il suo
figliuolo, che la pensavano diversamente.

— E perchè mai? — domandò il Moretti con meraviglia. — La discussione
fa la luce: finirebbero con intendersi.

— Ah! è impossibile! — rispose il Bianchini, e insistè, fin che quegli
promise.

Entrarono quasi ad un tempo Alberto e sua moglie, col piccolo Giulio,
e il vecchio dottor Geri — padron di casa — insieme col figliuolo
e col nipote: un ragazzo di sedici anni, che era scolaro d’Alberto.
Questi formavano una triade curiosa: somigliantissimi l’uno all’altro
nonostante le grandi differenze d’età: si vedeva che il ragazzo sarebbe
stato fra vent’anni il ritratto miniato del padre, e dopo altri venti
quello del nonno: erano una dinastia secca e fegatosa; tutti e tre
lunghi e un po’ curvi, tutti e tre sorridenti ad un modo, con la
contrazione facciale di chi si spazzola i denti. Il vecchio aveva un
viso scialbo e sbarbato, che pareva livido per effetto della parrucca
nera e degli occhiali affumicati; di sotto ai quali sporgeva un gran
naso, incurvato a becco sopra una bocca torta e inquieta, che rivelava
i sentimenti non manifestati dagli occhi sempre bassi e vaganti, come
se cercassero qualche cosa per terra. Tutti e tre risposero con lo
stesso sorriso acre alla cortesia festosa con cui furono accolti;
cortesia che il vecchio Geri, come padron di casa, scroccava, essendo
tirato a tal segno, che da anni il cavaliere Bianchini ordinava
e pagava di proprio ogni minima riparazione, per non spender con
lui parole inutili. La sua avarizia era proverbiale anche fuori di
casa sua. Non affrancava mai una lettera, non dava mai una mancia,
e d’estate, per le strade di Torino, quando arrabbiava dalla sete,
prendeva una limonata da mezzo soldo dagli acquaiuoli delle cantonate.
E non solo non faceva mai una elemosina, ma la vista d’un mendicante
lo esasperava al punto che, se avesse osato, l’avrebbe battuto. Aveva
esercitato in altri tempi la medicina, e poi smesso, perchè gli
era sfuggita tutta la clientela, a causa della sua indiscrezione.
Da anni tutte le gioie della sua vita si riducevano a quella di
esser padrone di casa. Per lui un padrone di casa era un cittadino
insigne e benemerito, una colonna dello Stato, che aveva diritto al
più ossequioso rispetto delle autorità e ai più delicati riguardi
della cittadinanza. Scriveva ogni settimana una letterina a qualche
gazzetta, firmata con le iniziali, per lagnarsi dei canti notturni,
dello strepito dei carri, delle trombe dei soldati, dello schiamazzo
degli scolari, di ogni cosa che potesse turbare la quiete del suo
«stabile». E ripeteva come un intercalare, interpretandola a modo suo,
la sentenza del Goethe, che non è un uomo degno davvero di questo nome
chi non ha fatto un figliuolo o piantato un albero o fabbricato una
casa. L’umanità, per lui, si divideva in padroni di casa e pigionali, e
questi erano d’una razza inferiore.

Appena i tre Geri furono seduti, il cavalier Bianchini fece loro a
bassa voce la stessa raccomandazione che al Moretti.

— Capiranno.... c’è dissenso di idee.... se si potesse evitare....

Il vecchio fece le meraviglie, il figliuolo sorrise, cercando con
gli occhi la signora Giulia, soddisfatto di scoprire un lato odioso e
ridicolo nel giovine professore che, per opposizione di natura, gli era
sempre stato antipatico. E stava per fare una domanda, quando entrarono
il Cambiari e sua moglie.

Entrò con loro come un soffio di salute e di buonumore. Quella bella
bruna rotonda, semplice e allegra, e quel pezzo d’uomo dal viso aperto,
sul quale s’univan la bontà, l’intelligenza e l’astuzia, tutti e due
pieni di vita e di parlantina, erano l’immagine della loro casa: una
casa di onesti chiassoni, affollata di figliuoli e figliuole d’ogni
statura, dove si recitava, si ballava, si correva in bicicletta per
le camere, si andava a letto al tocco di notte e si mangiava a tutte
le ore, senza che alcuna contrarietà o piccola disgrazia scolastica o
domestica interrompesse mai il corso delle visite, dei pranzi, delle
scampagnate, in cui si profondeva ogni anno quanto c’entrava. E in
mezzo a quella babilonia il Cambiari lavorava di forza e con fortuna,
smarrendo e ritrovando conti e disegni fra i balocchi e i giornali di
mode, sonando il piano nei ritagli di tempo, schiassando con la prole,
leggendo un po’ di tutto da letto e corteggiando per spasso le amiche
di sua moglie, la cui ridente spensieratezza e ingenua ignoranza di
bella e buona baliona gli rallegravano la vita.

Scambiati i saluti, il cavalier Bianchini condusse in un canto il
Cambiari e gli fece la raccomandazione. Quegli sorrise da prima: poi si
mise sul serio, per cortesia. Certo, il genero e il suocero erano due
teste da non dover lasciar che cozzassero in una quistione di quella
natura. Egli domandò se Alberto fosse sempre fermo nelle sue idee. Il
Bianchini gli rispose di sì, risolutamente, e soggiunse piano:

— E ha ragione! Io son con lui! Sono anch’io per la verità e per la
giustizia!

Il Cambiari lo fissò, sospettando che fosse brillo. Ma il Bianchini gli
voltò le spalle per andare incontro al signor Luzzi e alla sua signora,
che entrò con uno slancio di ballerina.

Il Luzzi e sua moglie erano la coppia più bizzarra della compagnia.
Lui era vicedirettore d’una Società d’assicurazioni, una figura
mingherlina di scolaretto infrollito, mezzo calvo, con due occhietti
di topo, e due minuscoli baffetti neri, che parevan segnati sulla
pelle con sughero bruciato; un viso su cui mostrava un’astuzia che non
aveva, dandosi l’aria di pensare, di sapere, di capire molto di più
che in realtà non facesse. Non si poteva indovinare quanti anni avesse
di là dai quaranta. Passava per un’autorità nella sua professione,
perchè dedicava tutto il suo tempo a escogitare progetti di riforme
amministrative della Società, studiando gli ordinamenti di tutte le
società assicuratrici dell’universo; progetti che eran presi sempre
in grande considerazione, e non attuati mai. Si diceva che avesse una
fortuna; ma egli lo negava risolutamente, con un sorriso sfuggevole.
E parlava pochissimo; ma, fingendosi raccolto nei suoi pensieri, non
perdeva una parola di nessuno.

Nessuno capiva come si fossero appaiati lui e sua moglie, che era
una brunetta ardita di trent’anni, con due occhi che bruciavano,
con un neo graziosissimo sulla guancia sinistra, con un corpicino di
ragazzetta precoce, somigliante a quelle elastiche donnine giapponesi,
che s’appallottolano e s’acchiocciolano così bene sulle stuoie delle
sale e sulle ginocchia del marito, e vestita sempre con un’eleganza e
un gusto perfettamente conformi alla sua bellezza minuta e irrequieta,
tutta guizzi e scatti e capricci che mettevan voglia d’afferrarla. E
con questo mostrava una serietà così intelligente, quando voleva, che
un uomo di Stato le avrebbe parlato di politica come a un provetto
giornalista. Da due soli mesi suo marito era stato trasferito da
Venezia a Torino, dove la signora Giulia aveva riconosciuta in lei
un’antica compagna di collegio, perduta di vista da più di vent’anni;
ma ricordata sempre fra altre cento come lo spirito più turbolento e
più ribelle della scolaresca.

Colto un momento opportuno, il cavaliere Bianchini fece la
raccomandazione al signor Luzzi, nell’orecchio. Costui, senza
guardarlo, strizzò un occhio. Poi gli domandò in tono di compatimento:

— E anche lei, cavaliere, è uno di quelli che credono che esista una
questione sociale?

Il Bianchini rispose gravemente:

— Esiste.

E l’altro:

— È un’allucinazione della borghesia. — Nondimeno promise di tacere.

Dopo questo, andato a raccomandar un’ultima volta la prudenza al suo
Alberto che lo rassicurò, il cavalier Bianchini si soffermò in mezzo
al salotto e girò uno sguardo soddisfatto sulla bella compagnia; fra la
quale durava ancora il baratto dei saluti e dei complimenti con quella
strascicata e verbosa cortesia borghese, che è la contraffazione della
gentilezza aristocratica. Si vedeva però, e si sentiva che mancava
qualcuno, l’invitato più cospicuo, un personaggio tenuto da tutti, in
coscienza o per compiacenza, in gran conto, e da tutti designato con lo
stesso titolo: il Commendatore.

— Verrà il commendatore?

— Non c’è ancora il commendatore?

— Quando avremo il commendatore?

La cameriera annunziò ad alta voce:

— Il signor commendatore!

Entrò prima la signora Paola, una nanetta vestita di scuro, con la sua
aria timida e dolce di buona divota, e la sua inseparabile croce d’oro
appesa al collo, e poi la faccia larga del commendatore, coi baffi
alla Bismarck e i capelli grigi ravviati ad arco sulle tempie: un gran
vecchio solido e pulito, che poteva riuscir simpatico a chi non notasse
l’espressione di durezza che aveva sulla bocca un po’ ricascante dai
lati, e una luce indefinibile che gli brillava a fior d’occhi, non
derivata di dentro, simile al riflesso delle palle di vetro. Si vedeva
che era venuto di mala voglia, per puro dovere di parente.

Alberto, che non lo vedeva da più giorni, andò tra i primi a porgergli
la mano, che egli strinse col suo fare solito, come un direttore
generale a un giovine impiegato. Quando tutti l’ebbero riverito,
rimase in un canto coi due Geri, gli altri sedettero un po’ da tutte
le parti, e incominciò un vivo cicalìo, il solito scambio di domande
che non chieggon risposta, di risposte non udito da chi le ha chieste,
di racconti incominciati e non finiti, attraversati e rotti da altri
discorsi smozzati, da risatine di signore, da esclamazioni di finto
stupore e di finto piacere, da quel palleggio di riempitivi, di
ripetizioni, di tritumi di frasi e di pensieri, che si fa in tutte
le riunioni, prima che siano avviate le conversazioni particolari.
E questo cicalìo continuò fin che i padroni di casa invitarono gli
ospiti a passare nella sala da pranzo, dove ogni anno, quella sera,
era preparata loro un’improvvisata che s’aspettavano. Era, sotto
una illuminazione da altar maggiore, una mostra appetitosa, in cui
fra i mazzi di fiori e le torricelle di confetti s’alzavan le punte
variopinte dei gelati, i colli scintillanti delle bottiglie, le
piramidi odorose dei mandarini, sparso ogni cosa con arte su varie
tavole, in mezzo a uno sfoggio di maioliche, d’argenteria e di
cristalli, che, al primo entrar nella sala, faceva passare un lampo
d’alterezza negli occhi ai due coniugi, concordi in quell’unico
sentimento.

Qui la società, si divise in gruppi, secondo le affinità elettive:
sul sofà più grande, addossato a una parete, le signore giovani e la
ragazza; sur un sofà d’angolo, la padrona di casa e la signora Paola,
col Moretti, fido cavaliere delle vecchie signore; dalla parte opposta
il commendatore coi suoi due Geri; gli altri uomini, ritti accanto
alla gran tavola del mezzo; i due ragazzi sul terrazzino. Era una
bella serata; dagli alberi della piazza veniva una buona fragranza
di fogliame fresco, e le facciate delle case attorno, imbiancate
dalla luce elettrica, facevano alle finestre aperte un lontano sfondo
teatrale, che accresceva la gaiezza della sala.

I vassoi erano già a mezzo sparecchiati e le conversazioni parziali già
avviate da un pezzo, e nessun discorso s’era inteso che accennasse a
quello pericoloso: il cavaliere Bianchini si cominciava a rassicurare.
E ne aveva una viva soddisfazione d’amor proprio, perchè, infine, era
lui, lui Antonio Bianchini, che con la sua saggia politica, con la
eloquenza delle sue raccomandazioni, gravi di profondi significati,
aveva ottenuto il grande scopo. Gli restava un vago timore: che il
commendatore assalisse, anche non provocato; ma dal viso non gli
pareva, e udendo che ragionava della gran quistione della fognatura di
Torino, che era una delle sue intestature, scacciò anche quel timore, e
se n’andò, tutto sereno, a dir barzellette alla signora Cambiari.

Alberto, dal canto suo, risoluto di mantenere la promessa fatta
alla moglie, di non attaccare il lucignolo il primo, non era neanche
scontento d’essere lasciato in pace. E discorrendo d’affari di scuola,
in mezzo alla sala, col Cambiari e col Luzzi, osservava tratto tratto
la moglie di questo, che gli destava ancora la curiosità d’una persona
nuova, non avendo, nei due mesi da che la conosceva, scambiato con lei
che qualche parola.

Ma, a un certo punto, continuando il suo discorso, egli colse a volo
una frase del suocero che discorreva coi Geri:

— Chiunque fa sperare un miglioramento alle classi povere per altra via
che quella della moralità e dell’educazione, le inganna.

Alberto s’interruppe, e disse piano al Cambiari e al Luzzi:

— È il solito giro vizioso. L’educazione non è possibile senza un certo
grado di prosperità materiale, perchè non c’è moralità che resista alla
prova prolungata del bisogno. È come voler curare un malato con una
medicina che non può inghiottire.

— Certo — disse il vecchio Geri, rispondendo al commendatore — la
moralità è nel lavoro.

Alberto scrollò una spalla e mormorò:

— Nel lavoro umano, non nel lavoro che abbrutisce.

Il suocero rispose al Geri:

— È provato, d’altra parte, che c’è dieci volte più poveri per vizio
o per indolenza che per sfortuna. Le statistiche son là. E quel tanto
di povertà che deriva dalla sfortuna non è in potere degli uomini di
toglierlo appunto perchè non è causato da loro. È una verità antica
come il mondo.

— E così il problema è risolto — disse Alberto un po’ più forte.

A quelle parole, il cavalier Bianchini s’avvicinò, col viso del
contadino che vede una minaccia di gragnuola all’orizzonte.

Il commendatore, che aveva sentito, si rivolse direttamente al giovane,
e gli disse con accento autorevole:

— Non è risolto perchè non è risolvibile, caro il mio professore.
Nessuna riforma potrà mai fare che la maggioranza degli uomini non
sia condannata a un lavoro duro e poco pagato. La povertà del maggior
numero è un male costituzionale, cronico, della società; è l’effetto
d’una legge sociale a cui è assurdo di ribellarsi.

A quelle parole, dette con la sicurezza di non aver ribattuta, tutti
tacquero, fiutando una battaglia.

— Non è effetto d’una legge — rispose Alberto; — ma di _leggi_.

— E sia pure, di leggi! Ma di leggi naturali del mondo economico,
altrettanto fisse e immutabili quanto quelle del mondo fisico.

— Fisse? — domandò Alberto, correggendo con l’accento rispettoso
l’irriverenza della forma interrogativa — immutabili?... Perchè? Senza
dubbio, sono fondate su fatti; ma questi fatti sono forse necessità
da potersene dedurre dei principii assoluti? I fatti mutano: possono
dunque mutar le leggi che vi si fondano.

Il commendatore sorrise.

— Sogni! — disse poi. — Non muta, non muterà mai il fatto principale,
che la vita dell’uomo è una guerra permanente contro tutto e contro
tutti, che la fortuna è dei vincitori, e che tutti non possono vincere.
La sola cosa a farsi è di mantener libera, com’è ora, la concorrenza,
che è l’anima d’ogni progresso. Non negherai questo, voglio sperare.

— Mi scusi — rispose Alberto — lo nego.

Il commendatore dilatò gli occhi.

— Non c’è libertà di concorrenza — proseguì il giovane — dove le forze
sociali non sono a disposizione che d’un piccolo numero; e non ci può
essere fin che non siano parificate fra tutti i membri della società le
condizioni iniziali della lotta.

— Le fa forse pari la natura?

— No; ma non si tratta di sopprimere gli effetti delle disuguaglianze
che fa la natura, si tratta di sopprimere le disuguaglianze esistenti
fin dalla nascita fra quegli uomini che la natura ha fatto eguali.

— Queste son legate a quelle, e se anche si potessero sopprimere,
rinascerebbero necessariamente.

— No, quando non fosse possibile altra proprietà che quella che è
frutto del lavoro personale.

— Alla buon’ora! — esclamò il suocero, con una risata, alzandosi da
sedere. — La soppressione dell’eredità! A questo sei già arrivato!
Accetta le mie sincere congratulazioni.

Prima che il figliuolo avesse tempo di rispondere, il cavalier
Bianchini si mise in mezzo, e con un sorriso che tradiva l’affanno,
palpando il petto ad Alberto e rivolgendosi al commendatore:

— Nessuna discussione — disse — nessuna discussione. I giorni di festa
non si discute. Questa sera comando io. Se sento ancora una parola,
spengo i lumi e sciolgo l’assemblea.

I disputanti si chetarono, voltandosi ciascuno a dire le proprie
ragioni al suo crocchio, mentre ripigliava il cicaleccio generale. Ma
tutti e due avevano il viso mutato, e sorridevano con uno sforzo, un
po’ ansanti. Si capiva che, tra poco, avrebbero incrociato i ferri da
capo.

Il dottor Geri, intanto, la riprese subito per conto suo col
commendatore e col proprio figliuolo. Per lui non c’era altro rimedio
ai mali sociali che nel mettere un limite alla moltiplicazione della
specie, con tutti i mezzi possibili, che egli conosceva e accettava
tutti, anche i più duri e ributtanti. Tutte le altre proposte gli
facevano pietà. Era un’idea fissa, che gli era stata trasmessa, come
un «tic» ereditario, da suo padre medico, il quale aveva conosciuto nel
1830 il Malthus, quand’era professore d’economia politica a Haileybury,
e s’era entusiasmato della sua persona e della sua teoria. Per lui il
Malthus era uno dei più grandi benefattori dell’umanità. E lo nominò
dieci volte in trenta parole.

La signora Cambiari, alla quale quasi tutti i nomi celebri riuscivan
nuovi, stupita e contenta di conoscer quello, si voltò verso il vecchio
Geri e gli disse ad alta voce:

— Ah! Malthus! Quello che non vuol più bambini?

Tutti risero, perfino il Geri. Ma subito si rifece serio e ripigliò il
suo discorso:

— L’avvenire è per la sua dottrina. Quando il basso popolo ne sarà
persuaso e la metterà in atto, il mondo sarà mutato.

— Ah, signor dottore! — disse la signora Luzzi — non parli di quel
tristo prete, un misantropo, nemico dell’amore, un uomo brutale e
ripugnante.

Ma il vecchio Geri non discuteva con le signore. E continuò:

— Frenare la produzione degli affamati, non c’è altro. Tutti i nostri
mali derivano dall’essere in troppi a voler star bene.

Il Moretti saltò su dall’angolo opposto della sala, gridando con la sua
voce di galletto:

— No, signor dottore! Non c’è un uomo solo di troppo sulla terra! Ogni
uomo è produttore! Tre quarti della terra sono incolti per mancanza
d’uomini!

Il Cambiari disse:

— In nessun paese s’è mai verificata la teoria delle due progressioni.

Il Moretti rincalzò:

— E poi, col moltiplicarsi degli uomini, si moltiplicano, e più presto,
le piante e gli animali che li alimentano.

E Alberto soggiunse:

— Migliorate le condizioni economiche delle classi inferiori e saranno
meno prolifiche per la stessa ragione che lo son meno le altre classi.

Il dottor Geri fece un segno di compatimento a tutti e tre, e domandò
in aria di dubbio ad Alberto:

— Conosce lei la teoria del Malthus?

Alberto si piccò.

— La conosco — rispose — e mi pare una teoria molto comoda per
dimostrare che la miseria è inevitabile e salvare il nostro egoismo da
ogni rimprovero della coscienza.

— Queste sono ragioni di sentimento — ribattè il dottore. — Il fatto
innegabile è che per far aumentare i salari dei lavoratori non c’è che
diminuire l’offerta delle braccia. Questa è matematica. Che altro mezzo
propone lei?

Il commendatore lo toccò col gomito, e gli disse con ironia:

— Ma non l’ha già detto, che il mezzo è l’abolizione della proprietà?

Alberto si voltò, punto sul vivo, e rispose:

— Loro dicono abolizione della proprietà come direbbero abolizione
della luce, o qualche altra cosa soprannaturale e impossibile. Ma
questa divina proprietà non è esistita sempre nè da per tutto. Come
la società l’ha istituita, la può togliere, o piuttosto, trasformare;
chè infatti non si tratta di altro. La forma della proprietà non è
forse in stato di variazione continua? Tutte le forme di essa, che
ora ci paiono più strane, esistettero, e ne esistono ancora degli
esempi. La proprietà ha seguito le trasformazioni della produzione.
Ora la produzione è diventata collettiva e la proprietà dei mezzi
di produzione è rimasta individuale. Di qui tutti i mali e tutti i
disordini. E questi non cesseranno che quando cesserà l’antagonismo che
li produce.

— Parole sonore e vuote come i tamburi, — replicò il suocero. —
E tu credi che nello stato attuale della civiltà sia possibile lo
svolgimento della personalità umana, l’ordine della società e il buon
assetto della famiglia, senza la proprietà?

— È indispensabile la proprietà a questo fine, secondo lei?

— E chi può dubitarne?

— E allora, come non trova giusto che i sette decimi della popolazione,
che lavorano e non hanno proprietà nessuna, ne vogliano la loro parte?
Ciò che è im-pos-si-bi-le a ottenere senza far la proprietà collettiva?

Il suocero fece un atto di commiserazione, alzando gli occhi alla vôlta:

— La proprietà collettiva! Dei del cielo! C’è ancora qualcuno che ne
parla sul serio? Io credevo il collettivismo sotterrato e decomposto da
un pezzo!

Alberto fece per rispondere; ma il Geri figlio, col suo sorriso
sprezzante, prendendo la parola la prima volta, lo prevenne con
l’argomento solito:

— Un momento.... Tolta la proprietà individuale, che è quanto dire la
speranza di arricchire, mi dica lei: dove sarà lo stimolo al lavoro?

— Scusi, — rispose Alberto, con freddezza — la grandissima maggioranza
dei lavoratori d’adesso è la speranza d’arricchire che li stimola
al lavoro? E i centomila impiegati, che mandano avanti tutte le
amministrazioni piccole e grandi, lavorano per arricchirsi?

Il Geri scrollò il capo.

— Ma al lavoro libero, a quello dei più intelligenti della nostra
classe, che lavorano il doppio del dovere d’ogni onest’uomo, e
unicamente per far fortuna, che stimolo rimarrebbe?

— Ma se hanno coscienza di fare un lavoro utile alla società....
No, questo è un tasto che non suona. Le dirò invece: Crede lei che
l’eccesso d’attività che quelli spiegano ora per far fortuna vada tutto
a vantaggio della società? Non conta per nulla tutte le birbonate che
per far fortuna si commettono? e il danno che si fa agli altri? e la
vita arrabbiata che si conduce? e la corruzione che si semina?

Il Geri scambiò uno sguardo e un sorriso col commendatore; ma prima che
rispondesse entrò di mezzo il Moretti, dicendo:

— Un’obiezione capitale, caro amico, capitale. Lasciamo da parte il
lavoro meccanico. Io domando che stimolo avrebbe il più difficile, il
più prezioso, il più benefico dei lavori, quello degli inventori!

— Ma signor Moretti! — esclamò la signora Luzzi dal suo sofà. — Non si
dice anche adesso che tutti gli inventori muoiono all’ospedale?

Molti risero. Alberto guardò con curiosità la signora; poi disse:

— A lei, signor Moretti, risponda. — Ma mentre questi cercava la
risposta, il commendatore, irritato che al giovane rimanesse anche
solo un’apparenza di vittoria, gli andò a piantar davanti la sua mole
maestosa, con l’aria di volerla far finita, e fra l’attenzione di
tutti, che aspettavano il colpo di grazia, gli domandò:

— Dunque tu sei per lo Stato collettivista?

— Sì — rispose Alberto.

— Sei per lo Stato che sopprime l’industria e il commercio privato, che
resta solo e unico proprietario di tutto ciò che regola i prodotti,
che tiene in bilancia tutti gl’interessi, che governa la vita e il
progresso d’un popolo come il cammino d’una mandra di pecore? Dimmi
questo soltanto. Dimmi se hai mai pensato, almeno per un quarto d’ora,
all’assurdità di questo Stato prepotente e strapotente, che avrebbe
bisogno, per funzionare, d’un sistema burocratico appetto al quale il
nostro è un congegno da bambini, e che riprodurrebbe centuplicati tutti
i difetti e gli errori di lentezza, di imprevidenza, di confusione, di
spreco che già si rimproverano allo Stato attuale? Dimmi se hai pensato
a questo, perchè io sappia se debbo continuare o no a ragionare.

Dando uno sguardo intorno prima di rispondere, Alberto vide sua moglie
col capo basso, come già vergognata della cattiva figura che egli stava
per fare: n’ebbe dispiacere e ne prese animo.

— Stia tranquillo — rispose — potrà continuare a ragionare. Lo Stato
che lei ha definito non è quello del socialismo. Loro giudicano questo
da quello, come se l’uno non fosse che l’altro ingrossato, e qui è
l’errore. Lasciamo pur stare che neanche ora lo Stato fa tutto male,
come non fa tutto bene l’iniziativa privata; che se non fa sempre
bene, non è almeno interessato a far male, come i privati son troppo
spesso, e che se bene non può fare in molte cose è perchè, fuor della
classe privilegiata di cui è in mano e che lo sfrutta, non trova, per
questa ragione appunto, che diffidenza e ribellione. Lasciamo anche
stare che, con tutta la vostra tenerezza per la libera concorrenza, voi
invocate l’intervento dello Stato per sopprimerla ogni volta che avete
un interesse di classe da salvare, e che è assurdo il parlare di libera
concorrenza quando ogni industria non si sviluppa che accentrandosi,
ossia creando un monopolio. Ma è una fiaba che il socialismo voglia uno
Stato onnipotente, un autoritarismo senza limiti. Il socialismo vuole
uno Stato che serva la nazione, non che governi nel senso d’ora, che
sia subordinato alla società, non che la domini. E non ha da essere un
organismo prefisso e immobile, ma una forza d’organizzazione che si
perfezionerà semplificandosi, ripartendo la propria azione in organi
secondari, in corpi di governi locali, in un gran numero di meccanismi
inferiori, i quali si formeranno per necessità, a poco a poco, sotto
l’impulso del nuovo principio a cui sarà informata tutta la vita
sociale.

— «Fata viam invenient» — disse il Cambiari.

Il commendatore voltò verso l’ingegnere il sorriso compassionevole che
aveva preparato per il genero, e gli disse:

— Signor Cambiari, avrebbe anche lei perduto il bene dell’intelletto?

— Ma no — rispose questi tra il faceto e il serio, con l’aria di chi
gode a soffiar nelle dispute. — Trovo giusta l’idea d’Alberto, che
per l’organizzazione della Società, come i socialisti la vogliono,
si debba anche tener conto della cooperazione dei fatti. Mi permette
d’esprimer tutto il mio pensiero? L’edifizio futuro si costruirà come
si è costrutto il presente, che fu tirato su ed accomodato a poco a
poco dalle generazioni, secondo i loro bisogni, che mutavano, e secondo
le norme successive dell’esperienza. Non si può quindi giudicare fin
d’ora quello che sarà per l’appunto lo Stato socialista, nè pretendere
che qualcuno lo dica. Si vedrà. — E soggiunse, accarezzandosi il mento:
— Sapeva la borghesia francese dell’89 che governo avrebbe costituito?
Voleva il potere politico per fare i suoi affari a comodo suo; ma non
prevedeva nemmeno la repubblica, non prevedeva nemmeno che cosa sarebbe
stato la sua costituzione economica. — E non essendo guardato dal
commendatore, mise fuori due dita di lingua.

Quegli lo fissò, quand’ebbe finito, e disse, dondolando il capo:

— Lasciatevi dire una cosa: mi fate pietà tutt’e due. — E voltò
le spalle; mentre il Cambiari si stropicciava le mani, come chi ha
fatto uno scherzo ben riuscito, e il cavalier Bianchini rivolgeva un
atto supplichevole al figliuolo, perchè tacesse. Questi acconsentì
mordendosi le labbra. Ma il vecchio Geri tornò all’assalto.

— O mi dica un po’, signor professore? — disse con voce dottorale. —
Tutte le istituzioni sociali, proprietà, famiglia, stato, religione,
son legate fra di loro intimamente; non si può toccare l’una senza
toccare l’altra: che cosa farà della famiglia?

— Sì, sentiamo — dissero altre voci — che cosa farà lei della religione
e della famiglia?

E il Geri giovane, dando un’occhiata alla signora Giulia, soggiunse:

— Avrebbe in proposito le idee di Maria Zara?

Quasi tutti risero.

— Che orrore! — esclamò la signora Giulia.

La vecchia Bianchini fece un atto di ribrezzo. Non avevan mai
letto nulla di lei; ma sapevano chi era, una specie di petroliera,
un’apostolessa e praticante dell’amor libero, la ganza di tutto
il partito, una donna da non nominarsi fra gente per bene. La sua
reputazione era così orribile che Alberto, benchè la sapesse una donna
onestissima e immensamente buona, non s’attentò neppure a difenderla.

— Che cosa farà lei della famiglia? — domandò di nuovo il dottor Geri.

Alberto non aveva ancora idee ferme su quell’argomento, che era il
più pericoloso di tutti; ma capì che non poteva ceder su quello, senza
lasciar il sopravvento agli avversari anche negli altri.

— Non creda di sgomentarmi con questa domanda — rispose, ostentando
sicurezza d’animo.

— Neanche la famiglia non è una istituzione immutabile: si modifica e
progredisce col progredire della società; col mutarsi della condizione
sociale della donna. Questa è molto mutata dal passato, anche lei lo
deve riconoscere. Ora, come la famiglia d’oggi non è più quella del
medio evo, così essa assumerà necessariamente un’altra forma quando la
donna sarà affrancata dalla servitù economica e avrà tutti i diritti
dell’uomo.

S’alzò un grido di protesta.

— Le idee di Maria Zara! — esclamò il Geri figlio.

— E di Luisa Michel! — gridò il suocero. — Ora farai l’apologia degli
orrori della Comune!

— Eh, lasciamo stare gli _orrori_! — rispose Alberto, cominciando a
irritarsi. — In servigio di tutte le cause si commisero degli orrori:
la religione ebbe i roghi e la tortura, e la difesa della proprietà
male acquistata fu sempre più feroce che gli assalti della fame.

— Ma se lo dicevo — gridò il commendatore — che avresti anche difeso i
fucilatori dei prigionieri!

— Non è vero! Io non difendo nè chi ammazza i prigionieri in nome della
rivoluzione, nè chi li macella in nome dell’ordine.

— E non fai differenza fra gli uni e gli altri! — ribattè il suocero,
scoppiando.

Qui s’intromise da capo il Bianchini padre, supplichevole, e con lui
la signora Giulia e la sorella d’Alberto, accarezzando l’uno e l’altro
e sospingendoli dolcemente da due parti opposte, fin che il cerchio
si spezzò in vari gruppi, e la battaglia si ruppe in una serie di
scaramucce.

Vicino alla finestra, nacque una discussione intorno alle condizioni
degli operai fra il dottor Geri, il Cambiari e il Moretti, ai quali
s’aggiunse la signora Luzzi. Il dottor Geri affermava che i salari
erano aumentati in proporzione dei prezzi delle derrate.

— Questo vorrebbe dire — osservò il Cambiari sorridendo — che siccome
erano scarsi prima, sono insufficienti anche adesso.

— Il pane è ribassato.

— Ma è rincarata la carne.

— È scemato il prezzo del riso.

— Ma son rincarati il vino, l’olio, lo zucchero, il caffè.... lo
spirito....

— E le pigioni, signor dottore? — domandò la Luzzi.

— Ma che pigioni! — rispose il dottore. — Badiamo ai fatti generali. Il
fatto è che gli operai vestivano di grossa tela, ora veston di panni;
che andavano a piedi nudi, e ora portan le scarpe, e sono alloggiati
meglio d’una volta. Oltredichè godono dei vantaggi comuni della civiltà
progredita: strade ferrate, gas, luce elettrica, acqua potabile,
giardini pubblici, musei aperti a tutti. Conta per nulla lei tutto
questo?

— Ma questi vantaggi li pagano con le tasse.

— O che tasse paga chi non ha quattrini?

— Ma come! Non sa che ogni operaio che guadagni tanto da vivere paga il
venti per cento del suo salario in tasse indirette?

— Ma che venti per cento! Si sa come si fanno questi calcoli.... E poi
consideri le case operaie, gli istituti ospitalieri, i bagni popolari,
la maggior igiene, che diminuisce le malattie infettive. Una volta eran
decimati dal vaiolo....

— Già — disse scherzosamente la Luzzi. — Come osano di lamentarsi? Son
vaccinati!

Fu una risata. Alberto, sopraggiunto in quel momento, le disse:

— Brava, signora Luzzi! Val più una delle sue bottate che tutti i
nostri ragionamenti.

La discussione continuò; ma da qualche minuto il Cambiari s’era
staccato dal gruppo e discorreva con la signora Paola, seduta accanto
alla madre d’Alberto; questa sdegnata, quella stupefatta e quasi
tremante per la disputa che aveva ascoltato. L’ingegnere finiva
di confonderle la testa dicendole che il socialismo non era che
la risurrezione del cristianesimo, e citandole cardinali e vescovi
tedeschi, inglesi e americani che avevano espresso idee socialiste.

— Ah! non è possibile — rispose la signora. — Non scherzi su questo
soggetto, signor ingegnere!

— Come, non è possibile? Ma, cara signora, sono fatti sacrosanti. E i
padri della chiesa? Lei rispetterà i padri della chiesa. Ebbene, San
Clemente ha detto che «tutto dovrebbe appartenere a tutti», San Basilio
ha detto che «il ricco è un ladro», San Giovanni Crisostomo che «tutti
i beni dovrebbero essere in comune».

La signora lo guardò; poi scosse la testa.

— Ma non avran detto proprio così. Lei m’ha l’aria d’inventare. Se il
mondo è com’è, è perchè il Signore vuole che sia così. Se Sua Santità
benedice anche i ricchi, vuol dire che la ricchezza non è una colpa.

— Sua Santità? Ma Sua Santità è un socialista dichiarato. Non sa che
in una sua pastorale, quand’era vescovo di Perugia, ha detto che gli
operai sono «sfruttati da una cupidità senza viscere»?

— L’avrà voluto dire in un altro senso. Lei si vuol burlare di me. Che
gusto ci ha a tormentarmi?

— Ma no, lei vedrà.... finirà con diventare anarchica. — E le parlò
del suo famoso anarchico, il Baldieri, che aveva un libro terribile
di propaganda tutto fatto con frasi delle Sacre Scritture, e che a
sentirlo parlare, alle volte, pareva un sacerdote sul pergamo.

— Ah! che profanazione! E lei sta a sentire di questi orrori?

E si voltò a chiedere soccorso alla signora Bianchini. Ma questa s’era
avvicinata a un crocchietto dove il Geri figlio, ridendo, ma schizzando
bile dagli occhi, metteva in burletta lo Stato collettivista:

— .... E così avremo lo Stato muratore, fabro ferraio, calzolaio,
contadino, filatore, stampatore, impresario d’omnibus e di tranvai. Il
debito pubblico sarà trasformato in «titoli di consumazione» e invece
della moneta si avranno i «buoni di lavoro». Non fo celia, signori
miei. Sono profezie stampate. E siccome i valori delle cose non saranno
più determinati che dal tempo necessario a farle, così, vedete, non si
comprerà più, per esempio, un soprabito da cento lire, ma un soprabito
da cento ore; si comprerà tre quarti d’ora di sapone, un quarto d’ora
di spago, cinque minuti di zolfanelli. E le fatiche più penose essendo
le meglio retribuite, un’ora di lavoro alle fogne frutterà quanto due
ore di lezione d’un professore di letteratura. E non più proprietà
privata. Ciascun italiano sarà proprietario d’un trenta milionesimo
della proprietà nazionale. Non ci sarà più nè mercato, nè borsa, nè
pigioni di casa, nè lusso, nè servitori, nè serve: la cucina sarà
un’istituzione sociale....

Gli uditori ridevano. Ma egli tacque vedendo avvicinarsi Alberto, che
l’aveva inteso, e si guardarono l’un l’altro nel bianco degli occhi,
con un sorriso sarcastico. La signora Bianchini prevenne l’urto,
facendo in là il suo figliuolo, e gli disse a voce bassa, risentita:

— Ma dove hai la testa? Per che via ti metti? Il commendatore è
indignato. Non ricominciare. Che cosa diventa la nostra casa!

Alberto non rispose. Aveva ancora un peso sul cuore, un bisogno
prepotente di lotta e di sfogo, stimolato anche dallo stato
d’eccitazione in cui si trovava tutta la compagnia. Uno dei più
eccitati era il Moretti, che incantucciava ora l’uno ora l’altro,
per esporgli i suoi progetti, coi quali risolveva la gran quistione.
Sgusciatogli di mano il cavalier Bianchini, che aveva altro pel capo,
egli afferrò il signor Luzzi, per comunicargli una sua nuova idea, che
era di fondere insieme tutte le società cooperative di consumo, per
formarne una sola immensa, che abbracciasse tutti i generi, e in cui
entrassero a poco a poco tutti i cittadini dello Stato.

— Stia bene a sentire. La cifra degli affari di questa società sarebbe
uguale alla cifra totale della consumazione d’Italia, e pari a un
dipresso a quella della produzione. Ebbene, quando questa gigantesca
cooperativa sarà in grado di comperare tutta la somma della produzione
annuale della nazione, è evidente che sarà assolutamente padrona,
non solo del commercio (si sottintende), ma di tutte le industrie
produttive; e allora le potrà comprare, e le comprerà. Ed ecco sciolta
pacificamente la gran quistione che affanna il mondo! Che cosa ne dice?

Ma il Luzzi, che non credeva alla _gran quistione_, sogghignò, come
se non prendesse sul serio nè il progetto di lui, nè tutte le altre
chiacchiere che sentiva da un’ora.

Allora il Moretti, con l’immaginazione sempre più accesa, agguantò
il Cambiari, e mise fuori un’altra pensata. — Chi sa, la quistione
sociale avrebbe avuto forse una soluzione affatto diversa da quella
che il socialismo proponeva; una soluzione fatta balenare dall’ultimo
congresso dei naturalisti a Berlino, nel quale s’era espresso il
concetto che, per mezzo dell’elettricità, fosse possibile trasformare
la materia prima in alimento. Non aveva detto il chimico Meyer che
si potrebbero convertire in cibo le fibre legnose, e un altro, che si
sarebbe fatto una specie di pane con la pietra?

— Ma certo! — rispose il Cambiari. — E sarebbe una cuccagna, per
noi, che abbiamo gli Appennini e le Alpi. — Ma lasciò ad un tratto il
Moretti, udendo Geri il giovane e Alberto, che discutevano acremente in
mezzo alle signore.

— E crede lei — domandava il Geri — che una massa d’operai ignoranti
potrebbe da sè sola mandare avanti le industrie?

— E chi le dice che le manderebbero avanti gli operai ignoranti? —
ribattè Alberto. — E adesso, sono forse i capitalisti, in generale,
gli azionisti, i padroni, insomma, che mandano avanti le industrie più
grandi? Non sono dei salariati come gli operai, dal primo ingegnere
all’ultimo computista? Che cosa sarebbe mutato, mi dica, con la
soppressione del capitalista, rimanendo nella società il capitale! E
crede che tutta l’intelligenza e la scienza che ora fanno andare il
mondo non accetterebbero, per necessità, la nuova condizione di cose,
continuando a fare la parte loro?

— No, mai! — rispose il Geri. — Piuttosto che annientarsi, si farebbero
annientare. Non si piegherebbero al vostro dispotismo.

La signora Luzzi lo rimbeccò.

— No, signor Geri — disse. — Gl’intelligenti, i dotti si
convertirebbero a mille per volta, come s’è sempre visto. E tutti
proverebbero con dei documenti d’essere stati socialisti fin
dall’infanzia.

Il Geri le lanciò uno sguardo come una frustata e Alberto la guardò con
viva simpatia. Ma la discussione ripigliò, inasprendosi, e cadde d’un
salto sulla quistione del diritto al lavoro.

— Non c’è senso comune! — disse il Geri. — Come ci sarà del lavoro per
tutti, se ora già ne manca, e se, soppressi i ricchi, avverrà un’enorme
diminuzione nei consumi?

