Storia degli Italiani, vol. 14 (di 15)

By Cesare Cantù

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Title: Storia degli Italiani, vol. 14 (di 15)


Author: Cesare Cantù

Release date: February 3, 2024 [eBook #72866]

Language: Italian

Original publication: Torino: Unione Tipograficp/o-Editrice, 1874

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                                  STORIA
                              DEGLI ITALIANI


                                    PER
                               CESARE CANTÙ


                             EDIZIONE POPOLARE
          RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

                                 TOMO XIV.



                                  TORINO
                        UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
                                   1877




LIBRO DECIMOTTAVO




CAPITOLO CLXXXIX.

Principi e popoli dal 1830 al 46. Aspirazioni e trame.


Come sempre, i paesi in cui si ristabilì l’armonia fra l’autorità e gli
obbedienti furono quelli ove non si lasciò corso alla riazione dopo le
rivoluzioni del 1831. Tale fu la Toscana. Ferdinando III granduca dal
trilustre esiglio (se esiglio poteva chiamarsi la dimora in paese di sua
nazione) non riportava rancori e vendette; vedendo la memoria di suo
padre, benedetta in Toscana, non aveva che a seguirne le orme, al che
lo inclinava pure la mitissima sua indole. Ritrovava spento il debito
antico, sistemata la magistratura, ricco il pubblico dominio; sicchè molti
beni poteva effettuare chi avesse saputo innestare le utili novità col
sistema leopoldino. Ma crogiolandosi in questo, si tirò via tolleranti e
fiacchi, in una mansuetudine senza progresso; riponendo il liberalismo i
ministri (di cui era principale il Fossombroni) nell’opporsi ai preti e
a Roma, la gente colta nel far epigrammi contro i ministri. Ferdinando
aprì nuove strade; fece compiere il catasto sopra la triangolazione
eseguita dal professore Inghirami; istituì a Firenze un archivio centrale,
l’uffizio dello stato civile, una casa di lavoro, l’istituto della
Nunziata perla maternità e a Pistoja un altro, a Pisa un’accademia di
belle arti; introdusse i pompieri; migliorò i palazzi e le ville reali.
Passeggiava famigliarmente le vie, andava a visitare ne’ palchetti le
signore, e poichè le persone che vi si trovavano levavansi e teneansi
in piedi, egli diceva alla padrona: — E perchè non permettete a questi
signori di sedersi?» Un abate scontratolo così, andava ripetendogli: — Oh
altezza! che consolazione fu per me il vederla — Oh grazie! — Ah non le
so esprimere quanto sempre lo desiderassi — Sta bene: le son obbligato —
Davvero ho sempre sperato che dovesse venire questo giorno — Ed io non lo
sperava più».

Vantandosi in sua presenza i molti miglioramenti introdotti dai Francesi
durante il loro governo, proruppe: — Capisco saria stato bene che fossero
rimasti dieci anni di più». Soldati non volea, perchè nè del popolo
avea paura, nè contro l’Austria osava reluttare, benchè neppur volesse
soffrirne la tutela; i Carbonari conobbe ma non volle punire, accogliendo
anzi i profughi del resto d’Italia.

Non ci ricorda che per verun principe siansi scritte parole affettuose
(e undici anni dopo il fatto) come queste d’un galantuomo qual fu
Emanuele Repetti: «I cittadini, entrati in sollecitudine per l’imminente
pericolo, taciturni erravano per le vie, ingombravano i sacri templi,
sogguardavansi, interrogavansi, e penetravano negli atrj stessi e nelle
sale del regio palazzo smarriti, sparuti, affannosi, desolati. Niun’altra
premura, nessun affare domestico o civile, tutti i passi, tutte le lingue,
tutte le orecchie a questo solo erano rivolte, di questo solo occupate!
Il pallore di un volto nell’altro si diffondea: nè potrei agguagliar con
parole quello ch’io stesso vidi, e nell’intimo petto sentii fra il gemito
e il tumulto della reggia e del popolo. Suonò l’ultima ora, e il 18 giugno
1824 fu giorno di pianto per tutti; e dico per tutti perchè anche gli
stranieri medesimi che si trovarono presenti a così trista ed inusitata
scena, rimasero talmente commossi, che proruppero pure al pari di noi in
tristi lamenti ed in sincere lagrime»[1].

Il figlio Leopoldo II succedutogli (1824 giugno) con pari bontà, favoriva
quel vivere amichevole, quella cittadinanza riposata che della Toscana
faceva un’Arcadia. Intanto le belle arti, la gentilezza, il clima, la
favella continuavano ad attirarvi forestieri; studiosi l’Università di
Pisa, cui s’invitavano professori d’ogni paese; e i collegi di Siena
e di Prato; capitali il ferro dell’Elba, l’acido borico dei Lagoni,
e la libertà di commercio; si estesero le scuole normali, di mutuo
insegnamento, di sordimuti; presto s’introdussero asili infantili, casse
di risparmio.

Il popolo v’è per indole calmo, devoto, operoso nella povertà; il clero
allevato nelle opinioni pistojesi, tiensi ligio al Governo; i ladri
grossi non v’erano gloriati, se anche non sempre puniti; i pensatori,
sceveri dalla Corte che non gli ascoltava ma li rispettava, ambivano
all’aureola popolare, idoleggiando il meglio ne’ tempi anteriori alla
rivoluzione, zelando le istituzioni leopoldine, e nominatamente le
leggi costituzionali, il diritto di neutralità, il libero traffico,
l’opposizione a Roma; i più aspiravano ad uno statuto con leggi e finanze
discusse, assennati però o coraggiosi abbastanza per non avvolgersi in
congiure. Carlo Troya, Pasquale Borelli, Pietro Colletta, Anton Raineri,
Gabriele Pepe, Giuseppe Poerio da Napoli, Nicolò Tommaseo e Giuseppe
Montani dalla Lombardia, Nobili e Antinori da Modena, Leopardi da Romagna,
rifuggiti colà e uniti a giovani del paese, Giovanni Poggi, l’eloquente
Salvagnoli, i giuristi Francesco Forti, Marzucchi, Capei, l’educatore
Lambruschini, Ridolfi che nel podere di Meleto preparava un modello di
dotta agricoltura, alimentavano la vita intellettuale, e col Capponi,
col Niccolini, col Ciampolini, col Mayer, col Ricci, nella società
de’ Georgofili esercitavano il discorso e l’attenzione sopra quistioni
vitali[2], e collaboravano all’_Antologia_, giornale fondato da Pietro
Vieusseux nizzardo, nel cui gabinetto letterario nessun giornale era
proibito.

Agitando francamente i problemi civili, coll’autorità della dottrina
consacravano le massime liberali, ma neppur essi possedeano quell’accordo
che dà forza. Alcuni, come il Montani, v’aveano importato il romanticismo
colle idee del _Conciliatore_; altri, come Mario Pieri, abbarrati nella
venerazione de’ vecchi, repulsavano dottrine che giudicavano codarde
perchè tedesche: chi idolatrava l’êra napoleonica come il Colletta; chi
ambiva le istituzioni municipali della passata Italia; chi aspirava
all’unità dell’Italia futura: quali col Niccolini professavansi
ghibellini con Dante e Machiavelli; quali con Troya e Tommaseo inserivano
l’innesto neoguelfo: tutti desideravano un Governo parlamentare, dove
sfoggiar l’eloquenza, se non la sapienza civile: assideano la libertà
all’ombra dei troni; pure non mancava chi la ponesse lontano da quelli;
e nell’_Antologia_ penetrarono scritture di Mazzini e corrispondenze
radicali.

I ministri non ingelosivano di manifestazioni, inefficienti su popolo
tanto quieto: e il Fossombroni, insigne matematico e filosofo scettico ed
epicureo, che zelava l’indipendenza della Toscana, ma nell’interno credeva
giovasse il governare il meno possibile, persuaso che _il mondo va da sè_,
rispondendo vaghe parole, e colle arguzie sviando le serie domande, niuna
cura davasi d’eserciti, niuna del morale rigore, niuna degl’interessi
d’Italia; buon fattore in casa, e basta.

L’Austria potea pretendervi a un’ingerenza parentale, ma nel Governo
non ne aveva alcuna; ed anzichè odiare questa dinastia come tedesca,
gl’italiani le sapeano grado della tolleranza e dolcezza. Il principe,
patriarcalmente buono, era assente quando avvennero le rivoluzioni del
31; e sul territorio suo si lasciarono liberamente passare i fuggenti
da Romagna. Quando egli tornò da Dresda, gli fu preparata una colonna
con iscrizione del Giordani, ove si rammentava come egli «in sei anni di
regno accrebbe la pubblica prosperità, alleviò d’un quarto la gravezza de’
terreni;... liberò i macelli dal privilegio, e dall’importuno divieto il
ferro lavorato dagli stranieri; finì l’opera lodata del padre in val di
Chiana; cominciò gloriosamente opera di grande e di buon principe nella
maremma grossetana; condusse in cenquaranta giorni per cinque miglia di
canale nuovo l’Ombrone; ordinò ampia strada per congiungere la maremma di
Pisa e di Grosseto; imprese di congiungere Toscana al mare Adriatico; alle
gentili fanciulle con larghezza regia e paterno amore procurò educazione
più degna del secolo; e nella scientifica spedizione d’Egitto, associò il
nome italiano alla gloria di Francia».

Eppure il Comitato rivoluzionario di Parigi tentò sovvertire anche questo
paese, per rinvigorire i movimenti delle limitrofe provincie. Alquanti
giovani, gli avanzi dell’esercito napoleonico, Modenesi e Romagnuoli
rifuggiti vi diedero ascolto. Si limitarono a combinare una clamorosa
dimostrazione, in teatro chiedendo la costituzione: il principe avutone
avviso, non mancò di recarvisi e passeggiare in platea come al solito;
l’orditore non vi comparve, gli adepti si tacquero; ma sparsero che ogni
angolo fosse irto di spie e di sgherri.

L’_Antologia_ eccitava sospetti non tanto per gli articoli suoi proprj,
quanto per la corrispondenza che teneva con Italiani d’ogni parte: non che
fosse esclusa dai dominj austriaci, molti Lombardi vi contribuivano; ma
la _Voce della verità_ non cessava da Modena di rivelarne, infistolirne,
ribatterne le asserzioni e le dottrine; poi un articolo sulla Russia
provocò una rimostranza da parte di quell’ambasciadore, e bisognò
soddisfarvi col sopprimere quel giornale, e mandar via Nicolò Tommaseo.
La Toscana mosse rimostranze, tutta Italia lamenti, come si trattasse
d’una pubblica istituzione; nobile sintomo, dove il torto fatto ad
uno si considera come comune. Il Governo compensò il Vieusseux, e ne
attestò dispiacere; ma da quel punto parve liberalità l’opposizione; due
accreditati personaggi (Capponi e Ridolfi) rimandarono le loro chiavi di
ciambellano: il granduca le tenne nel suo gabinetto finchè il tempo ebbe
smorzate le ire; allora ebbe a sè i due marchesi, e gliele restituì. Sono
tratti di bontà che resistono all’epigramma e alla diatriba.

E di epigrammi lo bersagliava il Giusti, chiamandolo «toscano Morfeo,
che asciugava tasche e maremme»; e il granduca scontratolo per via — Ehi
(gli disse), quanto alle tasche dite vero, ma le maremme non riuscii. Voi
però per mio conto vivete sicuro; ma se gli altri principi che colpite
domandassero di farvi tacere?»

A tal uomo poteasi voler male? Gian Domenico Guerrazzi, avvocato di
Livorno, immaginazione bollente, venuto a Firenze per intendersi co’
cospiratori e, a dir suo, per chetarli, fu arrestato ma subito dimesso.
Aveva egli allora pubblicato la _Battaglia di Benevento_ (tom. XIII, p.
466) sbuffante contro ogni ordine, ogni autorità. Tutti sapevano di chi
fosse, benchè stampata anonima; all’autore fu trovato il manoscritto;
eppure si mostrò credergli l’avesse copiato e corretto per proprio
esercizio, nè si procedette ad altra molestia. Ma il Guerrazzi passava per
archimandrito della Giovane Italia, allora insinuatasi anche in Toscana,
per cui Marmocchi ed altri furono messi in fortezza, e dopo quattro mesi
rimandati senza processo. Colà Guerrazzi scrisse l’_Assedio di Firenze_;
e quel furore lo fece guardare come un satana, bello e formidabile.

Altri lavoravano a sollecitazione del Walewski, figlio naturale di una
Napoleonide, e la vigilia di San Giovanni sparsero un programma per
chiedere un re costituzionale d’Italia; ma il Governo si accontentò di
ammonire alcuni, alcuni mandar via. Fatto appena credibile fra la civiltà
odierna, a Livorno si stabilì una banda della _fusciacca rossa_ o dei
_bucatori_, che si proponeva di non finir giorno senza sangue umano, e
per le vie coglieva il primo che le desse in mano[3]. Neppure contro
siffatti spiegossi tutto il rigore, e dovendosi mandarne a morte uno
convinto d’assassinio, dal fanciullino di Leopoldo si fece sporgere la
domanda di grazia al padre, che l’esaudì, e ne fu lodato; quasi sia bontà
tollerare il delitto. Per secondare altre dimostrazioni chiassose, il
principe congedò il Ciantelli, odiato ministro di Polizia, e n’ottenne una
serata d’applausi. Così innestavasi la febbre politica al popolo colle
piazzate, arma dei deboli, e delle quali non erasi ancora conosciuta la
spaventevole portata. Leopoldo non mostrò mai paura de’ popoli; creò la
guardia urbana, sebbene poi abbia dovuto abolirla; diminuì d’un quarto
l’imposta prediale; mostrò cuor di padre sì nel cholera che infierì
a Livorno, sì nella terribile inondazione dell’Arno nel 1844, sì nei
tremuoti che il 46 imperversarono fra Orbitello e la montagna di Pistoja.
Seppe schermirsi al pari dalle insinuazioni retrive e dall’onnipotenza
dei ministri, istituendo delle soprantendenze, che a lui stesso recavano
gli affari in privato consiglio, e affidandole a persone reputate.
L’ordinamento municipale conservò, benchè inceppato coll’attribuire le
nomine al principe od al ministro.

Nel 1838 si riformava la procedura, introducendo la pubblicità, la pena
di morte infiggendo sol quando cadano conformi tutti i voti: valenti
giureconsulti ebbero incarico di rivedere le leggi. Colla spesa di
sette milioni si compì il catasto; si aperse l’Appennino colle strade
di Lunigiana, d’Urbania, di val Montone; si cinse Livorno di più vasta
circonvallazione; si mandò Ippolito Rosellini compagno alla spedizione
di Champollion in Egitto (t. XIII, p. 485). Nelle maremme verso il mare
Ligure impigrano i fiumi sovra paesi, fiorentissimi un tempo, ora così
spopolati, che la maremma sanese sovra novecennovanta miglia quadrate
conta appena ventisettemila abitanti all’inverno, quindicimila l’estate.
Il principe pigliò passione ad asciugarle, e nel 1830, al 26 aprile con
gran festa s’introdusse l’Ombrone nel gran canale; sicchè, diffondendosi
le feconde torbide sui bassi piani, ricomparvero campi e biade e popolo;
il limaccioso Prelio, l’isola di Pacuvio furono riabitati, e ripristinata
la via Emilia tra Pisa e Grosseto; e sebbene non fosse ordita nel miglior
modo e non riuscisse ai più sperabili intenti, e dopo consumati sette od
otto milioni che Ferdinando aveva lasciati nel tesoro, se ne buttassero
altri, e contro il costume de’ Lorenesi si incontrasse un debito di
quaranta milioni, che non si volle pareggiare con rincarare le imposte;
il fare di quelle opere accusa o beffa al principe è miserabile uffizio.

Ma se il liberalismo nel secolo passato predicava ai Governi _Lasciate
fare, lasciate passare_, nel nostro vuol che essi facciano tutto, e al
popolo pupillo somministrino gli alimenti, l’educazione, la direzione.
Quando sentiamo tuttodì accusare il Governo toscano che mancasse
d’iniziativa, apparisse negligente piuttosto che dolce, in paese assonnato
piuttosto che tranquillo, ci torna a mente la favola delle rane chiedenti
un re.


Lucca era stata attribuita all’infante di Parma, finchè Maria Luisa
morendo non lasciasse il ducato de’ suoi avi. La Spagna repugnò
lungamente a questo baratto; talchè Maria Luisa, ch’era stata regina
d’Etruria, tardò un pezzo a giungere nel temporario suo dominio, lasciando
intanto i Tedeschi fare e disfare. Venutavi, non sapea limitare la sua
splendidezza alla povertà del paese ed al costituzionale assegno di lire
quattrocentomila: e se colle largizioni si faceva amici, molti avversò
col rintegrare la libertà religiosa, i possessi di manomorta, i frati; e i
disavvezzi se ne adontarono in modo, che parve una fortuna il succederle
del figlio Carlo Lodovico (1824). Anche qui rane chiedenti un re. In
paese dato a temporario usufrutto, nè il principe poteva introdurre buone
istituzioni, nè i popoli prendere affetto a questo signore temporaneo,
nessuno avviare que’ miglioramenti, la cui più necessaria condizione è la
stabilità. Il duca poi, singolare mescolanza di qualità, nè al bene nè
al male perseverava; accolse i profughi del resto d’Italia; e più d’una
volta pensò attuare la costituzione del 1805, ma i vicini non soffrivano
in Italia questa disformità. Intanto egli davasi aria di gran principe, e
in viaggi e dissipazioni logorava l’assegno non solo, ma i beni proprj, e
riduceasi a contrarre debiti, e per pagarli rovistar antiche ragioni dello
Stato, e mercatare la ricca pinacoteca. Favoriti forestieri il menavano,
e principalmente l’inglese Ward, di bassa estrazione e non ordinaria
capacità. Fu sin detto che il duca avesse a Trieste partecipato alla
comunione protestante, e un prelato speditogli da Roma il richiamasse alla
cattolica, senza grand’urto delle sue convinzioni o prima o dopo.


In Piemonte ai senati di Torino, Casale, Genova, Nizza, composti di
membri eletti dal re ed amovibili, competevano i processi degli alti
dignitarj, le contestazioni fra privati e comunità, ciò che concerne
statuti, privilegi, usi; l’applicare le pene, dopo l’istruzione dei
tribunali di provincia; l’appello delle sentenze e la cassazione: dovevano
pure interinare gli editti e le patenti dell’autorità. Ma seguivano
giurisprudenza differente, sicchè in uno condannavasi una causa che
nell’altro avea trionfo. In ciascuna provincia era un tribunale: ai
consolati spettavano gli affari di commercio. I governatori generali
esercitavano l’autorità militare, e da essi dipendevano i comandanti
di piazza. Dappertutto poi un’apparenza guerresca, soldati e divise, e
continuo batter di tamburi, e riviste, esercizj, collegi militari. Arma
odiata erano i carabinieri che esercitavano la Polizia.

Questo nome richiama uno de’ peggiori flagelli moderni, non ispeciale
al Piemonte più che ad altri paesi. Fatta onnipotente, impieghi, onori,
cattedre dipendeano dalle sue informazioni, secrete, irreparabili;
essa stiticava i passaporti; essa le cittadine dolcezze attossicava
col far credere l’uno dell’altro traditore, affinchè, temendoci a
vicenda, non acquistassimo la potenza della concordia; essa indagare
arcani per propalarli a vitupero o a strazio de’ suoi odiati, e non
trovandone, inventarli; essa sorreggere gl’infimi perchè aduggiassero o
perseguitassero il merito sodo e i caratteri intemerati[4]; essa violare
impudentemente il segreto delle lettere; essa tenere in lunga prigionia
per semplici sospetti, poi rilasciare senza tampoco addurre un titolo.
Forse v’era chi, spinto dal bisogno o dal vizio, intercedea di vender
l’anima; altri la vendeano per voluttà, per ambizione, per vendetta:
ma la Polizia riuscì a persuadere che lo spionaggio fosse estesissimo,
oculatissimo, e patrioti ingannatori ripeterono una calunnia, che in fatto
dispensava la Polizia dalla costosa vigilanza; che contaminò il carattere
morale de’ cittadini; e che mostrandosi tanto vili, sarebbe bastata a
eternare le catene, se non fosse destino che costoro riescano a fare
aborrire ma non a salvare i Governi.

Disformità di costituzione amministrativa portava alle provincie la
diversa derivazione; in quali stabilito il censimento, in quali no;
estesissime le une, anguste le altre; queste soggette all’imposizione
prediale, non quelle; alcune conservarono privilegi antichissimi, e fino
diritti regali, e massimamente la Savoja teneva degli ordini antichi,
francese di lingua e d’origine, con poca simpatia per l’Italia. Della
tenuità delle imposte non accorgevasi la popolazione, perchè non avea
provato di peggio: ma sentivansi gravosi i dazj, sconvenienti e mal
ripartite le gabelle, il commercio e l’industria angustiate nelle fasce
tradizionali, ignorata la potenza del credito, indicate come utopie le
grandi opere pubbliche. I maggiori depositarj del potere erano scarsi di
lumi e repugnanti al movimento; lenti e materiali gl’intermedj.

A chi v’andasse dalla Lombardia, faceano urto la severità de’ doganieri,
l’abbondanza di frati, scomparsi di qua dal Ticino, la sofisticheria
della censura civile ed ecclesiastica; soprattutto quell’aristocrazia,
non capace di contrapesare la Corona, eppure orgogliosa, esclusiva,
collegata fra sè e col clero, ingerentesi in ogni affare, perchè aveva
ricchezza, aderenze, impieghi civili e militari, cariche di Corte che
portavano privilegio di fôro. Il medio stato che vuol chiamarsi popolo, la
guardava in sinistro; ne ripeteva alcuni motti forse d’età più lontane;
la bersagliava di epigrammi, raccolti poi dal migliore poeta vernacolo
(Brofferio): ma non confessavasi che quei nobili erano finamente educati,
e redimeano l’alterigia cogli studj e colla cura delle pubbliche cose;
l’educazione militare salvava dalla sprezzante inettitudine de’ lombardi
Sardanapali. Molti poi de’ signori rimaneano esuli, altri in broncio
colla Corte perchè o negletti o perseguitati dopo il 1821, o parenti di
perseguitati.

Tra gl’incensi e le denigrazioni, trapela che Carlalberto secondò il
movimento, a cui universalmente portavano la lunga pace e le attive
intelligenze. Giusto e rispettoso dell’avere altrui, forse unico de’
principi italiani leggeva, e potea così misurare la marea delle opinioni;
conosceva gli scrittori paesani, e legavaseli con posti e decorazioni:
ma non era popolare, nè mostrava famigliarità se non forse coi militari;
alle sue udienze arrivavasi traverso un difficile cerimoniale; ai suoi
circoli ammetteansi solo veri nobili, non gl’impiegati, fosse anche il
segretario generale che ogni mattina gli presentava le carte da firmare.
Sollazzevole e galante in gioventù, si raccolse poi alla devozione e
a tale ascetismo, da non gustare più che uova, pesce, riso (Cibrario).
Bisognoso d’appoggio come chi diffida di sè, rimettevasi ai ministri; e
l’opinione, sempre matta ne’ suoi giudizj, presentava come progressisti
il Villamarina ministro della guerra, il Barbaroux della giustizia, il
Pralormo, poi il Gallina delle finanze; e retrogradi il Lascarena ministro
della Polizia e dell’interno, il La Margherita succeduto al La Tour nel
dirigere gli affari esterni, e che più tardi espose la propria politica
nel _Memorandum_, singolare rivelazione dell’indole e degli intenti di
Carlalberto. Del quale la persona altissima ma scarna e gracile parea
ritrar l’anima, formata ad elevate cose, eppur sempre barcollante fra il
bene e il male, la spinta e la resistenza. L’opposizione de’ ministri
portavalo a continua peritanza di atti, a incompleti provvedimenti,
fra il bisogno di riparare gli errori giovanili, e la paura che dalle
sue concessioni liberali l’Austria non traesse pretesto a sminuirne
l’indipendenza, o il soverchiasse la scossa popolare, quasi dai fatti
del 21 presagisse quelli cui sarebbe trascinato di poi[5]. Introduceva
istituzioni benefiche e provvide, case penitenziarie e d’istruzione, nuove
strade, costosissime in paese di tanti torrenti; col codice civile abolì
gli statuti locali, e ridusse ad unità la giurisdizione; nel criminale,
ricalco del francese, spietato e d’intolleranza religiosa, conservava
esorbitanti pene, prodigalità della capitale, gli asili e le immunità
ecclesiastiche, gli arbitrj de’ giudici, obbligatoria la delazione fino
contro i parenti ne’ reati politici; poi mancava il codice di procedura,
senza cui è inutile la bontà degli altri. Vagheggiava le armi, sicchè de’
settantacinque milioni d’entrata, ventisette consumava nell’esercito:
e credeva averlo poderoso perchè gli offriva parate e rassegne; eppure
nel codice militare costituì la pena delle verghe sino a mille ottocento
colpi. Profittò della stupenda postura di Genova, sebbene questa non
affezionasse alla sua obbedienza: mandò la prima nave italica di guerra
a fare il giro del globo. Migliorò l’Università, ma non vi tollerò
una cattedra di storia moderna: istituì l’Ordine del Merito Civile, ma
bisognava domandarlo e addurne titoli, e i decorati giuravano di non
istampare fuori di Stato nè contro la religione, e poteano presentarsi ai
circoli del re. Concedeva il ritorno a molti profughi, ma non diede mai
l’amnistia. A Pellico permise di pubblicare le _Mie prigioni_, ma non gli
concesse la cattedra d’eloquenza che pur desiderava, e dell’Ordine del
Merito Civile gli assegnò la pensione, non le insegne. Abolì nel codice le
sostituzioni fedecommissarie, e in un editto le permise. Pose un Consiglio
di Stato, ove si discuteano le leggi, i bilanci, i contratti, tutte le
operazioni di finanza, ma affatto dipendente da sè, e delle moltissime
proposte poche furono adottate. Non esisteva una buona statistica,
con un catasto su cui regolare l’equa distribuzione delle gravezze;
e continuavasi l’imposta personale senza riguardo alla condizione del
contribuente.

Gian Carlo Brignole nel 1824 avea cominciato a introdurre ordine e
chiarezza nella finanza, e negl’impiegati l’amore del proprio dovere,
e diceva: — Non lo spendere mi rincresce, ma lo spender male». Dappoi
l’avvocato Gallina in quel ministero fu odiato perchè destro negli
artifizj di cavar denari. Però le finanze trovavansi in un assetto
invidiabile[6]; poi il re custodiva nelle casse un ingente prestito fatto
nel 1831 e nel 42, quando pareva imminente la guerra; modo or riprovato,
ma che gli offrì il mezzo d’intraprendere le strade ferrate senza i
giuochi dell’agiotaggio.

Nell’isola di Sardegna eransi conservati i giudizj come sotto la Spagna,
cioè una regia udienza in Cagliari e il supremo consiglio a Torino, il
quale avea voto consultivo nelle leggi concernenti l’isola, e suprema
autorità sulle decisioni dell’udienza. Antiche istituzioni vi duravano,
i Monti di soccorso, che in ogni città e capoluogo somministravano
grani per riseminare i campi; e il bargellato, milizia urbana per
assicurare le campagne, composta di possidenti sotto un capitano eletto
dal vicerè. Già Carlo Felice v’aveva aperto fra i i due capi una strada
di ducentrentacinque chilometri, colla spesa di quattro milioni, di
suprema efficacia in paese bollente di gelosie: ma mentre i re precedenti
aveano cercato il meglio dell’isola conservandone le forme datele
dagli Spagnuoli e connaturate, Carlalberto la ridusse a nuovo assetto
politico e sociale. Abolì la feudalità, togliendo ai baroni la giustizia
e il diritto a servigi di corpo, e sciolse i feudi della Corona; ai
numerosi cavalieri tolse il privilegio del fôro, e alle chiese gli
asili; introdusse carceri, quartieri, sistema decimale di pesi e misure,
attenzione alle foreste. Abolita la servitù del _pabarile_ che impediva
la piena proprietà, cresceano i fondi chiusi; e sebbene i proprietarj
stessi vi siano negligenti, o i pastori, insofferenti di quell’inusato
ritegno, distruggessero le chiusure, rimetteansi a coltura tre quarti
del terreno ancora sodo, utilizzando quella incomparabile vegetazione e
l’eccellente bestiame, e cresceva la popolazione da trecencinquantadue
a cinquecentoventicinquemila teste. Quelli che scapitavano dal cessare
degli antichi abusi, levarono lamenti; il popolo non credea che la perdita
de’ privilegi fosse compensata dall’eguagliamento dei diritti; tanto
più che non s’erano alle nuove forme acconciati gli ordini antichi, e
il despotismo vicereale e la trapotenza degl’impiegati faceano sentire i
pesi più de’ vantaggi; le carestie stesse sopravvenute parvero colpa del
Governo.

L’ambizione antica nella Casa di Savoja di mettersi a capo della penisola
tutta non mancava a Carlalberto, il quale perciò attirava l’attenzione
e le speranze di molti. Fra gli sbigottimenti politici e religiosi,
quando noi l’esortavamo a rendere il suo paese invidia esempio agli altri
d’Italia col dargli una costituzione, esso ci rispondeva che missione
della sua Casa era il cacciare lo straniero; ma a ciò richiedersi
quell’estremo di sua possa che non può ottenersi se non col dominio
assoluto; vinta la prova nazionale, si profonderebbero le libertà. Gli
anni però passavano, e l’occasione non sorgeva; e i giovani imparavano
a bestemmiarlo nelle canzoni de’ vecchi, tanto più dopo che al suo
primogenito diede sposa una figlia del vicerè della Lombardia.


A Napoli la restaurazione del 1821 avea lasciato odio e contro il Borbone
e contro chi l’avea ricondotto. Ma poichè ad una rivoluzione anche
fallita è dovere o prudenza il dare qualche soddisfazione, si fecero
ordinanze buone, s’introdussero consigli provinciali, e un largo sistema
comunale, con conciliatori, inamovibili i giudici, consulta di Stato,
ove i ministri erano risponsali, ma in faccia al re; si soddisfece alle
nazionali repugnanze coll’ordinare che nessun Napoletano avrebbe impieghi
in Sicilia. Ma, come dopo ogni rivoluzione fallita, l’onnipotenza restava
alla Polizia; meticolosa e inintelligente la censura de’ libri, e alcuni
bruciati, fino un catechismo stampato nel 1816, in cui puzzavano di
libertine le massime de’ santi padri e di Bossuet; il divieto d’introdurre
libri, se non pagando un carlino l’uno; rese impossibili i cambj, e l’arte
tipografica dovette ridursi a contraffazioni, abbandonate alla brutale
speculazione d’incolti libraj, che v’introducono non solo mutilazioni ma
aggiunte, le quali alterano il senso, e mentiscono il sentimento degli
autori[7]. Di tali asprezze imputavansi i Gesuiti; ma quando ad essi fu
tolta la censura e concentrata nella Polizia, molto di peggio si provò.

Se ne esacerbavano gli animi; le sêtte interzavano le fila: ne seguivano
processi da una parte, dall’altra quella depravazione del senso morale
che nobilita l’assassinio col titolo di politico; e vuolsi che nel 22
ottocento persone perissero tra sul patibolo come liberali, e vittime di
questi; nove teste di settarj rimasero molti anni esposte a San Giorgio di
Palermo. S’aggiunsero tremuoti e scoscendimenti e sbocchi di torrenti[8].
Alla pubblica indignazione si diè soddisfacimento rinviando il Canosa e
surrogandogli il cavaliere Luigi Medici, uomo di rara abilità e bersaglio
di tutti i partiti; ma se minore la fierezza, non fu diverso il modo. Il
codice abolì il marchio e le confische; alla pena di morte pose quattro
gradazioni, secondo che il reo mandasi al patibolo vestito di giallo o di
nero, calzato o scalzo; stabiliva l’eguaglianza di tutti in faccia alla
legge, ma nel 26 s’introdusse una giurisdizione privilegiata pei delitti
politici.

Ferdinando, vissuto tra due secoli, de’ quali non intese l’immensa
distanza, morì d’apoplessia (1825 gennajo) dopo sessantacinque anni
di un regno, perduto tre volte con vergogna, e altrettante ricuperato
con sangue. Gli successe Francesco, che aveva favorito la costituzione
come vicario del regno nel 1820, e protestato contro l’occupazione
straniera, la quale diminuì al suo venire, e presto cessò, surrogandovi
quattro reggimenti svizzeri, capitolati per trent’anni, e che
costavano cinquecensessantamila ducati all’anno, oltre un milione e
settecentonovantaduemila di primo stabilimento. Dal palazzo usciva un
tristo fiatore; gravosa l’ingerenza de’ favoriti[9]; di sfacciatissima
corruzione erano stromento un Viglia e una Desimoni camerieri, de’ cui
baratti il re celiava, e — Fate buoni affari ma presto, chè io ho poco da
campare».

E in fatto fra breve succedeva nel paterno seggio Ferdinando II (1830
9 9bre), fratello della duchessa di Berry e di Cristina di Spagna,
rinomate per vigorìa di volontà e complicazione d’avventure pubbliche
e personali. Non avendo colpe da mascherare nè vendette da esercitare,
egli cominciò coll’amnistia, e mostrossi voglioso di dominare assoluto,
ma di attuare il ben pubblico e di «rimediare le piaghe». Senza finezze
diplomatiche, si tenne indipendente dall’Austria, fino a non volere con
essa trattato di commercio nè di proprietà libraria. Scarso d’educazione,
ma scevro delle trivialità avite, col pagare chi lodasse il Governo
mostrava credere all’efficacia di quelli che pur derideva col titolo
di _pennajuoli_. Conservò la Corte in una costumatezza esemplare,
sbrattatala dagl’ingordi favoriti del padre; amò monsignor Oliveri suo
maestro, Giuseppe Caprioli prete, il Cocle arcivescovo di Patrasso:
fatti perciò capri emissarj quando venne di moda l’esecrare, com’era
a principio il lodare. Oltre le pensioni improvvidamente o turpemente
assegnate da’ suoi predecessori, gl’impieghi erano così esorbitatamente
retribuiti, che i ministri toccavano dodicimila ducati, e quello degli
affari esteri altrettanti di soprappiù per la rappresentanza. Il re li
gravò di tasse progressive, che giungevano fino al cinquanta per cento;
egli stesso rinunziò a trecensessantamila ducati che suo padre prevaleva
per eventuali beneficenze; disserrò gran parte delle caccie regie e
le costose uccelliere; condonò o alleggerì le pene per colpe di Stato;
dava udienza a tutti; percorse il Regno modestamente, alloggiando ne’
conventi, sedendo a tavola coi magistrati paesani, ballando con popolane,
e dicendo motti e lusinghe. Scoppiato il cholera, accorse da un viaggio,
e si mescolò colla plebe, e ne mangiò il pane per assicurarla contro i
pretesi avvelenatori. Altre sventure pubbliche diedero esercizio alla sua
pietà: nel 30 i tremuoti disastrarono la Calabria Citeriore, facendovi
ducensessantatre morti e centottantadue feriti: l’eruzione dell’Etna nel
43 è memorabile perchè la lava invase anche terreni coltivati, si buttò in
un bacino d’acqua, che a quel tocco sciogliendosi in vapore, tempestò di
lapilli l’intorno, uccidendo settantacinque persone, ferendone moltissime.

Ferdinando rinnovò l’esercito collocandovi molti uffiziali rimossi; e
parlava coi soldati, esercitavali, partecipava alle fatiche; ma i due
reggimenti di Siciliani trovò tanto indomabili che li dovette sciogliere.
V’aggiunse la guardia urbana, corpo civico, allestito a servire di
guarnigione qualora l’esercito si muovesse. Ebbe eccellenti fonderie di
cannoni e un corpo topografico, che associava le sue operazioni con quelle
del rinomato osservatorio.

L’amministrazione civile concentravasi nel ministero dell’interno,
che abbracciava istruzione, agricoltura, commercio, beneficenza,
lavori, e l’elezione agli uffizj municipali e ai consigli distrettuali
e provinciali. Era affidato a Nicola Santangelo, astuto ingegno e
degl’ingegni fautore, che faceva fare un dizionario della lingua, un
giornale del Regno, ma che sapeva come al suo posto possa lucrarsi.
Il Faldella ministro sulla guerra, D’Andrea sulle finanze[10], Intonti
sulla Polizia erano persone valenti, come il presidente Pietracatella;
in periodica adunanza discutevano gli affari più rilevanti, che poi
ciascuno mandava a compimento; indi nel consiglio di Stato preseduto dal
re, decidevansi quelli trattati da essi. Nel 42 furono aggiunti ministri
senza portafoglio, fra cui Giustino Fortunato, già attizzatore politico e
allora indocilito all’obbedire, e l’insigne giurista Nicola Niccolini: ma
invece di nuovi lumi, ne derivarono sconcordie e diminuzione dell’autorità
ministeriale.

La lista civile non era prefinita, ma vi colavano gli avanzi delle varie
casse; talchè per gratificarsi il re si facevano anche sconvenevoli
sparagni. L’istruzione era affidata ai Gesuiti, ma l’Università conservò
il fiore e l’indipendenza, tanto più da che fu lasciata facoltà a chiunque
d’aprire scuole, le quali davano campo agli studiosi di mostrarsi, o
scuotevano l’inerzia dei vecchi professori col confronto di giovani, che
il re e il pubblico conoscevano: e veramente, oltre gli antiquarj che ivi
sono in casa loro, benemeriti cultori vi ebbero la filosofia e le scienze
civili. La procedura pubblica produsse avvocati eloquenti, desiderosi di
brillare in più nobile ringhiera. La giunta suprema pe’ reati di Stato era
bestemmiata, eppure quando fu abolita nel 46, venne rimpianta ricordando
quai valent’uomini la componevano, e come avesse saputo assolvere.

I titoli di nobiltà screditavansi ogni giorno, e sin dal 1821 fu permesso
vendere i possessi feudali di Sicilia, gravati dalle _soggiogazioni_; il
che suddivise le proprietà, agevolò i passaggi, immigliorì i fondi. Quelli
di manomorta furono pareggiati; quelli di regio patronato, assegnati per
benefizio ecclesiastico, fu imposto si dessero in enfiteusi, a quote non
maggiori di quattro salme; provvedimento del medioevo, che rinnovavasi
nell’intento di ristabilire la popolazione e la minuta possidenza.
Toglievansi le servitù agrarie e la promiscuità dei possessi; provvedeasi
all’immenso Tavoliere di Puglia, ai fondi comunitativi, ad estirpare i
litigj feudali; e il Governo e le Commissioni provinciali studiavano a
introdurre metodi e prodotti nuovi.

Gli Ordini religiosi, ripristinati da Ferdinando I appena tornò, e dotati
con beni demaniali, erano un terzo di quei che prima della Rivoluzione;
il clero, non isproporzionato ai bisogni, perdè lo spirito ostile a
Roma, che nel secolo passato lo facea ligio al potere. I pescatori del
corallo, tanto numerosi che fu per essi compilato il Codice Corallino[11],
vanno diminuendo; ma crescono le navi mercantili e l’esercito. I solfi,
oro della Sicilia, erano privativa regia fino al 1808, quando il re
non riservossi che di permettere le nuove cave. D’allora ne crebbe la
produzione, e insieme i prezzi, attesa la ricerca di Francia e Inghilterra
per fabbricare la soda: nel 1832 se ne asportarono seicento quintali, nel
34 seicensettantasei, presto novecentomila: onde allettati i capitalisti,
la produzione superò lo spaccio. Il Governo allora (1838) stipulò colla
società francese Taix e Aycard, che questa ne comprasse seicentomila
quintali a due ducati o due e mezzo; per gli altri trecentomila darebbe un
tenue compenso ai produttori; essa potrebbe rivenderlo a quattro ducati
o quattro e mezzo; e all’erario pagherebbe quattrocentomila ducati,
che doveano andare in isconto del _consumo rurale_, dazio gravitante
sull’agricoltura.

Da questa privativa sentiansi pregiudicati i proprietarj delle solfare; e
l’Inghilterra, invocando l’accordo del 1816 che la eguagliava ai meglio
privilegiati, chiese trecentomila sterline per danni derivatine a’ suoi
negozianti. Due anni si disputò, e il re, sempre geloso dell’indipendenza,
volle mostrarla anche in faccia a quella gran Potenza, e rispettare i
contratti, anzichè avventurarsi a quella libertà di commercio, che avrebbe
prevenuto le collisioni; al tono minaccioso rispose con dignità, sentire
dalla parte sua la giustizia e Dio, e fidare più nella forza del diritto
che nel diritto della forza. Ma ecco la flotta inglese chiudere i porti
di Sicilia, affrontar Napoli, prendere varj legni sino nel porto: il
conflitto pare inevitabile, quando la Francia interpostasi compone la
differenza, abolendo il contratto col Taix, gravando l’uscita dei solfi
di venti carlini al quintale, obbligando il Regno a dare compensi e ai
negozianti francesi e agl’inglesi[12]. Viltà, colpe, mangerie della Corte
e dei ministri, furono le grida di que’ che pretendono dai caffè governare
il mondo: il re conobbe la necessità di accrescere la marina, e proteggere
l’esposta capitale; e procacciossi la flotta più robusta che veleggiasse
il Mediterraneo.

Il debito pubblico si alleggerì con annue estrazioni; si spensero anzi
tempo due milioni e mezzo di sterline imprestati nel 1824 a Londra; la
banca dello Stato prosperò, fino a salirne le azioni al centrenta. Nel 44
l’annua rendita dei dominj di qua del Faro ammontava a ventisette milioni
e mezzo di ducati; e il debito pubblico eccedeva appena il capitale di
ottantasei milioni, cioè poco più d’un triennio di rendita. Nel 31 si
fondò la Banca fruttuaria, di seicentomila ducati in diecimila azioni; poi
altre pel prosperamento dell’industria e del commercio, crebbero di numero
e di valore; sebbene per mala amministrazione decadessero. Nel Regno si
fece il primo saggio di battelli a vapore (1832); il primo ponte di ferro
sul Garigliano, al costo di settantacinquemila ducati; la prima strada
ferrata italiana (1839) da Napoli a Castellamare; la prima illuminazione
pubblica a gas. Si migliorò il porto di Brindisi; si moltiplicarono
trattati colle Potenze; si alleggerirono le dogane; si favorì la marina
mercantile con privilegi, talchè, mentre nel 1825 non v’avea di qua
dal Faro che 4800 legni, nel 39 se ne trovarono 6803, e 2371 siciliani,
portanti 21,3198 tonnellate, con 52,514 marinaj. Sulle strade si fecero
almeno decreti, e ben trentasette ne vennero ordinate nella sola Sicilia
per lo sviluppo di novecentosedici miglia.

La beneficenza pubblica ha nella sola Napoli la rendita di tre milioni di
ducati; l’Albergo dei Poveri basta a quattromila persone: ma istituzioni
stupende, come questa, come l’Annunziata, deterioravano nello sperpero
e nella malversazione; nè fu applicato il bell’ordine che, istituendo
dappertutto depositi di mendicità, voleva vi fosse annesso un orto
modello.

Incamminato il popolo al meglio, il pittoresco dei costumi irregolari
dava luogo al civile, e appena il curioso vi trovava que’ lazzaroni,
quelle nudità, quei briganti, di cui si farciscono ancora i viaggi
romanzeschi e le descrizioni per udita. Il vulgo è tuttavia chiassoso ma
non insubordinato, gajo ma non dissoluto: gli altri vizj era a sperare
si correggerebbero mercè dell’istruzione e de’ pubblici lavori. Un paese
di sei milioni d’abitanti, e capace di cento milioni di tasse, a che
non poteva aspirare? Ma i Napoletani si ricordavano che Ferdinando I,
ritornando nel 1815, aveva promesso una costituzione, l’avea giurata nel
20, poi mentita: i Siciliani non sapevano dimenticare la Carta del 1812
e i privilegi antichissimi; spiaceva quel corpo di Svizzeri, stipendiato
contro i sudditi; la bassa e invereconda corruzione che dagli infimi
impiegati giungeva ai sommi; l’esorbitante potere della Polizia, il cui
ministro disponeva di diecimila gendarmi, fior dell’esercito, sicchè
poteva fin meditare il cambiamento della monarchia. Così fece Intonti,
che blandì i liberali, e tentò persuadere il re a dare la costituzione,
esagerandogli la possa delle società segrete; ma un bel giorno eccolo
destituito, surrogandogli Del Carretto, la cui robustezza ridusse il
Governo a Polizia. I gendarmi potevano arrestare, perquisire, accusare,
testimoniare, ottenendo intera fede: fin la pena delle verghe fu
ristabilita, ed applicavasi immediatamente. Eppure le masnade non erano
scomparse, e col Talarico, che per dodici anni padroneggiò la Sila, il
Governo dovè calare a patti, e fattagli grazia, gli assegnò per ricovero
l’isola di Lipari, e diciotto ducati il mese a lui, dodici a’ suoi
compagni. Peggio estendevansi le società segrete, delle quali avrem molto
a dire.


Nelle _Prigioni_ di Silvio Pellico tutti i subalterni sono dipinti come
benevoli, fino il carceriere, fin Bolza: le ineffabili severità vengono
comandate dall’alto; il medico non può concedere gli occhiali, se non
ne arrivi la licenza da Vienna; si toglie ai carcerati ogni libro per
ordini di Vienna; per amputare la gamba a Maroncelli vuolsi che Vienna il
consenta; l’imperatore tiensi sul tavolino la pianta dello Spielberg, e
ordina quel che deve soffrire il numero quindici, il numero venti, unica
designazione di quegli esseri umani. Alla fine Pellico con un compagno
escono di carcere, e passando da Vienna, vengono condotti ad asolare
nel parco del Belvedere: ma di botto son fatti ritirare perchè arriva
l’imperatore, agli occhi del quale non deve mostrarsi la loro macilenza.
Apparizione degna de’ maggiori tragici!

Il sentimento che spira di qui potea dirsi comune in Italia, ove d’ogni
male imputavasi l’Austria. E chi non volesse i fischi del vulgo ricco e
dotto, forza era ne dicesse ogni vitupero; chiamasse vile il suo esercito,
i capi suoi non vogliosi che di opprimere, il Governo non intento che a
smungere il paese, e immolare gl’interessi ai transalpini. Chi chiama
stolto e assurdo un Governo, mostra la propria inintelligenza, non lo
spiega; e il generale che vuol espugnare una rôcca, non la deride come di
facile attacco, bensì la studia a fondo. Noi non conosciamo Governi che di
proposito vogliano il male; e non credemmo avere diritto di dire ai popoli
_Siate savj_ se non avessimo osato dire ai principi _Siate giusti_; nè ci
ascriveremmo a coraggio il farne censure quando ci fosse mancato quello
di confessarne i meriti, e fra gli altri questo, che, scrivendo in paese
austriaco, potemmo dire il vero impunemente, mentre quel vero da altri
tirannelli era condannato intollerantemente, e giudicato vigliaccheria o
paura, fosse pur detto da chi lo osò in faccia al giudizio statario[13].

Tutt’altro che odiati erano nella Lombardia austriaca Maria Teresa,
Giuseppe II, Leopoldo II, quando ai popoli non regalavasi la libertà
politica, ma si lasciavano le libertà naturali; i migliori ingegni si
offrivano sostegni lodatori, difensori del trono; e lo coadjuvavano a
concentrare in sè le prerogative, dapprima sparpagliate fra autorità
paesane o ministeriali. La rivoluzione ruppe quell’accordo, e lasciò da
una parte l’assolutezza amministrativa, dall’altra repugnanza a leggi
fatte per civiltà e per interessi che non sono i nostri, e appoggiate con
mezzi diversi. Il disprezzo poi è così insoffribile, che per sottrarsene
si cerca fin il terrore; e reciproco disprezzo nasce facilmente tra il
forte che vede gl’impotenti conati, e il debole che le memorie antiche e
nuove fan dispettoso del vedersi non sentito, non conosciuto, in balìa
d’istituzioni e di persone estranee ai sentimenti, alle simpatie, alle
sue compiacenze.

L’Austria, potenza conservatrice eminentemente, sin da quando resistette
alla Riforma fu osteggiata dai pensatori, ch’essa del resto non accarezza.
Ambiziosa senza rumore, progredisce colla forza del secolo, ma senza
confessarlo; segue le abitudini; vuole il silenzio fin sulle cose
lodevoli; e avea ridotto il Governo ad amministrare e constatar i fatti
colle statistiche, mentre per iniziare al nuovo voglionsi genio, bontà,
sapienza. Francesco I, tenacissimo all’idea del dovere, qual esso lo
concepiva, secondo questa oppugnò le innovazioni; buono doveva essere
ciò che buono era stato altre volte; i popoli doveano persuadersi che
l’imperatore volesse il loro bene, e lasciarlo fare. In conseguenza ebbe
riguardo alle costituzioni eterogenee de’ varj suoi popoli; e per quanto
vagheggiasse l’accentramento amministrativo all’uso di Giuseppe II, non
pretese una uniformità, che non cresce la forza bensì il disgusto.

Come l’Ungheria dunque e la Boemia, così v’ebbe un regno Lombardo-Veneto
suddiviso in due Governi. Dell’imperatore obbligo unico il venire a
farsi coronare; a lui il nominare a tutti gl’impieghi regj e confermare i
comunali, l’imporre ed erogare il tributo senza sindacato, l’amministrare
il Monte dello Stato; a lui la pubblica istruzione, la censura, la tutela
delle istituzioni benefiche, l’approvare società, il concedere privilegi;
e in conseguenza i decreti arrivavano o tardi per la lontananza e per le
interminabili trafile, o improvvidi per imperfetta informazione. Quando
la parola d’ordine dei re alleati era la franchigia de’ popoli, come
rappresentante del paese fu costituita una Congregazione Centrale, eletta
popolarmente, nominata e stipendiata dal sovrano, convocata a beneplacito
del governatore per dare voto consultivo sopra le materie che a volontà
esso proponeva al loro esame.

Restava in piedi il mirabile sistema comunale, derivato dagli antichi
municipj e sopravvissuto alle rovine rivoluzionarie, e felicemente
combinato col censimento, talchè bastò a mantenere la vita e favorire
il prosperamento del pinguissimo paese. L’amministrazione, ridotta a
mera burocrazia, camminava regolare e robusta, come in paese da gran
tempo avvezzato: pronta e incorrotta la giustizia, qualvolta non vi
si complicassero titoli di Stato, a norma d’un codice compilato colle
intenzioni moderne, e in molte parti migliori del napoleonico, più mite
nelle pene, più espanso nell’eguaglianza; ma escludendo ogni pubblicità,
metteva l’idea di arbitrio invece delle garanzie che la società è in
diritto di chiedere intorno ai membri che le sono strappati.

Un’eletta d’ingegni acquistava a Milano il titolo di Atene italica: che
se il Governo nè li favoriva nè tampoco li conosceva, la stampa v’era
meno inceppata che altrove, sebbene contro censori o ignoranti o maligni
bisognasse spesso reclamare a Vienna, donde le decisioni venivano assai
meno ignobili, ma così lente da equivalere a un divieto. Pure in questo
regno si produceano e ristampavano opere, nel resto d’Italia proibite;
e attivissimo correva il commercio di libri forestieri: i congressi
scientifici, spauracchio altrove, qui furono accolti ben tre volte:
l’istruzione vi era animata, o almeno diffuse le scuole fin ne’ minimi
villaggi; se quelle di mutuo insegnamento si proscrissero perchè servite
di velo ai Carbonari, si ammisero gli asili dell’infanzia quand’erano
tutt’altrove proibiti; e il loro introduttore, mal visto a Torino,
otteneva onori e decorazioni in Lombardia.

Esclusa quell’educazione de’ claustrali, che si diceva l’arsenico degli
altri paesi, i Gesuiti, anche quando qui presero stanza, furono sottomessi
alle autorità, nè esercitarono ingerenza a fronte di un clero illuminato
e di vescovi assennati. Non frati o pochissimi, non eccezione di fôri,
non triche di sacristia: il partito religioso era rappresentato nell’idea
da eminenti ingegni, nelle azioni da una società (_Pia Unione_) che,
fra le beffe e la denigrazione, compiva una beneficenza stupendamente
grandiosa. Le prime società per strade ferrate si formarono qua sin dal
1837, e non fu colpa del Governo se si svamparono in risse e municipali
battibugli. Qua fiorentissima la cassa di risparmio; qua imprese sociali
per le diligenze, per assicurazioni contro gl’incendj, per filature
del cotone e del lino. Molteplici e ben sistemate le strade, e poetiche
quelle lungo le delizie del lago di Como e traverso alle sublimità dello
Stelvio e dello Spulga: con dispendio assai maggiore le comunità compivano
una rete di comunicazioni: si profondea per regolare i laghi e i fiumi
che l’improvvido diveltamento delle foreste rende più sempre gonfi e
ruinosi[14].

A Venezia dal 1816 al 41 in sole opere stradali interne si spese meglio
di sei milioni. Dopo lunghissimo discutere, e sentiti i primi ingegneri
e il Fossombroni, nel 1845 fu approvata una sistemazione di tutti i fiumi
che immettono nella laguna, e che singolarmente dopo il 1839 aveano recato
indicibili guasti; e all’opera ben avanzata servirono di compimento la
gran diga di Malamocco e l’ampliazione dei Murazzi, spendendovi oltre sei
milioni. Vero è che Venezia soccombeva alla concorrenza di Trieste. Questa
era vissuta di vita stentata sotto i patriarchi d’Aquileja o gl’imperatori
di Germania, fin quando Carlo VI conobbe quanto essa potrebbe complire
al commercio della Germania, ad eclissare Venezia. Pertanto vi fece
edificare, chiamò coloni, istituì una compagnia che avrebbe dovuto emulare
la inglese delle Indie Orientali: ma questa fallì, e le cure di lui e
di Maria Teresa poco profittarono alla città. Nè vi giovò Napoleone,
che, incapricciato di emulare l’Inghilterra sul mare, pensava renderla
capitale d’un nuovo regno Illirico, nel quale sarebbero state comprese
la Dalmazia, la Bosnia, l’Erzegovina, il mar Nero. Dove essi fallirono
riuscì la società del Lloyd, che fondata dapprima per le assicurazioni
marittime, assunse poi alcun’impresa di battelli a vapore: ma stava
per liquidare quando vi capitò un giovane, tutta attività e voglia di
riuscire, e messosi in quegli uffizj arrivò alla direzione, e vi diede
impulso efficacissimo[15]. Così Trieste crebbe da cinque a ottantamila
abitanti; moltiplicano gli affari, gli edifizj; e compita che sia la
strada ferrata verso Vienna, offrirà la linea più breve fra la Germania
e le Indie. Le prosperità di Trieste non sono anch’esse italiane?

Lo straniero che fosse calato in Lombardia, credendo, sopra i giornali e
le romanze, vedervi braccia scarnate nel mietere solo a vantaggio dello
stranio sire, e sbandito il riso, e signor de’ cuori il sospetto, stupiva
a trovare su quest’opima campagna i coltivatori agiati e conscj della
propria dignità, i braccianti o non più miserabili che altrove, o solo
per colpa dell’indigena avidità; Milano nuotare nella pinguedine e nel
lusso; i suoi negozianti pareggiare in destrezza i più famosi, in credito
i più ricchi; fra’ principali commerci figurarvi quello de’ teatranti,
e agli spettacoli d’un teatro de’ primi in Europa affollarsi un mondo
elegantissimo, come ai suoi corsi uno sfarzo di carrozze, che sì elegante
non hanno Vienna e Parigi.

Il Lombardo-Veneto avrebbe potuto farsi esempio di savia amministrazione
agli altri d’Italia, se si fossero conciliate le inevitabili sofferenze
d’una provincia colla dignità di chi v’è sottomesso, lasciando svilupparsi
quell’attività delle corporazioni, dei Comuni, delle province che dispensa
l’amministrazione centrale dall’intervento impacciante e dalle cure
minute, e non sottrae nè ricchezza al fisco dei dominanti, nè ai dominanti
la compiacenza di sentirsi cittadini.

Qui accentravasi ogni cosa in Vienna; e non di colpo, siccome dopo una
conquista, ma con meditata lentezza. Il sistema di pesi, misure, monete
alla francese, conservato fra i nostri vicini, fu surrogato dal tedesco.
L’unità dell’impero costringeva a regolar noi colle leggi stesse del
Galliziano e del Croato, fin a mandare regolamenti sulle acque a un paese
che inventò l’irrigazione artifiziale. V’avea supremi magistrati, ignari
dell’indole e delle consuetudini: era tolta l’investigazione nazionale
sul viver pubblico, l’esporre il meglio e implorarlo: silenzio su ogni
atto. La postura e la conformazione fan questo paese più atto a trafficare
cogli esteri che coll’impero; laonde per impedirlo occorreva un esercito
di doganieri, spreco dell’erario e depravamento della popolazione, fra
cui viveano oziando e trafficando di connivenza. L’attività comunale
era impacciata dai commissarj: alla Congregazione Centrale mancava voce
per esporre domande, o fermezza per volerne la risposta: fin la Chiesa
era tenuta servile, mediante il sistema giuseppino; sopra informazione
della Polizia nominavansi i parroci e i vescovi, ai quali era impedito di
comunicare con Roma, e fin di scrivere al proprio gregge se non col visto
d’un impiegato provinciale.

Francesco I a Lubiana avea detto, — Voglio sudditi obbedienti, non
cittadini illuminati», e su tale programma le scuole riduceansi a
moltiplicare i mediocri e mortificare ogni superiorità; l’istruzione
popolare limitavasi a quel che basti per tramutare gl’istinti
insubordinati in una rassegnata obbedienza; la classica non metteasi in
armonia colla situazione di ciascuno; e coll’educazione dissipata eppur
letteraria, moltiplicavansi giovani leggeri, eppure dogmatici, vanitosi
delle piccole cose, puntigliosi della parola, smaniati del rumore;
giornalisti non letterati, impiegati non pensatori. Da Vienna mandavansi
libri di testo, qualche volta i professori, questi eleggeansi per
concorso, dove, astenendosi i migliori, prevalevano novizj o ciarlatani,
non mai superiori alle cattedre.

Le tante parti eccellenti poi restavano corrotte dalla Polizia, arbitra
di tutto, e che spegneva il senso più importante ne’ popoli, quel della
legalità, la persuasione più necessaria ai governanti, quella che operino
per indeclinabile giustizia. Una Polizia aulica, una vicereale, una del
Comune, una del Governo, una della presidenza del Governo, spiavansi
a vicenda[16]. A chi dal lungo esiglio o dalle inquisitorie prigioni
tornasse in società, esse dicevano — Avete sofferto abbastanza. Che vi
cale delle cose pubbliche? divertitevi, chè il Governo nol vi contende:
siete ricchi, siate allegri». E ne’ divertimenti si cerca tuffare le
memorie; secondavasi la tendenza di sviluppare in grassume quel che
avrebbe dovuto fortificare in muscoli; poi accennando al viver morbido,
agli scialosi equipaggi, alla prospera agricoltura, diceano all’Europa:
— Vedete come la Lombardia, nostra serva, è beata». Ma l’uomo non è
destinato solo a impinguare e godere, e falliscono ai loro doveri quelli
che, invece di prepararlo a un avvenire di sempre maggiore ragionevolezza
e dignità, lo comprimono in modo che non gli rimanga se non l’alternativa
di un codardo silenzio nella servitù o di collere maniache nella libertà.
Dal non potersi conseguire onori e impieghi se non per consenso della
Polizia, derivava che da una parte non si stimasse se non chi ne aveva,
dall’altra ne rifuggissero i generosi: i migliori ingegni trovavansi
perseguitati colle prigioni o nei giornali, e cercavasi coprirli di
sprezzo per non dover temerli, repudiandosi così quel tesoro di potenza
morale che viene dal concorso delle forze attive, istruite, morali.

Erasi avuto un elettissimo esercito italiano, ed ora i coscritti
s’incorporavano ne’ reggimenti tedeschi, sotto uffiziali tedeschi; laonde
se ne sottraeva chiunque sentisse la dignità nazionale e bastasse a
comprare un supplente; e mentre con ciò assecondavasi l’infingardaggine
indigena, le si dava la maschera di patriotismo, indicando come traditori
que’ pochi civili che si volgessero all’armi o alla diplomazia. Con questo
voler apposta adulterare la misura dei diritti e dei doveri, ed applicare
nomi virtuosi ad atti meramente negativi, pervertivasi il senso morale;
mentre il rimanere estranei alle sorti del paese deprimeva i caratteri,
intorpidiva le abitudini, gettava nelle esagerazioni ed utopie proprie di
chi non vede in pratica le cose, nè sa fin dove possa arrivare legalmente.
Per conseguenza tutti cianciullavano di politica e governo, ma senza
cognizione de’ fatti veri, nè discernimento per valutarli; sicchè qual
conto poteva tenersi d’un’opposizione limitantesi a disapprovare tutto,
tutto abbattere, nulla asserire o edificare?

Epperò questo Governo, che disponeva di terrori, lusinghe, impieghi,
onorificenze, decorazioni, non trovò un lodatore, non dico di cuore, ma
neppur d’ingegno, talchè dovette prezzolarne di tali, la cui ignoranza era
sopportata solo per la viltà con cui la prostituivano. In tutta Italia
poi restava il concetto che l’Austria sola avesse impedito o traviato
le rivoluzioni, laonde era avuta come universale nemica della libertà da
molti che questa identificano con quelle.

Morto Francesco I, suo figlio Ferdinando, il giorno stesso che montava al
trono (1835 2 marzo), con un viglietto al vicerè ordinava si cessassero
i processi politici, si rilasciassero tutti i condannati: amnistia la
più ampia, la più incondizionata, che si legga nelle storie, se il
vicerè e gli esecutori non l’avessero tergiversata e resa parziale
ed illusoria[17]. Il buon imperatore non ne sapea nulla giacchè non
comunicava coi sudditi; ma avutone sentore, disse: — Andrò io a Milano»,
e venne a farsi coronare. O fosse il lenocinio delle feste; o stanchezza
del fremere, o naturale bontà, o riconoscenza di così insolito perdono,
diè fuori dappertutto una prurigine di balli, di parate, di adulazioni in
prosa e in versi, in musica e in quadri; gran liberali camuffaronsi da
guardie nobili e da ciambellani; v’ebbe decorazioni e dignità auliche,
e un ripullulamento d’aristocrazia. Per isgravare se stessi, costoro
sparsero vilipendio e sospetti su quei che anche allora tennero la mano e
la penna intemerata, e che, rinserratisi nella propria coscienza, da Dio
invocarono e col proprio senno maturavano alla patria fortune migliori,
pur deplorando che non le meritassimo.

Parliamo a disteso della Lombardia: agli altri paesi però conviene, e
forse più, quel che della Lombardia dicemmo. Quei principi, persuasi
dell’onnipotenza materiale dell’Austria, agli ordini e all’ispirazioni
di questa si rassegnavano più o meno, e non che farsi iniziatori con
esempj che mortificassero lo straniero, più di uno colla propria rendeva
desiderabile l’amministrazione di questo.

Intanto che piagnucolavasi, nella lunga pace erasi moltiplicata la
ricchezza nazionale, ed estesi que’ comodi e godimenti, la cui ricerca è
carattere della nostra età: il commercio s’ampliò, agevolato da leghe e
trattati; e visto che la libertà n’è il migliore sussidiario, il sistema
protettore si modificò: guadagnaronsi immensi terreni alla coltura, e
se ne trassero maggiori frutti dacchè alla trascuranza delle manimorte
fu surrogata l’oculatezza di piccoli possidenti, e si svincolarono dai
fedecommessi, dalle servitù, dai livelli. Ormai gli sbalzi nel valore
dei commestibili scomparvero, e se prima fin a quindici e venti volte
dell’ordinario crescea nelle carestie, parve sommo nel 1812 l’elevarsi
al triplo, proporzione che dappoi fu sempre assai minore. Il credito
si trovò protetto dalla pubblicità delle ipoteche, dalle banche, dalle
semplificate procedure, ed esteso anche a vantaggio de’ poveri colle casse
di risparmio. L’industria vantaggiò dello spirito d’associazione e delle
scoperte della fisica e della chimica, per mettere a carico delle forze
gratuite della natura molta parte della fatica umana, perfezionare metodi
e macchine, far che il lavoro versasse e la concorrenza distribuisse
una sempre maggior copia di utilità nel corpo sociale: e sebbene non
eguagliasse i forestieri nè per tenuità di prezzi, nè per eleganza e
finezza, cresceva il ragguaglio tra il lavoro e le soddisfazioni che con
esso il povero può procacciarsi. S’introdussero battelli a vapore[18],
strade ferrate, telegrafi, spirito d’associazione, studj concordi, unione
di capitali introdussero vastissime imprese per le strade ferrate, pel
gas, per le assicurazioni, per gli scavi.

Tale spirito si applicò pure alla beneficenza, istituendo scuole
per intenti particolari, e asili d’infanzia, e mutuo insegnamento, e
presepj pei lattanti, e società di vicendevole soccorso, e miglioramenti
alle carceri, e ricoveri per gli scarcerati; ammirati da taluni con
quell’entusiasmo che non soffre la critica nè la ricerca del meglio, da
altri bersagliati con l’atrabile che tutto denigra, o coll’intolleranza
che condanna il bene per vaghezza del meglio. Ripudiavano francamente,
anzi deridevano i vantati progressi e una carità destituita dello spirito
avvivatore del cattolicismo le _Memorie religiose_ di Modena e il _Diario_
di Roma seriamente, bizzarramente la _Voce della verità_, dove i nomi più
simpatici erano malmenati dal Galvani, dallo Schedoni, dal Calvedoni; e
più strepitose riuscirono le _Illusioni della pubblica carità_ di Monaldo
Leopardi, e l’_Esperienza ai re della terra_ del principe di Canosa.

Altri pensarono giovare al prossimo pe’ soli meriti di Cristo e per
diffondere la verità e la santificazione cristiana. Le istituzioni pie,
ricchezza de’ secoli andati, ebbero molto a soffrire nella rivoluzione,
nelle guerre, nella soppressione dei corpi religiosi; onde vi si riparò
con lasciti, e ai bisogni nuovi andavasi incontro con nuove istituzioni.
A Milano i fratelli Felice e Gaetano De Vecchi barnabiti fin dal 1802
raccoglievano una Pia Unione di nobili, che andavano all’ospedale
confortando gl’infermi, e preparavano vitto, vestito, educazione,
ricreamento ai poveri nelle case o in ricoveri: col nome di Società del
biscottino fu derisa dal bel mondo e benedetta dai poveri, pei quali
ha consolazioni d’ogni maniera, educazione conveniente all’indole e al
bisogno di ciascuno; impedire lo svio delle pericolanti, richiamar le
pericolate, assistere i vergognosi indigenti, tenere scuole festive e
notturne a comodo di poveri, ricreazioni e oratorj pei tempi festivi.

La marchesa Maddalena Frescobaldi Capponi e il padre Idelfonso istituirono
a Firenze un ricovero per le traviate: a Imola la Pia Unione di San
Terenzio diffonde quotidiane elemosine, come a Bologna la Pia Opera de’
vergognosi: ad Ancona l’oratoriano Luigi Baroni esercitò nelle più variate
guise l’eroismo della carità, come il Manini in Cremona. In Venezia e
Verona Maria Maddalena di Canossa (1774-1835) fondava nel 1819 le Figlie
di Carità, dirette a perfezionarsi nell’amor di Dio e del prossimo; i
conti Cavanis le Scuole di Carità; Nicolò Mazza verso il 1830 ricoveri di
fanciulle, educandole sino ai ventiquattro anni conforme al loro stato, ed
altri pei garzoni, bene studiandone l’inclinazione, menandoli alle scuole,
collocandoli in varj stabilimenti, e tutto per carità. Nicola Olivieri
inanimato dalla Immacolata, nel 1838 comincia a raccogliere qualche
moretta e la fa educare, poi va in Egitto e in Barbaria, e segue tuttora
a riscattarne, d’accordo colle Suore della Carità, per poi collocarle in
conventi. Brescia deve alla Rosa molte caritatevoli istituzioni: Modena
la scuola dei sordi-muti di D. Severino Forchiani: a Bergamo i conti
Passi introducono la Pia Opera e le Suore di santa Dorotea, per formar le
fanciulle alla pietà e ai casalinghi disimpegni; mentre il prete Botta
toglieva in cura i fanciulli sviati: un suo allievo, Marchiondi laico
somasco, portò quell’istituzione a Milano, e grossolano ma di alto e
retto cuore, ricusando sottoporsi alle burocratiche formalità, ve la fece
fiorire.