— Non ci ha altro argomento?... Ma questa diminuzione sarà ampiamente
compensata dal maggior consumo della grande maggioranza, messa in
condizioni migliori; maggioranza che ora, per la scarsità dei salari
e per la disoccupazione, consuma appena lo stretto necessario, e anche
meno!

Il Geri levò gli occhi in alto, come per dire: — Che spropositi!

— Ma come si farà allora — disse forte — a mantenere la produzione
a paro coi nuovi bisogni, che cresceranno enormemente, e in
corrispondenza all’aumento della popolazione, che sarà effetto della
vita migliorata?

— E c’è bisogno che io glielo spieghi? Ma è chiarissimo! Si raddoppierà
il prodotto della terra in virtù della grande cultura razionale,
impossibile ora per il frazionamento della proprietà.... Un momento,
mi lasci finire.... Si svolgerà largamente il macchinismo circoscritto
ora dalla sovrapproduzione, dal basso prezzo del lavoro umano, dalla
insufficienza del capitale privato, e ci sarà un maggior numero di
lavoratori per la soppressione dei parassiti, degli intermediari,
dei produttori di cose inutili. — E vedendo il Geri ridere, soggiunse
bruscamente:

— Ma come non lo capisce?

— Ma come non capisce lei che gira in un povero circolo vizioso?

— Ma lei lo chiama vizioso perchè non è capace d’uscirne!

In quel punto, per fortuna, il dottor Geri prese per un braccio il
figliuolo, e gli osservò che non era conveniente il prolungar quella
discussione col professore in presenza del suo scolaro, il quale stava
lì a sentire, con gli occhi scintillanti di compiacenza maligna. E
nello stesso tempo Alberto si sentì tirare il vestito da sua moglie,
che lo scongiurava di quetarsi.

Seguì una breve tregua agitata, mentre la cameriera riportava attorno i
vassoi, e il cavalier Bianchini notò con vivo rammarico che il Geri, il
commendatore ed Alberto, nell’atto di recare il bicchiere alla bocca,
avevan le mani tremanti: pessimo segno.

Intanto tutte le signore, meno la moglie dell’ingegnere, eran passate
nel salotto, dove commentavano a bassa voce la discussione. La signora
Paola, la madre e la moglie di Alberto erano turbate, avevano tutte un
presentimento che sarebbe finita male, che qualche cosa di molto triste
per la famiglia dovesse accadere quella sera. Soltanto la signorina
Ernesta taceva, ma col viso pensieroso, con due fiammelle guizzanti nei
piccoli occhi neri e dolci, che annunziavano un fermento insolito di
idee.

Nella sala da pranzo si tornavano a sentire delle voci concitate.
Sopraggiunse la signora Cambiari, ridendo, e disse:

— Hanno ricominciato. Oh questi uomini! Tiran fuori delle parole così
stravaganti! — E provò, ma non riuscì a dire: _socializzazione della
terra._ — No, non ci riesco: mi fa starnutare. Provi un po’ lei,
signora Luzzi.

Ma, vedendo che la signora Giulia era inquieta, la esilarò un momento,
dicendole con la più grande ingenuità:

— Ma io credo che il signor Alberto faccia per celia, per stuzzicare un
poco quei signori. Lo confesserà all’ultimo, vedrai, e tutto finirà in
una risata.

Poi fecero tutte dei complimenti alla signora Luzzi per lo spirito
che aveva mostrato nella conversazione, e il Cambiari, entrando, ci
aggiunse il suo. Mentre le altre non sentivano, le disse piano, con
gravità comica, guardandola negli occhi:

— Lei è socialista?

— Non so — rispose la signora — ma ho le mie idee. Non foss’altro
che perchè il socialismo vuol fondare il matrimonio sull’amore, sulla
dignità umana, mentre ora non è che un contratto mercantile.

— Lei vuole la libertà della donna?

— Certo.

— È forse schiava, ora? Non è forse la donna che impera?

— Sì, le donne belle. Ma le altre?

— Perchè s’interessa lei delle altre?

La Luzzi rispose seria:

— Un complimento non è una ragione.

Il Cambiari la fissò ancora, e gli balenò il sospetto che quel
socialismo non fosse schietta farina, che nascondesse un suo disegno
sopra il bel socialista, a danno del brutto vicedirettore. Ma udendo
la voce del commendatore che parlava con acrimonia straordinaria,
rientrarono tutti in fretta nella sala da pranzo.

L’oratore, in piedi, parlava ai due Geri, fingendo di non badare
ad Alberto, della lotta fra capitale e lavoro. No, per quanto
armeggiassero con società di resistenza, coalizioni internazionali
e l’inferno, il capitale non sarebbe stato mai soggiogato; anche
a costo di far da per tutto come a Melbourne, in occasione dello
sciopero famoso dei cavatori di carbone, degli accenditori del gas
e dei facchini, quando s’erano uniti in lega ingegneri, avvocati,
ecclesiastici, impiegati, studenti, e avevan lavorato alle officine,
improvvisata l’illuminazione elettrica, caricato e scaricato le navi
con le proprie braccia. No, piuttosto di subire la prepotenza del
numero, sia d’operai, sia di contadini, si sarebbero inventate macchine
su macchine, si sarebbe ridotta a pascolo mezza l’Europa, si sarebbero
fatti venire lavoratori industriali e agricoli dalla China e i negri
dall’Africa.

— E le scimmie! — aggiunse Alberto, non potendosi più contenere. —
Perisca il mondo, purchè si salvi il capitale e duri lo sfruttamento.

Il suocero si voltò, come sferzato da quella ultima parola, che egli
odiava, e urlò quasi:

— Eh! finiamola una volta con questa parola bugiarda, di cui ci empite
gli orecchi! Di che sfruttamento andate cianciando? In che maniera il
capitalista sfrutta l’operaio, se questi può accettare o respingere le
condizioni che egli propone? Come può il capitalista esser tiranno se
l’operaio è libero?

— Libero?... — ribattè Alberto. — E io dico dal canto mio: finiamola
con questa parola bugiarda di libertà. Chi non ha nulla non è libero,
perchè non può aspettare e non si può muovere. Il capitale può
aspettare e può muoversi. Non c’è libertà reale di contratto fra chi ha
bisogno del pane e chi può rifiutarlo.

— E allora non è libero neppure il capitalista, perchè è costretto
dalla concorrenza a dare il meno possibile: la intendi?

— Poichè la intende lei! Ma il male è appunto nella concorrenza, che il
socialismo vuol sopprimere.

— Ah! È dunque una forza maggiore che il capitalista subisce. Che ci
venite a blaterar d’ingiustizia, allora?

— Ma l’ingiustizia c’è ugualmente, e patentissima È che il capitale
pretende e si appropria una parte che non gli spetta.

— E quale parte? — domandò il suocero, sogghignandogli in viso.

— Quale parte? — domandarono insieme i due Geri.

— Ma è chiaro. Quando il capitalista ha cavato dal guadagno
gl’interessi del capitale che impiegò nella produzione, e tutte le
spese, e la quota annua d’ammortizzamento, e anche un largo compenso
per il suo lavoro personale (se lo presta), con qual giustizia si
appropria il resto, invece di ripartirlo fra tutti i lavoratori che
hanno concorso alla produzione?

Il commendatore e i due Geri si guardarono un momento in aria di
stupore, come credendo d’aver franteso; poi diedero in una risata.

— Questa è enorme! — esclamò il suocero, fingendosi esilarato. — Ma se
l’appropria come premio per il rischio che ha corso il suo capitale!
Negherai, professore, che c’è un gran numero d’industriali che vanno in
rovina?

Alberto fremè a quell’interrogazione burlevole; ma il suocero non gli
lasciò il tempo di rispondere.

— Venga lei — disse — signor Cambiari, che pure poco fa gli dava
ragione: venga lei a spiegare questa elementarissima verità al suo
amico.

Il Cambiari, col suo sorriso astuto, s’avvicinò al gruppo, lisciandosi
il mento, e disse con molta placidità:

— In questo, mi scusi.... sarei piuttosto d’accordo col mio amico.
Il rischio esiste per questo o per quel capitalista, per Tizio o per
Caio, ma non per la classe intera, nella quale rimangono ad ogni modo
i profitti. Mi spiego? Poichè, non essendo i capitalisti collegati,
ma in lotta fra di loro, quello che l’uno perde l’altro guadagna. Non
è forse vero? Per la qual cosa, se taluni si rovinano, se il lavoro
dei loro salariati non ha dato un prodotto rimuneratore, non se ne può
dedurre.... dico il mio parere.... che debba il lavoro fortunato degli
altri operai esser defraudato d’una parte del compenso che gli spetta,
e questa parte accumularsi tutta a vantaggio del capitale.

— Ecco l’argomento — disse Alberto.

I tre avversari guardarono prima il Cambiari e poi si guardarono tra
loro, come per dirsi:

— Costui vuol fare il buffone alle nostre spalle.

— Ma questi sono miserabili cavilli da avvocato — rispose il
commendatore. — Ma appunto perchè non sono collegati tra di loro è
logico e giusto che ciascun capitalista pensi a sè solo!... — Poi
scrollò le spalle. — Ma io son ben ingenuo a risponderle. Lei non parla
sul serio. Io non discuto più nè con chi manca di sincerità, nè con chi
manca di senso morale.

Alberto si scosse.

— Mi spieghi — disse con accento quasi di comando — perchè manco di
senso morale.

— E hai bisogno che te lo spieghi! Ma è perchè non comprendi, non senti
che non si potrebbero attuare le tue idee senza commettere un’odiosa
spogliazione, senza violare il più sacro diritto.

— Quale «più» sacro diritto? C’è qualche diritto superiore a quello
che ha la società di modificare i propri ordinamenti? Lo stato moderno
non è forse fondato sul diritto delle maggioranze? Chi si potrà opporre
alla maggioranza quando essa vorrà valersi di questo suo diritto per la
revisione del diritto di proprietà?

— Non alteri il senso delle parole, signor professore di letteratura;
non si tratterebbe di revisione; ma d’una vera e propria spogliazione
delle classi abbienti.

— Adagio un po’.... — entrò a dire il Cambiari, con viso d’innocente
— non si tratterebbe che di riscattare, io credo. Ai capitalisti
espropriati si farebbe un pagamento rateale in forma di mezzi di
godimenti.... per un tempo da convenirsi....

— Buffonate! — rispose il suocero, perdendo la pazienza. — Chiamate
almeno il latrocinio col suo nome!

— Latrocinio? — domandò Alberto, con quanta calma gli fu possibile. —
C’è latrocinio, c’è spogliazione quando si toglie a un cittadino ciò
che possiede, in onta alla legge che glielo guarentisce. Ma quando la
legge si muta, quando lo si espropria in virtù della legge stessa, in
nome d’un interesse pubblico superiore al privato, dov’è il latrocinio?

— Dov’è il latrocinio? Ma con che faccia...? Ma sarebbe un latrocinio
tanto più sfacciato, tanto più odiosa perchè fatto colle leggi e coi
carabinieri, senza possibile difesa! Ma il tuo _senso morale_ non te lo
dice? Ma con chi parlo, alla fine?

— E io mi rivolgo al «suo» senso morale, alla sua coscienza di
cittadino e di patriotta. Ma la storia degli ultimi secoli, lei lo
deve sapere, non è che una storia di continue spogliazioni, fatte in
nome del bene pubblico. La monarchia ha spogliato i grandi feudatari,
la borghesia ha spogliato l’aristocrazia e il clero, l’Italia ha
confiscato il patrimonio ecclesiastico, l’America ha espropriato i
possessori di schiavi. Ma noi saremmo ancora al Medio Evo, se non si
fosse fatto tutto questo!

— Non barattar le carte. Qui non si tratta d’una espropriazione,
tu lo sai; si tratta di una spogliazione, d’una ruberia universale,
perpetrata per fondare uno stato di cose che nulla assicura debba esser
migliore del presente, che tutto fa presagire peggio mille volte. Qui
si tratta di rubar tutto ed a tutti!

— No, non _rubare_, ma riprendere; non a tutti, ma ad un’infima
minoranza, a una piccola casta, che senza il popolo non può sussistere,
e di cui il popolo non ha più bisogno.

— Non dire castronerie: non è una casta, poichè tutti vi possono
entrare.

— V’entra uno su mille; e intanto essa sfrutta ed opprime tutti quelli
che ne restan fuori.

Il suocero fece uno sforzo manifesto per frenarsi, passandosi una mano
sulla fronte, e cercando a un tempo un’idea, una frase che troncasse la
discussione in un modo onorevole per lui, senza essere una troppo grave
provocazione. E in quel mentre, tra il mormorio vivace di tutti, il
cavalier Bianchini, tutto sossopra, diceva piano ai vicini:

— Alberto passa il segno.... passa il segno.... Ma anche il
commendatore è un po’ duro.... Parla con un tuono.... Che cosa crede
alla fine?... Ma Alberto passa il segno.... — E sballottato fra gli
argomenti contrari, desiderava insieme che il figliuolo avesse il
disopra, per onor del suo nome, e che il commendatore la finisse con
una ragione vittoriosa, per esser rassicurato sull’avvenire della
società. Tremò, vedendo che quegli si moveva per uscire, senza dir
nulla.

Ma arrivato a un passo dall’uscio il commendatore si arrestò, e
voltandosi verso Alberto, gli disse con una ostentazione di pacatezza
che il tremito della bocca smentiva:

— Senta, signor professore. Il modo di rifare la società non l’hanno
ancor trovato nemmeno i socialisti. Se l’avessero trovato, sarebbero
già padroni del mondo, perchè gli interessati a crederci e a seguirli
sono la maggioranza. Se non riescono a tirar questa con sè, è perchè
non possono persuaderla delle loro idee. E non solo la maggioranza non
n’è persuasa, ma non ci arriva neppure col pensiero. Il popolo non si
moverà mai, ne sia certo, per una dottrina che non capisce.

— Non la capisce per ora — rispose Alberto — non perchè non sia chiara
e logica, ma perchè egli è ignorante. Ma l’ignoranza va scemando. La
capirà tra poco, e capire ed essere persuaso, esser persuaso ed agire,
agire e vincere, saranno per lui una cosa sola.

Il suocero s’imbrunì.

— È quello che si vedrà — disse avviandosi di nuovo per uscire. —
Provatevi! La società è più solida delle vostre teste, e voi ve le
spezzerete come contro un muro di granito.

— Così si diceva anche prima della rivoluzione francese.

Il commendatore tornò indietro vivamente:

— Il confronto è insensato. L’ordinamento attuale è ben altrimenti
forte che il governo francese dell’89, e l’impresa del socialismo è
tutt’altra, perchè vuol rovesciare l’edifizio dalle fondamenta. La
proprietà assalita sarà ancora la più grande forza del mondo. Avrete
una Vandea che vi sterminerà come uno sciame d’insetti.

— Ci ho i miei dubbi! La borghesia è divisa, scettica e sfibrata. E
poi, badate, l’esercito dei vostri futuri eroi s’assottiglia di giorno
in giorno, poichè in tutti i campi della proprietà i grossi vanno
mangiando i piccoli, e questi passano dalla parte opposta. Già tutto
lo strato inferiore della borghesia non ha più nulla da perdere ad
abbandonarla.

— Oh! basteranno a difendersi quelli che rimarranno, con un fucile da
una mano e uno scudo dall’altra!

— Sarà troppo tardi per offrir lo scudo.

— E allora v’ammazzeranno senza offrirlo.

— Ah! Non oserete nemmeno di barricarvi in casa!

A quelle parole, seguì un improvviso mutamento sulla faccia
del vecchio: egli guardò il giovane con un’espressione di viva
curiosità, poi gli s’avvicinò, e gli domandò con un accento di comica
commiserazione:

— Ma chi t’ha messo su? Con chi pratichi? Chi ti ha attaccato questa
peste?

— Il socialismo non è una peste — rispose Alberto, sdegnoso, — è la
guarigione d’una peste, della peste dell’egoismo, che ci accieca
e c’infradicia tutti. Nessuno m’ha messo su. Non ho avuto bisogno
d’istigatori per diventare un galantuomo.

L’ultima frase fu come un pugno nel petto al commendatore, che diede un
passo indietro, livido, e poi scoppiò, balbettando dalla rabbia:

— .... Ah! sei diventato un galantuomo.... Questo vorrebbe dire.... Il
socialismo è la guarigione.... Te lo dirò io che cos’è il socialismo!
È la malattia dei cervelli dissestati e incompresi, è la maschera
delle ambizioni malsane.... in voi altri; e negli altri sai che
cos’è? È l’orrore del lavoro, è la frenesia dell’invidia, l’odio di
ogni superiorità, il furore di godere a ufo, lo scatenamento di tutte
le più basse passioni e di tutti i più tristi istinti, che tendono
a sopprimere la responsabilità personale, a cancellare ogni dovere,
a onorare il vizio e a giustificare il delitto. Ecco che cos’è il
socialismo. E ora ho finito.

Mentre egli parlava, tutti gli s’affollarono intorno per quetarlo
cercando di prenderlo per le mani o pei panni, di modo che, all’atto
di rispondergli, Alberto si trovò solo in mezzo alla sala, come se
combattesse contro tutti; e così ritto e risoluto in quella solitudine,
col capo biondo che pareva d’oro, con la fronte alta e accesa, era
bello di tutta la generosità della sua passione e di tutta la grandezza
del suo ideale. Ma mentre tutti s’aspettavano una risposta fulminea,
rimasero stupefatti al vedergli gli occhi inumiditi, all’udir la sua
voce raddolcita a un tratto, e quasi supplichevole.

— Ma come è possibile? — disse con profonda commozione, battendosi
una mano sulla fronte. — Io non capisco! Ma perchè v’infuriate tutti
a codesto modo quando s’esprime la fede in un miglioramento del mondo?
Come non sentite che, se anche l’idea è erronea, la passione è nobile
e santa? Come mai il cuore non vi dice nulla? Che cos’è quest’astio,
quest’ira implacabile contro chi cerca il bene e difende i deboli e
vuol scemare la miseria, il dolore, l’odio, il delitto? Mai, mai che
v’esca un grido generoso dall’anima! O perchè fate battezzare i vostri
figliuoli nel nome di Cristo?

A quel punto sua sorella si spiccò dal gruppo degli uditori e gli si
slanciò al collo d’un salto.

— Ah! brava! — esclamò la Luzzi.

Ma la madre la tirò indietro con uno strappo, e le disse piano in viso:

— Ridicola!

Irritato anche più da quell’atto, il commendatore, asciugandosi la
fronte col fazzoletto come dopo un assalto di scherma, rispose ad
Alberto:

— Se tu credi di mutare il mondo con delle tirate di sentimento!... — E
finì di versare tutta la sua compassione in una parola: — .... Poeta!

— Piglio atto della parola ingiuriosa, — ribattè Alberto con un sorriso
amaro. — Ma se non salveremo il mondo noi col sentimento, lo condurrete
alla rovina voi con la vostra ostinazione, con la vostra negazione
eterna, col vostro inesorabile egoismo di classe....

— Siete voi, che lo trascinate alla rovina — gridò il suocero,
rifacendo il viso torvo — voi col lavorìo infernale che fate tra le
classi povere per renderle tanto più malcontente quanto più la società
si sforza di migliorarne lo stato, voi che pervertite il popolo
adulandolo, ubriacandolo di illusioni e stillandogli il veleno nel
sangue! Voi, le serpi che noi ci scaldiamo nel seno!

— Ebbene, credetelo pure, è forse meglio così. Così voi date ragione ai
violenti, secondo i quali non si può ottener nulla che con la forza, e
convertite in violenti anche i miti. Provocate la forza, la subirete.

— Anche delle minacce! — Non occorreva più altro! Ma per fortuna,
signor genero, c’è ancora della polvere e del piombo!

— Non li avrete sempre.

— Questo è un pensiero scellerato!

— E il suo è sanguinario e inumano.

Tutti s’interposero; ma il commendatore era fuori di sè, si sciolse
da tutti, si slanciò verso Alberto e mettendogli il viso contro il
viso, pallido e convulso, gli gridò in faccia con un riso stridente di
disprezzo:

— Ah! Povero mentecatto!

— No, no, papà! — gridò la signora Giulia quasi piangendo e mettendogli
una mano sulla bocca.

Alberto rimase muto, immobile, bianco. Il suocero se n’andò a passi
impetuosi in mezzo a un gran disordine, a un mormorio di esclamazioni,
di preghiere e di commenti; e un momento dopo, approfittando della
confusione che durava ancora, se ne andò anche Alberto, seguito dal
ragazzo spaventato e dalla moglie tremante, senza badare a suo padre
che lo chiamava, trinciando l’aria con dei gesti di naufrago, fra le
condoglianze degl’invitati.


Un giovane perduto.

  (Dialogo fra due signori ultra cinquantenni, un cavaliere, e
  un.... pedone, che si rivedono dopo molti anni, in casa del primo:
  seduti di qua e di là da un tavolino, sul quale fra due bicchieri a
  calice, c’è una bottiglia di vin di Madera.)

PEDONE (bevendo un sorso). — Mi rallegro, mi rallegro davvero di
ritrovarti sano come una lasca. E il tuo figliuolo, che vidi ragazzo?
Sarà un uomo. Che cosa fa? L’avrai ancora in casa, m’immagino.

CAVALIERE (rannuvolandosi). — Non me ne parlare.

P. (ansioso). — Che cosa vuoi dire?

C. — Cosa voglio dire?... Una cosa che non vorrei dire, caro mio.
Tu sai l’adorazione che avevo per quel figliuolo unico; sai quanto
ho fatto per dargli una buona educazione, per istillargli dei buoni
principî, per metterlo sulla buona via.... Ebbene (emettendo un
profondo sospiro), è diventato un socialista!

P. (dà un balzo sulla seggiola; poi, dissimulando un sorriso sotto
l’aspetto grave). — O che mi dici?... Era un così buon figliuolo!
Vorrai dire: un filantropo, come si diceva una volta; un socialista
cristiano, come si dice ora; in somma, un socialista platonico....
andiamo. Ebbene, e con questo? Chi non l’è a vent’anni, ai tempi che
corrono?

C. — Ah no, pur troppo, amico mio! È un socialista socialista, un
militante, come dicono, un iscritto al partito, un propagandista,
un’ira di Dio. Ah, non me ne parlare, te ne prego. Tu tocchi una piaga
che sanguina. Un giovane perduto!

P. (pensieroso ma con un sorriso sulle labbra). — Diavolo!...
diavolo!... Ed era così buono e affettuoso! Chi gli ha pervertito il
cuore?

C. (guardandolo). — Non dico che abbia il cuore pervertito. No. È
sempre quello.... in fondo. Non ho da lagnarmi di lui.... da questo
lato.

P. — Non ti manca di rispetto? Non s’è mutato con te?

C. — Ma no, nonostante.... perchè puoi immaginare le battaglie che
abbiamo avuto e che abbiamo di continuo, a ogni proposito.... No,
proprio, a dir la verità, egli ha sempre mantenuto nella contraddizione
una buona maniera, una temperanza, dirò anche.... uno spirito di
conciliazione.... Perchè di natura è buono. Sto per dire che quanto
a bontà.... Tira a convertirmi con la dolcezza, capisci? Ci vuole una
bella ingenuità.... e una bella faccia, ti pare?

P. — Ma, in somma, s’è rovinata la carriera: questo è quel che vuoi
dirmi.

C. — La carriera per esser giusti, no. Ti debbo dire una cosa, che
forse immagini. Tu sai che, se non altro, egli ha il pane assicurato
per l’avvenire. Ho voluto che studiasse da avvocato, per avere un
titolo. Mi contentò. Ma, ti dico il vero, m’ha sempre spaventato l’idea
di vederlo buttarsi alla caccia della clientela in mezzo a una banda
di concorrenti affamati. Gli dissi: — non esercitare l’avvocatura;
lascerai il posto a un bisognoso; purchè tu studi, purchè ti appassioni
per qualche scienza e ti proponga uno scopo alla vita; a me basta.
— Ebbene, è questo appunto che mi danna! Che si dia al socialismo
uno di quei figliuoli di famiglia spiantati che ci hanno qualcosa da
guadagnare e nulla da perdere, lo capisco; ma lui, che non aveva nulla
da desiderare, che non può sperare di migliorare la propria sorte.... o
come s’è potuto buttare per quella maledetta via? Come s’è potuto dare
alla macchia?

P. — Ho capito. Tu volevi almeno che studiasse. E mena una vita
scioperata. Il socialismo, per lui, è un pretesto della fannullaggine.

C. — Non dico questo. Eh, se non fosse che lo studiare. Non ha mai
studiato tanto. È sempre lì al chiodo, col capo tra i libri e gli
opuscoli, che gli fanno un monte sul tavolino, e ne raccatta di nuovi
ogni giorno. Si scervella sopra una quantità di quistioni impossibili
a risolvere. Questioni utili, non nego, importanti, se si vuole; ma
superiori alla sua età, e pericolose, che gli montan la testa. Oh, per
questo.... ha delle cognizioni; tanto che mi trovo spesso impacciato
a discutere, non perchè mi manchino le buone ragioni, s’intende; ma
perchè non so citare le autorità, mi capisci?... E lui cita come un
quaresimalista.

P. — E allora?... Ah, ho inteso. Ti spilla molti quattrini!

C. — Molti, no; ma.... troppi.

P. — Ah! ah! I quattrini per la santa causa! Già si capisce. E li
spillerà sotto altri pretesti.

C. — Ma che! Tu vedessi che disinvoltura. Non cerca pretesti. Credi
tu che ha il coraggio di dirmi: — Ho bisogno di tanto per le elezioni
— per gli scioperanti — per il giornale — per il diavolo che li
porti. Ma con una mutria, ti dico, e una voce, che non c’è modo di
rifiutarglieli, come se chiedesse la sua parte di pane.

F. — Intendo, è irritante.

C. — Irritante? Che io debba dar dei quattrini per rifornir la cassa a
un partito che vuol mandar per aria me, l’aver mio e tutta la baracca?
Tu sei indulgente. È mostruoso e intollerabile!

P. — Già; tu preferiresti quasi quasi ch’egli spendesse i tuoi denari
al gioco, o in vino di Champagne, con le ragazze allegre: di’ la
verità?

C. — Quasi....

P. — Ebbene, non dubitare! Chi sa quanti di quei denari vanno in quella
maniera!

C. — Eh, no.... Per questo, ci metterei una mano sul fuoco. Lo capisco
da tante cose. Ho l’occhio esperto. Questo no, vedi; ne sono certo come
della luce del giorno.

P. — O dunque?... Ah, ho capito, finalmente. Tu temi per l’avvenire,
quando avrà il patrimonio fra le mani, che lo spoglino, che profonda
tutto, e che si trovi poi ridotto nelle strettezze, in una condizione
che gli riuscirà doppiamente dura dopo esser vissuto tanto tempo
nella bambagia. Ti sgomenta, per lui, lo spettro d’una povertà, che lo
potrebbe mettere sulla mala via....

C. (dopo aver pensato un po’). — Ecco.... senti. Da questo lato, per
esser sincero.... È una cosa curiosa. Per un tempo ebbi timore. Fra i
quindici e i diciott’anni aveva preso l’andare d’un figliuol di ricco;
una tendenza alla vanità, la gola lunga, non mai contento di nulla in
casa, di cattivi modi con le persone di servizio che se ne lagnavano.
(Ridendo) Non sai che poi, per qualche mese, ha spinto la pazzia
fino a non voler che la serva gli lustrasse le scarpe! Pazzie, vere
ridicolaggini, come quella che suo padre, ancor adesso, debba leticar
con lui per fargli fare un cappotto nuovo. E lo stesso è a tavola, dove
si contenta di tutto, come un frate questuante. Strano davvero! Oh,
quanto a questo, te l’assicuro, io che temevo una volta che, ridotto
al bisogno, non sarebbe stato capace di rassegnarsi e di fare dei
sacrifici, io, vedi, adesso, sono fermamente persuaso che, se mutasse
la sua fortuna, egli s’adatterebbe a qualunque condizione di vita,
allegramente senza un rimprovero al mondo, come se ci fosse sempre
vissuto.

P. — Ma dunque?

C. — Ma dunque! Ma lavora a scalzare la società, ma si compromette, ma
fa professione d’una dottrina falsa e fatale. Non sai che parla perfino
nei comizi?

P. — Poh! _Verba volant_.

C. — Ma disgraziato! scusa la parola. Ma scrive anche per le stampe!
Pazienza se parlasse soltanto. Scrive articoli.... su quei giornali!...

P. — Sciocchezze, m’immagino.

C. (dopo un po’ di esitazione). — Senza dubbio; ma..... Eppure, vedi, a
parte le ragionacce.... Anzi, è quello che più m’addolora. C’è qualche
cosa in quei deplorevoli articoli ch’io non leggo.... quasi mai. C’è
dell’ingegno.... male speso. Ti dirò che, ai primi che lessi, rimasi
stupito. Non mi parevano roba sua. Alle scuole non s’era mai distinto.
Tu capisci: sono scritti.... notevoli, che rimangono, che gli potranno
essere rinfacciati....

P. — Eh, via, non te ne dar pensiero. Sai quello che io penso del
tuo figliuolo? Che non è persuaso, come non lo sono tanti altri. Il
socialismo ora, per i giovani, è quello che era la lirica in altri
tempi. Bisogna che tutti ci passino. È una malattia passeggiera.
C’entra in gran parte la vanità, la smania di far l’originale, di
ribellarsi a chi li tiene in briglia, e di levar rumore. Io mi son
fatto l’idea che il tuo figliuolo è un carattere leggiero e volubile,
che rivolterà la giubba tutt’a un tratto, quando meno tu te l’aspetti.

C. (quasi risentito). — Leggiero, volubile! Tu non lo conosci. Ma è la
tenacia, è l’ostinazione in carne e ossa, un tutt’altro capo da quello
che era. Ma tu non sai che hanno tentato tutti i modi di ricondurlo
alla ragione, e parenti, e amici, e persone autorevoli, e.... belle
signore, ed è stato come dar del capo in un macigno. Ah, lasciamo
questo discorso. Tu non sai i dolori che m’ha dato, e io solo presento
quelli che mi darà: È un giovane perduto!

P. — Già, comincio a capire.... anche perchè, m’immagino, vivrà in una
classe sociale inferiore, avrà delle cattive pratiche.... Bazzica dei
soggettacci, di’ un po’?

C. — Non dico.... Non posso dire, almeno, perchè ne vedrei gli effetti,
non è vero? nei suoi sentimenti, nei suoi modi...... anche nel suo
linguaggio. Ma, tu capisci: naturalmente, logicamente, per sentimento
del proprio decoro, ognuno dovrebbe restringere le proprie amicizie
nella classe sociale in cui la sorte l’ha posto. Ma lui! Ma figurati
che quando usciamo insieme mi capita qualche volta d’incontrare un
gassista con l’accendilume in mano, un muratore con la giacchetta sulle
spalle, o anche un ciabattino col grembiule di cuoio, che passandoci
accanto, gli dicono: — Buon giorno, buona sera — sorridendo, senza
toccarsi il cappello, come a un amicone. Tu intendi: gente che ha
conosciuto nelle congreghe.

P. — Intendo benissimo: questo t’offende.

C. — Dio mio! Non dico che m’offenda. Son liberale, rispetto i
lavoratori, non faccio differenza fra le classi. Ma ci sono dei
sentimenti, delle consuetudini sociali.... E mi tocca di vederne d’ogni
sorta. Figurati; viene tempo fa un operaio ad accomodare una stufa.
Gli dico: — Fate così — vuol fare a modo suo. Ribatto, s’inasprisce;
insisto, alza la voce. Capita il mio figliuolo: quello fa un atto di
sorpresa: lo conosceva, ma non sapeva d’esser venuto in casa sua. —
Buon giorno, compagno! — Compagno!! E si stringon la mano! Sotto i miei
occhi! Cose d’un altro mondo. Ma che! Non ci può esser altro mondo che
questo in cui segua a un padre di far di queste figure!

P. — E, naturalmente, quello ne profittò subito per rialzare la voce
con te....

C. — No, anzi.... mutò tono e fece a mio modo, chiedendomi scusa. Ma,
tu capisci, io non potei disfare lì per lì la faccia d’imbecille che
m’avevan fatto fare. A questo ci ritroviamo! _Compagno_! Ah, questa è
enorme!

P. — Ah! ora ci sono. Ecco. A te rincresce che egli viva tra quella
gente perchè ti pare che dalla piccola popolarità che ha fra di loro
ricaschi su di te, sul tuo nome, davanti ai tuoi amici e conoscenti....
un cattivo riflesso; poichè, già, m’immagino che avrai avuto dei
dispiaceri.... che ti tireranno delle satire, delle impertinenze,
fors’anche. Dev’essere doloroso, in fatti, sentirsi dire sulla faccia:
— O come mai un galantuomo sensato come lei può esser padre di un tipo
di quella fatta?

C. (scattando). — Oh questo, perdio, nessuno me l’ha detto mai, nè me
lo lascierei dire. Che gli diano dell’illuso, del.... fuorviato, lo
posso tollerare; ma che ne parlino con disprezzo, mai al mondo! Il mio
figliuolo è un giovane onesto, buono, generoso. Alto là, amico mio!
L’avvertimento è anche per te.

P. — Ma allora, scusami tanto. Stringiamo i conti. A questo ragazzo non
s’è guastato il cuore, non è scemato l’affetto e il rispetto per te. Si
occupa con passione di studi, come tu li riconosci, importanti. Non ha
vizi. Si è ridotto a una semplicità di gusti e di vita che ti rassicura
riguardo al suo avvenire, comunque gli si possa voltar la fortuna.
Manifesta una forza di volontà, una fermezza di carattere che prima
non aveva. Si fa benvolere dalla gente che lavora e che tu rispetti.
O perchè dunque lo chiami un giovane perduto. Mi par piuttosto un
figliuolo _ritrovato_!

C. (balzando in piedi, mette una mano sulla spalla all’amico e lo
guarda negli occhi). — O dimmi un po’: m’avresti forse preso giuoco
fino adesso?... E mi nasce un sospetto: — avrebbe dato di volta il
cervello a te pure in questi anni che non ci siamo più visti? Eh?
Saresti diventato socialista? Rispondi!

P. (dando una risata e alzandosi). — Io socialista! Ma tu sei matto nel
mezzo del cervello. Poichè t’è entrato il rosso in famiglia, vedi rosso
da tutte le parti. Andiamo! beviamone un altro bicchiere e cacciamo le
malinconie. (Mesce.)

C. (racquetato). — Alla buon’ora!

P. (toccando il bicchiere). — Bevo alla tua salute, vecchio amico, e ti
auguro quello che tu desideri: che il tuo figliuolo, fra poco o molto,
cadendogli la benda rossa dagli occhi, si ravveda e ritorni sulla
buona via, dopo aver fatto una apostasia pubblica e solenne, che a te
renda la pace per sempre e metta lui per l’avvenire nell’impossibilità
assoluta di riconvertirsi. Non è vero che è quello che desideri? Che
s’egli facesse questo domani, ne saresti felice?

C. (tace, facendo ballar nella mano la catenella dell’orologio).

P. (dopo averlo guardato di sott’occhio con uno sguardo acuto e
sorridente). — Aspetto la risposta.

C. (impacciato). — Sì, naturalmente.... Però.... non ci sarebbe bisogno
d’un’apostasia «pubblica e solenne». Non occorre di far tanto chiasso
per rimetter la testa a partito. Ma già, (rinfrancato) quello che tu
dici è impossibile!

P. — Oh diavolo! Hai detto la seconda parte della risposta con accento
più soddisfatto che la prima.

C. (impazientito). — Oh come sei diventato sottile, pedante, sofistico!
Già è sempre stato il tuo difetto. Sarebbe stato meglio che non
t’avessi detto nulla.... E sarà anche meglio che cambiamo discorso.
(Una scampanellata. Si rasserena ad un tratto.) Zitto! È lui. Non
accennare ai nostri discorsi. Non lo vedo da stamattina presto. Che
cosa vuoi? da un pezzo in qua, siccome son sempre un po’ inquieto
quando è fuori, provo una certa commozione ogni volta che rientra.
Povero ragazzo! Aspetta un po’; non mi posso tenere dall’andargli
incontro. (Si slancia fuori.)

P. (seguitandolo con gli occhi a sorridendo). — Lo chiama _andare_!
Mi par che sia un _correre_. (Dandosi una fregatina alle mani) Ed è
perfettamente illuso il buon uomo. Non ha proprio coscienza di stimarlo
di più e volergli più bene di prima perchè.... è un _giovine perduto_!


Un borghese originale.

Se ne può parlare pubblicamente perchè è morto. Era un bell’originale.
Per esempio, accettava in massima la parte critica della dottrina
socialista, e la sosteneva, con grave scandalo dei suoi amici borghesi
e conservatori, quasi tutti avanzati negli anni come lui. Qualcuno gli
domandava: — Perchè, con codeste idee, non vi dichiarate addirittura
socialista? — Perchè — rispondeva — non sono persuaso della possibilità
del collettivismo. — E allora — ribattevano — perchè non lo combattete?
— Perchè — rispondeva — non sono persuaso che sia impossibile.

Allora saltavan su, accusandolo di contraddizione.

— No, — rispondeva tranquillamente — non son persuaso della possibilità
del collettivismo, ma vedo che tutto vi tende, e perciò dubito.
— E faceva suo proprio il ragionamento d’un illustre accademico
francese, Anatole France, una testa quadra. — Noi possiamo argomentare
presso a poco l’avvenire della società da quello che conosciamo
del suo passato; argomentare dalle condizioni in cui certi fenomeni
sociali si produssero le condizioni in cui si produrranno ancora.
Considerando certi ordini di fatti che vediamo incominciare al presente
e paragonandoli a certi ordini di fatti analoghi già compiuti, ne
possiamo indurre che i primi avranno un compimento simile a quelli
che ebbero i secondi. Non si tratta che di «prolungar col pensiero
nell’avvenire le curve che si disegnano al presente sotto i nostri
occhi». Dove pensate che conduca la curva già percorsa dalle forme del
lavoro, dalla schiavitù al servaggio e da questo al salariato? E quella
dalla piccola proprietà artigiana ed agraria al capitale industriale?
E quella dal riscatto delle servitù feudali al riscatto dei mezzi di
produzione? E quella dagli antichi servizi privati agli attuali grandi
servizi dello Stato? Tutte queste curve tendono innegabilmente al
collettivismo.

— Ma non v’arriveranno mai — gli obbiettavano.

— Non lo so —, rispondeva —; ma d’una cosa son certo: che se non
v’arriveranno mai, vi tenderanno sempre. Ora basta riconoscere, e
non si può far di meno, che il cammino della società è e sarà sempre
diretto verso il socialismo, sia pure per non mai raggiungerlo nella
piena attuazione dei suoi principii; basta il riconoscer questo per non
potere logicamente esser conservatori quali voi siete. Del socialismo
siete avversari assoluti perchè «non prolungate col pensiero le curve
dei fatti sociali di cui siete spettatori». Prolungatele, e sarete se
non altro giudici più sereni ed equi del movimento presente.

Questo era il fondamento del suo sistema d’idee. E a chi gli diceva
che se nella sua classe avessero avuto predominio quelle idee si
sarebbe mutato in precipizio il cammino della società immatura, dava la
risposta d’un celebre uomo di Stato contemporaneo: — Non lo credete.
L’umanità non si lascia far violenza. Essa resiste del pari alla
stupidità cieca che le vorrebbe chiudere la strada e all’ardimento
incauto che tenta di trascinarla d’un passo troppo rapido sulle vie
rischiose dell’avvenire. Essa va lentamente, obbedendo a leggi mal
conosciute, ma inflessibili. Essa dispone dei secoli, e noi non abbiamo
che un giorno: di qui gli urti fra l’uomo e l’umanità. Tutto quello
che per noi è sobbalzo, scossa terribile, perturbazione distruttiva si
perde, nell’insieme, in un andamento facile e piano.

Quando sentiva inveire contro gli agitatori, e citare le loro
intemperanze e i loro spropositi come argomenti contro le idee ch’essi
propugnano, scrollava le spalle. Era insensato, secondo lui, il
pigliarsela con gli agitatori delle moltitudini. E pensava anche in
questo come un uomo di Stato insigne. Essi operano per impulso di forze
che son fuori della loro volontà, nè più nè meno che i governanti, la
cui azione è piuttosto l’arte di seguire che quella di dirigere. Per
indole possono essere più o meno temperati, più o meno ragionevoli; ma
sono perchè bisogna che siano, perchè sono un portato del loro tempo.
L’inesorabile legge del mondo vuole che noi non possiamo riuscire a
nulla di bene senza far per la via molto di male.

Egli credeva che se di queste verità tutti fossero stati persuasi,
tutti i conflitti sociali presenti sarebbero stati grandemente
attenuati, poichè quella persuasione avrebbe indotto le classi
superiori a innumerevoli piccoli atti di condiscendenza, di benignità
e di cortesia: di poca importanza ciascuno per sè, ma, nella somma
loro, d’un effetto benefico immenso. Dalla mancanza di quella
persuasione nasceva, secondo lui, una mala disposizione d’animo, che
inaspriva tutte le difficoltà; e di questa mala disposizione egli
diceva d’avere una prova nel sentimento che destava in tutti i suoi
amici la vista d’ogni moltitudine popolare che passasse per la via,
anche col solo intento d’una dimostrazione pacifica. Il loro primo
sentimento era sempre di repulsione e d’inquietudine come se in
quella folla non vedessero che i suoi peggiori elementi (elementi che
in ogni agglomerazione di gente d’ogni classe, in forme diverse, si
trovano) e le immagini di quanto di peggio può fare una folla sfrenata.
Perchè non ci vedevano di preferenza la somma enorme di lavoro
quotidiano, faticoso, tedioso, pericoloso pure, e utile e necessario,
che ogni moltitudine di popolo rappresenta, e l’incertezza continua
dell’avvenire, e le privazioni abituali, e le mille virtù, che pur ci
sono, di rassegnazione, di coraggio, di costanza, di carità famigliare
e di sacrificio fraterno? Perchè non pensavano che, sotto l’apparenza
del prepotere del numero, quella moltitudine è ancora, nei conflitti
sociali, la parte più debole, e quella che più soffre, delle due parti
contendenti?

Manifestava pure idee singolari riguardo agli scioperi. A ognun di
questi si maravigliava che la prima parola dei suoi amici fosse sempre
di disapprovazione. Si maravigliava dell’accusa di «incontentabilità»
che essi facevano alle classi lavoratrici in una società dove la più
parte degli arricchiti s’affanna e si stronca e si danna l’anima
per arricchire ancora. E qual classe sociale, in qualunque tempo,
fu mai contenta del proprio stato? E non è il malcontento, congenito
all’anima umana, che ha fatto progredire il mondo? Non saremmo ancora
allo stato selvaggio se il malcontento universale non fosse? E chi può
ragionevolmente, onestamente pretendere o desiderare che la società
rimanga immobile nello stato presente? E quanto alla consuetudine,
che notava intorno a sè, in occasione d’ogni sciopero, di dar torto
ai lavoratori, domandava: — Che ne sapete, nella più parte dei casi?
Conoscete la quistione nei suoi dati numerici? In ogni modo, non potete
negare che siano in buona fede, perchè non potete supporre che si
deciderebbero mai a quel passo se non credessero fermamente di chiedere
un vantaggio che si può loro concedere. E a chi gli diceva: — Ma ci son
dei giornali del partito che approvano tutti gli scioperi — rispondeva
che ce ne son altri, d’altri partiti, che non ne approvano nessuno.
E ne citava parecchi in cui, nei vent’anni da che li leggeva, non
si ricordava d’aver mai trovato una parola di consenso o di simpatia
neppure per gli scioperi ai quali era stata più apertamente favorevole
l’opinione pubblica. E a questo proposito diceva uno sproposito
inaudito: che, secondo ragione, anche i giornali dell’ordine,
quando credevano uno sciopero giustificato, avrebbero dovuto aprire
una sottoscrizione per sostenere il buon diritto dei lavoratori.
Immaginate, domandava, quanto maggior autorità avrebbe la stampa quando
condanna gli scioperi se li aiutasse quando li approva?

Non vedeva però torti ed errori da una parte sola. Biasimava la
fungaia dei piccoli giornali, che per insufficienza di cultura dei
redattori facevano dell’Idea socialista una propaganda non degna,
e quindi perniciosa all’Idea medesima, non foss’altro che per la
soverchia presa che offrivano al dileggio degli avversarii. Poi: che i
socialisti combattessero il fanatismo e la superstizione riconosceva
logico e necessario; ma che mirassero a sradicare ogni sentimento
religioso, egli, benchè non credente, giudicava un errore esiziale alla
loro causa. Oltrechè il sentimento religioso era radicato nell’animo
umano a una profondità a cui la loro forza non poteva arrivare, essi,
predicando la miscredenza, alienavano da sè gli animi inclini alla
fede, sgomentavano la donna, davano un’arma potente di reazione in
mano agli avversarii, mettevano un impedimento di più, e formidabile,
sul proprio cammino. Le loro vittorie, in questo campo, non potevano
essere che effimere. Ben più avvisati erano stati quelli che, da
principio, della dottrina cristiana facevano leva all’idea socialista:
la loro propaganda era stata ben altrimenti efficace, in special modo
fra il popolo men culto. E così disapprovava nella stampa socialista
l’abitudine del linguaggio violento, la quale toglieva forza alla
sua parola in tutti quei casi in cui l’indignazione dell’animo e la
violenza del linguaggio sono giustificate, e non lasciava distinguere
alla moltitudine le menti culte e forti, che pensano e ragionano, dagli
spiriti leggeri, in cui la passione nasconde il vuoto delle idee e
l’assenza della logica; non solo, ma dava modo a questi di prevalere.
Quella violenza abituale, a suo giudizio, eccitando gli animi oscurava
le intelligenze, radunava intorno all’Idea ire fugaci, ma non coscienze
ferme. Chi si fa più ascoltare non è chi grida; lasciando che a gridare
non si regge un pezzo. La vera forza è nel ragionamento tranquillo e
lucido. Egli avrebbe voluto che la stampa socialista desse l’esempio
della dignità e della correttezza: parlando più dall’alto si sarebbe
fatta sentir più di lontano. E lo diceva ai pochi amici che aveva da
quella parte. Disse una volta a uno: — Dici delle cose giuste; ma urli
come uno che sappia d’aver torto. — E a un altro, che in occasione
d’uno sciopero raccomandava la calma: — Come vuoi che sia calma oggi
della gente che tu ecciti tutto l’anno?

Parlava spesso dell’educazione del popolo. Una volta, in un crocchio,
fece una tirata curiosa contro un tale, che aveva lanciato nella
discussione, come argomento decisivo: — Il popolo non è educato. —
Conosco — disse — una sola arguzia del generale Boulanger, che mi pare
felicissima. Egli scrisse: — Sento sovente padri e madri trattare i
loro figliuoli di maleducati, e in questo hanno pienamente ragione.
— Male educati, sì; ma da chi? Così si può dir del popolo. Che
avete fatto, che fate per educarlo? Gli danno esempio di moralità le
classi superiori corrotte, affamate del superfluo quanto i poveri del
necessario? Gl’insegna la dignità e la moderazione il Parlamento? E
la fede nella giustizia la Magistratura? E il culto degli Ideali la
Borsa? E come gli potete rimproverare la mancanza di quell’istruzione,
di cui tanti di voi hanno paura? E vi par proprio che egli non sia
all’altezza dell’insegnamento primario che gli date? Che cosa fate per
distruggere in lui la superstizione che sterilizza ogni buona sementa?
Che cosa fanno per lui gli scrittori? E i grandi giornali, diventati
oramai la letteratura della Corte d’Assise, non più divulgatori
soltanto, ma illustratori amorosi dello scandalo e del delitto? Che
fate voi individualmente, nei vostri contatti fortuiti o abituali
col popolo, con cui non v’intrattenete che per necessità, e il minor
tempo possibile, come se parlaste due lingue diverse? E questo per
qual ragione se non perchè vi trovate a disagio con lui, sentendo di
non aver autorità d’insegnargli nè di promettergli nulla di buono e di
credibile?

Più spesso esprimeva il suo pensiero in forma epigrammatica. A un
amico ricco, che gli voleva dimostrare inattuabile l’Idea socialista
perchè fondata sull’ipotesi di virtù collettive impossibili, disse: —
Sta bene; ma è proprio questa la ragione per cui combatti quell’Idea
con tanto calore? Io ti faccio la famosa ipotesi del Rousseau. Se tu
potessi, alzando un dito, creare istantaneamente nel tuo paese lo
Stato socialista, con tutte le virtù civili che esso richiede, con
tutti i beni che ne deriverebbero al maggior numero e col danno che ne
seguirebbe ai tuoi interessi privati, alzeresti il dito? Sii sincero.
— L’amico rimase un momento sconcertato; poi rispose: — Sì! — E lui: —
Ah, che brutto viso hai fatto, se ti vedessi nello specchio! Ebbene, io
son più sincero di te: io non so se avrei la virtù di far quell’atto.
— E quella sincerità tolse all’amico il coraggio di ripetere la sua
affermazione.

Anche scherzando soleva affermare la sua fede nell’avvenire. —
Socialisti, conservatori, retrogradi — diceva — siamo tutti come gente
affollata sur una di quelle strade mobili di Nuova York, che scorrono
fra le case come fiumi. I socialisti possono dividersi e azzuffarsi fra
loro, gli altri star a sedere, o dormire supini, o camminare a ritroso
della direzione della strada; ma tutti insieme vanno avanti per forza.
Per questo io non me la piglio neanche col più arrabbiato nemico d’ogni
idea nuova. Dico tra me: — Poveretto! Non se n’accorge, perchè cammina
col viso voltato indietro, come quei dannati di Dante che si piangono
sulle natiche; ma va innanzi anche lui, come tutti vanno.

A un socialista che diceva: — Il socialismo trionferà perchè è la
Giustizia! — rispose: — Che idea stramba! Trionferà l’interesse del
maggior numero, e sarà bene; ma trionferà non perchè sia giusto,
ma perchè avrà con sè la forza, che ora gli manca: l’istruzione,
l’educazione, la disciplina. Non c’è ragione al mondo per credere al
trionfo della Giustizia, perchè gli uomini non saranno mai più giusti
di quello che son ora. Stareste freschi, compagni!

Scherzò in questo modo fino ai suoi ultimi giorni. Quando era
malato grave, e lo tenevano in vita con l’ossigeno, una sera chiamò
improvvisamente i parenti e gli amici, che stavano rosolando il
socialismo nella stanza vicina, a bassa voce, ma non tanto ch’egli
non sentisse; e disse loro, respirando a fatica: — Prolungate....
prolungate....

Quelli diedero subito mano all’imbuto dell’ossigeno, credendo ch’egli
volesse dire: — Prolungatemi la vita; — ma il malato, respingendo
l’imbuto, soggiunse con un leggero sorriso —: No.... prolungate le
curve....

Fu l’ultimo consiglio politico che diede alla sua classe.

Curiosi furono i giudizi che diedero di lui i parenti e gli amici
dopo la sua morte. — Un galantuomo, in fondo; ma aveva delle idee
così strane! — Un po’ squilibrato, ma buono. — Un uomo d’ingegno e
di cuore; ma di quelli che, se fossero in molti, sovvertirebbero il
mondo. — Giudizi che provano quanto sia difficile il far con la mente
nell’ordine dei fatti sociali quello che è così facile il far con la
mano sopra un foglio di carta: prolungare delle linee curve.




PARTE SECONDA.

PER IL SOCIALISMO.


Primo maggio 1904.

Oggi tace ogni dissenso e ogni rancore: è giorno di festa e di pace.
Oggi noi storniamo il pensiero dal presente e cerchiamo conforto nel
passato: passato recentissimo, ma che par già molto lontano, come pare
ogni ricordo dell’età più bella anche a chi non n’è uscito che da pochi
anni.

Il partito socialista, fra di noi, era nel bel periodo
dell’adolescenza; nel quale, ad ogni manifestazione pubblica in cui
misurasse le proprie forze, appariva cresciuto oltre ogni speranza
dei più impazienti. Non c’erano ancora scissure nella sua compagine,
nè disordine nelle sue file, nè incertezze nel suo cammino. Non si
designavano ancora con un aggiunto ironicamente onorevole quelli
che portavano all’opera sua il concorso della cultura intellettuale,
per distinguerli, e quasi per separarli da quelli che vi portavano
soltanto la forza del numero e della fede: la loro voce era ascoltata
da tutti; ma il loro capo non s’alzava al di sopra della moltitudine, e
non c’era fronte che ne fosse adombrata. La concordia, la disciplina,
l’ardore che spiegava il socialismo nelle lotte elettorali destavano
l’ammirazione anche di chi ne temeva gli effetti come una sventura
della patria. Molti, anche fra i suoi più fieri avversari, eran vinti
da un sentimento di simpatia per quel partito appena sorto, che col suo
poderoso giovanile soffio scoteva la sonnolenza della vita pubblica
e costringeva ogni altro partito a stringere le file e a difendersi;
molti che l’avrebbero voluto disperdere con la violenza, non potevano
dissimulare un senso di rispetto per quella «grande illusione» che
suscitava tanti entusiasmi in un tempo, in cui ogni altro entusiasmo
era morto o moriva, che con vincoli così intimi e saldi legava fra
di loro cittadini di classi diverse, divisi fino allora da passioni,
interessi, pregiudizi, costumi; e mentre sorridevano palesemente
di quei nuovi «compagni» affratellati nel culto dell’utopia,
riconoscevano con rammarico, nel segreto dell’animo, che mancava
ad ogni altro partito il sentimento e il legame che quella parola
esprimeva, sentivano che era espressa in quella parola una idea grande
e bella, benchè destinata a rimanere per sempre un’idea; della quale
penetrava un vago riflesso anche nella loro coscienza. E il partito
dell’illusione cresceva, come un torrente, senza disperdersi, coprendo
col suo scroscio sonoro le mille voci paurose e nemiche che s’alzavano
lungo il suo corso.

E ricordiamo i grandi comizi di quel tempo, dove, più che a discutere
e a conciliare opinioni discordi, s’andava a ritemprare nel consenso
universale la propria fede. Dopo il periodo dei fervori patriottici
non s’erano più veduti esempi d’una così ardente e solenne comunione
di pensiero e d’affetto fra cittadini di tutti i ceti. Che importava
la valentìa degli oratori? Al deputato succedeva l’operaio, allo
scrittore il commesso, al vecchio il giovinetto, al discorso italiano
il ragionamento in vernacolo; erano stranamente diverse le forme del
linguaggio; ma la voce di ciascuno pareva l’eco della voce di tutti; ad
ogni più informe e ingenua manifestazione del pensiero e del sentimento
collettivo applaudivano insieme, con lo stesso calore, i colti e
gl’incolti; pareva alle volte che le migliaia d’ascoltatori avessero
un solo respiro; la moltitudine dava l’immagine d’una società nuova,
in cui l’antica divisione delle classi non fosse più che un’apparenza,
ultimo resto del passato, sotto la quale già palpitasse la santa
fraternità dell’avvenire sognato. E da quelle assemblee uscivano i
nuovi convertiti della borghesia, sciolti anche dagli ultimi dubbi,
in uno stato di coscienza nuovo, di una serenità sconosciuta prima
d’allora; i giovani, occupati da pensieri insoliti alla loro età
spensierata; i maturi, ringiovaniti nel cuore e nello spirito; tutti
compresi d’un senso di compiacenza profonda, come se nell’adunanza
donde uscivano non si fosse soltanto parlato, ma fatto del bene,
lavorato a benefizio del mondo, gettato all’avvenire una semenza
benedetta di verità, di benevolenza e di giustizia.

Poi venne la bufera della persecuzione; ma non fece vacillare, nè
divise gli animi: li rafforzò, li strinse, li rinfiammò d’uno zelo
più operoso e d’un amor fraterno più intrepido. Tutto l’ardore, che
era prima spiegato nella propaganda della fede, si voltò in soccorso
e conforto delle sue vittime. Si videro fra queste, e fra le più
ingiustamente colpite, esempi di coraggio e di fermezza non meno
ammirabili di quelli che la storia del risorgimento nazionale ha
tramandati all’ammirazione dei posteri; si videro fra i benefattori
più poveri dei compagni prigionieri o esuli, e delle loro famiglie
derelitte, esempi di generosità e di sacrificio da ridestare anche
negli animi più scettici la stima della natura umana. I perseguitati
uscirono dalle prove rinvigoriti di fibra, più ardentemente devoti
all’idea per la quale avevano sofferto, più affettuosamente legati
ai compagni che anche di lontano eran rimasti congiunti a loro col
pensiero e con l’opera. L’aver sofferto per la causa comune era nel
concetto di tutti un onore che metteva a paro i più umili coi più alti,
e la comunanza dei patimenti risuggellava fra gli uni e gli altri il
patto solidale col suggello di un’amicizia fraterna. Era in tutti come
un secondo soffio di gioventù, un rinnovellamento della prima fede,
purificata. Il partito, piegato per poco da una dittatura brutale, le
scattava sotto come una molla potente, lacerando la mano che l’aveva
compresso. L’esercito rifatto, ingrossato, fortificato dall’esperienza
dell’avversità e del dolore, riforbiva le armi, rialzava la bandiera e
riprendeva il cammino.

Giorni venturosi, ricordati con rimpianto non da noi solamente; ma
anche da molti di coloro che, pur professando altra fede, riconoscono
nel movimento socialista una grande virtù vivificatrice del mondo;
scaduta la quale, rialzerebbe la fronte il passato.

Ma quei giorni ritorneranno.

È nella ragion delle cose che quando un partito esce dal campo
della semplice propaganda e dell’azione necessaria a costituirsi, a
rassodarsi e a difendersi, ed entra in quello più vasto e difficile
dell’esercizio politico delle sue forze per conseguir riforme
determinate e immediate, nascano nel suo seno dissensi d’opinioni
e contrasti di tendenze, che ne sconcertano l’organismo. Nascono
i dissensi in quelli che lo ispirano e lo guidano da differenze
d’indole, che prima non apparivano, nè potevano apparire nell’azione
comune diretta ad un fine unico, a cui non si poteva giungere che per
una sola via; derivano i contrasti da diversità di facoltà morali
e intellettuali, per cui ciascuno dà la preferenza a quelle forme
d’azione, nelle quali ha coscienza di operare con maggior vantaggio
altrui ed onore proprio; provengono dal diverso grado d’esperienza
politica, onde sono diversamente misurate la grandezza degli ostacoli
e la potenza delle forze occorrenti a superarli; e nascon pure da
passioni individuali, che, quando svigorisce la passione comune
onde erano prima travolte, prendon più forza; perchè non c’è grande
causa che affranchi i suoi propugnatori da ogni miseria della natura
umana. Ma gli stessi dissensi, e ben più gravi, gli stessi contrasti,
assai più violenti, si produssero fra grandi partiti e grandi uomini
nell’opera dell’unificazione nazionale, e parvero più volte ai
contemporanei indizi d’imminente rovina; e pare oggi a noi, giudici
lontani e spassionati dei fatti, che dall’una e dall’altra parte si
giovasse egualmente, in opposti modi, alla causa di tutti. E così
parrà ai futuri, qual’è in realtà, la crisi presente del partito
socialista: elaborazione feconda di idee; lotta di forze intellettuali
e morali in cui gl’ingegni e i caratteri si scoprono e si provano;
non infermità senile, ma febbre di giovinezza; preparazione, non
decadenza. Le divisioni momentanee non rallentano che in apparenza il
cammino dell’idea; gli uni vanno per una via, gli altri divergono;
ma tutti procedono. Noi abbiamo ferma fede che al sorgere d’un
pericolo comune non rimarrebbe in campo che una bandiera, quella
intorno a cui si raccolsero le prime schiere; che se anche l’unità si
scindesse profondamente per ora, si ricomporrebbe più salda dopo un
primo rovescio cagionato dalla scissura. Sono ugualmente legge della
vita d’un grande partito, sorto da una idea che non può morire, la
tendenza a dividersi e la necessità di ramificarsi. Così un grande
fiume, nel suo lungo corso, qualche volta si biforca, e s’allontanano
l’un dall’altro i due rami, che lunghe isole boscose separano; ma si
ricongiungono più oltre le acque per andar confuse in una corrente
all’oceano.

Ma perchè ciò avvenga è necessario che nella lotta entrino tutti senza
diffidenze e senza mal animo; che ciascuno soffochi nel suo cuore ogni
germe di odio, come un principio di tradimento; che nelle controversie
non sia mai disconosciuta ad alcuno la libertà della coscienza e la
onestà dell’intento; che alla mente di tutti siano presenti sempre
l’immagine cara della concordia antica e lo spettro minaccioso del
nemico comune, e sopra ogni cosa questo pensiero terribile: che dal
perpetuarsi della discordia sarebbe miseramente disperso il frutto d’un
lavoro enorme e d’infiniti dolori, e scoraggiato l’animo e contristato
il cuore a una moltitudine immensa, che aspetta e che spera. Fermiamo
tutti questo proposito in questo giorno di tregua e di festa; sia il
1.º Maggio anche quest’anno la festa della fraternità e della speranza;
suoni sulle labbra e nel cuore di tutti con la cordialità antica,
si ricambi fra tutti, con la voce e col pensiero, da vicino e da
lontano, fra conoscenti e fra sconosciuti, a traverso ogni distanza,
con l’affetto dei giorni migliori, la parola a cui diede il socialismo
un significato nuovo, che rimarrà nella storia e nel cuore delle
generazioni: — Compagno! — Compagno, discuteremo domani; oggi è il 1.º
Maggio; oggi ci rallegriamo insieme contemplando l’orizzonte sereno del
passato, e quello luminoso dell’avvenire; oggi abbiamo una sola idea e
un’anima sola.


Ai fanciulli.

Un saluto a voi in questo giorno di festa e di speranza, a cui voi non
pensate ancora.

Non mai così pietosamente come in questo giorno il nostro pensiero vi
cerca e vi abbraccia trascorrendo per tutti i paesi «civili» dove la
cupidità e la fame concordi curvano la fanciullezza a una fatica che le
contrista l’anima e le divora le forze.

Dentro a un’atmosfera tetra, velata dal fumo delle officine, dai nuvoli
di zolfo, dalla polvere di carbone, dai vapori delle risaie, passa la
processione infinita di piccoli lavoratori, da quelli sepolti nelle
miniere del settentrione, che si trascinano nudi e carponi nel fango e
nelle tenebre, col sacco attaccato al collo, fino a quelli che sudano
nelle cave della Sicilia dai ventri enfiati e dalle ossa scontorte,
nutriti d’un pane orribile, intinto nell’olio nauseabondo delle loro
lampade; passa l’esercito miserando dei fanciulli oppressi, con le
faccie smunte ed esangui, con le mani e coi piedi piagati, gli uni
cadenti dal sonno, gli altri piangenti in silenzio; file di ragazzi
avvizziti ed anemici, curvi come vecchi, che feriscon l’aria di tossi
secche e di aneliti dolorosi; passano gli avvelenati dal fosforo, gli
acciecati dalle fornaci, i mutilati dalle macchine, gli arsi dal grisù,
i seppelliti dalle frane — e mille occhi, passando, si fissano nei
nostri — occhi spenti, duri, sdegnosi, supplichevoli, che ci dicono: —
Noi avemmo una infanzia senza cure, noi abbiamo una fanciullezza senza
gioie, noi avremo una gioventù senza salute, e una vecchiaia senza
conforti; e molti di noi aspetta l’ospedale o la carcere, o, prima
del tempo, la terra, dove altri figliuoli di lavoratori ci aspettano
innumerevoli, o nati morti, o uccisi in culla dai narcotici, o finiti
dai maltrattamenti o dall’inazione; è questo il nostro destino; e
perchè? — E altre cose ci dicono quegli occhi. Ci dicono la legge
protettrice dei fanciulli con mille inganni violata, la complicità
dei parenti famelici, la cecità degli ispettori, l’indifferenza delle
autorità, e la ipocrisia di una società civile che crede di pagare ogni
suo debito porgendo la mano a uno su cento dei miseri che essa medesima
atterra, e l’aberrazione di una carità che va a cercar miserie e
dolori a migliaia di miglia lontano da quelli che le gemono inutilmente
d’intorno, e la ingiustizia d’un mondo che vitupera l’inerzia in coloro
in cui fu spento dalle fatiche precoci l’amor del lavoro, e dice causa
unica della sua miseria i vizi che semina egli stesso e di cui dà pel
primo l’esempio e punisce senza pietà i delitti a cui è indotta tanta
gente da una ignoranza e da una corruzione della quale non ha colpa.

E passano ancora e passano senza fine i piccoli schiavi, gli uni
rassegnati, gli altri frementi, malaticci, istupiditi, paurosi,
stravolti, diretti alle capanne o alle grotte o alle stalle o alle
stamberghe infette delle città grandi, dove la promiscuità selvaggia
dei sensi finisce di corrompere l’anima e il corpo. E mentre ci
stringe il core quel coro di gemiti, di rampogne e di imprecazioni, più
amaramente ci addolora una voce grassa e pacata che risuona al di sopra
di quel coro, e vi dice: — _Non c’è rimedio._

Ah, non lo credete, ragazzi! Per quanto v’è di più sacro al mondo, non
è vero. Se fosse vero, noi dovremmo sputare sulla parola _civiltà_ ogni
volta che la troviamo stampata in un libro. Empia è la voce che dice
al misero: — Dispera. — Vana è quella che dice di tutto aspettare dal
cielo, di nulla pretendere dagli uomini. Una forza immensa si leva nel
mondo in prò dei vostri padri e di voi, e questo è il giorno in cui
essa palpita in milioni di cuori e parla da milioni di labbra, da per
tutto dove piange un fanciullo spossato, dove si stende invano a cercar
lavoro un braccio virile, dove sospira un vecchio senza pane dopo aver
lavorato finchè gli bastaron le forze. E non soltanto fra i vostri
compagni di fatiche e di stenti quella forza si leva. Ma nelle belle
case che invidiate, in mezzo agli agi ed ai piaceri che voi non godrete
mai, una generazione vien su, che voi credete ignara e sprezzante dei
vostri dolori, una moltitudine di fanciulli e di giovinetti dalle mani
bianche e dal viso florido nella cui mente entra ogni giorno una idea
che offusca la serenità, che tormenta la loro coscienza, che affanna
e dilata e innalza il loro cuore, e li sospinge verso di voi, e li
prepara ai sacrifici generosi, e li arma e li ammaestra a combattere
con amoroso coraggio per la causa vostra e dei vostri figli.

No, i vostri figli non avranno più, pensando alla fanciullezza dei
lavoratori, la visione sciagurata che riempie noi di tristezza e di
vergogna. La fanciullezza sarà risparmiata perchè tutti gli uomini
lavoreranno e la produzione avrà per fine la soddisfazione dei bisogni
comuni, non il lucro di pochi, e la macchina sarà serva, non tiranna
dell’uomo; i vostri fanciulli andranno alla scuola essi pure, perchè
tutti avranno il diritto a coltivare lo spirito fino al segno richiesto
dal riconoscimento delle attitudini e della dignità dell’uomo civile;
essi cresceranno lieti e benevoli, perchè non cresceranno più nella
miseria tetra e nella fatica bestiale che confonde la coscienza e
perverte il cuore; essi ameranno il lavoro e la vita, perchè il lavoro
sarà umanamente misurato e compensato, e la vita non sarà più una
guerra fratricida per cui gli uni nascono armati e gli altri inermi,
e in cui per un forte o un astuto che trionfa, mille deboli mordon
la terra; ma la lotta ordinata e onesta di tutti per ciascuno e di
ciascuno per tutti, della quale apparirà la necessità e la giustizia
con la stessa luminosa evidenza con cui ci appaiono quelle verità
elementari che sono i fondamenti stessi della ragione e della coscienza
umana.

Sì, questo è l’avvenire, com’è vero che ci regge la terra e ci
rischiara il sole. E voi, fanciulli, fissate nell’animo la data del
1.º Maggio, che nulla forse vi dice ancora. Un giorno essa vorrà dire
anche per voi: concordia, speranza, vittoria, pacificazione. Cristo
sarà ritornato dopo venti secoli per dire un’altra volta: — «Lasciate
i fanciulli venire a me» — ossia: Lasciate che siano fanciulli, che
crescano col sorriso sul volto e con la fronte rivolta al cielo, perchè
Dio non vuole che si faccia la ricchezza col sangue delle loro vene e
col midollo delle loro ossa, e a prezzo dell’innocenza e della bontà
dell’anima loro.

E Cristo ritornerà, fanciulli. Oggi che si festeggia il suo futuro
ritorno, invocatelo e fidate in lui; sentirete anche voi che Egli si
avvicina.


A una signora.

Giorni or sono, udendo un socialista parlare in pubblico intorno a un
argomento estraneo alla propria fede, e approvando, commossa, le parole
di lui, che rispondevano in tutto ai sentimenti affettuosi e gentili
dell’animo suo, ella esclamò con meraviglia: — Chi direbbe mai che è un
socialista!

Ella non ha pensato che con quella esclamazione, accusava le sue amiche
e i suoi amici, e quasi tutta la classe a cui appartiene, d’una nera
calunnia. Ecco, dunque, come le siamo dipinti; come gente cui sia a
meravigliarsi che possa esprimere qualche volta di quei pensieri e di
quei sentimenti, nei quali tutte le anime oneste concordano.

Ma veda che abisso ci separa! Io mi meraviglio ogni giorno di più
della cosa opposta: che si possano avere quei sentimenti e non essere
socialisti.

Ella scatta, ed io ripeto e mantengo.

Rifletta un momento, signora.

Soffrire delle miserie e dei dolori sociali come d’un male proprio, in
modo da non averne più quiete, e non sapersi rassegnare allo spettacolo
delle disuguaglianze ingiuste che offendono e avviliscono gli uomini;
credere che non vi sarà mai pace, nè prosperità, nè moralità, nè
civiltà vera, fin che un piccolo numero d’uomini avrà nelle mani
i mezzi con cui, direttamente o no, tutto si corrompe, tutto si fa
piegare, tutto servire al fine di accrescere continuamente la potenza
di comprare, di corrompere e di dominare; aver fede che la pace e la
prosperità vera si otterranno affrancando il lavoro dalla schiavitù
economica che lo opprime, e non lo assicura, e riducendolo più umano
con una distribuzione più equa, e più fecondo con l’associazione di
tutte le forze; e con questa fede adoperarsi a educare, a istruire,
a ordinare le moltitudini affinchè, diventate maggioranza cosciente
e concorde, possano costituire legalmente uno stato sociale (già
maturato, quando esse prevarranno, dall’evoluzione) nel quale tutti
si trovino nelle stesse condizioni iniziali per la lotta della vita,
e il diritto alla vita sia assicurato a quanti voglion lavorare e non
possono e non si possa lasciar in eredità l’ozio e la dominazione,
e l’uomo non veda più nei suoi simili dei concorrenti nemici, ma dei
cooperatori fraterni; tutti questi sentimenti e concetti, che sono,
insomma, la sostanza del socialismo, può ella dimostrare, mi può ella
dire soltanto, che non siano tali da doversi maravigliare che non li
accolga ogni anima nobile?

Una cosa sola mi può rispondere: che non sono accolti perchè si fondano
sopra un’utopia. — Ma con questa risposta non mi contradice, perchè
in qual modo mi può negare che per essere utopisti così fatti conviene
avere una fede nella bontà della nostra natura, un desiderio del bene
e un amore per l’umanità, non possibili che in animi onesti e in cuori
generosi?

E come di questo ella si accerterebbe facilmente, e riconoscerebbe
d’essere stata finora ingannata, e dai giornali che legge e dagli
amici a cui crede e da tutte le vecchie idee non discusse in cui vive
imprigionata, se potesse conoscer da vicino quella gente disseminata
e malefica piena di passioni e di propositi iniqui e della quale sente
parlar con orrore!

Ella, per esempio, ha inteso parlare di studenti socialisti, e avrà
lamentato, con parole amare, che si sia attaccata anche alla gioventù
studiosa quella lebbra. Ebbene, io ne conosco, e anche se prescindo
dalle idee che a loro mi legano, mi paion di tanto superiori agli
altri! Mai che apparisca nei loro discorsi sull’avvenire quel duro
proposito di farsi strada nel mondo a qualunque prezzo, quella smaniosa
avidità di ricchezza e di piaceri, che è già confitta nel cuore di
tanti giovani della loro condizione. L’avere uno scopo alla vita posto
fuori di sè stessi, così alto e bello, dà loro una sicurezza e una
serenità di coscienza, e una tendenza a meditare sui fatti e sugli
uomini, e a cercare in tutte le opere la manifestazione dell’animo
e del pensiero, sotto le apparenze ingannevoli quello che c’è di
vero, di umano e di benefico, che non si trova negli altri se non
come rara eccezione. Ed hanno un modo di famigliarità così giusto e
così amabile con la gente delle classi inferiori a cui si mescolano,
spiegano con essa un sentimento di fraternità tanto più schietto e
profondo, perchè dedotto da più intime e salde ragioni, di quello che
io ricordo dell’ultimo periodo degli entusiasmi patriottici, sopportan
con una così degna rassegnazione le diffidenze, le ingratitudini,
qualche volta le aspre parole, che in quell’affratellamento cercato
s’attirano, e annunziano e difendono la propria idea fra gli amici
ostili e nella famiglia sdegnata, tra le rampogne e gli scherni, con
un così coraggioso ardore, con una così tenace ed ingenua fede nella
vittoria del bene, che lei, se li udisse e li vedesse all’opera, lei
che è buona e gentile, sarebbe costretta ad ammirarli e ad amarli, e
desidererebbe che il suo figliuolo li rassomigliasse, e potesse — senza
compromettersi, s’intende, e serbandosi immune dalla lebbra delle loro
dottrine — godere della loro sana e vivificante amicizia.

Ella udrà parlar sovente di operai socialisti, e che concetto n’abbia
me lo immagino: li crede la feccia della loro classe. Eppure, signora,
se è una cosa bella in un operaio rinunziare al giuoco e alla taverna
per udire discorsi e ragionare egli stesso, come può, su questioni
economiche e morali, che lo costringono a uno sforzo di mente e gli
destano il bisogno di una vita intellettuale e il rispetto della
scienza e dell’ingegno; se è prova di animo ingentilito il riconoscere
e il predicare che la donna non è una bestia da soma per picchiarsi
per sfogo, quando s’è arrabbiati o briachi, ma un essere che ha
diritto a una migliore condizione economica e civile e a una nuova
e più alta forma di rispetto pubblico, se è degno di dignità il non
imitare, lo sdegnare i compagni di lavoro delatori, i pronti a curvarsi
davanti a tutti i venditori di voti, i bruti che hanno la coscienza
nel ventre e postergano ogni interesse collettivo della loro classe
ad ogni immediato ed anche passeggero vantaggio proprio, se è bontà
e carità l’esser sempre disposti a levarsi il pane di bocca e a dare
il soldo del sigaro e del bicchiere per soccorrere i compagni ridotti
indegnamente sul lastrico, se anche sono sconosciuti o stranieri; se,
infine, l’avere una viva coscienza della fraternità degli uomini e dei
popoli, e fede in una grande missione economica e politica del proprio
stato, se il convertire l’odio cieco contro i privilegiati della
fortuna in un’avversione ragionata contro l’ordinamento sociale, se il
comprendere e far comprendere altrui che non dalla violenza disordinata
e selvaggia egli ha da sperare un grande mutamento della sua sorte,
ma dalla pacifica conquista dei poteri pubblici, non possibile se
non per una successiva trasformazione delle idee e una lenta vittoria
sulle coscienze; se tutti questi son segni di superiorità d’animo e
d’intelligenza — e i segni sono palesi, ad ogni uomo di buona fede, lo
creda — come può ella negare che gli operai socialisti non solo siano,
ma debbano essere di necessità moralmente migliori degli altri e degni
del suo rispetto e della sua simpatia?

Più sovente ella udrà parlare di pubblicisti di dottrina e d’ingegno,
che fanno ardente propaganda di socialismo e gliene parleranno in modo,
suppongo, che ella convocherebbe un consiglio di famiglia prima di
riceverne uno in casa sua. Ebbene, ci pensi un poco. Questo è certo,
frattanto: che tutti, dal primo fino all’ultimo, sono necessariamente
disinteressati, perchè nessuno dei giornali di cui si valgono può
rimunerar l’opera loro, che anzi ricevon da loro prosa ed obolo
insieme. Pensi che se sono letterati ed artisti pure sono obbligati,
non foss’altro che per sostenere le proprie idee, a studi ingrati
e difficili, alieni dalla loro natura, e a rifar quasi, con grande
fatica, la propria educazione intellettuale, e che tutti condannano sè
stessi ad aver nella parte del pubblico, a cui si rivolgono, tanto meno
lettori e ammiratori quanto più il loro pensiero è profondo e l’arte
loro squisita. E se sono scienziati e uomini politici non possono aver
di mira nè onorificenze, nè cariche, da cui è escluso il partito che li
accoglie; nè sperare un vantaggio proprio da un mutamento radicale di
cose, perchè son ben certi che non vivranno tanto da vederlo, e che se
pure avvenisse quale essi lo invocano, sarebbe tale di sua natura, da
non consentire ad alcuno nè ricchezze, nè potenza, nè onori. Non resta
dunque che una sola ambizione, da cui ella può pensare che sian mossi:
quella d’esser mandati alla Camera. Ma ci rifletta un minuto, veda se
— concessa pure quell’ambizione — essi sceglierebbero per soddisfarla
una via così rischiosa e se si può chiamar davvero ambizione quella
d’andare in Parlamento, in mezzo a un gruppo minuscolo, a farsi
soffocar la voce da tutti partiti concordi e dare addosso come a un
pugno di banditi. Pensi pure, cerchi, si faccia anche cercare dai
suoi amici una sola ragione, la quale le dia diritto di credere che
quei signori non sono gente di buona fede, generosa se non altro, di
sentimenti e di intenti, e piena di cuore e di coraggio.

Le pare ancora che sia ragionevole il meravigliarsi che tutti costoro
— studenti, operai, pubblicisti, — siano capaci di sentimenti nobili? O
non le pare invece che ci sarebbe da meravigliar del contrario?

Le dirò di più, francamente: ch’io non vedo più bontà, generosità
vera che in chi professa quella fede. Conosco, sì, molti uomini
dotati di quelle virtù fra coloro che avversano anche fieramente
l’idea socialista, e ho sempre fra di essi dei cari amici. Ma dopo
che giudico l’anima loro da quell’idea, sono un po’ scaduti nel mio
concetto, debbo dirlo, anche i migliori. Io non li trovo più logici
neppur nell’esplicazione dei loro sentimenti più degni. Vedo i loro
pensieri di fraternità e di carità sociale intoppare ogni sentimento
in un ostacolo, arrestarsi quasi impauriti, a dei confini, davanti
ai quali l’animo dei socialisti piglia maggior forza per lanciarsi
oltre. M’accorgo che l’idea d’un lontano danno della loro classe
getta un’ombra sul loro già sacro amore di libertà e di eguaglianza,
e li rende avversi, in segreto, a quella diffusione dell’istruzione
popolare, che fu già il più caldo dei loro voti. Sono condotti a ogni
tratto, per combattere le nostre idee, a negare o a palliare miserie
evidenti e colpe imperdonabili; a fare, per non essere tirati a certe
concessioni, una scelta guardinga, non generosa nè schietta, fra le
ingiustizie sociali contro cui debbono levare la voce. E trovo che nel
cercare e proporre dei rimedi, s’ingegnano in ogni modo di lasciar da
parte, di finger di non vedere quelle cause, alle quali non posson
toccare senza riconoscere le ingiustizie che a loro convien tacere.
E nei credenti più sinceri scopro un sentimento religioso pieno di
pregiudizi mondani e di accortezze, che si sforza di conciliare le cose
più inconciliabili e si rassegna troppo facilmente al concetto della
necessità di troppi mali; e nei non credenti, in onta alle loro idee
liberali, sorprendo una troppo frequente tentazione di rifugiarsi,
per terrore di un avvenire infausto ai loro interessi, tra quelle del
passato, che essi combatterono per tutta la vita, e di cercare in una
religione in cui non credono, un’alleanza, della quale non potrebbero,
e lo sanno, mantenere i patti lealmente. E gli uni e gli altri,
finalmente, li vedo sforzarsi di continuo a far tacere il cuore e la
ragione, che, confusamente, ma senza tregua, susurrano loro la verità,
e a nascondere a noi questo stato d’animo, ciò che stende su tutti un
leggiero velo d’ipocrisia, sotto al quale m’appare alquanto alterata la
loro antica faccia di galantuomini.

Di queste cose ella non s’avvede, naturalmente, perchè non può
raffrontare le persone che la circondano con la gente che ella
giudica dal giudizio loro. Ma se ne avvedrebbe, non ne dubito, se
quel raffronto potesse fare. E quante idee sue si muterebbero se ella
leggesse quei libri e quei giornali di ogni paese, che vede qualche
volta ammontati sul mio tavolino e guarda con un senso di ripugnanza!

Scoprirebbe una legione di pensatori potenti e sereni, di cui
stupirebbe d’aver ignorato il nome finora, e che ognuno l’ignori
intorno a lei, nei quali s’accoppia alla forza d’una fede fiammeggiante
l’autorità d’una vasta e nuova coltura; nature intellettuali, tempre
d’animo nuove, gagliarde ed ingenue, appassionate ad un tempo e
pazienti; donne d’ingegno virile e di cuore angelico; poeti incolti
nelle cui strofe informi balenano immagini immense; autodidattici
solitari venuti su dalla gleba, dei quali s’indovinano gli studi
faticosi, contrastati, violenti come una lotta fisica, proseguiti per
venti anni in soffitte senza fuoco, a prezzo di sacrifici eroici; una
falange di scrittori strani, aspri, tormentati, oscuri, di cui si vede
attraverso a ogni pagina sudar la fronte nera di polvere e sanguinar
gli occhi bruciati dal riverbero delle fornaci, ma dotati d’una
eloquenza misteriosa, che la farebbe pensare per giorni e per notti.