A Torino Giulia Colbert di Barólo, la patrocinatrice di Pellico, istituì
le Sorelle di sant’Anna per educare povere figlie, e ispirarvi modi
civili e la contentezza del proprio stato. La Congregazione di san Paolo
distribuiva centrentamila franchi l’anno in doti, pensioni, sussidj a
poveri nascosti. Il canonico Cottolengo nella Piccola Casa della divina
Provvidenza preparava soccorsi a tutte le miserie, e giganteschi benefizj
effettuò con mezzi tenuissimi. Rosa Govona avea fondato le Rosine che
devono «mangiar del lavoro di loro mani», e che si estesero ad Asti,
Chieri, Mondovì, Fossano e altrove. La contessa Tornielli Bellini a Novara
lasciava in testamento molte istituzioni caritatevoli, e scuole gratuite
d’arti e mestieri. L’abate Febriani prese cura speciale dei sordimuti. La
Misericordia di Casale dispensa quarantacinquemila franchi in pane, vesti,
doti, baliatici, sussidj a domiciliati: quella di Savona, oltre il resto,
dà ogni giorno il pranzo a quattrocencinquanta poveri.

Chi non conoscesse in qual modo si forma quell’assurdità, che intitolasi
l’opinione pubblica, stupirebbe dell’avversione che professavasi contro
questi benefici, e come fossero scherniti nei tempi quieti, percossi nei
tempestosi.

Perocchè, a fianco alla potenza governativa era cresciuta quest’altra
dell’opinione, surrogatasi alla fede assoluta in un pensiero, in un
sentimento, e che avversava tutto ciò che mostrasse fermezza, fossero
le credenze fosse l’autorità. Quella classe delle persone di cultura,
indipendente, che in ciascun paese la imponeva nel secolo passato, sotto
il regno d’Italia era stata diretta dagli impiegati, potenza nuova; dappoi
se la sottoposero i liberali; sottentrarono quindi i giornalisti, finchè
venne alla piazza.

E le rivoluzioni, state militari nel 1815 e 1821, divennero giornalistiche
ed avvocatesche; e dove riuscirono, posero in dominio e ne’ ministeri
gli scrittori; dove fallirono, li resero cospicui per le persecuzioni e
gli esigli. Mentre era cresciuta la smania del leggere, in alcuni paesi
non correva che la gazzetta uffiziale, cioè a dire applausi o silenzio;
e questo ancor più che quello, giacchè molti Governi preferivano non
si parlasse di loro, nè in bene nè in male, come l’Austria, mentre
Napoli facea pomposamente enunciare i suoi atti negli Annali civili
e in altri fogli governativi. Ma o per tolleranza o alla macchia
trapelavano giornali forestieri, alle cui questioni si prendeva parte
incompetente, come avviene degli affari altrui, e per lo più passiva,
accettando l’opinione del giornale senza mezzo o volontà di discuterla,
e nell’opposizione riponendo la luce dell’intelletto, la generosità
del pensare. Anche il teatro, rimaneva o in balia de’ ballerini, ovvero
tradotto o almeno foggiato sul francese. Esposte le moltitudini a questi
mareggi dell’opinione, l’uomo abdicava alla padronanza degli atti, dei
destini, de’ pensamenti proprj: la classe colta, divenuta moderata meno
per buon senso od esperienza che per timidezza e amor di pace, dovea
cedere il campo ai ciarlatani. Ora questi non potevano diffondere che
un’opinione non solo versatile, ma sconnessa: fino chi pensa, pensava
poco in una Babele, dove niuna associazione di forze intellettuali,
ma solo antagonismo ed isolamento: invece di partiti v’erano gruppi,
quasi equipollenti di numero e di valore, gli uni chiassosi, gli altri
operativi, i più disputanti in panciolle.

Alcuni, credendo inutile parlare di libertà finchè manchino pane e
educazione, appigliavansi di preferenza all’economia; mentre i più
dalla politica aspettavano tutto, secondo l’andazzo francese. In ciò
pure alcuni consideravano come una sciagura la rivoluzione di Francia
e l’irrompere suo in Italia, perchè col balocco delle libertà politiche
ci aveva defraudati delle libertà naturali; inoculato pensamenti, odj,
amori esotici; compressi i semi indigeni e storici, per avventurare
alle sovversioni d’un progresso sistematico e umanitario; doversi
ripigliare l’opera del secolo precedente, pur applicandovi le conquiste
del nostro, cercando la libertà non i nomi, progredendo a passi non a
sbalzi, cumulando le forze invece di abbatterle, traendo i principi ad
attuare il bene anzichè nimicarli, e nell’intento nazionale confederando
i varj Stati per opporne la lega allo straniero, qualunque egli sia.
Ve n’avea tra questi che aborrivano dalla Francia, come irreposata e
infida sommovitrice; altri distinguevano questa nazione dalle vertigini
della sua tribuna e de’ suoi giornali: altri analizzavano la prosperità
inglese, i Parlamenti, la legale ampliazione della parola morta, il
progresso ragionato e lento ma continuo ed indefettibile; pochi si
lasciavano allettare allo smisurato incremento degli Stati Uniti e alla
formola dell’avvenire. E poichè l’eccesso degli appetiti materiali
porta a lusso e vanità irrefrenate, e queste alla bestemmia, ultimo
strillo dell’intelligenza spirante del secolo, per amore dell’Italia
insultavano all’Italia dichiarandola inetta al meglio: il Botta e
l’Angeloni la infarinavano d’improperj, abburattati da frà Cavalca;
Berchet pindareggiava contro Carlalberto e contro gl’italiani che
dimenticavano la patria e lo Spielberg per istordirsi fra baci e
bottiglie; Niccolini, gridando «Italia vile, non ha di suo neppure i
vizj», imprecava che le nubi stendessero un velo densissimo su questa
terra del vile dolore; Leopardi, dopo compianta l’Italia coll’amarezza di
Dante, nei _Paralipomeni_ beffava i desiderj e i tentativi di riscossa,
con una ironia che il Gioberti diceva squarciare il cuore, eppur essere
giustissima[19]: il qual Gioberti asseriva che la nazione italiana non
potrà mai recuperare il suo antico primato morale e civile sul mondo
«finchè l’uomo italiano dei nostri tempi non sarà divenuto pari a quello
dell’antica Italia e dell’antica Roma... Certo noi, generazione matura
e cadente, col piè sulla fossa, indarno ci penseremmo, perchè l’osso è
duro, il callo è fatto, e ancorchè riuscissimo a rimpastarci, poco e corto
saria il frutto». Solo allorchè qualche straniero ripeteva altrettanto,
o lady Morgan coi colloquj sottratti a questo nostro circolo giudicava
baldanzosamente gli uomini e le cose nostre, o Lamartine ci chiamava terra
dei morti[20], o Stendhal ci sentenziava degni delle nostre sofferenze,
il patriotismo si risentiva, numerava i nostri vanti, ci inebriava col
«misero orgoglio d’un tempo che fu».

Gente più seria esploravano a fondo le piaghe mortali d’Italia; se
diceasi ch’era corrotta da’ suoi signori, rispondea che non si corrompe
chi corrompere non vuole lasciarsi; che del meglio non eramo degni
perchè al giogo non sapevamo opporre quella fermezza che si frange ma
non si piega; perchè sulle catene celiavamo, contentandoci di burlare
quei ch’era necessario esaminare; perchè i beati d’ozj e vivande
stordivansi nei godimenti, col pretesto de’ codardi, l’impossibilità
del migliorare; e diguazzando nelle morbidezze, sviavansi da’ severi
proponimenti di chi, perduta la patria, mantiene cuore per amarla, voce
per ammonirla, senno per dirigerla; perchè secondavamo la Polizia col
mettere e spine e coltelli fra seni che volevano ravvicinarsi; perchè
coloro che all’emancipazione ci inuzzolivano, non sapeano pascerci che
d’odio e denigrazioni, ed anzichè convergere la repulsione contro i
veri nemici, sparpagliavanla su nostri fratelli; perchè abjette invidie,
adipose gelosie, orgoglianti vendette ci faceano sprezzare e deprimere
que’ migliori, i quali avrebbero potuto concentrare l’opposizione ed
onorarla, farsi rappresentanti del paese; se non altro, circondare la
nazionale decadenza di dignità; quella dignità ch’è necessaria in tutti,
indispensabile in una gente che voglia rigenerarsi.

Ultima miseria d’un paese, quando, perduta la fiducia in sè e ne’ suoi,
dalla sventura aizzato a discordie, mancante di amici organizzati e di
nemici rispettosi, esercita il piccolo resto di libertà a scoraggiare:
miseria più deplorabile quanto maggior bisogno di gloria letteraria e
morale ha una nazione, a cui ogni altra via è chiusa d’attestare alle
venture che la presente generazione non era vile. A chi svelasse tali
piaghe non era perdonato dal bugiardo patriotismo, nè fu perdonato a noi;
ma per acquistare diritto di dire il vero agli avversarj, bisogna non
temiamo di dirlo a noi stessi.

E venendo ai particolari, additavano gl’impiegati corrotti e inabili negli
Stati pontifizj e siciliani, duri e servili in Piemonte, sbadiglianti
in Toscana, dappertutto irrazionalmente obbedienti; avvocati ciancieri,
vagheggianti costituzione parlamentare per solo esercizio di eloquenza;
nobili, in Lombardia ricchi, gaudenti, oppositori; in Piemonte ligj,
influenti, studiosi; incolti e lascivi a Napoli; avversi ai preti nelle
Romagne, quanto propensi a Roma; il clero alto lussureggiante a Roma, o
persecutore in Sardegna, dappertutto ombroso delle libertà; il basso,
scarso d’educazione e di virtù, o giansenista o papale per tradizione
non per meditazione; i pochi studiosi, scissi tra Liguori e Perrone,
tra Rosmini e Gioberti, tutti lagnantisi de’ superiori ecclesiastici e
secolari; i frati scaduti di zelo e di scienza; i Gesuiti odiati perchè
zelo e scienza ostentavano; i negozianti uggiati delle gravezze e degli
impacci, ma aborrenti da sovversioni che ne crescerebbero all’industria
loro materiale.

Il dover sottrarsi a una vessazione dava l’abitudine di sprezzare o
eludere le leggi anche le più opportune, il che è uno degli abiti più
funesti. Scarsi gli eserciti, e più lo spirito militare, non meno che
quello delle grandi imprese; rare le idee pratiche, atteso che non
s’agitassero nella pubblicità; nullo il sentimento della legalità, e di
quella solidarietà per cui si considera come proprio il torto fatto a
uno qualunque; non rispetto per l’operosità, nè tolleranza pe’ dissensi;
non dignità per comporli e discuterli; non intelligenza fra gl’ingegni,
e ciascuno disamato, se non anche calpesto, nel brano di terra che gli è
patria, sconosciuto negli altri.

Il popolo non legge: il vulgo giudica dai giornali e sulle pancacce,
rimpiange il Governo passato, querelasi degli aggravj, della coscrizione,
dello scarso soldo, del tenue commercio, della molesta Polizia, ma
composto e tranquillo in Piemonte; in Lombardia beffardo, odiante i
Tedeschi e rifuggente dall’arme; più cheto nel Veneto, donde si cernivano
eccellenti soldati della marina e granatieri; acqua cheta e bella
creanza in Toscana; nelle Romagne manesco, brigante, cospiratore; in
Roma ligio alla lautezza clericale, che gli alimenta l’infingardaggine
e l’orgoglio del nome romano; in Napoli spavaldo, superstizioso, senza
dignità nè costanza; nelle provincie sofferente, astuto, coraggioso,
anneghittito; in Sicilia rozzo e fiero, potente agli odj come ai
sacrifizj, irreconciliabile col dominio, e disposto a qualunque rischio
per abbatterlo.

De’ letterati la più parte avversi al Governo, e da questo sospettati,
perseguiti o, dove meglio, dimenticati; quella età che preferisce
all’ordine la libertà, l’entusiasmo alla ragione, imbevevasi d’idee
sovversive, e fremeva d’un giogo di cui invece però d’analizzarne la forza
e la natura per romperlo, si piaceva aggravarselo colle intempestive
reluttanze e cogli impotenti conati, testimonio d’estrema debolezza,
che sfiancano chi li commette, e rendono gagliardo e sprezzante chi
senza fatica li compresse. I giornalisti, genuflessi alla mediocrità,
idolatri del negativo e della sovranità del nulla, chiunque si elevasse
sorvegliavano coll’ansietà della diffidenza; petulanti perchè servili,
faceano aborrire la franchezza col separarla dalla dignità, col deprimere
ogni elevazione morale all’insolenza faccendiera e alla fatuità elegante
davano baldanza d’oltraggiare gli alti pensatori e i caratteri intrepidi:
e questi appunto erano più calunniati perchè sprezzatori della calunnia;
non vedendoli tali quai si volevano, erano rappresentati quali non erano,
o denunziati disertori, titolo che i partiti infliggono a chiunque non
li serve a loro modo. Così di generosi ditirambi mantellavasi un abjetto
egoismo, e col dispetto del gaudente contro il pensatore, di tutta la
loro enfiata vanità aggravavano l’uomo che vale, impacciavano l’uomo che
vuole; e fiacchi essi, tali dichiaravano gli altri: non ascoltati, faceano
ogni opera perchè ascoltato non fosse nessuno; e a maggior baldanza
calunniavano chi alla calunnia men bada perchè se ne sente superiore.

Tali dissensi nimicavano fra loro gli stessi liberali; e più dove poteano
manifestarsi, cioè fra i migrati, che pretendeano dirigere da Parigi
e da Londra le fortune della patria, e intanto non s’accordavano sui
modi; troppo spesso simili a due corpi, che, egualmente elettrizzati,
si respingono. Tutti convenivano nell’odiare l’Austria, sentendo sempre
nell’aria l’occasione, e persuadendosi che non potesse venire se non di
fuori. Intanto la declamazione era l’arma che più usavano, e il torsi fede
od efficacia col mentire e coll’esagerare, coll’amplificare in verso o
in prosa i patimenti degli Italiani, facendo supporre la disperazione in
quelli che adagiavansi nell’incremento della prosperità materiale.

Molti migrati onore e compassione acquistarono a sè e alla causa loro
coll’intelligenza, col carattere, coll’industria. Luigi Filippo, salito
al trono per una rivoluzione, adoprò un ingegno raro e una ferrea
volontà a frenare ogni nuovo prorompere; pure non la potea rinnegare, nè
disdire coloro, la cui colpa consisteva nell’aver fallito in tentativi,
in cui erano riusciti i suoi. Perciò quei profughi v’ebbero cortesie,
onori, promesse da principio, poi freddezze, poi dimenticanza: alcuni
non ottennero il pane se non arrolandosi nella legione straniera, altri
lasciandosi relegare in qualche città; chi sentiva dignitosamente pensò
a guadagnare colle proprie mani; chi potea, visse come si vive a Parigi,
onorato a misura delle spese, e qualche volta anche dell’ingegno. Altri
de’ migrati erano i patentati impresarj di rivoluzioni; o quei che, stando
male in paese, amavano cambiare plaga; o che aspiravano alla gloriola
d’essere del numero de’ perseguitati. Tra questi prevaleva l’opinione
giacobina della potenza del numero, che è ancora la forza, ed esserne
impulsi efficacissimi le società segrete; agli incorreggibili Governi
doversi surrogare la sovranità popolare, non solo come fonte, ma anche
nell’applicazione del potere, la democrazia riducendo a repubblica, e
questa nemica ai nobili, ai preti, abbracciante tutta l’Italia in unità;
qualunque mezzo esser buono a un elevato fine: e il fine era sbarbicare
quanto esisteva, per costruire poi non si sapea che, ma quel che
l’accidente porterebbe.

Il bisogno d’azione, d’essere qualcosa, di valere sui destini del
paese, di aver amici qua e fuori, di rivolgere contro Governi esecrati
alcun che di più reale che non le grida; la devozione a idee, la cui
generosità parea giustificare gli spedienti anche iniqui; la spinta in
alcuni irresistibile di protestare in nome d’un intero popolo contro
un popolo intero, e alimentare fino col proprio sangue la speranza
dissotto all’oppressura de’ forti e alla vigliaccheria de’ gaudenti,
fomentavano le società secrete, dove l’immaginazione e l’attività
compiacevansi di misteri, carteggi, processi, condanne, assassinj, e
dell’arrabattarsi presso chi si credeva potente. I Francesi accettavano
le costoro proposizioni come innocui balocchi e temi opportuni di retorica
parlamentare e giornalistica; e i generali Foy, La Fayette, Lamarque, gli
avvocati Mauguin, Perrier, fors’anche Luigi Filippo prima d’essere re,
li alimentavano a buone parole, che gli esposero poi ad essere chiamati
traditori quando venne di tradurle in fatti.

Il legare la propria libertà a un archimandrito che può imporre tutto,
persino il delitto; l’obbligarsi con giuramento a fatti di cui si
conoscono solo in parte i fini e nulla i mezzi, non è libertà: nè credo
nelle cospirazioni s’invigorisca il carattere o si acquisti la pratica,
come farebbesi con qualche atto di coraggio civile, coll’istruire il
pubblico, educarsi negli impieghi, nella diplomazia, nella guerra. Nè
tampoco s’imparava ad affrontare i pericoli, a nessuno esponendosi i capi
che tramavano lontano, e che, col titolo d’alimentare la fiamma, esponeano
de’ subalterni, dei quali soli è composto il lungo martirologio.

La società della Giovane Italia, obbligata ad abbandonare la Svizzera dopo
la deploranda spedizione di Savoja, a Berna fece unione colla Giovane
Germania e la Giovane Polonia, tre forze che doveano coadiuvarsi nel
diffondere le dottrine repubblicane e attuarle; e al regolare istromento
(1834 15 aprile) si firmarono gl’italiani Mazzini, Melgari, G. Ruffini, C.
Bianco, Rosales. Giovani arditissimi, da loro aggregati, scorreano Italia,
tenendo intelligenze, carteggi, conciliaboli, senza che se n’avvedessero
le migliaja di spie che diceansi pagate dai Governi. Ma la smania d’essere
capo portava moltissime suddivisioni e nomi fra i cospiratori stessi:
la Riforma della Giovane Italia, i Federali, la Società di Louvel,
gl’Imitatori di Sand (uccisori del duca di Berry e di Kotzebue), i seguaci
di Alfieri, della Luce, del Silenzio... Però il concetto generale essendo
l’insurrezione, sostenuta colla guerra delle squadriglie, non si potè
stare contenti di scrittori e di guanti gialli, e bisognò associarsi
braccia e cuori risoluti, facchini, macellaj, contrabbandieri, briganti,
i quali a vicenda imparavano il cospirare e i segretumi, e pretendeano
anch’essi aver ponderanza nella riforma dello Stato, perchè aveano membra
torose e anima leonina. Perciò la società, ramificata per tutto, travagliò
viepiù i paesi dove abbondano costoro, e principalmente le Romagne e
le Calabrie. Che se per le prime s’avea una ragione nella debolezza
e inettitudine del Governo, nella dissoluzione che vi è cagionata ad
ogni vacanza, e nelle alte condizioni di un principato elettivo, mal si
saprebbe trovarne il perchè nel Napoletano, con una Polizia vigorosa e
un re bene armato, che conveniva non inimicare alla causa italica, della
quale era a prevedere sino allora che potrebb’essere o robusto appoggio
o decisivo avversario.

Eppure nel Regno può dirsi non passasse anno senza qualche nuova sommossa,
e sempre per ordirle l’avventatezza, per mezzi la guerra di bande, per
risultato incarcerazioni e condanne. Tre fratelli Cappozzoli, ricchi del
Vallo, dopo la suddetta rivoluzione si ressero fra i monti di Calabria
fino al 1828. Allora un canonico De Luca, persuaso che i re, i quali colla
battaglia di Navarino aveano assicurato l’indipendenza della Grecia, non
isfavorirebbero la redenzione d’Italia, cominciò in Bosco a predicare
contro il dominio assoluto piantato colle bajonette straniere, e proclamò
la costituzione francese, come áncora della salute. Il vulgo applaudisce,
il grido si diffonde, i Cappozzoli fan gruppo di gente volonterosa; ma
Del Carretto le sgomina, appicca il De Luca e un venti de’ principali,
e diroccato Bosco, vi erige una colonna infame. I Cappozzoli ch’erano
fuggiti in Corsica, tornarono più tardi, e côlti con altri invano
difendentisi, vennero mandati al supplizio. Nel 1833 i fratelli Rossaroll,
spinti da privati rancori, subornarono a Napoli molti militari, e scoperti
ebbero grazia. Poco poi Peluso e Nerico tentavano sorprendere Del Carretto
e indurre il re alla costituzione, ma n’ebbero ergastoli ed esiglio.

Un De Mattheis intendente di Cosenza, ottenuto ampj poteri, costrinse
taluno a confessare il reato, tre mandò a morte, dieci ai ferri: ma le
grida universali fecero rivedere il processo, e il De Mattheis, trovato
bugiardo e calunniatore, fu condannato. Anche la Sicilia lasciossi solcare
dalle società secrete che prima vi erano ignote: nel 1823 sollevossi
un Abela, nel 25 altri a Palermo, sempre annunziando lo sterminio de’
forestieri, e per forestieri intendendo i Napoletani. Dicemmo i guaj
cagionati dal cholera. Di nuovo nel 1840, allorchè Mazzini cominciò a
stampare a Londra l’_Apostolato popolare_, insorsero bande nella Calabria
e negli Abruzzi, dove si assassinò il colonnello Taufano.

La Romagna bollì sempre di sêtte; a Viterbo si formò una congiura, altre
altrove. Nel 1840, pel centenario dell’attentato dell’Alberoni contro
la repubblica di San Marino, molti v’accorsero da Pesaro, da Rimini,
da Sant’Angelo, sfoggiando in piazzate e discorsi contro le monarchie
e i papi. L’anno appresso si rannodarono le trame, false nuove tuttodì
spargendo sul conto d’altri paesi, e che dalle Calabrie riferivano essere
debole e ignaro il re, la milizia guadagnata, scontentissimo il popolo,
sicchè tosto proromperebbe l’insurrezione, indomabile fra quei monti.
Di fatto, in occasione che le truppe stavano occupate alla festa di Piè
di Grotta, un Ciampella tentò di sollevare Aquila; alcuni soldati furono
uccisi, ma gli altri rannodatisi rimisero l’ordine, poi fatti processi a
cinquanta individui, tre passarono per le armi, altri ai ferri.

Nella Spagna, che mai non aveva trovato assetto, ferveva allora la guerra
paesana, e alcuni capibanda di colà, i quali asserivano le maggiori loro
imprese essersi cominciate con nulla meglio che sette uomini, furono
assoldati per mettersi a capo delle nostre. Vennero in fatto a Livorno, ma
trovando già finita la resistenza, ripartirono. Pure alcuni vollero far
tentativi su Bologna, e subito repressi, buttaronsi fra gli Appennini,
guidati da un medico Muratori; e considerati per contrabbandieri,
disonoravano l’insurrezione e giustificavano i rigori della Polizia. Non
mancò chi vi si aggregasse, massime dacchè Ribotti, venuto di Spagna,
tentò sistemare le bande: ma gli Svizzeri le dissiparono, e militarmente
furono mandati al patibolo sette popolani; altri alla galera; i capi
ricoverarono a Malta, in Francia, in Toscana, fra cui alcuni di buon conto
e il medico Farini, fattosi poi storico de’ fatti recenti.

Altre Commissioni severe sotto il generale Casella purgarono le
Calabrie; ma le file si estendeano e quivi e nelle Romagne, rendendo a
chi sacro, a chi infame il nome di brigante. Nel 1844 parve imminente
uno scoppio generale; Ricciardi dovea dalla Corsica venire sopra Roma;
i rifuggiti nel cantone Ticino invadere Piemonte e Lombardia; Fabrizj
colla legione straniera d’Algeri assaltar la Sicilia; altri da Malta e
Corfù sbarcare ai diversi porti. Un Partesotti, confidente d’ogni loro
mistero e cooperatore, ne teneva informata l’Austria; e dopo che fu
morto e onorato di patriotiche esequie e di echeggianti epicedj, gli si
trovò l’infame carteggio. In altre parziali sollevazioni il figlio del
filosofo Galuppi, capitano de’ gendarmi, restò vittima degli insorgenti,
i quali poi, invidiando questo martire alla causa dell’ordine, lo dissero
loro partigiano. Le procedure susseguite tennero alcun tempo in carcere
Bozzelli filosofo ed estetico, Carlo Poerio, il marchese Dragonetti,
Mariano d’Ayala, Matteo De Agustinis, già nominati allora, e più da
poi. Maggior compianto eccitò il caso de’ fratelli Attilio ed Emilio
Bandiera, e di Domenico Moro uffiziali nella marina austriaca, che
legatisi con Mazzini e disertati, a Corfù aspettavano le sollevazioni
promesse per accorrervi; e vedendo tutto fallire, e trovandosi mancanti
fino del vivere, persuasi che un sagrifizio fosse necessario per iscuotere
l’addormentata Italia, con un pugno d’amici e sprovvisti di tutto
sbarcarono in Calabria (1844 25 luglio): non entusiasmo, ma trovarono
freddezza e peggio[21]; sicchè côlti furono passati per le armi: caso
istantaneo, isolato, eppure d’efficacissima impressione.

Le commissioni raddoppiarono d’attività, e molti dovettero migrare.
Nei rimasti incancreniva lo sdegno; che sfogavasi in assassinj, i quali
davano ragione a nuove procedure, e queste attiravano fama di tiranni ai
prelati o ai ministri che avevano dovuto procedere, o di eroi a quelli che
s’erano opposti: riputazioni capricciose, perchè determinate dall’opinione
personale di chi avesse l’impudenza di asserire.

Sparagni, brigadiere dei carabinieri pontifizj, è assassinato (1846)
in Ravenna; e poco dopo Adolf, soldato svizzero, che solo avea visto
l’assassino: subito si erge un processo che involge settanta individui,
e la commissione riconosce che fin dal 1843 esiste una società,
mescolata di liberali e di briganti, concordi all’intento di concutere
lo Stato, adoprando intanto gli assassini; oltre le confessioni anche
stragiudiziali, provarlo le numerose e armate bande di contrabbandieri,
insultanti alla forza pubblica, il concorrersi alle esequie di liberali,
l’applaudire agli assassinj politici, il denaro profuso ai bisognosi. Su
questi indizj e su prove specifiche fondavasi la condanna di molti, e fino
di trentasei nella sola Ravenna, de’ quali il papa mitigò le pene. Poi il
Governo pontifizio fu fatto conscio come le diverse società stringeansi
ad una centrale di Bologna, e colse l’avvocato Galletti e Mattioli loro
cassieri e corrispondenti, e le carte a loro apprese diedero titolo a
nuove condanne.

Bologna appunto formicolava di società segrete, le une rivolte a favorire
il dominio tedesco, le altre a repubblica; alcuni moderati voleano
solo dal Governo opportuni provvedimenti; e legame fra i popolani e
i signori formavano antichi militari, come il conte Livio Zambeccari.
V’era chi sognava che il re di Napoli aspirasse a tutt’Italia; v’era chi
se la diceva coi Buonaparte, o tenea l’occhio al duca di Leuchtenberg,
nipote del re di Baviera, genero dell’imperatore di Russia, figlio
dell’antico vicerè d’Italia, e che come tale aveva immensi possessi
nelle Marche, tolti da Napoleone ai conventi per farne appanaggio al
suo figlio adottivo[22]. Questo partito avea denari e bei nomi, e non
sperava l’appoggio del czar, tanto più che questo potente, avendo tolto
a perseguitare i Cattolici del suo Regno, si trovò a fronte la maestà del
papa, che fece sentire una voce dignitosamente severa, la quale trovò eco
in tutto il mondo, e valse ben più che idrofobe declamazioni.

Chi non osava afferrar le armi e sparger sangue, spargeva odj, calunnie,
rancori. A differenza dei vecchi Frammassoni e Carbonari, le società
segrete odierne si valsero molto della stampa; e da Londra, da Parigi,
da Lugano, da Losanna diffondevansi scritti, che, parlando della libertà
colla stizza di carcerati, e predicando l’intervento diretto del senso
comune nelle cause politiche, tenevansi per lo più nel vago, nell’utopia,
nel sentimentale, quand’era mestieri di principj, di notizie, d’azione.
Quel mistero e il solletico della proibizione faceanli ricercati quanto
un romanzo satanico: eppure esercitarono efficienza scarsissima, nonchè
sugli eventi, neppure sullo spirito pubblico, non arrivando al popolo,
ma solo a quella classe per non avere la fatica del pensare, e fra cui
interpolava un guizzo galvanico che mal simulava la vita[23]. Non avendo
cognizione immediata degli avvenimenti italiani, stavano a detta di
un corrispondente, che parlava intrepido perchè nascosto e fuori del
pericolo d’essere contraddetto; e così esaltava sè ed i suoi, deprimeva
i personali avversarj, scaraventava le più strane baje: e i lettori,
invece di ripudiarlo come bugiardo, diceano, — È meglio informato che noi
concittadini». V’avea degli zoili semplici, di cui i furbi si valeano per
eludere l’influenza degli scrittori onesti: ve ne avea di malvagi, che
per la stessa loro ribalderia imponevano al pubblico, il quale in segreto
n’ha schifo, eppure in palese li loda ed approva. La sciagurata abitudine
del censurare, del detrarre ad ogni atto dei proprj cittadini, oltre
amareggiare le vite più benefiche, rapiva al popolo quella confidenza
nei migliori, la quale li avrebbe trasformati in potenze tutelari se si
fossero sentiti appoggiati dalla patria; mentre invece scassinati, derisi
per la loro superiorità, costretti a guardarsi le spalle dagli amici,
vedevano dai proprj concittadini tolta all’amico comune la verecondia
del perseguitarli, tolta a se stessi, se non la costanza, l’efficacia del
resistere.

Così, invece di studiare ed ammannire i rimedj possibili, e il più
efficace di tutti, la concordia, sbuffavasi contro i nostri che per
poco si elevassero dalla folla, o ambissero le simpatie nazionali, o
sdegnassero per naturale orgoglio di giustificarsi in piazza, o, troppo
sinceri per esser mobili, dissentissero da loro in qualche punto solo;
o che, invece di precipitarsi a capofitto, preferissero giungere per
anfratti legali là dov’essi volevano di sbalzo. Gelosie di paese,
di condizione, d’ingegno, concittadini livori, adipose insofferenze
appiattavansi dietro quella siepe onde avventare accuse reciproche,
contraddittorie, irreparabili, e così abjette, che sariasi dovuto
conchiuderne, essere cattivi i tiranni, ma pessimi noi, e perciò o
immeritevoli di libertà, o incapaci d’acquistarla. Qual meraviglia se
alcuni cadeano in quegli scoramenti che al genio detraggono l’autorità,
se non lo splendore? se dalla calunnia o dalla paura dell’impopolarità
erano spinti all’esagerazione quei buoni che non sanno rassegnarsi
all’ingiustizia dei fratelli? E intanto formavasi un’opinione fittizia,
da cui martiri ed apoteosi allorchè i pochi encomj e i prodigati vituperj
si tradussero in urli di piazza e fino in coltelli.

Questa denigrazione sistematica è micidiale della libertà e delle buone
istituzioni, perocchè non crea se non la lotta, logora le forze degli uni
nell’abbattere gli altri cittadini, men cerca elevar sè che deprimere
gli altri; riduce i buoni non a volere dignità, elevatezza, gloria, ma
a farsi perdonare la scienza e la virtù e dimenticare; e così lasciare
ai nemici il monopolio dell’amministrazione e delle reputazioni. Volesse
anche scusarsi come arma da guerra, o come infamia de’ corrispondenti,
quali ebbero il coraggio di discredersi quando i fatti le smentirono? e
rettamente Mazzini pronunziava, che prima causa dei disastri del 1848 era
«l’aver dimenticato che le nazioni non si rigenerano colla menzogna»[24].

Ai nemici dava eccellente salvaguardia la nostra discordia calunniatrice,
e non poteano risparmiarsi di mantenere spie quando i nostri ci
persuadevano che, ogni tre fratelli, spia era l’uno, vigliacco, traditore.
Talmente delira l’opinione quando, dismesso l’uso di ragionare, i
sentimenti si accettano dalla moda, dall’abitudine, dal caffè, dai
giornali. Chiesti in che consistesse il liberalismo, i più avrebbero
risposto «nell’odiare lo straniero». Ma oltrechè una negazione non basta
a determinare l’attività, essa sviava dall’educarsi nella libertà vera,
lasciando contenti della beffa, abituando a vilipendere ed illudere la
legge, credendo generoso del pari chiunque facesse opposizione al Governo,
fosse col subire venti anni di ferri o col fischiare ad una ballerina.

Tanto maggior lode meritano coloro che, in tempi così funesti alla virtù
delle anime, alla forza de’ caratteri, all’elevazione degl’ingegni, e
mentre un patriotismo cieco, addormentandosi nelle memorie e adulando se
stesso, adontavasi della verità, ovvero l’impazienza del giogo oppressivo
rendeva insofferenti anche dei poteri tutelari, lavoravano solinghi,
sconosciuti, oltraggiati anche, ma perseveranti. Singolarmente negli
ultimi anni, quando altrove maturavano i frutti della pace nelle grandi
imprese di commercio, nelle leghe doganali, nelle esposizioni d’industria,
qui l’attività si spiegò in ricerche storiche ed esercitazioni letterarie
e statistiche, dove, sotto fatti antichi, adombravansi gli odierni; si
chiamava l’attenzione sui problemi politici e sociali; ripeteansi in
cento toni il nome d’Italia e le sue speranze; e la censura poteva bene
cancellare parole e frasi, non lo spirito dei libri cautamente robusti.
Persino dal rancidume delle accademie si trasse pretesto di ravvicinare
gl’Italiani, dare le abitudini della parola, dell’ordine, della legalità.
Tali furono i Congressi scientifici, cominciati a Pisa nel 1839, poi a
Torino, Firenze, Padova, Napoli, Lucca, Milano, Genova, Venezia. Dapprima
ristretti nelle scienze naturali, presto vi si innestarono anche gli
studj economici e morali: nel Congresso di Firenze si propose la riforma
carceraria, nesso della medicina colla scienza penale: in quel di Genova
le traccie della grande strada ferrata[25], che implicava la quistione
nazionale. E se erano campo ai ciarlatani, i quali di qualunque idea
si fanno un trespolo, se facevano scambiare l’uomo di rumore per uomo
di talento, già pareva assai il vedere Comizj italiani accumulare il
frutto delle solitarie ricerche, ed applaudirvisi ad altri che a mime e
cantatrici.

Eppure fin quelli che la libertà esaminavano come cosa sacra e ne
ponderavano gli elementi, dissentivano fra loro; e vulgarmente venivano
classati sotto le antiche bandiere di Guelfi e Ghibellini. I Ghibellini,
consoni nel bene a Dante, a Machiavelli, ai Giacobini, vedevano la
necessità di Governi robusti, qualunque si fossero; e rammentando come
Napoleone avesse colla spada troncato tanti modi italici, sicchè stette da
lui il farci nazione, avrebbe voluto qualcuno de’ principi d’Italia metter
capo di tutta, fosse Carlalberto di Savoja, o Francesco di Modena, o fino
l’imperatore d’Austria: primo bisogno d’una nazione diceano l’unità; il
resto terrà dietro. Gli altri zelavano la libertà innanzi tutto, e ne
vedevano appoggio e fonte la religione.

La moda degli scherni volteriani avea ceduto a quella d’un cristianesimo
vaporoso e sentimentale, figliazione di quello di Chateaubriand, che aveva
non dischiuso il tempio, ma ornata di tappeti la via che vi conduce; e che
vagheggiandolo come un’anticaglia scoperta, confessava in piedi un Ente
supremo, ch’era poco più del dio de’ galantuomini di Voltaire, o del dio
delle anime sensibili di Rousseau e Lamartine, anzichè inginocchiarsi al
Dio vivente, personale, crocifisso; coltivava il sentimento negligendo il
dogma; la fede limitando a una speculazione, che nè regolava le azioni,
nè repudiava necessariamente qualunque altro culto o dogma morale. Che se
taluno degenerò in ascetismo monacale o in gergo teosofistico, nè migliorò
lo spirito religioso, molti altri spingeva ad opportunissime beneficenze,
e negli scrittori aveva prodotto (a tacere altri) i due libri che quasi
soli divennero popolari anche oltr’Alpe, e dove alle nequizie degli uomini
e alle sofferenze della vita si opponevano quelle miti virtù che trionfano
del mondo.

I migliorati studj e l’annobilito sentimento religioso cambiarono il
modo vulgare di considerare la dominazione dei papi, e mostrarono come
la libertà fosse tutelata da essi, i quali, coll’opporre la Chiesa
universale all’universale impero, aveano creata, anche politicamente la
vasta unità cattolica, e sottratta l’Italia dall’eccidio totale della
civiltà; essi impedito che prevalesse nessun Barbaro; in loro nome eransi
fatti i tentativi di indipendenza e di federazione italica, sia nella Lega
Lombarda e nella Toscana, sia in quella contro Ezelino, poi da Giulio II,
e fin da Pio VI. Pure, riversando sul pontefice l’odio che meritava la
cattiva amministrazione, molti per politica aborrivano l’organizzazione
cattolica, benchè fosse la sola che conservò all’Italia un primato
nell’età moderna[26].

Altri invece propugnarono la primazia papale perchè la vedeano repulsata
dai Governi e principalmente dall’austriaco, ossesso dalle gelosie
giuseppine; e nel Lombardo-Veneto era quasi una moda, massime fra il
giovane clero, il mostrarsi papale, autorizzandosi dei nomi patrj di
Manzoni, di Cantù, Vitadini, e degli esotici di La Mennais finchè
non precipitò, e de’ suoi collaboratori nell’_Avenir_, Ratisbonne,
Lacordaire, Montalembert, i quali, saldi al cattolicismo, lo associarono
colla libertà e colla scienza. E a noi pure sembrava che, ad elevare
le plebi, il miglior modo fosse elevare i pastori; rinfiancavamo la
primazia spirituale, come adatta a ristabilire il concetto dell’autorità,
così necessario per reggimenti liberi, cioè frenati solo dalla morale.
Temerne le esorbitanze come poteasi quando ai Governi stavano in mano la
forza, e agli scrittori l’opinione? Ricorrendo alla storia, si divisava
adunque una lega di popoli italiani, a cui capo il pontefice, che così
facesse rivivere l’Italia, non nell’unità del principato, ma nell’unione
di interessi, di sentimenti, di bandiera, di pesi, misure, dogane, di
militari esercizj, di palestre dottrinali, di diplomazia[27].

Ma l’Austria vorrebb’ella entrarvi, isolando le sue provincie italiche
dalle transalpine? o la sua potenza non ve la farebbe preponderare a
scapito dell’indipendenza? Gravissima difficoltà! e, come troppi sogliono,
credeasi eluderla col non tenerne conto.

Queste idee, volte in motteggio dai molti che, senza discernere gli
accidenti dalla sostanza, l’abuso dalla regola, le persone dai principj,
il papa dal papato, riguardano come unico impaccio alle fortune italiane
i pontefici, erano con pazienza coltivate da buoni ingegni e retti cuori,
l’esempio e la voce de’ quali professò seguire l’abate Gioberti. Esigliato
dal Piemonte, senza relazioni nè libri viveva a Brusselle[28] la vita
dell’infelice esule, di fare il maestro, e di una pensione conflatagli
da quei che in esso ammiravano un sommo filosofo e un eloquentissimo
letterato. Di là appunto inviò il _Primato civile e morale degl’Italiani_
(1843 giugno), cui assunto politico è «l’Italia essere la sopra nazione,
il capo-popolo, la sintesi e lo specchio dell’Europa, la creatrice e
redentrice per eccellenza», e ciò perchè capitale religiosa dei popoli
ortodossi. Ma poi, in contraddizione di questo asserto, cerca le guise
di _migliorarla e riordinarla_, e lo crede impossibile senza il concorso
delle idee religiose. La penisola non può essere una, libera, forte,
se Roma, sua metropoli civile e morale, non risorge civilmente; finora
i tentativi politici fallirono perchè non si tenne conto della classe
clericale, delle comuni credenze, della religione ch’è la base del genio
nazionale. Però ridurre l’Italia in unità è follia, bensì varrà una
confederazione di cui il pontefice sia capo e presidente, monarchico
e aristocratico il Governo. I principi prevengano le rivoluzioni col
fare riforme animosamente: ma le ecclesiastiche non possono venire che
dall’autorità legittima; altrimenti il bene che ne deriva non compensa il
male cagionato dalla natura dei mezzi. Fortunati i principi d’Italia che
possedono il gran bene d’essere assoluti, perchè ciò dà loro il privilegio
veramente invidiabile di essere onnipossenti per salvare l’Italia (tom.
I, p. 181).

Tutto ciò affogava in un mar di parole e fra un implacabile panegirico
dell’Italia e di tutti, dei re e del popolo, dei nobili e del vulgo, dei
dotti e degli ignoranti, di Pellico e d’Alfieri, de’ preti secolari e
de’ Gesuiti, principalmente di Roma, «ai dì nostri asilo inviolabile di
civile tolleranza, e ricetto ospiziale aperto a tutti gli uomini onorati,
specialmente se infelici, qualunque sia la setta a cui appartengano»:
del papa, gloria perpetua, antica tutela, nuova speranza della nazione;
di Carlalberto, acciocchè si facesse centro al restauramento italiano,
ma sconsigliavalo dal dare libera stampa[29] nè assemblee legislative,
bastando un consiglio di Stato e la libertà di supplicare. Quanto
all’Austria, non ne facea parola.

Sì poco erano coltivati tali concetti, che, quantunque tanto vi fosse di
che eccitare la fantasia d’un popolo artista, e stuzzicare l’amor proprio
d’un popolo umiliato, quei due grossi volumi furono conosciuti da ben
pochi, fin quando non ne divulgò le dottrine Cesare Balbo (1789-1853),
uomo che merita essere studiato come tipo di quelli che, o per lode o
per biasimo, s’intitolarono moderati. Ogni suo scritto è pieno di lui,
sicchè non riesce difficile il ritrarlo. Giovanissimo spinto negli affari
dall’essere figlio del ministro Prospero Balbo, assistette ai consigli
di Stato di Napoleone, fu aggiunto alla commissione francese nel Governo
di Roma, dove apprese a stimare il debole che protesta, più del forte che
sopraffà. Tornati i reali a Torino, egli non ne fu ben visto, pure tenuto
negli affari o nella milizia. Nel 1821 dissentì dai cospiratori, pose anzi
la sua spada a servigio del re; ma questo, non che gradirlo, il rimosse
da sè e dagli affari. Bisognoso d’azione e d’influenza acquistata con
onestà e decoro, si buttò allo scrivere come un’occupazione in mancanza
d’altra; e moltissimi lavori intraprese, suggeriti dalla lettura e dalla
critica, sbozzati con impeto, abbandonati a mezzo, od esposti con stile
di brevità scabra ed oscura, misto di francese e d’arcaico. La storia
divenne suo campo prediletto, ma gli mancava la pazienza di verificare
fatti, e d’accertare se corrispondessero al suo preconcetto. Cominciò
una storia d’Italia; ma la severa critica dell’Antologia, giornale allora
il più accreditato, gliela fece interrompere, e soffrì della situazione
dell’uomo che, non volendo chinarsi alle prepotenze giornalistiche e
liberali, scostasi del pari dai due estremi. «Sovente (scriveva) gli
uomini calunniati per invidia dai concittadini, sono per le prove fatte
ammirati dai nemici. Qualunque volte soggiaccia la patria a qualche
durevole calamità, è naturale a molti, o per forza o per dispetto, il
ritirarsi nelle solitudini. Ma è bella solamente la solitudine austera,
occupata, religiosa, come se la fecero i monaci antichi; non quella non
curante, oziosa, viziosa, dispregiatrice e schernitrice di tanti uomini
di secoli più colti... Una delle disgrazie più accoranti è l’essere
rigettato dal proprio partito; ma è una di quelle a cui più frequentemente
soggiacciono gli uomini virtuosi e forti, perchè non volendo adattarsi
alle esagerazioni e stoltezze del partito, lo offendono, e se ne fanno
prendere in sospetto finchè durano le difficoltà, e cacciare dopo la
vittoria... Per dire un uomo civilmente coraggioso, non basta che egli
abbia resistito una volta ad una parte, una volta all’altra: bisogna che
egli abbia resistito alle due insieme, alle due ogni volta, in tutte le
occasioni importanti... Nei paesi assoluti, ineducati alla politica, si
vuol troppo riprovare ogni ambizione; non vedendosene altra che dei posti,
dei titoli o del denaro, è antica e santa massima di non cercare, di
aspettare i posti. A me parve sempre più santa la massima di prendere ed
anche cercare legittimamente i posti per promovere la propria opinione;
santa e buona l’ambizione dell’opera, che si dee dunque distinguere
dall’ambizione dei posti, che li prende per mezzo non per fine».

Pertanto si duole d’essersi talvolta rattenuto dal domandare più alti
posti per riguardo ai concittadini, «chè le invidiucce dei paesani non
si vincono rispettandole ma opprimendole»; ripetutamente offerse i suoi
servigi a Carlalberto, e del vedersi scelto solo a bassi incarichi prendea
sdegno; lamentavasi de’ lunghi e amari disprezzi prodigatigli da chi
governa il suo paese: «Fui e sono costantemente rigettato dal Governo,...
sono o mi credo (chè monta al medesimo qui) offeso e disprezzato. Non
sarei uomo se non cadessi talora per un istante involontariamente nel
desiderio di vedere mutato un tal Governo, di vederne sorgere uno dove
mi si aprisse campo, una volta almeno prima di morire, di sfogare, di
mostrare la mia vecchia ma non spenta operosità per la patria. E tanto
più che anche per la patria sento un desiderio di mutazione, diciam la
parola, rivoluzione. Il pensiero delle sventure e dei delitti stessi che
accompagnano tali eventi, non valgono a distrarre in me tal mio desiderio
primo»[30].

Carlalberto l’invitò poi qualche volta a pranzo, del che scandolezzavansi
i liberali; ma egli non opinava che la dignità restasse svilita da atti
urbani. E la condizione degli scrittori moderati ben dipinse dicendo:
«Nei paesi dove le parti latenti si esagerano in quel segretume che
diventa loro necessità e natura, sorgono di qua di là quelle, come che
si chiamino, leghe difensive ed offensive, ma principalmente esclusive,
che si rivolgono poi con ardore contro a chiunque parla chiaro e
pubblicamente; sorgono quelle purificazioni, sempre stolte anche quando
sono fatte dalle parti vittoriose, più stolte quando dalle parti ancora
combattenti, stoltissime quando non è instaurato nemmeno un aperto
combattimento. Qui ogni anima sdegnosa, respingendo i segretumi, riman
respinta da quasi tutti; rimane non solamente, come altrove, poco
accompagnata, ma quasi solitaria; non ha per difendersi in suo modo aperto
nè le opere che le sono vietate, sia che soverchi l’una o l’altra parte
estrema, nè le parole che non vi sono pubbliche mai; se scrive, ella ha
contro sè non una ma due censure, quella pubblica della parte soverchiante
e quella segreta della parte compressa; quella che sembra voler conservare
tutto, anche gli stranieri, e quella che tutto mutare, anche gli strumenti
da cacciare gli stranieri; volendo serbarsi pura secondo la propria
coscienza, riman dichiarata impura di qua e di là; rimane quasi _ex-lege_,
fuor delle Caste onnipotenti, senza speranza di vincere vivendo la doppia
guerra arditamente bandita, senza speranza di niuna giustizia di posteri
vicini»[31].

Ispirato dunque dal libro di Gioberti, ne compose uno più semplice e
breve, col titolo di _Speranze d’Italia_ (1845). Era il primo che di
politica italiana ragionasse non fuoruscito, e sotto un principe che
non l’avrebbe molestato, ma forse neppure difeso. E divenne il programma
sopra il quale si esercitarono i ragionamenti de’ pochi che pensano, e
i discorsi de’ molti che ripetono. Mentre Gioberti non erasi dato briga
dello straniero, Balbo mette l’indipendenza innanzi tutto, _Porro unum est
necessarium_, fin a sagrificarle le forme della libertà[32]; rifugge dalle
sollevazioni e come ree e come pregiudicevoli; non crede possibile la
formazione «d’un regno d’Italia in tante varietà d’opinioni, di disegni,
di province», bensì una confederazione, ove il Piemonte sia spada e cuore
Roma, e nella quale si concedano tanti beni ai popoli, che il dominatore
straniero perda ogni nerbo, sinchè la Provvidenza non conduca il tempo di
fargli abbandonare l’Italia, compensandolo con acquisti sulla Turchia.
L’effettuazione di queste idee rimetteva di là dal 1860, dopo finite le
strade ferrate e caduto l’impero Ottomano. Tutto ciò con una sincerità
senza violenza, un’onestà senz’illusioni.

I gran savj da caffè lo definivano il libro contro le speranze d’Italia;
ma intanto diffondeansi la discussione e l’idea del riconciliamento, e
formavasi un’opinione nazionale, meglio che non si fosse ottenuto colle
esorbitanze declamatorie. Questi svolgimenti indigeni erano, al solito,
modificati dagli esterni, massime dalla Francia, paese che l’irremissibile
bisogno di movimento sospinge continuamente a nuove esperienze, e a
non accettare altro pilota che la tempesta. La carta costituzionale,
ristampata sanguinosamente con correzioni nel 1830, avea assicurata la
maggiore libertà possibile a quella nazione; la pace avea fatto prosperare
gl’interessi: ma infuse un’improvvida sicurezza, ebrietà di lusso,
di felicità, d’ingegno, di quei godimenti che favoriscono gl’istinti
corrotti, sopreccitano le facoltà pericolose, e ogni limitazione rendono
intollerabile a gente che, di tutto divertendosi, lascia addormentare le
facoltà serie, che avvertono e moderano. Surrogato così al regno delle
idee il regno degli appetiti, la libertà non volle riconoscersi che
sotto forma d’opposizione, sempre ammirando chi contraffaceva o almeno
contraddiceva al Governo; tema per verità più opportuno alla declamazione
che non alla difesa dell’ordine e allo svolgimento della legge. Dai
Parlamenti quell’abitudine passava nella letteratura, e gl’ingegni
bellissimi, il limpido discorso, la colorita descrizione volsero Thiers,
Luigi Blanc e Lamartine a divinizzare la forza, sia manigolda con
Robespierre e Marat, sia radiante con Napoleone; Béranger colle canzoni,
Vernet col pennello, ridestavano il culto di Napoleone, sol per fare onta
alle dinastie; Lamennais, stizzito con Roma dacchè questa ripudiò le idee
di lui, torse la logica potente e lo stile incomparabile a scassinare
quell’autorità, sulla quale avea dianzi posato l’edifizio della società e
della cognizione; Hugo professava che il «poeta può credere a Dio o agli
Dei, a Plutone o a Satana o a nulla». I giornalisti, echeggiando tutti
una stessa voce, la faceano somigliare ad opinione pubblica, e perciò
acquisirono la presunzione di esserne non organi, ma dettatori, e in
conseguenza poter imporre ai Governi. Molti speculanti sull’immaginazione,
fomentavano alla rivolta del cuore, della fantasia, dei sensi,
divinizzando i godimenti sensuali, togliendo ogni idea d’abnegazione, ogni
riguardo di carità; dalle cattedre sbertavasi quanto v’ha di venerato; e
resuscitavansi i rancori contro il papa e i preti, demonj della società
e della morale. Romanzi, schifosi al buon senso come al buon gusto, per
farsi leggere si sminuzzavano in appendice alle gazzette, portando ogni
giorno un grano d’arsenico nelle famiglie, nelle botteghe, alla campagna;
blandivano la doviziosa lascivia colle azzimate laidezze, la stizza de’
proletarj coll’esagerare la corruttela gaudente, gl’istinti col mostrare
le donne inevitabilmente soccombenti alla tentazione, gli uomini operanti
solo per interesse e passione; prendendo per ideale le eccezionali
sconcezze della natura o della società, iniziavano i cuori vergini a
turpitudini col rivelarle, e attizzavano il popolo contro i ricchi, come
usurpatori del patrimonio comune.

Dove la stampa, il disegno, il teatro, la declamazione baldanzeggiavano
senza rispetto e senza pudore contro al Governo, alla famiglia, all’ordine
sociale, si concepì spettacolosa paura di alcuni preti che, all’ombra
della libertà, aveano creduto poter riunirsi a pregare, a insegnare, ad
apostolare. Libri, stampe, canzoni, romanzi aizzarono fin al parossismo
contro i Gesuiti, sfogando su questo nome il bisogno di ire, che nei
volghi è insito come il bisogno d’ammirazione[33]. E dico nome, perchè il
buon senso non crederà mai il mondo così rimbambolito, da capovoltarsi
per alcuni preti, i quali cacciò a budelli ogniqualvolta lo volle. Vero
è che ogni volta tornarono.

Quei libri correano anche in Italia, ai Governi giovando che l’attenzione
si storni sulle sacristie; e coll’impeto d’una moda e colla comodità di
un nome, nel secolo della Polizia e della legge marziale, in un paese
che avea reali nemici a combattere, fu sparso l’odio contro i Gesuiti,
designando così non le reliquie degli antichi Lojolani, ma chiunque
mettesse zelo nell’ecclesiastico ministero, poi chiunque asserisse la
primizia papale, infine chiunque si volesse screditare con un titolo che
non ammetteva discolpe, che nella sua vaghezza abbracciava qualsifosse
gradazione di merito e d’infamia.

E perchè la peggiore infamia era il parteggiare collo straniero, si
dissero i Gesuiti turcimanni di quell’Austria, che nel suo dominio gli
ammise tardi e scarsi e ammusolati. Onnipotevano invece in Piemonte, se
crediamo al Gioberti, il quale, sbigottito dal sentirsene affiggere il
titolo per averli encomiati nel _Primato_, e indispettito della fredda
accoglienza fatta a questo, «da acqua tepida si convertì in lava» nei
_Prolegomini_, disdicendo la più parte del detto nel _Primato_, spiegando
quell’odio contro i Gesuiti, che divenne d’allora il suo carattere, e
professando che ogni bene consisterebbe nell’abolirli. Vi rispose poche
pagine il gesuita Curci; e l’abate avventogli in cinque grossi volumi
la requisitoria più estesa che mai se ne fosse formata. Stile manierato,
qualche valore d’analisi e impotenza della sintesi, blandizie cortigiane,
menzogna sistematica, spionaggio, odio contro chiunque ha valore, morale
lassa, erano le colpe che ad essi apponeva il Gioberti: poi ragguagliavali
ai Mazziniani per la cieca obbedienza a un capo, l’indifferenza nella
scelta de’ mezzi, la giustificazione del regicidio: infine li gravava di
quante nefandigie mai possono commettersi o escogitarsi. Che se Eugenio
Sue avea finto avventure e nomi per divertire e ingannare, il Gioberti
altrettanto assoluto e intrepido metteva alla gogna e senza discussione
persone vive[34]; asseriva, sempre a detta altrui, che nelle scuole
gesuitiche «si predica una morale ribalda che non ha di cristiano che
le sembianze, un costume di cui gli onesti gentili si vergognerebbero,
una giustizia che contraddice alle leggi pubbliche e non può avere altra
sanzione che quella degli scherani». Il secolo critico avrebbe osato
revocarlo in dubbio?

Quella che il Brofferio qualifica «ignobile invettiva, rabbiosa
rapsodia, prolissa declamazione, di tratto in tratto splendente d’impeti
sublimi»[35]; e il Pellico «profluvio inesausto di bene e di male, di
carità e di odio»[36], fu letta da pochi nei passi dottrinali, da tutti
nei virulenti; chi dissentiva dal _Primato_, applaudiva al _Gesuita
moderno_, che molte persone espose allo scherno concittadino, e presto
alle violenze.

Ma perchè aveali tanto carezzati? Rispondea, per correggerli. N’avesse
anche lasciato ad essi il tempo, però mostravasi incerto o sleale nei
giudizj; chiamava gesuitico non tutto quello che nella Chiesa apparivagli
guasto, ma quel che a lui non piaceva; e, pur volendo venerata la Chiesa,
acquistava aria di sofista. I Gesuiti non conobbero nè la dignità del
silenzio, nè quella della risposta; e sputacchievoli accapigliamenti
sconnetteano in sè e disonoravano in faccia altrui la parte guelfa;
mentre i non guelfi le movevano opposte battaglie, incolpando essa di
repubblicana, e il papa d’aver rovinato l’Italia.

In tal senso Giacomo Durando (_Della nazionalità italiana_) impugnava i
neoguelfi[37]; al papa volea si conservasse Roma e qualche isola, il resto
d’Italia dividendo tra Casa di Savoja e i Borboni di Sicilia; non toccar
l’Austria fin che essa non provocasse; aversi a sperar meglio nella Russia
che nell’Inghilterra, questa amica, quella nemica naturale dell’Austria;
del resto l’unità d’Italia non poter venire che dal principato, la sua
reviviscenza dalla libertà.

Leopoldo Galeotti (_Della sovranità temporale dei papi_) era d’avviso
che a riformare gli Stati Pontifizj bastasse il richiamar le antiche
leggi, e principalmente i Capitoli di Eugenio IV. Gino Capponi (_Attuali
condizioni della Romagna_) dicea che tutti consentono nella necessità del
dominio temporale, sol doversi cambiare ministro, istituzioni, leggi, e
consigliava i papi a farlo e rendere così venerabile la tiara prima che
qualche evento europeo obbligasse a bruttarla di sangue per lasciarla
cadere nel fango; un papa che regni senza governare è l’unica soluzione
del nodo; Roma ha più bisogno del papa che il papa di Roma. Altre idee
e partigioni diverse propugnava un Lombardo nei _Pensieri sull’Italia_,
considerando come impedimento quel dominio papale, che pel Gioberti era
la salute, per Durando la ruina d’Italia.

Della reviviscenza guelfa indispettì il poeta Giambattista Niccolini,
e nell’_Arnaldo da Brescia_ pose una bella poesia e un’imperfettissima
erudizione a servigio delle passioni. Anche il Giusti berteggiava
«quest’Apollo tonsurato che dall’Alpi a Palermo insegna il cantofermo»,
e il tuffare la penna nell’acqua benedetta.

In verità l’assunto dei neoguelfi pareva ognor meno accettabile in grazia
della speciale condizione dello Stato Ponlifizio, portato da lunghi
eventi allo sconcio eccezionale di concentrare nella stessa persona
la sovranità temporale e l’impero sulle coscienze, come nella società
pagana; talchè sul papa ricadeano anche le colpe o i difetti del principe.
Gregorio XVI, ancora monaco, avea scritto il _Trionfo della santa
Sede_, dove, zelando la primazia pontifizia, in nome del cristianesimo
proclama il diritto delle nazionalità. Un ingiusto conquistatore, con
tutta la sua potenza, non può mai spogliare dei suoi diritti la nazione,
ingiustamente conquistata. Potrà con la forza ridurla schiava, rovesciare
i suoi tribunali, uccidere i suoi rappresentanti; ma non potrà giammai
indipendentemente dal suo consenso o tacito o espresso, privarla de’ suoi
originali diritti relativamente a quei magistrati, a que’ tribunali, a
quella forza cioè che la costituiva imperante (pag. 37).

Fervoroso per la causa di Dio e la santa maestà del dogma, secondò le
reviviscenze gerarchiche, infervorò i parroci ne’ doveri religiosi,
e cercò opporsi alle ripullulanti eresie; santificò Alfonso Liguori,
Francesco di Geronimo gesuita, Giuseppe della Croce minorita, Pacifico
da San Severino minor osservante, Veronica Giuliani cappuccina; altri
italiani beatificò; accelerò la ricostruzione dell’incendiato San
Paolo[38]; conchiuse concordati col re di Sardegna, per cui lasciavasi
al fòro secolare la cognizione dei _crimini_ di ecclesiastici, mentre i
_delitti_, eccetto quei di finanza, restavano di competenza curiale, e nei
casi capitali fosse comunicato il processo al vescovo che deve degradare
il condannato. Anche al duca di Modena consentì che le cause meramente
civili fra ecclesiastici e laici si portassero al fôro secolare, e così
i delitti di lesa maestà, sedizioni o contrabbando, intervenendovi però
un deputato del clero; e per le pene capitali deve il vescovo conoscere
il processo originale: del resto integrava i pieni diritti pontifizj
e vescovili, ed aboliva le restrizioni ai possessi di manomorta. Ebbe
a lottare colla Spagna che tolse i beni al clero e la nunziatura, col
Portogallo a proposito dell’istituzione canonica dei vescovi, colla
Svizzera per la soppressione dei conventi d’Argovia, e così coll’America
meridionale: e mentre da un secolo i papi non avean mostrato vigore che
col soffrire, Gregorio uscì dalla posizione meramente passiva per mostrare
la fronte ai persecutori subdoli o prepotenti. Animato dalla coscienza
cosmopolitica del supremo sacerdozio, scomunicò i fautori della tratta
dei Negri. A proposito de’ matrimonj misti parlò alto al re di Prussia;
e avendo questo incarcerato l’arcivescovo di Colonia, esso il denunziò a
tutta la cristianità per modo che il persecutore dovette chinarsi. Approvò
la rivoluzione dei Belgi perchè eccitata da persecuzione religiosa; ma
allorchè alla Polonia sollevata contro la Russia scismatica rammentò
l’obbligo d’obbedire, parve insultare a un cadavere. Al tempo stesso
egli ricorse al czar perchè trattasse meglio i Cattolici, e adempisse
le promesse fatte loro: ma il czar non che badarvi, adoprò seduzione e
persecuzioni per unificare l’impero anche nelle credenze. Corse anche
voce, e un opuscolo pubblicato da persona a lui vicina parve confermarlo,
che l’imperator Nicolò si credesse il vero rappresentante dell’impero
romano, e in conseguenza il capo di tutta la cristianità nel religioso
come nel politico. La sua forza già gli attribuiva predominio sui re;
rimaneva di ridurre a una sola le due Chiese, latina e greca; ossia,
considerando questa come l’unica vera, e la latina come scismatica, questa
richiamare all’unità sotto di lui, unico papa. A tal fine erano dirette
le persecuzioni ai Cattolici, mediante le quali molti preti e intere
provincie fece apostatare, di orride persecuzioni punendo chi reluttasse.
Il papa le espose in una relazione (1842), che fece inorridire il mondo.
Essendo poi il czar passato per Roma nel visitare sua moglie che miglior
salute cercava a Palermo, Gregorio, invece delle blandizie profusegli
dai principi, gli fece severi raffacci delle sevizie usate ai Cattolici,
intimandogli: — Fra breve noi compariremo al tribunale di Dio; e non
oserei sostener la vista del mio giudice se non difendessi la religione,
della quale io sono il tutore, voi l’oppressore». Quelle minaccie non
uscirono vane, e provarono quanto un pontefice possa ancora sul mondo
allorchè tuteli la verità e l’innocenza, scevro da interessi mondani e da
grette paure.

Chi conobbe Gregorio nell’intima vita, lo trovò di consuetudini semplici,
e gusti fin vulgari; facile alle udienze, studioso anche sui libri nuovi
che gli si lasciassero arrivare; ai parenti non diede nè ricchezze nè
cariche, mentre debolmente condiscendeva al cameriere Gaetano Moroni, che
blandito con titoli e decorazioni dai re e fin con applausi letterarj,
subì la responsalità di quanti errori allora si fecero. Piovvero epigrammi
su quest’amicizia, e sull’ubriacarsi del papa e su altre baje, dove non
era di vero se non la debolezza di un vecchio e frate.

Di costituzione, di bilancio, degli altri arzigogoli estranei alla
teologia ed esotici nel regno di Dio, nulla intendeva, sicchè bisognava
lasciasse fare ai ministri e alle circostanze, per cui colpa le riforme
promesse nel 1831 riuscirono a nulla o a male. Quelle imperfette
concessioni guardava il Governo come estorte, e voleva eliderle;
impacciava le amministrazioni comunali coll’intervento governativo;
gl’impieghi conferiti a laici nelle Legazioni furono ritolti; il
regolamento del 1835 metteva norma ai giudizj il diritto comune, moderato
dal canonico, e senz’abolire gli statuti locali. La giustizia era
corruttibile non solo, ma esposta agli arbitrj de’ superiori, e alle
interminabili restituzioni in intero. Commissioni militari erigevansi
ad ogni attentato contro la sicurezza pubblica, sinchè non vi venne
sostituita la Consulta, che, con norme eccezionali anch’essa, dava il
difensore, ma scelto fra quattro proposti dal Governo, e vincolato al
secreto; testimonj e giudici lasciava ignoti al reo.

Le riforme amministrative si riduceano a una maggior regolarità di
protocolli, insegnata da un magistrato austriaco (Sebregondi), a tal
uopo deputatovi; e al crescere gl’impiegati, parassita aggiunta alle
altre: crebbero fuor modo le ruberie e le venalità, l’onnipotenza
degl’intriganti, l’assolutezza moltiplicata quanti erano i potenti, quanti
i domestici del papa. Il debito, lasciato o causato dalla rivoluzione
del 31, era ben lungi dall’essere spento dalle tasse nuove e da altri
compensi; tanto più che tutti dilapidavano, e il lusso governativo
cresceva, e il cardinal Tosti tesoriere non sapeva asciugar pozza
che col farne un’altra, tanto da non fallire[39]. Le opere pubbliche
volgeansi al fasto, più che all’utile: e il viaggiatore, gemente su
quelle incomparabili ruine, domandava perchè piantagioni e coltura non
tornassero sane e ubertose le circostanze di Roma, perchè vaporiere non
risalissero il Tevere, perchè strade ferrate non congiungessero coi due
mari la metropoli della cristianità.

Peggio andava nel morale; ed oltre la Polizia, una ciurma ammantavasi
di devozione al Governo per trasmodare contro le opinioni opposte. Il
papa nol sapeva, chè de’ favoriti suoi era cura non gli si ragionasse
di affari, talchè rimanea persuaso che ogni cosa andasse nel meglio
possibile. Vollero ribadirgli questa persuasione col fargli intraprendere
uno di que’ viaggi (1841), in cui il principe non riceve se non riverenze
e trionfi, gli si lasciava solo il tempo di visitar chiese, monumenti,
istituti pubblici parati ad inganno, e uomini disposti a staccare i
cavalli e tirar la carrozza, e quella turba di cittadini che s’affollano
sulle strade o nelle anticamere, applaudendo se vulgo, petizionando se
civili. Ne riportò dunque l’idea della beatitudine universale; e intanto
lo scontento delle Legazioni, già preveduto dai diplomatici nel 1831, fu
portato al colmo dal non averle egli visitate; e massimamente a Bologna
preferivasi palesemente la dominazione austriaca[40], perchè forte, di
truppe disciplinate, d’incorrotta giustizia, di tutto quel bene che l’odio
del proprio fa supporre ne’ Governi altrui. Al fine del 36 i Francesi si
erano ritirati da Ancona, i Tedeschi dalle Legazioni, lasciando sentimenti
opposti, ma accordantisi nell’avversione al dominio papale.

Anche ai miglioramenti non faceasi buon viso; e quando fu pubblicata la
riforma giudiziaria, non solo avvocati e tribunali la combatterono così,
che fu duopo sospenderla, ma una stampa clandestina diceva: «È dell’onor
nostro il resistere. Niuna transazione con Roma». Anche voti ragionevoli
si mormoravano, e tratto tratto si gridavano in tono di rivolta; ma le
insurrezioni tentate ripetutamente diedero ragione a repressioni vigorose,
tanto più che spesso la causa degli insorgenti confondeasi con quella de’
masnadieri, cronico morbo al paese.