E udrebbe da rozze bocche di lavoratori verità e ragioni che nessun
libro le ha mai dette, narrazioni di miserie e grida dell’anima che la
farebbero fremere come il suono del pianto d’un mondo, parole di pietà
e di tenerezza, che sarebbe forzata a ripetere ai suoi figliuoli, e che
non le uscirebbero mai più dalla mente.

E finirebbe ad amare tutti quegli uomini di ogni classe e d’ogni paese,
portanti tutti sulla fronte, come una stella vermiglia, la stessa Idea,
che si scambiano attraverso a mari e a frontiere parole di fraternità
e di speranza, e a poco a poco, abbracciando col pensiero l’orizzonte
vastissimo, vedendo l’Idea sfolgorare su mille campi di battaglia, e le
legioni stellate avanzarsi e salire da ogni parte, ingrossando lungo il
cammino come torrente in piena e sommergendo a ogni onda una rovina del
passato, sarebbe forse scossa ella pure da un fremito d’entusiasmo ed
esclamerebbe: — È giusto, è benefico, è necessario che questo sia.

Ma no; nulla seguirebbe in lei di quanto io dico, e non gliene faccio
rimprovero, poichè troppo saldo è ancora nella sua mente quel ferreo
cerchio di idee ereditate, senza spezzare il quale le nuove non
entrano. E quando pure incominciasse in lei un mutamento, se passasse
allora sotto le sue finestre una dimostrazione d’operai socialisti,
chiedenti, lei consapevole, la più giusta delle concessioni, lei,
al veder quelle facce e all’udir quelle voci, spaventata e sdegnata,
scorderebbe in un punto tutte le sue letture e disdirebbe tutti i suoi
consensi, per maravigliarsi da capo che si possa esser socialisti e
aver dei sentimenti onesti e gentili.

D’altra parte, io ho scelto a proposito, per parlare a lei, questo
quarto d’ora della vita nazionale.

E anche qui, veda, ci separa un abisso, perchè tutto ciò che in questi
giorni fa respingere più sdegnosamente da lei e dai suoi amici le nuove
idee, produce in noi l’effetto opposto.

Noi vediamo una moltitudine, che par la maggioranza del paese, urlare
e imprecare col pugno teso contro una frotta di gente cacciata a furia
nelle carceri, non colpevoli, in massima parte, che d’un’illusione,
d’un grido o d’un impeto d’ira provocata, e volere e approvare che ai
credenti nel nuovo verbo sieno violate le case, manomesse le robe, e
impedito di adunarsi, di parlare, di lagnarsi e di vivere, e accusarli
d’ogni follìa e d’ogni infamia. Ebbene, tutto questo non fa vacillare
un istante, ma rinsalda profondamente la nostra fede; la nostra
compassione non è per quelli contro cui s’impreca, ma per quelli che
imprecano; tutto ciò che accade non ci pare che un accidente sfuggevole
del grande cammino vittorioso della nostra causa; e con più serena
e imperturbabile sicurezza crediamo che la ragione, la verità, la
giustizia, l’avvenire sono dalla parte dei maledetti e che il fascio
enorme d’interessi e di forze che s’aggrava sul loro capo non è che un
mostruoso avanzo del passato, di cui gli anni sono numerati.

Ella non lo crede; ma lo crederanno i suoi figliuoli, e i suoi nipoti
lo vedranno, e ai figli di questi non parrà possibile che gli avi loro
non l’abbiano creduto.

Ed ora, la saluto con affettuoso rispetto. Ella risalga fra la gente
per bene; io ridiscendo.... fra gli altri.


Discordie in famiglia.

Ecco una famiglia quale ve n’ha mille oramai e ve ne avrà migliaia fra
pochi anni.

I legami dell’affetto non si sono allentati; ma la bella armonia delle
conversazioni intime e liete non v’è più. Vi entrò la nuova Idea e
v’accese la discordia tra il padre e il figliuolo, tra la figliuola
e la madre, e turbò i sonni di tutti. Le conversazioni si son mutate
in discussioni, in cui risuonano parole insolite e proposizioni
temerarie, che le persone di servizio ascoltano dilatando gli occhi
e commentano vivamente tra di loro, parteggiando pei ribelli. Ogni
giorno, sotto mille forme, la questione eterna risorge. Lo studente
adduce argomenti economici e cifre; la fanciulla ragiona, in nome d’una
pietà vasta e nuova, che abbraccia milioni d’uomini sconosciuti, e
che la vecchia madre non comprende. In parte, la comprende il padre,
o qualche cosa approva e concede, ma alle ultime conclusioni resiste
con fermezza ostinata, e, incalzato, si sdegna e disdice ciò che
ha concesso, e tronca la disputa con minaccie e rimproveri amari;
mentre la sua compagna fissa in silenzio i figliuoli, dondolando il
capo con tristezza, turbata al presentimento d’un avvenire sinistro.
Nelle controversie sempre rinascenti cozzano l’egoismo paterno e la
generosità umana, la verità di ieri che si va cangiando in menzogna,
l’utopia d’oggi che sarà verità domani, le forze tenaci dell’interesse,
le forze impetuose dell’amore, le paure della vecchiezza per cui
l’avvenire non è che minaccia, le virili baldanze della gioventù
per cui l’avvenire è tutta speranza. Chi ci ha mutato i figliuoli? —
dicono i vecchi fra due sospiri, — e passano in rassegna sospettosa
gli amici e i conoscenti, non pensando che l’idea non entra nelle case
per la porta, ma per le finestre, con le ondate d’aria e i raggi del
sole. Qua e là, pei tavolini e sugli scaffali, appaiono libri nuovi,
dai titoli strani, in cui ricorre sempre la parola malaugurata, e la
madre li guarda senza toccarli, e il padre n’apre uno ogni tanto, ma
lo richiude, corrugando la fronte. Ahimè! i libri: un altro argomento
di discordia che salta su, tra la minestra e le frutta, ogni giorno.
Scrittori che erano come i santi domestici, ai quali si rendeva
un culto concorde, son tirati giù l’un dopo l’altro dall’altare; i
figliuoli li accusano di indifferenze e di silenzi colpevoli, di idee
monche e di sentimenti angusti. Essi vanno scoprendo che la vecchia
biblioteca è piena di menzogne, di pregiudizi barbarici, di sentenze
ingiuste e stolide, accettate senza esame e ripetute macchinalmente
come ritornelli di canzoni imparate dai bimbi. Ma neppur sull’amore
di patria il vecchio patriota e i figliuoli non s’intendono più; quel
grande amore, in questi, non ha più per oggetto simbolico l’antica
bella donna superba, con la corona in capo e la spada in pugno,
fiorente di una salute alla più parte dei suoi figli negata: ma si
espande sopra una moltitudine immensa di creature umane, povere e
stanche, che pregano, si lamentano e fremono; dalle quali il pensiero
del vecchio, infiacchito dagli anni, rifugge diffidente e sgomento.
E cent’altre parole usuali, in casa sua, par che abbiano acquistato
un secondo senso, che non significhino più per i figli la medesima
idea che per lui. S’è alterata la loro ragione? S’è pervertito il
loro animo? Padre e madre, su questo punto, vivono in una incertezza
dolorosa. Sì, dell’una e dell’altra cosa son certi, se badano al
fondo dei loro discorsi: le idee sono insensate e funeste; chi ne può
dubitare?... Ma ciò che li fa dubitare è il fremito vivo e sincero
delle loro indignazioni, è l’accento amoroso e profondo della loro
pietà, è la forza virile della loro persuasione, è la pertinacia
infaticabile con cui ripetono senza fine le stesse ragioni, rincalzate
ogni giorno da nuovi consensi inaspettati d’autorità rispettabili, è la
bella luce intellettuale che lampeggia sulla loro fronte, è un non so
che di sicuro, di indomato, di grande, che si sente confusamente nella
concitazione disordinata, della loro eloquenza provocatrice. Così è. In
quei momenti il giovinetto sembra un uomo e la signorina è più bella,
e i loro visi accesi son come coloriti dal riflesso di un’aurora,
che vedono essi soli. Con quelle idee, però, l’uno non farà carriera,
l’altra resterà ragazza. E questo è il pensiero che affligge più forte
le due canizie. — A questa vecchiaia eravamo riserbati! — si dicono, e
non vi si sanno rassegnare....

Eh! buoni vecchi, non sapevate che eterna è la lotta fra la vecchiaia
e la giovinezza, che la casa è il piccolo campo su cui principiano in
scaramucce tutte le grandi battaglie sociali, che altri padri, altre
madri hanno sofferto, tremato, lottato prima di voi, che ogni nuova
Idea costò alla famiglia affanni e terrori, perchè la famiglia pure
è un organismo che non concepisce senza turbamenti e non partorisce
senza spasimo? Fatti coraggio, buon vecchio: per la tua figliuola e
per quelle che la somigliano sorge una nuova generazione di giovani
magnanimi, che disprezzano le donne da cui non sono compresi, e adorano
quelle che a te paion fuorviate: la tua figliuola sarà adorata da un
uomo degno dell’anima sua, e dal pieno e possente amor loro nasceranno
dei figli superbi. E tu, povera donna, che vegli fino a mezzanotte,
col cuore trepidante, aspettando il figliuolo che andò alla Sede
dei Lavoratori, datti pace; non gli far rimproveri quando apparirà
sull’uscio; accoglilo dolcemente: egli ritorna a te più buono, più
onesto, più nobile di quand’è partito; egli porta nella mente un’idea
che gli illumina la vita e nel cuore una speranza che gli fa amare
il mondo. Datti pace: egli non sarà fortunato, forse: ma non sarà
egoista, non adorerà il danaro, non opprimerà i deboli, non rimpiangerà
un passato nefando per paura d’un avvenire che il mondo invoca. E
non raccomandarti, come fai ogni sera, a quella piccola immagine di
Cristo crocifisso che pende a capo del tuo letto, perchè ti converta
il ribelle. Se quel crocifisso si staccasse dalla croce e scendesse un
momento, grande e vivo, in mezzo a voi due, non sarebbe la tua fronte
quella che sentirebbe per la prima la dolce carezza della sua mano
trafitta.


Il partito socialista.

                                    _A un piccolo borghese liberale._

Tu detesti il partito socialista: ma tu vuoi l’istruzione, vuoi
l’incivilimento della moltitudine perchè comprendi che la civiltà
ora è composta d’un piccolo numero d’uomini civili e d’un armento
infinito di pecore. Ebbene, rifletti un po’. Questo partito che si
rivolge alla moltitudine incolta e inerte, intorpidita da secoli di
schiavitù, ignorante a un tempo dei suoi diritti e dei suoi doveri,
e le dissuggella gli occhi, la scrolla, le soffia nella mente e nel
cuore, le grida continuamente: — Svegliati, pensa, impara, dirozzati,
migliorati, organizzati, fa il tuo bene da te stessa, affrancati da
una tutela che ti terrà perpetuamente nell’oscurità e nell’impotenza,
— questo Partito, pure condannandolo per altri rispetti, tu lo dovresti
ringraziare, se non altro, in nome della civiltà e della dignità umana.

Tu hai in orrore la dottrina socialista; ma tu vuoi la moralità in
alto come in basso, la giustizia per tutti, una classe dirigente
illuminata, generosa, fautrice del progresso e della prosperità
pubblica. Ebbene, questo Partito, che con l’occhio vigile sulla
politica, sull’amministrazione, su tutte le forme del lavoro, su tutte
le funzioni dell’organismo sociale, continuamente e infaticabilmente,
senza riguardi e senza paure, rivela miserie, denuncia ingiustizie,
mette a nudo corruzioni, smaschera imposture, combatte false idee
ereditarie e pregiudizi barbari e privilegi iniqui, e incalzando
e tormentando con mille stimoli l’egoismo e l’inerzia della classe
privilegiata la costringe a discutere, a difendersi, a concedere, a
promettere, a fissare lo sguardo, se non altro, sulle miserie e sui
dolori umani, onde i migliori n’abbiano almeno pietà e i peggiori
almeno paura; questo Partito, credilo, esercita un’azione benefica,
della quale — se cessasse domani — avvertiresti la mancanza tu stesso
con un senso di rammarico e di sgomento.

Tu hai il socialismo in orrore; ma tu vorresti che la gioventù, che il
popolo avesse nell’animo un alto ideale, che i collegi elettorali non
fossero mercati in cui spadroneggia chi ha più danaro e meno coscienza,
che i rappresentanti della nazione cessassero d’essere servitori e
sensali degli elettori che hanno comprati e che disprezzano. Ebbene,
questo Partito, a cui accorrono giovani d’ogni classe, senz’altro
vantaggio personale prossimo nè remoto, anzi con la certezza di
persecuzioni e di danni immediati o futuri; questo Partito che, solo,
dà in qualche luogo l’esempio confortante d’un povero lavoratore
senza un soldo, più pauroso che desideroso d’essere eletto, il quale
vince nella lotta un ambizioso potente che ha dalla parte sua tutte
le forze dell’autorità, della clientela e dell’oro; questo Partito
che respingendo blandizie, promesse e favori di chi ha tutto e può
tutto, manda al Parlamento dei deputati che non hanno nulla, che non
gli promettono nulla, che nulla possono fare nemmeno per il più umile
dei loro elettori, che non faranno mai altro per tutti che lanciare
in loro nome delle proteste soffocate dagli urli della maggioranza e
dai presagi d’un avvenire migliore, accolti con risate di scherno da
tutti i soddisfatti del presente; questo Partito, credilo, è l’unico
che rappresenti ancora la giovinezza, la poesia, l’entusiasmo della
nazione; e se queste cose tu ami, come lo affermi, dovresti dire di lui
quello che il Voltaire disse di Dio: — che bisognerebbe inventarlo se
non esistesse.

Infine, tu vedi nel socialismo una calamità pubblica: ma tu desideri la
pace, tu vivi nel timore continuo d’una guerra che darebbe il crollo
all’economia nazionale e che porterebbe forse tuo figlio a morire
in una guerra lontana per una causa ripugnante alla tua ragione e al
tuo cuore. Ebbene, questo Partito che, mentre principi e governi si
gridano a vicenda, con simulata mansuetudine, parole d’amore e di pace,
ma senza smettere mai d’apparecchiare le armi, senza spogliarsi d’un
solo dei pregiudizi, senza rinunciare a una sola delle ambizioni, da
cui può erompere da un momento all’altro la guerra, questo Partito
che diffonde ed afforza nei popoli il sentimento d’una fratellanza
nuova; fondato sui veri ed eterni interessi di ciascuno e di tutti,
così che a ogni ombra di pericolo che sorga fra due nazioni milioni di
cuori gridano dalle due parti: — No, giù le armi, la causa per cui si
vuol combattere non è la nostra; mente chi afferma che ci odiamo, ci
tradisce chi ci vuol condurre al macello, noi siamo fratelli nel lavoro
e nella fede, e la bianca bandiera dell’avvenire è per tutti una sola;
— questo Partito, al quale si deve forse che non sia scoppiata ancora
in un quarto di secolo e che non scoppi mai più una guerra fatale che
coprirebbe di sangue e di rovine l’Europa, questo Partito, credilo,
non è una calamità, ma una benedizione, e invece di mostrare il pugno,
dovresti mandare un bacio alla sua bandiera.

E un giorno, forse, tu lo farai.

Intanto, continua pure a mostrarci il pugno: noi continueremo a
stenderti la mano. Continua a rallegrarti di tutte le violazioni
della libertà che in danno al Partito socialista si compiono: noi
continueremo a difendere anche la tua libertà. Continua ad accusarci
di non sognar che disordine, violenza e rapina: e il grande movimento
evolutivo dell’Idea socialista seguirà il suo corso di fiume enorme
che da ogni parte accoglie affluenti e allaga la terra «per deporvi il
limo fecondo per la coltura dell’avvenire»; continua a eccitare i tuoi
figliuoli a odiarci e a fuggirci: tu potrai strappare dal cuor loro,
ma non dal nostro, il sentimento divino della fraternità e la santa
speranza d’una società più giusta e d’una età più felice per tutti.


Compagno.

Non sorrida di questa parola, professore egregio; è passato il tempo
in cui si poteva ridere dei fatti nostri. Se ella, dotto cultore degli
studi storici, vivrà altri cinquant’anni, si potrà fare molto onore, un
giorno, studiando come sia sorto e come si sia diffuso tra noi l’uso di
quella parola.

Ma è il semplice vocabolo, forse, non l’idea, che fa sorridere, ed
ella ci vorrebbe domandare, come gli altri già fecero, perchè abbiamo
adottato quello e non altro.

_Amici_, vorrebbe dire?

Amici si può essere anche dissentendo intorno alle più grandi quistioni
che agitano il mondo, e, d’altra parte, noi siamo tanto numerosi, anche
in una città sola, da non poterci più chiamare propriamente con quel
nome.

_Fratelli?_

Con questa parola non ci possiamo distinguere e riconoscere, perchè per
noi tutti gli uomini sono fratelli.

_Camerati?_

È in uso tra la «forza armata», e nostro supremo desiderio e nostra
ferma fede è di non aver mai ad usare altra forza che quella della
parola.

_Compagno_, dunque, è il nostro vero appellativo, che significa
chi è avviato con noi, per la medesima strada, alla medesima mèta,
acceso della stessa speranza, esposto agli stessi pericoli, pronto a
soccorrerci, sicuro d’esser soccorso, commosso dalla stessa gioia che
commuove noi ad ogni nuova conquista compiuta, nel lungo cammino, dal
grande esercito inerme e invincibile a cui apparteniamo, e con cui
combattiamo senz’ambizioni, senza rivalità, senza vantaggi, coll’unico
compenso che vien dalla coscienza di servir la verità e la giustizia,
di preparare al mondo un’età migliore.

Ma già a che serve spiegare, professore egregio? Come il nome d’una
persona amata ha per chi l’ama un significato occulto e quasi un
suono intimo che altri non può comprendere nè sentire, così la parola
«compagno» per noi; e sarebbe inutile ogni sforzo che noi facessimo
per spiegarne a lei il valore, come è inutile spiegar la bellezza d’un
verso a chi ignori la lingua nella quale è scritto.

Solo l’operaio che s’ode chiamar «compagno» dallo studente, il
«signore» che si sente dar quel nome dal povero, il dotto a cui lo
dice l’uomo incolto, il giovinetto a cui lo dice il vecchio; solo il
propagandista appassionato che se lo sente dire per la prima volta
dall’amico per un lungo tempo restio, il quale adotta la parola come
segno e prova della sua conversione desiderata; solo il prigioniero
che in fondo a un pezzetto di carta, fattogli pervenire con mille
stenti, trova scritto: i compagni, sotto la consolante promessa che a
sua moglie e ai suoi figli non mancherà il pane: solo l’oratore che
lancia quella parola compagni a una folla di cinquemila uditori di
ogni classe, che l’accolgono tutti con lo stesso fremito di compiacenza
altera; solo colui che giunto in una città sconosciuta, si ode chiamar
«compagno» da cento giovani non mai veduti, ai quali, per l’effetto
di quell’apostrofe, si sente legato a un tratto da mille vincoli di
affetto e di pensiero come ad amici d’infanzia ritrovati; questi
soltanto, noi soli, possiamo sentire e comprendere la poesia e la
forza, il suono delle voci innumerevoli, il soffio possente di gioventù
e di vittoria che questa parola racchiude.

Come nei giorni della fanciullezza, alla scuola, in luogo della parola
«amico» che non s’usa ancora, s’usa quella di «compagno» e si rivolge
a tutti, signori e poveri, col sentimento stesso non turbato ancora da
alcun concetto di diversità di classe sociale; così a noi, con l’uso
di quel nome si ridesta nell’anima il senso istintivo di fraternità
e d’uguaglianza di quell’età più bella, che era rimasto sepolto per
molti anni sotto un cumulo, sovrappostosi a poco a poco, di false idee,
d’orgogli miseri e d’interesse di classe diventati egoismo pauroso
e incosciente; e in questo ringiovanimento di cuore e di linguaggio
sentiamo come un presagio e un avviamento a quel ritorno degli uomini
— illuminati dalla scienza e dalla esperienza — a certe condizioni e
forme di vita della fanciullezza dell’umanità, che è la definizione
poetica e incompiuta del socialismo.

Sì, questa parola «compagno» che ha acquistato un senso nuovo in
tutte le lingue europee, che si scambia famigliarmente da Parigi a
Berlino, da Milano a Madrid, da Nuova York a Londra, da Bruxelles a
Sidney, fra uomini che non si vedranno mai; questa parola al cui suono
grave ed amorevole, quando lo diciamo al più umile lavoratore della
nostra famiglia, tace in noi, come per virtù d’una parola magica, ogni
sentimento d’orgoglio vano, o se un momento persiste, è soffocato dopo
quel momento da un senso di vergogna, e di rimorso violento come una
rivolta del sangue; questa parola che a vederla scritta in capo a una
lettera diretta a noi, ci par tanto più bella e solenne quanto più
rozza ed inetta si rivela la mano che l’ha tracciata a fatica; questa
parola è per noi un alto e prossimo argomento di conforto e di gioia.

Del non poter più dire, del non sentirsi più dire da molti il caro
nome di amico, ci conforta il poter chiamare, il sentirci chiamar
da molti col nome di compagno. Ad ogni amico perduto cento compagni
sottentrano, uniti a noi, anche se conosciuti appena, da un nodo meno
intimo, ma più saldo e più fortemente umano di quello che s’è spezzato.
Nella folla che passa e nelle moltitudini immobili, cercando dei visi
amici, il nostro sguardo si arresta di preferenza sul viso di coloro
che chiamiamo compagni; visi mal noti, quasi sempre, veduti forse una
volta sola fra altri mille; ma che ci ricordano riunioni fraterne,
ore d’entusiasmo, moltitudini eccitate, sempre serene, cui su tutte
le fronti brillava la stessa fiamma. E più ci rallegra quella parola,
non detta a noi dalla bocca, ma dall’atteggiamento del viso, in mille
incontri fortuiti, espressa con un sorriso indefinibile, significata in
un saluto familiare cordiale. Che importa sapere il nome del passante?
Il suo sguardo, il suo saluto ci dice: — Sono un tuo compagno. — E
in quelle tre sillabe non udite, ma viste quasi, come i tre colori
sfuggevoli d’una bandiera, si sono incrociate due correnti luminose di
idee, di simpatie e di speranze.

Intanto la parola si diffonde. Ogni anno nuove miriadi di uomini la
comprendono e l’accettano. Essa corre di bocca in bocca in borgate dove
ieri era ignorata, è imparata da donne e da fanciulli, penetra nelle
scuole, risuona nelle assemblee, entra nelle letterature, s’impone
nella storia. E quanto più s’estende sulla faccia della terra e tanto
più echeggia profonda nel nostro spirito, tanto più si fa grande al
nostro pensiero e diventa dolce al nostro cuore. E per questo, con
sempre maggior ardore, noi raccomandiamo ai giovani di rispettarla
e d’onorarla, di non profonderla improvvidamente, di meditar bene su
tutto ciò che essa significa e impone, di pronunciarla sempre col cuore
e con la coscienza, di far comprendere alle loro sorelle, alle loro
fidanzate, ai loro vecchi che nulla dice quella parola ch’essi non
possono gridare a fronte alta davanti alle immagini della patria che
amano e del Dio che pregano; non solo, ma che debbono accettarla essi
pure, diffonderla intorno a sè, e benedir la gioventù che l’ha fatta
sua e la grida al mondo, perchè essa esprime la comunione di milioni
d’anime in un ideale che abbraccia le più grandi aspirazioni e le più
sante leggi di Cristo.

Questo diciamo ai giovani. È superfluo dirlo a coloro che hanno accolto
la fede socialista in quell’età, nella quale, quando essa nasce, nasce
a un punto dal cuore, dalla ragione e dalla esperienza della vita. Chi,
per un tempo, ha pronunciato la parola «compagno» con accento paterno
e la intese dire a sè con accento filiale, continuerà ad amarla e
propagarla, anche se la fede nella dottrina gli verrà meno; perchè non
potrà più rinunciare alla profonda e austera dolcezza che quella parola
gli fe’ conoscere, e rimarrà afferrato, illuso volontario al suo sogno,
come a un’illusione necessaria alla sua vita. E non sperino i fidi
e vecchi amici che ci combattono, e neppur i più amati parenti, che
quella parola possa mai morire sulle nostre labbra e nel nostro cuore.
Quando pure la vecchiaia e l’infermità e l’oscurarsi dell’intelligenza
o un rovescio di fortuna ci condannasse nei nostri ultimi anni ad
essere soldati disarmati e inoperosi dell’idea che ci splende alla
mente, quella parola ci rimarrebbe sempre nell’anima come l’espressione
del più alto stato a cui la nostra coscienza e la nostra vita d’uomini
e di cittadini si siano sollevate. E all’ultima nostra ora, dopo che
avremo detto addio alle creature strette a noi più caramente dal legame
del sangue, il nostro sguardo cercherà un amico, uno almeno, al quale
possiamo dire ancora una volta «compagno» come nei nostri bei giorni
di lavoro o di battaglia. E la più ambita, la sola gloria postuma,
desiderata da quelli fra noi che avranno degnamente operato per la
grande causa, sarà d’essere accompagnato là dove siamo tutti attesi da
un drappello di coloro a cui demmo quel nome e che sia il più povero di
loro quello che dandoci l’ultimo addio, ci saluti una volta ancora con
quella parola che ci fu così dolce e onorevole, e ci dica: compagno,
riposa; noi proseguiamo il cammino.


Nel campo nemico.

Compagno ingenuo, che ti perdi d’animo, qualche volta, considerando il
grande numero degli avversari che si combattono e degli indifferenti
che non ci badano, tu ti lasci scoraggiare da un’illusione. Chi esamina
gli uni e gli altri, classe per classe, con occhio attento, non solo
non si perde d’animo, ma sente rinvigorita la propria fede, e trova un
vero diletto nello spettacolo che gli offre il campo nemico.

                                   *

Per esempio, tu vedi una legione di giornalisti che tuonano e lanciano
scherni e calunnie contro il socialismo. Non ti sgomentare. Non tutti
credono e sentono quello che scrivono. Molti di essi, quando ragionano
a quattr’occhi con socialisti loro amici, non sono così feroci e
inflessibili come paiono nei loro giornali. Molti, nel giudicare la
società presente, non sono molto discordi da noi; non pochi riconoscono
nel Partito socialista la grandezza del fine, la logica e la lealtà del
procedere, il disinteresse, la generosità, la dottrina dei principali
propagatori; altri consentono anche in una parte del programma nostro
e giungon fino ad ammettere che il socialismo è un freno salutare alla
prepotenza di un individualismo senza pietà che ci condurrebbe alla
rivoluzione; alcuni vanno più oltre, e presagiscono che il socialismo
trionferà per cadere in breve tempo, è vero; ma dopo aver sgombrato
e preparato il terreno a una riforma meno ardita, ma pure grande
e durevole. E se di queste idee non lasciano trasparire nemmeno un
barlume nei loro articoli, se il più delle volte dicono violentemente
il contrario, è perchè non possono fare diversamente, perchè il
contrario vuole che dicano la gran maggioranza dei lettori che tengono
in vita il giornale di cui essi vivono, e se scrivessero la sola
metà di quello che pensano, si vedrebbero grandinar nell’ufficio le
disdette d’abbonamento. Ma se domani si fondasse un giornale socialista
con un milione di capitale, che offrisse diecimila lire l’anno ai
collaboratori, tieni per certo che molti di essi accetterebbero
con gratitudine un posto nella redazione e vi adempirebbero
«coscienziosamente» il loro dovere. La forza vera e tenace non è che
nella profondità delle convinzioni. Quelli non son dunque dei nemici
forti e incrollabili, che il socialismo abbia a temere.

                                   *

Così, tu vedi combattuto furiosamente il socialismo da tutti i così
detti «ben pensanti», i quali temono che il mondo mutando in meglio
per molti, muti in peggio per i pochi. Costoro chiamano i socialisti
«spostati, sobillatori, ribelli, invidiosi della ricchezza, nemici
del consorzio civile». Non te ne inquietare. Se tu li sentissi, la
maggior parte, quando parlano in privato dei borghesi più benestanti di
loro, di quell’aristocrazia milionaria, che li offusca col suo lusso,
li domina con la sua influenza e li offende con la sua alterigia; tu
sentiresti sulla loro bocca tutte le formule della critica socialista
più ardita, una identità di argomenti e di parole da farti credere che
studino a mente i nostri giornali; ma condite di ben altra acrimonia.
Bisogna vedere come analizzano le sorgenti torbide delle grandi
fortune, come flagellano l’ozio fastoso e superbo, come si rivoltano
contro la potenza corruttrice delle grandi ricchezze «accumulate in
poche mani». Essi gridano la croce ai socialisti della soffitta; ma
sono dei socialisti del terzo piano, furibondi contro gli sfruttatori
e i parassiti del piano nobile. Se non mirasse più in alto di questo
piano la nuova dottrina, si inscriverebbero forse nel Partito. In
ogni modo, sono socialisti dalla cifra del loro patrimonio all’insù,
«istigatori all’odio» tra cerchio e cerchio della loro classe, alleati
nostri indiretti, fautori parziali, avvocati segreti e inconsapevoli
della nostra Idea.

                                   *

V’è un’altra classe di avversari nostri che forse ti danno a pensare;
sociologi in carica, economisti insegnanti, accademici e conferenzieri,
i quali dimostrano scientificamente che il socialismo è una dottrina
assurda e funesta. Non bisogna dar loro un’importanza eccessiva. Molti
di essi si trovan nella condizione di quei sacerdoti che non han più
fede: bisogna pur che fingano di averla. Certo non esiste ancora un
programma governativo per le scienze economiche e sociali, come lo
chiedeva al ministero non è molto tempo, un senatore israelita; ma,
dentro a certi limiti, si può dire che è sottinteso. Lo stipendio segna
la strada; non si può professar socialismo dalla cattedra scientifica.
Può un cittadino qualunque, anche colto, giustificar la sua conversione
alle nuove idee, dicendo: — Mi son messo a studiare e mi son persuaso;
— ma come può dire un economista: Dopo trent’anni di studio riconosco
che ho battuto una strada falsa? — Non si può pretender l’eroismo da
alcuno. E quanti di essi, che combattono il socialismo con baldanzosa
sicurezza, sono assaliti da mille dubbi, che li fanno tentennare
e transigere nelle dispute private, e quanti dissensi dividon la
loro famiglia anche in faccia all’avversario comune, anche sui
punti capitali delle loro dottrine! Ma già l’edifizio della scienza
ufficiale, screpolato e rotto da ogni parte, somiglia a una di quelle
vecchie case di via Pietro Micca, di cui non restan più che i muri
esteriori, in mezzo ai quali si va innalzando, non veduta, la casa
nuova. Vista di lontano, la facciata ha ancora aspetto di solidità
e alcun che di maestoso, ma non è più che un simulacro d’edifizio,
condannato anch’esso a cader fra poco.

                                   *

V’è un’altra famiglia di nostri concittadini, che ti è cagione di
sconforto e di amarezza. Sono poveri impiegati, istitutori, borghesi
d’apparenza soltanto, formanti la così detta coda della borghesia, non
più legati a questa che di nome; i quali, per mille ragioni d’interesse
e di sentimento dovrebbero far causa comune con noi e schierarsi
primi nel nostro campo. Non pochi, è vero, vi son già schierati. Ma
i più rimangono ancora dall’altra parte, resistono all’azione della
propaganda, non si fanno veder mai con uno dei nostri giornali tra
le mani, sfuggono perfino visibilmente la nostra compagnia. E, tu li
credi nemici del socialismo e li chiami ciechi e li hai in ira. Quanto
t’inganni, per la maggior parte di loro. Non son ciechi, non timidi;
vedono e capiscono quanto noi; con noi sono la loro coscienza e il
loro cuore; ma il pane loro e della loro famiglia è nelle mani altrui;
se entrano nel socialismo, lo perdono; sono vigilati e minacciati;
non hanno libertà nè sicurezza. Ma non dubitare: i nostri giornali e
i nostri libri li leggono di nascosto, in seno alla propria famiglia
esprimono le nostre idee e le nostre speranze, sulla scheda elettorale
scrivono i nomi che noi scriviamo, e dell’incremento maraviglioso
del moto socialista che seguono con tutta l’anima, gioiscono e
insuperbiscono in segreto. Attendi che il partito diventi così alto e
vasto da poterli proteggere, e ve li vedrai accorrere a migliaia, alla
luce del sole, e riconoscerai che, in ispirito, v’appartengono per
sempre.

                                   *

Tu consideri ancora come nemica quella gran moltitudine di gente
di tutte le classi che al nome del socialismo scrolla le spalle e
risponde che non vuol nemmeno udirne discorrere e volta la schiena ai
propagandisti. Ma t’inganni. Tutti costoro ripugnano dal socialismo,
non perchè è quello che è ma per l’unica ragione che è una idea nuova,
e ripugnano egualmente da tutte le altre idee consimili per quella
inerzia dell’intelligenza e dell’animo chiamata ora misoneismo, per
cui l’accettazione d’ogni idea è una fatica, anzi un vero dolore,
che offende e sconcerta l’organismo come una violenza fatta alla sua
natura. Essi non hanno nè convinzioni nè passioni: stanno dalla parte
dove si può stare senza muoversi e senza pensare. Sono monarchici
sotto la monarchia, repubblicani con la repubblica, clericali dove il
clericalismo predomina, democratici dove impera la democrazia. La loro
divisa è: — Non vogliamo esser seccati. Non si curano di sapere se i
socialisti abbiano torto o ragione, se possano condurre la società al
meglio o al peggio: per loro sono dei disturbatori: e per questo solo
li hanno a noia e chiudon le orecchie alla loro voce. Non li udrai
mai neppure esprimere un giudizio sulla dottrina socialista; o se
lo esprimono sarà un giudizio d’altri, ripetuto macchinalmente, che
non ha alcuna radice nell’animo loro in cui nessuna idea può mettere
radice. La moltitudine è numerosa, certamente; ma non è forza ostile
e temibile. Non c’è bisogno di conquistarla, poichè su di essa non le
idee, ma i fatti soltanto hanno potere. Essa cederà ai fatti. Essa non
sostiene alcuna forma politica o sociale se non fino al momento in cui
è più comodo sostenerla che lasciarla cascare. Essa non ha altra forza
che quella del suo peso, e appena sentirà inclinato il terreno verso il
socialismo, scivolerà in questo tutt’a un tratto e tutta insieme come
una massa di neve giù per la china a un leggero soffio di vento.

                                   *

V’è poi nelle classi colte una categoria a parte di avversari nostri,
specialmente di personaggi in vista, fini d’ingegno ed elastici di
coscienza, i quali combattono il socialismo; ma spiando l’orizzonte
e fiutando il vento. Sono professionisti, scienziati, scrittori,
uomini politici, persuasi, in fondo, della inevitabilità di un grande
mutamento di cose; ma persuasi a un tempo che, per ora, è loro più
utile combatterlo che secondarlo. Lo combattono però con gli opportuni
riguardi per non precludersi la via al gran passaggio che si propongon
di fare al momento propizio. Accarezzano con una mano il proletariato,
ma lisciando con l’altra la borghesia! Parlano dell’affratellamento
delle classi, ma senza dire qual sia la prima che deve tender le
braccia; inneggiano all’avvenire migliore, ma senza determinare in
che cosa esso debba diversificar dal passato; approvano le leggi
eccezionali, ma a condizione che siano «applicate» con delicatezza.
Così potranno dire un giorno d’esser fautori antichi delle nuove idee e
d’aver cooperato al loro trionfo. V’è nella pelle di ciascuno di questi
borghesi un socialista rimpiattato, pronto a saltar fuori; il quale,
quando vanno in piazza, fa capolino, e quando entrano in un salotto si
aggomitola. Ma salterà tutto fuori fra non lungo tempo, non dubitare,
e senza aspettare scioccamente l’ultima ora. Chi sa quanti di costoro
volgono già in mente degli eloquenti opuscoli di propaganda diretti
a convincere o a vituperare gli ultimi renitenti ostinati! E sarà un
bello spettacolo in quel tempo una furia di conversazioni inaspettate,
una baldoria di coscienze rifatte, un carnevale di trasvestimenti e di
trasformazioni e di giravolte da superare in grandiosità e in lepidezza
quanto si è veduto al mondo finora.

                                   *

Così è. I nemici del socialismo, gli ostacoli che gli attraversano il
cammino, giudicati dai più così formidabili, son tali in apparenza
più che in realtà. È un sistema di vecchie fortezze disposto in
maniera che, caduta l’una, le altre non reggono; un esercito scrivente
e parlante, composto in gran parte di penne mercenarie che non
hanno forza alcuna sui cuori e sulle coscienze; una confederazione
d’interessati, ai quali non rimane più un solo grande principio,
dietro a cui nascondere la difesa dei propri interessi; e serrata
intorno a loro, una moltitudine d’infingardi e di abbrutiti incapaci
di difenderli, e, mescolati a questa moltitudine, gran numero di
astuti che covano già in cuore il tradimento. La prova che, sentendosi
deboli, sono sgomenti, è che non han nemmeno l’elementare prudenza di
difendersi con delle concessioni ragionevoli e di fare il loro festino
con un po’ di modestia: negano più avaramente che per il passato
e fanno un carnevale provocatore. A loro conviene veramente quella
similitudine di Louis Blanc che paragona la società del suo tempo a
Luigi XI nei suoi ultimi giorni, quando si sforzava di sorridere, di
dissimulare il suo pallore, di non vacillare camminando, e diceva al
suo medico: — Ma guardate! io non sono mai stato così bene. — Così la
società d’oggi, dice egli, si sento morire e nega la sua decadenza.
Circondandosi di tutte le menzogne della sua ricchezza, di tutte le
pompe vane d’una potenza che svanisce, essa afferma puerilmente la
sua forza e, nell’eccesso medesimo del suo turbamento, si vanta. I
privilegiati della civiltà moderna somigliano a quel fanciullo spartano
che sorrideva, tenendo nascosta sotto la veste la serpe che gli rodeva
le viscere. Essi pure mostrano un viso ridente, e si sforzano d’esser
felici; ma l’inquietudine sta nel cuore e li rode. — Ma già neppure
più sorridono: gridano il socialismo barbarie, chiamano i socialisti
malfattori, bestemmiano la libertà, si raccomandano a quel Dio in cui
non credono. La malattia volge al suo termine quando incomincia il
delirio.

Ecco la verità consolante.

Ed ora ti saluto, giovine compagno, e ti esorto a procedere serenamente
e nobilmente sulla via.... del domicilio coatto.


Obiezioni al socialismo.

Molti avversari dichiarati del socialismo sono fautori di una tassa
fortemente progressiva, qual’è nel «programma socialista minimo», e
presagiscono che questa tassa, fra cinquant’anni, sarà in vigore in
tutti gli Stati civili; oppure propugnano la necessità d’un’imposta
proporzionale sulle successioni, diretta a vantaggio esclusivo delle
classi lavoratrici, la quale costituisca una specie di diritto
successorio per tutti coloro che non hanno alcuna successione da
attendere, rendendo obbligatorio per tutti i ricchi quello che ora non
è che spontaneo atto di carità di qualcuno.

Altri dicono, come il Richet: — Non crediamo nel socialismo; ma
prevediamo che, per effetto della progressiva inevitabile diminuzione
del valore del capitale (prodotta da un complesso di cause che
dimostriamo), sarà un giorno quasi soppresso il capitalista; poichè
per avere una rendita corrispondente al guadagno accresciuto
del lavoratore, occorrerà un capitale così ingente, che saranno
un’eccezione minima quelli che potranno vivere senza lavorare.

Dicono altri come il Secrétan: — Noi non siamo socialisti; ma pensiamo
che le associazioni operaie si svolgeranno fino a un punto in cui
coordinandosi tutte in una vasta associazione nazionale, si troveranno
in grado di riscattare dai capitalisti tutti quanti i mezzi di
produzione e di attuare un sistema che ripartirà più largamente e più
equamente fra tutti i suoi lavoratori la somma delle ricchezze sociali.

Dicono molti altri come il Nitti: — Noi non abbiam fede nell’Idea
socialista; ma siamo persuasi che, allargandosi e perfezionandosi
l’organizzazione e l’educazione delle classi operaie, diventando anche
più meccanica l’industria, partecipando direttamente al potere come è
giusto e necessario il popolo lavoratore, la funzione della borghesia
sarà ridotta col tempo presso che a nulla.

Altri molti, del socialismo nemici inconciliabili, come lo Spencer,
ammettono come cosa possibile che il tipo sociale industriale
«forse con lo svilupparsi delle cooperative, le quali cancellano,
teoricamente, la distinzione fra lavoratore e padrone» abbia a produrre
in avvenire un ordinamento politico ed economico, in cui non esistano
più interessi opposti di classe.

Molti altri, come il Sonnino nel suo libro sulla Sicilia, dicono: —
Noi neghiamo la lotta di classe (e si sottintende); ma riconosciamo
che le nostre istituzioni libere sono ordinate in modo da perpetuare e
peggiorare uno stato di cose disumano ed iniquo, che esse non son che
armi messe nelle mani d’una classe perchè possa seguitare a vivere e
a godere a spese delle altre, e che bisogna fare in modo che questo
cessi, ossia «che l’aumento della ricchezza vada a benefizio delle
condizioni generali del lavoratore, invece di andar tutto quanto, sotto
forma di rendita fondiaria, nelle tasche dei proprietari».

Noi non siamo socialisti, dicono altri, come Pietro Ellero; ma vogliamo
che il lavoro abbia una legislazione propria che lo sciolga dai ceppi
servili, in cui lo lasciò il diritto romano e che i lavoratori abbiano
un’assoluta libertà «d’associazione, di concerti e di lotta»; vogliamo
delle istituzioni che facilitino loro in tutti i modi «il fido e il
procacciamento degli strumenti e della materia e l’avviamento alla
consecuzione del capitale».

Dicono altri, come il cardinale Manning: — Noi non accettiamo il
socialismo; ma vogliamo l’intervento diuturno dello Stato nelle
relazioni fra capitale e lavoro, vogliamo del lavoro l’ordinamento
internazionale e la fissazione delle ore e d’un salario minimo; non
vogliamo che continui l’accumulamento delle ricchezze a profitto
unico di certe classi e di certi individui «perchè è cosa ingiusta e
immorale, che conduce allo sfacelo del consorzio civile».

Dicono altri, come i conservatori dello stampo del Meyer di Germania:
— Crediamo noi pure un’utopia il socialismo; ma vogliamo tassati
fortemente tutti i profitti dell’industria e della banca, limitato
l’interesse a ogni capitale non messo in valore dal suo proprietario,
obbligati dallo Stato gli industriali a costrurre case per gli operai,
e migliorare le condizioni di questi in tutte le forme, e per forza di
legge.

Altri, difensori del principio di proprietà sotto ogni altra forma,
propugnano come molti in Inghilterra, la nazionalizzazione del suolo,
e dicono come James Mill: — Noi non siamo pel socialismo; ma vogliamo
vôlto a profitto dello Stato, per mezzo dell’imposta, quel plus-valore
della terra o almeno una gran parte di esso, che è conseguenza naturale
dell’accrescimento della popolazione e della ricchezza senza il
concorso di alcuno sforzo o d’alcuna spesa del possessore.

Altri ripudiano il socialismo; ma proclamano l’utilità di convertire
in servizi pubblici il maggior numero possibile dei servizi che sono
affidati ora alla speculazione privata e ritengono col Chamberlain
che il governo municipale sia il migliore strumento di riforme sociali
che debba essere suo ufficio l’accumulare le ricchezze della comunità
e adoperarle a sopperire ai bisogni dei cittadini men fortunati, ed
esercitare come la direzione d’una grande società cooperativa, della
quale ogni cittadino sia un azionista.

Dicono altri, come disse il Molinari, direttore del «Journal des
Economistes»: — Noi crediamo assurdo il socialismo; ma siamo costretti
a riconoscere che, per quanto debba esser grande il mutamento che da
ciò deve nascere, «i giorni dell’agricoltura individuale sono contati»;
e quale sia quel «grande mutamento» che il Molinari non determina, lo
accennano altri, come lo Zangtar, che, dopo aver studiato le proprietà
collettive dell’Ungheria e d’altri paesi, dicono: — Noi non siamo
socialisti; ma chi sa che il comunismo incosciente dei popoli fanciulli
non sia appunto quella forma naturale della produzione che, messa in
pratica scientemente, sarà chiamata a riportarci, nella maturità del
progresso, i giorni felici della fanciullezza, senza le tempeste che a
questa s’accompagnarono?

Altri, combattendo il socialismo, dicono, come il Barazzuoli,
che bisogna estendere la proprietà al maggior numero possibile di
contadini, «perchè il contadino che non possiede non sarà mai altro che
un servo della gleba»; e come si possa accordare questo frazionamento
della proprietà terriera con la fine della agricoltura individuale
pronosticata dal Molinari, che è ben altro economista che il
Barazzuoli, lo dica chi ha mente più acuta della nostra. Altri nemici
del socialismo come Vittorio Bersezio, mettono però innanzi la massima:
La terra a chi lavora. — Altri, come la nostra Rassegna «L’Economista»,
respingono il programma socialista, ma caldeggiano l’idea della
_nazione armata_. — Altri, come la più parte dei soci della «Lega della
pace», dicono: — Non siamo socialisti: ma crediamo nella federazione
dei popoli e nella pace universale. — Altri, come il Clemenceau: —
Non siamo socialisti; ma vogliamo assicurata a tutti i lavoratori la
vecchiaia. — Ed altri ancora: — Non siamo socialisti, ma vogliamo
parificati i diritti della donna a quelli dell’uomo. — Non siamo
socialisti; ma vogliamo la giustizia gratuita. — Non siamo socialisti,
ma vogliamo con l’istruzione obbligatoria il mantenimento dei fanciulli
poveri: senza di che l’istruzione obbligatoria è una tirannia e una
menzogna. — E si potrebbe continuar senza fine in citazioni consimili;
le quali ci dimostrano la verità di quella sentenza che ricordò poco fa
Carlo Wagner agli studenti universitari francesi: — L’avversario è un
collaboratore.

Mettete insieme, infatti, tutte le affermazioni, le proposte, le
tendenze, le speranze dei valentuomini sopracitati, per ciascuno
dei quali il socialismo è un’utopia, e vedete, se, supponendo le une
attuate e le altre avviate ad attuarsi, non conducono necessariamente,
fra tutte, all’attuazione integrale della idea socialista; vedete
se nel centro a cui tutte queste linee ideali convergono si possa
essere altra cosa che il socialismo. Tutti questi nostri avversari
ci fanno l’effetto di tante persone che portino inconsciamente una
pietra per la costruzione d’un edifizio il quale dicono impossibile
a costruirsi. Essi non possono concepire una riforma, un’idea di
progresso e di miglioramento sociale, la quale non sia un argomento che
indirettamente ci confermi nelle nostre convinzioni, un involontario
impulso al movimento delle nostre idee, una prova di più che non è
possibile progredire se non per la via sulla quale noi li precediamo,
e che per non essere trascinati al socialismo non ci son che due mezzi
logici: rimanere immobili o retrocedere. Ma il rimanere immobili è
per forza d’una legge sociale, inviolabile quanto una legge di natura,
impossibile, e il retrocedere pare a quelli stessi che lo vorrebbero
una cosa anche più temeraria e funesta che l’andare avanti.

Spontanei o forzati, consapevoli o no, sono dunque tutti in varia
misura nostri collaboratori. Progressisti arditi o cauti, conservatori
tenaci, retrogradi di cuore, se non di fatto, tutti i nostri avversari
si ritrovano, rispetto al socialismo, nella condizione di quei
cittadini di Nuova York, che vanno sulle «strade giranti»; possono gli
uni correre innanzi, altri star fermi, altri camminare in direzione
opposta al moto del ponte che li sostiene; ma tutti son portati
irresistibilmente da quella parte verso cui la strada procede.

E questa verità è compresa oramai anche dalla parte più incolta e più
apatica del popolo lavoratore. Non è un socialista italiano che lo
dice: è un francese legittimista e conservatore: «Intorno al letto di
porpora e di letame su cui muore questa società in decomposizione,
il popolo aspetta. Ben persuaso che tutto sarà per lui un giorno o
l’altro, egli è più burlone che violento, e meno impaziente che non
si creda: egli mostra invece una certa rassegnazione sorniona — una
pazienza di erede....»


Età agitata.

I moti delle classi lavoratrici che interrompono a quando a quando
il corso regolare della vita pubblica non paion ai contenti del mondo
che perturbamenti funesti dell’ordine, somiglianti ai terremoti, alle
inondazioni e a quell’altre commozioni della natura, le quali non
producono che rovine. Ma, considerati insieme e in un vasto spazio di
tempo, tutti questi sforzi vasti o circoscritti, quieti o violenti,
fortunati o sfortunati, con cui le moltitudini tendono a migliorare
il proprio stato, tutte queste agitazioni e convulsioni che mettono
innanzi alla società nuovi problemi da risolvere, che le ripresentano
sotto nuovi aspetti problemi antichi, che la fanno temere, pensare,
discutere, cercar rimedi, esperimentar mutamenti, che la costringono,
per preservare e risanare il suo organismo, a estirpare da sè abusi
e privilegi del passato, a tentar continuamente nuovi modi e forme di
funzione e di conciliazione dei propri elementi, sono correnti di vita
intellettuale e morale che la ringiovaniscono e la fecondano.

Se un miglioramento grande si avrà nell’avvenire, sarà effetto delle
perturbazioni e degli affanni che rendono quasi intollerabile la
vita presente a tutti coloro a cui pare che l’essere soddisfatti dia
il diritto di vivere in pace. Quello che a noi pare irrequietezza
morbosa e disordine fatale, a chi giudicherà in tempi lontani il tempo
nostro parrà preparazione, lavoro, lotta necessaria, generatrice di
bene. A noi sembra di essere in balìa d’un turbine che ci rigiri di
continuo nello stesso spazio; ma il turbine, rigirandosi procede, e
ci porta innanzi fra le sue spire; e il polverio che ci avvolge e ci
fa difficile il cammino è un nuvolo di semi che ricadono sulla terra
e germogliano. La società non partorisce senza dolore: soffriamo
tutti; ma è legge benefica della vita. Anche nell’animo del borghese
impaurito che impreca agli agitatori, e rivorrebbe la quiete antica a
prezzo della libertà, si vien formando sotto la paura e la collera un
concetto nuovo della giustizia sociale, doloroso, come un dente che
spunta, ma ch’egli non può reprimere; ogni giorno, nel secreto della
sua coscienza, e a malgrado proprio, egli fa una concessione alle
tendenze che avversa; e il germe, che in lui non ha ancora forza di
rompere l’involucro dell’egoismo di classe, fiorirà nel suo figliuolo
in un’idea umana. In questo cozzo tempestoso di forze e di passioni,
che travaglia tutti gli spiriti, l’anima umana ingrandisce, e s’apre
lentamente alla luce d’una bontà nuova, che sorge come un astro
all’orizzonte del mondo.

Simboleggiò forse questo pensiero il grande scrittore del «Germinal»
nella scena culminante del suo libro terribile. Dopo i lunghi giorni
d’affanno mortali passati dal minatore nelle tenebre delle gallerie
franate e dall’ingegnere nel lavoro disperato del salvamento, Stefano,
operaio ardente e ribelle, e Negriel, il capo autoritario e scettico,
che fino allora s’eran odiati, quando s’incontrano si gettano nelle
braccia l’un dell’altro e «singhiozzano a grandi singhiozzi nella
commozione profonda di tutta l’umanità che è nell’anima loro». Così nel
poema. Passerà la tempesta, e s’incontreranno così nella storia.


Mentre passano gli scioperanti.

V’è un certo numero di borghesi, i quali, in fondo, per bontà di cuore
e per lume di ragione, sono favorevoli, benchè indeterminatamente,
al movimento attuale del proletariato; ma che dallo spettacolo
di qualunque agitazione di popolo, sia pure nel loro concetto
giustificabile, e anche da una semplice passeggiata rumorosa di
scioperanti per le strade cittadine, hanno una scossa violenta
all’animo, da cui son messe in fuga, come un branco di passeri
spaventati, tutte le loro idee democratiche. In ogni torbido popolare
vedono la minaccia e il principio d’uno scatenamento fatale dei
peggiori istinti della moltitudine, il quale li fa disperare che essa
possa mai progredire civilmente per la via della libertà e dell’ordine,
nè incivilirsi mai per alcun’altra via. Io ne vidi parecchi, in
un’occasione recente, impallidire al passaggio d’una folla agitata, ma
non minacciosa, d’operai, e lessi nel loro viso l’amarezza profonda,
ch’essi provavano in quel punto, di sentir vacillare e cadere in sè
opinioni e sentimenti, dei quali abitualmente si vantavano. È un senso
di sgomento improvviso e irragionevole, somigliante a quello che si
ridesta a ogni più leggiero tremito reale o illusorio dei muri della
casa in chi ha esperimentato una volta il terrore d’un terremoto.

E non di meno son gente che, a mente calma, capisce quanta parte di
responsabilità, nelle agitazioni del popolo, sia tolta a ciascuno dalla
forza che esercita sull’individuo l’eccitazione collettiva, e quanto
trascenda la passione e la volontà di ciascuno il fluido inebbriante
che si sprigiona dal contatto delle persone e dalla confusione delle
voci. Essi non rammentano, in quei momenti, le urlate e le baruffe
selvagge dei parlamenti, le irruenze devastatrici delle studentesche,
i tumulti furiosi di molte adunanze, non composte che di cittadini
delle classi superiori, ma divisi da passioni di partito e da
opposizioni d’interessi economici. Essi non pensano in che larga misura
concorra a far trasmodare la folla popolare una naturale reazione
che, in quella breve ebbrezza di libertà, s’opera in essa contro
la monotonia pesante della vita ordinaria, del lungo lavoro sempre
eguale, del pensiero ristretto, dell’immaginazione compressa dalle
consuetudini meccaniche, della necessaria rinunzia quotidiana a mille
piccoli desideri, continuamente rieccitati dallo spettacolo di chi
li appaga e ne cerca senza posa di nuovi, non per altro che per aver
l’occupazione d’appagarli. Essi non considerano, quando eccessi veri
si hanno a lamentare, che in quelle folle s’intromettono, non voluti
e irriconoscibili, elementi sfrenati e malefici, delle cui violenze è
ingiusto il far ricadere la colpa sulla moltitudine intera: elementi
che s’insinuano anche nelle dimostrazioni pubbliche, quando queste si
prolungano, della gioventù studiosa, che s’intromettevano anche nelle
più nobili agitazioni patriottiche del passato, che da per tutto si
fanno armi offensive d’ogni idea e d’ogni passione più santa, quando
questa invade in forma di torrente umano le vie e involontariamente
ricopre e protegge con le sue onde gli sfoghi individuali della
malvagità e della vendetta.

Per questo il «buon popolo lavoratore» ogni volta che appena si
muova, si trasmuta ai loro occhi nella «Gran Bestia» e assistendo alle
manifestazioni del suo malcontento essi passano davvero di assai brutti
quarti d’ora di ansietà e di amarezza. È il ricordo e il timore di quei
quarti d’ora che, al primo annunzio di ogni sciopero, e prima d’ogni
considerazione delle sue cagioni e del suo scopo, desta in loro un
senso di molestia e d’avversione, una tendenza a condannarlo senz’altro
come un turbamento colpevole della pace pubblica, a giudicarlo non
mosso da altre cause che dall’istigazione di pochi mestatori e da un
bisogno turbolento di ribellione e di fannullaggine. E sogliono dire:
— In che maniera non pensano questi male ispirati alle privazioni e
alle angoscie a cui vanno incontro, e a cui trascinano le loro povere
famiglie? — Come se fosse possibile che non ci pensassero di continuo,
poichè esse cominciano, si può dire, fin dal primo giorno, e come se
avessero altro a cui pensare!

Il vero è che, mentre lo sciopero dura, sono essi, gl’impauriti, quelli
che a tali privazioni ed angoscie non pensano, avendo tutto l’animo
occupato dall’affanno proprio; chè se le avessero presenti al pensiero,
come dovrebbero, sarebbero disposti ad una grande indulgenza per
coloro che le patiscono, anche giudicando che questi ci siano andati
incontro senza ragione. E se serbassero maggiore tranquillità d’animo
in quei giorni, invece di approvare i privati che, giudicando uno
sciopero ingiusto e dannoso a un interesse generale della cittadinanza,
largiscono pubblicamente dei premi in danaro agli operai rimasti al
lavoro, riconoscerebbero che un tale atto sarebbe soltanto ragionevole
e umano quando quegli stessi donatori aiutassero con oblazioni i
lavoratori a sostenere la lotta, nei casi non rari di sciopero, in cui
la ragione è palesemente dalla parte loro, e nessun interesse generale
è danneggiato: del qual fatto sarebbero molto imbarazzati a citare un
esempio.

Così è. Fa più nemici a ogni buona causa la paura che la persuasione
e l’interesse: anche l’interesse, sebbene la paura nasca da questo,
perchè in molti, a cuor pacato, il sentimento dell’interesse
individuale o di classe non è tanto forte da toglier loro la percezione
e il rispetto dell’interesse altrui: è la paura che lo ingigantisce
e lo accieca. Disse Garibaldi che «la paura non serve a niente». Così
fosse soltanto! Ma è ben di peggio. Essa confonde la visione del vero,
offusca il concetto della giustizia, comprime il sentimento della
pietà, e paralizza ogni forza benefica d’azione civile.


Il malinteso borghese.

L’«ignoranza plebea» è quella della moltitudine, la quale non sa perchè
non ha studiato e non ha studiato perchè non ha potuto; nè si può
disconoscere che questa ignoranza sia senza colpa. Eppure come d’una
colpa ne parlano con iroso disprezzo coloro che attribuiscono ad essa
la facilità con cui il popolo accoglie «le illusioni del socialismo».
Se poi osservate loro che in tutti i paesi queste «illusioni» sono
più facilmente accolte dalla parte più incolta, essi rispondono che
sono egualmente facili ad illudersi «l’ignoranza e la mezza cultura».
Ebbene, arrestiamoci qui, perchè l’argomento si può rivoltare.

La mezza cultura è facile del pari ad accettare idee false e a
respingere e a dileggiare delle giuste, soltanto perchè nuove e grandi.
Non sarebbe per l’appunto la mezza cultura della nostra borghesia
quella che la fa così arditamente sentenziar false, insensate,
chimeriche le idee socialistiche?

Ogni socialista si persuade di questa verità dopo aver riconosciuto per
esperienza che, quanto più gli avversari con cui gli occorre discutere
quelle idee sono largamente e profondamente colti, tanto più si
mostrano inclini ad accettarne alcune, cauti nel respingere le altre,
disposti a ponderarle tutte, e gravemente pensierosi del corso e degli
effetti che esse possano avere nell’avvenire. Via via che si discende
sulla scala della cultura, si trova una più feroce ostilità. Toccato
sul socialismo il professore universitario riflette e ragiona; il
capomastro arricchito strepita e sputa. E questa diversità ha un grande
e consolante significato.

Si obbietterà: — In che maniera potete parlare di mezza cultura in
Italia, dove gli studi economici, per consenso anche di illustri
stranieri, sono spinti innanzi e diffusi più che in ogni altro paese?
A questa domanda risponde un valente sociologo italiano (che non
è socialista) in uno scritto «sul movimento economico e sociale in
Italia» pubblicato da un’importante rivista belga. Risponde che i
cultori di questi studi, fra noi, formano quasi una classe a parte, che
influisce pochissimo sulla borghesia, la quale sta fuori quasi affatto
dalla cultura superiore, in modo che il grande progresso degli studi
economici e sociali non è in relazione diretta con quello della cultura
pubblica. E in prova di ciò allega il fatto che la grande maggioranza
delle nostre persone colte, ignorando che le dottrine del socialismo
hanno ormai un largo e saldo fondamento scientifico, ne parlano
ancora candidamente come di compassionevoli utopie. E cita un grande
e autorevole giornale italiano, che pochi mesi sono pronunciava ancora
questa sentenza: «Il socialismo è il danaro degli altri».

Ebbene è così. Ma uomini dotti in scienze e in lettere, persone
che reggono alte cariche dello Stato, giovani e signore brillanti
dell’aristocrazia intellettuale, e bravi insegnanti e ottimi impiegati
e funzionari e proprietari anche di alto bordo, la grandissima
maggioranza, insomma, della nostra media ed alta borghesia, è ancora
a questo segno. Interrogateli, tastateli intorno alla più grande
questione del tempo nostro, voi riconoscerete subito, in quasi
tutti, l’ignoranza perfino del significato proprio delle parole più
indispensabili a discutere; v’udite dare di quelle risposte che vi
rivelano istantaneamente l’assoluta inutilità di ogni discussione, e
vi fanno rimanere stupefatti, presi da un senso di tristezza e di pietà
che vi mozza la parola.

Sì, a questo punto siamo ancora in Italia.

Questa profonda agitazione di popoli, che ha la sua causa in tutte
le miserie e in tutti i dolori umani e trae la sua forza da tutti i
progressi materiali e morali dei tempi nuovi; questa aspirazione di
milioni e milioni d’uomini a salire ad un ordine di vita più degno,
a godere della parte che loro spetta dei beni che essi producono,
ad affrancare il proprio lavoro dalla servitù che lo strozza e
l’anima loro dalla ignoranza che li incatena e li avvilisce, questo
irresistibile movimento del proletariato «spinto da tutte le forze
della storia e da tutte le necessità economiche del secolo» ad un
miglioramento di Stato che andrà a vantaggio di tutto quanto il
corpo sociale e attuerà una forma di civiltà superiore, impossibile
a immaginarsi raggiunta per altra via; tutto questo non è che.... «il
denaro degli altri».

Questo sentimento invincibile, d’un nuovo diritto che in questi paesi
urta e scuote dalle fondamenta l’edificio delle vecchie legislazioni
e vuole conversa in pro dei milioni di deboli la protezione della
legge non sfruttata finora se non da pochi che la dettarono; questa
ribellione della coscienza universale contro il disordine della
produzione, contro la furia pazza della concorrenza seminatrice di
rovine; contro le disuguaglianze mostruose e la mostruosa tirannia
delle ricchezze usurpate e confederate a pubblico danno; questo vasto
e possente soffio di pietà e di fraternità che tende ad associare tutte
le forze a benefizio comune, sopprimendo le cagioni degli odii e delle
violenze sociali e conciliando tutta la libertà con tutta l’uguaglianza
possibile in una forma di Stato che non sia altro che «la volontà
organizzata di tutti»; tutto questo non è che.... «il danaro degli
altri».

Tutti i grandi intelligenti che da mezzo secolo hanno forzato
l’economia politica a riconoscere di non esser soltanto «la coscienza
dell’egoismo umano» e hanno gettato lo sgomento e il disordine
fra le file dei vecchi campioni del brigantaggio legale: l’uomo di
genio che con uno dei più poderosi sforzi che abbia mai compiuto
il pensiero umano ha dimostrato la trasformazione sociale come la
meta inevitabile di tutta l’evoluzione storica, suscitando dietro di
sè una legione di dotti e intrepidi apostoli che hanno conquistato
la Germania; i potenti pensatori americani ed inglesi che con
maraviglioso apparecchio di dottrina agitano da anni la formidabile
questione della «nazionalizzazione della terra»; i sapienti ed
infaticabili organizzatori belgi che con un lavoro miracolosamente
paziente hanno fatto già «emergere dal mare borghese un arcipelago
di isole socialiste» pronte a riunirsi alla prima scossa tellurica
in un continente; tutti i privilegiati e i ricchi d’ogni nazione,
che, spinti dalla ragione e dal cuore verso la nuova Idea, hanno
per essa rinunziato agli onori, alle ricchezze e alla pace; e tutti
quegli altri innumerevoli di ogni classe che, senza alcuna speranza di
vantaggio personale neanche remoto, hanno affrontato ed affrontano per
quella Idea calunnie, persecuzioni, esilii, miseria, alteri dei loro
sacrifizi, incrollabili nella loro fede, ricompensati di ogni danno e
felici per quella speranza d’un mondo migliore che portan nell’anima;
tutti costoro non sono che gente.... che vuole «il denaro degli altri».

Questo a molti della classe proletaria parrà incredibile. — Non credono
quello che dicono — penseranno essi — così diranno per ira o per
ostentazione di noncuranza a chi con lo spauracchio del socialismo li
turba: ma, in realtà, intuiranno la grandezza dell’Idea e dei fatti, e
celatamente se ne occuperanno con curiosità e con coscienza. — Ma no,
punto. Ci sarà qualche rara eccezione. Ma la grandissima maggioranza,
giudicando come giudica, è in piena buona fede, e per naturale
indolenza o per dispettoso proposito tiene rigorosamente chiuso
l’intelletto a tutto quest’ordine di idee, e con puerile ostinatezza
ripete all’infinito contro le nuove dottrine degli stessi logori,
decrepiti argomenti ereditati dalle passate generazioni, strepitando
contro chi, anche con le più miti forme, insiste a farle osservare
che non servono più. Bene ha detto non so che storico: che Dio acceca
le classi sociali che vuol perdere. Ed è fiato perso dir loro come il
cardinale Manning — che è insensatezza il chiudere gli occhi per non
vedere l’abisso verso cui si corre.

Si consolino dunque quei rozzi lavoratori, che qualche volta si dolgono
e si vergognano di mancar della coltura necessaria per comprendere
pienamente la grande questione che li interessa.

Quel monco e vago concetto che essi possono avere dei vizi del nostro
ordinamento sociale e delle vaste riforme disegnate è quasi una
cognizione luminosa in confronto della «_voluta oscurità del sepolcro_»
in cui rimane a tal riguardo la mente della maggior parte della gente
colta, oscurità in cui socialisti e ladri di strada, collettivismo e
anarchia, Carlo Marx e Davide Lazzaretti, e organizzazione del lavoro
e divisione dei beni e naufragio della civiltà, formando tutto una
arruffata inestricabile fantasmagoria, attraverso alla quale passa una
volta all’anno un lampo livido di paura, non tanto per illuminarla,
quanto per accrescerne la miseranda confusione.

Si consolino dunque. Coll’andar del tempo, istruiti dalla propaganda,
esercitati dalla riflessione, essi comprenderanno sempre meglio gli
elementi della dottrina e la ragione degli avvenimenti; mentre il
maggior numero dei loro avversari, avendo sempre più annebbiata la
mente dall’orgoglio offeso e dalla crescente inquietudine, _capiranno
sempre meno_ dell’una e dell’altra cosa.

Il socialismo, rovesciate le ultime barriere internazionali, invaderà
il loro paese come un oceano, ed essi cercheranno ancora all’orizzonte
i «pochi abitatori», cagione unica della inondazione, per denunziarli
alle Autorità costituite. La marea montante inghiottirà l’una dopo
l’altra istituzioni fracide, privilegi iniqui, idoli falsi e ricchezze
scellerate, ed essi crederanno quello il trionfo passeggiero di
un’idea pazza, portata in su da un’ondata improvvisa della canaglia;
«e avranno l’acqua alla gola che non capiranno ancora»; _e moriranno
affogati, senz’aver capito ancora_. E se risuscitando di qui a
cent’anni, potessero vedere estirpata dal mondo la miseria, rigenerate
le plebi, trionfante la giustizia e mutata in libertà vera questa larva
miserabile che ne porta il nome, credo che davanti a quello spettacolo
crollerebbero il capo in atto di sdegno, dicendo: — Tutto questo non è
che.... «il danaro degli altri».


L’eguaglianza nel socialismo.

Tempo fa, un giovane drammatico, del quale ammiriamo l’ingegno
vigoroso, rispondeva alla circolare d’un giornale, che domandavagli la
sua opinione intorno al socialismo:

« — Vi sono avverso perchè _socialismo_ significa _eguaglianza_, e
questa sola parola mi irrita».

Questa risposta, che esprime il pensiero di molti, ci suggerisce alcune
considerazioni.

Prima di tutto, non ci pare una risposta chiara.

A quale eguaglianza, domandiamo all’egregio autore, volete alludere?

Non vi domandiamo se è «l’eguaglianza davanti a Dio» perchè, se siete
credente, la domanda sarebbe per voi un’offesa, e se non lo siete, non
avrebbe per voi alcun senso.

Non vi domandiamo se avete accennato all’«eguaglianza davanti alla
legge», perchè per voi, cittadino italiano liberale, sarebbe anche
questa domanda un’ingiuria.

Non vi domandiamo neppure se avete inteso di dire «l’eguaglianza
di tutti gli uomini nell’estimazione pubblica», perchè non possiamo
supporre che voi attribuiate al socialismo l’ideale assurdo di una
società in cui l’uomo ottuso, fiacco, inutile, vile o malvagio e
l’uomo d’ingegno, di cuore e di carattere, operoso e utile ai suoi
concittadini, siano considerati tutt’uno. Voi capite benissimo che,
qualunque eguaglianza debba regnare nella società da noi presagita,
fra il semplice lavoratore meccanico e l’inventore d’una macchina
che allevierà il lavoro a migliaia di braccia, fra il portinaio del
teatro e l’autor drammatico che rallegrerà e commoverà migliaia di
cuori, vi sarà sempre nel concetto pubblico, la distanza che separa
la stima dall’ammirazione, la benevolenza dall’entusiasmo, l’oscurità
dalla gloria. Dicono il contrario i nemici del socialismo ignoranti ed
ipocriti; non lo dite dunque voi, si capisce.

Non pensiamo nemmeno che abbiate fatto allusione all’«eguaglianza
economica», poichè la favola dello Stato socialista in cui tutti
mangiano la stessa razione e vestono gli stessi panni non è più
sfruttata neppure dai burloni di mala fede e di poco spirito; perchè
voi non ignorate, senza dubbio, che la formola: «a ciascuno secondo i
suoi bisogni» non esprime che un ideale remoto, non reputato attuabile,
anche dai socialisti, se non in un tempo in cui la produzione sia
cresciuta sotto ogni sua forma, a tal segno, da sopprimere il problema
stesso della ripartizione; perchè voi sapete certamente (e lo sa il
più incolto degli operai socialisti) che la formula del socialismo è:
«a ciascuno secondo le sue opere»; ciò che sottintende una diversità
di guadagni, corrispondente alla varia qualità e quantità del lavoro,
e quindi una diversità di agiatezza e di modi di vita, non contradetta
punto dal principio dell’abolizione «della proprietà privata dei mezzi
di produzione»; la quale consente ogni altra maniera di proprietà,
di oggetti utili e superflui, di comodità, di diletto e d’ornamento,
acquistabili col frutto diretto del proprio lavoro.

Quale può esser dunque il Vostro pensiero? È forse questo: che nello
stato d’eguaglianza voluto dal socialismo non sarà più possibile a chi
è dotato di grandi facoltà d’intelletto e di elette qualità d’animo
l’ottenere il premio, secondo voi meritato, della ricchezza? Se tale
è il vostro pensiero: — Guardate intorno a voi, vi rispondiamo — e
vedrete se, nella società presente, son le facoltà più alte della
mente e le qualità più elette dell’animo quelle che, nella maggioranza
grandissima dei casi, conducono alla ricchezza. È evidente anche
all’intelligenza d’un fanciullo che esse non vi conducono se non per
rarissime e quasi miracolose eccezioni, e per via assai più lunga e
difficile di quella per cui vi giungono delle facoltà intellettuali
di second’ordine, aiutate dall’audacia, dalla fortuna, dall’astuzia,
dalla mancanza di scrupoli, dal disprezzo dell’opinione pubblica,
da un vigore selvaggio di volontà, da una violenza brutale di
egoismo che toglie all’uomo ogni carattere di creatura cristiana e
civile. Guardatevi intorno e vedrete, in tutti i campi dell’attività
intellettuale, e specialmente in quello delle scienze, delle lettere e
delle arti, che è il campo vostro, quanti sono gli uomini d’ingegno,
anche elettissimo, e di rara operosità, i quali, non per loro
particolare sfortuna, ma per forza regolare delle cose, rimangono per
tutta la vita in uno stato di mediocrità economica vicino all’angustia,
costretti a un lavoro logorante e a una lotta affannosa, piena
d’umiliazioni e dà amarezze. Su cento uomini d’ingegno — ed onesti,
si sottintende — perverrà uno solo — per la sola virtù del proprio
ingegno, — all’agiatezza; e all’opulenza, uno su mille. Il numero dei
fortunati è dunque così scarso che non sarebbe ragionevole nè umano,
solo per lasciare a quei pochissimi la strada aperta alla ricchezza, il
respingere una riforma sociale che condurrebbe a uno stato migliore dei
milioni.

L’eguaglianza che voi non volete sarebbe forse quell’«eguaglianza
nelle condizioni iniziali della lotta per la vita» voluta dal
socialismo, la quale renderebbe possibile a tutti gli uomini d’ingegno
di qualunque stato sociale l’educazione delle loro migliori facoltà
e quindi il concorso ai più alti uffici intellettuali, che sono
ora in massima parte circoscritti, e quasi ereditari in una classe
sola? Non lo crediamo perchè vi sarebbe contraddizione stridente fra
la vostra avversione a siffatta eguaglianza e la vostra coscienza
d’uomo d’ingegno a cui pare che l’esercizio utile di una intelligenza
superiore dia diritto a una condizione di vita privilegiata. Non lo
crediamo, perchè è impossibile che voi non sentiate nel cuore le mille
voci che vi gridano dai campi e dalle officine: — O signori, poichè
dite che l’ingegno è un dono di Dio, e lo volete onorato e protetto,
affermato che ha lui il governo del mondo, perchè non lo cercate,
come l’oro nella terra, da per tutto dove si cela? Nascono anche fra
noi intelletti potenti che poggerebbero nelle scienze e nelle arti ad
altezze mirabili, giovando al mondo: perchè li lasciate all’aratro e
all’incudine? Perchè alla gara degl’ingegni, fra cui la società deve
scegliere a servirla i più forti, non chiamate anche i nostri, voi che
dite che la libertà politica ha aperto a tutti le vie? — No, voi non
potete non sentire che questo grido è giusto, nè potete non comprendere
che l’eguaglianza «nelle condizioni iniziali della lotta per la vita»
fra tutti i cittadini, consentendo la scelta degli ingegni sopra
una concorrenza centuplicata, produrrebbe a vantaggio della società
una selezione intellettuale cento volte più rigorosa e feconda di
quella che oggi si compie. Non è dunque neppur questa, senza dubbio,
l’eguaglianza da cui voi ripugnate.

Quale può essere allora il vostro pensiero e quello degli altri
moltissimi che avrebbero dato la vostra stessa risposta? Qual’è la
ragione per cui, anche astraendo da ogni idea d’eguaglianza economica,
suona così ingrata e spaurevole questa parola alle persone della vostra
classe, siano coltissime o inverniciate appena di lettere, siano
ricche o agiate e anche vicine alla povertà? Sono, a parer nostro,
molte ragioni e sentimenti diversi e confusi, ragioni d’interesse e
d’orgoglio, legate ad abitudini e a pregiudizi antichi; la maggior
parte delle quali nessuno osa dire apertamente, e moltissimi non
saprebbero neppur spiegare a sè stessi.

Prima di tutto, essendo fermo nella più parte il concetto che la
gran moltitudine dei lavoratori poveri non possa innalzarsi mai,
quasi per legge di natura e per una specie d’inferiorità congenita,
a dignità di vita intellettuale e a gentilezza di sensi e di modi,
pare alla più parte che il voler l’eguaglianza non possa significar
altro che voler rendere tutti ignoranti e rozzi a un modo. Oltre di
ciò, nelle condizioni attuali della società, noi della classe borghese
(diciamo «noi» soltanto per esprimerci più chiaramente per il fatto
d’appartenere a una classe che ha in mano la somma delle forze sociali
e trae dalla comunanza degli interessi uno spirito di solidarietà suo
esclusivo) godiamo di mille soddisfazioni morali e protezioni e favori,
che temiamo, confondendosi le classi, di perdere. La prima protezione,
innegabile ed evidentissima, è quella della giustizia, esercitata da
cittadini della classe nostra, compresi dei nostri sentimenti; dei
nostri interessi e delle nostre idee. La prima soddisfazione è quella
di sentirci, anche se mediocri d’intelligenza e scarsi di cultura,
infinitamente superiori ai nove decimi della popolazione, mantenuti
necessariamente in uno stato di ignoranza quasi barbarica: facile
superiorità, che, coll’assurgere della moltitudine a un più alto grado
d’educazione intellettuale, ci sarebbe tolta o scemata. Di più, noi
abbiamo assegnato, per interesse di classe, ad ogni anche facilissimo
ed umile lavoro intellettuale un grado di nobiltà, così ingiustamente
superiore a quello d’ogni lavoro meccanico anche più utile e difficile
e pericoloso, che un mutamento dello spirito pubblico, il quale
innalzasse l’opera manuale all’estimazione che le è dovuta, ridurrebbe
l’opera della maggior parte di noi al livello di questa; onde temiamo
quel mutamento.... S’aggiunga che noi temiamo di perdere il diritto,
che, per un’esagerazione egoistica, di amor paterno, ci siamo creati,
ma della cui giustizia non siamo veramente persuasi, di tramandare ai
nostri figli l’agiatezza che abbiamo acquistata, col nostro lavoro:
ossia la facoltà di vivere senza lavorare, di godere dei beni da noi
non guadagnati, senza quella ingiustificazione che li fa nostri nella
nostra coscienza. E non basta: noi ci siamo fatto un mondo a parte, in
cui si può goder la stima o l’apparenza del rispetto di tutti anche non
facendo nulla, o smettendo di lavorare, per vivere a spese pubbliche,
venti anni prima di non esser più abili al lavoro, o esercitando
l’ingegno in frivolezze o sciupando insensatamente il proprio avere:
un mondo in cui si può acquistar simpatia e considerazione sfoggiando
un’istruzione superficiale e in gran parte inutile, usando certi modi
convenzionali, parlando un certo linguaggio di cerimonia e vivendo
secondo certe regole di decoro da noi stabilite: tutti vantaggi e
privilegi che svanirebbero affatto in una società in cui il valore
degli uomini si misurasse alla sola stregua della loro opera di
lavoratori. Noi temiamo, infine, la perdita del lusso, che dà in parte
le compiacenze della gloria, e che è una specie di gioia comprata; la
facilità di acquistar nome di benefici e di esser lodati e benedetti
dando alla povertà la centesima parte del nostro superfluo, la
soddisfazione di andar distinti dalla moltitudine per mezzo di titoli
e di segni onorifici di agevole acquisto, che sono per la nostra
classe ciò che i gioielli e i fiori di cui s’orna la donna davanti
allo specchio, ed altri infiniti godimenti e diletti raffinati, non
possibili che a chi ha denaro e tempo da gettar via; nei quali diciamo
che consiste l’essenza della civiltà, mentre non son che i segni della
sua vanità e della sua corruzione.

Queste sono le ragioni vere, per le quali aborriamo tutti, quasi
istintivamente, da quella qualsiasi eguaglianza che il socialismo
annunzia, e perchè queste ragioni ci vergogniamo di dirle, ne
alleghiamo dell’altre, a cui neppure noi diamo fede, come quelle della
«società convertita in caserma» e della «terra distribuita a pezzi
fra tutti» e delle «anime ridotte tutte a uno stampo», per dirla con
l’autore delle «Vergini delle rocce»; la quale ultima è il più sciocco,
il più vieto e il più compassionevole sproposito che si possa lanciare
contro il socialismo.

A tutte le accennate ragioni d’avversione alle nostre idee se ne
aggiunge negli scrittori una particolare, ed è un segreto risentimento
che essi nutrono contro le moltitudini incolte, le quali non
comprendono l’opera loro ed anche ignorano in gran parte la loro fama.
Ma chi ha mente e cuor vero d’artista non dovrebbe esser capace di
questo risentimento ingiusto, che ha radice in un orgoglio meschino;
dovrebbe anzi in quel fatto che può addolorarlo, ma non offenderlo,
riconoscere un argomento in favore dell’idea socialista, la quale
portando con sè un più alto grado d’istruzione popolare, innalzando la
folla a uno stato di vita più intellettuale, promette agli scrittori
e agli artisti un ben altro campo di gloria da quello che oggi è
loro concesso. Come non pensano essi che cosa sarebbe la loro potenza
quando il raggio del loro pensiero, non più intercettato dal baluardo
d’ignoranza che divide ora la società in una piccola minoranza civile
e in una grandissima maggioranza semi-barbara, penetrasse a traverso a
tutti gli strati sociali, recando la sua luce e il calore dalle capanne
della montagna ai sotterranei della mina, dappertutto dove c’è un cuore
che palpita e una fronte che suda? Come l’anima loro non s’infiamma
di speranza e di entusiasmo a questa idea? E come non presentono che
questo dev’essere e che sarà certamente, se la ragione umana non si
spegne?