Un Renzi riminese, reduce di Francia dove avea mestato nelle combriccole,
mandato o fingendosi dai liberali di Romagna, e affiatatosi con altri
ricoverati in Toscana, indusse a fare una protesta armata per sostenere
un’altra scritta dal dottore Farini, intestata _Libertà civile, Governo
secolare, Ordine pubblico_. Avuto compagni ed arme, il Renzi sbucò da
San Marino, e occupò Rimini; ma poichè nessuna città rispose, i soldati
svizzeri gliel’ebbero prontamente ritolta, ed egli con cencinquanta
rifuggì in Francia traversando Toscana. Stolto tentativo; eppure se
ne fece un gran parlare, e valse a fissare gli occhi d’Europa sopra
le domande de’ Papalini, in gran parte sensate ed effettibili. Tolse a
sostenerle il piemontese Massimo d’Azeglio, che, nei _Casi di Romagna_,
riprovando risolutamente le congiure, le manifestazioni di piazza, le
insurrezioni, insieme mostrava come unica via di evitarli il governar
bene, svellere gli abusi, concedere le riforme necessarie.

La Polizia rabbrividì quando non si trovava più a fronte sediziosi da
incarcerare, ma ragioni da ribattere; non minacciata la religione, non
i possidenti, nè tampoco il Governo, ma gli abusi, le turpi passioni e
l’inerzia negativa; non imposte nuove concessioni, ma rammentato voti già
espressi nel 1832 dalle Potenze che si chiamano tutrici della servitù,
poi dimentichi a segno, da parer adesso novità[41]. Il Governo rispose
al manifesto, parte negando o attenuando que’ fatti, parte mostrando
o ingiuste o improvvide le domande, parte denigrando i sovvertitori; e
sebbene dicesse molte verità, ognun sa quanto poco vagliano le difese,
tanto più quelle d’un Governo contro un nome divenuto popolare. Cresceano
dunque i fremiti; e come in Lombardia formolavansi nella cacciata degli
stranieri, così qui nella parola di secolarizzazione.

Un principe a tempo, scelto per lo più in vecchiaja, tra una classe aliena
per istituto dagli affari temporali; scelto, aggiungiamo, a preferenza per
le virtù che continuino la serie di tanti virtuosi, e rendano servigi alla
Chiesa universale, deve riuscire men proprio a governare il paese quanto
più l’istituzione ecclesiastica si rende piamente austera ed esemplare;
insomma peggiora per quelle condizioni di moralità, per le quali gli altri
Governi unicamente possono perpetuarsi. Di qui la necessità di stabili
istituzioni, le quali possano in qualunque caso dirizzare i consigli
sovrani. E tanto più che negli interregni l’anarchia diventa regola,
sconnettendosi ogni autorità, e riagendosi contro chi era stato potente:
sicchè il Governo che sottentra deve ripristinare l’obbedienza, effetto
sempre scabrosissimo e viepiù con gente nuova com’è quella messa in posto
dal nuovo pontefice, di cui è consuetudine, se non obbligo, il dare lo
scambio ai ministri del predecessore.

Roma da un pezzo non ha municipalità, l’amministrazione della città
confondendosi collo Stato, e rammentandosi con ribrezzo i tempi quando
ancora il Comune di Roma osteggiava i papi, e li cacciava ad Avignone.
L’avere il Consalvi concentrato moltissimi affari nella segreteria di
Stato, e tutto il potere esecutivo, aveva sminuita la partecipazione dei
cardinali alla sovranità.

Il concistoro di questi, eletto fra tutte le nazioni, e dagli uomini più
eminenti per scienza ecclesiastica, ha tutt’altra destinazione che la
accidentale di reggere lo Stato. Prima della rivoluzione, alla Corte di
Roma si formavano buoni amministratori e destri politici, atteso le vive
relazioni con tutt’Europa, e l’essere la prelatura riservata ai cadetti
delle famiglie nobili, che vi portavano meno l’austerità ecclesiastica,
che l’attitudine ereditaria agli affari, l’appoggio delle parentele, la
ricchezza, le aderenze. Tutto cambiò nell’eguaglianza sopravvenuta; perì
quella scuola di diplomatici; e poichè il riformare richiede genio ed
esperienza, qui pure si preferì il non far nulla, o quell’acquistar tempo
ch’è reputato guadagno dai poteri egoistici.




CAPITOLO CXC.

Pio IX. Le Riforme. Le Costituzioni.


Morto Gregorio XVI (1846 1 giugno), si antivedeva un conclave tumultuoso,
e intanto le Romagne e le Marche bollivano; ad Ancona fu assassinato il
colonnello Allegrini; dappertutto adunanze, e petizioni; ma prima che
s’iniziassero le brighe diplomatiche, il sacro Collegio nominò (16 giugno)
Giovanni Mastai Ferretti, nobile di Sinigaglia e vescovo d’Imola. Preso
il nome di Pio IX, nell’enciclica ripetè i lamenti del predecessore contro
l’indifferenza, il razionalismo, le società bibliche, la stampa sfrenata;
poi colse ogni occasione per ripetere che egli era papa cattolico innanzi
tutto, padre di tutti i fedeli e non dei soli Italiani, geloso di non
menomare gli affidatigli diritti della santa Sede.

Poco dopo (6 luglio) concesse amnistia a chi avea «meritato castigo
offendendo l’ordine della società e i sacri diritti del legittimo
sovrano»; per ottenerla bisognava riconoscersi in colpa e promettere
lealtà di suddito. I menapopolo stettero un istante in bilico; ma
poichè, dopo tanto odiare e bestemmiare, se non altro per varietà voleasi
assentire ed encomiare, diedero il segno degli applausi: nella limitata
amnistia vollero vedere un avviamento a concessioni maggiori; cominciarono
a parlarne col miele sulle labbra, indi con ammirazione, infine con
adorazione; si ripeteano i detti del papa, se ne inventavano; su ogni
atto di lui, presente o passato si diffondevano aneddoti benevoli, arguti,
generosi; se ne ammanierò un idolo a capriccio, attribuendogli concetti,
atti, parole, divisamenti, alieni dal suo vedere e dal suo volere; e «Viva
Pio IX» fu la parola di moda, surrogata a tutti gli applausi, a tutte le
speranze.

In realtà, egli era un pio sacerdote, che d’ogni giorno molte ore
riservava alla preghiera; che nei dubbj del pensiero gettavasi a’ piè
della Madonna; che il bene volea lealmente, ma, se non ampliare, neppure
sminuire la podestà trasmessagli. Preso però dalla più cara delle
seduzioni, quella del favor popolare, credette farsene appoggio alle
rette intenzioni, e sorrise a quella pioggia di fiori da cui resterebbe
soffogato. Roma cominciò un non più interrotto carnevale; ogni giorno
corso, inni, serenate, battimani; tripudio quando il papa usciva, quando
villeggiava, quando tornava, applausi altrettanti a chiunque diceasi suo
amico, suo servo, suo ammiratore. Di tali entusiasmi, come sempre, era
difficile assegnare le cause; nei più era un seguir l’andazzo; in molti
una sincerità irriflessiva; quei che s’accorgeano dell’allucinamento,
compiacevansi che tale cospirazione d’assensi iniziasse un moto, il
quale, moderato dal nome augusto, rimarrebbe sacro al popolo, rispettato
ai re. Noi Italiani soprattutto vi vedemmo un lampo di care speranze:
quei che «aspettavano il rigeneramento dalla santa libertà e dalla
robusta moderazione, anzichè dall’ira declamatrice, dalla denigrazione
folliculare, dal despotismo rivoluzionario»[42], credeano mostrerebbe
quanto vaglia un principe che, risoluto al bene, s’affidi al suo popolo,
ed osi resistere a’ suoi proprj amici; laonde inneggiammo Pio IX quasi a
lezione degli altri regnanti.

Le Romagne ferveano, non più di rivolta, ma di riforma, chiedendo il
_memorandum_ del 1831; iteravano petizioni, dimostrazioni, indirizzi
coperti da migliaja di firme, partecipazione al vanto quando più non
recava pericolo: e Pio IX pareva inanimarli coll’accoglierli (1847 12
marzo); furono scelte commissioni per maturar riforme; invitati i municipj
e le persone meglio credute a proporne; e concessa libertà di trattare
dell’amministrazione e di cose politiche sui giornali. Se ne esaltò il
sentimento individuale, e mentre questo vagellava nelle proposte più
dissenzienti, le speranze sconobbero ogni limite di opportunità, di tempo,
di luogo: un papa di ferrea volontà bastava volesse il bene, foss’anche
contro la natura del principato ecclesiastico; Pio IX nol facea, dunque
la colpa era di cardinali e Gesuiti.

Aspettate un pezzo, apparvero le riforme (14 aprile), cioè una consulta
di Stato, formata da un cittadino per provincia, scelto dal sovrano sopra
triplice proposta dei legati e preseduta da un cardinale. Più tardi si
decretò un consiglio municipale di cento, dai quali il papa scerrebbe
un senato di nove; restituendo così alla città di Roma la rappresentanza
civica.

Erasi ripetuto a sazietà che il papato era avverso per essenza ad ogni
innovamento e alle istituzioni liberali, e necessario alleato dell’Austria
e dell’assolutismo. Or ecco Pio IX secondare i voti dei buoni, i quali si
presumeva non potessero volere se non l’indipendenza italiana. Spiritavasi
dunque d’applausi, che si propagarono dalle Romagne al resto d’Italia,
e di là al mondo; Europei come Americani, Protestanti come Cattolici
ripeteano «Viva Pio IX»; in ogni casa il suo busto; sue medaglie, battute
a migliaja di migliaja in ogni metallo, fregiavano ogni petto; sui
fazzoletti, sui mobili, sui giocattoli il ritratto e i colori suoi; il
nome su tutte le pareti, in tutte le bocche, in tutte le favelle; tutti
voleano aver veduto l’uomo del secolo; tutti almeno parlarne, lodarlo; il
Turco stesso mandò offrendogli omaggi, amicizia, promessa di ben trattare
i Cristiani; i figli di Voltaire riconciliavansi a un papa che sarebbe
piaciuto al loro patriarca; i liberali incarnavano in esso quanto di
meglio potessero chiedere i popoli o fare i principi; Mazzini stesso gli
dirigeva mistiche esortazioni a farsi capo della grande impresa: oh, la
generazione che la vide, non potrà più dimenticare quelle dimostrazioni.

Un Angelo Brunetti, per soprannome Ciciruacchio, bello, robusto, di
facile loquela, d’esultanti canzoni, ardito e generoso come que’ popolani,
tutta cosa di bettolieri, mercatini, vetturali, vinaj, a’ quali mediava
contratti, prestava servigi e, occorrendo denari e braccio, si fece
il rappresentante della plebe presso Pio IX; egli sistemare le feste,
egli disporre i baccani o i silenzj, egli buttar nelle piazze la parola
imboccatagli d’encomio o disapprovazione, che ripetuta da ventimila
lingue, sembrava parola di popolo. E Ciciruacchio da quell’ora divise
i trionfi e la celebrità con Pio IX, e col principe di Canino l’appalto
delle dimostrazioni.

Chi si ricordava d’aver visto anni fa la serva di Royer-Collard portata
in trionfo dalle ortolane di Parigi, sorrideva e compassionava. Chi
conosce che la popolarità vuole schiavi coloro che sceglie per idoli,
si sgomentava d’incensi sotto cui fiutava il sito rivoluzionario; e non
potendo parlare in quei momenti in cui non è consentita che l’ammirazione,
diede indietro, lasciando soletto il papa, e compiangendolo d’aver preso
le vertigini. Adunque egli si trovò solo (1847), e obbligato a valersi
degli esuli richiamati o di inesperti, contro cui strepitavano coloro i
quali non osavano adoprarsi, e pur si dolevano di non vedersi adoprati.
Il siciliano padre Ventura, buon filosofo, e che dagli Scolastici avea
dedotto il concetto della riverenza all’autorità e dei diritti del popolo,
lo incoraggiava a procedimenti, da cui credea dipendere il bene della
religione; ma mancava d’esperienza. Agli infervorati parea che il papa
avanzasse più lento dei desiderj; sicchè per rinfocolarlo buccinarono
d’una _gran congiura_ (16 luglio), dove al popolo radunato a festa
correrebbesi addosso, indistintamente trucidandolo con pugnali impressi
del _Viva Pio IX_, si troncherebbero le redini de’ cavalli, si getterebbe
fuoco nei fenili, i soldati uscirebbero fingendo di calmare la sedizione
e invece aizzandola, e fra le stragi e le fiamme si costringerebbe Pio
a fuggire e abdicare, mentre gli Austriaci sopraggiunti col pretesto di
mettere ordine ripristinerebbero la tirannide. Indicavansi i luoghi, le
persone, i mezzi; e in tutto ciò non eravi di vero se non che voleasi
farlo credere, e valersene per domandare l’armamento di tutto il popolo
a difesa del suo Pio, quasi questo avesse nemici. Era riproduzione d’un
noto incidente della rivoluzione di Francia, e il buon papa mise fuori
un ordine per dissipare quegli artefatti terrori: ma dopo l’emozione de’
tripudj voleasi l’emozione della paura; e Italia ed Europa credettero alla
gran congiura, all’orribile attentato della lega austro-gesuitica.

Tutti i paesi d’Italia scotevansi alle scosse di Roma, neppure
s’accorgendo che cominciasse qualcosa più che una festa; da tutto
prendeasi occasione di dimostrazioni: l’anniversario dell’uccisione
dei Bandiera, della cacciata dei Tedeschi da Genova, della battaglia
di Gavinana, dell’assunzione del papa, la morte di O’ Connel a Genova,
quella di Federico Confalonieri a Milano, la sconfitta del _Sunderbund_
a Lucerna, offrivano titolo a parate, a canti, soprattutto a pranzi,
la esternazione allora più usitata del giubilo. Ricardo Cobden,
industriale di Manchester, aveva proposto il libero commercio dei grani
in Inghilterra, e sostenutolo con tutti gli artifizj legali che offre il
suo paese, tanto che lo vide trionfare, a dispetto de’ possidenti, i quali
per prosperare le proprie terre, aveano durato enormi spese nella fiducia
di rifarsene coll’alto prezzo delle derrate. La quistione era affatto
estrania all’Italia, ma il qui comparire di lui fu un trionfo; a Torino,
a Genova, a Roma, a Napoli, a Firenze, a Milano, ebbe festeggiamenti nelle
accademie, a cui davano aria di adunanze parlamentari i calorosi discorsi
che la stampa divulgava; e celebravasi la libertà universale di commercio
come necessario fondamento della scienza economica, come santa alleanza
de’ popoli.

L’importanza stava non in quel che si diceva, bensì nel potere e nel voler
dirlo; giacchè da una parte si imparava che noi pure abbiamo il dono
della favella, dall’altra cominciava ad atteggiarsi qualche dicitore,
qualche capobanchetto. Al vulgo de’ caffè intanto davasi a credere che
Cobden fosse inviato dall’Inghilterra a tastar il polso del nostro paese
e riferirne: altrettanto si disse di Cormenin, capitato pure di Francia in
quei giorni, e che poi pubblicò un libretto ove mostravasi ignaro non solo
di quel che si pensava, ma fin di quello che si diceva. Non imputiamolo
troppo, giacchè nella scialacquata eloquenza di quei giorni noi pure
mostravamo una deplorabile ignoranza di principj e legali e politici; la
colposa trascuranza de’ fatti positivi e dei mali veri suggeriva rimedj
o folli o insulsi, e rivelava esorbitanti dissensi fra quelli che sin
allora eransi creduti in perfetto accordo perchè d’accordo nel fremere o
piangere; che eransi creduti amatori della libertà perchè unanimi in un
odio.

Nella placida Toscana, il vecchio Fossombroni continuò a dar la parola
al sostituitogli don Neri Corsini: morto questo, fu messo a capo del
ministero Francesco Cempini, e consigliere intimo il Baldasseroni,
sgradito al popolo siccome sogliono essere i finanzieri. Il primo dissenso
tra il popolo e il principe si manifestò quando il Renzi, ribelle papale
(pag. 77), fuggendo da Rimini, fu lasciato passare per la Toscana, con
promessa che non più vi tornerebbe. Ma egli di Francia vi ricomparve, e
arrestato (1846 gennajo) come violatore della parola, fu consegnato al suo
principe. Sembrò un rinunziare alla propria indipendenza; si sublimò come
un eroe il Renzi, il quale poi nelle carceri romane mostrossi ben altro.

Nuova debolezza parve il mandar via Massimo d’Azeglio, a cui tale
persecuzione, accompagnata da ovazioni, attribuì inaspettata importanza
politica. La opposizione allora s’ingagliardì; e poichè il Gioberti avea
messo di moda l’odio de’ Gesuiti, essendosi voluto porre a Pisa una casa
di Suore del Sacro Cuore, si fece una dimostrazione chiassosa (febbrajo),
e una supplica firmata dai professori e da quei tanti che non vogliono
mancar di figurare in una lista.

L’elezione di Pio IX e le sue riforme aggiunsero stimoli e coraggio.
Bettino Ricasoli in una petizione esponeva lo scontento del paese,
accagionandone l’immoralità del clero, l’istruzione non incoraggita,
l’inettitudine degl’impiegati, la mancanza di buoni ordini nel
comunitativo e nell’economico, la censura che confondeva il parere
dell’uom savio colla suggestione del turbolento; e chiedeasi una buona
costituzione. Servì di rincalzo un discorso del Salvagnoli, poi altri ed
altri come quando entra la moda: gli stessi capi liberali non cadevano
però d’accordo; il che è ovvio quando molteplici oggetti vengono
abbracciati; ma i remoranti ne traevano una potente objezione.

Su que’ primordj s’andava poco più innanzi che nel secolo passato,
insistendo perchè si ridonasse lena alle istituzioni municipali: ma i
buoni vollero applicare un motore, presto abbrancato dai diversi, la
stampa clandestina[43]. Giravano alla macchia informazioni, conforti,
ed una petizione di radicali trascendenze, che rifiuta le migliorie
parziali per chiedere il bene di tutta Italia, e che sia unita in
nazione. Cominciarono di qui le consuete satire e declamazioni, che
toglieano credito ai buoni pensamenti, e ne elidevano l’efficacia; gli
uni esclamavano contro i settarj, gli altri contro gli stipendiati
dall’Austria; parole di partito su cui fabbricano i loro libri gli
scrittori che li compongono come i giornali.

Anche l’arcadica Toscana covava dunque i suoi vulcani. Leoli e Bici
nel 1846 aveano fondata a Livorno la società segreta de’ Progressisti
italiani, coll’aspetto di migliorare l’educazione, ma coll’intento
di cacciare gli Austriaci e unire Italia sotto Carlalberto; e fecero
proseliti nelle infime classi. Scoperti, processati, il granduca li
compatì come traviati di buona intenzione. A Modigliana pure si tumultuò
contro la forza, e il granduca perdonò ai cinquanta imputati: si tumultuò
a Pescia, a Pistoja, con danno d’oneste persone, e con rapine a titolo di
carestia, e il duca perdonava. Più che altre riottava la plebe livornese,
mista d’ogni nazione; animosi giovani la istigavano, e il Guerrazzi, che
ripetendo sempre concordia e fraternità, causava l’opposto.

Udite le riforme di Pio IX, Leopoldo (1847 maggio) le concede anch’esso,
e una Consulta di Stato, e gran larghezza di stampa, dove è notabile
che n’erano eccettuate le pastorali dei vescovi. Gli studenti di Pisa le
solennizzarono processionalmente, gridando «Viva Leopoldo e la stampa»; ma
dalla folla usci un «Viva la grascia, viva il pane a buon mercato»; e il
grido popolare fu secondato, e ne derivò rissa e capiglia. Anche a Siena
i carabinieri urtansi coi giovani, e ne uccidono uno; il popolo pretende
siano chiusi in quartiere i soldati, e il Governo consente.

Nell’Università di Pisa insinuavasi quell’indisciplina che non tollera
superiori, impedivasi di castigare i cattivi, i professori austeri
venivano presi a fischi: uno tra le baruffe restò ferito, uno scolaro
ucciso, e, fosse Rinaldo o Martano, ebbe esequie spettacolose ripetute
in ogni parte, fra imprecazioni ai carabinieri, dianzi portati a cielo
perchè sottentrati alla sbirraglia, ora accusati d’aver fatto affilare le
sciabole per dare addosso agli studenti.

Comandava le poche forze toscane il Laugier, militare napoleonico, fin
allora vantato per la sua _Storia militare degli Italiani_, e proponeva
di reprimere quei tumulti colla forza; ma negatogli dal Governo, dovette
scendere a parlamentare col Lilla, ch’era il Ciciruacchio di Livorno; e
da quel punto restò bersaglio all’odio e alle imprecazioni de’ liberali,
mentre gli smodati sentironsi sicuri dell’impunità. Anzi alcuni Fiorentini
mandarono una spada di fino magistero a Giuseppe Garibaldi nizzardo, che
profugo nel 1834, condottosi in America, invece di struggere la vita
a ribramare la patria, si era messo soldato di ventura; a capo d’una
banda d’Italiani servì ai cittadini di Montevideo contro Oribe; scarso
d’intelligenza, semplice anzi rozzo di modi, disinteressato, assoluto,
abbondante del valore di cui era tanta scarsezza; onde i Mazziniani lo
inneggiarono, come possibile spada dell’insurrezione italica.

E già il fremito di questa era espresso ne’ giornali, che, appena trovata
qualche larghezza, trascesero di numero e di modi: la _Patria_ proclamava
l’accordo dei principi colla libertà; l’_Italia_ sperava il risorgimento
dal papa, al quale avversava l’_Alba_, missionando l’unità nazionale e
repubblicana. Mentre l’alzarsi della marea mette a galla le persone abili
e credute dal popolo, gli inetti smaniosi sentono di non poterlo se non
cambiandola in burrasca, dando sul capo di chi si eleva, guastando le
previdenze, corrompendo i consigli, proponendo cose che farebbero se
fossero in potere; e inefficaci di operare nello Stato e nelle città,
s’arrabattano nei caffè e sui giornali, i due perni di questa rivoluzione;
e sorretti dalla turba che ascolta sempre a chi più grida e in frasi più
rimbombanti, acquistano apparenza di partito, mentre erano pochi egoisti
immolanti la causa pubblica all’ambizione personale. Le concessioni del
granduca pareano o tarde o inevitabili, onde, invece di riconoscenza, gli
si sporgeano domande sempre nuove; flagellavasi l’autorità quando più
pareva disposta ad emendarsi; diffondeansi insinuazioni maligne, crudi
sospetti, coll’arte di Giuda stillando il biasimo nella lode, e ciò mentre
non si parlava che di fratellanza. Altri invece ostentavano liberalità col
proporre collette onde erigere monumenti a Pio IX e Leopoldo, al Ferruccio
e al Savonarola, e convegni, gite, mascherate, conviti solennizzavano gli
eventi giornalieri o le ricorrenze.

E memorabile fu l’anniversario (10 8bre) della morte del Ferruccio,
quando innumera gente raccolta a Gavinana, udì un discorso del Guerrazzi,
ritraente a colori biblici la possa d’un popoletto che potè resistere
a Carlo V padrone di due mondi; e mostrando come le discordie fraterne
avessero tutto mandato a ruina, invitava a giurare eterna concordia. E
concordia, risorgimento, Italia, èra nuova, ripeteansi dappertutto; quasi
le stesse persone dappertutto ricomparivano; abbondando e declamazioni e
tutto ciò che in politica è inutile, nulla di ciò ch’è necessario ad una
ricostruzione.

Appena a Roma fu concessa la guardia civica, i Toscani la domandarono
anch’essi, parendo, in quella tal fratellanza, male assicurata la quiete
e la proprietà da poche truppe e frolle. Il granduca asserì non la
darebbe mai, e presto dovette darla: nell’editto rammemorava che «tutti
gl’interessi sono impegnati nell’ordine e nell’osservanza delle leggi; che
le agitazioni anzichè portare al progresso civile, cagionano discordie,
ristagno dell’industria e del commercio, perturbazione degl’interessi
particolari e generali, inducendo diffidenza e timore». Parole al vento:
più di ventimila persone andarono a ringraziare il principe fra canti
e viva chiassosissimi; dappertutto processioni, _Tedeum_, allocuzioni,
bandiere biancherosse, corone ai simulacri d’illustri antichi, ovazioni
al Niccolini pel suo _Arnaldo da Brescia_; i pezzi della catena rapita
a Porto Pisano e sospesa in trionfo a Firenze, sono staccati e rimessi a
Pisa.

In questa città si rinnova e maggiore il frastuono: Mayer economista,
Montanelli poeta, Centofanti filosofo fanno iscrizioni, arringhe, canti;
tra gli accorsi della provincia si ricambiano le bandiere, e preti e frati
a benedirle. A Livorno molto di più; donne vestite d’amazzoni palleggiano
le spade, vecchi gravi discorrono da collegiali, e fra i mille cinquecento
vessilli che quel giorno (8 7bre) sventolarono sopra cinquantamila
accorsi, grandeggiò il tricolore.

Ed ecco (giacchè ogni frivolezza era appiccagnolo) al domani comparire
due dei più vivi nelle dimostrazioni romane, il principe di Canino e il
suo segretario Masi improvvisatore, vestiti da guardia nazionale romana;
accolti spettacolosamente e tra infiammati applausi del Guerrazzi al
nipote di Napoleone, essi snudano e incrociano le spade, invitando tutti
a giurare la santa causa italiana. Voleasi costringervi a fischi anche il
Laugier, che sovrappose in fatti la sua spada gridando «Viva Leopoldo II».

A Pisa ebbero nuovi trionfi, e la loro carrozza fu tirata da una schiera
di preti (12 7bre). Più misurati a Firenze: ma quivi si rinnovò la festa,
venendovi deputati da tutti i Comuni, e ventiquattromila guardie civiche,
e cinquanta bande musicali, e senza numero bandiere, sciorinanti i _Viva_
di moda. Sei milioni costò allo Stato il montare la guardia civica,
oltre lo speso dai particolari, che si pavoneggiavano in quella, ed
esercitavansi a cantar gl’inni, imparare la marcia e la carica in dodici
tempi; mentre nessuno arrolavasi alla milizia, per quanto il Ministero
vi esortasse; non che mantenere quiete, in ogni villaggio istituivansi
botteghe ove leggere giornali e spoliticare; i tumulti cresceano, gli
sgomenti ingrandivano, i capitali si ritiravano dalla cassa di risparmio,
ch’ebbe bisogno di sussidj del granduca; la feccia montava su; la
proprietà non era rispettata, nè la sicurezza delle persone; «dall’umile
castello di Castagneto nella maremma pisana ascendendo a gradi fin
alla capitale, non scorreva quasi giornata senza nuovi tumulti» (ZOBI);
il commercio livornese deperiva, perchè quella agitazione toglieva ai
forestieri la sicurezza; del che lamentandosi, i negozianti chiesero una
commissione di Polizia; e questa fu riguardata come vessatoria. La plebe
cittadina, erettasi sovrana, arrestava e insultava col titolo di traditore
e di spia; l’autorità violentata ne’ suoi strumenti, alternava parole
amorevolissime con provvedimenti rigorosi che lasciava senza effetto;
ogni concessione si considerava puro dovere, ogni freno una tirannia, ogni
indugio tradimento o vigliaccheria.

Il granduca nominò una consulta, e spiacque perchè tutta di persone già
in alti uffizj, e non rappresentava nè le ricchezze nè gl’ingegni delle
provincie. Si riforma la legislazione municipale, si nominano commissarj
per compilare il Codice civile e criminale: ma dacchè il duca riconobbe
che le leggi e gli ordinamenti sono viziosi, nessuno più vuole osservarli;
qualunque legge venga fuori è denigrata da quelli che non furono convocati
a discuterla; gl’impiegati dal far poco mettonsi al far nulla, in attesa
delle riforme. Del resto che forza poteano questi avere quando tutto era
sul mutarsi? e la circolare ministeriale del 30 novembre 1847 poneva «i
buoni impiegati e la libertà nell’esercizio di loro attribuzioni sotto
la salvaguardia dell’onore e della forza de’ magistrati municipali, della
guardia civica e de’ buoni e savj cittadini che la componevano». Dolorosa
confessione d’impotenza!

Sentendo il disordine rigonfiare sotto la congiura degli applausi, chi ne
imputava i Mazziniani, chi i Buonaparte, chi la lega austro-gesuitica, e
nessuno le basse passioni e i codardi interessi. E noi, testimonj e parte
di que’ fatti, or che li ricorriamo, a fatica sappiamo persuaderci come
allora non si avvertissero o si scagionassero, volendo soltanto scorgere
gioja, fratellanza, tripudj, fiducia d’italica rigenerazione, e guaj a
chi credesse altrimenti.

Le maggiori speranze fabbricavansi su Carlalberto. Cominciò egli a
guastarsi coll’Austria quand’essa sui vini, ricchezza del Piemonte,
pose un dazio così gravoso, che equivaleva ad escluderli. Egli a vicenda
concesse alla Svizzera di trarre da Genova il sale che l’Austria aveva
il privilegio di somministrarle. Ne cominciarono dissensi diplomatici;
e poichè la patria, come la religione, non conosce colpe inespiabili,
bastò che Carlalberto mostrasse all’Austria non il pugno ma il broncio,
perchè venisse anch’egli idealizzato come spada d’Italia, di cui Pio
era la testa. I Piemontesi se ne esaltano, con tono insolito si discute
di dogane, si propone una società per lo spaccio dei vini, si brinda
ai conviti, si dilata la smania di far qualche cosa, d’esser qualche
cosa, di mostrarsi capaci per quando i tempi verrebbero. A tale intento
un’Associazione agraria ne’ suoi comizj riproduceva in piccolo i congressi
scientifici; le elezioni e la presidenza davano origine a partiti,
già caratterizzandosi gli eccedenti e i moderati, i repubblicanti e i
costituzionali: ma il re troncò le quistioni col rendere carica di Stato
la presidenza, e affidarla al conte di Collobiano. Carlalberto, col solito
intradue, lasciava scrivere ma non favoriva gli scriventi; fa coniare
una bellissima medaglia, ove tra le effigie di grandi Italiani compare il
leone di Savoja straziante l’aquila, col motto _J’attends mon astre_, ma
la regala quasi di nascosto; lascia festeggiare Cobden, ma non istampare i
recitati discorsi; nè vuole si stampino quelli de’ comizj agrarj a Casale;
eppur colà manda al Castagneto una lettera ove dice: — Che bel giorno
quello in cui si griderà guerra per l’indipendenza d’Italia! Io monterò
a cavallo co’ miei figliuoli, e mi porrò alla testa del mio esercito».

Fu la favilla in un pagliajo; gli s’inviò un indirizzo, e — Comandate,
o sire; non vi rattenga alcun riguardo pe’ vostri popoli: vita, averi
daremo per voi». Il bollore rigonfia, eppure Carlalberto nulla risolve; ed
egli comincia a temere che anche il suo popolo s’invogli dei tumulti, il
popolo a sospettare che il suo re lo meni per le buone parole: raddoppia
dunque gl’inni a Pio IX, ma mentre li canta a piena gola sul passeggio
degli spaldi, ecco a un tratto «da opposte parti sboccare soldati,
gendarmi, agenti di Polizia, con nude sciabole e pistole inarcate,
maltrattando, percotendo, insultando senza riguardo uomini, donne,
vecchi, fanciulli»[44] (30 8bre). Ultima velleità di resistenza; poichè
Carlalberto si trovò subito condotto a concedere riforme amministrative;
un tribunale di cassazione; pubblici dibattimenti nelle cause criminali;
allargata la stampa; la Polizia passata dai governatori militari
agl’intendenti; garantita la sicurezza individuale; i municipj eletti a
tempo non in vita; ripristinato il ministero dell’interno; sostituito il
merito all’anzianità e alla nobiltà nelle promozioni militari.

Quasi avesse commesso un delitto, Carlalberto rinnova il decreto contro
gli assembramenti, e da Torino corre a Genova: ma vi è ricevuto con
un’esultanza chiassosissima; sventolava innanzi al popolo la bandiera
tolta il 1746 agli Austriaci, innanzi ai preti la bandiera di Gioberti, e
«Viva Gioberti» ripeteasi violentemente presso al collegio de’ Gesuiti;
e fu chi gridò amnistia, e tutti l’echeggiarono; e fu chi gridò al re —
Passa il Ticino e tutti ti seguiremo»; e Carlalberto ai minacciosi omaggi
impallidiva e taceva.

Ma più che a svolgere le riforme si pensava a incorniciarle d’applausi: i
giornali della media Italia intonavano ch’essi valevano quanto un intero
esercito; negli inesauribili pranzi faceano tirocinio d’eloquenza i
futuri oratori[45]; per le strade al pari che ne’ gabinetti cantavasi che
l’aquila d’Austria avea perduto le penne, che l’Italia s’è desta, che ogni
squilla sonò i vespri; a Genova nella festività de’ bicchieri mescolavansi
patrizj e popolani per cantare inni; per un pranzo esibito ai Torinesi,
per una visita a Origina, smetteansi negozj e affari; tutti voleano
ragionacchiare di politica, tale credendo soltanto quella del giorno e
la energumena[46], tutti sbattere acqua e sapone per farne bolle, tutti
satollarsi d’applausi col secondare le vulgarità, e discorrere e cantare
della battaglia di Legnano, dell’assedio di Parma, dell’insurrezione di
Genova, del Procida, del Balilla, d’Alessandro III; e vantare la potenza
d’Italia, lo sfasciamento de’ nemici, l’entusiasmo che la causa nostra
ispirava a lutti i popoli; e gonfiar panegirici, a cui capo metteasi
sempre una calunnia; e con errori calcolati e reticenze, dondolare ogni
nome tra le ovazioni e le sassate.

Le quistioni vitali offuscavansi in una quantità di giornali, fra cui
primeggiavano la _Concordia_ di Valerio, il _Risorgimento_ di Cavour e
Balbo, il _Messaggiere_ di Brofferio, il _Corriere mercantile_ del Papi.
Una commissione di censura pareva garantire e dalle trascendenze e dagli
arbitrj d’un giudice solo, ma a qual censore sarebbe bastato il coraggio
di levare una sillaba, quando sapeva che al domani sarebbe messo alla
gogna da tutti i giornali, forse fischiato per la via? Prendeasi dunque
spirito ad ogni eccesso: folliculari, nodriti di rancori, servili e fatti
audaci dalla paura, intimidivano i savj: di patriotismo mascheravansi lo
spionaggio e la manìa del far ridere prima, poi far tremare: facile tema
a tutti restava poi il bestemmiare l’Austria, quasi non sia leggerezza
insultare un nemico prima di vincerlo, come ingenerosità il dileggiarlo
vinto; tutto ciò senza mettere la mano sui nemici e sui mali sentiti.

E poichè ciascuno volea rumoreggiare più dell’altro, avventandosi a quel
declamare tribunizio che più scalda quanto meno ha modestia e riserbo,
dalle riforme politiche si passava alle sociali, proclamavansi dottrine
comuniste, spiegavasi l’infelice coraggio della provocazione. Oh Foscolo
che, trent’anni prima, deploravi che i letterati fossero ruina d’Italia!
possano gl’Italiani aver imparato a sì caro prezzo se con schiamazzi e
giornali si rigenera una nazione.

Di quei che pensavano o se ne davano l’aria, alcuni metteano importanza
nell’ottenere qualcosa: ragionevole o no, buona o meno, sarebbe scala ad
altro, per via via elevarsi a quell’altezza che non si osava confessare.
Machiavellica, nella quale impigliaronsi presto anche i principi,
concedendo qualcosa colla fiducia di fermarsi a quel poco, e disposti ad
eluderlo. Altri però, meditando il passato, cercavano trovarsi disposti
alle grandi eventualità; e vedeano che, in forme liberissime si può essere
schiavo; che libertà non regge se non con ragione, libero essendo l’uomo
di cui si prevede quel che opererà domani, non quello che bizzarramente
cangia pensieri ed atti; che il divario delle costituzioni consiste
nell’essenza non nel loro esterno; nè una sola può attagliarsi a tutti,
dovendo elle dedursi da ciò che un popolo è e fu, e da ciò che sono quelli
che lo circondano; trarsi insomma dalla natura, non dalla fantasia.
Quei che a costoro non poteano negare forza di ragione, li tacciavano
di timidità di cuore, perchè, vedendo il bene, asserivano che bisognasse
aspettarlo.

E d’aspettarlo aveasi grand’argomento quando tutti i principi italiani si
mostravano convinti dell’obbligo di migliorare la condizione de’ sudditi,
se non col farli partecipi al potere, almeno nobilitandone l’obbedienza; e
consolidando il principato col fare da esso emanare i miglioramenti, prima
che il popolo li strappasse a forza. Ma mentre moltiplicavansi apoteosi a
Cobden, si applicava la dottrina opposta di List, il quale aveva indotto
gli Stati germanici a una lega doganale, per natura sua esclusiva de’
popoli non consociati. Si parlò di una lega italiana per togliere le
infinite barriere doganali: era un atto rilevantissimo, sì pel vantaggio
economico della penisola sminuzzata, sì per divergere l’attenzione sovra
altro che mera politica, e convincere i popoli che si pensava al loro
meglio positivo.

«Persuasi che la vera e sostanziale base di un’unione italiana sia la
fusione degl’interessi materiali delle popolazioni che formano i loro
Stati», il papa, il re di Sardegna e il duca di Toscana fecero una specie
di preliminare: il duca di Modena non v’aderì, pure prometteva libero
passo pe’ suoi Stati interposti: il re di Napoli amò sempre far casa da
sè. Anche quest’opera potendo effettuarsi soltanto dai principi, agli
schiamazzanti non restava che arzigogolare articoli e brindisi, e diceano:
— L’Austria o non v’assente, ed eccola riconoscersi straniera all’Italia;
o vi annette l’unico suo Stato italiano, ed ecco questo separato dagli
altri dominj ereditarj».

Le nazioni, quanto più sono civili, maggior varietà di principj
contengono, la cui lotta costituisce la storia. Ma l’utopista o il
passionato suppongono un principio solo, quel che è conforme alle
inclinazioni proprie, gli altri dimentica, e vorrebbe dimenticati da
tutti; il vulgare non vede che un uomo, che un libro, che un giornale; a
quello sacrifica le proprie convinzioni, e spingesi agli estremi, mentre
i contrapposti domandano continue limitazioni per arrivare ad accordi.

Pure bello e degno di studio fu quel momento. Neppure gli avventati
pensavano a impeto di atti, quando anche fossero impetuosissimi di parole;
violenza non era usata da nessuno, neppure dall’Austria, per quanto
accusatane e provocata; anzi neppur dalla piazza; e pareva l’Italia venir
incamminata al bene da’ principi in armonia co’ popoli, dalle audacie
giovanili accordate col senno de’ vecchi. In sì cara illusione trasaliva
essa di tripudj e banchetti; dimostrazioni e trionfi a chiunque volesse
buscarseli coi paroloni simpatici; le difficoltà o non si vedeano, o
pigliavansi a gabbo. Ma gl’inni di fratellanza, pregni di collera e
d’orgoglio, abbagliavano le menti, quando saria stato bisogno e dovere di
rischiararle: a Parma, nel festeggiare l’anniversario dell’elevazione di
Pio IX nacquero conflitti con percosse e ferite di cittadini, sin d’una
fanciulla di dieci anni, donde una fiera indignazione: così a Piacenza,
così a Modena, così a Milano, così a Ferrara, dove fu trucidato il barone
Barattelli; sicchè i giorni di prestabilito applauso soleano riuscire
a inaspettato compianto. Tutto ciò mettea sull’avviso l’Austria, l’odio
contro la quale era per avventura l’unico sentimento comune della lirica
italianità.

A gloria de’ principi italiani ricadevano anche le nuove sventure
dell’Austria; chè noi deploreremo sempre come sventuratissimo un Governo
costretto a ristabilire l’ordine colla fierezza. Da qualche tempo
le teoriche liberali erano trascese in socialismo. Mentre i Liberali
dicevano, — L’uomo è buono, cattivo è il Governo, bisogna riformarlo»;
i Socialisti dicevano, — Cattiva è la società, bisogna rifonderla;
quanto finora si tenne per bene fu male, e il male bene; le passioni
sono naturali e perciò buone, onde il reprimerle non è virtù; dunque
ogni Governo è tirannia, ogni soggezione è schiavitù, paradiso unico è
la terra; libertà, eguaglianza, fraternità non possono combinarsi colla
superstizione cristiana; onde bisogna rimuoverla, e ripudiare l’esperienza
di tanti secoli per improvvisare qualcosa di meglio».

Gli elementi della società si tengono talmente connessi, che non si
può eliminarne uno senza scomporre tutto; negata l’antitesi del bene
e del male, vien dietro l’unità, vale a dire il panteismo nella fede,
il despotismo ne’ Governi; posta l’eguaglianza di tutti gli uomini sia
nel comandare sia nell’obbedire, più non rimangono nè nazionalità nè
monarchia, niun limite deve porsi alle passioni, niuno all’esercizio
dell’attività, niuna distinzione di tuo e di mio, e la proprietà sarà
furto. Da qui la forma sua più popolare, il comunismo, il quale rinnega e
la famiglia e i possessi, volendo che tutti abbiano diritto a tutto, chi
non lavora possa partecipare ai guadagni di chi lavora.

L’inestinguibile ira del povero contro il ricco s’incalorì di queste
teoriche, predicate colla storditaggine giornalistica; e mentre in
Francia scavavano ridendo un gorgo dove ben tosto s’inabisserebbe l’ordine
sociale, ne’ paesi slavi incitò le popolazioni servili contro i signori.
La Gallizia nell’iniquo sbrano della Polonia era toccata all’Austria,
la quale cercò emanciparvi i possessi, abolire il servaggio, eguagliare
ogn’uomo in faccia alla legge: di ciò l’odiavano i signori, quasi ella
attentasse ai privilegi loro; mentre il vulgo la considerava tutrice delle
sue giustizie. Quando ogni assurdo credeasi, si credette che il Governo
austriaco, per umiliare i ricchi, aizzasse i poveri.

Il fatto è che i villani sollevatisi saccheggiarono, scannarono,
vituperarono i ricchi. La forza armata, corti marziali, esecuzioni feroci
repressero una feroce insurrezione; gli orrori di cui erasi contaminato
il manto matronale di Maria Teresa, offuscarono il titolo di buono
che Ferdinando aveva meritato. In Gallizia governò Massimiliano d’Este
arciduca, buon soldato e intollerante, che si fece detestare più per
despotismo che per animo ribaldo; tutta Europa ne fremette contro quegli
strazj, che parvero mettere l’Austria al bando delle nazioni civili.

Ne trasse profitto la Russia, da un pezzo affaccendata a propagare
il panslavismo, cioè la nazionalità di tutti gli Slavi, proponendo di
toglierli alla Prussia, all’Austria, alla Turchia, per farne sotto il suo
scettro un popolo di ottanta milioni, che avrebbe signoreggiata tutta
Europa. E fu dalla Russia appunto che venne lanciata primamente questa
parola di nazionalità, che accettata per imitazione, doveva essere favilla
di tanti incendj[47].

Risonò essa anche in Germania. Un aggregato di genti diversissime
d’origine e di civiltà non potea che essere spinto all’abisso dalla
proclamazione della nazionalità; e il ministro Metternich, il quale erasi
ostinato a non toccar nessuna pietra per tema di sconnettere l’intero
edifizio, e fin allora le difficoltà avea superate all’esterno colla
prevalenza dell’esercito e dentro coi sopratieni, sentivasi impotente
ai nuovi urti, e vacillava ne’ proprj consigli. «Abbiamo attraversati
(scriveva a Radetzky) giorni difficili, richiesero grandi sforzi, eppure
non furono tristi quanto gli odierni. Lottare contro i corpi sappiamo noi,
ma contro larve che vale? e larve appunto abbiamo di fronte: era nei fati
che al mondo comparisse perfin un papa liberaleggiante»[48].

L’umiliazione della gran nemica rimoveva dai principi italiani la paura
di esser impediti nelle riforme, ma vedeano la necessità di non porgerle
pretesti a prender l’offensiva[49]; cingerla bensì di paesi ben organati,
dopo una regolare trasformazione del diritto interno, che speravasi
condotta per la via della conciliazione.

L’applauso ai principi riformatori s’ingrossava delle imprecazioni
lanciate allo straniero, che ben avea ragione di sgomentarsi: e pertanto
la posizione dell’Italia diventava soggetto anche di trattati e dispute
fra gli stranieri. Francia limitavasi a dar coraggio ai principi, fiducia
ai popoli; ma a questi e a quelli facea dire non uscissero dalle vie
pacifiche, non isperassero rimpasto territoriale[50]. In Inghilterra il
ministro Palmerston sorrideva al risorgimento italiano, lanciando frasi
a guisa di cavaliero che dà di sprone al cavallo, ma intanto ne serra il
freno. Ma Metternich vi ravvisava la radicale sovversione della società,
una frenesia rivoluzionaria, un passo alla repubblica federativa. E alle
Corti amiche trasmise (agosto) un _memorandum_, ove esprimeva «l’Italia
essere un nome geografico; de’ suoi Stati sovrani e indipendenti,
l’esistenza e la circoscrizione fondasi su principj di diritto pubblico
generale, corroborati da accordi politici incontestabili; l’imperatore
è deciso a rispettarli, nè cerca di là di quanto possiede, e lo saprà
difendere»: chiedea che le Potenze glielo garantissero di nuovo, e dessero
mano a soffogare un incendio, che presto diverrebbe irrefrenabile. I
Gabinetti, consentendo nel primo punto, voleano però che ogni Stato
potesse riformarsi nell’interno, senza che altri se ne brigasse[51].

E cercò trar la quistione sul campo dov’era certamente superiore, la
forza, ed occupò Ferrara come necessaria alla sua sicurezza: ma la
dignitosa protesta del papa, efficace come ogni parola ferma appoggiata
sul diritto, lo costrinse a ritirarsi, e comprendere che non era tempo di
violenze.

Ma se non aveasi a temere la forza armata del nemico, ve n’ha un’altra
del pari tirannesca, quella dei vulghi dotti e ignoranti; e già la si
sentiva pigliare il sopravvento in iscritti violenti d’ira o nauseabondi
di lodi, ove gente avvezza sin allora a giudicar di ballerine e di
cantanti, sentenziava di politica e moveva le chiassate di piccola turba
cittadina, usurpante il sacro nome di popolo. E poichè i siffatti han
bisogno d’attaccarsi a grandi reputazioni per roderle o per carezzarle,
agli applausi di moda innestarono la moda di esecrazioni, e non più
contro il comune nemico, ma contro nostri; non si esaltavano Pio IX,
Carlalberto, Leopoldo riformatori, e Gioberti ed altri _italianissimi_,
che non s’imprecasse al re di Napoli sanguinario e ai Gesuiti; e gesuita
era l’emulo, l’avversario, il rivale, l’invidiato, il benefattore; e
Metternich guatava e diceva: — Gli Italiani fortunati s’invidieranno,
sfortunati si malediranno, discordi sempre o vincitori o vinti».

Il riformare è una delle opere più difficili ad uomo di Stato, quanto
pare leggiero ad uomo di partito, il quale movendo da un’idea assoluta,
arriva necessariamente a cambiamento radicale. Se v’è paese dove questo
passaggio sia inevitabile, vuol dire che inevitabile v’era la rivoluzione:
e tale appariva in Italia. Pio IX, quantunque gioisse di quella popolarità
senza pari, si impauriva dell’accelerantesi movimento, che mal dissimulava
di separare il gran sacerdote dal principe riformatore[52]. Già
nell’istituire un patriarca a Gerusalemme, egli protestò contro l’abusarsi
del nome suo come opposizione alle autorità; encomiava la Compagnia di
Gesù come sopra tutt’altre benemerita della religione; aprendo poi la
consulta di Stato (4 8bre), dichiarò avere fatto e voler fare quel che
credea vero bene, ma non mettere a repentaglio la sovranità della santa
Sede con istituzioni incompatibili con questa.

Coloro che delle benedizioni di Pio IX voleano fare carica da cannoni, non
si smarrivano a tali dichiarazioni, e le diceano tributi alle esigenze
straniere. Sopraggiungevano poi casi che complicavano sempre più la
situazione. Francesco IV di Modena era morto (1846 1 genn.), e suo figlio
avea secondato l’opinione nel liberare i detenuti politici; limitò a venti
giorni al più le pene correzionali, congedò il Riccini odiato ministro di
Polizia, e moderò le esorbitanze.

A Lucca l’infante continuava a gravarsi di debiti, sicchè il granduca,
destinato a succedergli, dichiarò non li riconoscerebbe più, e volle
come sicurtà la rendita delle dogane e delle regalie. Anche in quella
città erano avvenute le scene stesse che in Toscana; tra le canzoni
si assalirono i carabinieri, e perchè si difesero, furono imputati di
assassini (1847 luglio). Il duca alzò la voce contro, queste «frasi di
letterati ed esaltamenti di scolari», e assicurava voler mantenere la sua
monarchia quale l’avea ricevuta, piccola sì ma assoluta.

A dire propriamente, egli l’avea ricevuta costituzionale dagli
spartipopoli del congresso di Vienna; e Luigi Fornaciari, tutto dedito
a studj di filologia e di beneficenza, gli scrisse per rammentarglielo,
e per mostrare quanto complirebbe al popolo e al principe l’avere uno
statuto. In risposta fu destituito da consigliere di Stato e preside della
rota criminale, e se n’andò in trionfale esiglio. I rumori crescono,
e quei plausi che sgomentavano i principi come poco poi le campane a
martello; si arrestano alquanti giovani, ma bisogna rilasciarli; finchè
il duca, tediato de’ complicantisi casi, abdica (8bre), anticipando così
l’accessione di quel ducato alla Toscana.

Lucca diventava città secondaria in quella Toscana, di cui ai tempi
Longobardi era stata capo: atteso però gli applausi allora di moda
verso il granduca, il sagrifizio fu accettato con ilarità. Ma secondo le
stipulazioni viennesi, il Pontremoli dovea unirsi al Parmigiano; mentre
i distretti lunesi di Fivizzano, Pietrasanta e Barga erano destinati al
duca di Modena. Adunque nella strepitosissima festa allora combinata,
ecco apparire lo stendardo bruno dei Lunigiani che ricusano cadere sotto
al duca di Modena. I calorosi di Firenze e di Lucca gridano di non volere
staccarsi da que’ loro fratelli, non foss’altro per far onta all’Austria;
ma il duca di Modena manda soldati ad occuparli.

I Lunesi si difendono, e nella collisione (4 9bre) perdesi qualche vita;
si protesta, s’invoca la mediazione del papa e di Carlalberto; pure il
duca di Modena conserva il suo possesso, sol per accordo amichevole (17
xbre) lasciando al granduca il Pontremoli finchè non muoja Maria Luigia.
Ed ecco appunto Maria Luigia muore; Carlo Lodovico di Borbone diviene
duca di Parma e di Piacenza; ed anche Pontremoli cessa d’appartenere alla
famiglia toscana, mentre questa aggiungeva allora cendiciotto miglia di
terreno alle sue ottomila e ventiquattro. A Lucca, tolta l’autonomia, fu
conceduta una corte d’appello: ma Pisa pretende sia messa sotto la sua
giurisdizione, onde zizzanie, proteste, tumulti; perchè in que’ giorni
ogni incidente prendeva l’importanza d’un gran fatto, e diveniva occasione
d’affratellamenti o accozzaglie, ire od applausi; arti colle quali si
credea conquistare la libertà e l’indipendenza, e intanto il vero vinto
era l’autorità pubblica e la pubblica quiete; e gli amici sodi d’Italia
sentivano un cupo rombo ruggire sotto agli applausi[53].

In fatti al cominciare del 1848 Livorno era in effervescenza, perchè
tardasse a giungere il decreto per la guardia civica, come necessaria a
difendersi dai Tedeschi; l’autorità è costretta ogni tratto a parlamentare
colla turba, e non avendo soldati a reprimerla, dee scendere a patti
coi tumultuanti, e così perde ogni valor morale. Un proclama diceva:
— Toscani! Davanti alla vostra coscienza, alla faccia del mondo, alla
storia, voi spontanei offriste vite e sostanze per sostenere i fratelli
vostri di Fivizzano e di Pontremoli: eppure Fivizzano fu abbandonato,
Pontremoli s’abbandona. Spergiuri, perchè avete giurato? millantatori,
perchè vi siete vantati? codardi, perchè vi mostraste generosi? Eh via
queruli schiavi, imparate a dormire tranquilli nel letto della vostra
viltà... O ministri, voi siete traditori: lo siate per perversità o per
inettezza, la conseguenza torna sempre la stessa. Sgombrate, traditori e
codardi; sgombrate arcadi, sofisti, dottrinarj! I destini d’un popolo sono
troppo peso per le vostre mani da eunuchi e da omicciattoli. La patria
è in pericolo! Ora sapete come si fa a salvarla, o Toscani? si chiamano
uomini che non temano morire, e si pongono volenti o repugnanti al timone
dello Stato d’accordo col principe; si dichiara la patria in pericolo.
Così si salva la patria, e se non si vince, si muore onorati e si lascia
celebrità di nome, legato di vendetta ai figliuoli, esempio di gloria
ad imitare ai popoli! Toscani, la patria è in pericolo! Questo grido, se
sarà soffocato dai traditori, serva almeno per far conoscere che non tutti
fra i Toscani furono vili, ignoranti ed inetti, e la infamia ricada a cui
tocca».

Questo cartello incendiario buttato fra popolo sì mite, quest’inoculazione
di rabbie civili fatta per retorica amplificazione, furono il trabocchetto
delle nostre sorti. Si credette vedere in fiamme il paese, e l’autorità e
la gente d’ordine presero sbigottimento: le comunità spedirono indirizzi
al principe offrendo denaro e sangue contro la ruggente ribellione,
ed esacerbando il male coll’imputare i Livornesi e singole persone. I
giornalisti al solito incancrenivano la ferita. E il popolo prorompe (6
genn.), nè v’ha modo a calmarlo, per quanto Leopoldo assicuri non esservi
pericoli; vi fossero, e’ gli affronterebbe e vincerebbe, risoluto com’era
a compire le riforme, le quali però non si poteano senza la pace: e
raccomandava la tranquillità di Firenze, di Lucca, di Pisa alla guardia
civica. Ma una deputazione Livornese che chiedeva armi, armi, si fa
deliberante e accusa il Governo; fin gli apostoli della Giovane Italia,
i quali assicuravano che «il sangue de’ martiri di questa era stato non
meno prezioso de’ nostri inchiostri»[54], si affrettavano a disapprovare
que’ moti e separare la causa loro dalla setta livornese. Ripreso il
sopravvento, Guerrazzi e alcuni altri son condotti a Portoferraio tra i
fischi della plebe, che jeri ne facea l’apoteosi.

Qui nuovi accidenti mutano carattere al movimento italiano. Sponemmo
già le condizioni del Napoletano, paese di così splendido avvenire e di
presente così tenebroso. L’aspirazione nazionale per cui febbricitava
la restante Italia, non erasi comunicata ai Siciliani, ricordevoli dei
Normanni, degli Svevi, dell’antico loro Parlamento e della prosperità
che alcun tempo vi produsse la ingerenza inglese; prosperità derivata da
condizioni eccezionali, com’era il trovarsi ivi solo pace fra le guerre
napoleoniche, ivi fra il blocco continentale uno scalo al contrabbando
britannico, che vi mandava per cencinquanta milioni annui. La costituzione
del 1812, data sotto gli auspizj inglesi, lasciò intatte la feudalità,
le moltissime manimorte, le primogeniture, gli altri mali su cui una
rivoluzione può passare la spugna inzuppata di sangue, mentre un Governo
regolare, comechè ben ispirato, non le abolisce che passo passo.

L’Inghilterra si era fatta garante di quella costituzione; ma Ferdinando
I non vi badò; crebbe l’imposta, che prima era fissata in annue onze
1,287,687, nè più convocò il Parlamento. Di qui odio mortale contro
la Casa regnante; e guardare i Napoletani come stranieri e oppressori;
e non badare all’Italia, bensì a recuperare la costituzione del 1812.
Il principe di Castelnuovo legò ventimila onze all’uomo di Stato che
indurrebbe il re a riconoscerla; il principe di Villafranca vecchione
non cessava di protestare in questo senso; in questo andavano molti
libri. Il Lanza, nelle _Considerazioni_ sulla storia del Botta, repugna
deciso all’unione col Napoletano, preferisce al regno di Carlo III quel
di Vittorio Amedeo perchè lontano, e lascia «ad altri la perniciosa
chimera dell’italica unione, nella quale, per maggiore danno dell’Italia
medesima, sono caduti gl’inesperti e i mal accorti, presi dalle grida di
novatori» (pag. 421). Michele Amari, descrivendo la guerra del Vespro
Siciliano, sentenzia di stranieri Giovanni da Procida e Ruggero di
Loría, spogliandoli dell’aureola tradizionale per cingerla al popolo
siciliano[55]. Palmieri storiò la costituzione siciliana in senso
dell’aristocrazia e con allusioni mordenti.

L’isola realmente non avea più Corte nè ministeri come all’età normanna,
pure era trattata con favori eccezionali; non bollo di carta, non
privativa di tabacchi, non coscrizione; ma anche pochissime istituzioni,
cattive strade e gli sconcj d’un Governo lontano. Chi vedesse quell’isola,
già granajo d’Italia, ora stremata di popolazione, sparsa di ruine, con
immense campagne incolte e impaludite, ed altre non pascolate che da
meschini branchi di pecore; chi vi paragoni la spigliatezza degli ingegni,
il loro amor di patria, la risoluta volontà del meglio augurava il momento
ch’ella tornasse centro al commercio del Mediterraneo, e provveditrice
alle navi dirette all’estremo Oriente. Ma l’imputare tutti i mali al
Governo era giusto?

Vedemmo i Siciliani non essersi voluti affratellare alla rivoluzione
napoletana del 1821, così accelerandone il crollo. Le riazioni seguite
ne infistolivano le piaghe; e sebbene Ferdinando II, ch’era nato in
Sicilia, professasse volerle medicare, troppo erano inveterate perchè il
buon volere bastasse. Egli vi destinò vicerè il conte di Siracusa suo
fratello, dal che nacquero speranze volesse farlo re indipendente: ma
poi Ferdinando vi surrogò lo svizzero Tschudi (1835). Se ne invelenirono
gli odj, e di tutto si facea dimostrazione, dell’arrivo d’un magistrato,
di una festa messinese, della morte di Bellini; lo scontento, fomentato
dai nobili, dal clero, dai Gesuiti, talora prorompeva, specialmente nel
37 in occasione del cholera (t. XIII, p. 415). Compressa fieramente la
sollevazione, si cassarono il ministero distinto, che erasi istituito
nel 33, l’amministrazione speciale, le giurisdizioni patrimoniali, la
feudalità; insieme si decretarono trentaquattro strade, nuovo catasto,
lo spartimento delle terre demaniali fra i poveri: ma i decreti erano mal
eseguiti; poi qualunque provvedimento venisse da Napoli era sgradito; il
re, andatovi in persona nel 42, vi fu accolto mutamente; ogni umiliazione
di lui tenevasi come vanto patrio[56]; gl’intacchi fatti alla fedualità
nel 43 spiacquero ai baroni; al popolo le tasse. Le società segrete di
colà non camminavano del passo di quelle del continente, perchè diverse
d’intento, attesochè i Siciliani volgeansi al loro passato, non al
comune avvenire, alla costituzione patria e storica carpita, anzichè
all’idealità italiana; municipali più che nazionali, popolo e aristocrazia
consideravano forestieri i Napoletani. Pure quelle società al fine
aveano preso accordo colle napoletane d’avvicendare la domanda di qualche
franchigia, e d’una in altra procedere fino ad ottenere per entrambe la
costituzione. Ma quando i rancori fermentano, ogni favilla mette fuoco,
per modo che, qualunque sieno le particolarità, la ragione va sempre
divisa tra l’offensore e l’offeso.

Una di queste faville mise fuoco a Messina (1847 2 7bre), e fu repressa
colle armi, ma si raccolse memoria di ciascun _martire_, singolarmente
valutando il silenzio con cui furono celati i complici, malgrado le
minaccie e le grosse taglie del Governo. Contemporaneamente sollevavansi
Geraci e Reggio sotto Gian Domenico Romeo: represse, la testa del
Romeo fu obbligato un suo nipote a portarla attorno; molti ebbero
pene minori. Ma l’eco ripeteva di là dal Faro gli applausi a Pio IX e
all’Italia; e ad imitazione di Napoli, le passeggiate alla villa Giulia
e il teatro risonavano d’inni; e vi figuravano i colori italiani. La
stampa clandestina ripeteva i diritti antichi, e finalmente eccitò a
sollevarsi. Al 12 gennajo 1848, festivo pel re, Palermo insorge; Trapani,
Messina, Catania, Girgenti v’acconsentono; vincitori alle barricate,
istituiscono un Governo provvisorio preseduto da Ruggero Settimo, che
era stato luogotenente generale nella rivoluzione del 20: accorre gente
dalla campagna, si disarmano i pochi soldati, i briganti Scordato e
Miceti mutansi in eroi; si allestiscono le _compagnie d’armi_, antica
istituzione, che fa garante ciascun distretto dei furti commessi in
campagna; e chiedesi governo separato per la Sicilia.

Il re acconsente che la giustizia sia amministrata in tutti i gradi
nell’isola, e impieghi civili e dignità ecclesiastiche non sieno date
che a Siciliani: non per questo gli acqueta; onde fa domandare che
cosa vogliano, ed ha per risposta: — Non si poseranno le armi, se non
quando la Sicilia unita in generale parlamento, acconcerà ai tempi la
sua costituzione del 1812». A un Governo in tali frangenti che resta?
se manchi d’armi come la Toscana o il papa, abbandonerà il paese alla
anarchia: se ne abbia, sentirà ch’è primo diritto d’un ente qualunque il
conservarsi, e userà la forza, almeno per chiarirsi se quella sia volontà
nazionale o sommossa di pochi. Il re di Napoli mandò il conte d’Aquila
suo fratello con nove battelli a vapore, che, non valendo le buone,
cominciarono a bombardare Palermo (15 genn.): ma ecco i consoli stranieri
interporsi, e far sospendere le ostilità, l’andazzo d’allora essendo sul
dar ragione ai popoli[57].

L’Italia ruggì allora contro il _re bombardatore_: Napoli, infervorata
dalla resistenza de’ Siciliani, domandava con applausi e con fischi
quelle riforme, per le quali già tripudiava l’Italia: il re cominciò a dar
soddisfazione congedando i due capri emissarj, il suo confessore Cocle e
Del Carretto ministro della Polizia. Costui, che da diciassette anni lo
serviva con quello zelo che affronta la pubblica esecrazione, trovossi
improvvisamente gettato in una nave, senza tampoco l’addio domestico. Il
battello che lo portava toccò a Livorno chiedendo carbone e acqua; ma la
plebe a tumulto il negò, e per quanto il capitano facesse protesta contro
un atto inumano che metteva a repentaglio il suo legno, e per quanto il
ministro Ridolfi avesse pubblicato che «il Governo non transigerebbe mai
col tumulto», fu duopo rassegnarsi, e rimettere alla vela. A Genova nuovo
furore, e gran fatica si durò perchè i fischi non si risolvessero in
peggio: alfine potè approdare in terra francese.

A Napoli le concessioni amministrative degli altri paesi non occorreano;
già vi era la consulta di Stato, già i consigli provinciali, già la
guardia civica; laonde il re non ebbe a crearli, ma solo ad estenderli.
Quanto però veniva da lui doveasi prendere in sinistro; si dichiararono
scarse quelle concessioni; la libertà della stampa fu giudicata un
lacciuolo, l’ampia amnistia pei rei di Stato fu disgradita; chiamasi un
ministero (27 genn.) di liberali, e sin di fuorusciti, ma non basta;
già si grida «Viva la costituzione»; ma il popolo risponde «Viva il
re»; ne nasce un’avvisaglia, ove s’impegnano le guardie civiche contro
le truppe: e il re, vedendo non potrebbe reprimersi quel moto senza
sangue, benchè padrone dei forti che possono distruggere Napoli, benchè
le potenze nordiche il dissuadessero[58], non si limita più a riforme e
allargamenti come gli altri principi, ma «avendo inteso che gli amati
suoi sudditi desiderano garanzie ed istituzioni conformi all’attuale
incivilimento», di propria volontà concede una costituzione, «nel nome
temuto dell’onnipotente santissimo Dio uno e trino, a cui solo è dato
leggere nel profondo de’ cuori, e che egli altamente invoca a giudice
della purezza di sue intenzioni e della franca lealtà onde è deliberato
di entrare in queste novelle vie d’ordine politico».

Subito s’istituisce un nuovo ministero (28 genn.), preseduto da
Serra-Capriola, e composto di Dentice, Torrella, Garzía, Bonanni, Bozzelli
e del siciliano Scovazzo, sovrapponendo alla Polizia Carlo Poerio, figlio,
nipote, fratello, cugino di esuli, tre volte carcerato egli stesso. Al
Bozzelli, scrittore di materie letterarie e rifuggito in Francia per
diciott’anni dopo il 1821, fu dato incarico di stendere la costituzione,
ch’egli modellò sulla francese, su quella cioè che in trent’anni non avea
ridotto a quiete la Francia, e che anzi stava per andare sobbissata[59].
Essa (10 febb.) portava monarchia costituzionale, religione cattolica;
il potere legislativo diviso fra il re e il Parlamento composto di
due Camere, una di pari, eletti a vita dal re fra’ possessori di almen
tremila ducati di rendita tassabile, l’altra quinquenne, d’un deputato
ogni quarantamila abitanti, possessore, non impiegato amovibile, nè
ecclesiastico; indipendente il poter giudiziale; l’esecutivo sta nel re e
ne’ ministri responsali, che han la parola ma non voto in Parlamento; non
più milizie forestiere; guardia nazionale, con uffiziali elettivi sin al
capitano, e da quello in su eletti dal re; diritto di petizione; eguali i
cittadini in faccia alla legge; libera la stampa, eccetto che in materie
religiose; abolita ogni condanna per reati politici. Dappoi il re stesso
decretava (23 febb.) che alla bandiera borbonica si annestassero i tre
colori italiani.

Date le riforme a Roma, dovettero darsi pertutto; data la costituzione a
Napoli, fu inevitabile anche altrove, per quella solidarietà d’interessi
che alcuno s’accontenterà di qualificare per moda. Che se ne pigliarono
sgomento coloro che credeano doversi il popolo educare poco a poco alla
vita politica, e misurargli a miccino le libertà, gl’infervorati ne
tripudiarono; nella voltabile ammirazione de’ giornalisti il nome del re
bombardatore fu sublimato di sopra dei tre riformatori, sebben insieme
colla _italica Palermo_, con quella Palermo che gli opponeva rifiuto
e bestemmia. Gli applausi al nuovo feticcio divengono pretesto a grida
violente in Livorno; si domanda la liberazione di Guerrazzi, che subito
diviene capo d’un comitato; Montanelli, Ricci, Fabrizi predicano ne’
circoli; altri ubriacano nelle gazzette: il simile succede altrove, e se
il «Viva Pio IX» avea sgomentato gli assolutisti, il «Viva Ferdinando»
fece comprendere ai principi ch’era inevitabile l’imitarlo.

Già la pietosa maestà di Pio IX era soccombuta alla piazza, e la congiura
delle ovazioni eragli riuscita più micidiale che non a’ suoi predecessori
quella dei coltelli. Non per mezzo della consulta, ma di Ciciruacchio
(1847 27 8bre), gli si erano fatte pervenire «domande del popolo romano»,
le quali esigevano libertà di stampa, remozione de’ Gesuiti, lega
italiana, emancipazione degli Israeliti, scuole di economia pubblica,
colonizzare l’agro romano, abolire il lotto, far pubblici gli atti della
consulta, scarcerare ventiquattro detenuti politici, armarsi, frenare
gli arbitrj, abolire gli appalti camerali e i fedecommessi, riformare
le manimorte. Gli arruffapopolo già poteano minacciare, già impiantare
il despotismo. I giornali, fra cui gittava solfanelli Pietro Sterbini,
diroccavano una dopo l’altra le reputazioni delle persone che il papa
metteasi attorno; vollero l’armamento, e perchè i ministri disapprovavano,
fu proposto di cacciar a furia essi, i Gesuiti e gli austriacanti; il
senatore dovè prometterlo, e Ciciruacchio disse: — Mi fo garante io che si
daranno ministri secolari». Fra costoro rimane appena luogo a Pio IX di
dire: — Non badate a questo grido ch’esce da ignote bocche a spaventar i
popoli col titolo d’una guerra straniera. È inganno di chi vuole spingere
col terrore a cercare la salvezza pubblica nel disordine, confondere
col tumulto i consigli di chi governa, e colla confusione apparecchiar
pretesti a una guerra che altrimenti non ci si potrebbe rompere. E chi
l’oserebbe finchè gratitudine e fiducia congiunga le forze dei popoli
colla sapienza de’ principi? Gran dono del Cielo che tre milioni di
sudditi nostri abbiano ducento milioni di fratelli di ogni lingua! Questo
fu sempre la salute di Roma; questo fece che non mai intera fosse la ruina
di Roma; questa sarà la sua tutela finchè vi sia quest’apostolica Sede.
Benedite, gran Dio, l’Italia, e conservatele il preziosissimo dono della
fede».

Parlava il pontefice, e volea sentirsi il principe, anzi il tribuno; e
mutilando il concetto, quel suo _Benedite l’Italia_ fu ripetuto come un
invito alla rigenerazione nazionale; gli fu chiesto «venisse a benedire,
non più circondato da preti, ma da uffiziali della guardia civica»; ed
egli rispose: — Siate concordi, non levate certe grida che sono di pochi
non del popolo; non fate domande contrarie alla santità della Chiesa, che
non posso, non devo, non voglio ammettere. A questo patto vi benedico».

Mentre Romagna e Toscana barcollavano ad ogni vento per mancanza di
pubblica forza, il Piemonte ben in armi pareva sicuro dall’imperio
della ciurma. Girava però tale influsso, che la forza bisognava chinasse
all’opinione. I libri del Gioberti aveano popolarizzato l’odio ai Gesuiti,
e l’insultarli pareva eroismo: la città di Fano cacciolli a furore:
Ancona e Sinigaglia fecero altrettanto cogl’Ignorantelli che diceansi
loro rampollo: le imitarono Faenza, Camerino, Ferrara: a sassi e razzi
vennero presi in Sardegna, talchè dovettero imbarcarsi per Genova; ma
quivi trovansi assaliti nel loro convento, e mandati a preda. Nella
patria poi del Gioberti tenevansi insulti alle case loro e delle Suore
del Sacro Cuore: Carlalberto assicurò nol comporterebbe mai; eppure la
sera cominciò la chiassata, nè più cessò finchè esse suore e le allieve
non furono disperse. Al domani avviene altrettanto de’ Gesuiti, nelle cui
case esultò la tregenda, menata poi or sotto la finestra del governatore,
or dell’arcivescovo, ora dei Saluzzo, or della beneficentissima matrona
che dignitosamente ricoverava Silvio Pellico, il quale scotendo il capo
ci diceva: — Le grandi imprese mal s’inaugurano con atti di debolezza e
d’ingiustizia».

Ed ecco ventimila firme giungere da Genova per domandare la guardia
civica e l’espulsione de’ Gesuiti: la deputazione non fu voluta ricevere
dal re, ma i sommovitori la sorressero, a segno che il re dovette
sciogliere la Compagnia di Gesù. Si gridò che bisognava ovviare a queste
incondite manifestazioni coll’armare la guardia civica: il re si pose
al niego, trovandola superflua in paese di tanti armati; eppur dovette
consentirla, e n’ottenne applausi, dai quali però egli ancora tenevasi
quasi rimpiattato, seco stesso librando le paure.

La Tour, governatore di Torino, maledetto come riazionario, cantò
a Carlalberto ch’era impossibile dondolarsi fra il despotismo e il
Governo costituzionale. In fatto il re non era protetto dallo schermo
de’ ministri; la stampa mettevalo in compromesso coi vicini perchè
sorvegliata, mentre la sorveglianza non ne impediva le trascendenze; le
domande cresceano, l’opinione si infervorava, iteravansi le dimostrazioni.
Alfine Pietro figlio di Santorre Santarosa persuase al municipio di
domandare al re la costituzione: e Carlalberto, esitato lungamente contro
gli scrupoli della propria coscienza e le promesse forse date al letto di
morte del suo predecessore, in fine, sentito molti consiglieri e preti,
confessatosi e comunicato, promette la costituzione (8 febb.), palliandola
col nome di statuto, e professando darla di regia autorità, onde non
teneasi obbligato a giurarla.

Non mi chiedete i tripudj: ma perchè qualche coccarda tricolore compariva,
il re dichiarò non ne soffrirebbe altra che la intemerata e vincitrice
di Savoja. Pochi giorni, e tutti i suoi soldati stessi porteranno la
tricolore.

Pietro Leopoldo già avea pensato dar una costituzione alla Toscana;
Ferdinando III, quando i membri del consiglio generale di Firenze se
gli congratulavano del ritorno al 7 gennajo 1815, promise «andrebbe poco
tempo senza che il suo popolo possedesse costituzione e rappresentanza
nazionale»; quando nel 1820 udì la sommossa di Napoli, disse ai
ministri: — Ehi signori, se s’avrà a dar costituzione, si ricordino
non voglio essere degli ultimi». Leopoldo II seguiva dunque gli esempj
domestici nel concedere la costituzione al suo popolo. Insistevasi di
foggiarla sopra la consultiva di Pietro Leopoldo, modificata in modo da
attribuirle pure l’iniziativa: ma i giornali e la piazza non lasciano
tempo a discutere, onde s’adotta qui pure la francese, col solo divario
che ogni elettore sarebbe eleggibile, ed elettori sarebbero non solo i
possidenti, ma negozianti, industriali, dotti; i deputati durerebbero tre
anni; e fu proclamata (17 febb.), essendo ministri Ridolfi sugli affari
interni, Bartolini sugli esterni, Serristori sulla guerra, Baldasseroni
sull’erario, Cempini presidente.

Fin il principe di Monaco diede la costituzione. Pio IX per la prima volta
non era iniziatore de’ movimenti, aveva professato non isminuirebbe mai la
ricevuta potestà, e tutti diceano la dominazione pontifizia non comportare
restrizioni rappresentative. Ma il municipio, spinto dai carnevaleschi
schiamazzi, gli mostrò la necessità di fare quel che gli altri; ond’egli
combinò un nuovo ministero, con Recchi sugli affari interni, Sturbinetti
sulla giustizia, Minghetti sui lavori pubblici, Aldobrandini sulla
guerra, Pasolini sul commercio, Galletti sulla sicurezza interna, tutti
secolari, e preti il Morichini sull’erario, il Mezzofanti sugli studj,
l’Antonelli sulla diplomazia; consultò il concistoro principalmente sul
come conciliare la libera stampa colla censura ecclesiastica, salvare le
giurisdizioni del sacro Collegio, lasciar libero il principe nel seguire
la politica che più complisse al bene della santa Sede, infine rattenere
le assemblee legislative dai punti che si riferissero a canoni e statuti
apostolici. Ma poichè i cardinali furono unanimi nella possibilità d’uno
statuto (14 febb.), Pio IX professò: — Purchè salva la religione, non ci
rifiuteremo a veruna innovazione necessaria».

All’intento dell’unità italica sarebbe stato a desiderare uniformi
le costituzioni; ma poco differivano l’una dall’altra, ricalco della
francese: due Camere; ministri responsali; d’elezione regia i senatori;
elettori de’ deputati i censiti; libertà di stampa e di petizione;
inamovibilità de’ giudici: solo Roma, per suggerimento del padre Ventura
che pur volea qualche resto delle forme teocratiche, conservava come
terza Camera il concistoro de’ cardinali, elettori del sovrano e da questo
eletti a vita, che in secreto decidevano sulle risoluzioni del Parlamento;
oltre che riservava a sè gli affari misti, o concernenti i canoni e la
ecclesiastica disciplina. Mantenevasi la censura ecclesiastica, nè i
consigli poteano proporre legge che concernesse canoni e discipline.

Lo statuto dato da Roma parea mettere la religiosa sanzione a quello
degli altri paesi: onde fu un’ebrezza tra la folla; mentre quei che
folla non vogliono essere discutevano di libertà, e dei fondamenti
e delle forme di essa; analizzavano e paragonavano le costituzioni;
esprimeano pubblicamente i desiderj fin allora repressi; chiedevano ed
ottenevano ministri nuovi, non più a talento del principe, ma a fiducia
de’ cittadini, e noti all’Italia per antica venerazione, ed altri pur
allora richiamati da diuturni esigli; lodavansi i principi dei freni che
poneano a se stessi, volendo che la legge non fosse atto di potenza ma
di ragione; e quasi possa alle cancrene rimediarsi coll’acqua di rose,
pindarizzavasi un beato accordo di popoli e principi, della forza e del
pensiero, nell’acquisto della libertà e dell’indipendenza.




CAPITOLO CXCI.

Le insurrezioni.


A questo accordo di principi e popoli per la rigenerazione nazionale, chi
penserebbe opporsi? L’Austria sola: ma questa non potrebbe spiegare le
sue forze per reprimerli, fin a tanto che non si rompesse guerra; e guerra
non si romperebbe, attesa la moderazione dei popoli, educati alla saviezza
dalla sventura _e dai giornali_. Ma senza guerra come cacciarla oltr’Alpi?
nessuno vedevane modo, eppur tutti se ne confidavano; non ragionavansi
le difficoltà, si negavano; e la speranza occupava gli animi come una
di quelle idee fisse che l’allucinazione traduce in realtà. Ed ecco in
quel ridente orizzonte scoppiare il turbine, una nuova rivoluzione della
Francia.

Da un re portatole dagli stranieri, questa accettò come umiliazione la
Carta del 1815; e invece di svilupparla, la spiegazzò; poi come vide i
Borboni intaccarla, li cacciò, sovvertì quanto avea rifondato in quindici
anni, moltiplicò sangue e ruine, conculcò glorie; e tutto ciò per fare
della Carta stessa un’edizione con varianti. Parve essa raggiungere la
massima libertà ottenibile ne’ Governi rappresentativi, tutto potendo la
legge, nulla il re, il quale regnava non governava; illimitata la libertà
della parola, dell’associazione, dello scrivere, dell’adorare; tenue
il censo richiesto per esser elettore ed eletto. Luigi Filippo, posto
sul trono come una barriera contro la repubblica, riuscì a rattenerla
per diciassette anni; nei quali aveva egli rattoppato gli sdrucci che
ogni rivoluzione fa, non diminuiti i debiti ma cresciuto credito alle
finanze, ravviato il commercio, estesa la prosperità materiale favorendo
l’aristocrazia mercantile, surrogatasi alla patrizia; lettere, arti,
scienze incoraggiò sin a farne una potenza nei giornali e alle Camere;
insieme mantenne la pace fra pressantissime incidenze di guerra; restaurò
la marina in modo, da comparire onorevolmente nei mari più distanti. Pure
il suo Governo, per volger di tempo, non si consolidava, come quello che
unica origine e fondamento avea la rivoluzione; chi in questa non erasi
acquistato una nicchia, martellava a prepararsene un’altra; i diseredati
della quale ne solleciterebbero una terza. Il Governo stesso, nelle arti
con cui era costretto accaparrare le elezioni, nella condiscendenza che
doveva a’ suoi creatori e sostegni, nel dover rannodare alla propria
durata i grandi interessi e i minuti, poneva mente a tutt’altro che alla
moralità; vacillava condiscendendo, anzichè progredire resistendo; e dopo
diciott’anni si trovava in aria come al principio. L’incremento materiale,
così sproporzionato al morale, portava un’ebrezza di desiderj, una bolimía
d’oro, tutti volendo acquistare, tutti godere, qualunque ne fosse la
via: deperito ogni carattere privato e pubblico, non più rattenuti da
riflessi superni o da ricompense postume, anzi istigati da una letteratura
sistematicamente depravatrice. Allora moltiplicate le frodi, e i delitti
codardi e i feroci sin tra persone elevate, il cui scandalo era aumentato
dalle difese pubbliche e dall’interesse che i giornali e il bel mondo
prendevano per scellerati.

La moltitudine più sana, che anzitutto vuol pace e ordine; i trascuranti
che imbellettano di moderazione l’accidia; gl’interessati a mantenere
l’impiego, la pensione, il posto in palazzo o al Parlamento, bramavano
s’assodasse quel dominio, ma il bramavano fiaccamente, mentre operosissimi
lo sottominavano i partiti. Contro la vita d’un re eletto dal popolo,
lealmente liberale, e modello di virtù domestiche, ripeteansi attentati,
più che contro qualsiasi tiranno. Ai Legittimisti, confidenti nel
diritto divino, si rannodavano gli antichi nobili e parte del clero.
Repubblicane professavansi le società secrete, i giovani, gli artigiani,
i Furieristi. Con miglior carta ormeggiavano i Buonapartisti; e se
quanto i Mazziniani parvero ridicoli i tentativi di Luigi Napoleone,
che, fallito in Italia, due volte avea presunto, col proprio nome e
con un pugno d’amici, sovvoltare la Francia, ove non trovò soccorso nè
simpatia, bensì carcere e perdono, l’avvenire attestò quanto quel fuoco
sotterraneo operasse. Il Governo, battuto dalla stampa e dalla calunnia,
liberalissime e provocanti, dai rifuggiti d’ogni favella, dai cospiratori
d’ogni gradazione, non che predisporre l’avvenire, poteva a stento
orzeggiare giorno per giorno. Il Parlamento, cui uffizio sarebbe stato
condur il paese a riformarsi senza scosse, irritava colle declamazioni
e col continuo imputare al Governo d’avvilire la Francia nelle relazioni
esterne, di comprimerla nell’interno progresso; balzavasi da un ministero
all’altro senza un perchè, e sempre lamentando che i surrogati divenissero
peggiori de’ precedenti. Il più lungo fu quello dello storico Guizot,
carattere più rigido che nol soffrissero le passioni pruriginose, più
incorrotto che i suoi competitori, ostinato a voler la pace, e come
mezzo a ciò, consolidare la nuova dinastia; ligio a questa, ma operando
costituzionalmente e colla maggiorità delle Camere.

Nel sommovimento cominciatosi in Isvizzera, fra gli Slavi e da noi, il
Governo assunse uffizio di moderatore: ma la nazione si rinfocò, quasi
recassesi a onta l’esser precorsa da altri nella politica arrischiosa e di
eventualità; imitando gl’Italiani, propagava il fermento coi banchetti,
dove il ravvicinamento e i vini incalorivano i discorsi, esagerati come
di chi parla a pochi, senza mandato nè contraddizione nè responsabilità:
ma quei brindisi, ripetuti sui giornali, fragorosi conduttori
dell’elettricità rivoluzionaria, acquistavano una rappresentanza
diversa dalla legale. Il re disapprovò tali arti, nè però si rassegnava
a sagrificare il ministero alle chiassate. Un banchetto in Parigi di
centomila persone fu il segnale d’una rivolta, dove a mano armata e colle
barricate si cominciò a chiedere la riforma elettorale e cangiamento
di ministero[60], e si finì coll’acclamare la repubblica e un Governo
provvisorio (24 febb.).

Non dunque l’inesaudito bisogno di ragionevoli emendamenti, non il
generoso desiderio di libertà e dignità, bensì il sussulto di una
sconsiderata e tardi ravveduta minorità capovoltava la Francia,
cancellando ogni diritto ereditario, e fin l’ultimo privilegio politico,
quello del censo, per affidare la decisione a quel voto universale, che
colloca la ragione e la giustizia nel numero. Sconnesse le antiche, nè
operando ancora le nuove istituzioni, una plebe iraconda, avida, criminosa
rimase despota di Parigi e della Francia; il mondo, che alla parola di
repubblica avea sperato la grande pacificazione della democrazia, si
sgomentò quando la vide, da rigeneratrice della dignità umana, cangiarsi
in sovvertitrice della società e di ciò che l’uomo ha più sacro, la
famiglia, la proprietà.

Come nel 1830, ogni paese risentì di quell’urto; e dove fin là erasi
aspirato ad acquistare o realizzare il Governo costituzionale, si prese ad
abbatterlo; il rinascimento italiano da difensivo si mutò in aggressivo.
Le potenze straniere aveano dato mano al movimento pacifico, esortato i
popoli a fidare ne’ principi, promesso a questi non solo l’appoggio morale
della parità d’istituzioni, ma anche il materiale, caso mai l’Austria
attraversasse il quieto decorso. L’importanza consisteva dunque nel non
turbare la pace: quando l’Austria la turbò coll’occupare Ferrara, trovossi
vinta e costretta a recedere: guaj al momento che le fosse ridonata la
superiorità col prendere noi l’offensiva!

Ma la Francia repubblicana come intenderebbe i suoi politici doveri?
Lamartine, che colla poetica frase avea fatto aggradire il Governo
repubblicano, comparve eroe nel sostenerlo contro il furore plebeo; ma
costretto a condiscendere a tutti, e adulare come ogni potere nuovo, e
sprovvisto di tutt’altra idea che quella dell’opposizione, trovavasi
incapace di riordinare, e di concepire un avvenire altrimenti che
fantastico. Qual ministro degli affari esteri, all’Europa dichiarò (2
marzo) che, a differenza di quella del 1793, la repubblica non minacciava
ai Governi, comunque fossero costituiti, conoscendo pericolosa alla
libertà la guerra; considerare i trattati del 1815 come non più esistenti,
ma rispettare le circoscrizioni territoriali stabilite in essi; se però
qualche nazionalità oppressa si svegliasse, «se gli Stati _indipendenti_
d’Italia fossero invasi, od impacciate le interne loro trasformazioni,
Francia tutelerebbe i legittimi progressi».

Dire quanto basti per sospingere i passionati, e intanto riservarsi
pretesti onde rinnegarli; sopreccitare ne’ popoli l’amore della libertà
e indipendenza, eppure assodare i trattati che le conculcavano; estendere
la periferia morale, e impedire la materiale trincerandosi nell’amor della
pace, era indegno d’una gran nazione. Vero è che il Gioberti, testimonio
degli errori parigini, scriveva qua lettere della sua solita esagerazione
contro la repubblica; i festeggiamenti fattine a Roma malgrado il papa,
indicavano la mano di un Buonaparte che ne sperava profitto; i poveri,
attruppatisi a Napoli per chieder lavoro, a Firenze per non anticipare le
pigioni, a Genova per partecipare ai guadagni de’ negozianti, palesavano
una feccia che presto al fermento sormonterebbe. Ma i popoli restano
sordi agli avvertimenti per non badare che alle catastrofi; e inebriati
da quell’esempio, e illudendosi su quelle parole, credettero mature le
sospirate franchigie.

Se il desiderio d’italianità nella restante penisola esprimevasi in
applausi ai regnanti (1847), nel Lombardo-Veneto concentravasi in fremiti.
Delle riforme amministrative concedute ai vicini già era in possesso da
gran tempo questo paese, mercè l’antica tradizione municipale; nè qui si
cercava rigenerare, bensì distruggere il Governo: scopo determinatissimo,
proponendo l’acquisto di quella nazionalità, senza cui non parea
possibile libertà soda, potente dignità, verace progresso. Ma non se ne
vedea modo che in un subbuglio europeo. Aspettando il quale, la folla
coglieva ogni destro di esprimere avversione ai dominanti, simpatia ai
principi italiani, un accordo di volontà, ben diverso dalle congiure,
qui men che altrove opportune dove lo scopo era palese, e robustissima
la repressione[61]. Gaetano Gaisruk, arcivescovo di Milano, era vilipeso
per iscarsa dottrina e ignoranza di ecclesiastiche discipline, ed esoso
come straniero fin quando la sua morte fece rendere giustizia a una
generosissima beneficenza, a un sentimento di giustizia che non lasciavasi
raggirare dai circostanti, nè da influssi d’anticamera, di sacristia,
di consorzj; alla sua franchezza di esporre rimproveri ai subalterni e
ragioni ai potenti; alla cura degl’interessi generali di questo paese che
forse non amava, e da cui non era amato. Vero è che non sapeva di lingua
e zoppicava di stile.

Ai funerali di lui proruppero il vilipendio vulgare e poetici insulti;
poi si spiegò così solennemente il voto d’avere un prelato italiano, che
l’Austria vi destinò il bergamasco Romilli. Nè le virtù, nè il sapere,
nè l’attitudine e la prudenza di lui erano conosciuti: che importava?
egli era italiano, e bastò perchè, come a Pio IX, così a lui si facessero
feste strepitose (5 7bre), con iscrizioni allusive a patria, a Italia.
Ma i _Viva_ non furono accompagnati dai soliti _Mora_; la turba,
dall’applaudire al palazzo arcivescovile, passò al fischiare sotto le
finestre ove agonizzava uno degli uomini più splendidamente benefici[62];
poi agli inni a Pio IX seguirono i disordini che riscontrammo in ogni
altro luogo, e come in ogni altro luogo i poliziotti dovettero tirar
le sciabole: prima volta che la turba milanese affrontasse la forza,
prendendola in disprezzo perchè la sua moderazione credette impotenza.

Poco appresso adunavasi il settimo Congresso scientifico a Venezia; e
sebbene vi mancassero Piemontesi, Toscani, Romagnoli, atteso che già
possedevano quello a cui i Congressi erano avviamento, parve injettare la
vita in quella città man mano che procedeva: le discussioni scientifiche
ed economiche assunsero importanza politica; la quistione delle strade
di ferro, che già avea agitato Genova, qui fu colta con tale aspettativa,
che a pena agli ascoltanti bastò la sala del gran Consiglio: la quale poi
nell’adunanza finale, cogli applausi dati a qualche scienziato, e negati
al vicerè, vide prorompere manifestamente la volontà paesana.

Sentì il vicerè l’insulto, e ne fece cadere la vendetta sopra
l’applaudito: ma che ivi si concertassero i capipopolo per iniziare
la rivoluzione, è falso[63]. Nè società segrete o comitati direttori
promossero le dimostrazioni, che da quel punto si moltiplicarono in tutte
le città (1848). La più significativa fu l’astenersi dal fumare: sucida
abitudine venuta qua d’oltr’Alpi, e il cui abbandono poteva esprimere e
un ritorno all’urbanità, e che la gioventù possedeva volontà unanime,
e conosceva la forza dell’abnegazione; due qualità indispensabili al
risorgimento nazionale.

L’astinenza volle spingersi fino a violentare altri; e sia vero o no che
i militari o la Polizia mandassero attorno fumanti provocatori, ne nacque
occasione (5 genn.) di trarre le sciabole; il popolo fu ferito e calpesto,
come sempre, e come già in tutti gli altri paesi d’Italia; il numero
delle vittime fu esagerato, ma compiante per tutta Italia quai martiri;
le declamazioni de’ circoli e de’ giornali e le esequie drammaticamente
ripetute in ogni angolo affondavano sempre più l’abisso tra noi e gli
stranieri.

La Congregazione Centrale, corpo che rappresentava il paese e che non
aveva sino allora conosciuto altro dovere che di eseguire la volontà
superiore, sentì pur quello, impostogli dalla propria istituzione,
d’ammonire il potere, d’iniziare miglioramenti, di presentare rimostranze.
Il bergamasco Nazzari ne sporse una, dove non chiedeva innovamenti,
ma l’attuazione della sovrana ordinanza: che se altre in altri tempi
l’autorità aveva lasciate cascare, l’aura odierna impose che la petizione
fosse accolta, appoggiata, spedita a Vienna. Allora la paura dell’opinione
pubblica assunse la maschera di coraggio civile; le Congregazioni
provinciali e le municipali e le Camere di commercio presentarono istanze
e richiami, esitanti fra il rispetto abituale e una risolutezza insolita:
pure restringevansi prudentemente a chiedere si mettesse in atto ciò che
già era in decreto, o a trarne le legittime conseguenze. Anche gli scritti
di qualcuno che esponeva per la stampa estera la condizione e i bisogni
del paese, non parlavano che delle riforme necessarie per riconciliare la
provincia coi dominatori, e far meno indecorosa la servitù.

Pari agitazione legale nel Veneto; e citando leggi inosservate, si domandò
una censura meno assurda, e di partecipare al decidere sugli interessi
immediati del paese; insomma che, rientrando nelle vie della morale e
della civiltà, si togliesse l’onnipresenza deleterica della Polizia,
odiata più veramente che non il Governo.

Secondare questo movimento legale sarebbe stato il modo di calmarlo
sinceramente, o fintamente eluderlo; ma il vicerè conosceva solo arti
diverse: il Nazzari esprime i voti della rappresentanza paesana, ed esso
ordina sia sorvegliato dalla Polizia: Manin e Tommaseo espongono domande
a Venezia (gennajo), ed esso li fa arrestare: crescendo l’irrequietudine
di Milano, promette chiedere ampj poteri da Vienna per soddisfarvi, e
gli ottiene, e bandisce si rassicurino perchè omai egli si recherà in
mano le redini dello Stato; e la notte stessa manda ad arrestare persone,
diversissime d’indole, di relazioni, di costume, e senza pure una parola,
deportarle in Germania. Contemporaneamente fecero dal mitissimo imperatore
dichiarare (22 febb.), lui avere operato abbastanza pei popoli, nè essere
disposto a ulteriori condiscendenze; affidarsi nel valore delle sue
truppe; e gli chiesero l’arbitrio d’arrestare, di deportare, di bandire
la legge marziale.

Questi atti tolsero ogni confidenza nel Governo, che non trovando chi
cospirasse, perseguitava, eppure tremava davanti a un popolo che irritato,
non sbigottito, opponeva il silenzio e l’astinenza.

Un potere minacciato diviene violento; parlavasi di truppe sempre
nuove giungenti in Italia, di promessi saccheggi, di bombardamenti al
minimo agitarsi. E per verità, risoluti com’erano a reprimere colla
forza, sarebbero dovuti porsene in grado[64], dacchè fiutavasi in aria
la rivoluzione a segno, che Metternich ripeteva a tutti gl’incaricati
d’affari, — Sta primavera in Italia vi avrà bôtte e ferite»; poi il vicerè
partiva, lasciando la legge stataria come suo legato a un paese dov’era
seduto vent’anni. D’altro lato susurravasi d’armi ammassate in Milano,
di corpi predisposti dai profughi ai confini, di incitamenti uffiziali
venuti dalla Francia, dall’Inghilterra, più dal Piemonte: eppure il
successo chiarì che nè armi v’avea, nè intelligenze, nè preparativi; gli
stessi Mazziniani aveano di quei giorni a Parigi preso accordo di non
alterare colle loro mosse il quieto svolgimento italiano, e la Giovane
Italia erasi adagiata nelle braccia di un’_Associazione nazionale_. Il
martirio si venera, ma non si predica: e quale onest’uomo assumerebbe
la responsabilità d’avventare il paese inerme nel terribile esperimento
d’un’insurrezione contro un esercito sì bene disciplinato? Pure la
pazienza cessa quando cessa la speranza, e giunge un’ora in cui per le
nazioni l’obbligo della fedeltà cede al diritto d’acquistare la sicurezza
che più non trovano nell’ordine stabilito; e quest’ora la Provvidenza la
batte ineluttabilmente. E come i colpi provvidenziali scoccò d’onde meno
sarebbesi aspettato.

Vienna, città che credevasi ridotta materiale nei godimenti, e
particolarmente divota ad una dinastia che la faceva capo di un grande
impero, erasi stancata dello stupefacente assolutismo di un ministro,
che facendo sinonimi governare e comprimere, catalogando gli uomini
secondo quel che pagavano, riducendo il Governo a doganieri, burocratici,
spie e soldati, privavalo della sua più nobile qualità, l’iniziativa;
dei sudditi spodestava le volontà, e scroccando il nome di accorto e
robusto coll’impedire ogni movimento, lasciossi sopraggiungere da uno di
que’ turbini, che cogli abusi svelgono anche le istituzioni. Ambiziosi
di palazzo e di gabinetto secondarono gli aliti liberali, già incitati
dalle diatribe della Germania settentrionale, poi dai movimenti slavi
e dalla rivoluzione francese: la Boemia e la Gallizia avevano mandato
a chiedere libertà di stampa, d’insegnamento e d’altro: un proclama
dell’ungherese Kossuth allora allora divulgato, ove si chiedeva che
l’impero si riformasse, alle singole nazionalità il governarsi, e
congiungendole in federazione, assegnò più preciso scopo alle domande
della Società Politica e della Industriale di Vienna, e degli studenti
che inanimati dalla sollevazione di quelli di Monaco, proclamarono una
petizione nell’aula universitaria, e vollero portarla alla Corte (13
marzo). Questa oppose il niego, poi i sopratieni, ma il popolo tumultuava;
gli eserciti stavano lontani; la piccola guarnigione poteva esser presa
in mezzo dagl’insorgenti: i quali, inviperiti da alcuni colpi da essa
tirati, mostrarono inaspettato coraggio e impetuosa fermezza; e mentre i
ministri e la Corte vacillavano in quell’inaspettatissimo accidente, si
ottenne fosse espulso Metternich, e per tutto l’Impero libera la stampa,
guardia nazionale, un’assemblea generale per formare la costituzione; e
il buon Ferdinando proclamava: — Seriamente, solennemente, e con sincera
soddisfazione andai incontro ai voti del mio popolo, concedendo una
costituzione, ch’io riguardo come l’atto più soddisfacente della mia
vita». Applausi, abbracci, inni festeggiano l’affratellamento; i liberali
esultano del loro trionfo, e frenano la plebaglia ladra; e la Corte,
affidando il ministero a Pillersdorf e ad altri onesti della vecchia
scuola, spera pure col tempo rivalere contro le esigenze superlative.

Il telegrafo portò in Lombardia (17 marzo) quelle concessioni viennesi;
e la loro dissonanza dai minacciosi rifiuti dei giorni precedenti vi
dava l’aria d’un’inevitabile necessità; l’Austria doversi trovare agli
estremi se mettevasi per una via da lei esecrata, e su cui non era
possibile durasse. Pertanto alle fantasie già bollenti s’offre l’incentivo
dell’occasione: preceduti dalla rappresentanza municipale, i Milanesi
vanno a domandare armi per la guardia civica; e ne hanno la promessa,
fra i _Viva_ e le coccarde; ma quando convengono al palazzo municipale
per riceverle, eccoli assaliti dalla truppa, che alla ventura ne coglie
alquanti, e li trascina in fortezza. L’indignazione precipita il moto,
che già era cominciato non senza sangue; l’esultanza si converte in
furore; e mentre alcuni persistevano a consigliare che s’accettassero
le concessioni, e consolidandole si facessero scala a maggiori, altri
elevano le speranze fino all’indipendenza; impennati i tre colori, gridano
«Viva Pio IX, e Morte ai Tedeschi»; ubriachi di magnanima imprudenza
rimettono la suprema decisione ai rischi dell’audacia; e vendicando le
paure di cui si era loro prodigato l’oltraggio, cominciano una battaglia
memorabile (1848 18 marzo). Dappertutto sbarrar le vie con quel che
prima venisse alla mano; e se mancassero le travi, le botti, i lastroni
delle vie, s’accatastano i mobili anche più fini, quasi si sentisse
bisogno di fare più costosi sagrifizj. Capita una carrozza? ne staccano i
cavalli, la rovesciano, la riempiono di ciottoli, di strame, e il passo
è intercetto. Ogni casa era munita a guisa di fortezza; sui davanzali
panieri di sassi, e dalle socchiuse gelosie sporgeano canne mortifere, e
dentro preparati coltroni e materassi per ammortire i colpi o spegnere le
bombe. Alla scarsezza di fucili e di munizioni supplivasi come si poteva,
ammannivasi cotone fulminante, spogliavansi i musei d’armi. I nemici entro
le caserme e dal duomo si difendeano; aprivansi la via sanguinosamente,
traverso una tempesta di tegoli e di ciottoli, per riunirsi attorno
al castello, dove accampavano sotto una pioggia, incessante come il
tempellare delle campane, che mentre infondeano terrore nel nemico,
incoravano gl’insorgenti dando certezza ai lontani che quella chiesa,
quel quartiere erano sgombri. Alcune vie furono prese e riprese; e si
sparse e si credette che i Croati si piacessero di gratuite e raffinate
atrocità, sventrare incinte, crocifiggere od arrostire a lento fuoco i
vecchi, spiaccicar fanciullini, o infilzati portarli sulle bajonette;
altri sepellire vivi, o coprire d’acquaragia e poi infiammare. Quando
poi leggemmo su altri giornali apposte le medesime spietatezze ai nostri
contro i Tedeschi, comprendemmo che è stile delle nazioni odiantisi il
ricambiarsi tali accuse. Certamente abbondarono atti e di ferocia e di
magnanimità; e gran coraggio vi volle perchè con pochi fucili da caccia,
gente da studj, da officine, da bottega per cinque giornate tenesse fronte
a truppe disciplinate. Nè le armi che vantavansi apparecchiate, nè i
fuorusciti o i Piemontesi o i campagnuoli che diceansi aspettar solo un
cenno, comparvero; sebbene per via di palloni areostatici si diffondessero
appelli e incoraggiamenti. Ma neppure il nemico era allestito a difesa;
e le insufficienti e deteriorate sue munizioni, la concorde perseveranza
de’ cittadini, il probabile dilatarsi dell’insurrezione nella campagna,
l’incertezza di ciò che accadeva a Vienna, l’apprensione che i Piemontesi
arrivassero, indussero il maresciallo Radetzky (22 marzo) a ordinare
la ritirata. E Milano si trovò libera, con un’esultanza più viva quanto
meno aspettata, compra con trecencinquanta vite, fra cui quaranta donne
e trentaquattro fanciulli.

Scene simili eransi rinnovate in altre città. A Como uscirono subito
ajuti di rifuggiti dalla Svizzera, e con ostinata battaglia per le vie
costrinsero i Croati a capitolare. Il lago, il Varesotto, la Brianza
disarmano o cacciano gli stranieri, mandano prodi a soccorrere Monza e
Milano: la Valtellina con poca fatica si libera anch’essa, le scarse
truppe lasciando ritirarsi in Tirolo. A Bergamo un cappuccino col
Cristo e la bandiera italiana chiama il popolo alla libertà, e a capo di
risoluti move ad ajutar Milano; mentre in città erano prese le caserme e
l’arciduca Sigismondo, al quale o generosità o abitudine servile concesse
di ritirarsi, come pure ai Croati. A Brescia lasciasi passare il fuggiasco
Raineri, ma si getta un petardo ai Gesuiti; poi appena proclamate le
concessioni, il generale Schwarzenberg scorre la città applaudito: il
reggimento Haugwitz ivi acquartierato era quasi tutto d’Italiani; onde
credendo l’impresa finita, non si corse ad ajutar Milano, e si lasciò
passare senza ostacolo l’arciduca Sigismondo, fuggente da Bergamo.
I paesi della Franciacorta, della Riviera, delle Valli insorgono, e
tutto è libero fino al Tirolo. Allora i Bresciani, accorti del vero,
intimano a Schwarzenberg di cedere, e poichè resiste, cominciano la
lotta, trucidano il suo ajutante Hohenlohe che veniva a esibir pace,
e a gran fatica il generale stesso si sottrae; lasciossi partire con
onorevole capitolazione e coll’armi la truppa, la quale postasi agli
Orzi sull’Oglio, potè spalleggiare la ritirata di Radetzky. Questo,
nottetempo staccatosi da Milano per porta Romana, a Melegnano incontrò
qualche tentativo di resistenza, ma colla severità sbigottì a segno, che
nessuno più gli si oppose su tutta la via, dove ogni pianta, ogni rivo,
ogni ponte potea divenire un ostacolo funestissimo. Solo dopo passato
l’esercito si gridava libera Lodi. In Cremona un reggimento d’Italiani
fraternizzò cogl’insorgenti; sicchè il generale Schönhals capitolato
partiva con quattrocento ulani e la cassa e le armi, lasciando alla città
due battaglioni di fanti, una batteria da campagna. A Pizzighettone fu
presa la fortezza con diciotto cannoni e settecento casse di munizioni,
che furono trasferiti a Cremona, invece di raccorre colà anche gli altri
e chiudere il passo dell’Adda, o ingrossare al ponte di Lodi e assalire
Mantova.

L’occupazione di questa fortezza sarebbe stata decisiva dei casi nostri; e
Gorczkowsky che la comandava, seppe trastullare i cittadini colla guardia
civica, in modo che non pretendessero la cittadella: intanto i savj e i
vescovi raccomandavano la quiete, per timore che la fortezza fulminasse la
città. Ed ecco giungere un indirizzo del municipio di Trento, esprimente
il proposito di staccarsi dal Tirolo per far causa comune coll’Italia,
esibendole persone e averi. Vi si risposero parole; si lasciò passare il
duca di Modena; si accolsero soldati in ritirata, i quali presto furono
bastanti ad assicurare la città agli Austriaci. Visto l’errore, si gridò
tradimento quel ch’era stato difetto di sagacia e di coraggio. Dappertutto
le Congregazioni municipali e l’alto clero aveano procurato rattenere
da atti, dai quali non poteva ripromettersi altro che ruina; dappertutto
fu risparmiato l’inutile sangue, contro la dominazione, protestando solo
colla gioja del liberarsene.

Venezia, scarcerati Tommaseo e Manin (17 marzo), li portò in trionfo,
al proclamarsi la costituzione e la libertà della stampa, rimbombarono
i _Viva_ all’imperatore; ma l’annunzio della insurrezione di Milano
fece comprendere altre possibilità, e i civili stettero contro la
forza. Venezia poteva essere bombardata dall’arsenale e dalla goletta
del porto; ma Palfy governatore si peritò, nell’incertezza di quanto
accadeva a Vienna, e alla magistratura municipale concesse d’armare la
guardia civica. Intanto bucinavasi di tradimenti orditi dal nemico,
e che Merinovich, odiato comandante all’arsenale, preparasse materie
da incendio, quando i suoi dipendenti gli si avventarono e l’uccisero
(22 marzo): l’avvocato Manin, postosi a capo de’ cittadini, tra la
persuasione e la forza occupa l’arsenale; il governatore rassegna i suoi
poteri a Zichy comandante militare, e questo fa colla municipalità una
capitolazione, per cui possa menare via la truppa tedesca, con tre mesi di
paga, lasciando la cassa, le armi, i soldati italiani a Venezia. Tredici
persone furono spente: ai nemici nessun insulto; anzi la generosità arrivò
a tale imprudenza, che volendosi mandare a Pola l’ordine alla flotta di
venire all’obbedienza degli insorgenti, si affidò l’avviso al legno stesso
che portava Palfy a Trieste. In conseguenza questo potè prevenirla, e
Venezia restò paralizzata del suo braccio destro, la flotta.

Però essa trovavasi libera legalmente; e il popolo espose la Madonna di
San Marco, come poi fece in ogni gaudio e in ogni sventura: si elesse
un Governo provvisorio (23 marzo) con Castelli, Tommaseo, Paleocapa,
Camarata, Pincherle, Solera, Paolucci, Toffoli, e a capo Manin, e
si proclamò la repubblica, estesa allora nulla più che la piazza San
Marco. Ma le città di terraferma non tardarono ad imitarla, cacciando o
disarmando i soldati; il generale d’Aspre è costretto abbandonar Padova;
il forte di Malghera viene occupato dalle guardie civiche di Mestre,
quello di San Felice dai Chiozzotti; quelli di Osopo e di Palmanova si
arrendono, e n’è posto comandante il generale Zucchi, che dal 1831 vi
rimanea prigioniero. A Verona stava il vicerè, il quale colle promesse
tenne a bada i cittadini, e salvò così il nido dove l’aquila rinnoverebbe
le penne. Tutte le città si diedero Governi proprj, che poi si fusero nel
veneziano. L’esercito austriaco in quei giorni perdè quattromila morti,
settemila prigioni e feriti, diecimila prigionieri, oltre i settemila di
Venezia.

Anche in Modena si leva rumore, e il duca, istituita una giunta, si ritira
sul territorio austriaco, mentre il granduca occupa i territorj di Massa
e Carrara. Il duca di Parma (10 marzo), udito la sollevazione di queste
città ove combattendo i militari tedeschi, cinque cittadini ebbero morte
e molti ferite, ma costrinsero i nemici a deporre le armi, non solo si
rammorbidisce come tutti gli altri, e promette lo statuto, ma deplora
d’aver subito l’influenza straniera, e dichiara rimettere i suoi destini
a Pio IX, Carlalberto e Leopoldo, perchè facciano de’ suoi Stati quel
che meglio comple all’Italia, pronto a ricevere egli quel compenso che
crederanno conveniente; ed egli se n’andò in Romagna, suo figlio a Milano
per offrirsi alla causa italiana, dove invece fu tenuto prigione.

L’insurrezione di Milano erasi sentita dai Piemontesi (19 marzo) con
tutto l’interesse di nazione e di vicinanza; e l’intera popolazione fremea
perchè si corresse a sottrarre la vicina da uno sterminio inevitabile; già
molti vi si spingeano volontarj, malgrado le guardie poste al confine, e
vi si mandavano munizioni. Poco prima, Carlalberto, risoluto di mettersi
francamente nelle norme costituzionali, aveva chiamati al ministero
Sclopis, Franzini, Boncompagni, Desambrois, Revel e i genovesi Pareto
e Ricci, sotto la presidenza di Cesare Balbo. La costoro popolarità, le
conosciute intenzioni, i voti gridati, anzi intimati a loro dai Genovesi,
li faceano scopo a smisurate speranze. E poichè in capo d’ogni speranza
stava l’italianità, tutti chiedevansi se il Piemonte trarrebbe la spada
per rivendicarla. Non era questo il lungo voto di Carlalberto? non teneva
egli in piedi settantamila armati, e riboccanti gli arsenali, e pingue il
tesoro, e uno stato-maggiore incomparabile, e tutta l’uffizialità anelante
di provarsi cogli oppressori?

Le realtà stavano a gran pezza dai discorsi. Il preconizzato sistema
militare del Piemonte appariva disadatto a trasformarsi subitaneamente
dal piede di pace in quello di guerra attiva; artiglieria e cavalleria
eccellenti ma scarse; le riserve male esercitate, e avvezze al riposo
e agli affetti domestici; i soldati coraggiosi personalmente, ma non
altrettanto disciplinati tutti insieme; uno stato-maggiore più di comparsa
che di valentìa; nessuno poi avea mai fiutato battaglie; nè in quel
precipizio più di dodici in quindicimila uomini si potrebbero mettere in
campo; e di questi un buon dato eransi spediti in Savoja per impedire
un’irruzione dei Voraci, bande comuniste della Francia. Dell’Austria
ignoravasi lo sfasciamento; poco si poteva ripromettersi dalla restante
Italia, inavvezza all’armi; l’Inghilterra, che a consigliare e moderare
l’italico movimento avea spedito lord Minto, non che attizzasse come
si spargea, dichiarava essere la Lombardia assicurata all’Austria dai
trattati medesimi che assicuravano Genova al Piemonte, e il toccar
l’una comprometterebbe l’altra. I soccorsi della Francia metteano
ribrezzo or ch’era repubblicana, potendo divenir rovinosi al principato;
e il famoso motto attribuito a Carlalberto _Italia farà da sè_ era
una protesta contro quegli ajuti sgraditi. D’altra parte i veggenti,
persuasi che si consolidano più cause coi temperamenti della prudenza,
che non se ne guadagnino colla furia, aveano sempre sconsigliato il
Piemonte dalla guerra[65]; ai nuovi ministri era riuscito di consolazione
l’accertarsi che l’Austria non minacciasse il Piemonte, il quale potrebbe
tranquillamente assodare, svolgere, applicare la donatagli libertà. E
in fatti il programma loro esprimeva: fare preparativi se mai l’Austria
chiarisse guerra, ma non provocarla: riconoscere la Repubblica francese;
allearsi coll’Inghilterra e cogli Stati costituzionali d’Italia purchè
non rompessero a ostilità.

Carlalberto, sempre fisso ad un fine, tentennava sui mezzi e sul tempo, e
viepiù da che si sentì trascendere dal movimento. — Che si dice sottovoce
al Congresso di Genova?» interrogava. — Si dice, _Viva Carlalberto_», gli
si rispondeva. Ed egli: — Ma più basso si dice _Viva Mazzini_». In una
delle più solenni festività di quel festivissimo tempo, tutte le comunità
del regno vennero a solennizzare (25 febbr.) la promessa costituzione,
e sfilarono tripudianti di bandiere, di inni, di _Viva_ innanzi al re,
e soli mesti e abbruniti noi Lombardi, sfuggiti al carcere e alla legge
marziale. Chi l’ha veduta non potrà mai più dimenticare quella giornata,
d’accordi non anco turbati, di speranze potenti di tutto il prestigio,
d’una libertà di cui nessuno erasi disamorato. Sarebbe stata la più bella
della vita di Carlalberto; ma la sera giunse l’avviso della repubblica
proclamata a Parigi, e noi gli udimmo dire: — Anche questa vicenda farà
il giro d’Europa. Poco mi cale di me: duolmi de’ miei figliuoli; ma non
importa purchè il mio popolo sia felice».

Proposizioni a lui erano state rivolte da Lombardi prima della
sollevazione; ma non le ascoltò egli direttamente, bensì un suo ajutante:
pure, in iscritto confidenziale, ripetè la promessa mandata ai comizj di
Casale, che, dato il caso, guiderebbe il movimento patriotico d’Italia.
In Milano i proclami animavano alla difesa colla certezza degli ajuti
piemontesi; da’ campanili speculavasi il loro arrivare; fin Radetzky
vi credette: da cittadini ricchi e reputati si sottoscrisse un invito
a Carlalberto perchè soccorresse e prendesse la Lombardia (20 marzo);
eppure Carlalberto che l’avea chiesto, esitava ancora, e i ministri
davano assicurazione di buona vicinanza all’ambasciadore austriaco. Ma la
gioventù freme guerra; i portici di strada Po e la piazza della reggia
formicolano di gridanti guerra; guerra vuole l’Università: e quelli che
non sanno figurarsi la libertà se non a cavallo d’un cannone. Il re e
i ministri sapeano che perde l’autorità chi la sottopone al tumulto: ma
e se Milano soccombesse a un nuovo Uraja? qual onta pel vicino armato?
E che farebbe Genova, la quale avea gridato _Con Milano, se no, no?_ la
compassione non potrebbe prorompere contro il principe, e fino a gridare
la repubblica?

Mentre vacillavasi tra i consigli della prudenza ed i precipizj della
generosità, ecco giunge (22 marzo) che Milano s’è liberata da sè; che
i Tedeschi rotti e scompigliati vanno in pienissima fuga fra le strade
rotte e le campagne inondate, incalzati dalle popolazioni, risolute a non
lasciarne vivo uno, uno solo[66].

Carlalberto gettò la propria spada sulla bilancia dei ministri, e proclamò
che coi suoi proprj figli si metteva a capo dell’esercito, portando alla
Lombardia «i soccorsi di fratello a fratelli; di guiderdone non si parli:
solo a guerra finita si deciderà delle sorti del paese».

Ammirazione, gioja, affetti si rovesciano allora sopra Carlalberto, il
migliore, il più grande dei re, la spada d’Italia; se ne dimenticano i
torti, prima ch’egli dichiari dimenticati quelli de’ sudditi; egli si
rassegna a venir ricevere sul balcone e per le strade le acclamazioni da
cui sempre aveva aborrito; assiste al _Tedeum_ cantato dall’arcivescovo
di Torino, a cui quest’atto non risparmia i fischi; passa in rassegna la
plaudente guardia nazionale, contento che sui vecchi suoi giorni rifulga
quel raggio di speranza, che aveva indorato i vigorosi.

Gli altri paesi d’Italia rispondono a quel grido. A Roma Ciciruacchio mena
la folla ad abbattere lo stemma del palazzo d’Austria, e occuparlo a nome
della Dieta italiana, della quale s’intima a Pio IX di farsi capo, mentre
le campane suonano, i cannoni bombano, il Masi improvvisa, il gigantesco
padre Gavazzi bolognese predica, il marchese Patrizj, il principe
Ruspoli offrono denaro, i figli, la persona alla causa comune: e Pio IX
riconoscendo la mano del Signore in quella vittoria (30 marzo), rammemora
che «d’ogni stabilità e prosperità è ragion prima la concordia, e che la
giustizia sola edifica, mentre le passioni distruggono»; Leopoldo granduca
intuona: — L’ora del risorgimento d’Italia è giunta improvvisa, nè chi
ama questa patria comune può ricusarle soccorso. Figli d’Italia, eredi
della gloria militare degli avi, non devono i Toscani rimanere in ozio
vergognoso, mentre la santa causa dell’indipendenza si decide, ma volare
al soccorso de’ fratelli lombardi». Il Ministero napoletano che aveva
cercato tenersi saldo contro le dimostrazioni di piazza, fu da queste
scomposto; si dovette promettere la guerra santa, capitanata da Pepe,
esule da ventisette anni, e un Ministero preseduto da Carlo Troya, esule
della stessa causa (aprile); e il re proclamava: — Le sorti della comune
patria vanno a decidersi nei piani della Lombardia; ed ogni principe e
popolo è in debito di accorrere a parte della lotta che deve assicurare
l’indipendenza, la libertà, la gloria. Noi intendiamo concorrervi con
tutte le nostre forze di terra e di mare, cogli arsenali, coi tesori della
nazione; unione, abnegazione, fermezza, e l’indipendenza della nostra
bellissima Italia sarà conseguita; e ventiquattro milioni d’italiani
avranno una patria potente, un comune ricchissimo patrimonio di gloria,
e una nazionalità rispettata».

Tanto accordo di principi e di popoli che forti di risolutezza, invigoriti
di lunghi patimenti anelano alla virile gioja delle battaglie, acciocchè
l’Italia sia, non trofeo di altrui vittorie, ma redenta pel braccio dei
proprj figliuoli; tutti dimenticando le antiche superbie e gli antichi
rancori, e contando soltanto sulla fermezza del proposito, la temperanza
delle passioni, la concordia delle volontà, i miracoli dell’entusiasmo.




CAPITOLO CXCII.

Guerra santa. Conquassi.


La vittoria era assai meno facile che il trionfo. Sulle orme del nemico
fuggente si cacciarono alquanti, di coraggio risoluto e intelligente;
e deh come pareano belli que’ giovani, che alfine avevano qualcosa da
fare! come ne’ loro atti sfavillava eroico, incitato, romanzesco il
sentimento! Altrettanto deforme e scomposto era l’esercito austriaco;
lacero, tutto mota e sangue, famelico, con impotente anelito di vendetta,
e temendo da ogni siepe un assalto, sotto ogni ponte una mina, in ogni
villaggio barricate e tegoli; che se davanti a quello, scompigliato da
tante diserzioni, dall’insolita guerra delle vie, dalla privazione di
riposo, dall’incertezza degli avvenimenti viennesi, si fossero abbattute
le piante, recise le vie, diffuse acque, lanciata la morte, qual ritornava
di là dai monti? Ma Radetzky ebbe ad avvedersi ben presto che il popolo
non prendeva parte a quell’insurrezione; i campagnuoli non secondarono
l’impulso delle città, nè la bassa rispose alla risolutezza dell’alta
Lombardia; sicchè egli, neppure mai attaccato, potè giungere al Mincio,
e dentro al formidabile quadro, formato dai monti, dal mare, dall’Adige
colle fortezze di Verona e Legnago, dal Mincio con quelle di Peschiera
e Mantova, rincorare le truppe, attenderne di nuove, e coi migliori
uffiziali allestire la difesa e la riscossa.

Nè alla Potenza austriaca restava allora altro appoggio che quell’esercito
e quel capitano, il quale non lasciò di tenersi per guardie i granatieri
italiani; mancante del denaro fin per vivere due giorni, pure affacciavasi
al balcone a ricevere anch’egli applausi dal vulgo, cui buttava il poco
resto de’ suoi quattrini.

L’esercito piemontese si trovò scarso oltre ogni aspettazione e
impreparato: i generali confessavano la propria inettitudine, e
consigliavano a cercare un maresciallo ai Francesi[67]; ma questi erano
sospetti a Carlalberto. Cuore intrepido con incerto consiglio, mancante
di quell’attitudine impassibile del comando, che impone alle fantasie
popolari e affascina le volontà col supporre nel comandante una profonda
persuasione; perchè era spada d’Italia egli credette essere la mano che
bastasse a maneggiarla, e ripetè l’ambiziosa parola _Italia farà da sè_,
la quale[68], d’effetto drammatico in bocca di letterati e di preti,
acquistava tremenda importanza ripetuta da un re che montava a cavallo
per darvi realtà.

L’esercito arrivò tardi (29 marzo), ed anzichè precipitarsi su Mantova,
mal presidiata, e con cittadini disposti alla rivolta, entrò per Milano
e Pavia, e a marcie regolari spintosi al Mincio, valore mostrò (8 e
9 aprile) ai ponti di Goito, Valleggio, Monzambano. Passato il fiume,
coll’inutile assedio di Peschiera s’intepidì l’entusiasmo, aspettando il
parco che arrivò solo il 15 maggio: e lungo l’Adige distesa una linea
di trentasei miglia, cominciossi una guerra di posizioni. Ben presto
sessantamila uomini si trovò Carlalberto. Vi si aggiunsero cinquemila
Toscani fra volontarj e di ordinanza; diciassettemila Romani avvicinavansi
al Po; e quattordicimila Napoletani, oltre innumerevoli volontarj; tremila
Parmigiani e Modenesi stavano sul Mincio; cinquemila Lombardi verso il
Tirolo; bande di Veneti alle alpi Carniche.

Anfossi, Longhena, Griffini, Manara, Arcioni, Simonetta, Sorresi,
Bonfanti, Tololti, Sedabondi, Torres.... capitanavano bande; bande di
volontarj polacchi ci erano menate dal gran poeta e mistico Mickiewitz;
napoletani dalla principessa Belgiojoso, siciliani da La Masa, altri dal
belgio Thamberg, altri ancora dall’attore Modena, la cui moglie ne portava
la bandiera, e di più serj dal famoso Garibaldi; nè mancavano preti, e
l’eloquente Bassi barnabita, che nel 1836 avea tanto giovato a Palermo
durante il cholera, e il padre Gavazzi parevano santificare la causa e
meritarle il nome di crociata; i seminaristi medesimi si organizzarono
per le armi: nobili impeti, a cui mancavano la disciplina e l’unione, che
sole possono dare la vittoria.

Ma improvvida fiducia in noi e improvvido disprezzo pel nemico fecero
che, quando ognuno avrebbe dovuto offrire sin l’ultimo soldo e l’ultima
stilla di sangue pel riscatto nazionale, si stiticasse sui sacrifizj, e
si dissentisse sui mezzi. Come i Lombardi eransi lusingati di vincere
democraticamente in tempo che ogni forza sta concentrata ne’ Governi,
così i Piemontesi opponevano battaglia di fronte a un esercito di
mirabile disciplina ed esperienza; mentre alla vittoria, unico scopo,
sarebbe dovuto dirigersi l’impeto nazionale, non si seppe o non si volle
effettuare la leva a stormo; si tennero in lieve conto i volontarj che,
con ottima sentita, si portarono a difesa dei varchi alpini, benchè si
vedesse il nemico avvantaggiarsi dei subitarj, corsi ad ajutarlo dalle
scuole austriache o dalle fucine stiriane. Da cinquantamila uomini che
si trovavano in Lombardia fra i ventotto e i trentott’anni, che aveano
militato; e non furono richiamati istantanemente sotto le armi: seimila
trecento ch’erano disertati dagli Austriaci, furono rejetti dall’onor
militare, e coperti di quel sospetto che invita a tradire: invece di
innestare subito i coscritti nell’esercito piemontese, con camerati
esperti, sotto vecchi uffiziali, si volle formare un esercito lombardo,
sciupando denaro e tempo, crescendo gli scioperi e quindi gl’intriganti,
e non recando ajuto alla gran causa. Giovani baliosi non aveano vergogna
di rimanersi a casa a pompeggiare nella guardia nazionale e nelle parate,
e poeteggiare sui giornali e nelle canzoni quel coraggio che è si facile
allorchè l’occasione è lontana.

In quelle ore procellose dove sono gli avvenimenti che impongono i
dittatori, d’ogni città presero il governo le persone che si trovarono
o che vollero mettersi in una posizione di molti pericoli e di nessun
vantaggio, e ripagata coll’impopolarità. Per accentrare la resistenza e
i comandi, il Governo provvisorio di Milano faticò a vincere le gelosie,
che sono brina ad ogni fiorire di speranze italiche, e fare che ciascuna
provincia gli mandasse un deputato. Vennero scelti non coloro che aveano
tramato o intrigato, forse neppure sperato; alcuni anzi già bersaglio
della stampa demagogica[69]: sì poco era figlia di congiure quella
sollevazione, che traeva nobiltà e forza dall’intento comune e semplice
di rivendicare la nazionalità.

Ogni Governo rivoluzionario si trova debole a fronte dei compagni
di rivolta, ed esposto ai mille rischi della inesperienza, della
precipitazione, del disordine. Il nostro poi, vacillante per inesperienza
e incoerente per gli antecedenti, neppure cercossi la sanzione popolare,
tanto facile in paese sistemato a municipj. Nei momenti sublimi in cui
l’ispirazione viene dalle moltitudini, essa irradia taluni che, cessato
quel lampo, devono ricadere nelle tenebre: e caratteri medj, i quali usano
riguardo a tutti, carezzano il bene come il male politico, potrebbero mai
condurre una rivoluzione, che vive di moto, d’azione, d’audacia? Alla
nostra, mentre era nel primo lancio, imposero la formola delle società
in riposo, conservare l’ordine; nè tampoco si seppe governare una gente,
così facile a governare perchè così facile a illudere; quando tutto era
straordinario, operavasi come in occorrenze consuete.

I prestiti volontarj sono uno spediente che piace a leggersi ne’ vecchi
repubblicani; si piange d’una fanciulla che offre l’anello di fidanzata,
d’una vecchia che dona la tabacchiera d’argento, d’un prete che levasi le
fibbie; ma che profittano ora che le forze e il denaro sono concentrati
nei Governi. Si abolivano la gabella del sale e il testatico, mentre
col sospendere i pagamenti del Monte sconcertavansi tante famiglie; si
chiedeano le argenterie domestiche e gli spogli delle chiese, mentre
tesori poteano cavarsi annunziando la suprema necessità del vincere.

Pronte nubi offuscarono quel rosato, di cui si colora l’alba d’ogni
rivoluzione. I sistemi corruttori pregiudicano l’avvenire col far che, al
punto di cambiarli, non si trovino persone capaci a rappresentare la nuova
età; e che i vulghi, lusingati di alleviamenti e beatitudini, ricusino
gli stenti con cui bisogna conquistarli, e lo spostamento degl’interessi e
delle abitudini. In società educate così, le qualità negative prevalgono,
e guaj a chi trascende una mediocrità, palliata col nome d’eguaglianza!
nome illustre, operosità, esaltazione di nobili sentimenti, influenza
riconosciuta divengono pericolosi e denigrati. Se non bastava dunque il
trovarci inesperti degli affari, delle armi, della vita politica; se non
bastava che Tommaseo e Cattaneo, Gioberti e Rosmini, Cibrario e Brofferio,
Carlalberto e Berchet si fossero palleggiati insulti, che poteano mettere
in disparte ma non disfare, i generosi restavano elisi dal dispetto
proprio o dal sospetto altrui, all’istante che più n’era bisogno.

Gente irritabilissima gli scrittori! E alcuni di essi, che sulle
prime esageravano l’eroismo per incitarlo, ripigliarono presto il riso
sardonico; altri, che avevano aspirato ad essere primi, non soffersero di
rimanere secondi, e sbracciavansi a rivelare gli errori di chi non faceva
come loro, e autorizzavano le ire delle fazioni, che sempre gridansi
tradite da chi non le serve come esse vogliono. Mentre il riuscire a cose
straordinarie allucina in modo da far credere tutto possibile, i tentativi
arrischiati cacciano indietro molti spiriti sbigottiti, compromettono ciò
che esagerano, ruinando ciò che trascendono. Fra coloro dunque che, per
moda o per primeggiare, aveano invocato la tempesta, molti sgomentaronsi
al vederla scatenata; e dagli inconditi sussulti di Francia presagendo
qui pure la ghigliottina o il comunismo, corazzavansi contro coloro che
pur seguitavano a chiamare fratelli.

Mentre tutti credeansi valevoli a proporre, nessuno volea la
responsabilità del risolvere; il popolo male obbediva a governanti,
dipintigli come spregevoli; e fra le canzoni e la proclamata fraternità
nessuno avea fiducia in nessuno. Finchè trattavasi di bruciare in effigie
Guizot o Metternich, e di mettere in caricatura Radetzky, molti faceano
l’eroe; quando si trattasse di fatti, l’inerzia, che prima si crogiolava
nell’impossibilità di affrontare il nemico, dappoi coglieva pretesto
dalla facilità della vittoria, tutto asserendo finito colla cacciata de’
Tedeschi.

Ai nuovi reggitori accalcavansi i servidori degli antichi, che cogli
antichi non volendo cadere, chiedeano compensi di persecuzioni non
sofferte; improvvisati statisti offrivano consigli; speculavasi sulle
armi, sugli impieghi, sulla pubblicità, sulla fame; dilettanti del
mestiere di delatore e di carceriero continuavano a vedere cospirazioni
e delitti, e mentre sovrastava un esercito minaccioso, eccitavano
schiamazzanti paure contro spie che non si trovavano, contro contadini che
voleano soltanto far chiasso come i cittadini. Vaglia il vero, di que’
tumulti licenziosi che altrove metteano sdegno o terrore, danneggiando
le persone e gli averi, qui non fu ombra; ma le dimostrazioni clamorose
attestavano che freno d’autorità non v’avea, e i reggitori erano
impotenti.

Di fuori ci vennero anche ibridi innesti, e in paese ove il clero sempre
era comparso nelle prime file, si urlò contro gli ecclesiastici; in paese
che da ottant’anni non conosceva dell’aristocrazia se non la casualità
dei natali, si seminò odio ai nobili, anche in ciò snervando col dividere.

Quindi oberate le finanze nella pinguissima Lombardia, e sospesi
i pagamenti del Monte; inettissimamente provveduto alla guerra; e
nell’inazione si cominciò a disputare del come si governerebbe la nazione,
prima d’essere certi che nazione saremmo. La repubblicana parea forma
consentanea a paese ribattezzatosi col proprio sangue, dove nè dinastie
da rispettare, nè aulica nobiltà da gonfiare; ciascuno avea contribuito
alla redenzione, ciascuno conserverebbe la massima porzione di sovranità.
I bei ricordi della Lombardia non erano repubblicani? ed ora questa
forma dalla Francia iniziatrice non sarà diffusa a tutto il mondo? non ci
procaccerebbe volonterosi ajuti da quella sorella? non allontanerebbe le
gelosie degli antichi e le ambizioni dei principi nuovi? D’altra parte,
gli avversarj più risoluti di essa aveano predicato che da Repubblica a
Governo costituzionale poca o niuna differenza intercede[70].

Pure, nel supremo intento della liberazione, la Giovane Italia si era
obbligata, già prima dell’insurrezione, a velare il suo vessillo, chè
non turbasse i principi rigeneratori. Se Carlalberto al primo entrare
in Lombardia avesse assunto poteri dittatorj, e concentrate tutte le
forze allo scopo unico, chi avrebbe mosso lamento? Ma ed egli e il
Governo provvisorio iteratamente aveano promesso, della forma di governo
non si ragionerebbe che a causa vinta, quando liberi tutti, tutti
deciderebbero. Or eccoli invece sollecitare il paese a dichiararsi; e
nonchè gl’intraprenditori di dimostrazioni e di mozioni, il filosofo nel
cui nome si era iniziato il movimento, uscì dai dignitosi suoi studj per
vagare apostolando la fusione col Piemonte[71]; con ciò determinando un
altro, in cui si personificavano le spasmodiche speranze di diciott’anni,
a contrapporvi il grido di repubblica.

Allora il paese restò scisso, e il dissenso offrì pretesti alle
debolezze, alle avarizie, ai calcoli personali. I disordini della
Francia svogliavano già molti dalla repubblica, perchè considerata
come fine, mentre non è che mezzo alla libertà. Di coloro stessi che la
vagheggiano come la pacificazione dell’avvenire, alcuni trovavano che
il paese nostro non fosse abituato alla legale subordinazione, ch’è la
prima virtù repubblicana, e bisognasse arrivarvi traverso alle alchimie
costituzionali. D’altra parte, un sovrano, irradiato dall’aureola della
libertà, e campeggiante per la causa comune, un Governo già stabilito il
quale non avrebbe che ad estendersi, l’eroismo dei Piemontesi pugnanti
pel nostro riscatto, la potenza che alla guerra verrebbe dall’unità
del comando, inducevano a sovrapporre una corona al simbolo nazionale.
Per queste ragioni, da non confondere colle servilità dei fiacchi che
s’allietano qualora il caso loro manda un padrone, e degl’intriganti che,
avendo l’accorgimento di voltarsi un quarto d’ora prima della fortuna,
s’erano già ingrazianiti i cortigiani di Carlalberto, anche persone
lealissime, anche tali che aveano imprecato al disertore del 1821,
come Berchet, immolarono i rancori alla speranza ch’egli compirebbe la
redenzione, e avvierebbe l’unità del paese.

Gli adulatori, che furono i peggiori nemici suoi, svilivano il re
magnanimo fino a supporre che subordinasse la nazionale alla quistione
dinastica, e trovasse convenevole ad una gran nazione il disporre di se
stessa in modo intempestivo e tumultuario; i dissolventi tacciavansi di
venduti all’Austria, fossero pure di quelli che più aveano contribuito a
cacciarla; e posta come alternativa «Carlalberto o l’Austria», proruppero
le stomachevoli prepotenze dei deboli.

Chè l’impulso venne dal basso. Il popolo di Modena, ripudiando la reggenza
lasciata dal duca, avea creato un Governo provvisorio, preseduto da
Malmusi: ma Reggio protestando ne formò uno a parte, e più d’un mese
ebbe a contendersi prima d’unirli. Invece Parma stette contenta ai conti
Luigi Sanvitale, Ferdinando Castagnoli, Girolamo Cantelli, e all’avvocato
Ferdinando Maestri, designati dal duca stesso, e che formaronsi in
Governo provvisorio, aggiunti il professore Pellegrini, Giuseppe Bandini
e monsignor Carletti: ma i Piacentini esclamando contro il principe
spergiuro, costituirono (1848 8 maggio) una reggenza separata, alla quale
veniva l’avvocato Gioja; poi ben presto aperti registri, la fusione del
ducato col Piemonte fu voluta senza restrizioni, com’era ad aspettarsi
in paese piccolo e sconnesso. Brescia, col dichiarare proprietà della
nazione bresciana i beni de’ Gesuiti, costrinse il Governo provvisorio a
quelle persecuzioni di frati, da cui aborriva per indole, per politica,
per rispetto a sè e alla libertà: dappoi la classe bassa e fiera cominciò
a gridarvi la fusione col Piemonte. Bergamo assecondava; altre città
minacciavano se indugiasse l’unione, la farebbero da sè; fin l’esercito
divenne deliberante, e la legione Griffini mandò la sua adesione. Balbo,
da che scese di carrozza a Milano fin quando vi rimontò, non sapea
ripetere se non «Fondersi, e subito, subito»: Gioberti, ricevendovi
le solite ovazioni, cercò far gridare a voce di popolo la fusione,
promettendo Milano capitale dell’alta Italia[72].

Il Governo provvisorio chiamò dunque alla votazione, confessando che,
«mentre avea proclamata la neutralità per poter essere un Governo
unicamente guerriero ed amministratore, si trovava trascinato in mezzo
alle distrazioni d’incessanti dispute politiche, e costretto a difendersi
ogni giorno dall’insistenza delle più divergenti opinioni».

Chi non può sottrarsi da condizioni repugnanti alla coscienza, abdica il
potere. Essi invece aprirono registri in tutte le parrocchie, chiamando
il popolo a votare su punti dove non era competente; e come avviene
immancabilmente, a grande maggiorità fu chiesta l’immediata fusione della
Lombardia col Piemonte.