Sì, questo sarà. La parola dello scrittore di genio che ora corre come
un rigagnolo, serpeggiante in un vasto letto arido dove pochi passanti
ne raccolgono il mormorio e ne godono il refrigerio, sarà nella società
avvenire un fiume dalla voce enorme, chiamerà a dissetarsi sulle sue
vaste sponde e ad attingere acque fecondatrici un popolo intero. E il
piccolo plauso teatrale che dà agli scrittori d’oggi il coro angusto
dei privilegiati della cultura, parrà ai grandi scrittori d’allora una
ben misera cosa appetto alla suprema dolcezza di sentir mormorare il
proprio nome in suono di gratitudine dall’onda immensa del popolo che
lavora.

E molti di essi diranno in quel tempo: — Non ci ricordate la
«disuguaglianza» della società passata, che inceppava l’ingegno e
strozzava la gloria: «quella sola parola c’irrita».


Filippo Turati al Tribunale di Guerra.

Giungeva il carrozzone del cellulare, un gran cassone chiuso e tetro
come un feretro. Mi parve di vedere, attraverso le pareti, gli imputati
— Turati, De Andreis, Morgari — coi ferri ai polsi e mi gonfiò il
cuore.

— Oh, no! — pensai — lì dentro non c’è un delitto, ma una idea!

E mi consolai al pensiero che l’idea nazionale aveva patito per
cinquant’anni la stessa sorte. Un minuto dopo giunse a piedi un gruppo
di ufficiali di varie armi, in alta tenuta, con la fuciacca azzurra
a bandoliera, muti e gravi, visibilmente compresi della terribile
responsabilità che stavano per assumere. Entrai fra loro....

Giunse poco dopo, sola, la madre di Turati, che da tre mesi conduceva
una vita di mortale angoscia. Ha il volto pallido, interroga tutte le
faccie con attento sguardo e inquieto, e parla con voce tremante. La
maggior inquietudine sua è per la salute del figlio, che teme non possa
reggere al regime della prigione....

Un ricordo assai lontano mi tornò alla memoria nell’udir parlare la
povera signora. Trentasei anni or sono suo marito era prefetto di
Cuneo, dove mio padre era impiegato; veniva qualche volta da noi un
bimbo di quattro anni, la cui giacchetta corta, di color nocciuola,
mi è rimasta impressa nella memoria. Quel bimbo era Filippo, il futuro
direttore della «Critica sociale» e deputato per Milano predestinato al
Tribunale di guerra....

..... Venne il mio turno. L’ufficiale difensore pregò il Presidente
d’interrogarmi se credevo possibile che Turati fosse stato preparatore
o istigatore o complice in alcun modo ai tumulti! La risposta era
facile. Io conoscevo tutti gli scritti e i discorsi suoi dai quali
emerge lucidissimo questo convincimento, che è assurdo condurre a fine
una rivoluzione economica con la violenza; che può prepararsi solo
con l’educazione intellettuale, morale e civile delle moltitudini, con
una trasformazione profonda della coscienza pubblica, con una lenta e
progressiva organizzazione delle classi lavoratrici; che i predicatori
della rivolta, specialmente nel nostro paese, meno maturato d’ogni
altro a qualsiasi improvvisa e radicale trasformazione sociale, sono i
più pericolosi nemici del socialismo.

Turati non s’era mai sviato da queste idee. Era violento nella forma,
ma per temperamento di scrittore, non con propositi di propagandista.
Comunque non era mai stato un propagandista da esercitare immediata
influenza su le masse, per la sua forma troppo letteraria, pel
ragionamento troppo fine....

.... Il presidente mi rilasciò in libertà. Gli domandai il permesso di
salutare gli accusati. Me lo concesse. Mi avvicinai al banco e strinsi
le tre mani che cercavano la mia, dicendo: A rivederci!

Ma la mia mano tremò nello stringere quella di Turati: un triste
presentimento mi passò pel cuore: quello di non rivederlo più!

                                   *

La mia deposizione nel processo a Filippo Turati.

Ho letto tutti gli scritti di Filippo Turati. L’opera del sul ingegno
acutissimo, sostenuto da una salda coltura scientifica ed armato
d’una dialettica potente, concorse in gran parte a farmi accettare
la dottrina ed abbracciare la causa del socialismo. Non parlai con
lui che poche volte. — Fra le prime parole di lui, che mi rimasero
più impresse, ricordo le seguenti, ch’erano in un articolo ch’egli
diresse alla classe lavoratrice per distoglierla da ogni tentativo di
ribellione violenta.

— «E se anche vinceste, sareste capace di cogliere i frutti della
vittoria? Vi trovereste ora in grado di mandare avanti le industrie e
le amministrazioni, di sostituire la borghesia nella funzione sociale
che essa compie attualmente?»

In tutti i suoi scritti letti dappoi lo trovai sempre coerente a
quel concetto. Non conosco altro scrittore socialista in cui mi sia
sempre parsa così profonda, così lucida come in lui la convinzione
dell’assoluta inefficacia d’un’azione improvvisa e violenta a compiere
una rivoluzione economica; nessuno più profondamente persuaso della
impossibilità di trasformare l’organismo sociale senza una previa,
graduale, lenta trasformazione delle idee e delle istituzioni
presenti; nessuno che abbia più spesso e più evidentemente dimostrato
la lunghezza e la difficoltà del cammino che resta a percorrere
al proletariato italiano sulla via dell’educazione morale e civile
dell’organizzazione delle proprie forze e dell’esercizio dei propri
diritti politici per giungere all’attuazione dell’idea socialista.

Nei suoi scritti lo trovai violento spesso, anzi quasi sempre, contro
avversari, contro idee, contro sistemi; non violento per ciò che
riguarda i mezzi e i modi di lotta che il partito socialista dovesse
seguire per raggiungere i suoi fini.

Se qualche volta egli fosse uscito dalla retta via, io mi sarei valso
dell’autorità che mi dava su lui l’età maggiore per richiamarlo su
quella via.

Se avessi una volta sospettato che fosse intento occulto del partito
socialista, del quale riconoscevo in lui il più autorevole interprete,
l’azione violenta — persuaso com’ero, e come sono, dell’insensatezza
di un tale intento — non avrei esitato un’ora a ritirarmi dal partito
pubblicamente, e sarebbe stato Turati il primo a cui ne avrei dato
l’annuncio.

Se, d’altra parte, avesse avuto un tale intento il Turati, logicamente
gli sarebbero dovuti parere discordanti dal suo modo di sentire e di
pensare, troppo pacifici, troppo miti gli scritti e i discorsi miei;
egli non mi diede mai su questi, invece, che le più benevole, le più
esplicite approvazioni.

E un’altra prova per me evidentissima ch’egli non intese mai ad
eccitare le passioni della moltitudine, a muovere il popolo alla
rivolta, è questa: che adoperò sempre nei suoi scritti un linguaggio
letterario e scientifico condensato e sottile, pieno di citazioni,
di finezze e di sottintesi artistici, assolutamente superiore alla
intelligenza media dei lettori della classe operaia.

Ero tanto persuaso, tanto certo ch’egli non avesse provocato in
nessun modo i tumulti di Milano, che quando ne intesi la prima
notizia domandai subito a me stesso: — Come mai Turati non è riuscito
a impedirli? — E senza saper altro non dubitai un momento che per
impedirli egli non avesse fatto ogni sforzo possibile, come seppi in
seguito che veramente fece.

E subito e poi, a chiunque mi domandò se credevo ch’egli avesse in
qualsiasi maniera, o apertamente o di nascosto, preparato o contribuito
a preparare o non cercato di scongiurare o anche soltanto approvato
o desiderato quello che avvenne, una sola risposta diedi sempre,
immediata, sicura, risoluta come un grido del cuore e della coscienza:
— Lui! Turati!... Ah! è impossibile, è assurdo! Ne son certo come della
mia esistenza.


Un Comitato elettorale.

Quattro anni fa, una sera d’autunno, andai per la prima volta a
portare il mio obolo al Comitato Elettorale Socialista, che era in
una delle più povere case d’una delle più vecchie strade di Torino.
Attraversai due cortili oscuri, salii quasi a tentoni per una scaletta
da campanile, ed entrai in una stanza bassa e nuda, mal rischiarata da
un piccolo lume a petrolio, posto sopra a un tavolino senza vernice,
intorno al quale stavano seduti tre operai che scrivevano. Non credo
che alcun Comitato elettorale democratico abbia mai avuto un ricetto
più conforme all’austerità dei suoi principii.

V’era in un angolo, sopra una cassetta, un poligrafo di prezzo minimo;
in mezzo a una parete un foglio di carta, appeso ad un chiodo, con su
il motto di Garibaldi: IL SOCIALISMO È IL SOLE DELL’AVVENIRE, scritto a
mano; pacchi di circolari ammucchiati sull’ammattonato; nessun mobile,
fuorchè il tavolino e due panche; le pareti chiazzate d’umido, le
finestre coi vetri rotti, uno squallore di carcere.

— Povero Comitato Socialista — dissi fra me — e che potrai fare qui
dentro?

E pensando agli altri Comitati che si davano moto in quei giorni, ai
grandi uffici di giornali, ai salotti politicanti, alle belle sale
d’Alberghi e di Circoli dove si preparano le altre candidature, e alle
centinaia di servitori e alle migliaia di lire e agli innumerevoli
mezzi di coazione e di corruzione di cui gli altri partiti potevano
servirsi e si servivano, per comperar coscienze ed estorcere voti, e
paragonando quella potenza lontana alla miseria presente, confesso
che fui preso da un sentimento di pietà e di tristezza misto a
quell’accoramento amaro che ci dà l’umiliazione di una persona amata.
E una sfiducia improvvisa — faccio anche questa confessione poco
onorevole — mi vinse.

Mi appoggiai a una parete e stetti pensando.

Intanto altri entravano. Entrando buttavano sul pavimento i fiammiferi
che avevano accesi per rischiarare la scala. Erano operai che venivano
dalle officine coi capelli arruffati e le mani nere, studenti,
impiegati, maestri; uomini maturi e giovinetti; qualcuno coi capelli
bianchi. Entravano a coppie, a gruppi, a uno a uno, in silenzio. Alcuni
parevano stanchi, altri sopra pensiero. Ma appena entrati, e stretta
la mano agli amici, mutavano viso. Poi s’avvicinavano al tavolino, e
ciascuno dava il suo obolo, in logori biglietti d’una lira o cinquanta
centesimi, o in soldi, che contavano sulla mano. Davano gli uni la
bottiglia di vino di cui avevano bisogno, gli altri la provvista di
tabacco d’una settimana, chi la serata al teatro che desiderava, chi la
scampagnata domenicale che vagheggiava da un mese. — E perchè? pensavo,
guardandoli. Ne conoscevo una buona parte e avevo ragionato con loro.
Nessuno sperava una vittoria, e neppur una dimostrazione elettorale
notevole. Nessuno anche confidando in avvenimenti straordinariamente
favorevoli e in una diffusione meravigliosamente rapida dell’Idea
socialista, sperava in un miglioramento qualsiasi del proprio stato;
molti, da un mutamento prossimo dello stato sociale avevan piuttosto
a temere danni che a sperare vantaggi; ed io sapevo che lo sapevano.
E nondimeno davano il loro danaro con la compiacenza manifesta di chi
compie un dovere di cui è profondamente persuaso. Sul viso di tutta
quella gente traspariva la coscienza ferma e tranquilla di servire
una causa, di esser sulla via della verità, di volere il bene di
tutti e di aver per sè l’avvenire. Si poteva esser certi che non vi
era fra di loro un’ambizione nascosta, una coscienza comprata, una
volontà costretta, un sentimento malfido. Vedevo giovani studenti che
chiamavano per nome operai cinquantenni, mani bianche che stringevano
mani nere, crocchi di persone d’ogni classe fra cui appariva un accordo
di sentimenti e una maniera di familiarità, che non avevo visto mai
in alcun tempo e in alcun paese. Mi pareva di veder gli elementi della
nostra società disciolta che si cercassero e si unissero in una forma
di società nuova, animata da un nuovo concetto della vita e del mondo,
retta da nuove ragioni di stima e d’affetto reciproco e da leggi nuove
di rispetto e di gentilezza, più sapientemente civili, più sinceramente
cristiane di quelle che vedevo seguite in ogni altro convegno o
commercio di cittadini di diverso stato. Quell’adunanza era per me ad
un tempo una realtà e una visione che appagavano un confuso, istintivo,
ardentissimo desiderio di tutta la mia vita.

E a questi pensieri, improvvisamente, come una fiamma sotto un soffio,
la mia fiducia si ravvivò. — Ah! se anche credessi che siete tutti
illusi — pensai — io v’amerei e v’ammirerei egualmente, o bravi
giovani, o rudi lavoratori, o poveri vecchi che non avete altro
impulso all’opera e al sacrificio che la speranza d’un bene di cui non
godrete, e che sopportando le durezze della vita e soffocando le ire
provocate e sfidando le persecuzioni pubbliche e sagrificando la pace
domestica, fondate la vostra speranza sul diritto del voto, conquistato
col sangue dei vostri padri, ossia sulla libertà, sulla ragione, sul
presentimento del trionfo necessario della verità e della giustizia. Ma
no, voi non siete illusi, poichè la verità non può essere dalla parte
dell’ambizione, del mercimonio e dell’egoismo; la verità è nella vostra
coscienza libera e serena, è nella santità del vostro ideale, è in
quest’affratellamento generoso che condanna e corregge le ingiustizie
della fortuna, è in questa fede invitta che dà ai giovani una maturità
precoce, e ringiovanisce i maturi, e consola i vecchi, e nobilita
tutti. E ogni propaganda d’ogni grande idea, predestinata a mutare
il mondo, è cominciata, come questa, in luoghi oscuri, fra pareti
nude, in mezzo a gente sprovveduta di tutto, e odiata, e calunniata,
e derisa, mentre i difensori del passato, armati e ricchi d’ogni cosa,
si festeggiano a vicenda — in sale splendide e risonanti del plauso dei
parassiti — sicuri del presente e dell’avvenire.

E tutt’a un tratto — con mio stupore — non perchè mancasse un legame
tra il pensiero e l’immagine, ma per la subitaneità dell’apparizione
— mi rividi dinanzi la statua di Ledru-Rollin, veduta anni addietro a
Parigi, eretta in atteggiamento profetico, con la mano stesa sull’urna,
come dicendo: Qui è la salute.

E allora, precorrendo il tempo con l’immaginazione, vidi quella povera
stanza dilatarsi, e aprirsi altre sale lontane l’una dopo l’altra, in
tutti i quartieri cittadini, tutte rigurgitanti d’una folla simile a
quella che avevo dinanzi; e tutte quelle folle, agitate e ardenti,
salutare con evviva frenetici gli annunzi delle grandi vittorie
elettorali, giungenti l’un sull’altro dai vari quartieri, e da tutte
le piccole e grandi città d’Italia; e, tra gli evviva, le mani bianche
cercar le mani nere, e abbracciarsi i giovani e i vecchi, e scambiarsi
il bacio dei fratelli i figli di coloro che oggi si minacciano e si
odiano....

Troncai il soliloquio, ed entrai nella folla dei miei compagni con
uno slancio d’allegrezza e d’affetto, che non m’aveva mai data nessuna
amicizia del passato.


Lavoratori, alle urne!

I nostri compagni del Comitato elettorale, che m’invitarono a parlarvi,
determinarono il soggetto del discorso con queste parole: — Eccitare
i ferrovieri, e specialmente gli operai, a prender parte attiva alla
lotta per le elezioni amministrative; dimostrar loro che essi hanno
interesse a mandare nel Consiglio comunale dei rappresentanti della
classe lavoratrice a cui appartengono.

La cosa mi parve superflua. — Ma come — pensai — vi sono ancora dei
lavoratori non persuasi di questa verità, della quale sono compresi, in
fondo all’animo, anche molti di coloro che stimerebbero un’imprudenza
di proclamarla? E subito mi si affacciò alla mente che il primo, il più
efficace mezzo di persuadere gli ostili e di scuotere gl’indifferenti,
sarebbe stato di riferir loro quello che io mi intendo dire ogni giorno
da chi combatte le nostre idee utopistiche di progresso, di redenzione,
di missione politica ed economica delle classi lavoratrici.

Queste idee — mi dicono — sono in voi, borghesi traviati e allucinati,
non nei vostri adulati lavoratori; e non sono che in una infima
minoranza di essi, a cui avete attaccato la vostra infermità cerebrale.
Come potete parlare sul serio delle loro aspirazioni e dei loro
propositi, quando non ve n’ha cinque su dieci che concordino in
un’idea, quando la parte maggiore non si dà pensiero alcuno delle
lotte a cui la chiamate con tanta insistenza, quando non hanno dato
ancora, qui specialmente, nessuna seria manifestazione di solidarietà,
di armonia, d’unità d’intenti, quando hanno anzi provato in mille modi
che la classe lavoratrice, come ente collettivo, non esiste ancora?
Voi dite che le classi dirigenti, che la borghesia è debole perchè è
lacerata dai partiti, scossa da mille contrasti di interessi, divisa in
dieci fedi diverse, e che per questo non opporrà una lunga resistenza
al movimento progressivo delle classi inferiori. Ma queste son più
divise e più deboli di noi! Noi davanti a un pericolo, nel nostro
interesse comune, ci uniremo in un sol fascio, e voi lo capite, e lo
preannunziate. Essi, nel loro interesse comune, non si uniscono. Che
c’importa che siano il numero, se, non essendo nè concordi nè attivi,
non sono la forza, senza di cui non vale il diritto? Che c’importa
che la scheda elettorale possa essere, come voi dite, lo strumento
della loro emancipazione, se essi o non se ne servono, o l’adoperano
contro sè stessi, o la mettono al servizio d’ogni richiedente? Non
uniti nell’esercizio dei mezzi e legali e pacifici, non lo saranno
mai neppure, non lo potranno mai essere nell’uso dei mezzi violenti.
Noi possiamo dunque riposare tranquilli e ripetere cento volte a chi
ci parla d’un esercito di lavoratori, che l’esercito non esiste, che
non ci sono che caporali e pattuglie disperse, e la gran moltitudine
si ride della vostra conquista dei poteri, e che voi sognate a occhi
aperti.

                                   *

A voi tocca di smentire col fatto quelle asserzioni. Io mi ingegnerò
di persuadervi a smentire. E notate, non avrei bisogno di parlarvi
come socialista. L’interesse che hanno i lavoratori a organizzarsi, a
concertarsi per mandare alle amministrazioni comunali e nei parlamenti
dei loro compagni esiste, secondo me, anche fuori della ragione
del socialismo. Non c’è bisogno di creder possibile o necessario
nell’avvenire un determinato ordinamento sociale per comprendere
quell’interesse. Basta desiderare dei miglioramenti nella vostra
condizione, come tutti desiderate; basta capire che, siccome nessun
miglioramento importante nello stato delle classi inferiori può
avvenire senza sacrifici gravi nelle classi sovrastanti, e poichè
sui sacrifici spontanei, essendo qual’è la natura umana, è illogico
il fare assegnamento, così quei miglioramenti bisogna conquistarli;
e che nessuna conquista si fa da una classe sociale senza lotta, e
nessuna lotta si vince senza forza, e la forza non si consegue senza
l’accordo della classe. Ora quest’accordo è possibile, è ragionevole,
si deve compiere anche tra i lavoratori che non siano d’una sola idea
e d’un sol sentimento riguardo al socialismo. Non si deve forse, prima
di giungere a questo, passare per una serie di riforme e di conquiste
minori che tutti vogliono ugualmente? Ma io dico questo a voi! Ma se
son molti i borghesi stessi persuasi di questa verità.

Ve n’ha molti, ostili al socialismo, che credono inattuabile, ma che
pure, essendo onesti, vedon con occhio favorevole e affrettano col
desiderio il movimento d’organizzazione delle classi lavoratrici,
anche sotto la bandiera socialista, come il solo mezzo che rimanga di
pervenire a riforme radicali a vantaggio loro, senza le quali credono
anch’essi inevitabili degli sconvolgimenti funesti alla società. E
fanno questo ragionamento che non manca di logica: — O hanno ragione
i socialisti, i quali affermano, non già di voler rifare il mondo
sopra un disegno della loro fantasia, ma di sollecitare soltanto una
trasformazione a cui la società è condotta irresistibilmente dalla
forza stessa delle leggi vitali che la reggono, — e se questo è vero,
se la trasformazione è inevitabile, non solo è inutile d’intralciare,
ma è logico assecondare il movimento. — O se è vero l’opposto, ossia
che questa trasformazione non è necessaria, e la società non avverrà
pel solo fatto che i socialisti la vogliono, una forza invincibile vi
si opporrà, contro cui tutti i loro conati si spezzeranno come contro
una legge di natura; e in questo caso non c’è nulla a temere, e si ha
da assecondare egualmente un movimento il quale, senza arrivare alla
mèta che si propone e da cui noi rifuggiamo, produrrà pure dei vantaggi
grandissimi, non conseguibili per altra via. Vorrete voi essere meno
arditi di questi prudenti conservatori?

                                   *

Veniamo ora al vivo dell’argomento.

Non vi pare un’anomalia singolarissima che nei Consigli comunali di
città dalle centinaia di migliaia d’abitanti, in Consigli dove si
trattano interessi di tutte le classi sociali, tutte le classi siano
personalmente rappresentate, tutte, fuorchè la più numerosa, che è
anche quella che ha maggior bisogno d’esser tutelata? Io credo che la
cosa parrà un giorno tanto strana che se n’andranno a cercar le cause
con la stessa curiosità con cui si ricercano quelle dei più singolari
fenomeni sociali del tempo andato.

Io m’immagino uno straniero semi-barbaro, ma di molto acume, piovuto
qui da un paese in cui non sia idea di regime rappresentativo, lo
metto col pensiero in uno di quei Consigli, e mi par di sentirlo
dire: — Ma come mai! Ecco un’assemblea in cui si parla ogni momento
d’interessi del lavoro e di lavoratori, in cui l’uno accusa l’altro a
ogni tratto di non essere vero interprete dei loro sentimenti, delle
loro aspirazioni, e d’operai non c’è un solo, non uno che possa dire:
i _nostri_ sentimenti, le _nostre_ aspirazioni, i _nostri_ bisogni son
questi! — Dopo essersi fatto spiegare a un di presso in qual maniera si
formino queste assemblee, il mio semi-barbaro direbbe al suo cicerone:
— Ho capito! Qui non c’è operai perchè gli operai non sono elettori.
— Ma no, lo sono — gli sarebbe risposto — e dispongono di migliaia di
voti. — Allora direbbe: — Sono elettori, ma non sono eleggibili: ma
essi non eleggono alcuno dei loro perchè non ce n’è alcuno che sappia
parlare nè scrivere. — Ma no, vi ingannate: ce n’è molti che parlano
mirabilmente dei propri interessi nelle loro riunioni professionali o
di partito e ce n’è anche molti che sanno trattare la penna a dovere,
tanto che se si fondasse un giornale come quel tal «Buon senso»,
fondato a Parigi nel ’48, aperto a tutti i lavoratori, si farebbero
anche qui delle scoperte particolari curiose. — Ho capito questa volta
— direbbe finalmente lo straniero. — Essi non eleggono nessuno della
propria classe perchè vedono gl’interessi loro ben patrocinati dai
rappresentanti della classe borghese, che stimano inutile aver dei
rappresentanti propri, e si tengono per ampiamente soddisfatti. — Ma
no, veda, non sono soddisfatti, si lagnano, dicono d’aver delle ragioni
da far valere, gridano che ci sono delle ingiustizie da correggere,
delle riforme da proporre, mille cose da fare. — E allora.... il mio
semi-barbaro non capirebbe proprio nulla.

                                   *

Mi soffermo un momento all’ultima supposizione di questo straniero
immaginario, perchè esprime forse il pensiero di alcuno di voi; mi ci
soffermo per dire che nessun rappresentante borghese, per quanto sia
sincero ed efficace propugnatore della causa de’ lavoratori, potrà mai
avere in un’assemblea quell’efficacia particolare che vi ha uno della
vostra classe, il quale la rappresenta con la sua stessa persona e
ne spira l’alito dalle labbra, che può parlare di bisogni che sente
egli stesso e di sacrifizi ch’egli stesso compie e ha compiuti, che
protegge gli interessi del lavoro ch’egli fa e di cui vive, che è in
relazione intima, fraterna e continua coi suoi rappresentanti, che non
è legato ai rappresentanti degli interessi diversi od opposti da mille
sottilissimi vincoli, non lacerabili, di amicizie antiche, d’identità
d’abitudini, di idee comuni in altri campi, che non è impacciato dal
fatto d’aver professato in altri tempi opinioni discordi da quelle suo
d’oggigiorno, o di essere stato per queste indifferente; e che non può
essere sospetto in alcun modo di mancanza di sincerità.... perchè siamo
a questo ancora — che par tanto illogico e strano che uno si appassioni
e combatta per interessi sian pure sacrosanti, ma non strettamente
collegati o contrari a quelli della propria classe, che il pensiero
ch’ei sia un uomo generoso è l’ultimo che s’affacci alla mente degli
avversari: il primo è che sia un impostore.

                                   *

Certo, io mi rendo conto dei dubbi che hanno molti di voi a questo
proposito, dubbi che non si danno, generalmente, negli operai di Comuni
rurali. Là il Lavoratore vede partecipare all’amministrazione pubblica
persone della sua medesima classe, di coltura non maggiore alla sua,
e che trattano dei piccoli interessi comuni con la semplicità, e col
linguaggio che egli stesso adopera: gli par quindi naturale, e non può
parergli inutile di mandar fra gli amministratori del Comune uno dei
suoi.

La cosa è diversa, si capisce, nelle grandi città. Abituato per
tradizione a veder sedere nei Consigli cittadini di una sola classe, a
vedervi rappresentati largamente la scienza, l’ingegno, l’esperienza
degli affari, la ricchezza, e la discussione sollevata spesso al
di sopra della sua cerchia di cognizioni e di idee, l’operaio ha
finito per considerare quella rappresentanza quasi come un privilegio
signorile, e stenta a capacitarsi del come un suo compagno vi potrebbe
prender parte utilmente, non riesce a raffigurarselo là che come uno
spostato e un inetto. Ma egli è in errore. Egli non considera che
il suo compagno andrebbe là a rappresentare un ordine di idee sue
proprie, di interessi di cui ha conoscenza pratica, di questioni in
cui ha un criterio preciso: non pensa che in ogni discussione ha un
grande valore anche una sola idea netta, espressa a proposito, sia
pure con la più rozza parola; che ciò che in molte discussioni gli par
superiore alla sua intelligenza e alla sua coltura non è che zavorra
accademica e curialesca gittata sulla vacuità degli argomenti; che il
buon senso è in ogni luogo e in ogni cosa la prima forza, e che una
gran parte delle lungaggini deplorevoli a cui si abbandonano spesso le
più colte assemblee, derivano appunto dal non esservi un sufficiente
numero di quegli ingenui parlatori, a cui manca l’arte d’ingrandire,
di assottigliare, d’intricare, di confondere tutte quante le questioni,
invece di attenersi al fondo delle cose, come suol fare l’uomo incolto,
che è persuaso di un’idea.

                                   *

E d’altra parte convien che si persuadano i lavoratori che la
loro classe non s’innalzerà mai fin che un gran numero di loro non
saranno passati per quella impareggiabile scuola pratica che sono le
amministrazioni pubbliche e le amministrazioni private: intendo per
private quelle delle loro Società e delle loro Corporazioni.

A questa scuola si formarono la maggior parte dei quarantaquattro
deputati del Parlamento germanico — meccanici, calzolai, falegnami,
doratori, operai d’ogni arte e d’ogni mestiere — in molti dei quali
riconoscono gli stessi avversari, spesso con parole d’ammirazione,
cultura varia, abilità parlamentare, e, nelle discussioni che toccano
le idee e gli interessi del loro partito, un’efficace eloquenza.
A questa scuola si formò quel valoroso, quel benemerito Anseele,
fiammingo, fondatore di quell’ammirabile complesso di Cooperative
di Consumo e di produzione che è il «Vooruit», il più fortunato
esempio di organizzazione socialista che sia stato attuato finora.
Si educò a questa scuola quel Luigi Bertrand, operaio marmista, in
cui sembra incarnato il genio organizzatore della sua razza che da
un capo all’altro del suo paese fondò Società cooperative, Case del
popolo, Circoli di studi sociali, e che è, col Volder, l’anima del
Partito operaio belga, rispettato, ammirato anche dai più appassionati
oppugnatori e scalzatori dell’opera sua. E alla scuola medesima
crebbero tutti quegli operai della sua nazione, i quali, all’ultimo
Congresso internazionale di Bruxelles, diedero prova di tal senso
pratico, di tanta chiarezza d’idee, di una così larga cognizione di
molte questioni sociali ed economiche, che se li avessero uditi certi
uomini d’ordine d’una grande città italiana, radunatisi l’inverno
scorso in Assemblea por provvedere agli affari propri, avrebbero
deplorato anche più amaramente di quanto fecero i funesti effetti
dell’istruzione popolare.

                                   *

Comprendo un’altra difficoltà che si oppone, in molti lavoratori, alla
concordia nella lotta elettorale. E ve lo accenno senza un’ombra di
intenzione di farvi un rimprovero. La difficoltà risiede in un vostro
difetto. — Vostro? — No. È un difetto di tutti gli uomini, e che si fa
sentire in tutte le classi. Ma è naturale, è scusabile che si faccia
sentire nella vostra forse più fortemente che nelle altre. Nella classe
che ha più fondate ragioni di lagnarsi delle ingiuste disuguaglianze
sociali, si comprende che sia più viva la renitenza a conferire ai
propri uguali una forma qualsiasi di superiorità, come si diffidi più
facilmente del compagno che aspira ad innalzarsi, e anche di quello che
è portato in alto suo malgrado, come sorga il più forte sospetto che
chi esce dalla sua schiera possa abusare dell’autorità e della fortuna.
Ma è pure una tendenza a cui convien resistere a qualunque costo. Già
lo disse un bravo lavoratore francese ai suoi camerati, con parole
scolpite che io vi voglio ripetere, non solo perchè possano riferirsi a
voi le sue censure, ma anche per mostrare che il male è in ogni paese.

Certo — egli disse — l’opera è lunga, penosa, irta di difficoltà.
Ma se noi non perveniamo a unirci in uno spirito di larga e forte
solidarietà; se passiamo il tempo a lacerarci l’un l’altro, parodiando
i borghesi nelle loro dispute vane; se ci divertiamo a giuocare alle
chiesuole e alle consorterie; se non uccidiamo in noi stessi quel
deplorevole senso di gelosia, per cui non possiamo sopportare tra le
nostre file alcuna superiorità intellettuale; se non ci eleggiamo dei
capi che per obbligarli ad obbedire alle nostre cangianti volontà, e
non per seguire la loro direzione e ascoltare i loro consigli; se, in
una parola, non riesciamo a governare noi stessi, a nulla mai potremo
riuscire.

E, senza dubbio, è la virtù opposta a questo difetto quella che
costituisce la principal forza di quel grande partito operaio di
Germania, nel quale — come osservò uno scrittore che lo studiò addentro
— l’osservanza verso i capi è più profonda che in ogni altro partito
dell’impero, e va non di rado fino all’eccesso, fino a una cieca
sottomissione. Ma è perchè là si comprende quello che da per tutto
si dovrebbe comprendere: che se è possibile immaginare una società
in cui tutte le disuguaglianze economiche e sociali siano soppresse
anche in forma assoluta, non è possibile immaginarne una in cui
siano anche soppresse le influenze della superiorità dell’intelletto
e del carattere e si faccia una colpa dell’ambizione, presa nel
suo senso migliore; perchè il voler togliere alle facoltà e alle
opere eccezionali degli uomini oltre ad ogni eccezionale compenso
economico, anche le soddisfazioni d’una ambizione legittima, è voler
isterilire, paralizzare la natura umana. E se sapessero i gelosi che
povera cosa sono le soddisfazioni dell’ambiente, con quante segrete
mortificazioni di amor proprio si scontano, da quante amarezze sono
turbate, specialmente in chi è spinto in su a combattere fra una classe
che non è la sua, invece d’invidiare e di osteggiare i compagni che
salgono, non darebbero, ne son certo, che incoraggiamenti e conforti di
fratelli.

                                   *

Vediamo l’esempio che ci danno altri paesi, la Francia per la prima,
dove si accusava il partito dei lavoratori di essere «una fungaia
di gruppi dissidenti» incapace da dieci anni di muovere innanzi
d’un passo. Prima delle ultime elezioni, non vi erano che due Comuni
socialisti; mi spiace di non aver tempo d’accennarvi le molte riforme
ardite e benefiche attuate da uno di essi, di cui fu costretto a
encomiare la saggia amministrazione persino il prefetto della Senna.
Ebbene, nelle elezioni del 1892, il partito operaio socialista,
concorde nel programma del Congresso nazionale di Lione, pose le
proprie candidature in più di 80 Comuni. Ottenne al primo scrutinio
più di 100,000 suffragi, con circa 450 dei suoi candidati eletti nei
Consigli. A Marsiglia, trionfarono tutti i candidati del partito con
oltre 6000 voti di eccedenza sugli avversari. In altri 16 Comuni il
partito occupò l’intero Consiglio o v’ebbe una maggioranza notevole.
Al ballottaggio riescirono eletti altri 200 candidati operai, col
concorso alle urne di 50.000 votanti in più della prima volta. Insomma,
furano 26 i Comuni conquistati, e moltissimi quelli in cui il Partito
operaio, pure lottando per la prima volta, ebbe tali minoranze da far
ritenere sicura una prossima vittoria. Nè ciò avvenne nelle sole città
industriali. Persin nel cuore della vecchia Bretagna, la regione più
conservatrice della Francia, vi fu un comune che elesse con 700 voti
di maggioranza una municipalità socialista. E s’intende che s’usarono
contro il nuovo partito arti e minaccie d’ogni maniera, e che contro di
esso, dove non riuscì a primo scrutinio, si collegarono, alle elezioni
di ballottaggio, tutti gli altri partiti, anche i più ripugnanti fra
loro, donde è lecito argomentare che le elezioni del 1896 daranno in
mano del Partito operaio una gran parte delle amministrazioni comunali
francesi. E già ne appariscono i sintomi anche nelle popolazioni
delle campagne; gravi sintomi, di cui tutti gli accorti conservatori
s’inquietano: gridando alla rivoluzione e al finimondo. E con
finimondo, si capisce, voglion dire modestamente la fine del loro
dominio.

                                   *

In Germania l’organizzazione generale del Partito è rafforzata, in un
gran numero di circoscrizioni, dalle cosidette «Società Elettorali»,
che sono come i focolari del socialismo comunale, e che convocano a
intervalli determinati delle assemblee popolari, sempre numerosissime,
in cui tutte le questioni locali, legate agli interessi dei lavoratori,
sono largamente discusse. Questi prendono parte attivissima alle
elezioni del Consigli municipali. Se non ottennero grandi effetti
sin ora, ne è cagione unica il suffragio troppo ristretto. Ma dove i
socialisti entrarono nei Consigli, fu notevolissima l’azione loro. Non
c’è Comune importante in cui, l’inverno scorso, essi non abbian fatte
proposte per provvedere con sussidi dei Comuni e dello Stato alle più
stringenti miserie e propugnato validamente un programma pratico di
riforme che va dai provvedimenti per la disoccupazione al riordinamento
delle scuole, dalla soppressione delle imposte indirette in forma di
dazi all’avocazione ai Comuni di tutti i servizi pubblici esercitati
da privati. Fate che ottengano l’allargamento del suffragio e le loro
vittorie non si conteranno.

E non può parer troppo ardito presagio a chi conosca con che ardore
prendan parte alle elezioni, in quel paese, non i lavoratori soltanto,
ma le loro intere famiglie; con che infaticabile attività le donne
medesime, anzi quasi esclusivamente le donne, compiano il lavoro di
distribuzione delle schede e dei manifesti, e si costituiscano in
Comitati elettorali per eccitar le compagne a concorrere all’opera
loro, e girino pei sobborghi i giorni di elezione, a scuoter gli
inerti, e spingano persino alle urne gli elettori recalcitranti. Perchè
esse comprendono non meno degli uomini che cosa significhi e che cosa
valga la loro scheda: un povero pezzo di carta, ma che turba il sonno
ai dominatori come recasse la loro sentenza; e non si può sopprimere,
perchè sarebbe troppo rischioso, e non è incriminabile, perchè non
c’è scritto che dei nomi, e non si può comprare, perchè chi lo porta
venderà la camicia, ma non la fede.

                                   *

Lasciate ancora ch’io ricordi, a incoraggiamento di tutte quelle
ammirabili «Unioni dei mestieri» d’Inghilterra, forti di milioni di
lavoratori, passate per tante lotte e tante avversità che le fecero
potenti, precedute dall’avanguardia socialista delle «nuove unioni»,
socialiste oramai — in sostanza — esse medesime, come si chiamarono
nell’ultimo Congresso di Belfast e nelle recenti elezioni municipali,
e continuamente rinvigorite e, spinte innanzi dalle generazioni nuove,
fresche di forze e, di speranze. — Trent’anni fa — come disse pochi
dì sono un deputato autorevole alla Camera dei Comuni — il loro nome
suonava biasimo e quasi ingiuria; sorgeva di rado in Parlamento un
uomo che avesse il coraggio di assumerne le difese; erano assalite
con violenza dalla tribuna, dal pulpito, dalla stampa; nel 1867 se
n’era decretata la soppressione. Ora, non solo esse hanno riportate
meravigliose vittorie nella legislazione del lavoro, non solo si
sono liberate a poco a poco di quasi tutte le vecchie leggi che le
inceppavano; ma esercitano un’influenza grande nei Consigli edilizi
e d’istruzione, e in tutte le Corporazioni locali. Ora sono lodate
dagli uomini di Stato e dalla stampa d’ogni colore, i governi cedono
alle loro domande e seguono i loro consigli, le Corporazioni d’ogni
specie accettano le loro deliberazioni intorno ai contratti di lavoro
o ai salari, i loro principii s’insinuano in ogni classe sociale, la
loro azione conquista il mondo industriale e si dilata nel Parlamento.
— E han serbato inalterato, notatelo, il loro carattere operaio, son
costituite da operai, fatte per loro, da loro dirette. Nè le gelosie
e le discordie individuali, che son là come altrove, nè i tribuni
che mirano a soppiantarsi a vicenda, nè gli ambiziosi che tendono a
formarsi un partito, sfibrano menomamente l’enorme forza delle loro
file serrate e concordi; quell’enorme forza di organizzazione e di
fede, che fece dire a Luigi Kossuth negli ultimi giorni della sua
vita, a un pubblicista qui presente: — Il socialismo, credete a me,
rovescierà tutto.

                                   *

Ed ora, c’è bisogno che io vi dimostri con altri argomenti ciò che mi
proposi di dimostrarvi? Certamente, la conquista del potere politico
deve star sopra a quella dei municipi: ve lo dice per bocca mia uno
dei nostri più bravi pubblicisti, del quale vi ripeto le parole.
Importa che vadano al Parlamento dei rappresentanti dei lavoratori,
non foss’altro che per indicar la forza e la coesione del Partito,
per esercitare un sindacato continuo, almeno d’efficacia astratta,
per alzar la voce risoluta in favore di tutte le libertà a cui ha
diritto, di cui ha bisogno l’Idea per espandersi. Ma fin che quei
rappresentanti non saranno che un’esigua minoranza, ossia per molto
tempo, pur troppo non c’è gran che da aspettare da loro; nemmeno che
ottengano importanti modificazioni a quelle piccole riforme sociali
che spuntano di tanto in tanto anche alla Camera nostra. Ora la lotta
nei Comuni, oltre ad altri vantaggi immediati, presenta anche quelli di
dare al Partito dei lavoratori movimento e vigore, di disciplinarlo, di
addestrarlo a un’azione ordinata e proficua nelle elezioni politiche.
In Francia, prima della rivoluzione, furono le assemblee provinciali,
furono i Consigli di circondari e parrocchie quelli in cui la borghesia
s’ordinò e preparò meglio all’azione che la condusse al trionfo. La
stessa rivoluzione italiana che ci condusse all’unità, si è grandemente
giovata, s’è innestata su di esse e di esse s’è alimentata. — Ed è
evidente che dovrà seguire il medesimo per l’Idea che unisce ora i
lavoratori. Già nei Comuni minori si riportarono segnalate vittorie,
di cui non cito che l’ultima, quella di Gualtieri, conseguita dopo più
d’un anno di commissario regio. Tocca ora alle città grandi di seguir
l’esempio. Tocca a voi in ispecial modo, di far sì che Torino non abbia
questa poco onorevole singolarità, di esser l’ultima delle grandi città
italiane a mandar nel Consiglio comunale un operaio.