Il Piemonte nella dinastia di Savoja vede da un pezzo la gloria e la
potenza, come l’interesse proprio; pure anche colà si cozzavano fazioni.
La Savoja avea respinto una banda d’operaj, venuti di Francia proclamando
la repubblica; ma dall’italianità non era infervorata agli aggravj
impostile dalla guerra, sebbene li portasse con serena intrepidezza.
Genova mirava altrove che il Ministero, e a surrogare il berretto alla
corona, appena questa non paresse più necessaria alla causa nazionale.
La coccarda tricolore, come fregiava il patrioto, così mascherava il
brigante, che gettava nel fango il potere onde raccorne qualche brano; il
sofisto, che preponeva la forma al fondo, l’espressione alla dottrina;
l’intollerante, che la libera discussione strozzava cogl’insulti; il
declamatore, amico e nemico prestabilito di qualunque siasi risoluzione;
il pauroso che, portando al bottone Pio IX e tamburando Italia, non
mirava che a sguizzare dal pericolo coll’adulare coloro che lo aveano
cagionato. Ma da una parte quei che sempre eransi lamentati del troppo
spendio nell’esercito, ora lamentavansi perchè a soldati e uffiziali
nuovi mancassero le virtù di veterani; da un’altra si disapprovava come
_lusso di sacrifizj_ il mandarne altri nella vincitrice Lombardia: un
prestito di dieci milioni restringevasi a sei; interpellavasi il Ministero
sulle provvigioni di guerra, sull’esito di alcune battaglie, su quel
che intendeasi fare, quasi premesse d’informarne il nemico; tutti quelli
che sentivano vergogna di non combattere in campo, la mascheravano col
combattere nella Camera, aperta l’8 maggio, o nei caffè con motteggi,
con articoli, con frivole mozioni, ora di sottoporre i chierici alla
coscrizione, ora di espellere i Gesuiti e le dame del Sacro Cuore; onde vi
ebbe chi esclamò: — Se perdiamo tempo a cacciare i frati, non cacceremo
mai i Tedeschi». Le affollate tribune applaudendo, fischiando, urlando,
vilipendevano la maestà della rappresentanza nazionale, e violentavano la
coscienza de’ legislatori.

A questi trambusti si gittò in mezzo la fusione colla Lombardia. A molti
gradiva l’avere i Lombardi messa per patto un’assemblea costituente,
colla quale speravasi introdurre nello statuto un più largo equilibrio
fra il potere legislativo e l’esecutivo; ma un geloso antagonismo facea
paurosi che Torino dovesse cedere il grado di metropoli a Milano, secondo
l’avrebbero desiderato Genova, Novara e i ducati, e che i Piemontesi
restassero in minorità nell’assemblea costituente[73]. In fine, si votò
(13 giugno) che «la Lombardia cogli Stati sardi e coi ducati formerebbe
un sol regno; e in assemblea generale si stabilirebbero le norme d’una
nuova monarchia costituzionale, sotto la Casa di Savoja, coll’ordine
di successione secondo la legge salica». Vale a dire che un Parlamento
legislativo parziale imponeva limiti a un Parlamento costitutivo da
eleggersi dalla intera nazione; e ch’è peggio, decretavasi la fusione di
paesi già rioccupati.

Perocchè fra questi maneggi le condizioni italiane erano ite alla peggio.
Alla vittoria de’ Milanesi tutta la penisola era trasalita di libertà e
di speranze, e il movimento già trasceso, non che lasciarsi regolare dai
principi, torcevasi contro di loro: da Modena e da Parma sommosse i duchi
partirono: il granduca dovette deporre i titoli austriaci, e scegliere
ministri di minor suo gradimento. Il papa, che colla cara ed autorevole
voce avea benedetto alle speranze italiche, deputò un prelato suo
dilettissimo (monsignor Corboli Bussi) al campo italiano; alle sue truppe
diede generale Giovanni Durando piemontese e l’ordine d’accordarsi con
Carlalberto; sollecitò i principi a mandar deputati a Roma per conchiudere
una lega (29 marzo): ora però dolevasi si tiranneggiasse la sua coscienza:
eppure fu costretto estrudere i Gesuiti, mentre dichiaravali «instancabili
collaboratori nella vigna del Signore»; ai consiglieri di sua confidenza
surrogarne altri, che gl’imponevano e parole e generali e guerra. I suoi
intimi gli mostravano come pericolasse non solo lo Stato ma la nave di
Pietro: i nunzj da Vienna e da Monaco gli faceano temere che la Germania
non si separasse da un papa, il quale mettevasi ostile ai cattolici
tedeschi: poi vedendo che Carlalberto domandava un’alleanza guerresca,
e che fervea la briga di riunire l’Italia ma sotto altri auspizj, Pio
IX pronunziò non favorirebbe un principe a scapito degli altri: — Il
nome nostro (rispondea all’indirizzo de’ deputati) fu benedetto in tutta
la terra per le prime parole di pace che uscirono dal nostro labbro:
non potrebbe esserlo sicuramente se quelle n’uscissero della guerra...
L’unione fra i principi, la buona armonia fra i popoli della penisola,
possono solo conseguire la felicità sospirata. Questa concordia fa sì che
tutti noi dobbiamo abbracciare egualmente i principi d’Italia, perchè
da quest’abbraccio paterno può nascere quell’armonia che conduca al
compimento de’ pubblici voti».

Inerme sacerdote, circondato da un concistoro cosmopolitico, sentendo
tardi che la popolarità vuole schiavi i proprj feticci, lamentò che dalla
diffusa voce della gran congiura si togliesse pretesto a perseguitare
persone onorande e religiose[74]: poi come parvegli pericolare la nave
che Dio gli affidò (29 aprile), disdisse ogni partecipamento colle
rivoluzioni; non aver egli se non attuato quel che le Potenze già aveano
suggerito a Pio VII e a Gregorio XVI, e ch’egli credea vantaggioso a’ suoi
popoli; dolergli che questi non avessero saputo contenersi in fedeltà,
obbedienza, concordia; non a lui doversi imputare le convulsioni italiche,
a lui che aborriva la guerra, e repudiava coloro che parlavano d’una
repubblica italiana, preseduta dal papa.

Roma, che obbediva al papa a condizione che il papa obbedisse a lei,
sobbolle a questi voci (1 maggio), e bestemmiando come si bestemmia colà,
minaccia sommergere nel sangue il pretesco dominio; si levano dalla posta
le lettere dirette a cardinali e prelati, esponendole pubblicamente colle
più strane interpretazioni; la guardia civica occupa le porte e Castel
Sant’Angelo; grida di morte si diffondono. Pio IX procura calmare con
un proclama mansueto: ma ogni parola n’è presa a onta, come un tempo
prendeasi a lode; i circoli fremono. Il filosofo Terenzio Mamiani, profugo
sin dal 31, e che coll’ingegno, l’onestà, la cortesia erasi acquistato
venerazione in Francia, era stato ricevuto benchè negasse sottoporsi alle
condizioni e promesse che l’amnistia esigeva, e da cui la coscienza sua
repugnava; e favorito dalle classi colte, ne profittava per insinuare miti
consigli; sicchè rimaneva indicato a capo d’un nuovo Ministero, nel quale
entrarono il cardinale Ciacchi, Massimo, Galletti, Marchetti, Lunati,
Doria Pamfili, Pasquale Rossi.

La onesta vacuità del Parlamento, dominata dalla melliflua parola di
Orioli, dalla fulminante di Sterbini, dalla incessante del principe di
Canino, rendea sempre più vacillante l’azione governativa, e cresceva
lena alla sovversione ne’ circoli, ne’ giornali, sulle piazze. I liberali
stessi scindeansi in centralisti e federalisti; quelli volendo metropoli
di tutt’Italia Roma, questi conservando le prische capitali: ma ecco
aspirar a questo onore anche Genova e Palermo: tutti poi nel concetto
italico dimenticavano che un popolo non si amalgama come i diversi metalli
per far una statua, e che l’unità nazionale è tutt’altro da quell’unità
amministrativa e despotica, sciaguratamente trasmessaci dalla Rivoluzione
francese.

Il nuovo Ministero, debole come i buoni, non volea l’unità italiana, non
la rivoluzione, bensì l’indipendenza italiana e la separazione dei due
poteri; il Mamiani dichiarava che «dimorando nella serena pace dei dogmi,
Pio IX prega, benedice, perdona, ma lascia gli affari all’assemblea»;
col che elevandolo in cielo, lo svestiva d’ogni autorità terrena. Il papa
protestò, come protestò contro gli Austriaci allorchè un loro corpo invase
Ferrara per dissipare un branco di truppe pontifizie: ma l’efficacia di
lui era passata, come altre mode; e la forza popolare abbandonò il papato,
allora appunto che più importava sorreggerlo e spingerlo.

Nè Pio aveva rinnegato la causa italiana; e quando il presidente della
repubblica veneta gli raccomandava la sua città e «questa Italia,
tempio magnifico del Dio vivente, nel quale la dimora dello straniero
insultatore è una quotidiana bestemmia», esso, il 27 giugno, di proprio
pugno rescriveva: — Iddio benedica Venezia, liberandola dai mali che
teme»; al La Farina deputato siciliano, che gli faceva rimostranze, disse
risentito: — Io sono più italiano di lei, ma lei non vuol distinguere in
me l’italiano dal pontefice»; dal cardinale Antonelli fece scrivere al
Farini, inviato suo a Torino, essere «volenterosissimo d’interporre la
propria mediazione come principe di pace, sempre nel senso di stabilire la
nazionalità italiana»; e il 3 maggio scriveva all’imperator d’Austria: —
È stile che da questa santa Sede si pronunzii una parola di pace in mezzo
alle guerre. Non sia dunque discaro alla maestà vostra che ci rivolgiamo
alla sua pietà e religione, esortandola a far cessare le sue armi da una
guerra, che, senza poter riconquistare all’Impero gli animi dei Lombardi
e dei Veneti, trae funesta serie di calamità, certamente da lei aborrite.
Non sia discaro alla generosa nazione tedesca, che noi la invitiamo a
deporre gli odj, ed a convertire in utili relazioni d’amichevole vicinato
una dominazione, che non sarebbe nobile nè felice quando sul ferro
unicamente posasse. Quella nazione, onestamente altera della nazionalità
propria, metterà l’onor suo in sanguinosi tentativi contro la nazione
italiana? o non piuttosto nel riconoscerla nobilmente per sorella, come
entrambe sono figliuole nostre e al cuor nostro carissime, riducendosi
ad abitare ciascuno i naturali confini con onorevoli patti e con la
benedizione del Signore?» Anzi, per mediar la pace non meno col nemico che
fra i parteggianti, pensò trasferirsi a Milano; e quanto la sua presenza
avrebbe rincorato i nostri!

Ma già la diffidenza aveva ossesso gli spiriti; si sospettò che il
Piemonte intisichisse in una mena dinastica la gran causa italiana; si
sospettò che il Governo romano recuperasse il Polesine e le antiche
ragioni sul Parmigiano e il Modenese; si sospettò del prelato che il
papa deputava all’imperatore[75]; si sospettò del Ministero romano
quando affidava a Carlalberto tutte le forze pontifizie; si sospettò
della flotta che re Ferdinando spediva nell’Adriatico a rinforzare la
sarda, i Siciliani al passaggio la cannoneggiarono, e nei proclami la
insultavano ogni giorno; i capitani sospettavano dell’esercito napoletano,
che ostinavasi a gridare «Viva il re»; l’esercito sospettava delle bande
siciliane, contro cui avea combattuto nell’isola; Romagnuoli e Marchigiani
sospettavano che i Napoletani volessero occupare Ancona, e prendere i loro
paesi.

E il sospetto mandava a precipizio le cose del Regno meridionale. Vedemmo
come la Sicilia rompesse il concetto dell’unione italica col dichiararsi
indipendente sotto la presidenza di Ruggero Settimo. Il re, che i tempi
rendevano impotente a resistere, consentì (18 genn.) ogni loro domanda; ma
i Siciliani non aggradirono come dono quel che già teneano conquistato;
data a Napoli la costituzione, essi la ricusarono perchè importava
«unico regno la Sicilia e il reame di Napoli, e unica la rappresentanza
nazionale»[76]; solo aggiungendo «bramar di unirsi al regno con legami
speciali, e formare insieme due anelli della bella federazione italiana».

Il re, che i trattati impediscono dal separare i due regni, accorda alla
Sicilia Parlamento distinto (10 febbr.), e un luogotenente generale
con ministri, oltrechè terrà un ministro siciliano presso di sè: ma i
Siciliani vogliono non s’intitoli più re del regno delle Due Sicilie, ma
solo delle Due Sicilie; sia bandiera la tricolore, nè truppe napoletane
nell’isola: il Comitato generale più domanda quanto più il re concede e
via via infervorandosi, rifiuta i servigi de’ migliori perchè ne aveano
prestato ai Borboni, e così obbliga a valersi dei ribaldi; in odio
della centralità amministrativa scioglie i legami che congiungeano i
Comuni collo Stato, onde non resta nè forza nè obbedienza. I trasmodati
inviperivano contro i Napoletani, proclamando, — Che hai tu fatto, regno
d’infingardi e di perfidi? «Fu la Sicilia che ti spinse; volesti che il
nostro brando ti spezzasse le catene che amendue ci serrava, per divenire
libero e offenderci. Mentre poltristi nella viltà, osi chiamar sorella
la Sicilia, che non tenne la spada nel fodero mentre tu nel meglio ti
ritratti, quasi sacrilegio avessi commesso. Il cuore ti trema, nè oseresti
tentare ciò che con minori genti abbiam noi in un giorno compito. Non
appellarci dunque fratelli, che mai fra noi non è stato nè sarà nulla di
comune». Anche il padre Ventura, avvoltolatosi nella politica, commemorava
gli storici patimenti della Sicilia, e quanto fosse giusta nelle sue
domande, ingiusti i Napoletani nel negarle, e nel volerla unita con loro
nei mali della guerra che intraprendevano e nei pericoli d’una libertà
che non conserverebbero.

Lord Minto, che avea girato l’Italia in condizione anfibia, supposto
inviato dall’Inghilterra, e sparpagliatore di consigli di cui restava
irresponsale, si offre mediatore; e tanto basta perchè l’isola credasi
appoggiata dagl’Inglesi. Il re consente a tutto, fin a nominare suo
luogotenente il Settimo; ma la Sicilia esige che il re risieda nell’isola,
e le ceda metà dell’esercito e della flotta, protestando non farebbe
«niuna essenziale modificazione a tali proposte, ed essere inutile
qualunque forma di negoziazione». Il Ministero napoletano pubblica una
protesta (22 marzo) contro pretensioni, «che turbano positivamente il
risorgimento d’Italia, e compromettono l’indipendenza e il glorioso
avvenire della patria comune, specialmente in questo momento supremo,
in cui tutti gl’Italiani sentono potentemente il bisogno d’affratellarsi
in un solo volere»; e i Siciliani per risposta convocano il Parlamento;
aprendo il quale (25 marzo) Settimo dichiara che il Comitato generale
operò sempre nella convinzione che la Sicilia non dovesse dipendere da
verun altro Stato.

Era allora sul crescere la marea de’ popoli; talchè Palmerston, il quale
avea sconsigliato il re dal prender parte alla guerra d’Italia come
repugnante ai trattati, allora lo esortava a rassegnarsi a qualsifosse
condizione, giacchè nè Inghilterra vorrebbe, nè Prussia potrebbe ajutarlo
a sottomettere l’isola[77]. E il re esibì perfino di trasmettere la corona
di Sicilia a suo figlio minore, coll’unico patto che fosse ricevuto: e la
risposta fu dichiarare scaduti i Borboni (13 aprile).

Nel tempo che dappertutto parlavasi d’unità italiana, inestimabile danno
recò questa scissura, che costrinse il re di Napoli a volgere contro
Italiani una parte di sue forze. Le restanti furono avviate alla Lombardia
sotto Guglielmo Pepe, caporione in tutte le sommosse dal 1796 in poi. La
flotta erasi già spinta ad Ancona sotto l’ammiraglio De Cosa: ma neppure
questo potentissimo ajuto doveva arrivare. Il nuovo Ministero, dov’erano
entrati i liberali Poerio, Savarese, Carlo Troya, e come presidente il
principe di Cariati, diplomatico esercitatissimo, nel suo programma
professava che «le due Camere, d’accordo col re, avriano facoltà di
sviluppare lo statuto, massimamente in ciò che riguarda la Camera de’
pari». Per attuarlo convocavasi a Napoli il Parlamento, proponendo
ai deputati giurassero di «professare e far professare la religione
cattolica; fedeltà al re del regno delle Due Sicilie; osservare la
costituzione del 10 febbrajo». Nell’adunanza preliminare questa formola
incontra gravi contraddizioni; «è da Sant’Uffizio cotesto inceppare
le credenze: se riconosciamo il re, veniamo a giustificare la guerra
fratricida di Sicilia: la fedeltà alla costituzione data sminuirebbe il
diritto promesso alle Camere di modificarla»; si parlotta, si declama,
più a baldanza si grida perchè si sa come il Governo è disposto a cedere.
In fatto quella formola si tempera, riservando le modificazioni che
allo statuto farebbero il re o il Parlamento: ma la concessione pare
machiavellica sopraffina, tanto o le menti erano stemperate, o rese
diffidenti da storiche perfidie: si ripete dover il Parlamento essere
costituente, non costituito; il re esser uno, essi cento; il diverbio dal
palazzo civico di Montoliveto echeggia di fuori, e ne nasce tumulto, che
gli uni dissero eccitato dai repubblicani per trascendere, gli altri dai
reazionarj per toglierne titolo a comprimere, e chi dai Piemontesi per
trarre anche questo paese alla loro fusione; ciascuno solendo imputare
agli avversarj o le imprudenze o i misfatti di cui soffre le conseguenze.
E il re assentì altre domande (11 maggio) e un nuovo Ministero; onde
alcuni deputati si diffusero fra la turba raccomandando di disfar le
barricate dacchè l’oggetto della dimostrazione era conseguito: ma il
movimento è facile ad imprimersi, non a regolarsi.

Coloro che altrove si adulano col nome di popolo e quivi si vilipendono
col nome di lazzaroni, presero parte pel re contro cotesti disputatori;
gittatisi alle furie, incendiarono, uccisero; gli orrori che di quella
giornata raccontano i liberali, si direbbero inventati per iscagionare i
Croati. I deputati rimaneano raccolti senza prendere alcun partito, finchè
da un uffiziale ebbero l’intimazione di ritirarsi; e fatta protesta, se
n’andarono tra i fischi della popolaglia. La necessità del reprimere la
rivolta restituì al potere gli arbitrj strappatigli dalla ragione; e il
re, stretto fra la ribellione della Sicilia e la sommossa della capitale,
richiamò l’esercito suo dal Po.

Pepe, generale sfortunato della sommossa del 1821, esule d’allora in
poi, era conosciuto nelle società segrete ma non da quei soldati, docili
piuttosto ai particolari capitani, e devoti al re; sicchè egli rassegnò
il comando al generale Statella: ma ecco i volontarj tumultuano contro
l’ordine del re traditore; Statella, costretto a ritirarsi, in Toscana
è insultato, mentre s’applaude a Pepe, che disobbedendo mena di là dal
Po un battaglione di cacciatori e due di volontarj napoletani, uno di
lombardi, uno di bolognesi, una batteria di campagna, e va a Venezia dov’è
creato comandante supremo delle forze. Il resto dell’esercito diè volta;
e quest’altro potentissimo e ben ordinato soccorso rimase sottratto alla
causa nazionale, dolendosi il re di «non poter partecipare a sì nobile
impresa, e dover soltanto ammirare le gloriose geste dell’esercito sardo,
cui augura sollecita e lieta vittoria».

Troya rinunzia al Ministero, che è ricomposto con Bozzelli, coi principi
di Cariati, d’Ischitella, di Torella, col generale Carascosa e l’avvocato
Ruggeri, in voce di liberali. Al 15 giugno si tolse lo stato d’assedio,
e si rintegrò la libera stampa, che trascorse subito in eccessi,
corretti solo dalla plebaglia o da’ militari, che istigati od offesi
andavano a rompere i torchj. Rinnovate le elezioni, ricaddero quasi
sulle persone stesse: ma alcune erano profughe, sgomentate altre; e quei
che accettarono, davano indietro dalle dottrine testè proclamate, come
la cittadinanza rimanea muta avanti al vessillo tricolore, che tornò
a sventolare da Sant’Elmo. Il re, aprendo il Parlamento (11 luglio),
ripeteva «l’inflessibile risoluzione di assicurare a’ suoi popoli il
godimento d’una libertà saggiamente limitata; fidassero nella sua lealtà,
nella sua religione, nel suo sacro e spontaneo giuramento». Ma i deputati
diffidavano dei ministri e del re, il popolo diffidava dei deputati: e
ciancie e reciproche recriminazioni furono l’unico frutto del senno ivi
congregato. Si richiese di mandar ancora un esercito alla guerra santa;
ma come farlo se nelle provincie ripullulavano sommosse e guerra civile,
odj reciproci, reciproche paure di tradimenti?

In Calabria Ricciardi, Mileti ed altri vollero considerarsi come una
continuazione del Parlamento, sebbene gran parte dei deputati della
nazione avesse accettato di sedere nel nuovo. Le truppe, reduci dalla
guerra santa, repressero gl’insorti, invano sorretti da Sicilia: i costoro
capi poco mancò non dessero lo spettacolo di accapigliarsi fra loro;
perchè non riuscirono, ebbero taccia di traditori, e fin Ribotti non potè
purgare il proprio nome, benchè sempre fosse comparso alla prima fila, e
côlto dai Napoletani fosse sepolto nelle carceri. Francia repubblicana,
Inghilterra istigatrice, il papa cattolico (diceasi) protesteranno contro
gli abusi della vittoria regia, e vendicheranno i popoli. Ahimè! il papa
era avviluppato in domestiche sciagure: Francia, svogliata della libertà,
si contentò di domandare compensi pei danni patiti da Francesi in Napoli:
Inghilterra e altre Potenze non credettero che Ferdinando avesse torto di
usare d’una vittoria datagli da’ suoi avversarj.

Perduto coi fatti, resta lo sfogo delle parole: e poichè in quei tempi
nè l’odio nè l’ammirazione conoscevano misura, le imprecazioni contro
Pio IX traditore, contro il Borbone assassino erano tante, quanti gli
applausi a Carlalberto, dappertutto salutandolo re d’Italia; in tal senso
faceansi prediche, intrighi, tumulti qua e colà; il principato di Monaco
pronunziavasi per lui; il Parlamento siciliano, dopo una tumultuosa
discussione, chiedeva re un figlio di esso (10 luglio). Era naturale che
Roma, Toscana, Napoli ingelosissero di vedersi condotte a combattere, non
più per la causa nazionale, ma per indossare ad un solo i proprj manti, e
rinascesse l’inveterato capriccio del volere servire tutti, piuttosto che
veder sovrastare uno de’ nostri. Cessato il buon accordo, il nicchiare de’
principi accanniva i popoli; e lo stesso Carlalberto, re che guidava una
guerra d’insurrezione, soccombeva alle sconsigliate ammirazioni, e sentiva
tentennarsi in mano la spada, che avea promessa redentrice d’Italia.

I Tedeschi, a principio diffusi per tutto il regno, dovettero rimaner
inferiori, sinchè non si concentrarono nelle loro fortificazioni.
Carlalberto non si credette sicuro qualora non possedesse come base
d’operazioni il Mincio e l’Adige; e mentre avrebbe dovuto confidare in
Venezia, si ostinò davanti a fortezze, inespugnabili da soldati inavvezzi
alle stragi del cannone. La cui prodezza non potea contro i terribili
munimenti della natura e dell’arte? Nulla scoraggia quanto l’inutilità
degli sforzi. I viveri erano mal distribuiti, e lasciavano affamare nel
paese dell’abbondanza. Le bande de’ Crociati, inesperti, smaniosi di
titoli e di comandare tutti, mostrarono eroismo allo Stelvio, al Tonale, a
Curtatone, ma non l’accordo, l’obbedienza, la perseveranza che richiedonsi
per vincere; vi si mescolava feccia di viziosi che disonoravano anche i
buoni; e colle improvvide correrie nel Tirolo e a Castelfranco cagionarono
ruine di paesi e infruttuosi supplizj.

Una volta il Governo provvisorio mandò al colonnello Alemandi perchè
sistemasse quelle squadriglie, ma ciò le scompose. Rimossi dalle
battaglie, traviavano in giuochi e bagordi entro le case testè bombardate
dai Tedeschi e testimonj di gloriosissime difese, o intrigavano di
politica. Come avviene fra gente inusata alle imprese, prodigavansi lodi a
costoro, o se le prodigavano da sè nei giornali; qualunque gran coraggio,
qualunque lunga pazienza trovavansi qualità affatto ovvie nei soldati;
trovavasi miracolo ogni minimo sforzo in questi subitarj, d’altra parte
avuti in sospetto come democratici; laonde i tattici ripeteano: — A chi le
fatiche, i patimenti, le morti? A noi; mentre quei che stanno a casa a far
feste e banchetti ci lanciano vituperj, ci chiamano vili; ringrandiscono
le geste de’ nemici, le nostre deprimono; noi più che gli Austriaci
odiano; la nostra disfatta desiderano affinchè la repubblica trionfi. Oh,
i nostri nemici non sono a Verona, ma a Milano, a Genova, a Torino; non
sui campi e dietro le trincee, ma ne’ giornali e ne’ circoli, ove imbelli
parlatori eccitano malevolenze nelle città, sedizioni nel campo, e credono
mostrare libertà col disapprovare tutto, col gridare ai tradimenti perchè
non vinciamo, non moriamo».

Ciò svogliava il re dal valersi delle bande: eppure fu vero torto
l’arrestarsi nella strategia precettiva, e repudiare la potente alleanza
dell’insurrezione popolare; e per la sublime ambizione d’esser l’eroe
dell’italico riscatto, non avere sofferto altre spade, meglio acconce
ad una guerra che non era da re. Francia, briaca dei trionfi suoi e
intormentita dalle proprie convulsioni, prendeva alla causa italica
soltanto un interesse di ciarle; oltrechè se ne elidevano le simpatie col
gridare _Italia farà da sè_. Gioberti avea detto di temere meno il dominio
austriaco che l’ajuto francese. Mamiani ministro a Roma, proferiva:
— Massima sventura della nostra nazione sarebbe la troppo fervorosa e
attiva amicizia di alcun grande potentato» (giugno). Quando l’Austria,
quasi non cercasse che la decenza dell’abbandono, mediante l’Inghilterra
offrì di comporre Modena, Parma e la Lombardia fin all’Adige in un regno
indipendente sotto un arciduca, poi persino di cedere questi paesi,
non fu tampoco permesso di darvi ascolto; e il re medesimo, almeno in
pubblico[78], trovava che alla guerra assunta per l’italianità non poteva
convenirsi altro termine che l’intera emancipazione.

È sempre degno del più forte il propor la pace; ma i linguacciuti non vi
vedeano che un sintomo dello sfasciamento dell’Austria. E per verità le
proposizioni erano state dirette dal ministro imperiale Fiquelmont nel
momento che l’Austria, arietata dalle rivoluzioni rinascenti dappertutto
e nella stessa sua metropoli, pareva sobbissare: ma ben tosto ella potè
ripigliare il vantaggio; e dacchè l’impero non fu più che nel campo di
Radetzky, l’onor nazionale si trovò impegnato a sostenerlo a ogni costo.
Quelle Alpi, che sgomentano l’immaginazione e fanno bel giuoco alla
poesia, non furono mai insuperabili ad eserciti forestieri da Ercole fin
adesso, quando Nugent menò per le Carniche ventimila uomini a rinforzo
di Radetzky. Invece di perder tempo intorno a Palmanova ed Osopo, come
faceano i nostri a Peschiera, dissipando qualche resistenza delle città
munitesi subitariamente e delle bande, egli passò il Tagliamento e la
Livenza, e presa Udine (23 aprile) un mese appena dopo insorta, accampò
a Conegliano presso la Piave. Giovanni Durando, generale de’ Pontifizj,
dopo molto esitare fra gl’impulsi popolari e le renuenze del pontefice,
era comparso; e il dover suo sarebbe stato d’accorrere nella Venezia, e
impedire questa calata di rinforzi: e ve lo sollecitavano i Veneziani[79],
ma così non la sentivano nè il Ministero romano nè Carlalberto; sol
tardi giunse, e non impedì che fossero prese (5 maggio) Feltre, Belluno,
Bassano. Oltre la non dissimulata avversione del papa a questa guerra,
intrecciavansi i comandi suoi con quelli del generale Ferrari capo di
volontari romagnuoli, e del generale Antonini capo di raccogliticci in
Francia: gente mal disciplinata, e capitani gelosi perchè pari, gli uni
credonsi traditi dagli altri perchè non si sussidiano a vicenda, e tutti
pajono intenti più ch’altro a non pericolare i loro seguaci. Ferrari, non
soccorso nel fatto di Cornuda da Durando ch’erasi ritirato alla Brenta,
recede a Treviso: quivi accorre pure Durando, e il nemico ne profitta per
assalire Vicenza: se non che la gagliarda resistenza dei cittadini basta
a respingerlo.

Nuovi rinforzi al nemico conducea Welden pel Tirolo; e Radetzky con
un colpo arrischiato tentò girare alle spalle de’ Piemontesi, i quali
senz’averne avviso trovaronsi assaliti a Goito (29 e 30 maggio): i
soldati e i volontarj toscani a Curtatone e Montanara aveano sostenuto
coraggiosi l’assalto di triplo numero di nemici, comandandoli Laugier;
e dopo sei ore dovettero ritirarsi in rotta quei che non rimasero morti
come il professore Pilla, o prigionieri come il Montanelli. Quanto fu
il lutto della mal agitata Toscana, e quanto lamentarsi di madri e di
fratelli, impreparati a tante perdite! Tardi giunse a soccorso Bava coi
Piemontesi, o non informati della mossa, o lenti a ripararla: intanto
però Carlalberto avrebbe potuto vantaggiare di quel soprattieni, e colla
sua copiosa riserva involgere il corpo di Radetzky, e tagliarlo fuori
delle sue fortificazioni: ma mentre tutta Italia solennizzava la resa di
Peschiera, lasciò che il nemico, rifattosi e fidando nell’inesperienza di
lui, abbandonasse le proprie posizioni per correre ad incalzare Vicenza,
che difesa dai cittadini, dagli Svizzeri, dai Pontifizj sopraggiunti,
pure dovette capitolare (11 giugno). Durando patteggiò di ricondurre di
là dal Po i Romagnuoli, nè più combattere nella guerra santa; alquanti
ricoverarono a Venezia con Ferrari e Antonini; Treviso, Palmanova,
Osopo non tardarono ad essere occupate (13 giugno) dagli Austriaci,
ai quali restò aperto il varco verso la Germania per la Ponteba e pel
Tirolo, mentre Radetzky, compite le decisive operazioni, rientrava nelle
inespugnabili bastite.

Cessava la speranza del vincere, eppure le illusioni cresceano, e
mostrando i disastri ripeteasi: — Nessun’altra salvezza che nel re e nel
suo esercito». Ciò fece sollecitare la fusione della Lombardia: ma qual
capitano avrebbe potuto condursi fra le ciarle di quattro Parlamenti, di
centinaja di circoli, di migliaja di giornali? e Carlalberto che «era
entrato in campo più per cancellare colpe vecchie che per acquistare
glorie nuove» (RANALLI), era costretto rispettare quell’inesauribile
retorica. Rinforzarsi sull’alture di Sommacampagna, che sono il baluardo
della Lombardia, era il partito che unico gli restava, e lo prese: ma
stanco dell’inazione, e spronato dalle lodi e dalle accuse, volle prendere
l’offensiva col bloccare Mantova, e spinse quarantamila uomini sull’ala
destra; col che assottigliò la linea, scoprì la sinistra, e aperse
il varco di Rivoli, ch’egli erasi acquistato con tanto vanto. Allora
Radetzky, sbucato da Verona, e con ardita mossa sfondando il sottile
nemico, si spinse contro il centro (23 aprile), e prese Sommacampagna
senza aver vinto una battaglia. Dov’io, sebbene schivi le particolarità
de’ combatimenti, avvertirò come il nemico non esitasse ad abbandonare
sguarnita persino Verona, tanto sentiva l’importanza di farsi grosso
sopra un punto solo; e come la posizione decisiva di quella giornata
fosse presa da ottocento volontarj viennesi, giovani nuovi alle armi,
di cui soli cencinquanta uscirono illesi. Sono atti proprj della guerra
insurrezionale, e li faceva il domatore.

Tardi accortosi del fallo, il re diresse tutta la gagliardia a ricuperare
la posizione, ma non potè celeremente concentrare truppe così disgiunte, e
dalla inattesa celerità del nemico si trovò circuito; e il nome di Custoza
(25 luglio), come altri, ricorda valori e sventure. Allora cominciano i
disastri. I grossissimi magazzini cadono preda degli Austriaci; gl’invii
di nuove provvigioni restano tagliati fuori, e l’esercito per due giorni
difetta di cibo e di vino, mentre lo sferza un sole cocentissimo, e lo
incalzano senza resta i nemici, ben pasciuti e incorati dalla vittoria.
Il re, sconfitto prima d’essersi accorto dell’attacco[80], da Goito manda
a cercare un armistizio; e Radetzky lo consente; purchè abbandoni tutte
le fortezze, e si ritiri dietro l’Adda. A questi patti esorbitanti il re
preferì piegare sopra Cremona per coprire questa città, dove giaceano
i feriti. Giuntovi, e accortosi di non vi si poter reggere, ogni buona
legge di guerra gli suggeriva di ricoverare per Piacenza ad Alessandria,
sua base d’operazione: ma non l’avrebbero tacciato di combattere per
sè, anzichè per l’Italia? Difilasi dunque sopra Milano (3 agosto),
professandosi risoluto a difenderla, quasi sia possibile per una città
sì estesa e sguarnita, e dopo che avea mandato di là dal Po il gran parco
d’artiglieria.

A Milano il Governo provvisorio, dopo la fusione, avea ceduto il potere ai
commissarj regj generale Olivieri, Montezemolo, Strigelli. Giunsero allo
stringere del pericolo; onde si pensò invigorire la resistenza mediante
un Comitato di pubblica difesa[81], che pubblicò prestito, armamento,
silenzio de’ giornali, inquisizione contro gli abbondanzieri, quella
sfuriata d’editti che si fanno quando non si può far altro. Realmente
nella città aveasi sufficienza di viveri, di polvere, di cartuccie,
recente memoria d’eroismo, afflusso di profughi dalle città rioccupate;
la guardia nazionale, messa al comando del generale Zucchi, potea valere
a difesa, appoggiata dall’esercito che battesse di fianco il nemico:
inoltre tutto l’alto paese era libero; le creste dell’alpi Retiche munite
di cinquemila volontarj; Griffini con cinquemila altri presidiava Brescia;
il temuto Garibaldi accorreva dal Bergamasco nella Brianza, sicchè poteasi
minacciar le spalle del nemico con dodicimila volontarj, a dirigere i
quali il re avea spedito Giacomo Durando, generale piemontese impratichito
in Ispagna alla guerra di squadriglie.

Se di ciò incoravansi gli animosi, i più disperavano, e torme lamentevoli
e costernate fuggivano dalla città. Noi difendevamo l’Adda da Cassano in
su, e i Tedeschi già la passavano (1 agosto) verso le foci sul ponte di
Grotta d’Adda, lasciato sprovvisto; a gran pena evitasi nell’esercito
il pieno scompiglio; le strade ingombre di carriaggi fanno penosissima
la marcia, desolata anche da rovesci di pioggia; e di cinquantamila
uomini, che eransi mossi in ritirata da Goito, venticinquemila appena
avvicinavansi a Milano. Radetzky, lasciati tremila uomini a Cremona,
diecimila avviatine verso Pavia, con trentacinquemila accampò nei prati di
San Donato presso Milano, e battendo rincalzava i nostri verso la città.
Molti cittadini sortirono a combattere, e il re vedemmo in mezzo a noi
aspettare le palle nemiche, siccome chi più non ha nulla a perdere nè
a sperare. Conosciuta irreparabile la rotta, ci diemmo di tutta forza a
far risorgere le barricate: ahimè! l’entusiasmo era sbollito; e quei che
bastarono a cacciare il Tedesco quando concordi, or non valeano a tenerlo
fuori perchè disuniti: gli uffiziali ripetevano essere inutili quelle
difese popolari quando cannoni s’aveano da spazzar le vie: il popolo
supponea volessero difendere una città, sulla quale aveano attirato il
nemico, e invece li vide sfilare verso la patria.

La disgrazia rende ingiusti, e cessata la speranza della vittoria, parvero
cessare le scuse della sconfitta. Si pretese che Carlalberto, vistosi
incapace di restaurare la fortuna, patteggiasse con Radetzky d’aver
libero il ritorno, consegnandogli una ad una le città cui passerebbe.
Sempre il tradimento! ragione infingarda che dispensa dal cercare le
vere. Unico suo torto fu l’essersi creduto buono a condurre una guerra,
sol perchè la desiderava, e l’aver sino a quell’estremo dissimulata
la miserabile condizione del proprio esercito, e con ciò dato lusinga
d’una difesa, anche dopo aver capitolato. Avesse scoperto il vero, si
fosse immediatamente ricoverato sotto Alessandria, risparmiava tanti
patimenti al suo esercito e gli estremi sforzi ai Milanesi, che, delusi
nell’aspettazione e non ancora ridotti alla rassegnazione di chi si trova
sconfitto, proruppero in improperj; il grido di traditore fu lanciato
di nuovo in volto al misero re, che aveva esposto la vita propria e de’
figli; e coloro che l’incensavano inorpellato di diademi, non seppero
rispettarlo coronato dell’avversità, nè ricordare che ciò ch’è coraggio
davanti alla tirannia, diviene viltà dinanzi alla sventura. La notte
(6 agosto) egli usciva celatamente da Milano: il domani rientravano i
Tedeschi in una città muta e vuota d’abitanti, che a migliaja rifuggivano
in Piemonte o in Isvizzera[82].

L’armistizio (9 agosto) portava, che l’esercito vuoterebbe la Lombardia
e le piazze forti di Peschiera, Osopo, Rôcca d’Anfo, gli Stati di Modena,
Parma, Piacenza, e inoltre Venezia e la sua terraferma: nessuna parola dei
popoli, e neppur delle bande volontarie. Non era firmato dal Ministero,
bensì dal generale Salasco, al quale allora i ministri stranieri presero
a rinfacciare d’aver con ciò rovinato i buoni accordi ch’essi erano
in via d’ottenere, cioè che i due eserciti restassero nella relativa
posizione, finchè si negoziasse una pace, fondata sull’indipendenza della
Lombardia[83]; allora il Parlamento a imputarlo d’aver trasceso i poteri
con un atto che teneva alla politica; allora il vulgo a insultarlo, poichè
in ogni disgrazia vuolsi una vittima che cangi in ira la vergogna, e
incolpasi chi fece quel che non potea tralasciare. Ma Salasco rispondeva:
— Le insurrezioni si fanno dai popoli, le guerre si combattono dai
soldati; e questa era guerra: e poichè i primi nè s’erano mossi nè
accennavano di muoversi, e gli altri mostravansi e disordinati e ritrosi,
unica salute rimaneva una sospensione d’armi».

In fatto per allora i Tedeschi fermaronsi al Ticino, lasciando inviolato
il Piemonte: i volontarj di Lombardia vi furono dal bravo Giacomo Durando
ricondotti traverso a territorio occupato dai nemici, benchè di loro non
parlasse la capitolazione, e dai repubblicanti fossero esortati a buttarsi
ne’ monti e cominciare la guerra del popolo, il quale non si scosse:
le milizie toscane lasciarono Piacenza, macchiandosi coll’assassinare
il proprio colonnello Giovanetti. Ma i Tedeschi si stesero nei ducati,
pretestando gli accordi, la parentela e le aspettative, e istituendovi
Governi militari; passarono anche in Romagna, proclamando recar guerra
non a Pio IX, ma ai fazionieri che, malgrado suo, gli avevano osteggiati.
Pio protesta contro quel proclama, e non voler separare la sua dalla
causa de’ popoli, e intima a Welden che sgombri: ma il sant’uomo avea
perduto ogni efficacia, e i suoi ministri barcollavano, discordi e da lui
e dalla nazione. Bologna con ammirato coraggio respinse gli aggressori
(8 agosto), facendo tra il suono dei cannoni e delle campane a stormo
echeggiare per l’ultima volta congiunti i nomi d’_Italia_ e _Pio IX_:
l’eroismo soccombette, e se ne prevalsero i ribaldi, che abbrancate le
armi, le disonorarono con ferocia di saccheggi e assassinj, continuati
più giorni contro chicchefosse, col titolo di spia o di aver servito al
Governo papale, o più veramente perchè aveano denari o un nemico; talchè
la forza nazionale dovette ritorcersi contro costoro, i quali non tolsero
che Bologna fosse ingloriata d’eroismo al par di Milano e Palermo.

E un’altra volta l’alta Italia restava a discrezione degli Austriaci,
eccetto Venezia. Vedemmo come questa legalmente acquistasse la propria
libertà, ma parve dimenticare la necessità di difenderla; ed oltre
l’errore che la privò della flotta, rimandò a casa i tremila capitolati
italiani, e lasciò prendere a chi volle le munizioni dell’arsenale.
Secondo le sue tradizioni, proclamossi repubblica, ottenne l’adesione
delle città della terraferma, e fu riconosciuta dal Ministero del
Piemonte, che vi mandò il generale Lamarmora affinchè sopravvedesse
agli armamenti. Stavano a capo delle cose l’avvocato Manin e il dalmata
Tommaseo, elevati perchè vittime, ma nuovi agli affari, e che ben presto
discordarono fra sè. Apponeasi a Manin che restringesse le sue idee alle
lagune, alle Potenze straniere parlasse di Venezia, non dell’Italia, non
della liberazione della terraferma, le cui città presto dimenticarono
l’adesione per torcersi a Carlalberto, il quale potea salvarle se avesse
diretto parte di sue truppe alle alpi Carniche, o spintovi gli alleati
di Romagna[84]. Se nol facea, davasene per ragione l’aver preferito la
bandiera repubblicana alla regia; e il Comitato di Padova, ergendosi
interprete anche delle altre città, intimò al Governo di Venezia di
fondersi col Piemonte, o esse se ne staccherebbero. Decidere della patria
per ischiamazzi di plebe o di giornalisti pareva indegno; onde si assegnò
un’assemblea di deputati che risolvesse: ma le città neppure questo
attesero, e sull’esempio della Lombardia si diedero al re, ne’ giorni
appunto che i Tedeschi le rioccupavano.

Venezia però era ancor salva, e per la sua posizione poteva difendersi.
Sprecata l’occasione d’aver tutta la flotta, teneva due corvette e due
brigantini sotto Brua, cui si unirono due fregate a vela e altrettante
a vapore napoletane e tre brigantini a vapore, comandati da De Cosa, e
quando gli uffiziali di essa vennero a visitare Venezia (22 maggio), fu
la festa più splendida che da cinquant’anni si vedesse: il Piemonte avea
spedito la sua flottiglia sotto l’ammiraglio Albini che comandava in capo;
e così formavano il doppio dell’austriaca. Questa rincacciarono nella rada
di Trieste, dove facilmente avrebbero potuto distruggerla, e sollevare
quella città e l’Istria; ma per riverenza alle proteste germaniche non
osarono; poi ben presto i Napoletani se ne staccarono, come dicemmo,
per combattere non Tedeschi ma Italiani. Pepe, ridottosi a Venezia, fu
eletto comandante supremo dell’esercito, che consisteva in diciottomila
uomini, mal in monture, bene in armi e munizioni, privi d’esercizio,
con un’infinità di uffiziali che il grado eransi dato da sè, o s’erano
fatto dare dai soldati o dallo schiamazzo. Vero è che poco aveano a fare,
poichè, sebbene Welden avesse occupato tutto il littorale, stendeva appena
diecimila uomini su lunghissima linea; in fazioni parziali, massime alla
Cavanella e a Malghera, esercitarono il valore, nulla decisero.

Cessato di sperare da Napoli, non restava che Carlalberto, e a lui
gridavansi i _Viva_, i _Mora_ a Manin e Tommaseo, da quei moltissimi
che dal continente correano a cercarvi ricovero dalla paura, libertà di
piazzate, apparenza d’eroismo. Raccolta l’assemblea (4 luglio), esposero i
ministri la condizione delle cose; abbondarvi l’armi, bastevole la marina,
ma occorrere due milioni e mezzo di lire al mese, mentre n’entravano
appena ducentomila. Messasi allora in dibattimento la fusione, non mancò
chi s’opponeva. Venezia, diceano, proclamando la repubblica, non avea che
seguìto la sua storia; del resto capì la necessità di non disgiungersi
dalla sorella

Lombardia, e la imitò, asserendo si terrebbe neutra sulla forma politica
fin a guerra finita. Tale neutralità erasi violata da coloro che
primi l’aveano annunziata; ed avviatasi la fusione della Lombardia, le
città venete blandite dai cortigiani, che usavano arti semiliberali,
semipopolari, semimagnanime per farsi esibire il carciofo invece di
ciuffarlo risolutamente, aveano rivolto indirizzi, poi deputazioni al
re. Ripetono che il paese non è maturo a repubblica, e intanto lo fanno
decidere da sè le proprie sorti colla più avanzata forma repubblicana,
qual è il voto diretto universale, e senza previa discussione, e sopra gli
affari in cui è meno competente, i politici. Che se il pericolo è urgente,
forse si svia colla fusione? Se vi erano dissensi, non invelenirono con
queste brighe? Perchè supporre al re la grettezza di rovinare la causa
nazionale per aspirazioni dinastiche? Se bisognano soccorsi stranieri,
ciò renderà men facile l’ottenerli.

Discussioni superflue quando l’esito era prestabilito, e l’immediata
fusione col Piemonte restò vinta a gran maggiorità. Manin, professando
di pensare repubblicano ma di non ostare a quel che la necessità impone,
non volle parte nel nuovo Governo, ed ebbe lodi e vituperj. Accettata dal
Parlamento piemontese la fusione (7 agosto), vengono commissarj regj il
generale Colli e lo storico Cibrario, proclamando che «chiamato dal loro
libero voto, il re Carlalberto gli accoglie e li proclama eletta parte
della sua grande rigenerata famiglia». Era il domani appunto della resa
di Milano; e all’11 giunge l’avviso che Carlalberto nell’armistizio cede
anche Venezia. Più non si rattiene la folla dei tanti colà ricoveratisi;
e concitati dal lombardo Sirtori e dal toscano Mordini, costringono
i commissarj a congedarsi; Manin, rialzato sull’aura popolare, quieta
la sommossa, e dice: — Per quarantott’ore governo io: ora sgombrate la
piazza, chè bisogna silenzio e calma per provvedere alle necessità della
patria»; e il popolo si ritira (13 agosto), ed egli salva gli Albertisti
dal furor demagogico: poi radunata l’assemblea, è gridato dittatore,
mentre, per togliergli un emulo e un ostacolo, Tommaseo viene spedito a
invocare gli ajuti di Francia; si decreta di resistere fin all’estremo;
ed esulta la speranza che Venezia basti ancora una volta a ricovrare le
reliquie della perduta Italia.

Quel diroccamento delle fortune italiche, oltre eccitar dappertutto la
riazione contro la violenta unità predicata dagli Albertisti, esacerba gli
animi anche in Piemonte, e precipita i consigli. Il re, con un proclama
mestamente dignitoso annunzia i disastri dell’esercito in cui stavano
tutte le patrie speranze; «torna esso con onore di forte e bellicoso;
vogliate accoglierlo con fraterno saluto che ne allevii il dolore:
io co’ miei figli sto in mezzo a voi, pronti a nuovi patimenti per la
patria». Ma che in quattro mesi l’esercito sì agguerrito non riportasse
una vittoria, mentre tante n’avea avute il popolo inesperto a Milano, a
Bologna, nel Cadore, dove sin le donne mostraronsi eroine, nel Vicentino;
che centomila uomini, senza campale sconfitta nè gravi perdite, in pochi
giorni cedessero un vastissimo territorio e tante città, le quali dianzi
da se medesime aveano saputo liberarsi, pareva strano fin a quelli che
la guerra aveano sempre sconsigliato: or pensate ai diversi! Da Torino
vengono deputati a chiedere de’ misteriosi rovesci spiegazione al re,
il quale in Alessandria celava quasi obbrobrio quella ch’era sventura;
i Lombardi ivi rifuggenti sono accolti con aspreggio, dai retrogradi
come incitatori d’una guerra che rovinò il paese, dai caldi come troppo
pigri ai soccorsi, dai municipali come avversi al Piemonte; l’ingiuria
baldanzeggia, quanto un giorno la fratellanza.

Cesare Balbo che, dopo ventisette anni d’aspirazione, erasi trovato
ministro, e avea potuto dichiarare guerra all’Austria e far decretare
la fusione della Lombardia, ne esultava fin all’ebbrezza; un tratto
volle esser anche ministro della guerra, pregò il re di chiamarlo
quando s’avesse a combattere una battaglia, e assistette a quella
di Pastrengo con cinque figli tutti militari. Ma i vortici della
rivoluzione inghiottono le reputazioni più sode; e se il Ministero
era parso facile tra gli applausi e i primitivi prosperamenti, divenne
scabroso nelle traversie e in faccia alle Camere. Avea dunque dovuto
scomporsi per formarne un nuovo con persone de’ varj paesi uniti, Casati
e Durini milanesi, il piacentino Gioja, il veneto Paleocapa; oltre
Rattazzi, Plezza, Lisio, Collegno, antichi perseguitati. Ma le stizze
municipali inviperirono contro di essi, e il gridío non frenavasi se non
all’autorevole voce di Gioberti.

All’annunzio poi degli inaspettati disastri, il Parlamento decretò la
dittatura a Carlalberto, ma non sapea che far declamazioni; e il Ministero
si sciolse, protestando contro l’armistizio Salasco come conchiuso
da autorità non competente: nell’intervallo restarono l’arbitrio e
l’illegalità, finchè si rassegnarono ad assumere il portafoglio Alfieri,
Pinelli, Revel, Merlo, Dabormida, Roncompagni, Perrone, Santarosa,
sentendone il carico e le difficoltà. Qui una furia d’interpellanze sulle
presenti, di recriminazioni sulle passate cose, e un sistematico avversare
le proposte del Ministero, o snaturarle con emende; l’improperio peggiore
era l’essere detto moderato, e dimostrazioni e minaccie e lettere anonime
e fischi e insulti sui giornali e coi fatti lanciava ad essi quella
turba di rifuggiti d’ogni paese, che si denotava col nome di Lombardi: al
Balbo, costante nei consigli temperati, fu più volte minacciata la vita
se tornasse alle Camere, e v’andava col pugnale; e quei che non voleano
ingiuriarlo, il compativano come imbecillito dall’età. Fu duopo soddisfare
agli schiamazzanti col punire Salasco autore dell’armistizio, Federici
e Bricherasio che cedettero Peschiera e Piacenza: a Genova si assalì
il generale Trotti, benchè sciorinasse la bandiera crivellata da palle
nemiche: giunti poi in quella città il padre Gavazzi e De Boni, cinti da
quei che cercavano ventura col predicare libertà sconfinata, procurano far
proclamare la repubblica. Insomma il nemico comune, la plebe, dopo invasa
la stampa, invadeva anche il Governo; e i guasti ne furono peggiori che
quelli dell’Austriaco.

Allora tornasi agli esercizj di chi non n’ha di migliori; e a Torino
radunasi un Congresso Federativo italiano (10 8bre), preseduto da Gioberti
piemontese, Mamiani romagnuolo, Romeo calabrese, cui si aggiungono
presidenti di sezione, vicepresidenti, segretarj[85]; assistito dai più
fervidi declamatori, e dall’irremissibile Canino, che voleano pensare
qualche assetto alle cose italiane con vacuità di retorica e di applausi,
come si soleva prima della rivoluzione, e col solito rito di credere e
far credere ciò che non è. Ben presto si sfasciò.

Il malcontento e il furore si erano sparsi principalmente nello Stato
pontifizio e a Roma, che di tutta quella rivoluzione fu il centro vero.
Dopo il 30 aprile la turba si separò dal papa, e viepiù da che tornarono i
capitolati di Vicenza, i quali, col nome di Reduci, divennero istromenti
alle turbolenze, e braccio dove non vi era nessun nemico e moltissimi
declamatori. La rotta di Carlalberto riuscì tanto più dolorosa, quanto
ch’erasi divulgata una portentosa vittoria: al dissiparsi della qual voce,
il vulgo prorompe furioso; una gran dimostrazione notturna a fiaccole (30
luglio) minaccia l’autorità; il Parlamento decreta milioni, e di muovere
la guardia nazionale, una legione straniera, un generale italiano, e
sottomette al papa un indirizzo tanto più infervorato, quanto che tardo
e inutile. Il papa vi risponde vagamente; onde il Ministero Mamiani si
dimette, sottraendosi alle difficoltà per rovesciarle sul papa, il quale,
abbandonato sopra un pendìo dove l’aveano issato a forza, fu costretto
firmare tutti quei decreti, e ricostruire un Ministero sotto la presidenza
del conte Fabbri. Le società di sollazzo e di ciancia erano divenute di
intrigo e di cospirazione (1847): Ciciruacchio, Faccioti, Grandoni si
posero capi di tre conventicole, che discordavano tra loro, e ciascuno
spingeva agli eccessi con proposizioni distinte, tanto più violente
perchè non toccava agli sbraitanti il metterle ad effetto, concordi solo
nel domandare il secolarizzamento. Tra i sommovitori primeggiava Pietro
Sterbini, capo del circolo popolare; fuori romoreggiavano giornalisti e
piazzajuoli; chi cercasse reprimerli non poteva che essere esecrato, e
principalmente Pellegrino Rossi.

Questo carrarese (n. 1785), di buon’ora illustratosi a Bologna come
avvocato e professore, nel 1815 avea caldeggiato la spedizione di Murat,
sperando inoculare idee italiche alla forza materiale: in conseguenza
costretto a migrare, non credette che l’esiglio l’obbligasse alle
accidiose melanconie e ad aspettare dagli altri l’imbeccata; e postosi a
Ginevra, allora ritrovo d’insigni persone, quali la famiglia di Staël,
il duca di Broglie, Sismondi, Bonstetten, Bellot, Dumont, Pictet,
De Candolle, De la Rive, italianizzò alcune poesie di Byron, mentre
s’esercitava nelle scienze positive e nel francese, che adottò pei
futuri suoi scritti. Presto ad una cattedra libera di giurisprudenza
attirò e studiosi e curiosi in folla, col che si fece via ad un posto
nell’Università, benchè cattolico, e dirugginò l’insegnamento della
giurisprudenza e della storia romana. Fatto cittadino, intraprese
con Sismondi, Bellot, Dumont, Meynier gli _Annali di legislazione e
giurisprudenza_. Quando il paese ribollì per la rivoluzione del 1830,
fu scelto a compilare una costituzione, conosciuta col nome di _patto
Rossi_, che allora rifiutata, rivisse poi nello statuto unitario del
1848: ma egli ripudiava la radicale fusione, conoscendo quanti vantaggi
porterebbe l’unione, quante violenze l’unità. Perduta con ciò la mutabile
aura popolare, passò in Francia, e vi fu eletto professore di diritto
costituzionale, malgrado i fischi scolareschi, e membro dell’Istituto, e
cittadino, e presto pari e conte, molto ascoltato dal re, e bersagliato
dall’opposizione come straniero e come nella pratica applicazione
modificasse o, voleano dire, tradisse le sue dottrine economiche. Di
rimpatto i dispensieri della fama lo eressero fra i primi pubblicisti
con soverchia condiscendenza; giacchè di facoltà inventiva egli era
scarso, quanto abile a giovarsi degli altrui trovati ed abbellirli, e
nulla aggiunse alle dottrine, vuoi nella teoria del diritto penale, ove,
disertando da Bentham col quale militava da principio, conobbe fondamento
delle leggi e della penalità la giustizia assoluta; vuoi nelle economiche,
dove ammette verità speculative, che poi la pratica può contraddire;
dimostri principj, dei quali insegna diffidare. Erano difetti della scuola
eclettica, alla quale s’era aggregato, e che in politica dicevasi dei
Dottrinarj, coi quali opinando nella Camera dei pari, sosteneva spesso
applicazioni che pareano repugnanti co’ suoi principj, mentre erano questi
che lo rendeano capace di servire a qualsifosse partito.

Tale esitanza di atti, e il fare burbanzoso e riservato che spesso
acquista chi vagheggiò la popolarità e subì invece oltraggi, e che fa
dispettare le arti colle quali essa vuol essere comprata, alienavano da
lui e gli scolari e i fuorusciti italiani, accusanti questo rivoluzionario
divenuto sostegno dei Governi, questo cittadino svizzero convertitosi
in campione dei re. Luigi Filippo assai valevasi di esso, e quando la
Francia trambustava contro i Gesuiti, lo deputò a Roma per indurre il
papa a qualche provvedimento contro di essi. L’invio di un carbonaro,
d’un semielvetico, d’uno che avversava la santa Sede come filosofista
e come profugo, d’uno che alla vulgare paura de’ Gesuiti sagrificava
la libertà dell’insegnamento, somigliò ad un insulto; pure egli seppe
cattivarsi anche il ritroso Gregorio XVI, e non isgomentandosi a minaccie
e ripulse, menava a fine i suoi intenti. Studiava intanto la situazione
del paese e il valore degli uomini; e dopo incoronato Pio IX, procurò
che il Ministero francese ne sorreggesse il coraggio, francamente
cooperando coll’Inghilterra a rigenerare l’Italia; al che, sebbene
vecchio, e persuaso non si potesse condurvisi che passo a passo, sperò che
l’entusiasmo de’ popoli arriverebbe. Intanto i giornali lo insultavano
come cosmopolito senza color nazionale, discepolo del Guizot che allora
cadeva di moda, manutengolo di Luigi Filippo e di Metternich.

Al ruinare di questi, il Rossi perdette gli onori e gli impieghi: ma
rimase da privato in Roma[86], ove Pio IX ne apprezzò la pratica e le
cognizioni amministrative e politiche, quanto più la marea montava, e
un dopo l’altro assorbiva gli uomini su cui egli faceva conto; in questi
ultimi frangenti poi, vedendosi imposte persone sgradite, chiamò il Rossi
nel Ministero (1846 16 9bre), di cui lasciava capo nominale il cardinale
Soglia. Accettò il Rossi quel grave incarico, non come un balocco o una
onorificenza, ma come un grave dovere; si applicò a restaurare l’erario
con imposte effettive, promuovere i lavori pubblici e le strade ferrate
e i telegrafi, porre scuole d’economia pubblica e diritto commerciale,
avviare una statistica: promesse solite d’ogni nuovo reggitore, ma fatte
con più serio aspetto, in quanto egli subito diede sussidj ai volontarj
reduci e alle vedove degli uccisi, e riordinò la milizia volendo compagno
nel Ministero il modenese Zucchi (t. XIII, p. 396) che dal 1831 sepolto
in una fortezza austriaca, n’era stato tolto dalla presente rivoluzione, e
che allora fu spedito a quietare Bologna, sovvolta ancora da quei ribaldi
e dal padre Gavazzi. Aborrente da un’unità che poteva solo attuarsi
colla violenza, il Rossi desiderava un’unione sincera e reale de’ varj
Stati, e perciò combinare la lega italiana, «della quale Pio IX era stato
spontaneo iniziatore ed era assiduo promotore»; e — Noi abbiamo speranza
di vederla fra breve posta ad effetto per l’onore d’Italia, per la tutela
de’ suoi diritti e delle sue libertà, per la salvezza delle monarchie
rappresentative testè ordinate, e che un sì splendido avvenire promettono
agl’Italiani di vita civile e politica»[87].

Per trattare di questa lega, il Gioberti, allora anima del Ministero
torinese, aveva spedito il filosofo Antonio Rosmini; opportunissima
scelta d’uomo devoto alla santa Sede, venerato dall’Italia, e insieme
perseguitato dai Gesuiti e sospetto all’alto clero, nel quale però
possedeva ammiratori ed amici. I suoi avversarj già avevano promosso
un’indagine intorno alle dottrine filosofiche e teologiche di lui: ora
s’inacerbirono per un suo scritto sopra le _Cinque piaghe della Chiesa_,
le quali erano, la separazione del popolo dal clero nel pubblico culto,
specialmente in grazia della liturgia in latino; la insufficiente
istruzione del clero; la disunione dei vescovi; l’essere la nomina di
questi abbandonata al potere laicale; la servitù dei beni ecclesiastici,
dove, propugnando le ragioni della Chiesa a fronte della podestà laicale,
non dissimulava i disordini di quella, e confidava nel riparo «ora che
il capo invisibile della Chiesa collocò sulla sedia di san Pietro un
pontefice, che pare destinato a rinnovare l’età nostra, e dare alla
Chiesa quel novello impulso che spinge per nuove vie ad un corso quanto
impreveduto, altrettanto stupendo e glorioso». Il papa, non che condannare
il Rosmini, appena ne conobbe quella sapiente dolcezza lo volle consultore
alla Sacra Congregazione dell’Indice, e lo preconizzò futuro cardinale:
intanto ch’esso filosofo spingeva alla lega che, «per dare unità di forza
e di opera all’Italia, doveva essere una confederazione di Stati, con
un potere centrale, cui primo officio fosse il denunciare la guerra e la
pace, e prescrivere i contingenti de’ singoli Stati, necessarj, siccome
all’esterna indipendenza, così alla tranquillità interna»[88]; regolare il
sistema doganale e i trattati di commercio; a vicenda si garantirebbero
gli Stati. Ma il turbine che allora imperversava, travolse ben presto il
Gioberti; e il Ministero succeduto, avverso a tutto ciò che sapesse di
piviale, disdisse quelle convenzioni già combinate fra Pareto e monsignor
Corboli Bussi. E al punto ove stavano gli eventi, forse è vero che lo
scopo reale della divisata lega si era nei principi l’impedire che troppa
Italia si unisse sotto Casa di Savoja; mentre il Ministero piemontese,
mirando al sommo ampliamento di questa, chiedeva prima di tutto gli si
mandassero truppe onde rinnovare la lotta dell’indipendenza.

Che tutt’Italia dovesse armarsi per estendere il regno sardo da Chambéry
al Panaro, sembrava stravagante al Rossi: conveniva egli pregiudicare
così la quistione nazionale? poteasi dimenticare a tal punto il regno
di Napoli? il Piemonte stesso, coll’accettare la mediazione delle alte
Potenze, non si mostrava propenso alla pace? nol mostrava coll’abbandonare
indifesa Venezia? prima di domandare contingente ai collegati, canti
chiaro a che cosa aspira, a quali limiti s’arresterà; «ogni Stato spedisca
ambasciadori a Roma, e si delibererà de’ comuni interessi, sotto l’ala
del pontificato, sola viva grandezza che resti all’Italia, e che le fa
riverente ed ossequioso tutto l’orbe cattolico». E nel suo concetto stava
che le varie Corti s’accordassero fra loro e con Napoli e coll’Austria per
assicurare la libertà interna di ciascuno Stato; insomma impedire i mali
irruenti, più che vagheggiare beni irraggiungibili.

Fu nei destini di quegli anni che i trionfi e la ragione si attribuissero
sempre al caduto: e la sventura aveva ora cresciuto le propensioni pel
Piemonte e le smanie degli Albertisti. I quali allora colle mille voci de’
giornali denunziarono il Rossi per ostile all’unità italiana, sprezzante
del valore piemontese, insultatore alle disgrazie nazionali, avverso
all’ingrandimento della Casa di Savoja, il che allora e poi equivaleva a
satellite dell’Austria. Il Rossi udiva, soffriva come avvezzo, e intanto
navigando contr’acqua, imbrigliava gli stemperati de’ circoli e di
piazza, non meno che la subdola riazione ne’ palazzi; e perchè avea spia
di tutto, e nel reprimere parziali sommosse e nel cacciare perturbatori
forestieri e le bande del Garibaldi avea spiegato forza, era esecrato
dagli esuberanti: i preti, da lui colpiti di tasse al pari degli altri
cittadini, lo denunziavano sacrilego; austriacante, quei che subodoravano
ch’egli patteggerebbe anche coll’Austria vincitrice, dacchè non erasi
saputo vincerla: il Congresso Federativo di Torino dichiarava la caduta
di lui essere necessaria nell’attuamento delle speranze italiche: i
declamatori, che in tutte quelle faccende ebbero un’importanza, di cui
l’Italia dovrebbe eternamente ricordarsi per sua lezione, lo designavano
al furore del vulgo, bisognoso d’esecrare spettacolosamente dopochè avea
cessato di spettacolosamente amare Pio IX: Ciciruacchio sbraitava, — Per
c..., lasciate fare a noi altri, e domani sarà finito tutto, e comanderemo
noi»: sulle piazze e sui caffè gridavasi che non si rifà il mondo colle
dimostrazioni e con applausi al papa; croci e incensieri valere al più in
chiesa; una rivoluzione volersi, cioè riscattarsi dalla turpe servitù de’
preti e dell’aristocrazia, ricuperare i pieni diritti dell’uomo, nè ciò
potersi che con colpi e sangue; volgansi pugnali e archibugi contro preti
e frati, e se vengano col crocifisso o coll’ostensorio, il primo colpo a
questo, il secondo a chi lo porta.

Quando si trovano a fronte due partiti, entrambi scompaginatori, chi
attiensi al mezzo legale è trascinato da due lati a rovina. Venne il tempo
di aprire il Parlamento; e il Rossi, benchè avvertito che attentavasi
ai suoi giorni, non vi badò, per quell’orgoglio con cui era avvezzo a
sbraveggiare l’opinione, e perchè d’altra parte il suo dovere gl’imponeva
d’andare all’adunanza, raccolta colta nel palazzo bramantesco della
Cancelleria (16 9bre). Tutta la strada è accompagnato da’ fischi della
plebe e della guardia nazionale; fiele mesciutogli prima della croce:
come arriva, prorompono urli, ringhi, grida d’ammazza, fra cui alcuno
s’accosta e lo trafigge. Un silenzio universale succede; la guardia
nazionale assiste inerte al fatto; nessuno lo compassiona o soccorre,
e un suo staffiere a fatica lo trascina in una camera ove spira. In
quei tempi furono uccisi in simil modo a Vienna il ministro Latour, in
Ungheria il Lamberg, a Francoforte il Lichnowsky: eppure quest’assassinio
parve destare più orrore pel modo. Quando nel Parlamento fu annunziato
l’occorso, la voce che incessantemente vi prevaleva, grida: — Cheti là,
cosa c’importa. Forse è morto il re di Roma?» e non un atto di protesta
nè di compassione si ardisce, soffogata l’indignazione dalla paura della
plebaglia. Alla sera Ciciruacchio combina un’ovazione, urlando abominio
quegli stessi che da due anni urlavano osanna; e cantano al Bruto terzo,
e fino sotto le finestre della vedova benedicono quella mano che il
trafisse, e col «Morte ai preti» alternasi «Viva la Costituente». Altra
ciurma, la giornalistica, parte affettò silenzio o semplice enunciazione
del fatto, parte applause all’assassinio «dell’aborrito avventuriero,
causa di tanti mali ed anelante a spargere il sangue de’ cittadini dopo
averne spenta la libertà: egli trovò la morte fra i primi cittadini che
incontrò salendo la scala dei deputati e cadde spettacolo di sangue ai
Governi d’Italia... Ci fa ribrezzo la necessità nel sangue; ma voi, uomini
del potere, specchiatevi nella morte del ministro Rossi»[89].

Così i trionfi del mite pontefice rigeneratore finivano col trionfo
per un assassinio, del quale si accettava la correità col festeggiarlo
anche in altre parti d’Italia; a Livorno occasionò un’orgia, presente
il governatore; altrove si pubblicarono pasquinate e canzoni, e da quel
sangue riprometteasi politica nuova e il termine della servitù. Al domani
il popolo si dirige al Quirinale chiedendo un ministero democratico: e
il papa, non senza aver protestato, lo consente, preponendovi monsignor
Muzzarelli con Sterbini, Campello, Mamiani, Lunati, Sereni, Galletti.
Deplorabile spediente, ove conservavasi il principe, eppure si obbligava
ad atti da cui aborriva; faceasi richiamo alla costituzione mentre la si
violava coll’imporre al principe ministri ch’e’ non gradiva. Comandatogli
d’intimare la guerra nazionale e l’assemblea costituente, il papa protesta
non poter risolvere sotto la violenza: ma la folla abbranca le armi; gli
Svizzeri non osano far fuoco, eppure si divulga che versano torrenti di
sangue; si spara contro il palazzo del papa, il cui segretario rimane
ucciso; tutte le vie verso Monte Cavallo sono serragliate; si prepara ogni
occorrente per un assalto. Il mite papa, che s’era di cuore abbandonato
alle manifestazioni plaudenti, dovette allora subire fino l’attacco
personale dell’armi e delle bestemmie; e dall’ebrezza de’ battimani
riscosso al tuono delle fucilate, trovandosi deserto dal vulgo ch’egli
avea creduto popolo, si getta in braccio ai principi; e favorito da tutti
gli ambasciatori forestieri e dalla figlia del comico Giraud, vedova di
Dodwell e moglie di Spaur ministro di Baviera, fugge nel Napoletano (21
9bre), lasciando una lettera ove attestava che nessuno era complice della
sua fuga; ai ministri raccomandava l’ordine, e di rispettare le persone
e le robe. Da Gaeta poi, ove il re di Napoli lo ospitò coi sommi onori,
destinò una commissione che reggesse in suo nome: ma il Parlamento,
concitato principalmente dal Canino che senza posa ripetea la costituente
italiana, dichiarò (11 xbre) o falso o surrettizio quel breve, e nominò un
triumvirato col potere esecutivo, composto del principe Corsini senatore
di Roma, Camerata gonfaloniere d’Ancona, e Galletti.

Il rifuso Ministero dava buoni ordini, ne dava di cattivi; ma in
ogni parte i magistrati laici o ecclesiastici abbandonavano il posto,
lasciandovi lo scompiglio e lo smarrimento; i costituzionali cercavano
che la Corte li sorreggesse, e restaurerebbero il principato, purchè
garantisse le date franchigie; i diplomatici seguirono il papa a Gaeta;
il popolo chiarivasi a favore di esso, e bisognava sottometterlo o
punire, mentre vedeansi miracoli di crocifissi che grondavano sangue,
di madonne piangenti. Bologna, dove Zucchi colla forza dava sopravvento
ai costituzionali, volea staccarsi dalla tempestosa Roma che scarcerava
i galeotti: i violenti speravano giunto il regno del saccheggio e del
sangue: universale era lo scombussolamento, e i governanti doveano adulare
la plebe colle condiscendenze che avevano disonorato la repubblica di
Francia, e sollecitare qualche riordinamento contro la feccia che saliva
a galla. A Roma affluiva quanto di più fermentoso v’avea nello Stato e
per l’Italia, e mal poteanli frenare le parole di Mamiani e la guardia
nazionale; i ricchi e i quieti fuggivano, e per giustificarsi esageravano
le scapestratezze del popolo, che per verità su quelle prime fu a lodare
per quello che non commise, anzichè a vituperare di quello che commise
dopo rotto ogni freno; ma i pericoli prendeano gravezza e corpo dalle
concitate fantasie. Nulla badando a proteste del papa, si convoca una
Costituente per lo Stato romano (20 xbre), ma la legge elettorale «non
che venisse dai Consigli accolta e decretata, non si potè pur discuterla
per mancanza di numero legale»[90]. Anatemizzata dal papa, non poteanvi
prender parte quelli che ancora serbavangli fede, e che sarebbero valsi a
moderarla; mentre i circoli, governati dai veneti De Boni e Dall’Ongaro,
faceanvi destinare i più impetuosi e intriganti, minacciando del coltello
chi esitasse.

La Costituente, adunatasi (1849 5 febb.) «per purificare la patria
dall’antica tirannide e dalle recenti menzogne costituzionali», apre i
suoi lavori sul Campidoglio «sotto gli auspicj di queste due santissime
parole _Italia_ e _Popolo_»[91]; Armellini informa di quanto operò la
commissione provvisoria, e come, dopo che era passata ai Cesari, poi ai
papi, fosse tempo di ricostruire la Roma del popolo. Ben Mamiani avvertiva
questo vizio d’Italia, di mettersi indosso gli abiti che altrove sono
stati dismessi, e rialzare le insegne altrove cadute, invece di cogliere
il tempo e l’occasione; che cosa sperare adesso che mancavano eserciti e
ardore di plebi a sostenere la repubblica? Piemonte, Toscana, Napoli non
le darebbero ajuto nè imitazione; Francia le si pronunzierebbe avversa, e
prevalendo già dappertutto un genio di conservazione e di rassettamento,
non sarebbe tampoco favorita dall’aura democratica; si rimettesse dunque
la decisione alla Costituente italiana.

Ma più sfringuellavano quelli destinati a tutto impacciare, e — Che
importa l’appoggio altrui? faremo da noi. Francia repubblica sosterrà
certo una repubblica; Napoli è troppo occupata in Sicilia; se Torino
ricusa, ben si moverà Genova; è assurdo l’attendere dalla Costituente
quello che possiamo darci da noi». Ed erano que’ dessi che predicavano
l’unione italiana; che della Costituente faceano la panacea d’ogni piaga,
il cardine della liberazione universale.

Garibaldi propone di immediatamente proclamare la repubblica, senza pur
la formalità di verificare i deputati; Canino esclama: — Sento fremere la
terra sotto a’ miei piedi; sono l’ombre de’ grandi trapassati che gridano
_Viva la repubblica romana_». In fatto si pronunzia scaduto il pontefice
(10 febb.), nazionali i beni ecclesiastici, governo la democrazia pura
col titolo di Repubblica romana; badando all’intrinseca eccellenza
della cosa, più che all’opportunità. Mamiani che, partito il pontefice,
avea consentito di ripigliar parte nel Ministero[92], vi rinunzia
dacchè vede impossibile la riconciliazione: e fu giudicata debolezza
d’uomo, che spinge fino agli estremi, poi si ritira; onde lo gridarono
liberale rinnegato, speculativo ambizioso e infetto d’aristocrazia.
Nel Ministero romano furono posti il vecchio Armellini, il sapiente
Saliceti, il dovizioso Guíccioli, persone rispettate in generale, e lo
Sterbini, ambizioso faccendiero che invidiava tutti, e tutti contrariava
senza discernere mezzi e vie. Si levarono campane che il popolo avea in
devozione; si molestava chi comparisse vestito da prete o frate; sciolto
il Sant’Uffizio, de’ misteri di quello si fecero scene e spettacoli,
e si fu ad un punto di mettere fuoco alla chiesa e al convento della
Minerva. Smaniavasi di leggi contro i migrati, di confische, di penali
feroci; provvedeasi al denaro coi decreti, alla politica colle millanterie
rivoluzionarie, e beato chi di più severe ne portasse; chi vi contrariasse
sottoponendo alle giunte arbitrarie ed eccezionali, di cui faceasi tanta
colpa a Gregorio XVI, come concedeansi più grazie che mai non avessero
fatto i preti: e intanto dappertutto gli assassinj politici «turbavano
quel maraviglioso concorso d’un intero popolo nell’opera della sua
redenzione, gittavano nel fango l’idea vergine e maestosa che si eleva sul
Campidoglio, profanavano il nuovo patto d’amore e di perdono, giurato in
Roma dai veri credenti nell’avvenire dell’umanità»[93].

Ma appena messo in istallo il Ministero, Haynau varcava il Po (2 febb.),
occupava Ferrara e per punirla d’insulti recati, la tassava di dugentomila
scudi, a favore però del papa. Il triumvirato, fatto inutile appello
«a tutti i popoli della penisola» che non poteano badarvi, «a tutto il
corpo diplomatico» da cui la repubblica non era riconosciuta, si avaccia
a formar legioni: ma gli Svizzeri chiesero congedo; pochi e disvolenti
erano gli altri soldati, numerosissimi e inesperti gli uffiziali, salvo
nella legione che diceasi di Garibaldi, mescolanza d’ogni gente, risoluta
a ogni estremo, sotto di un capo inesorabile e arrischiatissimo. Intanto
il debito esorbitava; i tre milioni che giravano in carta moneta, bisognò
accrescere di molto; faceasi ressa di adunare la Costituente italiana a
commissione illimitata; ma nè Lombardia nè Napoli poteano concorrervi;
Sicilia, gelosa dell’autonomia, non assentiva che ad una federazione;
Venezia assediata disapprovava quel concetto; Toscana aborriva dalla
fusione.

Quando poi vi giunse Mazzini ad opera compita, esaltò con la colorata
parola la Roma del popolo; e proclamato cittadino, poi triumviro, diceva:
— Forse avremo a combattere una santa battaglia contro l’unico nemico che
ci minacci, l’Austria; e la vinceremo. Gli stranieri non potranno più dire
come oggi, che questa Roma è un fuoco fatuo fra i cimiteri: il mondo vedrà
ch’è luce di stella eterna e pura». Ancora metafore e memorie e scene,
sostituite alle metafore, alle memorie, alle scene che si erano abbattute;
com’era eguale la servilità ai governanti, il petizionare, il trarre a
privata fruizione la pubblica fortuna; anzi si vollero baccanali santi; e
per la settimana santa e per pasqua si raddoppiarono le solennità, condite
dalla prurigine della scomunica; e sulla loggia da cui il papa benediceva
alla città e al mondo, Mazzini circondato da degni accoliti, fa benedire
alla repubblica, e «se mancava il vicario di Cristo, rimanevano il popolo
e Dio[94].

Il granduca, appena si sovvolsero gli Stati modenesi (1848), avea occupato
quelli che confinano col Lucchese e il Pontremoli; accettò la chiesta
unione della Lunigiana e Garfagnana, e di Massa e Carrara; mandò truppe
alla guerra santa, ma non volea ricorrere ai robusti spedienti di fare
denaro e soldati; il qual riguardo alle fortune e al sangue allora parea
crimine di lesa nazione. I Toscani, che avrebbero voluta la libertà
ma senza disagi, sfogavansi più volentieri in feste, in benedizioni di
bandiere, in conviti ai crociati che passavano in _Tedeum_ a vittorie
supposte; dichiaravano cittadini Gioberti e i membri del Governo
provvisorio di Milano, e lo stemma di questa città si collocasse sotto
la loggia dell’Orgagna: il principe trottolava (26 giugno) a queste
benedizioni di bandiere, e a gridare viva all’Italia indipendente e
confederata; ma raccoltosi anche qui il Parlamento, quasi tali passatempi
fossero opportuni nelle gravi urgenze d’allora, cominciossi a trovare
che il Ridolfi e gli altri ministri non rispondevano all’aspettazione
concepita da quelli che gli aveano giudicati dai discorsi alle accademie
o in piazza. Gravossi d’un terzo la tassa prediale, s’impose una
straordinaria alla mercatura, si aperse un prestito di quattro milioni
ducentomila lire, si tassarono le pensioni di tutti gli uffiziali civili,
si ordinò l’affrancamento dei livelli dello Stato: ma di sei milioni
presupposti, neppure si raccolse la metà.

I deputati, lieti d’averne finalmente l’occasione, sfoggiavano
quella dicacità ch’è sì comune e sì cara in bocca toscana. 1 borghesi
sfoggiavano d’un’altra loro abilità, le arguzie e i motti, che risolveano
in riso i provvedimenti e le controversie. Voleasi guerra; ma appena
costasse sangue e denaro, prorompevano lamenti, richiami, piagnistei,
e più veneravasi Carlalberto perchè combattendo dispensava essi dal
combattere: i giornali[95] coll’esorbitante lodarlo metteano ombra al
Governo, inasprivano i dissenzienti, producano subbugli e cozzi. Alcuni
Fiorentini, massime il Salvagnoli, vennero predicatori d’albertismo a
Milano, andò colà a predicarlo Gioberti, intanto che in senso diverso
lo spettacoloso padre Gavazzi, dopo aver sovvertite le città romane e
le lombarde, passeggiava il giorno fastosamente in cocchio, poi sulla
bruna davanti a un popolo immenso, che piacevasi a quella voce tonante
e a quei sensi energumeni, inveiva contro dei ricchi che non davano i
loro cocchi per tirare i cannoni, de’ sacerdoti che non isventolavano
la bandiera tricolore, di chiunque avea denaro perchè nol portasse nella
cassa di guerra: così invelenendo gl’istinti dei poveri, avrebbeli spinti
al saccheggio se il popolo non avesse inteso le cose differentemente
dai cittadini, e sfogato con fischi o con arguzie una scontentezza, che
qualificavasi di briga pretina e gesuitica.

All’annunzio dei disastri del campo (30 luglio), gli strilloni levano
rumore contro l’inerzia del Governo, sciorinano bandierone iscritte
_Giù il Ministero_; fin si tenta in piazza far decretare esautorato il
granduca, essendo capo del movimento il piemontese Trucchi. Nel dissenso
dei moderati essendo cresciuti i demagoghi, e Guerrazzi rinfacciando
le sconfitte di Custoza al Ministero, quasi a bell’arte fosse lento ai
soccorsi, Ridolfi si dimise, dolendosi che, dopo essersi sempre mostrato
italiano, dovesse ritirarsi fra’ sibili della disapprovazione; che la
stampa, alla cui libertà tanto avea contribuito, non fosse mai venuta a
sussidiarne il Governo, anzi il contrario.

Scomposto il Ministero, crebbe il disordine interno; e intanto vedendo
l’Italia invasa dagli Austriaci sin al confine, si dovè patteggiare con
Welden che stava nel Bolognese, con Lichtenstein che stava nel Modenese,
affinchè non invadessero la Toscana. Dopo molta fatica e il ricusare
anche di persone null’altro che ambiziose, fu ricomposto un Ministero
di Giorgini, Samminiatelli, Mazzei, Landucci, Marzucchi, Belluomini,
preseduto da Gino Capponi (1848 16 agosto), che venerato dai temperanti
non meno che dai democratici, affidò gli animi promettendo l’unione
federale e nuova guerra, se buona pace non si potesse. Ma il tempo dei
moderati era tramontato; la demagogia cresceva; i giornali disimparavano
l’urbanità toscana; affluivano i profughi lombardi; Livorno addoppiava
tumulti. Il padre Gavazzi, ch’era stato espulso, tornava di que’ giorni
nella rada di Livorno; e sebbene fosse ordine di non lasciarlo sbarcare,
una deputazione va a prenderlo, e fa accogliere ad applausi i discorsi
suoi, dove accusa di traditori i principi, i ministri, i generali, e grida
la guerra del popolo; e poichè il seppero messo ai confini, si prorompe a
sollevazione. S’avea bel gridare che l’avversario comune era il Tedesco,
e questo era a domare; non già i deboli soldati del granduca, e che
tutti gl’Italiani sono fratelli: si prende la cittadella, s’imprigiona il
governatore, si moltiplicano insulti e sangue, e s’istituisce un Comitato
di salute pubblica.

Guerrazzi aveva affascinato con que’ romanzi ebri di libertà e d’ira;
e Livorno, che, tutta ai commerci e poco agli studj, s’inorgogliva di
questo nome italiano, lo riguardò come si suole i grandi, con amore ed
odio al paro stemperati; non vi fu calunnia di cui non si bruttasse il suo
nome, nè speranza che in quello non si ponesse. Qual meraviglia s’egli ne
contrasse ambizione? e cercò tutte le occasioni di mettersi oppositore al
Governo, non foss’altro nelle cause che patrocinava. Uomo passionato ancor
più contro o in pro delle cose che degli uomini, dispettoso di vedersi non
adoperato, eppure affettando di non chiedere anzi di rifiutare; ingrandito
dalla persecuzione di un Governo sì poco persecutore, poi via via erettosi
col galleggiare sopra marosi che avea sollevati egli stesso, e che doveano
poi rotolarsegli sul capo, privo di fede in qualsiasi cosa, professava
«odio alle vecchie istituzioni, onta e martirio della specie umana»,
sicchè volgeva alle riforme radicali e alla repubblica; e con La Cecilia
di Napoli, antesignano di tutti gli agitamenti, e con un Petracchi robusto
braccio, e con altri ingloriati dall’avere combattuto in Lombardia,
incitava a chiedere operosità nella guerra, armamento marittimo, sale
a buon mercato. Tutto invelenivano i giornali, i circoli, l’abjetta
condiscendenza al vulgo, che fu il peggiore nemico di quell’anno. Raccheti
un tratto, i Livornesi si risollevano gridando al tradimento e a meditati
macelli: le bajonette e le artiglierie non bastano contro il popolo, che
costringe la fortezza a capitolare. Il granduca repugnava dalla guerra
civile, eppure doveva allestirla: ma se disponesse le guardie nazionali,
dicevasi che armava fratelli contro fratelli, e si scioglieano, come
volonterose di pompeggiare non di fare davvero; i soldati non sapevano
combattere; il Ministero, ingelosito del Piemonte, ricusò i soccorsi che
questo offeriva.

Giuseppe Montanelli, poeta elegiaco, era uno de’ molti che dalla religione
aveano dedotto sensi e speranze repubblicane, ma colla placidezza
toscana e sua propria; moderatore più che eccitatore, facendosi amare
colle melate parole e coll’indistinta condiscendenza; venuta l’ora del
fare, non istette a dire; combattè a Curtatone e fu pianto per morto,
finchè si seppe prigioniero; e rilasciato dagli Austriaci, tornava
circondato dall’aureola del coraggio e della sventura, pallido e con
fasciate le ferite, accolto con applauso dappertutto, preteso da ciascun
partito come gloria propria; sicchè il Ministero credette provvedere
alla quiete mandandolo governatore a Livorno. Ivi trova la stampa
scapestrata, la demagogia baccante; e quel desso che non avea temuto
le palle austriache, allibì davanti alla paura di perdere la popolarità
col lasciarsi sorpassare; e nella sua professione di _fede democratica,
nazionale, cristiana,_ dichiara (12 8bre) che non s’ha a proclamare la
repubblica _immediatamente_, però non basta la federazione, proposta dal
Ministero d’accordo con quelli d’altri paesi, ma doversi recidere ogni
trattativa, e divenire esempio agli altri col proclamare una Costituente
di rappresentanti di tutta Italia, da convocarsi in Toscana. Da questa
nuova parola resta eliso il Congresso di Torino; e in Toscana si eleva
un’altra opinione a fronte al Ministero, il quale sotto le grida e i
cartelli è forza che rovesci. A tanto riusciva in cinque soli giorni
di governo il Montanelli, che sottentra ministro con Guerrazzi, col
napoletano Ayala, e con Mazzoni, Adami, Franchini, gente che poneva
da banda le antiche nimicizie; e senza slealtà proponeasi di frenare i
trascendenti, i quali, avendoli elevati, erano altrettanto risoluti a
dominare soli, e non correggere ma sovvertire. Avrebbero essi coraggio
d’affrontare l’impopolarità, e fra gli scogli d’un Governo rivoluzionario,
senza la fiducia del principe nè l’appoggio della nazione, salvare almeno
l’onore della democrazia?

Prima soddisfazione ai loro creatori fu l’amnistia ai Livornesi, e
il mandare a governare l’aretino Pigli, persona estrema e balzana,
inesauribile parlatore nei circoli o nella Camera: altri demagoghi furono
posti in impieghi, e sciolte le Camere, benchè si prevedessero in egual
senso le nuove elezioni. A chi portasse querela o domanda, diceasi o
faceasi capire che «fin quando Leopoldo non se n’andasse, le cose non
procederebbero in bene».

Ma gli ambasciadori si volgeano alla Corte, non ad essi, de’ quali non
capivano il fraseggiare nubiloso: denaro non s’avea; le perturbazioni
cresceano, i ministri stessi, dopo sommosso il popolo per salire, ora
lo sommoveano per conservarsi; ne’ circoli ogni partito si disonorava
con laidi diverbj e impertinenti recriminazioni; quando s’accolgono i
comizj per le nuove elezioni, le urne sono rovesciate, imposto il voto
ai suffraganti, assalite le case di chi era infamato col titolo di
moderato. Montanelli, desideroso di ordini larghissimi, pure la causa sua
amava onestamente; sebbene fosse accontato col Canino nel predicare la
Costituente, avea scritto al La Cecilia, «Da una repubblica romana Iddio
ci guardi»[96]; e mal accordavasi col violento Guerrazzi, che odiando
gli oppressori, disprezzava gli oppressi, e vissuto fin allora sol di
rivolta, ora sapeva anche resistere, e a fini profondamente dissimulati
voleva pervenire con qualunque fosse modo, anche colla forza. «Le cose
del mondo (diceva in quel suo fare ghiribizzoso e pittoresco) quando
non si possono fare come si vorrebbe, hanno a farsi come le si possono.
Uniamoci tutti per creare un Governo, un qualcosa che difenda e assicuri;
ottenuto questo, ci mandino al diavolo. Io, se non crepo, reggerò ogni
cosa. Retrogradi e rossi subbugliano il paese; bisogna dare una zampata ad
ambidue. Non più condiscendenze: chi rompe paghi. Che serve cotesto andare
e venire de’ volontarj alla frontiera senza volere arrolarsi? Non è il
moto della spola del tessitore che ogni volta aggiunge un filo; qui invece
non si fa che logorare la trama dello Stato. Male il gridare vitupero ai
nemici ne’ circoli; vincere si vogliono, non oltraggiare; chè l’insulto
prima della vittoria è jattanza, dopo è codardia».

Così fatto, egli non ispirava affezione ma paura: eppure più tardi
confessò che tremava davanti ai tirannelli dell’opinione, a un Montazio,
a un Niccolini, a simil pulla, portata dal vento negli occhi. Un circolo,
formato principalmente di Lombardi (tal nome dinotava i vinti della
guerra, di qualunque paese fossero) guidava sino ventimila cittadini a
gridare la Costituente (1849). Guerrazzi non potea rassegnarsi a questo
scolo d’Italia, e voleali sistemati in legione per combattere. E perchè
il Ministero piemontese molestava il toscano per volere Livenza e altri
cantoni, Guerrazzi facea temere che, quello Stato cresciuto, terrebbe
vassalla la Toscana. Modificando il concetto di Montanelli, proclamava la
Costituente italiana.

Appoggiato all’esempio del re di Sardegna, il Ministero toscano propose
che il voto universale valesse per la Costituente. Consentì il granduca
si trattasse dell’eleggere rappresentanti toscani per quella: ma udendo il
papa colpire di scomunica chi vi prendesse parte, ritira l’assenso, e non
avendo forze da resistere, nè volendo offrire motivo a riazioni, ricovera
a Siena (6 febb.), ricevuto fra le grida di «Viva il duca, morte alla
Costituente». Era popolo anche questo? Ma vedendo crescere il bollimento,
e che un corpo movea da Firenze per prenderlo, Leopoldo fugge a Gaeta.

Il baccano di piazza decreta scaduto il granduca (20 febb.), e si
demandano pieni poteri a Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni, che svincolano
dal giuramento, e lanciano violento proclama contro la menzogna e
le scelleraggini di Leopoldo austriaco, dolendosi di avere creduto
che principe e libertà di popolo potessero stare insieme; esecrano
con formole poetiche il Laugier, che l’esercito conservava fedele al
granduca; smentiscono che il Piemonte volesse «con fiumi di sangue
italiano ristorare il trono di Leopoldo austriaco»; e annunziano che «la
repubblica, dopo trecendiciott’anni, ritornerà a casa sua».

Acclamato il Governo provvisorio a Firenze, tutti i rappresentanti
stranieri dichiarano cessate le loro missioni, che concernevano solo
il granduca. Quel giorno stesso, contadini corsero addosso a Firenze;
dappoi a Empoli e altrove si tumultuava: i soldati del dato giuramento
faceansi pretesto per lasciare le bandiere; rinascenti tentativi di
controrivoluzione faceano empire le carceri, e istituire un tribunal
militare. Da che parte stava il popolo? Non certo in que’ giornalisti
e declamatori, che ingordi di posti e di missioni, insultavano ai
più onorati cittadini perchè moderati, che toglievano di cattedra il
Giorgini, mandavano via l’Azeglio ferito, celiavano sulla cecità del
Capponi, calunniavano a tutti, e bruciavano le effigie e le scritture de’
dissenzienti; la Toscana sbigottivasi all’udir ragionare della necessità
del sangue e di puntare i cannoni: il governatore Pigli a Livorno
proclamava la repubblica, e — Popolo, compi i gloriosi tuoi destini;
pensa che tua capitale è Roma, tua patria Italia; chi ti conferisce
l’imperio è il tuo diritto, chi ti consacra è Dio»; e il grido di _Viva
la repubblica_ fu ripetuto in molte città. Ma Guerrazzi diceva: — Da che
volete repubblica, repubblica sia; patto che domani mi conduciate duemila
giovani, disposti a combattere per quella. — Trentamila», risposero: ma
neppure i duemila apparvero. Egli resisteva imperterrito a quella marea
crescente, rinfrancato dagli ambasciadori di Francia e d’Inghilterra;
imponeva silenzio agli strepitanti delle tribune, fin a chiamarli
«scellerati e iniqui perturbatori»; non annuì al Mazzini, il quale,
nel recarsi a trionfare in Campidoglio, donde diceva non essere uscite
fin allora che «melensaggini arcadiche e suoni d’agonia di monarchie
costituzionali», incaloriva a gridare la repubblica e unirsi alla romana.

Giuseppe Giusti che con un riso adiraticcio aveva scassinato il vecchio
Governo, visto il movimento del 1847, applause al duca che dava le
riforme, e tanto bastò perchè fosse detto rinnegato: poi trovatosi
sotto ai piedi, volse la stizza contro Guerrazzi; e quando poi vide i
rivoluzionarj di tutt’Italia rifluire sopra la patria sua, diceva: «Le
figure che passeggiano queste lastre, mettono ribrezzo e terrore. Figúrati
ragazzi con pistole e stiletti alla cintola, vestiti a mille colori,
parlanti un linguaggio turpe, provocante, rifiutandosi di pagare osti e
vetturini, violando il domicilio del popolo minuto per commettere stupri
e rapine; in somma un principio di casa del diavolo... Mentre i campi
lombardi sono insanguinati, con che cuore si può vedere qui una gioventù
numerosa di quel paese a vagabondare?... Son qua da cinque mesi a gridar
guerra, e imperversare, e volgere il paese sottosopra; viene la guerra,
e non si movono come se non toccasse a loro...». Il cadere del pontefice
non può essere un fatto isolato nella cristianità; ed oltre la riverenza
dei fedeli e le simpatie del mondo intero per Pio IX, nella rivoluzione
romana, inaugurata da un assassinio e poi affidata all’incorreggibile
cospiratore, vedeasi un atto della gran congiura europea contro ogni
ordine, ogni subordinazione[97]. Già all’udire in pericolo il papa, il
generale Cavaignac, il quale, represse le terribili sollevazioni della
popolaglia ladra e assassina, che in una giornata erano costate la vita
di quattordicimila persone e nove generali, era stato messo a capo della
repubblica francese, ma ora sentiva la sua popolarità soccombere alla
nuova di Luigi Buonaparte, cercò rincalorirla col favorir le idee d’ordine
e di cattolicismo, rinascenti per ricolpo contro la sfrenatezza, e così
inaspettatamente trionfanti per mezzo del voto universale; e decretò che
tremila cinquecento uomini sbarcassero a Civitavecchia per proteggere il
santo padre. Il Piemonte manda offrirgli tutte le sue forze, «fermamente
risoluto a mantenere e difendere con ogni sforzo la causa dell’ordine
e della monarchia costituzionale». Lord Palmerston, ministro inglese
sopra gli affari esterni, dichiara[98], quantunque la Gran Bretagna sia
antipapale, aver tanti milioni di sudditi cattolici, che pel proprio
interesse deve desiderare il pontefice sia posto in situazione temporale
da poter con intera indipendenza esercitare le spirituali sue funzioni;
l’intervenzione di forze straniere doversi serbare per l’estremo; in tal
caso gioverebbe affidarlo al Piemonte, per togliervi l’odioso carattere
di straniero.

Le novità romane dunque pericolavano. La Costituente ivi proclamata
spiaceva al Piemonte non men che a Napoli, come quella che rimetteva in
problema l’esistenza di tutti i Governi: spiaceva ai dittatori toscani,
vogliosi di dominar soli, anzichè mettersi in coda ai romani; talchè
fu indarno il comparire a Firenze dei più avventati Romani e dello
stesso Ciciruacchio: spiaceva in Roma ai chiericanti non meno che ai
costituzionali, i quali ultimi sudavano perchè il popolo ripristinasse
Pio IX, però colla costituzione; spiaceva all’eretica Inghilterra non meno
che alla cristianissima Francia; sicchè ai caporioni non rimaneva che di
trescare coi democratici, allora vinti dappertutto, e così porgere nuovi
titoli ai Governi regolari. In fatti l’Assemblea costituente di Francia
(20 aprile) dichiarava voler rintegrare il papa nel dominio; Spagna,
avida di ripigliar azione nella diplomazia europea, invita i potentati a
un congresso per tale scolpo: il papa invoca l’Austria, Francia, Spagna
e Napoli ad abbattere un’_orda settaria_ che teneva tiranneggiata la
maggioranza de’ suoi sudditi.

Lord Palmerston (1848), costante nell’uffizio di alternare al cavallo
una fitta di sprone e una stretta di morso, avea sempre tergiversato la
politica della Francia; quando questa inviò Bignon perchè temperasse
i primi movimenti liberali, esso spedì lord Minto ad aizzarli; quando
gl’italiani s’inebriavano al programma pindarico di Lamartine, egli gittò
acqua sul fuoco; quando dappertutto fremeasi d’indipendenza, egli propose
di formare del Lombardo-Veneto e dei ducati un regno sotto un arciduca
autonomo. Ricusato perchè Carlalberto in quel momento vagheggiava il regno
dell’Alta Italia, esso gli carezzò quest’idea, escludendo però dalle
trattative la Francia, e imponendo per confine l’Adige. Entro questi
limiti non l’avrebbe disapprovato neppur la Germania, che la linea di
quel fiume pretendea necessaria alla propria integrità e strategicamente
e politicamente. La spada di Radetzky troncò le discussioni; e Palmerston
accettò l’uffizio di mediatore, e volle si adunasse a Brusselle un
congresso per dar sesto alle cose d’Italia. Ma l’Austria non trovava più
ragione di cedere nemmanco una lista del paese che avea rioccupato, ed
asseriva che l’armistizio conceduto il 5 agosto sottintendesse l’interezza
de’ prischi possessi.

Ma queste conferenze divennero il tema d’infinite parole, in un anno di
parole tante. Quei che aveano schiamazzato mentre gli altri combattevano,
più schiamazzavano adesso che nessuno poteva interrogarli perchè non
combattessero. Migliaja di rifuggiti in Piemonte dal paese vinto,
s’agitavano nel desiderio della patria; s’agitavano i coraggiosi, cupidi
di cimenti riparatori; s’agitavano i timidi per mascherare la paura col
far paura; s’agitavano i repubblicanti, che attribuivano il disastro
all’essersi fidati d’un re; s’agitavano i calunniatori, infamando
i ministri, i generali, gli abbondanzieri, chiunque dubitasse del
tradimento, o avesse esercitato qualche bricciolo di potere, per quante
prove date avesse di patriotismo; ed erano creduti, come sempre si crede
ciò che faccia torto ai nostri.

Da un altro canto coll’affisso di democratici voleansi riprovare quei
che gridavano il nome d’Italia: eppure la guerra del Piemonte all’Austria
non era giustificata che dall’indipendenza italiana, e questa voleano i
democratici; democraticamente erasi fatta decidere la fusione dal voto
universale, e poichè questo avea proferito, chiedeano fosse mantenuta.
Vero è che tal sillogismo era stato scomposto da un avvenimento, una
guerra perduta; ma questa turbava il fatto non il diritto. — La patria
non è stata vinta; solo il tradimento ha potuto ricondurre i Tedeschi
in Lombardia», gridavano gl’Italianissimi. I Piemontesi, non potendo
negare la sconfitta, ne imputavano l’inettitudine dei generali, lo scarso
cooperare de’ Lombardi, la moderazione dei ministri, cento altre cause
fuorchè le vere; ad ogni modo credevano potersene trarre esperienza per
riparare colla vittoria il primo smacco. Ed è singolare che il paese ove
la democrazia meno debaccò, fu quello ove portò maggior disastro, perchè
si mescè agli atti guerreschi.

Carlalberto credeasi in dovere di mantenere ai popoli la fusione; aveva
udito rinfacciarsi d’aver rinnovato nel 48 i tradimenti del 21; la libertà
della stampa e dei dibattimenti lasciava giungere fino a lui le accuse,
delle quali più si struggeva di purgarsi quanto meno meritarle conosceva,
e quanto più avea sorbito le lodi prodigategli come spada d’Italia; e
invisibile nella reggia, masticava l’onta nuova che gravava l’antica, e
risolvea gittarsi a capofitto in un nuovo tentativo.

Ma un esercito sfasciato poteva assaltar vincitrice e munita
quell’Austria, contro cui non era bastato quando scomposta, atterrita,
sprovvista? Le grida dunque dei giornalisti e degli avvocati non avrebbero
dovuto smoverlo; ma il fragor di essi lo stordiva, quasi in essi parlasse
la nazione, nè vedea come far argine alla demagogia di cui giungevagli il
ruggito. L’eterogeneo Ministero Casati si dimetteva (18 agosto), esponendo
quanto avea fatto per riparare i disastri, e rendere capaci a ripigliar
l’offensiva appena spirassero le sei settimane dell’armistizio, avendo
anche chiesto i sussidj di quella Francia, che dianzi erasi repulsa.
«Codardia (diceano), per dieci giorni di fortuiti disastri, deporre una
fiducia ispirata da quattro mesi di prosperi ed eroici successi! qual
impudenza il credere che una pace vergognosa assicuri più di una guerra
onorevole gl’interessi e l’onore del Piemonte!»

Tono indecente a chi lasciava altri nell’imbarazzo di mantenerlo: ma
un più temperato non era possibile quando fomentava guerra la Consulta
lombarda, formata dell’antico Governo provvisorio di Milano, Polonia e
Ungheria, ribollenti contro i loro dominatori tenevano emissarj a Torino
che prometteano ajuti e diversioni vigorose, bilione solito de’ rifuggiti,
ma scontato come moneta fina dai giornali; nuova esca aggiungeano i
movimenti di Sicilia, di Napoli, di Livorno, di Roma. In quest’uragano
dovea navigare il nuovo Ministero, preseduto dal marchese Alfieri, coi
generali Perrone e Dabormida, Revel, Boncompagni, Pinelli, allora autorato
dall’amicizia di Gioberti.

Questo filosofo nel suo studioso ritiro a Brusselle, quanto più gli era
negata, più acquistò la passione della popolarità; la prese ispiratrice
quando mestò politica; ma conoscendola mutabile, resistette un pezzo alla
voglia di venir qui a godersi i grossolani applausi, che nel 1847 la
folla profondea; e più venerato di lontano, dirigeva l’opinione ma col
secondarla. Chiaritasi la rivoluzione, venne e s’inebriò dei trionfi,
che ambiva più che il potere; girò Italia apostolo della fusione, ma
formando piuttosto entusiasti che un partito; a Milano, dove avea detto
non entrerebbe che a ginocchi, sperava far acclamare di primo achitto
la fusione, e toccò fischi; a Roma credeva indurre Pio IX a’ suoi
voleri, ed ebbe soltanto grida plateali, e il suo nome alle vie dove
abitava, al caffè dove asciolveva; sparnazzava Carlalberto, eppure a
Genova correva a venerare la madre di Mazzini, a Milano mutò alloggio
per annidarsi nell’istesso albergo di Mazzini. Non compreso nel nuovo
Ministero, accostossi ai democratici per sventarlo, e vi oppose quel
fantasma suo del Congresso; nei circoli denunziava i ministri, che, mentre
predicavano riscossa, indipendenza nazionale, in privato a lui diceano non
essere possibile rinnovare l’esercito, e volersi cercare accomodamenti
vantaggiosi al Piemonte; sicchè gl’improntò le stigmate di _ministero
di due programmi_: e i più avanzati gridavano la subita ripresa delle
ostilità.

Dopo ciò oseremmo accusare quel Ministero di non avere saputo essere
modesto, nè osato essere risoluto? In realtà il Ministero, non meno che
gli oppositori, voleva la riscossa: ma quello, preparata convenientemente
per vincere; questi, subitanea, ispirata, condotta, come dicea Brofferio,
da ardimento, ardimento, ardimento. Saria stato imprudenza rivelare al
mondo i reconditi preparativi: onde il Ministero chiese un consiglio
secreto, avanti a cui scagionarsi: e quello proferì che non poteasi nè
procurare una pace onorevole, nè amministrare una guerra felice.

Intanto dalla Lombardia e dai ducati giungeano gli strilli degli aggravati
sotto la dittatura militare, frementi tra il terror manifesto e la
rabbia repressa; da Genova gli urli de’ raccogliticci, che tentavano
fin subornare l’esercito, e qualificavano tirannia ogni provvedimento
preso a reprimerli; soscrizioni, messaggi, chiassate sosteneano la
minoranza oppositrice. Bisognava dunque rassegnarsi: e il baron Perrone
ministro della guerra, che pure avea fatto avvertire «lo spirito
guasto de’ soldati, i quali partono pel campo italiani, e ne ritornano
tedeschi»[99], diceva essere impossibile a un Ministero resistere alla
pubblica opinione e non ripigliar le ostilità «con tutto il furore d’una
guerra nazionale, preferendo essere inghiottito nella catastrofe italiana,
anzichè lasciar più a lungo torturare dal vandalismo austriaco la parte
d’Italia ch’esso calpesta», assicurava essersi rinnovati l’esercito e
la disciplina; ottantamila uomini pronti a entrar in campo, trentamila
a mantenere la tranquillità nell’interno, oltre la guardia nazionale,
e un parco d’assedio più numeroso che nella guerra precedente; trenta
in cinquantamila uomini che la Francia prestasse, la bandiera tricolore
sventolerebbe di campanile in campanile fin all’Isonzo: nè farebbero
la guerra soli; avranno in ajuto l’insurrezione, i contingenti toscani
e romani, e i diciottomila uomini chiusi in Venezia e la flotta; esser
dunque risoluti a guerra, se non possono ottenere una pace onorevole, che
assicuri l’indipendenza d’Italia[100].

Palmerston disapprovò questo dispaccio. Bastide, ministro della repubblica
francese, annunziò non impedirebbe neppur l’invasione del Piemonte, se
questo rompesse guerra all’Austria.

Degli errori, delle esitanze, della disperazione altrui s’ingrandiva
Gioberti, che divenuto nimicissimo al suo amicissimo Pinelli,
riuscì alfine a sbalzarlo; e dopo essersi sempre professato nemico
della democrazia, diveniva capo d’un Gabinetto (16 xbre) denominato
_democratico_, con colleghi destinatigli dalle piazze, Rattazzi, Ricci,
Sineo, Buffa, Cadorna, Tecchio, tutti tolti dal Circolo nazionale,
aggiungendovi Sonnaz per le necessità della guerra. Il loro programma,
quello di tutti i precedenti, allargare le libertà interne, procurare che
tutt’Italia si costituisse a nazione: se non che Gioberti avea l’arte di
tessellare le teorie più diverse, il che dicevasi conciliare. E subito
le declamazioni e le mostre si diressero contro il Ministero democratico,
che si trovava esso pure nell’impotenza di far quello che si desiderava.

Realmente l’Italia sentiva integre le sue forze; da quella posizione,
che per tutti era precaria, bramavano tutti uscire, quand’anche non
si sapesse che i popoli sovente per bizzarria, per superbia agognano i
tentativi più disperati. Il Congresso a Brusselle non dava un passo verso
il riordinamento. L’Austria sperava assonnare l’Italia settentrionale
col prometterle istituzioni liberali; e dopo ch’ebbe doma un’altra volta
l’insorta Vienna, convocò una Dieta costituente a Kremsier, dove il
ministro Schwarzenberg professava «accettare sinceramente la monarchia
costituzionale; tenerne ferme le basi col separare rigorosamente il
potere esecutivo riservato alla Corona, e il legislativo esercitato in
comune dal principe e dai corpi rappresentativi; assicurare l’eguaglianza
dei diritti, garantire il libero sviluppo di tutte le nazionalità,
introdurre la pubblicità in tutte le parti della pubblica amministrazione,
consolidare le libertà comunali, estendere nelle provincie l’indipendente
gestione di tutti gli affari interni, e unificarle mediante un robusto
poter centrale. Il regno Lombardo-veneto, conchiusa la pace, troverà
nella sua unione organica coll’Austria costituzionale la miglior garanzia
della sua nazionalità. I consiglieri responsali della Corona si terranno
fermi sul terreno de’ trattati: essi nutrono speranza che un avvenire non
lontano porterà il popolo italiano a fruire i benefizj d’una costituzione,
la quale deve tener unite le differenti stirpi con parificazione assoluta
di diritti».

Era dunque risoluta a non cedere un palmo di terreno; l’Inghilterra
aveva accettato qual base del Congresso, che nessun brano si staccherebbe
dall’impero austriaco, neppur Venezia. Ma chi allora credeva alla verità?
Intanto non poteano nè l’Austria prendere una risoluzione per rassettare
la Lombardia e finirla con Venezia, nè il Piemonte disarmare e togliersi
alla disastrosa incertezza. Adunque strepitavasi d’ogni parte; i giornali
perseveravano nel tristo uffizio di denunziare ed inasprire quei che la
sventura avrebbe dovuti conciliare e congiungere[101]; acclamavasi la
rinnovazione delle ostilità, volerlo Dio, volerlo il popolo. Singolarmente
il Circolo italiano di Genova, trascendendo i limiti costituzionali,
vilipendeva il re: anzi Genova (18 xbre) sorse a tumulto; e il ministro
Buffa speditovi con pien potere, invece di dar torto ai mestatori,
proclamava saperne causa unica l’essersi voluto «seguitare una politica
contraria alla dignità, agli interessi, all’indipendenza della nazione»;
il presente Ministero volere «l’assoluta indipendenza d’Italia a costo
di qualunque sacrifizio, volere la Costituente italiana e la monarchia
democratica»; aggiungeva d’aver ordinato che le truppe partissero dalla
città (1849), perchè «la forza vale cogli imbelli non coi Genovesi; i
forti saranno presidiati dalla guardia nazionale, tutti o parte a sua
scelta; tolta ogni apparenza di forza, farem vedere che in una città
veramente libera basta la guardia nazionale; che quando il Governo batte
la via della libertà e della nazionalità, Genova è tranquilla». Così i
cittadini atteggiavansi come avversarj ai soldati, nell’atto che da questi
bisognava tutto aspettare: i soldati protestano; la Camera disapprova; il
Ministero è obbligato a un’altra scusa memorabile; cioè che «non bisogna
misurare i proclami col regolo ordinario, contenendo per natura frasi che
ai lontani pajono eccessive, mentre sono inevitabili ai vicini».

Sciolta la Camera, la nuova, eletta sotto quelle esacerbazioni, abbandonò
i moderati per gl’impazienti. Il ministero Gioberti dichiarava:
«L’indipendenza italiana non può compiersi senza le armi; laonde a
questo rivolgeremo ogni nostra cura, convinti che la sola monarchia
costituzionale può dare alla patria nostra unità, forza, potenza contro i
disordini interni e gli assalti stranieri». Dichiarava pure non potersi
persistere in uno stato che era peggiore della guerra, poichè ne aveva
tutti gli sconci e nessuna favorevole eventualità; voleva considerare
ancora come effettiva la fusione, e lagnavasi che atrocemente fossero
trattate dagli Austriaci provincie datesi al Piemonte. Il re medesimo,
aprendo il Parlamento, manteneva il concetto della fusione, soggiungeva
che «la fiducia è nei forti accresciuta, perchè all’efficacia dei
nostri antichi titoli s’aggiunge l’ammaestramento dell’esperienza,
il merito della prova, il coraggio e la costanza nella sventura. Le
schiere dell’esercito sono rifatte, accresciute, fiorenti e gareggiano
di bellezza, d’eroismo colla nostra flotta. Ma per vincere è duopo che
all’esercito concorra la nazione; e ciò, o signori, sta in voi, sta in
mano di quelle provincie che sono parte così preziosa dei nostro regno e
del nostro cuore, le quali aggiungono alle virtù comuni il vanto proprio
della costanza e del martirio».

La risposta delle Camere ingagliardiva quell’attacco, e non parlava
di guerra e d’indipendenza italica soltanto, ma degli Ungheresi da
soccorrere; e che si disdicesse immediatamente l’armistizio.

Le condizioni però del nemico quanto erano cambiate (1848)! La Germania,
vogliosa di ringiovanirsi, erasi raccolta in Parlamento a Francoforte
«per attuare una costituzione che comprendesse l’unità della nazione,
colla varietà tradizionale de’ Governi. Ma la sapienza statuale ivi
pure comparve scarsissima: variati i sentimenti, secondo il paese che
prevaleva; e mentre negavansi soccorsi e fino approvazione all’esercito
austriaco combattente in Italia, dichiaravasi che la linea del Mincio e
le grandi fortezze erano necessarie all’integrità della Germania, e si
considerava come intacco a questa l’avere i volontarj lombardi stimolato
a insurrezione il Trentino.

Al rompere della rivoluzione, la guerra di razze metteva a brani
l’Austria, la quale potea dirsi ridotta nei tre eserciti di Radetzky in
Italia, di Windischgrätz in Boemia, di Jellacich in Ungheria. La Corte
imperiale, cacciata dalla devota sua città (15 maggio), erasi rifuggita a
Innspruck, e blandiva la capitale col consentire un’Assemblea costituente;
disapprovava Jellacich che acclamava il risorgimento delle stirpi slave:
ma intanto i suoi eserciti vinceano a Praga le barricate, a Vicenza i
popoli, a Custoza gli eserciti; la Dieta ungherese per bocca di Kossuth
promettevale fino ducentomila uomini se bisognassero per domare l’Italia.
Perocchè i Magiari parteggiavano coll’Austria onde tenere al giogo gli
Slavi; ma ben presto volendo ella frenarne la prepotenza, le divennero
ostili; e allora gli Slavi si posero coll’Austria e la sorressero, sempre
per proprio vantaggio e scapito altrui. I cittadini di Vienna, stanchi
del despotismo degli studenti impadronitisi del Governo, richiamavano
l’imperatore (agosto), che rientrava nella sua capitale appunto quando
Radetzky rientrava in Milano. Ma poco appresso i sommovitori rivalgono,
sollevano sanguinosamente la città, e fra molt’altri trucidano un
ministro. Windischgrätz vi accorre da Praga, vi accorre Jellacich, e da
Boemi e Croati è presa la capitale (31 8bre), e terminata la rivoluzione,
alla quale non avevano preso parte nè la campagna nè le provincie.

Erasi fra ciò adunata un’Assemblea costituente, secondo la moda d’allora,
per compilare la Statuto dell’impero austriaco; v’ebbero rappresentanti
anche di paesi italiani, quali il Tirolo e Trieste; ma le rioccupate
provincie lombardo-venete furono invitate invano a spedirvi i loro eletti
«per garantire la propria nazionalità, e conciliarla col principio supremo
dell’integrità della monarchia». Dall’irrequieta Vienna la Dieta erasi
trasferita a Kremsier, ma rimaneva scissa fra l’unità dottrinale e la
tradizionale individualità: nelle dispute, inconcludenti e di teoria
nebulosa, perdeva tempo e credito, sicchè il Governo potè arrischiarsi
a toglierle la mano. Già il 22 settembre l’imperatore Ferdinando avea
proclamato piena perdonanza agli abitanti del Lombardo-Veneto, e la ferma
sua intenzione che «avessero una Costituzione corrispondente alla loro
nazionalità ed al bisogno del paese»: poi confessando la necessità di
«forze più giovani per soddisfare il bisogno potente e irremissibile di un
grande cambiamento, che abbracci e rifonda tutte le forme dello Stato»,
abdicava (2 xbre); e giacchè suo fratello Francesco Carlo vi rinunziò,
lo scettro fu messo in mano al figlio di questo, al giovanetto Francesco
Giuseppe, che aveva fatto le prime prove combattendo gl’Italiani. Egli
«riconoscendo per proprio convincimento il bisogno e l’alto pregio delle
istituzioni liberali e consentanee ai tempi, calchiamo (dicea) con fiducia
la via che deve condurci ad una salutare riforma e al ringiovanimento di
tutta la monarchia», e protestavasi «deciso di mantenere immacolato lo
splendore della Corona e intatta la complessiva monarchia, ma pronto a
dividere i proprj diritti coi rappresentanti de’ suoi popoli».

Ben presto si proclama una costituzione (1849 8 marzo) che recida il
nodo delle quistioni, statuendo l’unione organica di tutte le provincie,
eguaglianza e indipendenza delle diverse nazionalità; unico Parlamento con
due Camere; nella prima i deputati delle diete provinciali, nell’altra
i deputati eletti dal popolo, uno ogni centomila abitanti; il potere
legislativo viene esercitato dall’imperatore unitamente al Parlamento
generale per le leggi di tutto l’impero, e alle Diete nazionali per le
leggi particolari. Così l’imperatore trovasi capo delle varie nazioni e
unificatore di tutte, e può opporre la forza attraente dello Stato alla
centrifuga delle provincie.

Anche la Dieta germanica si scredita colle metafisiche sottilità; e quando
essa dichiara che paesi tedeschi non potranno confondersi con forestieri
nello stesso dominio, l’Austria, che da tale partito sarebbesi veduta
scomposta, vi oppone un franco niego, asserendo non voler menomare i
proprj diritti, e che starà federata colla Germania, non una con essa. A
questo colpo risoluto, la Dieta perde efficacia, e ben presto si scompone;
la Prussia, ch’era parsa sul punto di afferrare l’egemonia della Germania,
torna secondaria all’Austria, che s’accinge a riparare gli sdrucci
lasciatile da un turbine, dove credeanla già subissata quei che ignorano
la storia d’Europa.

Come le umiliazioni di lei aveano dato spirito alle Potenze estere di
sbraveggiarla, il rialzarsi le fece propense a sostenerla: ond’essa più
sempre ferma dichiarava non avere altro da trattare colla Sardegna se non
di ristabilire le relazioni amichevoli, interrotte per l’invasione del re,
e di fissare le indennità per le spese di una guerra assunta in legittima
difesa; per deferenza avere accettato la mediazione brussellese; «ma il
pretendere di condurre l’Austria a cedere provincie che avea difese con
torrenti di sangue, cederle come premio al perfido aggressore di cui ha
trionfato, era giustamente vilipeso dalla pubblica opinione dell’Europa
come una stravaganza degna della demenza dei demogoghi italiani, e
di un re che, parlando dal trono, non dubitava incitare direttamente
la provincie italiane dell’Austria all’insurrezione». Il Ministero
imperiale interrogava dunque le Potenze, e nominatamente l’Inghilterra,
se riconoscessero il regno dell’Alta Italia, e se fosse in arbitrio di
Carlalberto il cangiare da solo la circoscrizione degli Stati, fissata
dalle Potenze: conchiudeva che dal canto suo non romperebbe l’armistizio,
ma le trattative essere superflue, e volere libertà d’azione[102].

Il Ministero inglese, che avea continuato quell’altalena micidiale
all’Italia, lusingandone le speranze mentre rassicurava i nemici, allora
pure all’austriaco rispondeva, considerare come non avvenuta la fusione,
e dava _positiva_ e _formale_ assicurazione che nelle conferenze non
pensava sostenere le _inqualificabili pretensioni_ del Gabinetto sardo, ma
adottare per base della mediazione l’integrità de’ territorj circoscritti
dai trattati[103]: conseguentemente, al re consigliava con istanza di non
volersi avventurare ad irreparabile ruina.

Queste cose sapeansi allora come adesso: ma, non che vi si credesse, il
Circolo italiano a Torino non vide che «un obbrobrio ministeriale, che
umiliazione, che oscillamento nelle parole che il Gabinetto, usurpante il
titolo di democratico, poneva sulle labbra del principe; parole desolanti
ad ogni buon patrioto»; e provocava una dimostrazione solenne, e mandava
alla flotta sarda in Venezia per eccitarla «a non mancare all’appello di
tutt’Italia», e giurare com’essi d’adoprare _tutti_ i mezzi per ottenere
la Costituente italiana.

Le parole del re e dei Comitati arrivavano in Lombardia, e rinfuocolavano
le speranze tanto più, quanto più vi si soffriva sotto la dittatura
militare. L’amnistia così piena e incondizionata, accordata ripetutamente
dall’imperatore, non lasciava luogo a supplizj o processi per fatti della
rivoluzione; ma da un lato s’imposero multe più o meno gravose, e dalle
diecimila fino alle ottocentomila lire contro persone che v’aveano preso
parte, foss’anche con soli scritti: pena che inviperiva inutilmente,
giacchè dai più non si cercò mai nulla, alcuni se ne acquetarono con tenui
versamenti. Più pesava lo stato d’assedio, che metteva ad arbitrio delle
corti marziali le vite e gli averi; e i molti che erano fucilati o per
possesso d’armi o per tentata subornazione o per rapine, consideravansi
come del pari ingiustamente colpiti, secondo accade delle procedure
sommarie e secrete. Alcuni casi sciagurati crebbero l’esacerbazione. Il
3 gennajo il feldmaresciallo andava ad assistere all’esperimento della
scuola di ballo del teatro, e i Milanesi vollero vedervi un’insultante
commemorazione del macello d’un anno prima. In occasione della nomina del
nuovo imperatore celebrandosi dai militari un _Tedeum_, una femmina espose
tappeti di colori ingrati; e perchè alcuno ne levò rumore, ecco uscire
una mano di soldati, torre in mezzo chi primo primo, e menati in castello
bastonarli, fra cui sin donne, e persone inoffensive per natura, età e
pinguedine.

I Lombardi poi perseveravano nella dimostrazione negativa, schivando di
ravvicinarsi ai dominatori se non alla distanza d’una fucilata. Italia
tutta fremeva, anche per moda, contro i Tedeschi; i ducati si credeano
illegittimente occupati; illegittimamente Ferrara, donde però i Tedeschi,
avuta soddisfazione, si ritirarono (18 febb.).

In Piemonte il Ministero, pure col titolo di democratico resisteva
alla democrazia. Quando seppe fuggito il granduca, espulso il papa,
e che le Potenze vorrebbero ripristinarlo, Gioberti sbigottì; laonde,
cercato invano che l’intervenimento fosse soltanto pacifico onde cansare
l’obbrobrio di vedere di nuovo dagli stranieri rimaneggiare le sorti
nostre, pensava opportuno che il Piemonte si togliesse l’assunto di
ristabilire il granduca che l’invocava, e il papa che lo temea; forse
la mostra basterebbe a dissipare la resistenza; intanto Italia si
avvezzerebbe a vedere dalle proprie armi risolvere le interne quistioni;
il Piemonte, col vincere il disordine, ricupererebbe importanza in faccia
alle Potenze; e le menti sarebbero sviate dalla guerra contro l’Austria,
che prevedeasi inevitabilmente disastrosa.

Erano idee delle meno strane fra i delirj d’allora; le aveva egli
pubblicate ne’ giorni di sua maggior popolarità[104], ma adesso
repugnavano col titolo del suo Ministero, coll’intemperanza corrente, e
colla guerra da esso fatta al Ministero precedente. D’altra parte, se
teneasi valevole la votazione universale dei Lombardi per la fusione,
perchè non anco quella dei Romani per la repubblica? La Camera, e più
le loggie e le piazze che alla Camera imponevano, accolsero come un
fratricidio quel progetto; i suoi partigiani rissavano cogli avversi per
le vie: ond’egli, sommerso nell’onda, che lo avea sollevato, è costretto
rassegnare il portafoglio (21 febb.), toccando il solito salario della
popolarità, vilipendio e oblio; denunziato alle Camere, minacciato di
processo, gridato traditore, e rinnegato con tanto impeto con quanto
dianzi l’aveano divinizzato. Egli non subì l’oltraggio con dignità[105],
e nel _Rinnovamento civile_, mutava d’amici e di nemici, benevolo fin a
quelli che più n’aveano meritato il disprezzo (p. 351), e accannito contro
gli autori della sua gloria, i fondamenti delle sue speranze.

Colla profonda scienza e massime colla positività filosofica non può
combinarsi quel suo voler riunire le cose e le idee più disparate, e
sosteneva di non aver cambiato anche dopo mutatosi di punto in bianco: il
che i suoi amici qualificavano come uno svilupparsi di concetti, che prima
aveva solo in germe. Nel vortice de’ suoi libri invano cerchi una risposta
precisa sulle capitali quistioni di letteratura, teologia, filosofia,
politica, tanto egli le rinvolge in formole dubitative e cortesi e
retoriche, o le professa differenti secondo i tempi. Carezzò nemici,
disse per correggerli; osteggiò vecchi amici, disse perchè cambiarono;
onde parve e incerto e non sincero: profuse lodi a mediocrissimi, mostrò
bisogno d’appoggiarsi ad autorità comechè meschine, perciò scegliendo
esempj a caso e immeritevoli, ignorando i più degni e meglio a proposito,
e confessando d’avere scritto variamente secondo l’occasione. Ora di Pio
IX non sa dir male che basti, e «parrìa che mi contraddica parlando in
tal forma di un pontefice del quale a principio celebrai il valore: ma io
posso fare una girata dello sbaglio a’ miei onorandi patrioti; perchè,
essendo allora lontano e non _conoscendo altrimenti_ il nuovo papa, io
fui semplice ripetitore in Parigi di quanto si diceva, si scriveva,
si acclamava in Roma e per tutta Italia» (pag. 448). Dell’incensato
Carlalberto diceva che «tutti errammo a confidare nella fermezza e
sincerità di lui» (pag. 235); e che «quando il Balbo disdisse la lega
sollecitato da Pio e dagli altri principi, il male non ebbe più rimedio,
e prese corpo quella chimera dell’albertismo, che tanto nocque alle cose
nostre: per acquistare Carlalberto si perdette Pio IX. Roma in ogni
caso si sarebbe tirato dietro il Piemonte, dove che questo nè avrebbe
incominciato senza Roma, nè vinte le sue repugnanze» (pag. 20). Narrando
poi i fatti e divisando le opinioni di quei tempi, anch’egli, come fece
il Guerrazzi, s’appoggia al fondamento più traballante, i giornali, che
danno argomento per ogni partito come per ogni assurdità.

Chi sente qual sia mortificazione per un’anima elevata il riconoscersi
impotente al bene, geme vedendo offuscare se medesimo un uomo, la
cui parola fu un tratto la parola dell’Italia tutta; cominciato con
immensa gloria, finiva col rammarico d’avere tutt’altro che giovato la
causa italiana, abbandonato il suo soldo da presidente del Ministero a
soccorso di Venezia, ritiratosi senza ricchezze e senza titoli in Parigi
all’operosa quiete degli studj, da repentina morte fu côlto in fresca età.
Non v’è forse esempio moderno che maggiormente meriti essere meditato, e
possa recare più grande istruzione.

Il Ministero sottentratogli, senza alcun nome raccomandabile fuori
del generale Colli che vi presedeva, punzecchiato dai Veneziani, dai
rifuggiti, dai repubblicanti, dagli stessi costituzionali che di questo
tema eransi fatto arma contro il Ministero democratico, dovè promettere
anzitutto di rompere coll’Austria, e ne manifestò solennemente le
ragioni, conchiudendo: «La guerra dell’indipendenza nazionale si riapre.
Se gli auspizj non ne sono lieti come l’anno passato, la causa è pure
sempre la stessa; santa come il diritto che hanno i popoli sul suolo
in cui Dio gli ha posti; grande come il nome e le memorie d’Italia». Si
precipitò l’assetto dell’esercito, il quale ricuperava la disciplina ma
non l’entusiasmo; anzi, indispettito ai Lombardi, con uffiziali nuovi
sconosciuti, mormorava del vedersi spinto ancora ai cimenti e alle
sofferenze. I generali s’erano e mostrati e confessati inetti; sicchè, non
potendo ottenerne uno francese, si chiamò comandante supremo il polacco
Chrzanowsky, ignoto ai soldati, esoso agli uffiziali per la mortificante
superiorità; e allestiti o no, si disdisse l’armistizio coll’Austria.
I diplomatici stranieri non sapeano darsi pace di tanto accecamento;
Francia, Inghilterra, nulla lasciarono d’intentato per dissuaderlo[106]:
ma che valea la ragione rimpetto alla tiranna del tempo, l’opinione?
De Ferrari, succeduto (12 marzo) al Colli qual presidente al Ministero,
scriveva al Ricci, rappresentante presso il Congresso di Brusselle, non
essere più possibile sopperire alle spese della guerra senza farla; la
continua incertezza ed inquietudine poter suscitare gravi commozioni,
nè la quistione potersi risolvere che col deporre le armi o adoperarle;
il primo partito rompeva il vincolo coi Lombardo-Veneti, repugnava
all’opinione, e avrebbe cagionato gravissimi sconcj, forse la guerra
civile. E infatti che non poteano temere i principi allorchè l’incendio
della media Italia lanciava faville anche nella settentrionale?

Disapprovata dalla ragione e dalla diplomazia, questa intima di guerra
ebbe dappertutto la sanzione del sentimento; Italia, ottenebrata da
sospetti, da ire, da scomuniche, da assassinj, da riazioni, a un tratto
si rifece baliosa nella concordia d’un sublime intento; parvero cessare
il palleggiarsi delle ingiurie e gli ammazzamenti politici di cui
era contaminata ogni contrada di Romagna; i Lombardi deporre quella
disperazione, che fa vili quando non fa scellerati; e tutti, pur dianzi
sbranati dalle quistioni di municipio, di costituente, di repubblica,
di monarchia costituzionale, d’Italia una o d’Italia confederata,
trovarsi unanimi nel grido dell’indipendenza. Da Aosta a Siracusa i cuori
palpitarono, come un anno prima, di magnanima speranza; alla fiaccamente
convulsa Toscana parve trasfondersi il sangue dei martiri di Curtatone;
fino i repubblicanti sorrideano all’idea di acclamare l’impero d’Italia,
e l’Assemblea romana, fastosamente garrula nella peristaltica inazione,
intonava: — Tempo è di fatti, non di parole: dall’Alpi al mare non si
dà indipendenza vera, non libertà finchè l’Austriaco conculchi la sacra
terra. All’armi, e Italia sia».

Schwarzenberg, ministro dell’Austria, versava la responsabilità di sì
grave risoluzione sulla testa di colui che vi era spinto da funesti
consigli; ed annunziò ai Governi amici il proposito di drizzare la marcia
sopra Torino, e colà dettare la pace, ma non volere acquistare un palmo
di territorio[107]. Radetzky, conculcando le abituali convenienze, nella
grida di guerra insultava al re (12 marzo), che «un’altra volta stende la
mano sulla corona d’Italia. Sleale, spergiuro, micidiale di se stesso,
occupato solo a far dimenticare, adulando i rivoluzionarj e il vulgo, i
tradimenti del 1821 e diciassett’anni di despotismo, Carlalberto, pari
al ladro che coglie occasione dall’assenza del padrone per compiere il
furto con sicurezza, invase il paese amico. Io disponevo ancora di forze
bastanti a far pentire Milano. Se avessi presentito che la dignità regia
doveva in Carlalberto cadere in tanto avvilimento, non gli avrei mai
risparmiato l’onta di farlo prigioniero in Milano. La pace che da generosi
gli offrimmo, la conseguiremo di forza nella sua capitale. Sarà l’ultima
letizia della lunga mia vita il potere nella capitale d’uno sleale nemico
fregiare il petto de’ miei prodi commilitoni colle insegne meritate col
sangue. Avanti, soldati! A _Torino_ sia la nostra parola d’ordine: colà
ritroveremo la pace per la quale combattiamo».

Quest’imperiosa jattanza credeasi mascherasse la paura. Con fierissime
minaccie a chi si movesse, abbandonò egli sguarnito il Lombardo-Veneto,
fuorchè le fortezze; e con settantamila uomini in cinque corpi e
abbondantissime artiglierie si difilò al Ticino (20 marzo), proclamando
ai Piemontesi: — Me non anima spirito di conquista: vengo a difendere i
diritti del mio imperatore e l’integrità della monarchia, minacciata dal
vostro Governo, alleato colla ribellione».

Di rimpatto la speranza degl’Italiani fondavasi sulla insurrezione. I
giornalisti assicuravano che Radetzky, obbligato a mantenere l’assedio di
Venezia, e vigilare ogni città, pregna di rivoluzione, e avendo migliaja
di malati, di pochissime truppe potea disporre, talchè non difenderebbe
la Lombardia, ma ritirerebbesi di là dal Mincio; ed annunziavano orrori,
quasi tutti ripetendo le stesse frasi.

La Consulta lombarda aveva presentato al re un indirizzo, ove, a nome de’
Lombardi accolti in Piemonte, «e di quelli che fremeano sotto il giogo
dell’Austria o andavano ramingando nell’amaro desiderio della patria»,
lo benedivano e ringraziavano; e «I fatti risponderanno all’aspettazione
vostra e d’Italia: all’apparire del valoroso vostro esercito liberatore,
i Lombardi si sentiranno rinfiammati di quel coraggio che li sostenne
nella sventura, e gli correranno incontro per secondarne le ardite
mosse, per dividerne le magnanime prove». L’emigrazione lombarda
annunziava: «Centoventimila uomini accorrono per salvare la Lombardia,
per riconquistare l’indipendenza, che oramai per noi vuol dire il diritto
di vivere. Dal tempo dei Romani in poi, il mondo non vide mai un esercito
italiano più numeroso e agguerrito. Esso sterminerà dal sacro suolo della
patria il nemico». Il Ministero facea decretare: «Tutti quelli fra i
diciotto e i quarant’anni, che si trovano nelle provincie non occupate
dal nemico, dovranno immediatamente presentarsi al comandante militare...
Chiunque non si presentasse fra cinque giorni dalla promulgazione di
questo decreto, sarà considerato come refrattario al servizio militare».

Come non persuadersi che un’immensa voragine si aprisse sotto il passo
dell’oppressore? Il Piemonte non pensò dunque a riparare le frontiere, nè
preparare a quello un trabocco, a sè uno scampo se entrasse sul territorio
sardo. Eransi intimate le ostilità prima d’avvertirne tutt’Italia,
la quale non potè accingersi a soccorrere, se anche l’avesse voluto.
Lamarmora fu spedito a occupare la Lunigiana, neppure avvertendo il
Governo toscano, che indignato minacciò di far sollevare Genova. A Roma
il proclama delle ostilità arrivò prima di colui che doveva annunziarle.
Venezia non ebbe tempo di allestire tutti i suoi, che avrebbero potuto
avvicinarsi a un’ala dell’esercito sardo, e circuire il nemico. Il
generale piemontese ignorò, non solo gl’intenti, ma fin le mosse degli
Austriaci; anzi sol cinque giorni dopo disdetto l’armistizio egli n’ebbe
l’avviso. La maggiore importanza consistea nell’ammutinare la Lombardia,
che rumoreggiasse alle spalle del nemico minacciando recidergli la
ritirata: un Comitato, detto di lavori statistici, avea avuto l’incarico
di prepararlo; Lamarmora dal Parmigiano, Solaroli da Oleggio darebbero
mano agl’insorgenti: ma che? appena cencinquanta persone entrarono per
Varese e Como, capitanate dal Camozzi, convogliando seimila cinquecento
fucili e settemila lire, ma nè un soldato nè un uffiziale regolare che
desse sanzione al movimento. Carlalberto fece una cavalcata di qua dal
Ticino pel ponte di Buffalora, ma il paese che s’era mosso fuor di tempo
nel marzo del 48, nel marzo del 49 stette quieto fuor di tempo, onde il re
diede la volta indietro. Mentre lo sfidato procedea risoluto all’offesa,
e invadeva il territorio con settantamila uomini e ducento cannoni, gli
sfidatori che aveano bandita la guerra nazionale teneansi sulla difesa.
Rinnovando gli errori della campagna precedente, erasi disperso l’esercito
sopra lunghissima linea da Novara a Parma, talchè Radetzky conobbe
facile il separarlo dalla sua base d’operazione che sono Alessandria e
Genova, anzichè i Piemontesi separassero lui dalla sua che sono Verona
e Mantova. E prima che soccorsi al Piemonte giungessero e neppure si
apparecchiassero, una giornata nei piani di Novara (24 marzo) bastò a dare
compìto trionfo agli Austriaci.