                                   *

Ma — mi sento opporre — quanto tempo si dovranno aspettare i vantaggi
che ci son promessi, se questi non verranno prima che il nostro Partito
sia maggioranza! Anche questo è un errore. Molti e grandi vantaggi
precederanno di gran lunga la vittoria finale. Fate che i lavoratori
dian prova di concordia, di unità d’intenti e di risoluzione, e che
comincino a riportare delle vittorie elettorali notevoli, e vedrete
quante cose cambieranno sull’atto. Dove sono divisi, ciascuno di essi
non ha che l’importanza minima che può avere un operaio per sè stesso;
ma dove formano un’associazione vasta ed unanime, che dia certezza
di continuo e vigoroso incremento, la considerazione che ispira il
complesso delle forze si riflette su ciascun di loro.

Prima assai di ottener dei vantaggi materiali s’accorgerebbe ciascun di
voi, perfin nelle sue relazioni individuali con persone di altri ceti,
di trovarsi in una condizione mutata; la coscienza stessa della forza
collettiva della propria classe, darebbe a ognuno una dignità nuova e
una sicurezza di sè, che non ha mai avuta.

Ma neanche i vantaggi materiali si farebbero attendere, poichè a
chi mostra che avrà la forza di ottenere delle concessioni fra poco,
molte di queste si anticipano, e per mostrar di farle di buon grado
e per sfuggire al disdoro di vedersele strappare. Accade il medesimo
che nelle battaglie, dove il solo avanzarsi d’una truppa ordinata e
risoluta fa assai sovente indietreggiare il nemico, mentre lo stesso
numero degli assalitori non fa che eccitarne il coraggio, se s’avanzano
ondeggianti e scomposti. E come scemerebbe a un tratto questo sfacciato
abuso delle persecuzioni e delle minaccie, che son tanto facili e hanno
tanto effetto sugli individui isolati? Si sorride ora delle vostre
bandiere, perchè? Perchè son mille. Provate a serrarvi tutti intorno
a una sola, e si scopriranno al suo passaggio anche le fronti più
superbe.

                                   *

È un altro errore — fortunatamente — quello in cui cadono molti di
voi, misurando il tempo che impiegheranno le nuove idee a compiere il
loro cammino vittorioso, da quello che impiegarono finora a percorrere
il primo tratto di strada, e traendo da questo computo una ragione di
sconforto. No, il computo è errato.

Tutte le idee sociali che hanno in sè una ragione potente di vita,
vanno col moto accelerato dei gravi cadenti; stentano a prender forma,
muovono i primi passi lentissimi, par che ogni tratto s’arrestino; poi
prendono un regolare andamento, e dopo s’affrettano, e quindi corrono,
e infine volano, calano con una rapidità che fa rabbrividire anche i
più arditi.

Basta confrontare, per accertarsene, il cammino fatto dall’idea
socialista; anche nel nostro paese, negli ultimi cinque anni, con
quello che fece nei primi, appena vi sorse. I proseliti venivano
allora a uno a uno, o a manipoli, e si potevano contare; per lunghi
intervalli di tempo nessuno aveva indizio dell’esistenza della nuova
_setta_: la stampa non ne parlava che di rado, e vagamente, come di
cosa di un mondo lontano, e per la dottrina non c’era che derisione,
disprezzo e stupore. Ora i nuovi credenti si affollano intorno a
centinaia, ogni giorno che passa ne leva su un’ondata; non aprite
più un giornale in cui non troviate scritto dieci volte, quasi per
forza il loro barbaro nome di guerra; si posson combattere quelle idee
tutti i giorni, ma non si può più tacerne per ventiquattr’ore; esse
hanno un’eco continua nel Parlamento, nelle chiese e nelle scuole; nel
Parlamento stesso, voci autorevoli e sdegnose d’altri partiti, alle
quali è costretto a consentire perfino il ministro di quella che si
chiama ancora Giustizia, si alzano con fiere parole contro i magistrati
che giudicano i ribelli senza conoscenza di causa, ignari perfin degli
elementi della loro dottrina; non c’è più autorità che non si trovi
costretta a studiar la questione, per poter distinguere, disputare,
governarsi; non si fa più pubblicazione che abbia la più lontana
attinenza all’interesse pubblico, in cui quelle idee non siano discusse
o accennate; non c’è più esposizione d’arte in cui esse non trovino la
loro espressione; non c’è più frivola conversazione di spensierati in
cui per un istante almeno, sia pure come un’ombra fuggevole, non passi
quell’argomento malaugurato.

Si confondono ancora con quella, in buona e in mala fede, dottrine
diverse ed opposte, si calunniano gli uomini che le professano,
si tacciono o si sminuiscono le vittorie che essa riporta, e si
preannunzia che essa morrà di tisi o di piombo; ma non se ne ride più,
o se ne ride con quel riso che mostra i denti e corruga la pelle,
ma non ha negli occhi l’ilarità che vien dal cuore. E questo gran
mutamento, fra noi, è avvenuto in cinque anni, dal 1890, dopo il primo
maggio. Argomentate quale sarà il moto fra gli altri cinque anni,
quando la massa dei lavoratori avrà dato segno di concordia e di vita.
Perchè siatene certi, una delle più forti ragioni per cui non si mette
apertamente al servizio delle nuove idee tanta gente che v’è favorevole
in cuore — benchè vi ripugnino i suoi interessi di classe — è lo
spettacolo dell’apatia di quella classe medesima per la quale sarebbero
disposti a combattere. A che pro — essi dicono — turbarsi la vita e
affrettare il danno proprio per una moltitudine che non ha coscienza
dei tempi nè fede in sè stessa, e che par rassegnata ai mali di cui si
lagna, e determinata a nulla chiedere e a nulla fare, nemmeno coi mezzi
che la legge pone in sua mano? Chiudiamoci in un tranquillo egoismo e
vada il mondo per la sua china.

                                   *

E questi sono assai più di quanti credete. Come più di quanti credete
sono coloro, a cui ho accennato da principio, i quali, pure non
essendo socialisti, sono profondamente persuasi che l’organizzazione
delle classi lavoratrici e la loro partecipazione al potere siano una
condizione indispensabile del progresso civile. Di uno di questi, d’un
valente economista, riferisco il ragionamento per quelli tra voi che
possono dire: — Io non voto per operai perchè non sono socialista.
— La nostra condanna — egli dice presso a poco — è che la classe
borghese è tutta scettica e pessimista. — Ora il pessimismo, per
lui, è un fenomeno di classe. E ne adduce giustamente per prova che
al principio del secolo in Francia, tutta la borghesia liberale, che
sentiva giunto il suo regno, non diede che scrittori ottimisti; la nota
pessimista usciva dagli scrittori aristocratici, i quali sentivano
che la loro classe moriva, o meglio era assorbita. Ora — soggiunge
— noi non diamo che scrittori scettici e pessimisti nelle cui pagine
non è un solo principio di riforma morale, non una parola che esprima
fede nell’avvenire. Le classi lavoratrici, invece, sono ottimiste al
presente quali non furono mai: la riforma economica, come la riforma
morale, ci verranno dunque da coloro che sono in basso, da quella
moltitudine oscura, in cui alita un sentimento umano, che manca in noi,
uomini aridi e freddi. Quando essa s’unirà per muovere alla conquista
del potere pubblico, e l’associazione l’avrà migliorata e la lotta
resa più forte, essa produrrà un cambiamento anche nelle nostre idee
morali. Fate che il potere politico non sia più un monopolio, ossia che
non appartenga più a una classe sola che ha gli stessi istinti e gli
stessi bisogni e vedrete che «la funzione di controllo lo moralizzerà».
Quelle riforme che ora non si vogliono per cieco spirito di classe,
si faranno allora per necessità, tutta la nostra vita sociale ne
risentirà l’influenza e una ben altra concezione della vita finirà per
prevalere. La feudalità è finita non per la rivoluzione, non perchè gli
uomini fossero diventati migliori, ma perchè, aumentata la produzione,
cresciuti gli scambi, rinsaldatesi le relazioni sociali, addensatasi
la popolazione, di utile come era quando nacque, s’era fatta dannosa e
insopportabile. E ciò che fu dell’aristocrazia sarà senza dubbio della
classe che la vinse, che è la borghesia. Quando la tecnica industriale
sarà progredita anche di più, quando la concorrenza sarà soppressa,
o dalla vittoria duratura del più forte o dall’associazione, quando
la produzione sarà diventata interamente meccanica, la borghesia
sussisterà nuova perchè ha in sè delle qualità di iniziativa, di
ordine e di economia, che mancheranno ancora per lungo tempo alle altre
classi; ma la sua funzione s’indebolirà, e l’organo, indebolendosi la
funzione, finirà anch’esso coll’indebolirsi. Questo grande movimento
operaio è dunque logico, necessario, benefico. E notate che a chi
esprime questo pensiero l’attuazione compiuta del socialismo non par
altro che un sogno.

                                   *

Ma la sua previsione va molto vicino a quel sogno.

E ha proprio da essere un sogno quello di uno stato sociale fondato
sull’accordo invece che sulla lotta per la vita; quello d’un organismo
sociale, in cui la produzione e la ripartizione delle ricchezze si
compiono come si compiono le funzioni d’assimilazione e di circolazione
in ogni organismo vivente, quello d’una società non più divisa in un
piccolo numero di vincitori, a cui sembrano riserbati tutti i beni
della civiltà, tutti i godimenti che danno la bellezza, l’arte, la
scienza, l’indipendenza, tutto ciò che fa amare la vita, e una immensa
massa inorganica e oscura di vinti, senza sicurezza, senz’agi, senza
cultura, quasi relegata fuori della luce e della speranza, come una
razza inferiore?

Che abbia ad essere un sogno, una società in cui a ogni uomo sia
assicurato il lavoro, a ogni lavoratore un’esistenza umana, a nessuno
l’agiatezza oziosa, a tutti la coltura dello spirito, e in cui il
lavoro sia onorato di fatto, non a false parole, e la giustizia sia
una realtà, non una larva, e la libertà sia un bene di tutti, non un
vantaggio d’alcuni, e l’uguaglianza — quanto lo consente la cecità
della fortuna — sia una verità, e non una irrisione?

Che sia davvero un sogno una società nella quale, davanti a ogni
moltitudine di persone d’ogni condizione si possa dire: — In questa
folla non c’è uno che viva del frutto delle fatiche altrui, non c’è un
ordine di cittadini che disprezzi l’altro o lo minacci o lo tema o ne
viva separato come da un abisso; questa è un’accolta di persone tutte
civili, strette da un patto comune, che ne fa una sola grande famiglia,
non un branco di belve in veste d’uomini, che tirano a divorarsi fra
loro; non un’accozzaglia di selvaggi inverniciati di civiltà, in cui
infuriano tante cupidigie, tanti odî, tante invidie, tante scellerate
passioni da disgradarne un inferno?

Che debba essere un sogno una società in cui ogni onesto lavoratore
possa dire, guardandosi intorno: — Questi sono i miei alleati e i
miei fratelli; io non tolgo nulla a nessuno, nessuno usurpa nulla
a me, questa terra dove son nato è retaggio comune; tutta questa
civiltà, tutta questa ricchezza non è privilegio d’alcuno, ma è nostra,
appartiene a loro, a me, ai loro figli, ai miei figli, a quanti la
crearono e la fecondarono col pensiero, con le braccia e col sangue?
Che una cosa così semplice, così giusta, così bella, debba essere un
sogno?

È un sogno punibile con la reclusione tra i dodici anni e i diciotto!
E questo in un paese libero, dopo cinquant’anni di lotta contro la
tirannìa! E mentre la più sfrenata manomissione del danaro pubblico,
spremuto dalle vene e dalle ossa di chi lavora, o è colpita di pene
irrisorie, o va impunita e trionfante! E quando pure fosse un sogno,
meglio mille volte creder nel sogno dei generosi che rassegnarsi
all’abbominevole realtà contro cui combattono e da cui sono soffocati.

                                   *

Ma non credo che sia un sogno. Per crederlo dovrei rinunziare alla fede
nel progresso umano. O si tornerà indietro o si procederà per quella
via. E per quella via si procede.

Un’altra volta ho accennato qui come questa tendenza appare evidente in
tutti i paesi civili, nell’avviamento di tutte le legislazioni, anche
nelle più piccole trasformazioni di tutte le istituzioni antiche, nel
sorgere e nello svolgersi di innumerevoli istituzioni nuove, in mille
tentativi, proposte, esperienze, quasi da per tutto respinte e mandate
a male per ora, ma che da per tutto si presentano con la vitalità
prepotente del germe in primavera, che tenta e rompe l’involucro che lo
imprigiona.

Ma oltre che per ragioni dicibili, si è persuasi di una Idea per virtù
di una infinità di impressioni, di sentimenti, di riflessi di idee, che
sfuggono alla parola; per una successione di visioni istantanee della
mente, che fanno gridare alla coscienza: — Ecco la verità — e lasciano
in fondo all’anima un’incancellabile traccia. E quando è così l’idea
è una fede contro cui tutti gli argomenti si spezzano, che tutti gli
avvenimenti confermano, che le stesse contraddizioni rinsaldano; una
fede che ha in sè una forza impulsiva proporzionata alle resistenze
che incontrerà nel mondo la verità che essa racchiude; una fede per cui
possiamo dire schiettamente che le derisioni non giungono all’altezza
del nostro disprezzo.

Sì, io credo che la società porti nel suo seno delle soluzioni
inaspettate per tutte le difficoltà che ora fanno credere impossibile
l’attuazione dell’idea socialista. Credo che il grande miracolo, senza
il quale essa non può attuarsi, la compenetrazione del sentimento
individuale col sentimento della collettività nell’animo e nella
vita dell’uomo, si compirà davanti alla irresistibile evidenza
dell’immenso bene che ne dovrà conseguire! Fede! idealismo! ci si dirà
commiserando. E noi rispondiamo con le parole d’un buon dotto tedesco
(non socialista, notate), il quale ha scritto poco fa: — Ebbene sì:
la storia ci insegna che la fede e l’idealismo sono le due grandi
forze, e che hanno sempre trionfato nel mondo. — Ed in fondo, ne son
forse persuasi anche gli avversari. Soltanto, più saggi di noi, essi
combatteranno per l’Idea in un tempo più favorevole ossia quando avrà
vinto.

                                   *

Ma per giungere a questo.... No, non parliamo di questo, poichè
lo scopo della nostra adunanza e delle mie parole è determinato e
ristretto.

Per ottenere, dico invece, un principio di miglioramento nelle vostre
condizioni, dovete fare dei sacrifizi! Dei sacrifizi! Ma è questa una
parola di cui l’uso e l’abuso snaturano affatto il significato. È forse
un sacrifizio lo scrivere dei nomi di vostri compagni sopra una scheda,
senza perdersi in vane discussioni e soffocando i sentimenti personali
che la coscienza riprova, a rinunziare a un’ora di ricreazione per
andare a compiere un dovere? Fate dunque questo, e fate anche di più,
esortate i vostri compagni a imitarvi: dica ciascuno di voi a uno di
loro: — Vieni con me. L’atto di deporre questo foglio nell’urna, che
ti par così inutile, ha un così grande valore che per avere il diritto
di compierlo si sparsero torrenti di sangue. Compiamolo, se non per
noi, per i nostri figli, perchè se noi non lo faremo essi non lo
faranno e troveranno la società quale noi l’abbiamo trovata. Votiamo
pei nostri compagni, se non altro per far vedere che non è vero che noi
andiamo a votare come un branco di servitori, che abbiamo coscienza dei
nostri interessi, senso d’alterezza, volontà, fiducia nell’avvenire.
— Credete che facendovi questa esortazione, non vi parlo soltanto
come socialista, nell’interesse di un partito, ma come cittadino, che
vuole la dignità, la prosperità, la forza del paese, dov’egli è nato e
ch’egli ama: dignità, prosperità, forza, che sono vuote parole dove le
classi lavoratrici non lottano per salire. Credete a uno che vi vuol
bene, e che ve ne volle sempre, anche quando non ve lo diceva, e che
ve lo dice ora senza secondi fini, poichè non solo non vi chiederà mai
il voto per andare al Parlamento, ma non ve lo chiederà nemmeno mai più
per tornare al Consiglio; credete ad uno, di cui tutte le ambizioni si
riducono ormai ad un solo desiderio: quello di poter dire, prima che si
compia la sua giornata, l’ultima volta che parlerà ai fanciulli delle
scuole pubbliche: — Rallegratevi! Voi vedrete certamente una società
più giusta e più felice di quella in cui vi lascio: — quello di vedere
il proletariato italiano, ossia il popolo vero, fondamento e scopo di
ogni cosa, corpo ed anima della patria, procedere trionfalmente sulla
via benedetta della sua redenzione.


Amor di patria.

— È vero che il socialismo combatte l’amor di patria?

— L’amor di patria bugiardo, sì. Ma se per amor di patria s’intende
amare il popolo fra cui siam nati, con cui abbiamo comuni la lingua,
l’indole, la storia e l’avvenire e amar la terra dove abbiamo passato
l’infanzia, dove son nati i nostri figli e son sepolti i nostri morti;
l’accusare il socialismo di combattere un tale affetto è cosa stolida
e assurda, come sarebbe l’accusare chicchessia di combattere l’amor
filiale o materno; il che non è possibile a chi ha viscere umane. Può
ella credere che se questo fosse vero si sarebbero volti al socialismo
tanti uomini generosi, tanti cittadini che per la patria hanno sofferto
e combattuto, e sentono profondamente tutti gli affetti? Può ella
pensare che un socialista, perchè tale, possa abbandonar la patria
senza sentirsi uno schianto nel cuore, e non ricordarla da lontano con
tristezza e con desiderio, e non rivederla dopo molti anni con gioia
profonda? Con qual fondamento si possono accusare i socialisti, in cui
si suol deridere il predominio del sentimento sulla ragione, di aver
l’animo chiuso e di voler chiudere l’animo altrui a uno dei più forti e
dei più naturali sentimenti umani?

— Eppure, è una credenza universale.

— Vuol dire una calunnia universale, che è tutt’altra cosa. Amare la
propria patria significa amare il proprio popolo. Quando si dice il
popolo d’un paese s’intende principalmente quella grande moltitudine
che coltiva la sua terra, che manda innanzi le sue industrie, che
forma il nerbo del suo esercito, che dà il maggior contributo al suo
erario, e la cui prosperità, moralità, forza è una cosa sola con la
forza, la moralità e la prosperità della nazione, poichè senza di
essa non vi è nazione nè vita. Ora il desiderare che questa grande
moltitudine, i nove decimi della nazione, s’innalzi a una condizione di
vita materialmente e moralmente migliore, il preparare, sollecitare un
ordinamento sociale (e sia pure un’utopia, che la natura del sentimento
non muta) in cui le sia dato un lavoro più umano e un compenso più
equo e resa possibile una vita intellettuale e più degna e tolto
dall’animo il terrore continuo della miseria e il sentimento amaro di
una inferiorità civile non giustificata nemmeno nella coscienza di chi
la vuol mantenere, in maniera che non più la forza, ma l’armonia degli
animi e degli interessi tenga unita la compagine dello Stato, il portar
nel cuore questa speranza di un migliore avvenire del proprio popolo
come la più santa delle proprie aspirazioni, e con lo scopo di tradurla
in realtà, studiare, combattere, rinunziare alla pace, rischiar la
libertà, patire danni e persecuzioni, dica lei, non è questo amare la
patria? E se questo non è amor di patria, con qual altro termine, di
grazia, le pare di poterlo definire?

— Eppure la parola «patria» voi non la usate mai, o ben raramente,
nella manifestazione delle vostre idee.

— Perchè di questa parola s’è falsato il senso, e, usandola, non
ci possiamo più intendere con la maggior parte di coloro che ne han
piena la bocca. È accaduto di questo come di altri grandi nomi, che
non c’è più nella parola l’idea netta della cosa. La parola «patria»
significa ora per i più qualche cosa d’astratto e di mal definibile,
posto quasi al di fuori di ciò che realmente la costituisce. Per alcuni
la patria è un’istituzione politica o una pura tradizione storica o
un dato ordinamento economico da conservare e difendere a qualunque
prezzo. Per chi gridava in Parlamento che si doveva nascondere la
cancrena bancaria _per carità di patria_, la patria era la Banca.
Nella mente di quell’imperatore il quale dice che per conservare due
provincie conquistate si dovrebbero far uccidere «dal primo all’ultimo»
tutti i sudditi dell’impero, pare che la patria non sia altro che un
determinato spazio di terreno segnato sulla carta geografica con una
linea di un dato colore. Per un gran numero di patriotti in buona fede
l’amor di patria è l’aspirazione a un ideale vago di grandezza, a cui
par debito e giusto di sacrificare ogni bene, o anche il solo culto
immobile dell’ideale unitario raggiunto, ossia una commemorazione
eterna del passato, in cui si scorda il presente e non si pensa
all’avvenire, e una febbre permanente dell’immaginazione, che vede
o cerca ogni giorno e da ogni parte un pericolo nazionale e vorrebbe
che la vita della nazione fosse uno sventolìo continuo di bandiere e
un arrotìo perpetuo di durlindane. Gridando «patria» si pretende che
tutti i lamenti tacciano, che tutte le ingiustizie sieno tollerate, che
tutti i mali si dissimulino, che tutte le grandi questioni rimangano
insolute, come se la patria e i suoi figli fossero due cose diverse
e separabili, come se il bene dei viventi non fosse che lo sperare un
avvenire migliore senza migliorare il presente e fosse possibile fare
una patria prospera, felice e gloriosa, con milioni d’uomini poveri,
dolenti e avviliti. Per queste ragioni non nominiamo la patria, e anche
perchè il suo nome è adulterato e profanato da troppi astuti che si
pagano da sè dei servizi che le resero o dicono di averle resi, da
troppi impostori che si fanno della parola una maschera, da troppi
farabutti che fanno della cosa un mercato. La parola che costoro
disonorano noi non vogliamo usarla per esprimere l’idea augusta e santa
che è il suo vero significato.

— E sia pure; ma nell’idea della fratellanza, che il socialismo
propugna, e della federazione dei popoli, l’amor di patria non va
naturalmente perduto?

— E perchè mai? Al padre che dice ai suoi figli: — Amate i vostri
concittadini come fratelli — oserebbe ella dire: — Badi che nell’amor
patrio va perduto l’amor figliale? — Se quando l’Italia era lacerata
dalle guerre civili, e ciascuna città reputava fortuna propria
la rovina della città vicina e si gloriava delle bandiere che le
aveva strappate e dei figli che le aveva uccisi, se un italiano
di Pisa, di Venezia, di Firenze, di Genova avesse detto allora ai
suoi concittadini: Questi odî sono insensati; queste guerre debbono
aver fine, e l’avranno; la prosperità di tutti gli italiani sarà
nell’accordo di tutte le città loro, perchè ci lega un ordine
d’interessi più alti di quelli che ora ci fanno combattere — si
sarebbe potuto dire a quell’italiano ch’egli non amava la patria?
E l’idea internazionale che annunzia il socialismo ai popoli non
è figlia legittima di quella che avrebbe annunziato quell’italiano
ai concittadini? Non è irragionevole giudicar disamore della patria
il desiderare e sperare che il bene di essa derivi da una stabile
e illuminata fraternità di tutte le nazioni civili, non più dalla
vittoria violenta e passeggera degli interessi dell’una su quelli
dell’altra? E in che cosa contrasta questo ideale con quello che
ciascun popolo serbi la sua unità e il suo carattere, l’amore della sua
terra e della sua storia, concorrendo alla grande opera della civiltà
generale con la somma di quelle facoltà distinte, che gli danno un
essere proprio e una gloria a parte? E perchè pensare che quella forza
unificatrice e benefica che oltrepassò le frontiere dei piccoli comuni,
delle grandi città e dei forti Stati minori, si arresterà eternamente
alle frontiere delle nazioni, già legate da vincoli innumerevoli
d’interesse, di lavoro e di pensiero, che s’accrescono e si rafforzano
continuamente? È possibile affermare che questo non avverrà? Non è
logico sperarlo, non è giusto desiderarlo, non è debito volerlo? E con
che fronte si può dire che il voler questo sia non amare la patria?

Anche questo potrei ammettere; ma ciò che noi chiamiamo «ambizione
patriottica» e «orgoglio nazionale» voi non sentite.

È come se ella dicesse a un padre: — Riconosco che voi amate i vostri
figli; ma che desideriate ch’essi siano rispettati ed onorati non
credo. — Veda la differenza delle opinioni! Noi crediamo che quei
sentimenti siano veramente sani e forti in noi soli. Soltanto le
ambizioni patriottiche hanno un’altra meta e la nostra alterezza
nazionale non può derivare dalla stessa sorgente. Noi immaginiamo
qualche volta di trovarci in un paese straniero e di udir suonare
intorno a noi le seguenti parole: — Ecco degl’Italiani. Salutiamoli
con rispetto. Essi danno alle nazioni un esempio splendido. La grande
lotta sociale si combatte nel loro paese sotto la protezione di
un’ampia libertà, non violata mai dal patto nazionale. La borghesia
si difende là pure, per necessità e per istinto; ma lealmente e con
sapienti concessioni, non con cieche violenze, combattendo l’idea
senza soffocare la parola, senza raccattare per combatterla le armi
odiose della tirannìa che essa stessa ha infrante e calpestate. In
poco più di trent’anni il loro paese ha innalzato l’edifizio della
legislazione sociale ammirabile. Tutte le stolte ambizioni vi son
morte. Tutto l’antico entusiasmo patriottico vi si è mutato, in tutte
le classi, in forza feconda di studi e di sacrifici diretti al supremo
scopo di estirpar la miseria, di diffondere la cultura, di assicurare
la concordia, di stabilir la giustizia. Quello è il solo paese
d’Europa, nel quale per generosità e per saggezza di tutti, la grande
trasformazione sociale che è necessaria, e che nulla può arrestare, si
compirà con un processo pacifico e solenne, che desterà l’ammirazione
del mondo. — Ebbene, il solo immaginare questo giudizio dato
sull’Italia ci fa battere il cuore e alzare la fronte e pronunciare il
nome della patria con un sentimento di gioia e di alterezza che non può
essere più puro, più dolce e più profondo nell’animo d’alcun patriotta.
Ma ambiziosi di ciò che ci pare vanità o stoltezza, e orgogliosi di ciò
che reputiamo sciagura e vergogna, non possiamo essere, nè saremo mai.

— Insomma, voi amate la patria a modo vostro.

— Certo, e non è colpa. La colpa è di non amarla nel miglior modo. Qui
sta la gran questione. Ci sono anche diversi modi di amar la propria
famiglia. Credette un tempo di amarla più d’ogni altro il patrizio che
sacrificava tutti i figli al primogenito, destinato egli solo a tener
alto il nome e lo splendore della casa, a spese dei suoi fratelli; e
questo amore parve saggio anche al mondo, che ora lo giudica iniquo,
e crede prima legge dell’amor paterno l’equità. Così v’è un amor di
patria che vuole la gloria anche a prezzo della miseria, e soffia negli
odî tra popolo e popolo e li pasce di orgoglio vuoto e di idee morte;
e questa è una passione barbarica, che la nostra ragione condanna e il
nostro cuore rifiuta. E v’è amor di patria fatto di carità e di pietà,
che vuol la prosperità anzi che il fasto, la moralità prima della
gloria, la pace nei cuori, la luce e il calore della civiltà equamente
diffusi, la patria non sfruttata da alcuno e benedetta da tutti, e
cancellato dalla sua faccia, prima d’ogni cosa e a qualunque costo, il
marchio vergognoso dell’ignoranza e della fame.

— E il simbolo della patria, per voi?...

— È una madre, come fu sempre per tutti quelli che l’amarono
sinceramente. Ma, dopo che professiamo queste idee, la sua immagine
ci appare più bella e più luminosa, perchè le splende sulla fronte un
avvenire più grande di quello che hanno sognato i nostri padri, ed è
più ardente che per il passato l’offerta che noi le facciamo ancora,
come nei giorni delle battaglie, del sangue e dell’anima nostra.

— Questo non si crede.

— Si crede; ma si nega, perchè giova.


Verso l’avvenire.

Hanno torto coloro che si scoraggiano pensando che la fede socialista
non si diffonderà mai tanto nella borghesia quanto sarebbe necessario
a mettervi il disordine e a sfibrarne la resistenza, perchè una gran
parte della classe dominante si getterà a capo basso, spontaneamente,
sulla nuova via, assai prima d’esser persuasa che questa conduca
davvero alla «terra promessa» del socialismo. «Il movimento attuale
somiglia allo sfacelo del secolo passato, quando una società intera
si precipitò nell’ignoto per stanchezza o per errore di vivere sotto
le rovine di un mondo morto». — E non è il giudizio di un Marxista
fanatico: è del visconte ed accademico De Vogué, una delle menti più
profonde e più serene della Francia.

Così è, così avverrà. E se da molti se ne dubita ancora, è perchè si
scambia con una malattia passeggiera del corpo sociale ciò che è invece
il principio della sua decomposizione.

Puerile è il pensare che questa fiacca reazione sorta da ultimo contro
l’alta batteria politica e il grande brigantaggio finanziario possa
produrre nella società l’effetto d’una vigorosa cura rigeneratrice.
Essa produrrà l’effetto opposto, d’incoraggiare alla truffa scellerata
altri innumerevoli, dimostrando su quante complicità, su quante
difese, su quante vie di scampo possono fare assegnamento, nello stato
attuale delle cose, i grandi mercanti della coscienza e frodatori
delle nazioni, e quanto impudenti, sfrenati, mostruosi debbano essere
il mercimonio e la rapina per iscuotere quello che resta di senso
morale nelle alte classi e render necessaria almeno una simulazione
di giustizia. Questa corruzione si andrà estendendo, fatalmente, e si
dilateranno man mano con essa, per necessità, tutte le altre piaghe del
nostro ordinamento economico, generate tutte dal principio immorale
della formazione della ricchezza, come da un unico germe mortifero,
che la società borghese non si può strappar dalle viscere se non colla
vita.

È fatale che per effetto del nuovo avviamento, della complessità
sempre maggiore degli affari finanziari, e della sempre più larga
separazione della proprietà dal lavoro, si vadano confondendo per modo,
a poco a poco, l’affare lecito e l’illecito, l’onestà e la bindoleria,
che questa libera quasi da ogni freno esteriore e fin anche dai
rimproveri e dai dubbi della coscienza, finisca a regnare nel mondo,
sovrana assoluta e intangibile sulle rovine d’ogni moralità e d’ogni
giustizia. È fatale che, crescendo ancora la febbre delle speculazioni
temerarie, dilagando il contagio dei fallimenti, ingigantendo coi
debiti il pericolo delle bancherotte nazionali, non debba più un giorno
rimanere ai risparmi di chi lavora e al capitale di chi ozia luogo o
modo alcuno di collocamento, che non condanni i possessori a una vita
d’ansietà e di terrore quasi altrettanto dura a sopportarsi quanto le
angustie medesime della povertà. È fatale che il difendere, il salvare
la piccola e la media proprietà terriera dall’imposta, dall’usura,
dal furto, dalla forza assimilatrice della proprietà grande e delle
pretensioni sempre più ardite e più potenti del lavoro, diventi col
tempo un’impresa anche più difficile di quella di preservare gli averi
e la vita in mezzo ad un popolo ancora composto a stato civile. È
fatale che in un avvenire non lontano la piena della gioventù colta,
fluttuante fra le vie già affollate degli impieghi e delle professioni
libere e la «degradazione» abborrita del lavoro manuale, malata d’ozio
rabbioso e famelico, giunga a tale altezza che la società n’abbia come
la soffocazione e i tormenti mortali dell’idropisia. È fatale, infine,
che la nuova feudalità finanziaria, che fa col danaro ciò che faceva
l’antica colla spada, allarghi e rafforzi sempre più la sua vastissima
rete, e allacci e assoggetti a una sempre più infesta tirannia
moltitudini, governanti e istituzioni, sfruttando e corrompendo tutti e
ogni cosa.

Quando tutto questo sarà, e quando, oltre a questo, pigliando sempre
più campo per le raddoppiate difficoltà della vita e il cresciuto
furor del lusso e degli agi, il matrimonio mercantile, prodotto
necessario del presente stato sociale, si moltiplicheranno a tal
segno gli scandali e le sventure da far tremare per l’avvenire della
famiglia anche i più scettici sfruttatori dei suoi ordini e delle sue
debolezze; quando sferzata sempre più forte dalla concorrenza e fatta
più audace dall’impunità comprata e dal perfezionamento scientifico
dei metodi, la produzione privata sarà giunta con la ciarlataneria,
col veneficio, coll’adulterazione spudorata d’ogni cosa a tal punto da
non esser più che una vasta, continua e spietata insidia alla borsa
e alla vita di tutti; quando un’aristocrazia del danaro disonesta e
villana, quanto scemata di numero altrettanto cresciuta di potenza,
avrà spinto il fasto e l’insolenza fino ad offendere l’orgoglio della
media borghesia, intisichita da lei, assai più fieramente di quel
che l’agiatezza di questa non offenda ora la «plebe»; quando nessun
onesto padre di famiglia non potrà più, nemmen per pura consuetudine
pedagogica, consigliare la generosità, la delicatezza, l’amor dei
propri simili, la nobile ambizione della stima pubblica ai propri
figliuoli, senza che questi gli rispondano con beffarda risata,
mostrandogli da ogni parte il trionfo incontrastato e durevole di tutti
coloro che quelle virtù calpestano col più freddo cinismo; quando
finalmente, con l’ingrandire e l’incalzare delle crisi commerciali
e col progressivo organamento delle classi lavoratrici, crescendo di
gravità e di frequenza le miserie e i pericoli della disoccupazione,
gli scioperi, le lotte, i digiuni e le ire delle moltitudini cittadine
e rurali, sarà sempre più spesso necessario, per mantenere almeno
l’apparenza dell’ordine, rispondere ai lamenti e alle maledizioni
con quelle sciagurate falciature di vite umane, che lascian nella
terra insanguinata tanti germi d’odî e di vendette feroci; quando le
cose saranno a questi termini — e non ci vorrà un lunghissimo tempo
— alla propaganda socialista non rimarrà più molto da fare. Farà per
essa, nelle classi superiori, una stanchezza e una nausea infinita,
la cura paurosa di scongiurare una rivoluzione di sangue e di fuoco,
un bisogno immenso di ringiovanimento e di ideale, l’orrore — infine
— di «vivere sotto le rovine d’un mondo morto». E allora forse alla
borghesia non parranno altro che atti di rassegnazione logica e facile
quelle «virtù sovrumane» sulle quali essa giudica ora il socialismo
ponga il fondamento del suo futuro; troverà forse naturale in sè e in
tutti quella prevalenza benefica del sentimento della collettività
all’insipiente egoismo della nostra natura, e s’avvedrà che
l’impedimento più forte che ella aveva ad accettare l’idea socialista
non era nella sua ragione, ma nella sua borsa. Ma comunque sia, anche
spinta dalla «ferrata necessità», essa si getterà nell’ignoto.

Ora, se non avessimo fede che in quell’«ignoto», per forza delle
cose, la società troverà a poco a poco un ordinamento in cui sarà
soppressa la più mostruosa e la più funesta delle ingiustizie presenti
— la divisione degli uomini e in un piccolo numero di possessori di
ogni bene e in una enorme maggioranza di servi spogliati, abbrutiti,
angariati e sprezzati sotto le apparenze d’una eguaglianza bugiarda e
d’una libertà anche più bugiarda dell’uguaglianza — noi non avremmo più
alcuna speranza nel progresso umano: non ci rimarrebbe che incrociare
le braccia e dire: — Abbia libero corso la cancrena che ci divora, e
la putrefazione universale si compia. — Ma quella fede noi l’abbiamo, e
così profonda, che nel bel giorno di primavera designato a celebrarla,
ci prende un senso di pietà e quasi di stupore, vedendo per le vie
tristi della città, in mezzo a pochi cittadini sospettosi, passar la
minaccia armata dello Stato. Noi ci domandiamo a momenti perchè non
scendan tutti dalle case, uomini e donne d’ogni classe, coi bambini per
mano e con le rose di maggio sul petto. Oh certo, in un tempo remoto,
questo si vedrà! Le case saranno vermiglie di bandiere, per le strade
scorrerà una fiumana vivente, le fronti, le grida s’alzeranno libere al
cielo, e nel fremito sano ed immenso di popolo, penetrando nelle case
silenziose degli ultimi malinconici negatori della nuova fede, vincerà
finalmente anche il cuor loro, e li trarrà di forza alla finestra,
con le lacrime agli occhi e l’amore nell’anima a benedire la festa del
mondo.




PARTE TERZA.

PER LA PACE.


Il socialismo e la guerra.

Disse il Jaurès all’assemblea francese, in un discorso che scosse tutta
la Francia, a coloro che accusano il socialismo di — indebolire il
coraggio — predicando la pace — e di fiaccare le energie nazionali:
— «Io dico, al contrario, che quello che può snervare il coraggio
è l’eccitazione continua in vista d’un pericolo che è continuamente
aggiornato, il sistema d’abituare la nazione all’illusione del coraggio
e ad un eroismo verbale. Le energie morali sono come le energie
fisiche: non si distruggono, ma si convertono le une nell’altre. È
inutile perciò il fermare l’energia d’una nazione nell’una o nell’altra
forma sotto il pretesto che essa dovrà servire un giorno al tale o
al tal altro scopo. Date a una nazione delle energie vive e sane:
l’energia del lavoro, l’energia del pensiero, l’energia della libertà,
l’energia del diritto, e se queste forze saranno minacciate un giorno
da un’aggressione straniera, esse si convertiranno spontaneamente in
una magnifica espansione di coraggio».

Le parole del grande oratore socialista della Francia dovrebbero
essere meditate dai reazionari bellicosi d’ogni paese, per i quali pare
che non esista questo quesito: se il sentimento dell’amor di patria,
principal forza d’un esercito in una guerra di difesa nazionale, non
debba essere più o men forte nelle moltitudini combattenti secondo
la maggiore o minor quantità di beni materiali e morali che l’idea
di patria rappresenta per esse; se da moltitudini che, difendendo
il paese proprio, sono consapevoli di difendere uno Stato dove hanno
libertà, giustizia, vita umana, non sia da attendersi maggior valore
e costanza che dai figli d’un popolo, nel quale quei beni non siano
ancora che aspirazioni temute e compresse; se, essendo in guerra una
grande forza la coscienza della propria superiorità morale sul nemico,
non abbia, di due eserciti, a battersi più fieramente quello che sa di
rappresentare un più alto grado di perfezione sociale, di combattere
per conservare una maggior somma di conquiste civili o economiche; se,
in fine, non debbano prevalere per virtù d’ardimento e di sacrificio
quei soldati che difendono l’integrità d’una patria, alla quale, oltre
che dall’affetto istintivo, si sentono legati dalla gratitudine di
figliuoli beneficati e protetti.

È fuor di dubbio che dei miracoli di valore compiuti dagli eserciti
della rivoluzione francese fu prima cagione l’idea, fiammeggiante fin
nell’ultimo dei loro soldati, di difendere una nazione che innalzava
in faccia al mondo la bandiera d’una nuova storia, di portare sulle
punte delle loro baionette il verbo della libertà contro un dispotismo
inteso ad eternare il passato per terrore dell’avvenire; ond’era
universale in quegli eserciti la coscienza di sovrastare moralmente,
quasi come una razza superiore, alle masse asservite e inconscienti
che avevan di fronte. È dunque strano e quasi inesplicabile come gli
avversari ostinati del presente moto del proletariato, che accusano
chi lo guida e lo seconda di voler distruggere il sentimento e le
forze militari della patria, e da quel moto mirano a distrarre gli
animi con lo spauracchio perpetuo d’una guerra nazionale, non pensino
che il mantenere le classi lavoratrici, come essi vorrebbero, nel
presente stato di miseria intellettuale o economica, avrebbe per
effetto certissimo d’indebolire alle radici il vigore difensivo della
nazione, principalmente costituito dalla fede del maggior numero nella
virtù benefica delle istituzioni che la reggono e dalla speranza comune
di uno stato migliore; il quale dal sopravvento straniero sarebbe
allontanato o precluso. Essi vogliono nel pugno della nazione una spada
enorme; ma non considerando se sarebbe gagliardo o fiacco il braccio
che l’ha da reggere, se ardente d’entusiasmo o restìa l’anima che deve
movere il braccio, se sarebbero sane e concordi, o inferme e slegate,
tutte le facoltà di quell’anima; se, insomma, si possa avere in guerra
un grande esercito quando non s’ha in pace un grande popolo, e se tale
possa essere un popolo povero, malcontento ed incolto. Il corollario
di queste osservazioni è un paradosso apparente, che noi stimiamo
una grande verità; cioè, che di due nazioni in guerra, di cui l’una
attentasse all’integrità dell’altra, non essendo troppo diseguali le
forze del numero e delle armi, la più valorosa, la più tenace, la più
sicura della vittoria sarebbe quella in cui l’evoluzione socialista
avesse portato le moltitudini a un più alto grado di prosperità e di
coscienza civile: l’evoluzione socialista, poichè non v’è oramai altra
via di progresso sociale, anche se l’ultimo ideale del socialismo fosse
un’illusione.


Dopo Algesiras.