Le truppe piemontesi disordinate buttansi a saccheggiare Novara: si sparge
che Carlalberto tradì, che il Parlamento dichiarò scaduta Casa di Savoja,
che Chrzanowsky mandò a morte i generali traditori, battè gli Austriaci,
occupò Milano. Ma tutto era consumato. Carlalberto, invano desiderando
che una palla il colpisse, abdica e fugge. Se, vinto un’altra volta,
avesse subita la pace, rimanea vassallo dell’Austria, debitore di sua
corona alla magnanimità del Radetzky, obbligato a espellere dal regno
coloro, alle cui speranze avea dato tanti eccitamenti. D’altra parte,
se la monarchia sarda fosse caduta, accorreva certamente, se non altro
alla partigione della preda, la repubblica francese, portatrice o d’una
guerra o d’un esempio che importava rimovere. Ecco perchè Radetzky non
si fece difficile, e appena il figlio del re gli si presentò, concesse un
armistizio (26 marzo), patto che l’esercito austriaco occuperebbe quant’è
fin alla Sesia, e porrebbe presidio misto col piemontese in Alessandria;
l’esercito sardo, congedati i corpi lombardi, si ridurrebbe in assetto di
pace, e si solleciterebbe una conchiusione.

A Torino s’ignora tutto, e si fantasticano trionfi: confusamente udite le
male nuove, il Parlamento chiacchera, fa mozioni e arringhe e invettive;
accertate, si cambia il Ministero; notificata poi la mutazione del re, fra
gli urli di piazza si dichiara incostituzionale l’armistizio, si chiedono
gli estremi sforzi, si vuol guerra, si accusano d’inetti, di traditori i
capitani.

È comune l’adoprare la parola _tradimento_ a coprire gli sbagli e impedire
lo scoraggiamento; non è raro l’imputare ad uno le ruine sotto cui fu
sepolto; ma perfino nella rabbia ripugna il credere a delitti inutili:
eppure alcuni non esitarono a sanzionare que’ sospetti, in momenti ove sì
facilmente il popolo li traduce in furore.

Da tutti i municipj arrivavano accuse e messi contro del Ministero,
contro dei generali, contro del Parlamento. A Genova, in italiani fremiti
torcendo la rabbia municipale, si divulga che i Piemontesi sono d’intesa
cogli Austriaci per abolire lo statuto, e che marciano insieme sopra
Genova (31 marzo), talchè si vogliono le fortezze; vien affidata la città
all’Avezzana, esule del 21, con altri eccessivi; si assalta l’arsenale,
che con molto sangue è ridotto a cedere; si grida il Governo provvisorio
della Liguria; s’invitano i militi lombardi a difendere quella città e
lo statuto dai traditori; e ai nemici d’Italia fu nuovamente imbandito
il piacere di vedere torcersi contro Italiani le armi che non erano valse
contro le straniere.

Il generale Lamarmora, accorrendo da Parma, sorprese i forti, e poichè
l’avvicinarsi del corpo lombardo facea temere non ajutasse gl’insorti, si
ricorse ai mezzi più terribili, lanciaronsi bombe, e Genova fu presa (11
aprile) per forza, trattata come nemica, principalmente dai soldati che vi
stavano dapprima in guarnigione, e che voleansi vendicare degli oltraggi
sofferti: sin le relazioni uffiziali confessano trattamenti peggiori di
quelli che si attribuivano agli Austriaci: ma i caporioni eransi ritirati;
agli altri ben presto si proclamò il perdono, cercando reciprocamente
si obliassero «fatti che furono, si direbbe quasi superiori alla volontà
umana»[108].

Ad altri gridatori di tradimento, che poteano anche trucidare i Lombardi
imputandoli d’avere sagrificato Carlalberto, si diede una soddisfazione, e
si declinò il sospetto di complicità, dopo incondito processo fucilando il
generale Ramorino (10 aprile), reo non d’avere tradito, ma di inettitudine
o disobbedienza, colpa comune a tropp’altri, pei quali egli cadeva vittima
espiatoria. Insieme ordinaronsi scrutinj sulle cause del disastro, che
ognuno rimbrottava all’altro; e al Ghrzanowsky fu decretato il gran
cordone mauriziano[109].

La Lombardia non erasi mossa, o diffidasse, o attendesse gli eventi.
Como e Bergamo che aveano preso le armi, lasciaronle cascare al sinistro
annunzio. Non così Brescia. Che tante promesse, tante speranze fossero
svanite in un battere d’occhio, che il Piemonte non notificasse ch’era
impossibile il soccorrerla, parve improbabile: speriamo non fosse che
illuso il Comitato di difesa allorchè ingannava il popolo con diversissime
novelle di vittorie, per le quali entrò il furore di resistere. Nugent,
che era accorso da Mantova, ed erasi già fatto ben volere dalla città,
scese per dare le novelle certe, ma fu colpito a morte, e sul suo sepolcro
leggesi: _Oltre il rogo non vive ira nemica_. Il terribile Haynau, venuto
da Venezia, bombardò la città (31 marzo) che via per via si difese, e
perpetuò col sangue e le lacrime la sua nominanza di prima amica del
Piemonte.

Nel qual regno le bestemmie si mutarono presto in commiserazione, poi
in inni pel re, il quale alle grandi intenzioni ebbe sproporzionate la
potenza del consiglio e l’energia della volontà; sfortunato però anche di
lodatori, i quali, col negarne i demeriti, le virtù disabbellirono, mentre
degli uni e delle altre faceansi ancora arma a fraterni abbaruffamenti.
Era egli fuggito all’estremità occidentale d’Europa, ove fra breve
soccombette alle memorie e al crepacuore (28 luglio). Alla deputazione
mandatagli dal senato a Oporto, rispondeva: — La Provvidenza non ha
permesso che per ora si compisse la rigenerazione italiana. Confido non
sarà che differita, e non riusciranno inutili tanti esempj virtuosi,
tante prove di generosità e di valore, date dalla nazione; e l’avversità
passeggiera ammonirà i popoli italiani ad essere un’altra volta più uniti,
se vogliano essere invincibili».

Suo figlio Vittorio Emanuele II trattò della pace; e se era inevitabile
quando persin gli amici non parlavano che de’ nostri errori[110], doleva
il subire le esorbitanti condizioni che l’Austria imponeva, massimamente
in denaro; le si ripeteva di non mettere il re ed i ministri in sospetto
alle popolazioni, ma consolidare il principio monarchico, sventuratamente
scassinato[111]: dopo lunghissime discussioni a Milano fu stipulata la
pace (6 agosto), dove sono riconosciuti i limiti dei due paesi come erano
avanti le ostilità, per linea di demarcazione presso Pavia fissando
il filone del Gravellone, su cui si porrà a spese comuni un ponte;
combinerassi al più presto un trattato di commercio, e per impedire il
contrabbando; restano cassate la convenzione 11 marzo 1751, e il decreto
aulico 1º maggio 1846 che rincariva il dazio de’ vini di Piemonte; questo
pagherà settantacinque milioni per le spese di guerra all’Austria, la
quale ritira dal regno le sue truppe. Parma e Piacenza, occupate dai
Piemontesi, furono restituite al duca Carlo Lodovico, che ben presto le
rinunziava al peggiore figlio Ferdinando Carlo: Modena tornò al giovane
Francesco V. Il non essersi, nelle trattative e nella pace, fatto parola
contro lo statuto, palesava il nuovo diritto internazionale, per cui
nessuna Potenza deve mescolarsi dell’interno ordinamento dell’altra.

I calorosi di tutta Italia s’accoglievano a Roma; i principi spodestati
rifuggivano a Gaeta. Il re di Napoli aveva riconvocate le Camere (1848 1
luglio), sconvolte però dal manifesto dissenso de’ ministri, dai tumulti
de’ piazzeggianti che gridavano «Abbasso la Costituzione», e dall’esercito
che professavasi sostenitore della Costituzione, ma stanco di quei che ne
misusavano[112].

Il Parlamento fu prorogato al 1º novembre; e a quell’annunzio le turbe
di Santa Lucia prorompono in urli di gioja (8 7bre), ed insultano i
deputati; mentre altri lazzaroni gridano «Viva la Costituzione»: la truppa
è costretta fare fuoco sugli uni e sugli altri. Eppure il Governo fa
rinnovare le elezioni; libere a segno, che il massimo numero sortì avverso
alla Corte; nè i giornali la risparmiavano: poi il Parlamento (1849 8
febb.) espose gravami contro il Ministero, che non furono ascoltati; fece
leggi che non furono sancite dal re, il quale ben presto lo sciolse, e
assunse il governo personale. Non vi resse il ministro Bozzelli, che aveva
compilato la costituzione, e che fu proclamato vile e traditore, come
chiunque in quel tempo accostò le labbra all’assenzio del potere.

Il re se ne rendeva sempre meno inclinato a condiscendere alle pretensioni
de’ Siciliani, che mai non avea potuti sottomettere. Eransi essi tolto
a presidente (1848 26 marzo) Ruggero Settimo, il quale si pose attorno
i capi della rivoluzione, Mariano Stabile, Riso, Calvi, il principe di
Butéra, l’avvocato Pisano, Michele Amari. Risoluti contro gli eccessi,
chiudono i Circoli, valgonsi della guardia nazionale per ottenere quiete,
mandano per farsi riconoscere dagli altri Governi, e lasciano partire
La Masa con cento giovani per la guerra santa, i quali passarono come
in trionfo dappertutto, bene accolti dai principi, regalati di filacce
e bende dalla granduchessa, a Torino banchettati e arringati: allettati
così a pellegrinare cantando anzichè combattere. Abbattute per decreto
le statue regie, dichiararonsi scaduti i Borboni (1848 13 aprile);
Inghilterra ed altri principi furono contenti dello stacco della Sicilia,
purchè essa avacciasse a scegliersi un re, che forse riconoscerebbero;
un re domandavano le soscrizioni e le guardie nazionali; e per poco che
valesse una corona così incerta, trovava competitori. Era fra questi Luigi
Buonaparte[113]. Ma non era ancora il suo giorno e il suo luogo; e poichè
allora tutto ventava per Carlalberto, il Parlamento (10 luglio), seduta
stante, proclamò Alberto Amedeo di Savoja, tacendo il suo nome usuale di
Ferdinando per odio a quel di Napoli. Feste indicibili: ma fu un crescere
i sospetti agli altri principi italiani; alfine, sopraggiunti i disastri,
il duca di Genova ricusò.

Frattanto surrogano un Ministero (13 agosto), preseduto dal marchese di
Torrearsa; quando, caduta Milano, le Potenze suggerivano di riconciliarsi,
i Siciliani persistettero al niego; onde il re, non vedendo altra via
che le armi, le ingrossò, affidandole al generale Filangieri. Messina
avea resistito sempre, in sette mesi mostrando una costanza e un valore,
che duole non fossero adoperati alla rigenerazione nazionale. Palermo
vi mandava ajuti; ma Filangieri, dopo fiero bombardamento, fu costretto
prendere casa per casa in un combattimento durato trent’ore, ove de’ regj
rimasero quarantasei uffiziali e mille trentatre soldati. Messina, invano
difesa da 15 mila soldati e 150 cannoni, dopo tre giorni di bombardamento
e 29 ore di combattimento, cadeva per opera di 6000 soldati, fra cui
il 3º reggimento svizzero, con 10 pezzi da 4; con gravi perdite dalla
parte dei realisti e poche de’ Siciliani[114]. In Messina tutto andava
a fiamme ed eccidio (1849), se i consoli di Francia e Inghilterra non
si fossero interposti, chiedendo e quasi imponendo sospensione d’armi,
sinchè Francia e Inghilterra decidessero. Allora a torme, come i Lombardi
da Milano, dalla desolata patria i cittadini si strascinano fin a Catania
e a Palermo, dove il Parlamento rinforza di soscrizioni e decreti per
vendicare Messina; ma scarso viene il denaro volontario, e forzarlo non
si osa; cercansi gli argenti delle chiese, le cancellate, i candelabri,
i tubi del gas, e prestiti forestieri; chiedonsi armati e generali
stranieri. Ma le truppe mancano di uffiziali e di disciplina, ed essendo
cernite sin dalle galere, sgomentano il paese con rapine ed assassinj; le
finanze fanno pelo d’ogni parte; la discordia inviperisce fin tra l’alta e
la bassa Camera; ciascun nuovo Ministero perde subito la fiducia, perchè o
non reprime i colpevoli o vuole reprimere anche i non colpevoli, e riesce
ben lontano da que’ titanici spedienti che ciascuno prometteva quando
trattavasi soltanto di parole.

Nè le Potenze straniere ajutavano. La Corte di Torino avea ricusato la
corona offerta al duca di Genova[115]; Francia sgradiva il distacco dal
regno; Palmerston conchiudeva che non per questo moverebbe guerra al re
di Napoli, nè impedirebbe ch’egli la recasse alla Sicilia, ma con parole
dissonanti dai fatti, davano lusinghe agl’insorgenti; e gli ammiragli
di Francia e Inghilterra sospesero le operazioni militari dell’esercito
napoletano, a titolo di umanità e tutto profitto dei sollevati, che
poterono procacciarsi armi, vaporiere da guerra, e sistemare l’esercito.
Il re mandò da Gaeta un _ultimatum_ (28 febb.), che portava piena
amnistia, amplissima costituzione fondata su quella del 1812, salvo ad
essi il poter modificarla; Parlamento a due Camere; necessaria la sanzione
regia. Quegli ammiragli furono gridati traditori per averla diffusa
lungo le coste, e il Ministero siciliano ricusò perfino presentarla al
Parlamento «come emanante da un potere, non solo sconosciuto in Sicilia,
ma condannato da solenni decreti del Parlamento medesimo»[116]; e «Guerra,
guerra» fu l’unica risposta agli ammiragli. Si decreta la leva di quanti
sono fra i diciotto e i trent’anni (19 marzo); si disdice l’armistizio,
allora appunto che ricominciava la guerra in Lombardia; e cantari e
amplessi e tripudj e fiori sugli arrolati; e cinquantamila braccia
faticano a scavare un fosso attorno a Palermo.

La guerra trovavasi capitanata ai due estremi d’Italia da due capitani
polacchi, Chrzanowsky e Miaroslawsky, il quale sollecitava i preparativi,
tenea ben animate le truppe: ma con settemila settecento uomini far
fronte a ventimila regolari che assalivano, era impossibile, quand’anche
egli non fosse apparso inetto. Vinti dappertutto, la guardia nazionale
ricusa persistere nell’inutile resistenza, tanto più dacchè il tracollo
del Piemonte restituiva l’Italia alla supremazia austriaca. Il Parlamento
adunque declina dai propositi di sepellirsi sotto le ruine della patria;
quei che più aveano soffiato nel fuoco, fuggono, per poi dall’esiglio
accusare di viltà e tradimento coloro che rimasero; è accettata la
mediazione offerta da Baudin ammiraglio francese (26 aprile): ma il re
proferisce che «la sua condotta colle città che si assoggettarono, basta a
garantire del come tratterà le altre». Pertanto il Governo rivoluzionario
rassegna i poteri al municipio; le navi napoletane entrate in porto,
intimano sommessione; ne seguono sanguinosi tumulti; chi vuole ammazzare
i traditori, già con tal nome indicando i capi rivoluzionarj; chi
ancora resiste scompigliatamente. Filangieri acqueta, promette amnistia,
eccettuandone quarantatre che lascia partire; condiscende a molte altre
domande; infine introduce le truppe regie in città; e l’anniversario
appunto della sollevazione di Napoli, l’autorità regia è restaurata (15
maggio). Un maggiorasco di ducenquarantamila ducati premia il Filangieri;
e peste, carceri, processi, esecuzioni tengono in freno l’isola come la
terraferma.

Piuttosto convulsa che febbricitante, la Toscana persisteva ribelle al
granduca, ma il disordine invadeva ogni cosa: deplorabilmente povera la
tesoreria; pochissime milizie e indisciplinate, confini indifesi; clero
e nobiltà avversi, i democratici triumviri accapigliantisi fra loro; la
plebe rompeva ai più insoliti eccessi, guastare la strada ferrata o i fili
elettrici, buttare incendj; gli usuraj trafficavano sulle cedole di banco;
la concessione comune dell’armi e le bande de’ profughi moltiplicavano
prepotenze; intanto si temevano sollevazioni in senso principesco, al
modo delle Aretine del 1799. Gli eroi del patriotismo sfogavanlo or
calando le campane del bargello per fonderne un cannone; or levando
dalla santissima Annunziata una lampada, perchè dono di re Ferdinando;
ora minacciando il collegio delle figlie nobili come sconveniente a
democrazia. Degli elettori, appena un decimo votarono a nominare i
deputati alla Costituente: a Lucca neppur uno; Guerrazzi stesso non la
voleva in quell’ampiezza, fosse antiveggenza de’ danni contingibili, fosse
ambizione personale, come gli avversarj dicevano. E mentre Montanelli,
tutto di Mazzini, volea si proclamasse la fusione colla repubblica romana,
Guerrazzi vi si oppose risoluto, nè sì gravi decisioni pareangli da
prendersi fra schiamazzi di plebe.

La rotta di Novara dà nuova scossa; vuolsi una dittatura, ed è affidata
al Guerrazzi, che arbitro di tutto, con proclami continui e ghiribizzosi
opponeasi all’anarchia, frenò la vergognosa indisciplina del Parlamento,
mostravasi operosissimo in preparare la difesa della patria, cassava le
milizie inutili, spediva ai confini chiunque potesse portare le armi.
Allora per accusa, dappoi per difesa si ripetè pensasse ripristinare
il granduca: ma se così era, perchè nol fece quand’egli solo padrone?
Realmente lo incalzava incessantemente la setta che voleva la repubblica
e l’unione con Roma, o piuttosto voleva il disordine e profittarne.
Morsicchiato virulentemente da que’ miserabili insetti che cacciansi nelle
narici del leone, assalito in piazza con grida di morte, egli stesso nella
sua _Apologia_ assicura ch’era ridotto a fare tutto ciò che imponeagli la
turba, e singolarmente i Lombardi armati.

Anche l’unico che mostrò vigore era dunque debole.

D’una squadra di Livornesi erasi egli fatto una specie di guardia
pretoriana, esecrata per prepotenze e licenze. Alcuni di quella avendo
ingiuriata un’ostiera, sono assaliti (11 aprile); presi a fucili, sassate,
coltelli, mazze. A grande fatica il Guerrazzi riuscì a metter calma;
ma già quei che erano stanchi delle prepotenze, palliate col nome del
dittatore, erano prevalsi, e gridavano — Noi vogliamo i galantuomini»;
contadini armati, accorrono in città, abbattono gli alberi e le insegne
repubblicane; il Municipio, preseduto dal Digny, assume la direzione degli
affari, aggregandosi Gino Capponi, Bettino Ricasoli, Carlo Torrigiani,
Cesare Capoquadri; e si rintegra il principato (12 aprile). Prima loro
cura fu imbrigliare le vendette e salvare il Guerrazzi da morte: tratto
in fortezza insieme co’ suoi, tutti vogliono un pelo del leone côlto nella
rete.

Se dall’indagine apparve che i reggitori democratici non aveano usato
misura nè senno nello spendere, si chiarì pure ch’erano mondi da latrocinj
e concussioni[117]. Il Municipio atteggiatosi a Governo, pronunziava avere
colla restaurazione voluto «non solo redimere lo Stato dal despotismo
d’una fazione, ma salvare il paese dal non meritato dolore d’un’invasione,
e il principato rinascente dall’infausto battesimo d’una protezione
straniera». E poichè nell’universale adesione della Toscana a gridar
viva a chi vince, solo Livorno resisteva, fino a dichiarare interrotta
ogni comunicazione colla terraferma, si spedisce a Torino per chiedere
un soccorso: e viene risposto, l’avranno se domandato dal duca. Il quale
duca, più fortunato di tutti gli altri principi perchè ristabilito dal
proprio popolo, per mezzo di Luigi Serristori rimandava proclamando,
— Stiano sicuri i Toscani, che porrò ogni studio a risarcirli delle
sofferte calamità, e restaurare il regime costituzionale in modo, da
più non temere si rinnovino i passati disordini». Ma la spontanea ed
unanime restaurazione non rattenne gli Austriaci, coi quali già prima
era concertata l’occupazione; il generale D’Aspre invade i confini (24
aprile), e da Massa, Carrara, Pontremoli occupa Pisa, professando venire
a rimettere l’ordine, e quella sicurezza «alla cui ombra le istituzioni
costituzionali date dal sovrano legittimo potranno gettar forti radici,
portare frutti buoni». Livorno che resisteva, fu occupata a forza (22
maggio), coi danni e i micidj inseparabili da un’invasione violenta[118]
e dall’impostovi stato d’assedio. E i Tedeschi rimasero nella Toscana
in aspetto di conquistatori, fin quando la vergognosa convenzione del
22 aprile 1850 stabilì l’occupazione indeterminata del granducato, che
durò fino al 1857. Poi D’Aspre occupava anche Firenze (15 maggio) «come
amico, come alleato», ordinandovi il disarmo, e facendosi mantenere.
Erasi sperato che le franchigie costituzionali spontaneamente largite dal
granduca perchè _promesse_ e _meritate_ (pag. 117), sarieno mantenute
a una gente fedele da un principe cui toccava la rarissima fortuna
d’una restaurazione popolare; e in fatti quando al Serristori successe
un Ministero composto di Baldasseroni, Landucci, Corsini, Capoquadri,
Laugier, Boccella, annunziava, governo della Toscana essere la monarchia
temperata dallo statuto 16 febbraio 1848, che il principe era risoluto
mantenere, sebbene da altri audacemente violato (circolare 1º giugno); al
6 maggio 1852 veniva abolito lo statuto. Non dimenticato.

Restava la Repubblica romana. Abbiamo storie che dicono come tutto vi
procedesse con calma, dignità, moderazione, magnanimità, e «implorare
la benedizione del cielo sulla guerra della nazionale indipendenza» (LA
FARINA): n’abbiamo altre che denunziano come indescrivibile il disordine
nella metropoli (27 genn.), e peggio nel restante paese. Negli uffizj era
bisognato collocare persone o senza cervello o senza fama, ritirandosi
i migliori; e alle Potenze estere deputare ambasciadori forestieri: il
che non poco screditava la repubblica, mostrando i nuovi essere peggiori
de’ funzionarj contro cui si era declamato. Parole, discorsi, indirizzi
infiniti, ma scarsi atti, e improvvide deliberazioni, prese col sigaro in
bocca e fra un andare e venire di giovinastri. Le relazioni degli agenti
esteri parlano di continui assassinj commessi in pubblico, al cospetto de’
soldati, talvolta dagli agenti stessi della Polizia: orribili atrocità
sarebbersi commesse anche freddamente a Roma, da gente facinorosa: gli
atti stessi con cui si tentava reprimerli, ne provano la moltiplicità.
Alla nuova della disfatta di Novara, crebbero qui pure l’impero e la
risoluzione d’accorrere a ripararvi, a salvare coi repubblicani l’Italia
tradita dai re; e si affidarono poteri dittatorj a Mazzini, Saffi,
Armellini. Il vulgo intanto ne prendeva occasione a inferocire; insorto
ad Ancona trucidò molti, e non v’era chi lo punisse: colà e a Macerata, ad
Osimo, a Sinigaglia, dove principalmente si perseguitò la famiglia Mastai,
una setta che s’intitolava _Infernale_, proponeasi di purgare lo Stato da
tutte le persone avverse alla repubblica e che questa contaminassero coi
vizj, e trucidò un cavaliere Baldelli, i marchesi Nembrini e Censolini,
il capitano Del Pinto, il canonico Specchi ed altri «come inonesti ed
immorali»[119].

L’indignazione arrivò al colmo da che si seppe avere il papa invocato gli
stranieri. Il Ministero cercava modi di difesa; pose la guardia nazionale
sotto alla commissione di guerra; creò altri ducencinquantamila scudi
di boni del tesoro, iniquamente dichiarando infruttiferi quelli emessi
dal Governo pontifizio; ingrossò del 25 per cento il prestito forzoso a
coloro che fra sette giorni nol pagassero: ma le finanze erano nell’ultimo
sconquasso, che naturalmente attribuivasi ai precedenti Ministeri.

La Costituzione allora compilata (17 aprile), oltre le garanzie consuete,
portava abolite la confisca e la pena di morte; il popolo fa le leggi
mediante i suoi rappresentanti; il potere esecutivo è affidato a due
consoli biennali; tutelano la Costituzione dodici tribuni quinquennali
inviolabili e rieleggibili; il diritto di pace e guerra risiede
nell’Assemblea, indissolubile, triennale, e dov’è elettore ed eleggibile
ogni cittadino di oltre ventun anno; i consoli sono responsali anche l’uno
per l’altro, hanno diritto di grazia e facoltà d’eleggere i funzionarj.
Alle Potenze diramavansi manifesti, sfavillanti d’eloquenza, speciosi di
ragioni; uditi, non ascoltati: e declamazioni contro il tradimento del
Piemonte e le riazioni della Toscana.

Di rimpallo da Gaeta protestavasi contro ogni atto della Repubblica, e
singolarmente contro l’usurpazione de’ beni ecclesiastici, e l’arresto dei
vescovi di Fermo, d’Orvieto, di Civitavecchia, accusati di tramare una
controrivoluzione; di frati, supposti autori di scritture sommovitrici,
e condannati alle galere. In fatto molte terre rivoltavansi gridando il
nome del pontefice, altrove cozzavansi papalini con repubblicani.

La rotta di Novara aveva elevate le pretensioni principesche, fin a
domandare l’incondizionata rintegrazione del dominio papale; onde altro
scioglimento non rimaneva che l’intervenzione forestiera. Ben merita si
indaghi perchè, fra tanti troni scossi e principi sbalzati in quell’anno,
solo il papa eccitasse l’universale interesse; scismatici ed eretici
come cattolici, principi come repubbliche, Russia e Prussia come Spagna
e Francia si offersero a ristabilirlo; da tutta Europa non solo, ma dalle
altre parti del mondo, dalla Cina, dall’Oregon, vescovi, Governi, privati,
spedivano condoglianze al pontefice ed esibizione di ricovero[120] e
sussidj di denaro quando i consueti gli erano mancati. In Francia la
rivoluzione romana vi avea perduto le simpatie appena trascese, tutti
vedendovi operare colà gli stessi che aveano sovvertito Parigi; molti
dipartimenti fecero indirizzi al pontefice; Avignone gli rammentò l’antica
residenza; ed essendosi sparso che egli arrivava in Francia, l’Assemblea
nazionale interruppe i suoi lavori per decretare i modi di riceverlo, e
lasciare campo di corrergli incontro; Marrast, che vi presedeva, «assicura
il nunzio che la Repubblica si terrebbe fedele alle tradizioni che
palesarono la Francia ospitale ai grandi infortunj, e ossequiosa alle più
nobili»; Thiers e Montalembert all’assemblea francese, Donoso Cortes al
congresso di Spagna, lord Lansdowne al Parlamento d’Inghilterra eccitavano
a sostenere la più santa e rispettabile debolezza, quella dell’oppresso
e dell’innocente.

Al primo annunzio della uccisione di Rossi, erasi in Francia pensato
accorrere, e domandossi al Parlamento un milione e ducentomila lire.
Che se Ledru-Rollin detestava questo spegnere una repubblica sorella,
mentre l’articolo quarto della Costituzione portava: «La Repubblica
francese rispetta le nazionalità forestiere, non adopera mai sue forze
contro la libertà di verun popolo»; Thiers rispondeva essere follia
sperar libera l’Italia senza guerra, e guerra non poteano assumersi
i Francesi, tanto meno per una _nazione che non combatte_, e che sta
in mano di ridicoli arruffapopolo. Odilon-Barrot ed altri in maggior
fama di liberali incalorivano a una spedizione, non per istrozzare le
istituzioni democratiche, anzi per consolidarle nella penisola, e farvi
rispettare la sovranità del popolo, mettendolo in grado di governarsi da
sè col sottrarlo a una fazione assassina, e per bilanciare coll’ingerenza
francese l’illimitata austriaca[121]. Anzi il soccorrere o no l’Italia
divenne occasione d’una nuova sommossa in Parigi, che vinta, crebbe
solidità al Governo, e alla parte che, coll’affisso di cattolica, zelava
il ricomponimento della quiete dentro e fuori.

Il Buonaparte, munito dalle antiche aderenze di sua casa e da un nome
storicamente famoso, ottenne col suffragio universale la presidenza della
Repubblica francese; e professatosi restauratore dell’ordine e della
pace, mandò assicurazioni ed offerte al papa, e propose d’intervenire
coll’armi, unico modo d’assestare la media Italia, e impedire che ivi pure
onnipotessero gli Austriaci.

Questi, comandati da Wimpfen, entrano in Ferrara e in Bologna che di nuovo
oppose resistenza, e postone a governo militare il Gorgowsky, dissipate
una resistenza coraggiosa del Garibaldi e le inette del Zambeccari non
secondate dalla popolazione, occupano senza fatica tutte le altre città
di Romagna, ripristinandovi il dominio papale e la legge stataria: e il
ministro d’Austria dichiarava proporsi unicamente di soddisfare ai voti
del santo padre, identici con quelli del mondo civile, il quale non può
soffrire che la libertà e indipendenza ne siano distrutte da una anarchica
fazione.

Il presidio d’Ancona resistette ben venticinque giorni, finchè la
popolazione domandò la resa, stanca di vedersi insanguinata da civili
assassinj. Altri Austriaci dalla Toscana, occupata senza difficoltà,
accennavano ingrossarsi a Foligno, e per Val di Tevere congiungersi negli
Abruzzi coi Napoletani. Questi avanzarono grossi verso Velletri, e se
non era un duro cozzo opposto dalle bande di Garibaldi, arrivavano sopra
Roma, munita solo di frasi. Gli Spagnuoli sbarcati a Fiumicino, mossero
per l’Umbria superiore; ma nè questi nè quelli contarono nel decorso de’
fatti, tutti dovuti alla Francia.

Questa conservava ancora il nome di repubblica, sicchè sapeva di
strano che intervenisse a spegnere una Repubblica, e parve ella stessa
vergognarsene col parlare benevolo mentre operava ostile. Oudinot,
comandante la spedizione di solo ottomila uomini, da Marsiglia proclamava
(20 aprile): «Il Governo, risoluto a mantenere dappertutto la nostra
antica e legittima influenza, non ha voluto che i destini italiani possano
essere in balìa d’una Potenza straniera, e d’una fazione in minorità.
Soldati, inalberate la bandiera di Francia sul territorio romano, affinchè
l’Italia deva a voi quel che la Francia seppe conquistare per se stessa,
l’ordine nella libertà».

E giunge a Civitavecchia (25 aprile), non dissimulando di volere stabilire
il Governo pontifizio, rinettato come già era dagli abusi, e sbarca
fra le grida miste di «Viva la Repubblica francese, viva la Repubblica
romana»; ma subito dichiara non essere venuto a sorreggere un Governo
non riconosciuto, bensì a rannodare tutti gli amici dell’ordine e della
libertà: parole inefficaci, come le pompose con cui i repubblicani
cercavano insinuare ai soldati francesi di far causa con loro, vedendo
l’ordine e la felicità che regnava nello Stato. Qui un turpe intralcio
di promesse e negazioni e contraddittorj manifesti, la cui necessità non
iscagiona Oudinot, il quale mettea fuori un proclama.

E cresciuto di truppe, batte la marcia su Roma (21 maggio). Ma dodicimila
Romani irregolari affrontano i sedicimila Francesi, e per nove ore
sostengonsi tanto, che questi «reputano prudente ritirarsi la notte».
Tale vittoria di gente _che non combatte_, acquistò rispetto e migliorò
la situazione del Governo[122]; nell’Assemblea di Francia si imprecò ai
ministri, che i soldati di Francia mutavano in gendarmi dei despoti, e
faceano esecrare la nazione quanto i Croati: ma i ministri trovarono
scappatoje, e spedirono Lesseps a proporre che i Romani invocassero
la protezione de’ Francesi, riservando al popolo libertà di risolvere
sulla forma di governo, e garantendo da ogn’altra invasione straniera.
L’Assemblea romana rispondeva, dolerle non sia ne’ suoi poteri di
accettare i termini proposti; lunghi furono i parlari: Lesseps consentì
forse più che non portasse il suo mandato; Oudinot disdisse gli accordi:
perocchè quello teneva sue istruzioni dal Ministero, questo da Luigi
Buonaparte[123]. Il quale l’8 maggio aveagli scritto: — Io sperava che
gli abitanti di Roma, aprendo gli occhi all’evidenza, riceverebbero un
esercito che veniva con una missione benevola e disinteressata. In quella
vece i nostri soldati furono ricevuti nemicamente: l’onor nostro militare
è impegnato, nè soffrirò che sopporti smacco». Così per punto d’onore la
Repubblica francese impegnavasi in una guerra di popolo, deplorabilissima
per l’Italia. Ben presto seppesi che una nuova Assemblea aveva approvato
la spedizione di Roma, e detto di voler ripristinarvi il principato
ecclesiastico. «Coll’uccidere la Repubblica romana vogliono farsi scala
a uccidere la francese», gridarono i sommovitori, e spinsero il popolo di
Parigi ad un subbuglio; ma assaliti senza pietà, resta affogato nel sangue
l’ultimo grido che si levasse a favor di Roma.

L’esercito francese presto ebbe occupato Monte Mario e la villa Pamfili,
con cinque batterie di campagna, una d’assedio; ricevette rinforzi
e minatori, sin a contare trentaseimila uomini, otto squadroni di
cavalli, sessantasei bocche d’artiglieria. I Romani armavano quattromila
novecento uomini di fanteria regolare, seimila settecento d’irregolare,
ottocentottanta cavalli, centotto bocche d’artiglieria, ma molte
inservibili e con esse doveano difendere una mura che gira venti miglia.
Lisabe, Sterbini, Cernuschi, lepido e intrepido commissario delle
barricate, non requiavano da ordini e decreti, demolire e munire, far dal
popolo e dalla guardia civica giurare di morire piuttosto che cedere. Il
padre Ventura, filosofo e religioso men accomodante del Gioberti, studiava
le guise di conciliare la democrazia col papato, allegando che prima del
1796 il papa non era che patrono d’un aggregato di liberi municipj, talchè
diceasi «La santa Chiesa di Dio e la Repubblica dei Romani»: ma il padre
Gavazzi e l’abate Dall’Ongaro eccitavano alla difesa della Repubblica
come ad opera santa; la principessa Belgiojoso allestiva spedali, a cui
le monache somministravano filacce e bende; i declamatori, che allora
diceansi missionarj, apostolavano la guerra di Dio e del popolo: e chi
potrà ripetere quante si prodigassero parole e mozioni da que’ che non
voleano combattere? quanto si spingesse a infocolar l’odio contro il
papa? Ciciruacchio andava pei palazzi in cerca delle preziosità, anche di
quelle che non poteano servire a fare moneta per Dio e il popolo; oggi
progettavasi di bruciare tutti i confessionali; domani, a pretesto di
difesa, correasi a disertar le ville, e nella Borghese abbattere quegli
alberi secolari, sotto cui la plebe romana solea venire a ricrearsi a
spese dell’odiata aristocrazia. Qual tripudio quando in una casa stanavasi
un Gesuita, vestito d’altre divise perchè le sue erangli proibite! Fu
volta che si colsero alquanti vignajuoli, e come gesuiti mascherati
vennero dal popolo fatti in minuzzoli: un prete, per accusa d’avere
sparato contro il popolo, fu trucidato a furia: ai vescovi era colpa il
carteggiare con Gaeta, quasi là non fosse il loro capo spirituale: un
Zambianchi forlivese arrestò nelle provincie quei che credeva avversi alla
Repubblica, e chiusili nelle catacombe di San Calisto, ivi li processava e
uccideva compendiosamente, finchè i triumviri mandarono a sospendere quel
macello, e liberarne dodici frati e preti. Se gli uccisi fossero centinaia
o soli sette è varia fama; ma basta pel vituperio suo, e di chi non sapea
che «offrirlo all’esecrazione della patria».

Senza esercito regolare nè sperimentati capitani nè buoni artiglieri, eroi
improvvisati fecero costar caro l’acquisto della città eterna: fu ammirato
uno stuolo di giovani lombardi, che, sebbene alieni dal dogma di Mazzini,
pure credettero dell’onor nazionale il combattere e morire; e vi perirono
Luciano Manara che li capitanava, il poeta Mameli genovese, il vicentino
Zampieri, i milanesi Emilio Morosini, Enrico Dandolo, il cui fratello
narrò le loro imprese con quella calma affettuosa che persuade e guadagna
gli spiriti.

Mentre questi faticavano, combattevano, morivano, i triumviri e
l’assemblea, per far anch’essi qualche cosa, peroravano, decretavano,
riformavano, faceano provvedimenti, che atteggiavansi da eroici anche
quando insinuati da paura o adulazione della plebe tumultuante; come di
dispensare i giovani da esami e studj per ottenere i gradi accademici, di
spartire fra’ poveri tutti i beni ecclesiastici, di attenuare il prezzo
del sale, di ricoverare la plebe ne’ conventi, restringendo in modeste
abitazioni i frati e le monache, le cui masserizie erano date agli asili
dell’infanzia; e al popolo dicevano: — Perseverate, voi difendete in
Roma l’Italia e la causa repubblicana del mondo». Fra ciò anatemizzavano
il papa, la Francia, i traditori, e proseguivano «con calma e dignità
maravigliosa l’opera legislativa» (LA FARINA), come Dio sul Sinai dava la
legge tra il fragore delle procelle.

Oudinot, compiti i preparativi dell’assedio (13 giugno), invita ad
accettare l’amicizia di Francia; ed ha per risposta «preferirsi la morte
all’oppressione». Allora comincia il fuoco, e palle e bombe colpiscono i
monumenti sacri all’arte ed alla religione, invano reclamando i consoli
esteri, invano esclamando il Governo, — I giovani uffiziali, i nostri
improvvisati militi, i nostri uomini del popolo cadono sotto il vostro
fuoco gridando, _Viva la Repubblica!_ I prodi di Francia cadono sotto il
nostro, senza grido, quasi disonorati; non uno che, morendo, non dica ciò
che uno de’ vostri disertori ci diceva quest’oggi: _Proviamo in noi stessi
qualche cosa, come se combattessimo contro fratelli_».

Infervorata l’oppugnazione, la mura fu superata; eppure si continuò a
combattere, pronunziando, «Roma rovini piuttosto, ma si difenda in Roma
la dignità della stirpe italiana»[124]; poi fu dato l’assalto generale
dopo trenta giorni d’assedio, ove i Francesi perdettero mille uomini
(30 giugno), fra cui cinquantasei uffiziali, e forse il triplo noi.
Il Triumvirato rassegnava i poteri all’assemblea: questa dichiarava
cessare da una difesa divenuta impossibile, ma si radunò in Campidoglio a
proclamare la allora compita Costituzione, ad ogni articolo urlando «Viva
la Repubblica», intanto che i Francesi entravano (3 luglio), ricevuti
dalle grida di «Morte a Pio IX! via gli stranieri! morte al _cardinale_
Oudinot!» Perocchè quel che cogli Austriaci non osavasi, qui si continuò,
di far proteste e dimostrazioni e sciorinare bandiere: un prete che
applause, fu lì lì ucciso e sventrato.

Alfine vi è stabilito il governo militare e il disarmo di tutti, giacchè
non finivasi di assassinare Francesi; insieme _Tedeum_, e panegirici a
Oudinot «stromento della Provvidenza, che avea compito un’opera sociale
e religiosa, liberalo Roma dalla tirannide straniera»[125]; e il titolo
di cittadino romano per parte del Municipio, e una spada per parte degli
amici dell’ordine, e il gran cordone dell’ordine Piano per parte del
papa immortalarono il capitano, che le bandiere repubblicane sospese in
Nostra Donna di Parigi. Colà l’Assemblea nazionale votava ringraziamenti
all’esercito e ai capi di esso, che hanno saputo sì bene conciliare i
doveri della guerra col rispetto dovuto alla capitale del mondo cristiano:
e Luigi Buonaparte, inviando ricompense a Oudinot, l’incaricava di
esprimere alle truppe com’egli «n’avesse ammirato la perseveranza e il
coraggio nel conservare il prestigio della bandiera francese»: il ministro
della guerra assicurava quei soldati che «i loro compagni rimasti in
Francia invidiavano il posto d’onore che ad essi era toccato in sorte».

I triumviri ritesserono il viaggio dell’esiglio e le lunghe trame: i conti
della finanza trovaronsi limpidi; nelle casse cinquecennovantasettemila
scudi; la carta rilasciata dal Governo repubblicano non sommava neppure
alla metà di quella decretatagli. Anche gli altri capi passarono in
Isvizzera, in Francia, in Inghilterra; Canino da principe romano ben
presto mutavasi in principe imperiale: Garibaldi invitava a seguirlo chi
fosse disposto a fame, stenti, battaglie per trasportare la guerra nella
campagna; e formato un grosso corpo, tentò aprirsi la via per l’Appennino
sino a Venezia; ma rincacciato in Toscana dagli Austriaci, sgomentava sin
quei che l’amavano con quella banda d’ogni gente, età e figure, lacera,
lorda, a colori e foggie strane, carichi d’armi, di pennacchi, di barbe;
scioltala poi e travestitosi, fu assai s’egli riuscì a camparsi alla
riviera genovese. De’ suoi, molti furono presi, com’anche il padre Bassi,
che a Bologna fu passato per le armi, dicesi con segni di gran pentimento:
e pare in quella ritirata perisse anche Ciciruacchio. Molti de’ congedati
piantarono una colonia a Bahía Bianca fra i Patagoni, con una Roma e il
Tevere e il Pincio e l’Aventino, e non senza i delitti della nascente
Roma, perocchè assassinarono fin il loro capo Salvino Olivieri.

Tu sola ormai, povera Venezia, tu sola reggevi; eppure, come all’altra
tua caduta, t’insultarono, non già i nemici che appresero a rispettarti,
ma i sedicenti amici d’Italia, perchè portasti il nome di repubblica
senza contaminarlo, perchè meno di tutte le altre insorte avesti delitti
e disordini: chi altro non potea rinfacciarti, t’apponeva d’esserti
mostrata veneziana più che italiana, municipale più che nazionale. Ma in
tempo di rivoluzione chi si cura d’appurare la verità? chi ancor meno di
sostenerla?

L’armistizio di Milano non faceva cenno di Venezia se non come di città
appartenuta all’Austria; dimenticando che s’era redenta con regolare
convenzione, poi liberamente fusa col Piemonte. Per questo abbandono
proruppe il malcontento, e dichiarando rotto ogni legame colla Sardegna,
un’altra volta Venezia si trovò libera di sè, e un’altra volta (20 agosto)
scelse il Governo a repubblica; e Manin, assumendo i pieni poteri col
colonnello Cavedalis e l’ammiraglio Graziani, proferiva non doversi avere
alcun colore politico, ma occuparsi solo della quiete interna e della
difesa esterna. Era dunque un Governo di mera conservazione; e Manin
(21 agosto), in una memoria a Palmerston, capolavoro di limpida, calma e
piena esposizione, annoverava il diritto storico di Venezia alla propria
indipendenza, e come l’avesse acquistata nel marzo: «non avendo tradizioni
monarchiche, non aristocrazia ricca, istrutta e possente, proclamò
la repubblica democratica, cioè quel governo che legalmente esisteva
quando l’iniquo trattato di Campoformio costituiva di fatto l’austriaca
dominazione. Ma Venezia intendeva operare, non secondo interessi e
ambizioni municipali, bensì per l’interesse comune di tutta Italia; perciò
ripetutamente dichiarava che il reggimento da lei proclamato era affatto
provvisorio, e che, finita la guerra d’indipendenza, i rappresentanti
di tutte le popolazioni italiane avrebbero deciso sul compartimento
territoriale e le forme governative, secondo che dal comune italiano
interesse fosse richiesto».

Ma oggimai il punto non stava nel liberare l’Italia, bensì nel tenersi
a galla tra il naufragio universale, e forse aver buoni patti nelle
conferenze di Brusselle. Bastide, il più liberale fra i ministri della
Repubblica francese, avea preso appiglio dall’_Italia farà da sè_, per
non soccorrerla, dicendo che, se fossero stati richiesti in tempo, i
Francesi sarebbero accorsi, mentre non se n’era mostrato che paura[126].
Venezia invece era incolpata dagli Italianissimi d’avere fin dall’origine
sperato nella Francia; ora essa Repubblica ricorreva ad una Repubblica; il
Governo di Francia, sollecitato da Tommaseo e Mengaldo, vedea volentieri
un’occasione di far contrappeso al funesto armistizio, e di mostrare che
non era finito tutto, serbando così titolo d’interporsi[127]. Ma essendosi
intanto suggerita la mediazione pacifica, si richiamarono i tremila
uomini, de’ quali erasi ordinato l’imbarco.

Il barone Wessenberg (6 7bre) al signor La Tour incaricato degli affari
di Francia, mostrava il diritto che, malgrado l’armistizio, all’Austria
competeva di sottomettere Venezia: pure prometteva che, se questa e
qualunque altra parte del Veneto non ancor occupata ritornassero al
dominio austriaco, avrebbero intera amnistia, e le istituzioni liberali,
fondate e calcolate sulla nazionalità, che l’imperatore si obbligò di
dare alle provincie lombardo-venete. E il 10 settembre insistendo presso
il visconte di Ponsonby, ambasciadore inglese, perchè il Governo sardo
cominciasse le trattative di pace, soggiunse: — L’Austria, limitando
le proprie esigenze allo stretto diritto, allo stato di possesso
garantitole dai trattati, e obbligandosi di dare alle sue provincie
italiane le istituzioni più liberali, fondate sulla nazionalità della loro
popolazione, offerse tutte le agevolezze che se le poteano chiedere per
giungere alla pacificazione».

A Venezia trovavano bel campo quelli che voleano fare l’eroe con poco
rischio, sebbene i veri prodi sapessero cogliere occasioni di mostrare
valore nelle sortite. Mentre questi mostravansi disposti a sostenere il
giuramento di perire abbracciati all’ultimo cannone che sparasse contro lo
stendardo giallo e nero, si arrabattavano gl’irrequieti e gli appaltoni di
tumulti e dimostrazioni; moltiplicavano feste per tutte le vittorie che si
sapeano o fingeano, feste per dedicare i vecchi caffè al nome del padre
Bassi, del padre Gavazzi, dell’avvocato Zannini, feste pel vicino arrivo
di centomila Ungheresi, che, sparpagliato l’esercito austriaco, accorreano
a liberare l’Italia. Alcuni de’ più fervorosi, come i poeti Revere e
Dall’Ongaro veneti, Maestri lombardo, Mordini toscano, clamorosamente
insistevano perchè il Governo s’intitolasse lombardo-veneto; Correnti
predicava il Piemonte. Proclamatasi la Costituente italiana, davasi
aggravio al Manin di non secondarla, di comprimere, anzichè eccitare gli
spiriti: cartelli sediziosi e giornali virulenti l’attaccavano: stanco
de’ quali, il popolo gridava viva a Manin, e morte al Sirtori, animoso
lombardo, che credeasi consigliatore di estremi: i caffè denunziavano come
spie gli scalmanati; certo rendeano impossibile il governare, finchè Manin
osò quel che nessun altro, mandarli via, e subirsi le taccie di tiranno,
d’inquisitore di Stato.

All’annunzio che il Piemonte tirava di bel nuovo la spada, Manin
rispose lietamente, cercando accorressero al campo quei che inutilmente
sbraveggiavano per piazza; Pepe proponeva che l’esercito sardo si
dividesse in due, e mentre l’uno proteggeva da Alessandria i confini,
l’altro volgesse a Padova, e si congiungesse col veneto, ch’egli in fatto
dispose per raggiungerli a Rovigo, e prendere gli Austriaci di fianco:
ma si seppe all’istante medesimo la mossa e la rotta. Haynau, grondante
del sangue di Brescia, corse a intimare a Venezia che omai cessasse da
un’inutile resistenza, quando ogni speranza era caduta; ma l’Assemblea
decretò (2 aprile): — Venezia resisterà ad ogni costo. Manin è investito
di poteri illimitati». Il decreto fu impresso in medaglie; e di fatto
la Donna adriaca mostrò l’eroismo degli ultimi giorni, come Milano avea
mostrato quello dei primi. Radetzky, vincitore del Piemonte, venne a posta
a Mestre «per esortarvi un’ultima volta, coll’olivo in una mano se date
ascolto alla voce della ragione, colla spada nell’altra per infliggervi
la guerra sino allo sterminio se persistete nella ribellione»: ma il
presidente non potè che notificargli il decreto dell’Assemblea.

Perchè non fossero sole parole, bisognò pensare seriamente alla difesa.
In ottocentomila lire consistea tutta la ricchezza della Repubblica
quando fu proclamata, nè proventi offriva una città senza territorio,
senza commercio: eppure tre milioni al mese voleansi per le spese. Si
chiesero gli ori, e volenterosi li diedero i signori: nè fu mestieri di
provvedimenti, quali fece la grassa Lombardia, di sospendere i pagamenti
del Monte e toccare il deposito dei pupilli; si aperse un prestito di
dieci milioni con ipoteca sui palazzi pubblici; ma sebbene per le terre
italiche si facesse un gran parlarne in prosa e in versi[128], e un gran
sottoscrivere centinaja di migliaja di lire, appena mezzo milione vi
arrivò: stabilita una banca, che emise biglietti di corso forzato; il
Comune venne a sussidio o garanzia, mentre i privati offrivano cambiali,
letti, vesti, biancherie; dipoi il Piemonte vi decretò seicentomila lire
al mese, ma presto dovettero cessare.

Europa ammirava quella magnanima, pure non la soccorreva. Le difese di
Venezia abbracciano da settanta miglia, divise in tre circondarj: il primo
dalla città va a Fusina, poi per Malghera giunge alle Porte grandi del
Sile, girasi a Treporti, finisce a Sant’Erasmo, con diciannove forti sopra
quarantadue miglia: il secondo è la linea di Lido, dalla punta San Nicola
a Malamocco, Alberoni e fin all’estremità de’ Murazzi di Palestrina, per
venti miglia con tredici forti: il terzo abbraccia Chioggia e Brondolo
sin alla foce della Brenta con sei porti. È dunque tenuta inespugnabile
da chi non sia provveduto di buona flotta: il ponte meraviglioso, che
con ducenventidue archi unisce Venezia al continente, opera appena finita
l’anno avanti, fu rotto e fortificato[129]: i pozzi artesiani di recente
trivellati, supplirono al difetto d’acqua.

Trentamila Tedeschi, liberi omai da ogn’altro nemico, circondavano la
laguna col generale Haynau e con tremendo materiale d’assedio, mentre la
flotta austriaca si affacciava ai Murazzi. Il genio, l’artiglieria, gli
zappatori austriaci ebbero a sostenere sforzi portentosi onde macchinare
via via i mezzi di attacco: intanto che gli eroi improvvisati di Venezia
profittavano della docilità della popolazione e della conoscenza dei
luoghi per respingerli; e se la flottiglia avesse ella pure messo
altrettanto d’ardore e di costanza, forse non bastavano i tesori e le
ventimila vite che l’Austria dovette scialacquare per recuperare Venezia,
a più caro prezzo che non le fossero costate le due campagne di Piemonte.

Il forte di Malghera, difeso con perseveranza eroica, fu forza
abbandonarlo (27 maggio): e rotte le trattative, e dissipata ogni speranza
su forestieri, pure si volle resistere, sovrapponendo alla guerra il
generale Ulloa napoletano, il Sirtori milanese, il veneto Baldisserotto.
La nuova dittatura pareva elidere la prisca, ma l’amor patrio evitava
gli urti, e Manin seppe imbrigliare gli scalmanati, affrontava non solo
le bajonette, ma che, più costa, le ingiurie e i vituperj de’ falsi
patrioti: egli solo fra i governanti dell’Italia conservossi non soltanto,
ma ricuperò la devozione del popolo; i barcajuoli gettavano i berretti
e se medesimi sotto a’ suoi passi quando andava all’arsenale; e mentre
tutt’altrove il potere sbolzonavasi da una mano all’altra, egli il tenne
fino all’estremo.

Il ministro De Bruck, notissimo ai Veneziani perchè anima e testa della
società triestina del Lloyd, venne a trattare[130]: e i nunzj di Venezia
vollero conoscere la costituzione che l’imperatore d’Austria prometteva
ai Lombardo-Veneti; e la dispettarono, perchè le cariche amministrative
non erano tutte serbate a Italiani: perchè i diritti fondamentali
poteano essere aboliti in tempo di guerra o sommossa; perchè la parte più
importante della legislazione veniva riservata al Parlamento viennese,
anzichè all’Italico; perchè non creavansi eserciti nè flotta italiani, nè
si stabiliva rimarrebbero in paese.

Così Venezia, incolpata allora e poi di municipalismo, fu la sola che,
quantunque abbandonata dalla flotta sarda e dai sussidj fraterni, e
bloccata sempre più strettamente, in quegli estremi trovasse coraggio per
discutere sulle franchigie, promesse al regno lombardo-veneto.

Ma il tempo dei patti era passato; e compresse tutte le rivolte e tutte
le speranze, Radetzky intimava d’arrendersi a discrezione. Al 28 luglio
arrivarono le palle fin presso la piazza, lanciate dalla distanza, fin
allora insuperabile, di cinquemila ducento metri. Dal quartiere di là da
Rialto si stivò allora la gente in quel di Castello, serenando sotto le
procuratie, e principalmente ne’ giardini pubblici; la fame s’incrudiva,
dovendo misurarsi a miccino un miserabile e schifoso alimento: poi più non
restava un tozzo di pane, non un sacco di farina, e il mare era chiuso.
Gli animi conservavansi tranquilli e fin sereni: ma nei corpi illanguiditi
imperversò il cholera, che straziava i feriti nello spedale e la plebe
accumulata, e in un mese seimila seicentrentaquattro persone colpì,
n’uccise tremila ottocentrentanove. Di fuori giungevano notizie sempre più
sconsolanti; caduta la Sicilia, caduta Roma, agonizzante la repubblica
francese negli abbracci napoleonici: erasi sperato nell’Ungheria,
poi, mentre s’aspettavano gli eserciti promessi da Behm e Kossuth, si
seppe anche quella rivoluzione soccombuta alla fortuna dell’Austria e,
solita canzone, ai tradimenti. Non era più costanza ma ostinazione il
resistere, e l’Assemblea decretò si trattasse col nemico (22 agosto).
Radetzky consentiva piena amnistia, solo obbligando alcuni a partire;
si conserverebbe valore alla carta moneta comunale, spegnendola a carico
della città stessa[131]; nessuna multa di guerra.

I disfrenati che suscitavano tumulti quand’era bisogno di ordine e calma,
cercarono insozzare quell’agonia col volgere l’ira del popolo e fin i
cannoni contro Manin, gridato traditore; ma egli potè ancor una volta,
mediante il popolo, imporre alla ciurma battagliera e scrivacchiante; e
arringato dal solito balcone del palazzo ducale verso Piazzetta, scende
colla spada in pugno, e dissipa i tumultuanti; essi rannodansi a Santa
Lucia, ed egli con pochi gendarmi e Svizzeri, di cui erasi fatta una
guardia, va a disperderli senza sangue. Allora, rassegnati i poteri,
avviossi all’esiglio, dopo perduta una ricchissima clientela e i pochi
averi suoi: ventimila lire gli furono decretate dal municipio, in
benemerenza della mantenuta quiete; or vive di fare scuola, e gli eroi
gli ammanniscono il pane dell’insulto.

Il 28 agosto l’aquila bicipite sventolava ancora dai pili di San Marco.




CAPITOLO CXCIII.

Rassetto forzato. Moto ripreso.


Adunque desiderj, concessioni, riforme, esplosione, anarchia, reazione
si succedettero con rapida vicenda, questa volta come le altre, e nulla
meglio istruendo delle altre volte. Delle quali abbiamo veduto riprodursi
il decorso e gli errori, e sempre a chi citava il passato rispondersi, —
Ma adesso è tutt’altra cosa, adesso l’idea è più diffusa, il popolo vi ha
parte, la ragione è maturata»[132].

I fatti, e ancor meno i sentimenti si presumerebbe dedurre dai giornali,
dai libercoli, dai manifesti d’allora, nè tampoco dalle dicerie alle
Camere o dalle relazioni d’inviati e ministri, improntate della fisionomia
personale, e sottomesse alla necessità o di attutire, o d’infervorare,
o di sottrare se stessi all’insulto plebeo, o di ottenere applausi col
blandire le vulgarità. Coloro che più tardi tolsero a parlarne con serietà
e connessione, acquistano valore quando espongano atti, di cui furono
testimonj o parte: ma poichè solo i grandi e i furfanti hanno coraggio
di confessare i proprj falli, e i governanti di quel tempo non erano nè
l’uno nè l’altro, i più si restrinsero ad apologie di sè, a requisitorie
contro gli avversi, riboccanti di quell’individualità che rivela anima e
intelligenza mediocre; e dove, non che aver appagata o assopita la propria
coscienza, nè tampoco all’amor proprio soddisfecero, giacchè provocarono
ricozzi fino alla calunnia, e finirono col rimpicciolirsi nell’esiglio e
nella sventura che suole ingrandire.

I forestieri ci pajono la più parte ingiusti e parziali; e fino i
migliori, quelli che trattano d’arte militare, cascano nell’assurdo quando
toccano al civile. De’ nostri i più scrissero ostilmente, perchè chi
loda ha aria di adulatore, di franco chi maligna; oppure sistematicamente
vantarono un partito e incriminarono l’avverso, a persone vive e onorate
imprimendo stigmate d’infamia senza processo, coll’iniquità che si
rimprovera alle corti statarie, supponendo uno onesto fin a un dato
istante, e ribaldo e scellerato dopo quell’istante, senz’avvertire
il perchè di tale mutazione[133]. Ve n’ha che, complici o godenti,
ogni disgrazia spiegano col tradimento, stile da caffè; ovvero colla
superiorità della forza, che è un precipitarsi nel fatalismo e umiliarsi
in eterna inferiorità; o come il vulgo, incaricano di tutti i danni i
Governi, riuscendo così insulsi giudici e assurdi maestri. Ve n’ha che
non immolerebbero mai i rancori personali alla verità o alla patria;
lodando o biasimando per proposito, per nomi e prevenzioni, gli scrittori
municipali, restringono la morale e la politica a parziali aspetti,
dando valore a fatti e aneddoti che immeschiniscono i concetti: mentre
lo storico, siccome l’oratore, è fuoco fatuo, che brilla non riscalda,
abbaglia non guida, e produce effetti talor perniciosi, sempre effimeri,
ogniqualvolta non si palesi grave, convinto, disinteressato. Alcuni
vivranno malgrado la passione, o forse a causa della passione, perchè
generosa e sincera. Montanelli volle onestare la propria causa colla
virtù e la gentilezza, e farla amare, mentre Guerrazzi alla sua sospinge
a sferzate, colla rabbia di chi soccombette e non può dire senza colpa.
Farini vale nell’esporre i i Governi, le cospirazioni, la diplomazia,
e coll’intrepido pronunziare e con certa dignità retorica acquista
autorità. Ranalli, anch’esso di stile accademico, approfonda le tresche
de’ cospiranti e il vigore delle moltitudini, attribuisce le colpe anche
di queste ai governanti; ma rifacendo il proprio lavoro, ebbe la lealtà
troppo rara di ricredersi d’opinioni e di fatti.

Appartengono alla polemica, quando anche assumano proporzioni di storia,
i racconti di Cattaneo, Ricciardi, Anelli, La Farina, La Cecilia...:
interesse di romanzo ispirano Dandolo, Ulloa, la Belgiojoso, i narratori
della guerra di bande. La turba desidera situazioni e giudizj ricisi; e
allettata al linguaggio delle passioni, vuole panegirici o imprecazioni
sulle persone e sui fatti che o carpirono ammirazione ed amore, o
attrassero odj e spregi, del pari subitanei ed esagerati, portanti il
carattere violento della passione, e l’instabilità che della violenza è
espiazione. Il crepuscolo avversa del pari e la notte e il sole, perchè al
pari lo dissipano: laonde la limpida sposizione dei fatti, che scoprirebbe
l’erroneità dei principj, è bestemmiata dalle plebi, che gridano morte
a Cristo e salute a Barabba. Troppi attesero a contentarle; troppi
rinnegarono quel serio e modesto pudore che riconosce e i falli proprj e i
meriti degli avversarj, quella lealtà che fa preferire la sicurezza della
propria coscienza al trionfo delle proprie idee, quella sana imparzialità
che deriva dall’abbracciare molte cose, e che è di buona giustizia insieme
e di buon gusto; trascurano di ponderare la verità e fin la probabilità
degli avvenimenti, quand’anche abbiano la sincerità di palesarli. E
questo mostrare retorica invece di convinzione, quest’arzigogolare di
sentimentalità quando fa mestieri di fredda ragione e di riverenza ai
fatti, questo pretendere col fumo delle chimere colmare l’abisso che
separa la difettosa realtà delle cose dall’ideale perfezione, convincono
che poco s’imparò, e che domani ricominciando inciamperemmo alle stesse
pietre, avremmo le stesse ignoranze e, ch’è peggio, le stesse mezze
cognizioni, che furono causa principale della mostrata inettitudine[134].

Decomporre con rispetto quella miscela di lagrime e di sangue, non a
servigio d’un partito, ma per isvolgere quello spirito politico, che è
l’intelligenza del ben pubblico e il coraggio di farlo prevalere, in
modo da farsi udire alla posterità, non è a sperare si faccia mentre
così recenti sono le impressioni personali, i rancori di parte, le
permalosità di parentela, di paese, di classe; e per affrontarli vuolsi
un coraggio ch’è raro, un’abnegazione ch’è eroica, perchè tocca a ciò
che l’uomo ha più caro, la reputazione propria; perchè, fra tepidi amori
ed ire bollenti, si è certi di spiacere a tutti i partiti, di vederci
decretate le gemonie anche mentre ci benedicono le anime schiette. Chi
(primo distintivo de’ pensatori) si sottragga alla tirannide di qualsiasi
fazione, resista alle idee d’un’età anche lusingandole, risoluto di non
mancare alle proprie convinzioni per paura d’essere mal inteso o mal
giudicato; accetti le dure conseguenze de’ fatti compiuti, e, pur vedendo
il meglio, contentisi del bene; avendo già fatta la propria rivoluzione,
al giungere della pubblica sappia cercare temperamenti e transazioni fra
le opinioni proprie e le necessità dei tempi: colla confidenza in sè che,
appoggiata a forti studj, è la condizion necessaria allo schiudersi de’
grandi talenti, osi repulsare l’errore con tutta l’energia che permette
la pulitezza, e per amore dell’umanità calpestar vipere che certo lo
morsicheranno; si proponga di restaurare la facoltà che nelle rivoluzioni
più deperisce, il buon senso; abbondi di quell’attitudine pratica che,
come nelle procelle, non guarda indietro ma avanti, e senta la necessità
di compatirci tutti ove tutti errammo, quello potrà divenire fisiologo,
non patologo della rivoluzione.

Della quale, chi attenuò il merito de’ cominciamenti perchè favoriti
da opportunissime contingenze, confessi che per grandi sfortune essa fu
precipitata dappoi, e per le condizioni generali dell’Europa. Intanto era
la prima volta che si trovassero a fronte i tre poteri della società;
principi, plebe, popolo: quel de’ primi espresso dall’esercito, dalle
ordinanze, dallo stato d’assedio; quel dei secondi dalle grida, dai
giornali, dalle dimostrazioni piazzesche; quel del popolo dal pensiero,
dagli interessi, dalla morale. E chi ha mai veduto tirocinj senza
errori? qual meraviglia se Governi radicali, sostituiti repente a Governi
petrificati, nell’incessante barcollare non mostravano nè coerenza, nè
decoro? Le doti che costituiscono un buon capo non sono quelle che fanno
buoni amici; nè il suffragio delle moltitudini s’acquista colla severità,
l’esattezza, il sentimento della propria dignità. Quei capi governavano
a sproposito, con deliberazioni lente, con partiti medj, colla debolezza
che fomenta l’insubordinazione dei governati: ma perchè non furono
deposti? e perchè i surrogati non apparvero migliori? e perchè l’audacia,
indispensabile nelle rivoluzioni, si manifestò soltanto ne’ piazzajuoli
che cogli articoli o coi fischi insultavano a principi fuggiaschi o a
governanti inermi?

Era anche la prima volta che Italia affrontasse grandi Potenze con vera
guerra; e i vilipendj consueti dovettero ammutolire quando, non solo
eserciti disciplinati, ma gioventù inavvezza, popolazioni pacifiche,
città aperte, sfidarono la morte, sia coll’impeto istantaneo, sia colla
più difficile perseveranza, e fin dopo sconsolati dello sperare. Ma
l’inesperienza bellica ci avea fatto credere bisognasse munire ciascuna
città; quasi le piccole e particolari difese vagliano contro a grossi
eserciti e al fulminar delle artiglierie; quasi da popoli civilissimi
e in pingui contrade possa aspettarsi l’eroismo de’ semibarbari: nè
tampoco comprendemmo che i pochi e novizj, sorti a combattere un esercito
agguerrito, devono evitare gli scontri di fronte, moltiplicando invece gli
urti di fianco, dove anche il coraggio inesercitato assai vale se diretto
da buoni uffiziali; ma che in nessun caso possono oggi vincersi le guerre
senza la grande strategia.

Appunto in vista di tali difficoltà, da trent’anni i pensatori, fedeli
alla dolorosa teoria delle proteste, adoperavano per rimutare la potenza
dalle spade alla ragione, e sfuggire la rivoluzione, la quale impianta la
forza sopra al diritto e al dovere; ammazza le libertà coll’opprimerle
quando trionfi, col farle temere quando vinta le invochi; prepara i
popoli alla tirannia col meritarla, e ve li fa rassegnare per paura di
peggio; scalza quanto rimane di fermo nelle coscienze, di generoso nelle
convinzioni; deprime i caratteri, induce il bisogno di stordirsi, disvia
dalla legale resistenza, avvezza al provvisorio, a confidare nel caso e
nell’imprevisto. Il movimento cominciò pacifico, e i moderati dicevano,
«Badate di non porgere pretesto a snudare le spade, perchè in quel giorno
perirete»: in fatto, ogni volta che col subbuglio si provocò la forza,
noi fummo percossi, trucidati, sbanditi; nel 1848 sfidammo il nemico in
campo, e dovemmo soccombere, come succede ogni volta che al desiderio non
corrispondono le forze o alle forze la volontà.

E la forza trionfò di nuovo; ma noi continuammo a credere che una
nazione vale per quello che pensa, ancora più che non per quello che
fa, e sono le grandi idee che menano alle grandi cose. Più dunque che
imputare altri, noi credemmo obbligo di esaminare noi stessi; e questo
ci condusse anzitutto a confessare che si procedette senza sincerità,
anzi coll’aborrimento dalla verità; ed oltre che è natura delle fazioni
ostentare un fine diverso dal reale, il sincerare i detti o gli atti
dichiaravasi codardia e tradimento; si crearono fantocci ideali invece
di persone; parole chiare e precise furono stiracchiate al senso delle
passioni nostre; non uno dei mali accadutici arrivò senza essere predetto;
predetto anche da voci ascoltate, ma che cessavano d’esserlo all’istante
che diceano quello ch’era, non quel che si volea che fosse. Così tutti
abusarono del principio, e traviarono nelle conseguenze. I politici
dozzinali smarrironsi, perchè tenevano in veduta unicamente la nazione,
mentre il mondo è invaso da idee, da interessi, da concetti, da fatti, che
travalicano le angustie della nazionalità; e male attribuivano a persone
singole quel ch’era sentimento della progrediente società, nel vortice
della quale se vuolsi che non venga assorbito l’individuo è necessario
accrescergli vigoria.