Quando pareva che dalla conferenza d’Algesiras fosse per nascere
una conflagrazione europea, dalla voce dei profeti del peggio fummo
maravigliati a tutta prima come dal pronostico di una cosa insensata
e incredibile. — Come, nello stato presente di civiltà —, domandammo
a noi stessi — perchè due potenze europee non riescono a conciliare
certi loro interessi commerciali in un angolo dell’Affrica, è ancora
possibile lo scoppio d’una guerra che metterebbe a fuoco e a sangue
forse l’Europa intera, e farebbe tale sperpero di vite, d’oro e di
lavoro, e accumulerebbe tanti orrori, e avrebbe effetti funesti per
così grande spazio di tempo, da non potervi fermare l’immaginazione
senza un brivido di sgomento mortale? È possibile ancora che il
presente e l’avvenire di milioni d’uomini di dieci paesi dipendano
dalle discussioni di venti persone, delegate dai Governi, non dalle
Assemblee dei loro Stati, a trattare una quistione che la grandissima
maggioranza di quei milioni d’uomini non conosce, o non comprende,
o non cura, e che, comunque si consideri, non è una quistione vitale
per nessun popolo, ma un contrasto d’interessi ristretti, a cui non ha
dato importanza improvvisa che un risentimento d’orgoglio nazionale?
È dunque così barbaricamente costituito ancora, dopo tanto corso di
civiltà, l’organismo politico e sociale delle nazioni, che resti in
balìa di pochissimi lo scatenare i popoli a un macello immenso, e
che da questi se ne attenda il cenno come una sentenza del destino;
che d’un fatto così formidabile, del quale i popoli stessi hanno pur
da essere attori e vittime, si dica rassegnatamente: — Avverrà? non
avverrà? — come d’un fenomeno della natura, indipendente da ogni azione
umana? È possibile che si esprimano ancora, parlando di individui,
soggetti, per quanto posti in alto, a tutti gli errori umani, concetti
spaventevoli come: — Se questi o quegli «vorrà» o «non vorrà» la
guerra? — Che si possa dire ancora (e non paia orrendo): — Meglio il
disastro passeggiero d’una guerra che quello perpetuo della pace armata
—, come se fra le due vie: di far la guerra per poter disarmare e di
disarmare per non farla, non si potesse sensatamente neppur discutere
la preferenza da darsi alla prima? Che, in fine, si consideri ancora
la guerra con la mentalità selvaggia di quel condottiero spagnuolo,
per cui essa era «el verdadero estado del hombre»? È possibile? — Che
tutto questo fosse possibile sapevamo bene prima che la Conferenza
d’Algesiras si radunasse; ma le voci, che questa fece sorgere, d’una
guerra probabile e prossima, ci destarono, come fa sempre l’avvicinarsi
d’un pericolo che prima era lontano, quasi un concetto nuovo del
pericolo medesimo, e un nuovo sentimento, che fu di maraviglia dolorosa
e sdegnosa, e d’umiliazione e di rivolta insieme della nostra coscienza
d’uomini civili.

                                   *

Più vivo ci fu reso questo sentimento dalla considerazione d’un
fatto. È fuor di dubbio che a una guerra per la quistione affricana
era risolutamente avversa l’opinione dei più in ogni nazione; che,
non parlando delle classi lavoratrici, in tutte le altre classi
sociali d’ogni paese d’Europa, a consultare cittadino per cittadino,
non si sarebbe trovato uno su mille, che non giudicasse tal guerra
una mostruosa follia. Or bene, come mai fra quelle classi, che pure
tante volte concordarono da paese a paese in potenti iniziative
di carità pubblica e in affermazioni di grandi principii e intenti
d’umanità, non s’è manifestato un accordo internazionale, nè vasto nè
circoscritto, per iscongiurare una tal follia, non s’è levato almeno
un grido di molti, che esprimesse il giudizio di tutti, e ammonisse
tanto solennemente i Governi e i rappresentanti loro da assicurare il
mondo che d’un tale ammonimento non avrebbero potuto non curarsi? Come
lasciarono che soltanto dalle file del socialismo s’alzasse la voce che
diceva il pensiero e l’animo delle nazioni? È dunque vero che esse non
hanno più ideali, nè forza, nè fede in sè medesime e nella necessità
della loro funzione sociale, e che si lasciano andare con inerte
acquiescenza agli eventi, poichè non sono più in grado di governarli?
O sentono che la consuetudine di deridere gli apostoli della pace
universale, perchè troppi di questi sono anche apostoli d’un’altra
fede, toglie loro il diritto e l’autorità di bandir crociate contro una
guerra, qualunque sia? E che è questo sentimento religioso, in alcuni
paesi pur così ardito e pugnace, e che pare si ridesti in tutti con
nuovo colore sociale e nuovi intendimenti umanitari, se nella recente
occasione non inspirò, non solo alcuna solenne voce collettiva, ma
neppure qualche grande voce solitaria a deprecare l’eccidio minacciato,
gridando in nome della fede il «no» della coscienza universale? E
non si dica che ciò non si fece per essere ancor remoto e vago il
pericolo, poichè una dimostrazione efficace non si sarebbe potuta
fare se non appunto in quel periodo in cui le menti e gli animi erano
ancor tranquilli, e sarebbe stata troppo tarda quando la rottura dei
negoziati avesse turbato gli spiriti e fatto incominciare dai Governi
in lotta quell’opera di sovreccitamento delle passioni nazionali, per
cui hanno in mano tanti mezzi pronti e sicuri. Che segno hanno dato in
quest’occasione le classi superiori di spirito umanitario progredito,
di civiltà affinata, di sentimento religioso sincero?

                                   *

Un altro fatto singolare notammo. Quella parte della stampa, che
si dice «dell’ordine» non solo delle due nazioni che sarebbero
state immediatamente alle prese, ma anche dell’altre, che più
probabilmente sarebbero state travolte poi nella lotta; quella parte,
in special modo, che si mostrò più incline a giudicar probabile il
grande disastro, ne parlò come avrebbe parlato d’un pericolo simile
cinquant’anni sono, ossia, come d’una guerra che, dove fosse stata
decisa, sarebbe avvenuta senz’altro, e si sarebbe svolta nei modi,
nelle condizioni e con gli effetti stessi degli altri tempi. In nessuna
delle sue considerazioni vedemmo considerato l’avvenimento probabile
in relazione col mutato spirito delle moltitudini, con le nuove forze
politiche sorte, col nuovo stato d’opposizione profonda e permanente
in cui si trovano in ogni paese, con effetti quotidianamente visibili,
e spesso gravissimi, le classi sociali che hanno la ricchezza e il
potere e quelle che hanno il numero e l’avvenire; non espresso mai
alcun dubbio sulla persistenza dell’antica solidità e docilità di
questi smisurati organismi di guerra, che non sono più veri eserciti,
ma popoli armati, portanti in sè un nuovo mondo d’idee, manifesto a più
segni anche in quello che è il loro nucleo stabile in tempo di pace,
e che è pur composto degli elementi loro più quieti e più semplici;
nessun presentimento od accenno a qualche cosa di più grande e di più
terribile della guerra stessa, che avrebbe potuto prevenirla o renderla
impossibile, o scoppiar con essa e troncarla, precipitando gli Stati in
una convulsione, dalla quale, per l’immaturità dei tempi, non sarebbe
potuto uscir altro che desolazione e miseria per tutti, seguìte da una
riscossa di tutte le idee del passato. Quello che seguì in Europa da
trent’anni nell’ordine delle idee, dei partiti, delle relazioni fra
le classi, del movimento delle forze sociali, parve non avvenuto, a
considerare il criterio e il linguaggio con cui quella stampa ragionò
della guerra.

                                   *

Ma questo fatto non ci maravigliò, poichè sarebbe assurdo l’attribuirlo
a ignoranza o a trascuranza della verità; nel qual caso soltanto
potrebbe maravigliare. Esso non fu effetto che d’uno spontaneo e
tacito accordo, non fu che una finzione logica e necessaria, che si
ripeterà in ogni caso simile. Considerare i pericoli d’una guerra
europea sotto l’aspetto che s’è accennato, sarebbe un riconoscere nelle
nuove idee, nell’organizzazione internazionale del proletariato, negli
effetti ottenuti dall’azione del socialismo una potenza, che convien
disconoscere invece, per non ingrandirla nel concetto di chi ci ha
fede e di chi la teme; sarebbe un ammettere che il socialismo domina
già virtualmente la storia. Ora, si tacciono con tanto maggior cura
le verità invise quanto più sono palesi. E questa è così palese per la
prova dei fatti che non c’è più alcuno che, pur negandola, non ne sia
intimamente persuaso. Troppo è manifesto che è la forza crescente del
socialismo la principal cagione per cui non iscoppiò in Europa dopo il
1870 la tanto temuta guerra, benchè tante volte ci siano state propizie
le occasioni politiche e se ne sia predicata l’imminenza. Monarchi,
governi, oligarchie interessate trattenne la coscienza che il terreno è
mal fido per il gran duello e che la lama è mal ferma nell’impugnatura.
In tutti è la persuasione profonda, benchè dissimulata, che v’è una
sola, grande e urgente quistione nel mondo civile, e che, se anche
la guerra potesse compiersi, non sarebbe da quella che una diversione
passeggiera; dopo la quale la quistione suprema risorgerebbe con tutta
l’urgenza di prima nel paese o nei paesi vittoriosi, accresciuta
forse dall’eccitamento febbrile che lascia nei popoli la vittoria,
e divamperebbe come un incendio nei paesi vinti. E forse la prima
causa della lamentata indifferenza delle classi superiori in faccia
al recente pericolo fu quella persuasione; per la quale non credevano,
in fondo, che si sarebbe fatta la pazzia di tentar l’avventura. Così,
mentre si deride l’utopia socialista della pace perpetua, l’utopia va
diventando realtà, in Europa, principalmente per opera degli stessi
utopisti. Di tanto in tanto, quando certi loro interessi si trovano
a cozzo, uno Stato innalza di faccia all’altro, per minaccia, una
gigantesca armatura; ma l’armatura resta là come uno spauracchio, e
dopo qualche tempo è rimessa nell’armeria. È perchè il gigante antico,
a cui i Governi la dovrebbero vestire, ha una nuova coscienza, e la
volontà sua non è più in loro potere. Egli vuol lavorare, non uccidere,
e le conquiste a cui aspira non le può più compiere sotto la loro
bandiera.


Otto frammenti.

I. — A un banchetto.

È un pezzo che io domando a me stesso — e sarà forse una domanda
ingenua — perchè tutti gli uomini onesti e sensati d’ogni paese non
siano con noi, per quale ostinazione o per qual malinteso tutti,
anche coloro che non credono possibile il conseguimento del nostro
ideale, non si associno cordialmente all’opera nostra; tanto mi paion
certi e evidenti gli effetti benefici ch’essa produce con la semplice
diffusione delle idee e dei sentimenti a cui s’ispira.

Noi portiamo dentro una eredità sciagurata di falsi concetti e di
tristi passioni, oscuri e quasi ignorati avanzi di barbarie, che forman
fra tutti come una quantità enorme di materia infiammabile diffusa
per ogni popolo; la quale, o spontaneamente o per arte di pochi, anche
per una causa futile, o iniqua, o insensata, può di giorno in giorno
infiammarsi e scoppiare nella calamità terribile della guerra. Ebbene,
questi pericolosi avanzi di barbarie, quasi tutti celati sotto aspetti
ingannevoli, noi vogliamo afferrarli, analizzarli, farli vedere nella
loro essenza vera, disonorarli e distruggerli, affinchè nella decisione
delle contese fra popolo e popolo abbia una parte sempre maggiore la
Ragione, una parte sempre minore la Morte. Chi, onestamente, ci può
rifiutare il suo consenso e il suo aiuto?

Noi diciamo ai padri e alle madri: — Educate fortemente i vostri
figliuoli; ma non sia uno strumento omicida il primo trastullo che
ponete nelle loro mani, non sia la finzione della strage il primo
diletto della loro fantasia, perchè è un troppo vecchio e funesto
errore quello di secondar nel fanciullo l’istinto della ferocia
credendo di educarlo al valor pensato e generoso dell’uomo civile.

Diciamo ai giovani d’ogni paese: — Amate la patria; ma sia il vostro
quell’amor di patria, illuminato da un più largo e sapiente amore, che
di ogni popolo ci fa onorar le virtù e benedir le fortune, come d’un
necessario alleato nostro e di tutti nella eterna lotta per la vita
e per la civiltà che combattiamo con la Natura; non già quell’altro
gonfio d’orgoglio e roso di gelosia, che s’inalbera ad ogni ombra e
s’abbassa a ogni piato e ha bisogno d’eccitarsi con l’odio — col più
ingiusto, col più dissennato degli odi — quello che abbraccia milioni
di creature umane sconosciute e innocenti.

Diciamo a coloro a cui è affidata la difesa nazionale: — Bello è il
tener l’animo pronto al supremo sacrifizio per la patria, nobile è
l’ambizione di meritare la sua gratitudine; ma nessuna ambizione vi
mova a desiderar la guerra per la guerra, perchè di tutti gli eccessi
dell’egoismo questo è il più orrendo, e chi l’accoglie nel cuore non
è più un difensore del proprio paese, è un suo sanguinario nemico,
e doppiamente colpevole perchè si nasconde sotto le insegne dei più
diletti suoi figli.

Diciamo agli insegnanti, agli educatori: — Ispirate ai giovani
l’ammirazione delle grandezze antiche; ma non confondete in una
ammirazione medesima le anime grandi e i briganti fortunati, perchè è
un pervertire nella gioventù il senso della giustizia; non li avvezzate
a considerar gli eccidi dei popoli come quelli dei formicai che si
calpestan passando, perchè è inaridire le sorgenti della pietà; non
inculcate loro il concetto della necessità fatale della guerra, perchè
è uccidere in essi la fede nella civiltà e indurli al disprezzo della
razza umana; e non dite loro che le forze morali dei popoli non si
ritemprano che col ferro e col fuoco, perchè son là il lavoro, la
scienza, la carità, la miseria, il dolore che vi gridano: — Bastiamo
noi a far degli eroi e dei martiri sopra la terra! — e ve ne mostrano
ogni giorno una legione.

Diciamo infine ai credenti: — Che cos’è la religione, che non predica
la pace, non solo, ma che domanda a Dio che si spargano dei torrenti
di sangue, e lo ringrazia mentre fumano ancora? Venite con noi, se è
vero che portate nell’anima l’amore e il perdono, levate la voce per la
nostra causa, se non mentite a Gesù Cristo quando invocate il suo regno
sopra la terra.

Questo noi diciamo, e per il conseguimento dell’alto fine abbiamo una
fede profonda nella potenza della parola ragionata e appassionata,
infaticabilmente ripetuta e diffusa dalle scuole alle officine, alle
chiese, agli atenei, alle reggie, gridata in tutte le lingue e su
tutte le frontiere, prima da migliaia, poi da milioni di voci, fin che
diventi così formidabile da far cadere dai pugni del mostro la spada
spietata e la fiaccola infame.

— È un sogno! — ci gridano. — Ebbene — sì — è un sogno; — ma come
quello che tra l’infuriare degli odi e delle guerre cittadine, quando
l’Italia, era tutta in brani sanguinanti, doveva allietare qualche
volta i nostri antichi padri, mostrando loro nell’avvenire, come
un prodigio incredibile, tutte quelle frontiere cancellate, tutte
quelle ire spente, tutti quegli implacabili fratricidi disarmati e
riconciliati per sempre intorno a una sola bandiera.

E si compirà il sogno di oggi come si compì quello d’allora.

Sì, soffiate pure nelle vanità patriottiche, riattizzate antichi
e recenti rancori, alzate barriere doganali, coprite di fortezze i
confini: contro ai grandi fiumi che corrono a mescolarsi nell’oceano
non giova impedimento di dighe: i popoli inciviliti vanno l’uno verso
l’altro spinti da una forza a cui nulla resiste, riconoscono a poco a
poco immaginarie più che reali le tanto predicate avversioni di razza
e falsa apparenza l’antagonismo dogli interessi, e confondono idee,
usanze, lavoro, arte, sangue, e vanno con rapidità così maravigliosa
moltiplicando e serrando fra di loro, sotto l’impulso dei bisogni
crescenti, i vincoli della vita, che l’idea di reciderli con la spada,
per qualunque sia causa, parrà tra non molto altrettanto assurda e
abbominevole che quella di risolvere le quistioni interne d’una nazione
scagliando l’una contro l’altra le sue provincie, riaccese dei furori
selvaggi del medio evo.

Questa è la fede di tutti noi, forza e conforto divino dell’anima
nostra; fede che neppure da una gigantesca guerra europea, che
scoppiasse domani, non sarebbe minimamente scemata.

Quanto a me, n’ho un’altra anche più ardita, che ai più di voi parrà
illusione. Io credo che l’idea della pace abbia già percorso, per
effetto di forze estranee alla vostra propaganda, un cammino assai
maggiore di quello che non appaia a noi stessi, assai maggiore di
quello che l’orgoglio ferito d’un grande popolo possa consentire che
si affermi. Credo che le quistioni internazionali che sono oggi un
pericolo avranno una soluzione lontana, ma pacifica, compresa nel
giro d’una più vasta mutazione di cose. Credo che alle moltitudini
innumerevoli che domandano nutrimento umano, vita intellettuale e
giustizia, non si risponderà mandandole come armenti al macello,
dopo del quale, per preparare nuove rivincite e nuove difese, si
ricomincerebbe ad affamarle più spietatamente di prima; — credo che
questo esecrando sterminio di popoli da cui rifugge l’imaginazione
inorridita e che da vent’anni ci pende sul capo come una maledizione
di Dio, non seguirà —; che l’aurora del ventesimo secolo non si leverà
su questa vergogna del mondo. Io lo credo — voi, forse, lo sperate.
Alziamo dunque insieme i bicchieri, e salutiamo con un cuor solo, con
un solo evviva questa santa speranza!

II. — La guerra educatrice.

Disse il maresciallo Moltke che la guerra svolge nel cuore umano dei
sentimenti nobili.

Si può dir lo stesso di tutte le grandi calamità pubbliche, compresa la
peste. A proposito della peste di Milano, appunto, osserva Alessandro
Manzoni che «nei pubblici infortuni, e nelle lunghe perturbazioni
di quel qual si sia ordine consueto, si vede sempre un aumento, una
sublimazione di virtù». Ma soggiunge: — «e, pur troppo, non manca mai
insieme un aumento, e d’ordinario ben più generale, di perversità».

Il giudizio del Moltke, dunque, non esprime che una mezza verità; anzi
meno che mezza.

Che molti concordino in quel giudizio deriva dall’essere generalmente
considerata come giusta la definizione: «La guerra è un duello tra due
popoli»; la quale è invece falsissima, perchè nella maggior parte degli
atti e dei procedimenti riconosciuti legittimi in guerra non v’è ombra
di quel qualsiasi sentimento o concetto cavalleresco a cui è informato
il codice del duello fra gentiluomini. La guerra, certo, offre ai
coraggiosi e ai generosi molte occasioni di dar prova onorata e utile
della loro virtù, e molti begli atti individuali lo dimostrano, in
tutte le guerre, compiuti anche da quella parte, la quale combatte per
una causa iniqua.

Ma questi atti, che compiono soltanto gli uomini forti e nobili, non
sono che piccoli e rari episodi; non sono la guerra.

Quando si combatte il nemico, come s’intende a far sempre, con duplice,
triplice forza numerica e con tutti quei vantaggi d’armi, di tempo e
di terreno che danno la certezza assoluta della vittoria, come ad un
uomo che lotti con un fanciullo; quando da un’altura conquistata si
fulmina a fuochi di fila una mandra di fuggenti, di cui non si vedon
più che le spalle; quando, guidati dallo spionaggio e dal tradimento,
si assiale nelle tenebre e nel sonno un accampamento mal guardato e
vi si semina la morte prima che vi si possa tentare un principio di
resistenza; quando si casca inaspettati, mille contro cento, sopra un
convoglio di viveri, e si macella la scorta e si preda il convoglio,
affamando migliaia d’uomini che si batterono forse eroicamente il
giorno innanzi; quando da lontano molte miglia, e senza pericolo, si
rovesciano sopra una città dei nembi di ferro e di fuoco, che vanno a
mutilare monumenti d’arte secolari, a incendiar biblioteche, a rovinare
edifizi d’utilità pubblica, a sterminare nei loro letti donne, vecchi,
fanciulli, malati, feriti; quando ai cittadini d’una città disarmata
si estorcono con le armi alla mano gli ultimi scudi, che, dopo essersi
impoveriti per la patria, essi serbavano agli ultimi sacrifizi; quando,
sia pure per necessità e senza ferocia, s’invadono e si manomettono
le case dei privati, si trascinano prigioniere «in ostaggio» delle
famiglie atterrite e tremanti, e si strappano le derrate e gli animali
e si devastano i campi ai coloni affamati e supplichevoli; quando,
stando in agguato dietro ai muri o alle siepi, si uccidono alle spalle
gli esploratori solitari, o si fucilano dei cittadini per il solo
fatto d’aver difeso la patria senza vestire una divisa, o si spara
nel dorso ai prigionieri inermi ed affranti che tentano di mettersi in
salvo; quando si fa tutto questo — e si fa di continuo in ogni guerra
— quali «sentimenti nobili» si possono «svolgere» nel cuore umano? Il
vero è che per far tutto questo, come vuol esser fatto, vigorosamente,
bisogna soffocare nel proprio cuore quei sentimenti. Basterebbero a
provarlo, fra mille altri fatti, il seguente: che uno scrittore noto in
Europa, e non sospetto di malo animo verso la Germania, abbia osservato
negli operai affluiti a Berlino, in quel breve periodo di prosperità
fastosa e fittizia che succedette alla guerra con la Francia, un
grande cambiamento; davanti al quale egli domandò a sè stesso «se
essi avessero serbato in fondo al loro nervo visivo l’immagine
dogli uomini uccisi e dei villaggi incendiati, poichè s’erano fatti
violenti e rissosi, indifferenti ai ferimenti e agli omicidi, e
facili a servirsi del coltello». Ma che più? Ne dà una prova lo
stesso maresciallo Moltke, nell’appendice alla sua Storia della guerra
franco-germanica, con una frase, che forse egli non avrebbe scritta,
se quando gli venne sulla punta della penna gli fosse tornato in mente
ad un tempo il giudizio suo sopra citato. È la pagina dove parla del
suo incontro col principe di Bismarck sul campo di Sadowa coperto di
cadaveri sfracellati e di feriti rantolanti nel sangue, nel momento
che arrivava il corpo d’esercito del principe ereditario. Egli dice: —
«Noi galoppavamo allegramente a traverso al vasto campo, senza badare
agli orrori che esso ci offriva». — Tale effetto aveva prodotto nel suo
cuore, pur naturalmente buono, la guerra.

III. — È un errore....

È un errore il credere che si educhino i giovani al coraggio e
ai sacrifici patriottici destando in essi il furore della gloria
soldatesca e quella febbre d’orgoglio nazionale, che non è amor di
patria sapiente, ma orgoglio individuale, dilatato e larvato. Si
destano in loro, insieme con questi sensi, un desiderio spensierato
della guerra, un disprezzo facile e crudele della vita altrui e altre
passioni e tendenze che li sviano dal culto degli alti ideali. Ma
quanto al farne dei cittadini forti e dei soldati intrepidi, la cosa è
diversa.

Nel fatto, sui campi di battaglia e nei cimenti della vita civile,
si vedon far mala prova molti di quelli che eran più smaniosi della
lotta, molti patriotti furibondi e squassapennacchi terribili, ed anche
uomini a cui l’educazione letteraria o militare diede tutti i caratteri
apparenti del cittadino valoroso o del bravo soldato, e mostrare invece
una intrepidità e una fermezza inaspettata giovani e uomini maturi,
d’indole grave e modesta e d’idee miti e ragionevoli, i quali non
avevan dato innanzi alcun indizio della loro forza. La fermezza e il
coraggio, in costoro, derivano da un sentimento profondo di dignità
personale, dalla coscienza di combattere per una causa giusta, da
un concetto particolare che hanno della vita, e da altre forze mal
definibili che sono in fondo all’animo loro. Su queste forze non hanno
potere alcuno quelli che credono di formar dei prodi cittadini e di
suscitar degli eroi gridando perpetuamente alla gioventù: — Patria,
armi, sangue, guerra, gloria!

Questi non fanno che seminar del vento e ritardare il cammino della
civiltà col mantener vivo il pregiudizio funesto che si fortifichi un
popolo inebbriandolo d’ambizione e facendogli adorare la spada.

IV. — La guerra e la menzogna.

Potrebbe scrivere un libro utile chi dimostrasse quante bugie dicano e
mettano in giro, durante una guerra, quante leggende assurde creino ed
accettino l’ambizione degli individui, l’orgoglio nazionale credulo,
la condiscendenza della stampa interessata a adularlo, e l’ignoranza
infantile della moltitudine. Neppur da questo lato, certamente, giova
la guerra a «innalzare i caratteri» poichè intorno a un piccolo numero
d’eroi veri e a un numero maggiore di combattenti valorosi, ma non
eroici, suscita un numero grandissimo di sballoni e di millantatori e
di complici loro conscienti od ingenui, che offrono tutti insieme a chi
serbi sereno lo spirito uno degli spettacoli più compassionevoli che
possa dar di sè la natura umana.

E non parliamo dei moltissimi che, non avendo preso parte ad alcun
fatto d’armi, affermano dopo un certo numero d’anni, quando si son
confusi i ricordi degli avvenimenti, d’aver _visto il fuoco_ di ogni
battaglia; nè degli altri molti che, non essendo stati a una battaglia
che come spettatori fuor di pericolo, si vantano, in capo a un certo
tempo, d’avervi preso parte vivissima, e scroccano nella loro famiglia,
fra gli amici e nel pubblico una considerazione che non meritano.
Ma di quelli stessi che combatterono e rischiarono la vita davvero
quanti mentiscono i sentimenti che hanno provati, e ingrandiscono le
gesta proprie e le altrui, e danno per verità delle fantasie! Se n’ha
la prova nelle diversità grandissime e nelle contraddizioni enormi
che si riscontrano fra i racconti di quelli stessi che assistettero
allo stesso fatto, non già molti anni, ma pochi giorni dopo ch’esso è
avvenuto.

Certo, vi sono uomini di tempra quasi superiore alla umana, che
danno esempio, fra i pericoli supremi, d’una tranquillità d’animo
maravigliosa, che compiono atti e pronunciano parole, anche morendo,
degni dell’ammirazione d’un popolo. Ma sono, in realtà, rare eccezioni,
e non diventan molti se non perchè l’immaginazione ambiziosa li
moltiplica. Nove volte su dieci, quelle tanto frequenti descrizioni
di gente che «non batte ciglio» sotto il grandinar delle palle, che
scherza sulle proprie membra lacerate e spira gridando evviva, sono
purissime favole; le quali sono anche spinte il più delle volte a
un’esagerazione di particolari così impudente e puerile da mover
le risa o lo sdegno in chiunque sia stato una volta sul campo di
battaglia. Così, di recente, abbiamo letto d’un combattimento in
cui, mentre la morte li decimava, una schiera di combattenti faceva
una tale allegria che era _un vero carnevale_ e d’un ufficiale che,
mezzo affogato in un pantano, ammazzò non so quanti e mise in fuga il
resto d’un drappello di nemici, e di _tre soldati_ che arrestarono da
un’altura cento assalitori, e altri tanti e tali prodigi, che indussero
un ufficiale valoroso a levar la voce perchè si mettesse un termine,
per sentimento di dignità nazionale, alla fabbricazione delle leggende.
E in tutti i paesi, in tutte le guerre, segue il medesimo, e più forse
nelle guerre sfortunate che nelle vittoriose, per una ragione facile
a comprendersi; il qual fatto può anche far dubitare della verità
della sentenza: che le sconfitte ritemprano i popoli insuperbiti e
corrotti dalla fortuna riconducendoli a un giusto giudizio del proprio
valore. Nè questa è l’ultima cagione della persistenza d’un avventato
e provocante spirito bellicoso in un così gran numero d’uomini, che
non videro mai la guerra fuor che nei quadri; vale a dire: un concetto
falsissimo, creato in loro dalla menzogna convenzionale e tradizionale,
della guerra stessa, della facilità dell’eroismo e della moltiplicità
degli eroi; concetto falsissimo che si comunica e si tramanda in tutti
gli scritti storici, apologetici e poetici, relativi alla guerra, ai
quali s’informa l’educazione della gioventù, e fa sì che la letteratura
guerresca sia la più adulatrice e la più bugiarda di tutte le
letterature.

V. — Ai maestri.

Sarebbe opera utile al trionfo della Pace il cercar di correggere
nelle scuole, e in particolar modo nell’insegnamento storico, la
troppo facile e cieca ammirazione dei grandi macelli e dei famosi
macellatori; il combattere la leggierezza, il linguaggio inconsciamente
barbarico con cui s’avvezzano i giovanetti a raccontare e a descrivere
le stragi più orrende, con l’idea falsissima che siano una cosa sola
l’indifferenza per lo spargimento del sangue e il coraggio; l’educarli
a congiunger sempre all’ammirazione del valore guerriero un sentimento
di pietà profonda per le vittime e di alto rispetto per la vita umana;
il far sì che al sentimento della necessità ed anche della santità di
certe lotte cruente uniscano sempre quello d’un orrore doloroso per
questa necessità medesima e la speranza che un giorno essa non sia più
per l’umanità che un ricordo funesto e non abbiano più a sorgere statue
d’eroi sopra piedestalli di carne umana lacerata. Se questo si facesse,
non avverrebbe così di frequente d’udir persone civili e gentili,
non per altro che per spirito d’avventura o per ambizione di gloria
patriottica o per scopo d’educazione nazionale, esprimere placidamente
il desiderio di una guerra, senza che dieci voci indignate s’alzino
loro d’intorno a dire che hanno proferito la parola più stolida e più
scellerata che possa uscir dal labbro d’un uomo.

VI. — Per i pazzi.

Sapere, per l’esempio della Francia nel ’71 e della Russia nell’anno in
corso (1906) che cosa segue nelle nazioni vinte in una grande guerra;
riconoscere, come ognuno riconosce, che gli eserciti attuali, formati
di milioni d’uomini, non sono più veri eserciti, ma popoli armati, il
cui spirito è un’incognita, e di cui la vittoria soltanto può mantener
la coesione; non ignorare le quistioni vitali che agitano la società
presente e che tengono le moltitudini in uno stato quasi continuo
di febbre e di convulsione; sentir cantare l’«inno dei lavoratori»
dai coscritti, chiedere il congedo in assembramenti dai richiamati e
protestare nei comizi i reduci dalle grandi manovre; sapere, sentire,
veder tali cose, e parlar d’una guerra, e desiderarla, come un modo di
soffocare per un periodo di tempo le grandi quistioni urgenti che non
si sanno risolvere, ossia, proporre d’uscire dalle difficoltà presenti
tentando la fortuna nazionale in un gioco d’azzardo che, se fallisse,
avrebbe per conseguenza la miseria pubblica triplicata, l’inasprimento
di tutte le ire, la difficoltà ingigantita di tutti i problemi, e quasi
senza dubbio uno sfacelo spaventevole della compagine dello Stato:
questo dovrebbe parere assurdo ad ogni uomo che abbia lume di ragione.
Eppure a molti non pare, e lo dicono. A chi lo dice non c’è altro che
metter le mani sulle spalle, fissarlo negli occhi e gridargli sul viso:
— Al manicomio!

VII. — Per ritemprare la fibra....

Scrisse tempo fa un mite filosofo: — Se fosse assicurata la pace
perpetua l’umanità imputridirebbe. — E chiarì il suo concetto,
aggiungendo: La guerra è necessaria per ritemprar la fibra alle
nazioni.

La fibra di quale parte, di quali elementi delle nazioni?

Hanno bisogno d’aver ritemprata la fibra tutti quei milioni d’uomini,
i quali nei campi, nelle officine, nelle miniere, sulle montagne e sul
mare sudano sangue per campar la vita, condannati a un lavoro senza
tregua, che, quando non prostra o non uccide, fa le anime e i corpi di
ferro?

Hanno bisogno di aver ritemprata la fibra tutte quelle miriadi di
uomini d’ogni classe, pei quali tutta la vita è un’aspra lotta con
la sfortuna, un perpetuo sforzo ostinato e impotente per uscir dalla
oscurità e dalle strettezze, una quasi continua e non meritata sequela
di privazioni, d’umiliazioni e di disinganni, che li trascinano a cento
a cento al suicidio?

Hanno bisogno d’aver ritemprata la fibra tutti quegli innumerevoli
infelici, a cui le malattie, le disgrazie e i delitti strappano
ferocemente dalle braccia le persone più care, aprendo nel cuor loro
delle ferite che sanguinano senza fine, gettando nell’anima loro una
tristezza, che dura fino alla morte?

Hanno bisogno di aver ritemprata la fibra tutte quelle migliaia di
creature, naturalmente coraggiose e magnanime, che in ogni occasione
di sventura privata o pubblica sono le prime a offrire e a dar l’opera
propria e il proprio sangue, e compiono ogni giorno, senz’ambizione
e senza compenso, quei mille atti di virtù oscuri o dimenticati, che
onorano più altamente la natura umana?

Hanno bisogno d’aver ritemprata la fibra quelle migliaia di giovani e
d’uomini maturi, che ai doveri della loro professione, a una ambizione
nobile e utile a tutti, all’arte, alla scienza, all’amore appassionato
del lavoro sacrificano gli agi, i piaceri, la libertà, la pace,
segregandosi dal mondo e accorciandosi la vita?

Tutti costoro, per certo, non hanno bisogno di rinvigorirsi la fibra
nella guerra.

Ma se si tolgono tutti costoro, che cosa rimane di una nazione altro
che un branco di parassiti gaudenti, di oziosi tarlati dalla noja,
d’avventurieri scioperati, di quattrinai mestatori, d’anime nulle o
triste o bislacche, che neppure amano la patria e la gloria, perchè non
hanno in sè nulla di gentile e di grande!

È forse per rinvigorir la fibra a costoro che si dice necessario e
desiderabile che ogni tanti anni corrano sulla terra dei torrenti di
sangue generoso e di pianto disperato?

Non è credibile.

La sentenza, dunque, vuol essere corretta così: La guerra è necessaria
per ritemprare la fibra agli eserciti.

Questo forse pensava il buon filosofo; ma, per pudor filosofico, non
osò di dirlo. Deploriamo la sentenza e rallegriamoci del pudore.

VIII. — Un episodio della battaglia di Custoza.

Di quanti episodi di guerra io lessi od intesi, quello che mi fa
più spesso e più lungamente pensare è il seguente, che mi narrò un
ufficiale valoroso, il quale ne fu parte.

Nella battaglia di Custoza del 1866, non ricordo se sulle alture di
Montecroce o d’un altro colle, in una di quelle vicende d’assalti
e di contrassalti, in cui le colonne dell’una e dell’altra parte si
rompono in truppe disordinate e in drappelli, alcuni dei quali errano
per qualche tempo tra il fumo, o s’arrestano qua e là come smarriti,
arrivarono di corsa sul culmine, da due parti opposte, due manipoli
fuorviati d’italiani e d’austriaci, tutti così oppressi dalla fatica,
trafelati, sfiniti, che nell’atto stesso del vedersi, s’arrestarono
gli uni in faccia agli altri, come a un comando dei loro capi, ridotti
nell’impotenza assoluta di muovere un passo di più e di far pure un
atto di offesa.

Ristettero gli uni e gli altri sotto il raggio ardente del sole,
grondanti di sudore, con le bocche spalancate e gli occhi fuor
dell’orbita, ansando orribilmente e guardandosi, come istupiditi.

Ripreso appena fiato, prima uno degli austriaci, poi due, poi quasi
tutti cacciarono l’indice nella canna del fucile e, trattolo fuori,
lo mostrarono ai nostri, senza far parola. Nessuno aveva il dito nero
di polvere. Quell’atto voleva dire: — Non abbiamo sparato, non abbiamo
ucciso: non uccideteci.

« — Furon pochi momenti — mi disse l’ufficiale — ma in quel brevissimo
tempo, come si dice che accada ai naufraghi avanti di perder la
coscienza, m’attraversò la mente un pensiero lucidissimo, quasi portato
sopra un’onda d’altri pensieri affollati e fuggenti, ch’io non espressi
che più tardi a me medesimo. Quanta pietà dei propri simili può entrar
nel cuore di un uomo, che abbia egli stesso la morte alla gola, entrò
nel mio cuore in quel punto. Pensai che quei soldati non ci odiavano;
che neppure gli altri loro compagni d’armi odiavano gli altri compagni
nostri, e che nemmeno gli altri giovani del loro paese e le famiglie
loro, ossia la maggior parte del loro popolo, non odiava il nostro
popolo; che, certo, non era quella grandissima maggioranza che aveva
voluto una tal guerra; che tutti dovevano comprendere l’ingiustizia
della causa per cui combattevano, e che avrebbero, potendo, fatto
ragione ai nostri diritti, patenti al mondo; che era dunque, in quel
caso come in altri mille, una forza estranea al maggior numero, al
paese vero, una lega dell’orgoglio, degl’interessi e dei pregiudizi di
pochi, che aveva spinto tante migliaia d’uomini a una guerra ingiusta
ed inutile; e come un lampo mi balenò alla mente, che un giorno,
col salire della civiltà, in quello come negli altri paesi, quella
forza sarebbe stata vinta e quella lega distrutta; che le questioni
tra i popoli le avrebbe risolte la libera coscienza di quelle grandi
moltitudini in cui non nascono spontaneamente nè false ambizioni nè
odi iniqui, e che un incontro terribile e miserando, come quello che io
vedevo, non sarebbe stato più possibile fra creature umane incivilite.

«Tutto questo fu come una visione istantanea del mio pensiero. Due
squilli di tromba di qua e di là fecero sparire dalle due parti i
drappelli, che si ricongiunsero ai loro corpi, — il combattimento
riprese, — e forse parecchi di quei soldati che, vedendosi, s’eran
risparmiati la vita, di lontano, senza vedersi, s’uccisero. — »

Questo fatto mi ritorna alla mente ogni volta che penso alla guerra,
e sempre una voce mi ripete ostinatamente, solennemente, con un
accento di pietà profonda e quasi di sovrumana certezza: — Sì, un
tempo verrà in cui ciò che dissero quei poveri soldati austriaci ai
soldati italiani, l’un popolo lo dirà all’altro: — Io non uccido: non
uccidere! —


  FINE.




INDICE.


  PARTE PRIMA.
  RACCONTI E DIALOGHI.

  Il primo passo                                   _Pag._ 3
  Come si diventa socialisti                             11
  Fra padre e figlio                                     18
  Fra madre e figlio                                     28
  Fidanzata e fidanzato                                  35
  Fratello e sorella                                     41
  Un “malfattore„                                        46
  Discussioni                                            51
  Amicizia nuova                                         62
  Fra anarchico e socialista                             72
  Agitazioni e scioperi                                  83
  Passano le tessitrici....                              92
  Una tempesta in famiglia                              100
  Un giovine perduto                                    140
  Un borghese originale                                 149

  PARTE SECONDA.
  PER IL SOCIALISMO.

  Primo maggio 1904                                     161
  Ai fanciulli                                          167
  A una signora                                         171
  Discordie in famiglia                                 181
  Il partito socialista                                 185
  Compagno                                              189
  Nel campo nemico                                      195
  Obiezioni al socialismo                               203
  Età agitata                                           210
  Mentre passano gli scioperanti                        212
  Il malinteso borghese                                 215
  L’eguaglianza nel socialismo                          222
  Filippo Turati al Tribunale di Guerra                 230
  Un comitato elettorale                                235
  Lavoratori, alle urne!                                239
  Amor di patria                                        266
  Verso l’avvenire                                      273

  PARTE TERZA.
  PER LA PACE.

  Il socialismo e la guerra                             281
  Dopo Algesiras                                        284
  _Otto frammenti_:
     I. — A un banchetto                                290
    II. — La guerra educatrice                          295
   III. — È un errore....                               298
    IV. — La guerra e la menzogna                       299
     V. — Ai maestri                                    301
    VI. — Per i pazzi                                   302
   VII. — Per ritemprare la fibra....                   303
  VIII. — Un episodio della battaglia di Custoza        305




NOTE:


[1] V. specialmente A. GRAF, _Come fu socialista E. De Amicis?_, nella
_Nuova Antologia_ del 1.º aprile 1908; DOTT. ROBERTO MICHELE, _Ed. De
Amicis_, nei _Sozialistische Monatshefte_ di Berlino, 1909, VI; D.
MANTOVANI, _Il “Primo maggio„ di E. De Amicis_, nel _Corriere della
Sera_ del 1.º maggio 1909.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LOTTE CIVILI ***


    

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Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

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Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
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Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
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distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
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