I mutamenti riescono durevoli allorchè i più trovinsi d’accordo sopra
un punto, e a questo convergano l’attenzione e le opere. Qui invece
si volle innovare il tutto d’un colpo; modo di scontentare chi perde
il goduto, nè ancora coglie lo sperato. Predicavasi l’affratellamento,
e ciascun popolo o città o uomo adocchiava a convenienze particolari,
dando agl’interessi privati il linguaggio e la maschera di interesse
pubblico. Si ricantava la libertà, e s’impediva di fare, e nè tampoco
pensare altrimenti, e dichiaravasi tirannide la repressione della licenza.
Si tolse per iniziatore il papa, ma bestemmiandolo appena resistè alla
corrente. Dai principi chiedeasi appoggio e spinta, e non si dissimulava
di volerli sbattere appena cessassero di parer necessari. Era primo
proposito l’emancipazione dagli stranieri, eppure quanto e più che da
quelli si aborriva il dipendere uno dall’altro. Le grida di piazza doveano
riscuotere assenso e lode a Torino e a Palermo, infamia a Napoli; parer
sante come il martirio a Milano fino a un dato giorno, e dopo di quello
sediziose. Ai soldati imponeasi di faticare, soffrire, vincere, e intanto
se ne impacciavano gli atti e calunniavano i consigli, e moveasi querela
del troppo che si facea per loro. Il suffragio universale dovea valere
per fondere la Lombardia col Piemonte, non per istaccare la Sicilia da
Napoli. La logica è più potente che non si creda.

Ora è doloroso e istruttivo il confessare come le nazioni dalla nostra
rivoluzione ritirassero le simpatie, che universali aveano concedute
ai primi agitamenti. I Francesi del Governo parlavano di carpirsi la
Savoja non solo, ma e il contado di Nizza; i Francesi avversi al Governo
tentarono invadere e ammutinare la Savoja; mentre improperj ci erano
lanciati dalle loro tribune, conforti ci venivano soltanto da pochi che
voleano carezzare il vulgo fraseggiando la disapprovazione: la Dieta
tedesca, attarantata di libertà, pure giudicò micidiale alla Germania lo
staccare il Veneto dall’Austria: il demagogo Kossuth esibiva a questa
ducentomila Ungheresi per reprimere l’Italia: a Radetkzy accorrevano
studenti dalle Università austriache, crociati opposti ai nostri: da
Inghilterra avemmo benevolenze, arringhe, libri; ma combattenti, prestiti,
doni? Quegli stessi diplomatici che a suono di mani gridavano «Viva
Italia», a noi dicevano all’orecchio, «Rassegnatevi e sottomettetevi»; e
ai padroni, «Uccideteli pure, che n’avete diritto». E appena la cacciata
del papa ne offrì un pretesto, sorse gara fra tutti gli stranieri nello
spegnere questi incendj.

Eppure anch’essi devono convenire che, se nel moto rimasero mediocri
i mediocri di prima, se nei capi apparvero inettitudine e deficienza
di senno civile e di militare educazione, in nessuno si videro le
colpe dell’avidità, e onoratamente tornarono i più a guadagnarsi la
vita faticando. Fra i deplorabili dissensi, tra l’urto di conservatori
pusillanimi e di progressisti sovversivi, la nazionalità che dapprima
era memoria, divenne affetto, e ne fu sentito più comunemente il bisogno,
espresso da singhiozzi prima, dall’esultanza poi, infine dalle proteste.
Verrà esso soddisfatto? Sì, purchè senza violare il diritto e la morale,
senza persecuzioni: sì, qualora non si confonda l’unità nazionale
coll’unità amministrativa: sì, qualora agl’inni non si surroghino
elegie, cioè sempre lenocinj e sentimentalità laddove occorre robustezza
d’abnegazione; qualora si cerchi come operare, più che non pretesti a non
operare e lo sciocco onore di non essere nulla, non mescolarsi di nulla:
nè si inglorii d’eroica astinenza quel dormiveglia di chi non sa cosa
fare, e da cui appena tratto tratto riscuotono i bottoni di fuoco; qualora
si assuma il coraggio di confessare i proprj sbagli, e nel ravvedimento
ritemprarsi; qualora l’indipendenza la cominci ciascuno da se medesimo,
fidando nell’energia personale, sviluppando le proprie facoltà, non
questuando dallo Stato onori e profitti a scapito della dignità, che poi
credesi di ricuperare col dir male e fare un’opposizione frivola e di
calcolo.

I giornalisti, la cui autorità è sempre grande in tempo e fra persone che
non istudiano, e che, abdicando alla propria, si rassegnano a pensare
colla testa altrui, erettisi tiranni dell’opinione, blandendo agli
ignobili istinti col gettare l’oltraggio in faccia alle persone e alle
cose che la nazione era abituata a venerare per scienza, per politica,
per virtù, creavano abilità e virtù fittizie; inducendo a tremare di
mali finti, accecavano sui veri, ch’essi non conosceano per imperizia
o dissimulavano per pravità: quel baratto di lodi e strapazzi; quel
farnetico ora di denigrare ora di esaltare senza nè verità nè riflessione,
stillando il biasimo nelle lodi; quella baldanza di rancori servili,
quella gelosia del bruto contro ogni merito che trascenda la mediocrità,
quell’adulare alla ciurma illusa o vendereccia ch’essi intitolavano
popolo, sbigottì i buoni, che di rado sono eroi, e ancora una volta il
numero impose al merito, cioè la forza all’intelligenza; ed anche nel
campo di questa restò la sovranità del vulgo, che fu il vero nemico in
tutte quelle vicende.

All’ombra di costoro vegetava la fungaja delle stemperatezze; una
folla impressionabile, come i solfanelli, accesa al minimo attrito,
spenta al minimo soffio, che cangia convinzioni a norma della gazzetta
che legge o del buffone che la fa ridere: una furia di sollevare la
inesperta democrazia al posto cui richiedonsi e abilità e pratica e
stima e disinteresse; un’esuberante fede nell’attitudine dei novizj; una
presunzione in sè, che fa ripudiare la mano del fratello; una dicacità,
che può spingere a morire, ma non riesce a dar vittoria; un preferire il
trionfo de’ concetti giornalieri al trionfo della coscienza; un ricusare
il bene evidente per ismania d’un bene fantastico; un repudiare il tempo,
il quale annichila le opere fatte senz’esso. Così ognuno vuole pagare la
propria quota d’illusioni: così, sordi agli avvisi della sperienza, si
attende solo ai colpi delle catastrofi.

E s’altra volta mai apparve manifesto che, nell’individuo come nelle
nazioni, il trionfo più difficile è quello sovra se stessi: giacchè molti
seppero sacrificare la vita, non le passioni, che pure compromettevano il
bene generale; pochi rinunziare a quella popolarità, che è l’appoggio e il
pericolo delle anime fiacche; pochi mostrarono sapienza civile, robusta
moderatezza, abilità riordinatrice, quel buon senso che, risolutamente
volendo i beni essenziali, si rassegna agl’inconvenienti inseparabili;
quella indipendente probità, che non vacilla secondo le tesi e antitesi
della politica, tutte egualmente vere o false, perchè non hanno in sè la
ragione dell’essere, ma sono spinte dal movimento sociale che sempre le
alterna.

Da ogni paese, oltre quelli che morirono d’angoscia od impazzirono,
migliaja esularono, o costretti, o per moda, o motivi vergognosi
mantellando di martirio. Il Piemonte principalmente ne riboccava; e mentre
gli onesti e laboriosi vi trovarono onore e guadagno negli impieghi,
nell’avvocatura, nell’istruzione, nella stampa, ne’ tanti lavori pubblici,
e potentemente contribuirono a inoculare al paese ciò che di meglio
offriva l’esperienza degli altri, la tempesta buttò sulla riva e schiuma
e immondezze; e pretendendo pane, posti, potere, influenza, senz’abilità
nè onoratezza nè fatica nè merito, sotto ai portici, nelle botteghe,
ne’ circoli mantenevano una postuma convulsione galvanica; continuando i
fischi anche dopo lo spettacolo; nè precedenti onorevoli nè nome illibato
nè carattere venerando lasciavano immune; come in un incendio di cui i
campati s’accusassero a vicenda, palleggiavansi ingiurie e oltraggi,
persistendo nel satanico uffizio di rinfocolare le ire fraterne, di
scagionare persino i tiranni col falsarne od esagerarne le colpe. Quelli
che, stando in panciolle, aveano esclamato «vincemmo alle barricate,
combattemmo a Pastrengo, repulsammo i Francesi da Civitavecchia», diceano
poi «Carlalberto tradì Milano; Ruggero Settimo disertò dalla Sicilia;
Mazzini e Brofferio fuggirono ad ogni approssimarsi del nemico»: e la
calunnia tornò (come già Foscolo se ne lagnava nel 1816) il piatto che fra
loro s’imbandivano i pazienti de’ medesimi dolori, stillando bava contro
il partito o l’uomo avverso, colle reciproche incriminazioni diffondendo
quella disamorevolezza che profitta soltanto agli oppressori.

Insomma la rivoluzione aveva avuto per sola unità l’odio; si comprese
ch’esso non basta alla riuscita, eppure sopravvisse, e da odio de’
dominanti divenne odio dei fatti. E se noi insistiamo su questi torti
dei vinti, egli è perchè dilaniano il cuore più che le violenze dei
vincitori; perchè le nuove speranze non possono fondarsi se non sopra le
virtù che allora ci mancarono, o dai peccati d’allora saranno ruinate.
Intanto da una parte ne derivava aborrimento del vero, spregio del santo,
tentativi forsennati che bisognava mettere al bando militare; dall’altra
a fiducie senza limite sottentrava uno scoraggiamento senza conforti,
un disperare della vita morale e del progresso, dall’inettitudine de’
pochi arruffapopolo arguendo inetto il grosso della nazione; nessuno
era contento della posizione propria, perchè nessuno credeasela imposta
dal dovere, ma solo da un fatto che domani potrebbe cangiarsi, non
essendosi che sospese le ostilità perchè v’era uno più forte; l’alleanza
de’ principi co’ preti ingeriva l’idea che la religione sia maestra di
servilità e complice d’oppressione; fra l’ancipite esagerare pervertivansi
il senso comune e il concetto dell’onesto; il popolo, ingannato tante
volte dalle idee, più a nessuna credeva, e spinto ad eccessi di cui
soffriva le funeste conseguenze, rinnegava anche le massime sacrosante di
cui quelli avevano usurpato il manto.

Ciò rendea ben tristi i primi momenti della ristorazione. Eransi dissipate
immense riserve, esaurite le finanze, cresciuti i debiti, buttato in corso
moltissima carta monetata, gravati i Comuni, reso più costoso perchè
più difficile il governare. I ristabiliti, non potendo impedire che si
ricordasse e sperasse, dovettero premunirsi con quartieri incastellati,
campi, truppe forestiere, eserciti ingrossati, sbirraglie, e lungo
stato d’assedio che escludeva dalle condizioni normali d’ogni società
incivilita, alla regolare azione de’ tribunali e dell’amministrazione
surrogando l’arbitrio incondizionato del militare e le corti marziali,
sciolte da quelle formalità che proteggono la vita e la sicurezza del
cittadino. La commissione militare istituita a Este contro bande di ladri,
dilatatesi con colore politico in quel confine della Venezia col Modenese
e colla Romagna, dalle rivelazioni di alcuni ebbe appiglio a sempre
nuovi processi, che portarono centinaja di supplizj[135]. In tre anni
furono mandate a morte nel Lombardo-Veneto quattrocentrentadue persone,
mentre non più che settantuna dal 1814 al 48: il che fatto conoscere
all’imperatore, inorridito egli sospese quelle procedure eccezionali, e
diminuì le pene portate dal feroce codice marziale di Maria Teresa.

Con tanti fuorusciti e con tanti detenuti o vessati dalla rinascente
Polizia, con tanti finiti per corda o polvere e piombo; colla fierezza
inevitabile ad un potere costretto a pensare alla propria conservazione;
colla tirannide o sistemata o abnorme, inducevasi ne’ popoli un erettismo
convulso; la morale deteriorava peggio ancora che l’economia, giacchè le
idee eccezionali presto si applicano anche in generale, per quanto assurde
ed inique.

Governanti reazionarj, mancanti della voglia o dell’attitudine di
riconciliare la subordinazione colla libertà, l’ordine col progresso,
vituperarono quanto erasi domandato dalla rivoluzione, smentirono quanto
le aveano consentito; contro la petulanza plebea parve giustificata
l’esuberanza clericale e soldatesca; dal traboccare delle esigenze
trassero motivo a negare fin il giusto e il promesso; non credettero
giovasse condiscendere alquanto ai soccombuti per conciliarseli, esaudire
a ragionevoli domande per dare il torto alle inopportune, stringere in
partito compatto tutti quelli che all’anarchia preferiscono l’ordine,
persuadersi che ben governa soltanto chi si associa agli interessi, alle
idee, ai sentimenti del popolo; che, quando i poteri rinunziano ad ogni
iniziativa, perdono la cooperazione dei ben pensanti e dei ben volenti,
e resta abbandonato il progresso a un’opposizione scarsa di logica e
d’efficacia.

Francia ha bisogno che alcuno faccia i suoi affari, riservandosi sempre
di disapprovarlo: e l’accentramento fa che da Parigi parta l’ordine
del come pensare e sentire, non meno che il cenno delle rivoluzioni.
Luigi Buonaparte, che invano erasi provato in Italia, poi due volte
ne’ dipartimenti, riuscì a Parigi a salire al maggior posto, cacciare
in prigione o in esiglio chi si opponeva, e costituire un impero, che,
sostenuto da rara abilità e da una irremovibile fermezza, prometteva i
vantaggi del primo senza le rischiose glorie, e che cercava popolarità
col mostrarsi premuroso degli interessi del popolo. Gli stessi che aveano
improvvisato la repubblica per poter governare, invocarono la monarchia
per essere governati; e siccome su Francia suol modellarsi l’Europa,
caddero in discredito i Governi parlamentari. E questi furono aboliti in
Italia, dove col lasciarli ineseguiti come a Napoli, dove con espressi
decreti come nei paesi austriaci, nei ducati, in Romagna[136].

Il perdono del passato si proclamò dappertutto, ma con numerose eccezioni,
e colla riserva di revocarlo ad ogni nuova ombra di colpa, e gravando di
sospetti e d’esclusioni chi si sottraeva dalla forca.

Forse unico nella storia fu il contegno del popolo lombardo ne’ primi
tempi, a Governi senza ipocrisia ma senza raffinatezza, opponendo
un’assoluta astinenza; non a teatri, non a feste, non a convegni, non
badare ai soldati neppure per mitigarne la fierezza; pagare perchè
costretti, e tenere sempre l’occhio fissato di fuori, come fosse uno
stato precario e di mero fatto. Ma del silenzio e del non far nulla,
si pretese lode come d’eroismo: quindi venerare ciecamente l’opinione
vulgare, e amar ed aborrire una persona o una cosa sol perchè sgradita o
benvoluta dai vincitori; vivendo cioè d’imprestito, e qui pure scomunando
chi pensasse ed operasse non per moda ma per convinzione, impedendo così
di formarsi un’opinione pubblica; e dimenandosi senza effetto, benchè non
senza pericolo. Vigilava su tale situazione la stampa di fuori, e impediva
anche atti innocenti col denunziarli, alterarli, malignarli: col qual
modo al dignitoso contegno imprimevano aspetto di violenta obbligazione,
attesochè al minimo declinarne infliggevano il marchio di fuoco e talora
peggio. Anzi infliggevanlo a chi mai non disviò, sopra la diceria d’un
frivolo, la lettera d’un malevolo; e convintisi d’avere accusato a torto,
non aveano la lealtà di disdirsi; quand’anche ciò potesse valere in una
società palustre, che trangugia le accuse a occhi bendati, e si nausea
della più lampante discolpa.

Venne a rincalzarsene anche l’armeggio delle società secrete, che
scomparse al momento dell’azione, rinacquero dopo esauste le speranze;
abbracciarono anzi tutt’Europa. Mazzini, benchè a Roma si fosse dimesso
dal triumvirato, l’assunse di nuovo in Isvizzera, anzi la dittatura; e a
nome del popolo romano, decretava, eleggeva ad impieghi, vietava di pagare
le taglie, mentre esso ne imponeva per allestire nuove rivoluzioni, e
rinfiancato dalle migliaja di profughi, spediva esploratori ed emissarj
per tutto, e collegavasi all’unica fazione che stesse ancora in piedi, la
comunista. Di là uscirono spesse condanne di morte che venivano eseguite
fin nel mezzo di Milano, di San Marino, di Roma, di Bologna, di Ancona,
e principalmente la Romagna fu contaminata di assassinj: orribile postumo
della rivoluzione, che da una parte rese alla nazione quella taccia onde
per due secoli era stata obbrobriosa alle genti civili; dall’altra anche
fra gli educati offuscò il senso morale: fu anzi teoricamente sostenuto
che sia necessario fra un popolo sprovvisto d’altri mezzi a punire
i traditori; così agli assassini dando per complice la coscienza di
tutta la nazione, alla quale interdicevasi fin il coraggio della pietà.
Anche persone frementi di sdegni nazionali riconosceano inevitabili
le eccezionali repressioni contro l’irrompere delle passioni brutali;
e D’Azeglio, uno dei più moderati espresse, in un discorso ai proprj
elettori, che l’Europa era stata salvata dagli eserciti e dalle corti
marziali.

Dalle particolari si passò anche ad uccisioni cumulative, non per iscoppio
d’un popolo oltraggiato che spezza le sue catene e le pesta sul cranio
degli oltraggiatori, ma sotterraneamente armando di stiletti un pugno
di arrisicati o di venali, tutti delusi col mentire l’estensione della
congiura e i mezzi di riuscita.

Una commissione speciale a Mantova continuò lungo tempo un processo contro
persone onorevoli, professori, parroci, dottori, perchè aveano diffuso
cartelle del prestito mazziniano, e predisposto ad un’insurrezione.
Di tempo in tempo se ne impiccavano alcuni, fra cui l’arciprete di
Revere; e il giorno di sant’Ambrogio del 1852 si strozzò, con altri,
don Enrico Tazzoli, professore di storia ecclesiastica nel seminario,
raccomandatissimo per probità di costume, limpidezza d’ingegno, carità
di opere[137]. Ebbe esacerbato il supplizio dalla sconsacrazione,
fatta piangendo dal proprio vescovo per preciso ordine da Roma; dettò
lettere che rimarranno testimonio del come le tenerissime affezioni non
fiaccassero la sua intrepidezza; a’ suoi compagni somministrò le uniche
consolazioni da quel gran momento: e ultimo abbandonossi al capestro.

La Lombardia, che sperava cessati i supplizj dacchè quattro anni di
compressione aveano rimosso i pericoli, si coperse di lutto: «Su quelle
forche leggete, _Nessuna conciliazione! non più pace!_» diceano i
cospiratori, e fidavano che l’indignazione si tradurrebbe in furore di
rivolta al primo offrirsene il destro. Pertanto, senz’avervi predisposto
il paese, quando tutt’il resto d’Europa tranquillavasi nell’obbedienza o
nello spossamento, quando Milano si spensierava la domenica di carnevale
(1853 6 febbrajo), ecco alcuni trafiggere a morte qualche soldato e
uffiziale, sorprendere la gran guardia e qualche fucile, mentre la
popolazione inconscia e aliena stordiva di quella temerità senza prendervi
parte, e lasciò che la truppa agevolmente prevalesse.

Il governatore militare, stupito non men dell’inatteso attentato che
del facilissimo trionfo, e un pugno di masnadieri, incitati coll’oro e
coll’alcoole, discernendo da un intero popolo quieto, agiato, bisognoso
di tutelare la proprietà e d’avviare i traffici, rassicurava i cittadini a
tornare alle loro cure, ai divertimenti; tutto essere finito. L’assassinio
desta tale raccapriccio, tanto parve assurdo e scellerato il proclama
che doveva accompagnare quel fatto, che le popolazioni non furono mai
propense quanto allora a riconciliarsi co’ vincitori, che li campavano
da tali eccessi; allorchè quelli, credendosi meglio informati sulla
natura di quell’attentato, mutarono tono, inveirono contro tutto il
paese, e lo misero in rigorosissimo stato d’assedio. Chiuse le porte,
impedito il circolare delle carrozze, il sonare delle campane, gli uffizj
solenni, percorsa la città da ronde coll’arma pronta, frugate case e
persone, interrotti i carteggi, rotti i silenzj della notte dal _chi
viva_, obbligato chiunque ad arrestarsi davanti al fucile inarcato delle
frequentissime sentinelle, a subire la sospettosa indagine, l’insolente
invettiva, gli schiaffi, quando ogni resistenza sarebbe stata caso di
morte. Alcuni furono côlti a tentone, e compendiosamente impiccavansi al
cospetto della città, certa dell’innocenza d’alcuni e compatendo agli
altri, persone basse e sedotte dai veri rei, ai quali erasi lasciato
tempo ed agio a sottrarsi. Non v’era autorità municipale, non fermezza
sacerdotale, non rappresentanza di corpi che s’interponesse fra il soldato
vendicatore e la popolazione flagellata. A lungo durò quella condizione;
più a lungo alcuni rigori vessatorj introdotti allora; e quel colpo
esacerbò gli animi peggio che non avvenisse dopo la rivoluzione: allora
potevano dire «Tentammo e fallimmo»; qui erano puniti senza nè atto nè
tentativo.

Due gravissime conseguenze ne scaturirono. Nella persuasione che quel moto
fosse ordito dai profughi lombardi, il Governo austriaco sequestrò i loro
beni. Nell’armistizio col Piemonte erasi stipulata la libera partenza
di chi volesse, talchè non poteva imputarsi il rimanere fuori; castigo
speciale per questi attentati non poteva infliggersi se la colpa non
risultasse da indagini e sentenze speciali; alcuni poi di que’ colpiti
già erano regolarmente riconosciuti cittadini piemontesi; talchè quel
Governo rimostrò a favore loro, e non ottenendo ascolto, ne crebbero le
malevolenze e l’allontanamento.

Ebbe pure il Governo militare a credere che i sicarj fossero venuti
dal Canton Ticino, e colà ricoverassero dappoi: onde proferì il blocco
contro quel paese, e fra tre giorni partissero quanti Ticinesi stavano in
dominio austriaco. Per la vicinanza e il comune linguaggio e l’operosità,
que’ paesani tengono vivissime comunicazioni colla limitrofa Lombardia:
vinaj, caldarrostaj, facchini, spazzacamini, calderari, imbianchini,
muratori, serventi ne affluiscono alle città lombarde; molte case di
commercio, molti bottegaj, oltre quelli che popolano e spesso onorano le
scuole, le accademie, i seminarj nostri. Fu spettacolo di desolazione il
dovere, tutti a un tratto, andarsene forse 6000 dal paese ove erano nati
o accasati da anni ed anni, per portarsi in un altro dove non teneano nè
conoscenze nè parenti nè mestiere, dove molti non potrebbero vivere che
della carità. Il Canton Ticino ne immiserì, per quanto il resto della
Svizzera, e fin paesi stranieri mandassero soccorso a gente che, colpita
in monte, doveva considerarsi come innocente[138].

Si presunse che l’amministrazione austriaca volesse con ciò punire il
Governo del Canton Ticino, composto da alcun tempo di trascendenti, o
a dire meglio in arbitrio d’un corpo di carabinieri che impongono il
loro volere ai comizj elettorali, ai giudici, agli amministratori, ai
cittadini. La Costituzione unitaria, che accentrò a Berna il Governo dello
Stato, minorò la potestà de’ Cantoni, e perciò l’influenza di costoro e
dei capoparte da cui dipendono, ma l’esercitavano sempre negli oggetti
riservati all’amministrazione paesana. I Lombardi che vi rifuggirono
dopo il 1848, aggiuntisi a quelli del 21 e del 31, preponderavano nel
paese, anche perchè superiori in denaro, ingegno, operosità; e spinsero
ad ordinamenti conformi al loro liberalismo: tal fu l’abolire ogni
frateria, espellendo anche alquanti Cappuccini lombardi; tale il volgere
all’istruzione laicale e militare i seminarj d’Ascona e Poleggio, per
istituzione dipendenti dall’arcivescovo di Milano; e a questo e al vescovo
di Como impedire d’esercitare la loro autorità diocesana. Ne vennero
nell’interno scismi e persecuzioni, dolendosi i padri di vedersi tolta la
libertà di fare educare i figli da chi volessero; dolendosi i parrocchiani
di vedersi imposti pastori riprovati dal superiore ecclesiastico e fino
scomunicati; dolendosi il Governo austriaco dell’ingiuria fatta a quei
Cappuccini suoi; dolendosi Roma della conculcata sua autorità. Intanto
brigavasi per tenere in posto gli eccessivi; per isbalzarli brigavasi
da altri; e ne seguirono processi, insurrezioni, violenze, assassinj.
Sotto la pressione del blocco e della conseguente miseria, credeasi che
il popolo abbatterebbe il Governo che n’era cagione, e surrogherebbe i
moderati, e che a tale intento l’Austria lo prolungasse; quando, pochi
giorni prima delle elezioni, s’udì ch’era sciolto. Chi non osava credere
l’Austria complice de’ rivoluzionarj, persuadevasi che ne’ suoi consigli
avessero peso quelle società secrete, alle quali taluni imputano tutti
i fatti che altrimenti non si sanno spiegare, quasi immensa ne sia
l’efficacia per sovvertire la società.

Ma quest’Austria, che erasi creduta perita, dalla caldaja di Medea,
ov’era stata buttata a pezzi emergeva ringiovanita; la politica attiva
diretta da Buol, facea migliore prova che non la conservatrice di
Metternich (1773-1850); le finanze e il commercio trovarono in De Bruck un
accorgimento e una pratica, che speravasi camperebbero dal naufragio; e il
Ministero, composto di persone nuove, e interessate a impedire il ritorno
dell’antico assetto anche per conservare se medesime, diè spinta insolita
a una macchina, che erasi lasciata arrugginire. A quel rinnovamento
parve sconvenire la Costituzione, promessa dal cessato, ratificata dal
sottentrato imperatore; e questo annunziò ai ministri che non doveano più
conto se non a lui.

Essi avranno sottinteso «ed alla propria coscienza».

L’impero più operò in tre anni che non avesse in trenta; fu dei primi a
coprirsi di telegrafi elettrici, estese le strade ferrate, le tariffe
daziarie via via alleggerì, strinse convenzioni doganali coi ducati
vicini, sciolse la stampa dalla censura preventiva, pose in esperimento
un sistema d’istruzione, nel nuovo Codice penale introdusse la pubblicità
de’ processi e la difesa; ma delle riforme capitali, come il parificare
le eterogenee popolazioni, l’abolire le giurisdizioni baronali, i servigi
di corpo, le servitù agricole e i moltissimi vincoli alla proprietà,
la formazione de’ Comuni, ed altre provvidenze con cui rigenerò le sue
provincie ungheresi, slave, tedesche, non risentirono le italiane, che
già n’erano al possesso. Solo nel Veneto è memorabile la cessazione
del _pensionatico_, per cui le pecore poteano mandarsi a pascere sulle
proprietà altrui. Nella pubblica amministrazione si tolse quell’arcano
che prima la disonorava.

Poco a poco quello stato eccezionale, di cui profitta chiunque ha
un diritto da conculcare o un dovere da negligere, andò cessando;
si rimetteano in atto le autorità civili; ma poichè si coglieva
quell’occasione onde riformarle, ne derivava una lentezza che noceva
sì pel disordine che lasciava prolungarsi, sì per le speranze che
quello stato d’aspettazione alimentava. La venuta dell’imperatore (1857
febbrajo), l’oblìo incondizionato delle colpe di Stato, il riparo addotto
a moltissimi disordini dacchè la presenza offrì modo a conoscerli,
la ricostituzione d’un Governo generale, la liberalissima norma pei
passaporti, le numerose grazie concedute, i sequestri levati, l’invio d’un
arciduca benevolo, il proposito ostentato di volere il bene del paese e
il debito rispetto a una nazionalità permalosa e ad un paese incastonato
fra la Svizzera e il Piemonte, ravviarono gli spiriti all’operosità.

Ma nè lealtà e giustizia nè intelligente proposito del meglio riparavano
all’irreconciliabile rancore contro la dominazione tedesca. Fatto
rilevantissimo fu il concordato che, dopo lunghissime trattative,
l’Austria conchiuse colla santa Sede nel 1855. La Chiesa avea prevalso
nello Stato finchè vi stette unita; lo Stato invigoritosi volle
sottrarsene; ma errò nel credere di potersela ridurre dipendente.
Fu il grande sbaglio de’ rivoluzionarj, e la causa di ingiustizie e
di un’anarchia, che durerà finchè l’esperienza non abbia condotto
l’equilibrio fra due potestà di natura differente. Nell’Austria
specialmente, da Giuseppe II in poi, la Chiesa era tenuta in un
assoggettamento, che le dava l’odiosità di dominante e i mali di
oppressa. Parve indecoroso a Francesco Giuseppe, il quale solennemente
riconobbe la supremazia papale nelle cose ecclesiastiche, e concordò (a
tacere gli oggetti che poco a noi riguardano) che la Chiesa resterebbe
libera in tutti i suoi atti interni, e di pubblicare scritti, eleggere
vescovi e parroci, erigere o restringere ordini monastici, comunicare
col capo supremo e coi fedeli, statuire di tutto ciò che concerne i
sacramenti, la sua disciplina, i suoi possessi. Non per questo si torrebbe
quell’eguaglianza de’ cittadini in faccia alla legge, ch’è considerata
il migliore acquisto del secolo; pei delitti, anche l’ecclesiastico
rimarrebbe passibile de’ tribunali ordinarj; se non che, nei casi
d’esecuzione capitale, dovrebbe ai vescovi comunicarsi il processo. Ai
vescovi pure lasciasi l’ispezione sopra le cose stampate, e libertà di
proibire ciò che offenda il costume e il dogma.

Di tal modo era stabilito, non il segregamento, ma la distinzione delle
due potestà, non l’antagonismo ma l’armonia: e ne derivò esultanza a quei
pochi che sono capaci di ravvisare come si connettano tutte le libertà
fra loro, e di conoscere quanto valutabili sieno le ecclesiastiche; ne
fecero elegie ed epigrammi quei che hanno paura dei preti. E la paura
parve giustificata allorchè qualche vescovo voleva che verun’opera si
stampasse senza l’approvazione curiale. Questa da un secolo era disusata
qui; dopo il 1850 era tolta anche la censura politica preventiva: sicchè
coloro che, invece di lasciarsi ammusolare celiando, vigilano seriamente
all’acquisto e alla conservazione delle giuste franchigie, donde che esse
vengano, opposero la legalità a quella pretensione, la quale in fatti
restò ridotta entro limiti ragionevoli e legittimi.


In Toscana rimase abolita la Costituzione e occupato per sei anni il
paese da Tedeschi, che nel 1855 si restrinsero alla guarnigione in
Livorno. Quanto minori v’erano i ribaldi feroci, più apparivano quelle
dimostrazioni, che, se possono aver un senso preparativo, sono futili dopo
il fatto. Gli anniversarj dei disastri e delle vittorie celebravansi;
gli avvocati cercavano occasioni di dicerie; nessuno voleva le cariche
municipali, e si bersagliavano quei che le tenessero. Vuolsi celebrare
l’anniversario della battaglia di Curtatone, supponendo intrigare il
Ministero col costringerlo ad opporsi. Questo nol fa, ma crede doverne
avvertire il comandante austriaco, perchè non se ne tenga offeso; e questo
invece risponde, onorar il valore, e andrebbe egli stesso ai funerali se
non sapesse che a molti spiacerebbe; onde allora si grida che il Ministero
è più tedesco dei Tedeschi. Domandavasi sempre la Costituzione, e intanto
si dice impossibile l’attuarla, presenti i Tedeschi.

Il sistema comunale fu rimesso qual prima della rivoluzione, cioè
all’elezione surrogando ancora l’estrazione a sorte delle borse. Il Codice
penale fu modificato, crescendo i rigori; nel Codice penale militare
s’introdussero la fustigazione e la bastonatura.

In un paese dove le libertà ecclesiastiche fanno paura più che le
principesche tirannie, e dove gran parte del liberalismo consistette
sempre nell’osteggiare la Curia romana, si temeva sempre che un concordato
infirmasse le leggi leopoldine «fondamento e palladio della civiltà
e della prosperità toscana», e lentasse i rigori contro il clero e le
manimorte. Neppur nell’entusiasmo per Pio IX eransi voluti mitigare: ma
nel 1849 fu annunziato dal ministro Mazzei che stavasi per conchiudere
un concordato. I vescovi esultanti si raccolsero per consigliarne i
modi; l’opinione si sgomentò a segno, che il ministro dovè cedere il
portafoglio; Baldasseroni (1795-1876) assicurò che nella _convenzione_
conchiusa in fatto con Roma il 25 aprile 1851, le prerogative sovrane non
sarebbero toccate, che le spiegazioni tranquillanti fatte circolare non
erano un sotterfugio del Ministero, ma veramente concertate con Roma,
e che le leggi del 1751 e 1769 contro i nuovi acquisti di manomorta
non sarebbero toccate, nè accettata la bolla _Auctorem Fidei_. Ciò
importava ai pensatori toscani. Gli spaventi rinacquero allorchè, nel
1857, Pio IX visitò Firenze: e i vescovi gli sottoposero un indirizzo
perchè impetrasse l’abolizione delle restrizioni leopoldine; e di nuovo
il _Monitore officiale_ dovette uscire a rassicurare i sudditi che di
nulla sarebbe rallentata la tutela dello Stato sopra la persona e i
beni della Chiesa[139]: paventandosi non assorbito tutto il territorio
dall’_ingordigia clericale_.

Quando poi importava sopire gli scandali e le ire, e in quattro anni
(1852) si erano dimenticate le ingiurie e mutato scopo agli odj, si volle
condurre a termine il processo del dittatore Guerrazzi e di quarantasette
correi, di cui trentuno erano fuggiaschi. Ben diceva il regio procuratore
«che causa più solenne mai era stata sottoposta a’ tribunali toscani,
e che offrisse maggior copia di documenti e di testimonj, d’avvenimenti
strepitosi, di commozioni di popoli, di passioni anco individuali poste in
azione e in contrasto, di nomi d’accusati, alcuni già noti per dottrina
ed abbondanza di quel dono superiore, che, come bene adoperato dà modo
di più meritare, così espone, quando s’isterilisca o si abusi, a maggior
responsalità». Doveva inevitabilmente esservi implicato il principe;
ragione di più ad evitare quel processo: il quale invece, tratto in
lunghissimo, fu poi esposto al pubblico sia ne’ dibattimenti, sia negli
atti di accusa e nelle apologie stampate, nelle difese, nelle discussioni
de’ giornali; dove piena la libertà della difesa; dove molti testimonj,
dopo sì lungo tempo, si riducevano, o per paura della pubblica opinione
adombravano il vero; infine il Guerrazzi fu condannato ai ferri, che il
principe commutò, a lui come agli altri, in esiglio. Questo famoso, che
avea sminuita la propria grandezza col mostrare nella _Apologia_ come
fosse zimbello de’ più audaci o delle grida plebee, nel lungo carcere
condensò l’antico suo livore contro la società, della quale e dell’umanità
vendicossi sputandole in faccia la _Beatrice Cenci_.

Giusta il conto reso da una Giunta al ristaurato Governo, le entrate
della Toscana ammonterebbero a circa ventisette milioni: ma spendendo
in proporzione di quel che fece il Ministero democratico dal 26 ottobre
1848 al 7 febbrajo seguente, in un anno si sarebbero erogati quarantatre
milioni; e cinquantacinque in proporzione di quel che spese il Governo
provvisorio dall’8 febbrajo all’11 aprile; ne’ quali due periodi la
finanza fu deteriorata di nove milioni e mezzo.

Gravi sciagure crebbero i danni del paese. Il cholera, già micidiale nel
1835 e ne’ due anni seguenti, infierì di nuovo nel 54 e 55, colpendo
sessantamila persone, uccidendone trentunmila ottocensessanta. Poi
cominciò la scarsezza dei cereali: i geli del 1847 e 49 guastarono gli
ulivi; la raccolta delle patate fu perduta dalla cancrena, dall’oidio
l’uva, dall’atrofia i bachi da seta, benchè meno d’altrove. I tremuoti del
46 aveano già sovvertito le colline pisane e volterrane. Poi dopo nevi e
pioggie stemperate, nel febbrajo del 1855 tremò il val d’Arezzo: il poggio
di Belmonte si scoscese sopra Pieve Santo Stefano, arrestando il Tevere
che la valle inondò fino ventitrè braccia elevandosi. Altri guaj portarono
le inondazioni nel Casentino, e nel Valdarno inferiore.

In vista di tanti mali, nel 1854 il Governo perdonò un milione
sull’imposta, ma le penurie dello Stato non permisero di rinnovare
la largizione quando ne cresceva il bisogno. Aumentarono invece i
delitti contro la proprietà e in conseguenza i carcerati, il cui numero
giornaliero medio nel 1850 era di mille cinquecento, e nel 1856 di
duemila settecensettantaquattro. Nel mite paese non mancarono però
assassinj politici; si attentò alla vita del ministro Baldasseroni, e
bisognò ristabilire la pena di morte, da infliggersi però solo quando
i voti cadano unanimi. Al disagguaglio delle spese dovette sopperirsi
col ripristinar tasse sul macello, sulla pastorizia, sui contratti
e la successione; aggravare le dogane, a costo di diminuire con ciò
l’introduzione delle merci; la lega doganale tentata coll’Austria fu
avversata dalla pubblica opinione[140].

I lavori pel prosciugamento della Maremma grossetana, che dal 1829 al
1856 costarono venti milioni vennero rallentati, sicchè laghi e paludi
ristagnarono ove erano poco prima fecondate le campagne. Nè meglio riuscì
l’essiccamento della palude di Biéntina. Si provvide di nuovo porto
Livorno, ma il disegno datone dal francese Poirel riuscì infelice, e
la spesa di otto milioni, doppia della predestinata, è ben lontana dal
rendere frutto degno. Si estesero le strade ferrate, ma finora servono
solo alla circolazione interna non attaccandosi a quelle di veruno Stato
vicino. Si cercò il prosperamento dell’agricoltura, sì da privati quali
il Ridolfi, il Lambruschini, il Ricasoli, Digny, Bichi Ruspoli, Cuppari,
Ginori...; sì dalla società dei Georgofili e dalla Agraria: il Governo
pose scuole tecniche, e accademie di arti e manifatture; istituì un
archivio generale di Stato, un uffizio di statistica generale.


Il ducato di Modena continuò nelle tradizioni patriarcali, in mano d’un
giovane principe, sul quale non posavano nè tradizioni tiranniche, nè
memorie di sangue, nè patti d’abjezione; e che sentivasi e talento e forza
più di quelli che lo circondavano.


Il ducato di Parma, che avea patteggiato coll’Austria alleanza difensiva
contro i nemici esterni ed interni, fu da questa restituita a Carlo III
Borbone, la cui gioventù disonestata non apparve corretta dalla sventura e
dal matrimonio colla virtuosa Luigia di Francia. Un giorno ch’egli tornava
dal passeggio pomeridiano, gli si accostò uno e lo trafisse, e benchè
fosse in mezzo al popolo, niuno volle conoscerlo nè arrestarlo, nè tampoco
soccorrere al ferito, che poco dopo spirò (1854 26 marzo). Si trovarono
trecento lire in cassa. La duchessa, come reggente del fanciullo Roberto,
ai ministri impopolari surroga Lombardini, Pallavicino, Salati, Cattani,
ritira l’ordine del prestito forzato, supplendovi con uno spontaneo
che ella garantisce col pubblico patrimonio; l’esercito riduce da sei
a duemila uomini, la lista civile da due milioni a seicentomila lire;
riordina i tribunali che già erano a modo francese; affida cattedre anche
a professori compromessi nella rivoluzione.

Parvero pegni di riconciliamento, eppure i momentanei applausi presto
si conversero in disapprovazione; il paese non tardò a divenire teatro
di turbolenze ed assassinj, al punto che la duchessa dovè chiamare capo
della Polizia un suddito austriaco, e i processi furono assunti dal conte
di Crenneville comandante della guarnigione tedesca, in forza dello stato
d’assedio.

Per accordi derivanti fin dal trattato d’Aquisgrana, poi modificati in
quel di Vienna e nel segreto del 28 novembre 1844, se si estinguesse la
linea ducale quello Stato sarebbe riversibile all’Austria, ed una piccola
porzione al Piemonte. Il popolo sapendo questo colla solita inesattezza,
credeva il ducato dovesse ricadere legittimamente a Casa di Savoja, e
aspirava ad accelerarne l’istante: l’Austria, come a sè riversibile,
pretendeva esercitarvi un’alta ispezione; altrettanto pretendeva il
Piemonte per la vicinanza.


Da principio i Francesi restarono arbitri di Roma, e i soldati faceano
da soldati, quantunque senza ferocia; ed erano perseguitati a stiletti
e contumelie al pari dei preti, e questi e quelli ripudiati dalla
popolazione, mentre fra loro guardavansi in sinistro. L’ambasciatore
signor di Courcelles cercava che il pontefice largisse ordini liberali,
e si circondasse di buoni amministratori; ma quelli aveano fatto troppo
mala prova, questi sempre fu difficile trovare in Romagna, difficilissimo
allora che tanti erano resi inservibili pei fatti precedenti. Luigi
Buonaparte allora diventato presidente della Repubblica francese,
volendo cattivarsi gli animi od almeno i voti col mostrarsi restauratore
dell’ordine, eppure amico della libertà, diresse una lettera (1850 18
agosto) al suo ajutante Ney, ove esprimeva che l’esercito repubblicano
non era ito a schiacciare la libertà italiana, bensì a regolarla,
preservandola dagli eccessi proprj; disapprovava i comporti della
Commissione riordinatrice, e diceva di compendiare il Governo temporale
del papa in questi atti, amnistia, secolarizzamento dell’amministrazione,
Codice Napoleone, Governo liberale. La lettera levò gran rumore, eppure
mancava di carattere uffiziale: il papa ebbe assicurazione che trattavasi
d’una mera mostra, e mandò da Gaeta un motuproprio, pel quale istituiva
un Consiglio di Stato e uno di finanze, prometteva riforme amministrative
e giudiziali; di costituzione o di secolarizzamento non più parola: e i
Francesi si affrettarono a magnificare le concessioni, le quali dicevano
avere essi suggerite anzi imposte al papa, per sodare la libertà d’Italia.

Abrogati gli ordini del Governo repubblicano, rimessi i tribunali colle
variatissime loro giurisdizioni, e persino il Sant’Uffizio, di nome
spaventoso, ma che si limita a preparare le decisioni ecclesiastiche in
fatto di matrimonj misti, digiuni, astinenze, e nelle cui carceri nel
1849 si era trovato un solo prete per falsificazione di carte private;
dall’amnistia faceansi esclusioni eccessive, che guastavano in apparenza
il benefizio, mentre nel fatto nessuno ne’ primi sei mesi fu arrestato
o punito per atti politici; nessuno de’ tanti amnistiati, che aveano
accettato incarichi rivoluzionarj, lasciando che l’autorità francese li
munisse di passaporti per andarsene. Pure la Polizia molestava fino alcuni
de’ liberali che più si erano opposti alle trascendenze; spiaceva il veder
ripristinati abusi, della cui distruzione tutt’Europa aveva applaudito
Pio IX; dacchè poi gli onesti aveano gustate le attrattive del vivere
libero, del licenzioso i ribaldi, riusciva difficilissimo il rintegrare
lo stato primitivo. La censura impediva ogni manifestazione franca,
eppure non potea togliere la sovversiva stampa clandestina; processavasi,
ma colla fiacchezza che colpisce il subalterno mentre non osa il forte
e subornatore; disarmati tutti i cittadini, viepiù imbaldanzivano le
orde, che infestavano principalmente i paesi settentrionali, malgrado
l’inesorabile giustizia che ne faceano gli Austriaci. Gli assassinj
continuanti obbligarono a severe procedure sommarie, e ventiquattro
persone furono mandate al supplizio nella sola Sinigaglia. Si tessè il
processo dell’assassinio di Rossi, e, cosa nuova ne’ fasti giudiziarj,
il reo più aggravato non si osò indicare che col nome di _un tale, quel
signore_.

Solo quando si sentì sicuro che l’indipendenza del suo potere non
sarebbe menomata, Pio IX tornò a Roma fra l’ossequio dei Francesi e dei
diplomatici, e il silenzio della moltitudine. I provvedimenti furono
ancor meno delle promesse, e tutto rimase all’arbitrio del segretario
di Stato cardinale Antonelli (1806-76), divenuto scopo all’odio comune,
benchè dapprima fosse stato consigliatore degli ordini più liberali, ed
ora tenesse testa agli esagerati reazionarj. I succedutisi Governi aveano
cresciuto il debito pubblico a settanta milioni; le sêtte fremeano; audace
il contrabbando, spudorata la corruzione, moda il cospirare, disimparato
l’obbedire; rinterzata la insulsaggine di compromettenti miracoli colla
stizza di ripullulanti insurrezioni e d’incessanti assassinj politici;
liberalità l’avversare la religione, involgendo l’autorità spirituale
nell’aborrimento della temporale: e alle piaghe gravissime trovandosi
impossibili i palliativi, rendeasi necessaria la forza, la forza!

Perciò i Tedeschi continuavano ad occupare le Legazioni[141], i Francesi
ad occupare Roma e Civitavecchia, intanto che si provvede ad allestire
reggimenti nazionali, e crescere la marina, che oggi conta 1893 navi fra
grandi e piccole, portanti 31,637 tonnellate, e su di esse 9711 persone.

Più appropriato al gran sacerdote è l’avere ravviato le opere pubbliche
e la cura delle arti belle. Nel che notevole è lo sterro dell’antica
Via Appia, donde quantità sempre nuova di monumenti e di anticaglie, di
cui altre vengono in luce nei ripigliati scavi di Vulci e di Canino.
Fu ordinata una statistica generale, che dà a conoscere i bisogni e
gli spedienti; la riduzione de’ pesi e delle misure a decimali; e il
censimento, pel quale i Gesuiti rimisurarono per undicimila metri la base
della triangolazione fatta da Boscowich, di cui era perduto un termine.
Si compì ad Aricia un viadotto di trecentundici metri, a triplice fila
d’archi, elevantisi fino a sessanta metri per superare la frapposta
valle. Il Tevere è percorso da vaporiere, e tutti i fiumi vigilati e
provveduti[142]. A Viterbo si fabbricano il vitriolo tanto cercato, e
ferri agricoli: Spoleto è ricca di pastorizie, e di mandorle e ghiande
il paese alto: bellissime selve ha Frosinone, donde si trae scorza per
le concerie: agrumi, fichi, pistacchi, carrubi, castagni, cristalli
arricchiscono Ascoli: Fermo i cappelli e i crivelli da grano: Forlì il
ricino, Fabriano le cartiere, Gubbio il bestiame, Faenza le majoliche:
la pineta di Ravenna è delle migliori foreste: dal Bolognese si hanno
venticinque milioni di libbre di canape, e corami, carta, aceto, acque
odorose. Con ingenti opere ora si sanano le paludi d’Ostia e Ferrara. Le
strade ferrate pigliarono colà pure incremento; e già si posero telegrafi
elettrici, e con quelli s’istituì la corrispondenza metereologica. Il 24
ottobre 1850 fu emanata la legge comunale, abbastanza ampia e fondamento
al resto del Governo, ma non si vede eseguita.

Per instaurare l’autorità, Pio IX ricorse ai mezzi che s’adoprano per
abbatterla, e dai Gesuiti fece intraprendere un giornale, la _Civiltà
Cattolica_, «collo scopo di proclamare la riverenza del suddito
all’autorità, e del superiore ad ogni diritto dei sudditi, subordinazione
alla forza della legge morale, unità di morale sotto l’insegnamento
della Chiesa cattolica, unità della Chiesa sotto il Governo del vicario
di Cristo». Grandiosissimo esercizio sopra punti irrefragabili: ma se il
rissarsi intorno alle dispute di ciascun giorno profitti meglio che il
sodare cardinali verità, da cui si sillogizzino poi le applicazioni; se
l’esporre i supremi canoni della fede o dell’autorità al senso comune
e ai dibattimenti dei caffè e de’ circoli; se il pronunziare nelle
opinioni politiche coll’asseveranza e l’esclusività che solo è propria
dei dogmi religiosi; se il moltiplicarsi avversarj col ghermire corpo
a corpo scrittori e attori, e con ciò provocare ricolpi dove l’ingegno
può prestare aspetto di ragione, e la violenza di difesa incolpata; se
l’intolleranza de’ minimi dissensi, d’ogni minor precisione di linguaggio,
delle condiscendenze forse necessarie, spesso opportune, del sussidio
secolaresco nel trarre dalla pietra dell’altare la favilla che sola può
ridonare la luce e il calore; se l’accettare l’ultima abjezione degli
odierni giornali, le corrispondenze anonime, donde un malvagio tira
a sicurtà sopra l’onest’uomo, portino al trionfo la causa del vero,
ne appello alle migliaja d’associati di quel giornale, redatto con un
talento, un accordo, una costanza, che nessuno degli avversi raggiunse
mai.

Strepitoso rincalzo alla suprema potestà diede Pio IX, dichiarando
il dogma dell’Immacolata Concezione. Più volte dibattuto ne’ secoli
precedenti, era già vietato il metterlo in disputa. Esule a Gaeta, quasi
le tempeste politiche neppure scotessero la nave di Pietro, Pio IX mandò
un’enciclica a tutti i vescovi del mondo, interrogandoli sull’opinione
di essi e delle loro Chiese intorno a quell’asserto, e se gioverebbe
definirlo dogmaticamente. Nella credenza la cattolicità si trovò
d’accordo; ad alcuni sembrava inopportuno il rimescolare questione antica,
causa già d’interni dissidj. Pio IX convocò a Roma alquanti vescovi per
pronunziarne; e poichè quelli di Francia, quasi ad espiazione delle
antiche reluttanze gallicane, pei primi neppur vollero discutere sui
termini, riportandosi interamente al supremo gerarca, egli definì come
dogma la concezione di Maria senza peccato originale. Se ne fecero feste
in tutta la cristianità; e fu un grande incremento all’autorità pontifizia
quel bisogno d’una sommessione figliale al papato, che definendo da solo
un dogma, veniva a stabilire l’infallibilità personale del pontefice:
come fu edificante quel riconoscere universalmente la fondamentale eppure
negletta fede del peccato originale.

Concordati fece colla Spagna, coll’Austria, colla Toscana, colla
Costarica, col Guatemala. Così non cessò di combattere la Chiesa
orientale, la russa, l’olandese, la gallicana, dalla quale
un’importantissima adesione ottenne, l’abbandono dei riti particolari per
adottare il romano.

Casa di Savoja precipitò i sudditi nel pericolo, ma lo divise con essi,
talchè viepiù se ne consolidò il legame che a questi la unisce. Vittorio
Emanuele II, re nuovo e che non s’era compromesso con lusinghe, a capo
d’un esercito disgustato d’innovamenti che tanto gli erano costati, col
paese occupato dagli Austriaci, con un Parlamento screditato dalla ciarla,
con Ministeri che si succedeano un all’altro per attestare l’impotenza
di tutti, potea facilmente cancellare le istituzioni date da suo padre,
e vedersene applaudito, quanto questo nel concederle. Al contrario egli
cominciò il regno (1849 3 luglio) annunziando con mesta fermezza le
sventure che anticipatamente lo portavano al trono, assicurava che le
franchigie del paese non correano rischio; le traversie abbattono le
vulgari anime, alle generose possono tornare in profitto; gli ordini
politici non li stabilisce nè li acconcia a’ veri bisogni d’un popolo
il decreto che li promulga, bensì il senno che li corregge, e il tempo
che li matura; e questo lavoro, unico dal quale può sorgere la vigoria
e la felicità d’uno Stato, si conduce coll’azione calma e perseverante
del raziocinio, non coll’urto delle passioni; si conduce procedendo a
gradi per le vie del possibile, e non gettandosi a slanci inconsiderati
per sentieri che da secoli l’esperienza ha dimostrato impraticabili;
i popoli, maturando alle dure prove, imparano a distinguere il vero
dall’illusorio, il praticabile dall’ideale, e ad usare la migliore delle
pubbliche virtù, la perseveranza. Insieme rammentava la necessità della
pace esterna non meno che dell’interna, e del discuterne con senno e
prudenza, per procurare i tre supremi vantaggi di quiete civile, progresso
d’istituzioni, risparmio delle pubbliche fortune; e così d’accordo
conformando gli ordini che soli possono recare vera e durevole libertà,
si avrebbe la gloria di evitare le esorbitanze e de’ licenziosi e de’
tiranneschi.

Ottenere questa temperanza era difficile tra lo sguinzagliamento de’
rifuggiti e la concitazione degli avvenimenti di Roma, con un Parlamento
che mettea gloria nell’osteggiare la Corona, e dignità nel ricusare gli
accordi inevitabili; tanto che, «per salvare la nazione dalla tirannia de’
partiti», il re sciolse la Camera (1849 20 9bre) e ne convocò un’altra,
che senza discussione accettò il trattato coll’Austria. D’allora Vittorio
Emanuele non si affannò troppo negli affari, come glielo permette la
qualità di re costituzionale; mostrossi sempre rispettoso dello Statuto.

Duro uffizio quel de’ ministri a fronte di passioni sopreccitate, e de’
partiti che colà andavano non a fondersi ma a cozzarsi! Massimo D’Azeglio,
un tempo disapprovato e perseguìto dagli stagnanti quale attizzatore
di rivoluzioni, come avea difesa la libertà contro i vanti dell’ordine,
così l’ordine sostenne dappoi contro i vanti della libertà, capitanando
l’opinione moderata, poi chiamato a capo del Ministero, con integra fama,
sostenuto da’ nobili fra cui era nato, da’ letterati e artisti fra cui
s’illustrava, dai popolani con cui era vissuto, persuaso che nei trambusti
si fa meno quanto più si ha apparenza di fare, imitò il medico che confida
nelle forze riparatrici della natura, poco operando, poco discorrendo fra
l’universale sproloquio, guadagnando così il tempo che è tutto, rimettendo
a galla lo Stato, non esitando spiacere agli esorbitanti che si decorano
col titolo di democratici. Poi venuta l’ora degli uomini d’affari, a
Cavour rinunziò il potere prima di perdere la popolarità, e tornò agli
studj e a ridere della commedia umana.

Il Piemonte era l’unico paese d’Italia ove sopravvivesse una
rappresentanza. Dapprima non v’era stato bene che non s’aspettasse
dai Governi parlamentari, i quali suppongono una convivenza da tutti
acconsentita, avente per base l’eguaglianza dei diritti e dei doveri,
la cooperazione di tutti al vantaggio di tutti; esonera il Governo da
infinite minuzie e da tanta responsabilità; non forza nessuno, e nessuno
trascura; anche in mezzo alle emozioni rapide e contagiose de’ popoli
che da sè occupansi degli affari proprj, fa valere di più chi più sa e
più ha, lascia libera la manifestazione de’ desiderj e delle proposte,
e l’esercizio delle facoltà tutte, coll’elemento del progresso avendo
in sè quello della conservazione. Ma la Francia dopochè se ne disfece,
ripetè che in siffatti Governi si surroga alla morale la sentimentalità,
alla fede la declamazione di oratori, simili a palloni areostatici che
si elevano perchè nulla li contrasta, attirano gli sguardi di tutti ma
non arrivano a nulla, e tornano alla terra dond’eransi alzati; intanto
sviluppansi la superbia umana, l’infatuazione della parola, e la
persuasione che la dottrina possa regolare il mondo; sicchè i talenti
e i semitalenti acquistano maggiore credito che non il carattere; per
l’idolatria dell’ingegno si abbandona il culto della verità; misurando
la libertà dal numero de’ giornali e dalla lunghezza dei dibattimenti,
rimettonsi in disputa tutti i principj; si toglie l’energia d’azione al
Governo, quasi non si desideri di meglio che l’inettitudine; e così si
affievolisce l’autorità qualunque sia; i ministri s’avventurano in una
politica declamatoria e imprevidente, che talora vuole i mezzi senza il
fine, talora il fine senza i mezzi; anzichè consolidarsi sulla giustizia
e la bontà, devono ondeggiare coll’opinione, e però rinnegare se stessi,
o cedere il posto ad altri, che effettuino ciò che in quel giorno è voluto
dalla pluralità.

Eppure quelle discussioni, quella responsabilità dei ministri, quella
pubblicità di tutti gli atti, quell’accontentamento della classe più
loquace e faccendiera recavano facilmente a considerare il Piemonte qual
simbolo della nazione e nucleo della futura Italia. Queste aspirazioni,
nelle quali si accentrava qualsiasi desiderio di cambiamento, lo rendeano
sospetto al potente vicino; e i partiti che vi si dibatteano, lo esponeano
alle diatribe de’ reazionarj di fuori.

È però vanto che, mentre ogni giorno una stampa sguinzagliata diffondea
sin nel villaggio e tra il popolo operoso il fomite dell’invidia e
dell’insubordinazione, colà men che altrove essa prorompeva e soprattutto
non si sfogava in quegli assassinj, che rimasero la più orrenda coda della
nostra rivoluzione. Le sorti d’un paese non si regolano cogli epigrammi
e i sarcasmi, nè la politica si attua con articoli di giornali e con
dispetti e puntigli. Molti Ministeri si succedettero, ma sarebbe severità
l’esigere che procedessero regolari mentre sono combattuti da contrarj
venti, e costretti a vivere di ripieghi; lodevoli se non sagrificano
l’utile sodo alla prurigine di popolarità, se non transigono colla dignità
per conservarsi, se non riducono l’idea dello Stato e il fine della
convivenza umana a mera tutela degl’interessi materiali.

Gli oppositori a due punti principalmente si appigliavano; il dissesto
delle finanze, e gli affari religiosi. Mentre al rompere della
rivoluzione l’erario non era gravato che di quaranta milioni, allora di
oltre seicento: il bilancio delle spese annue, che nel 1847 si valutò
a ottantaquattro milioni, nel 56 giunse a cenquarantatre e mezzo: tutte
le imposte vennero esagerate e aggiuntene delle nuove, la cui minutezza
infastidiva ancora peggio che non impoverisse[143]. Ma oltre il dover
pagare i disastri di due campagne sfortunate e settantacinque milioni
all’Austria, in questo mezzo si spigrì l’amministrazione, fu dotato il
paese di tante istituzioni di cui mancava, e singolarmente d’una rete di
strade ferrate, che tutti i punti congiunge col centro, e questo colla
restante Italia e colla Francia.

Poco prima della rivoluzione, Carlalberto avea conchiuso un concordato
col pontefice, il quale recedette da alcune pretensioni antiche per
assodarne altre. Dato lo Statuto, nel quale la prima clausola e la più
voluta dal re fu il dominio della religione cattolica, i fragorosi, che
non sanno mostrare libertà se non col perseguitare, vollero si ponesse la
mano sui beni clericali e si sopprimessero le fraterie, incamerandone i
possessi, togliendole l’istruzione; e levò un rumore trascendente, anzi
fu eternata con obelisco la proposta del Siccardi, per la quale si stabilì
quel che già gli Stati vicini godeano, che anche gli ecclesiastici fossero
sottoposti al fôro comune, nè tampoco i vescovi eccettuati. Ciò ledeva
il contratto stabilito col papa; ma arguivasi che, cambiata la forma di
governo, anche quello dovesse cessare, benchè concernesse una Potenza
forestiera. Nuove commozioni cagionò dappoi la legge sul matrimonio
civile.

Roma protestò di questo mancare ad accordi espressi, e assicurati dallo
Statuto; le replicate proposizioni di amichevole componimento, portate
anche da persone rispettabili, quali Cesare Balbo e Antonio Rosmini,
non sortirono effetto: intanto la lite si inasprì; qualche vescovo, e
nominatamente quel di Torino reluttarono, e furono perseguitati e spinti
in bando, donde ritraggono aria di vittime essi, e di persecutore il
Governo; restrizioni alla libertà ecclesiastica attirarono nuove proteste
del pontefice, e infine la scomunica a chi le avesse sancite. Da qui
strazj di coscienza; cercossi ipocritamente di mettere in contrasto i
preti coi vescovi; le popolazioni conservavano devozione ai loro pastori
benchè rimossi; sacerdoti ricusavano i sacramenti a deputati o ministri
incorsi nella censura; e di qua e di là vantavansi di martirio atti che
spesso erano di ostentazioni di amor proprio.

Tale deplorabile conflitto, che forse è un sagrifizio di debolezza al
rombazzo della plebe letteraria, infuse baldanza a un partito, che
si propone di staccare l’Italia dalla fede popolare. Come nel 1847
l’apoteosi di Pio IX avea lusingato che tutta cristianità si ridurrebbe
cattolica, così, dacchè egli mancò alla causa italiana, con lui si
esecrò la religione di cui è capo, e per poco il Dio di cui tien vece
in terra. Fervè allora l’opera del nuovo vangelo; i liberi politici
si incapricciarono di mostrarsi anticattolici; il papato si considerò
di nuovo come peste d’Italia non solo, ma della fede; e a qualunque
miglioramento della patria si pose per fondamento la depressione del
cattolicismo. I Valdesi, che nel 1848 aveano ottenuto l’eguaglianza
civile, poterono erigere un tempio a Torino; stampare secondo la loro
credenza, e la _Buona Novella_ annunciava (1855 12 8bre) che «tutti i
giornali del Piemonte obbediscono ad una direzione più o meno protestante,
e non si stancano di proclamare che la coscienza deve essere libera, e che
nessuna Potenza sulla terra ha il diritto di regolare le nostre attinenze
con Dio». Vanti consueti a tutte le sètte, ma che metteano i brividi ai
buoni Cattolici. Intanto si divulgavano libri di quel sentimento e Bibbie
tradotte, di cui ventitremila stamparonsi a Londra e diecimila Testamenti
Nuovi, destinati principalmente alla Toscana e Romagna: sette dispensieri
ne giravano in Piemonte, e quando l’esercito campeggiò in Crimea, ben
quindicimila copie se ne diffusero tra esso. Forse qualcheduno passò
alla confessione protestante: in Toscana si teneano circoli ove leggere
e commentare la Bibbia, e in esecuzione delle antiche prammatiche fu
punito chi lo fece, rinviandolo se forestiero, mandandolo a viaggiare se
nazionale. Ma il pericolo venne esagerato, e tanto più pel Piemonte, chi
veda quanto morale sia il popolo, frequentate le chiese e i confessionali,
riveriti i curati.

Ben più che i delirj della fede è a temersi la indifferenza in questa,
la scarsezza di cognizioni religiose, che rende possibile l’assurdo
apostolato di giornali, luridi quanto ignoranti e sfacciati. Come
protestantizzare gente che non crede nè conosce i proprj dogmi, nè sa in
che punto divergano da quei di Lutero e Calvino, e che, se al papa negano
obbedienza, tanto meno vorrebbero prestarla a un ministro? Si confessi
più francamente che l’orgoglio, la meno filosofica delle passioni, dice
«Come può essere la tal cosa mentre io non la intendo?» Si confessi
di volere piuttosto compiere l’opera sociale della Riforma, quale fu
di distruggere il carattere teocratico, dileguare la sovrumana aureola
dell’autorità, sottoponendo l’uomo immediatamente alla propria coscienza;
e che trovasi più acconcio alla vulgarità l’insegnare unico Dio essere
l’uomo, unica potenza il numero, unica legge gl’istinti, unico intento
il godere più che si può; donde una smisurata superbia, un satollarsi
all’albero della scienza, un invidiare chiunque sa o può di più, riponendo
il liberalismo nel prostrare quanto è più alto, non nell’elevare quanto è
più basso; un invidiarsi a vicenda i godimenti, e l’oro che può comprarli;
e nell’accidia e nella voluttà stordirsi e godere finchè il corpo si
dissolva ne’ chimici componenti.


È da compiangere il re di Napoli d’avere dovuto colla forza e coi
processi reprimere la rivoluzione, e principalmente le cospirazioni per
la così detta Unità Italiana; onde grandissimo numero di fuorusciti,
gente d’opera, d’ingegno, di penna, che empirono l’Europa di accuse
contro di lui, le quali trovarono uno straniero (Gladstone), che le
accolse e ripetè in una lingua diffusissima, e dandovi l’autorità del
proprio nome e della libera sua nazione. Benchè smentita, si può credere
la miserrima condizione di quelle carceri: ma quello che ancora più
serra un cuore italiano, è la bassa turpitudine di non pochi di coloro,
che come testimonj o delatori o agenti provocatori comparvero in que’
processi di Stato. I quali però vuolsi non dimenticare che furono
pubblici, con difesa, con stampa; e che, risparmiando le vite, il re non
volle togliersi la possibilità di ridonare alla società qualunque de’
condannati all’istante che ciò gli sembri o generosità non improvvida o
giustizia. Carlo Poerio è come la personificazione di quei martirj e di
que’ lamenti; e più volte fu promessa la grazia a lui e ad altri purchè
la domandassero[144].

Nessun atto cassò la costituzione, e Ferdinando II poteva da oggi a domani
convocare il Parlamento, restituire la responsabilità ai ministri. Ma
coloro che, per giustificare il dissenso che v’incontrarono, piacevansi
a ricantare l’immoralità di quel popolo, l’avidità delle classi medie,
l’ignoranza superstiziosa delle infime, non s’accorgeano che davano
ragione al re del non volere affidar la quiete e l’andamento dello Stato
ai consigli e alle discussioni di così fatti. L’esercito non ebbe bisogno
di venire ricomposto: l’erario continuò prospero, e quando negli altri
Stati erano all’abisso, qui le iscrizioni del gran libro eccedevano in
valore il pari. Non furono intermesse le opere pubbliche; estese le vie
ferrate, aperta una da Napoli a Bari traverso a due montagne; uniti al
mare i laghi Lucrino e Averno, così ridotti a porto. Eppure non venne meno
il troppo solito corredo delle pubbliche sciagure; e a tacere il cholera,
spaventosi tremuoti sconvolsero nel 1852 la Basilicata, propagandosi anche
nella Romagna.

Sanguina poi la piaga della Sicilia. Le entrate di questa erano state
regolate soltanto sopra donativi fino al 1810, quando si ordinò un
censimento, fondato sui riveli spontanei. Per correggere questi e
migliorare l’estimo si moltiplicarono disposizioni e prammatiche: i
lavori furono spesso interrotti dalle scosse pubbliche, infine compiti
nel 1853. La rivelata rendita dell’isola, sommante a ducati 10,872,063,
fu rettificata in 16,658,634, de’ quali appartengono al Demanio 41,339, a
manimorte 1,261,974, ai Comuni 213,290, a diversi 15,142,031: laonde al
dieci per cento si avrebbe una contribuzione di 1,665,863 ducati, e al
dodici e mezzo di circa due milioni. Tutta l’isola, uscente quell’anno,
contava 2,231,000 abitanti[145].

La chiesa di Sicilia era una delle più ricche del mondo, non avendo subito
le perdite cagionate dalla Rivoluzione. Lo stato d’attività e passività
pubblicato dal clero nel 1852 gli attribuisce la rendita di tre milioni
di ducati, che indicano estesissimi possessi in paese tanto male andato
d’agricoltura e di comunicazioni. Dicemmo che la rendita imponibile
delle manimorte nell’isola fu estimata ducati 1,261,974: ma ignoriamo
il rapporto di essa col possesso effettivo: oltre che su queste cifre di
possessi ecclesiastici v’è sempre esagerazione.

Le rivoluzioni non distruggono il potere, ma ne alterano il carattere
scemandogli fermezza e maestà; non alleviano l’obbedienza, ma le tolgono
il decoro; lasciano in chi sofferse scontentezza e prurito di vendetta; in
chi trionfò, brama di rappresaglie inutili dopo le violenze necessarie;
pochi comprendendo che prima cura dev’essere il far dimenticare, il
calmare le diffidenze e i risentimenti, fondere gli uomini e gl’interessi,
riconciliare il soccombuto col rialzarlo, anzichè punire colpe a cui
un popolo intero ha preso parte in momenti, dove, e principi e sudditi
barcollando sopra una nave in tempesta, nè questi nè quelli possono
rendere conto ragionevole di quel che fecero o dissero o promisero.

Nulla è più facile nè più triviale che il sistematicamente censurare
tutti questi Governi, i quali non seppero sinora far paghi i sudditi,
ricondurre la pace, tranquillare gli spiriti: ma suggerire i rimedj è più
arduo quando si veda disapprovare gli uni, appunto perchè fanno quello che
gli altri ricusano. Deploriamo i Governi cattivi, condannati a diffidare
e punire, quanto i deboli che non osano o non vagliono a resistere; i
ribaldi che si appoggiano sull’immoralità; quelli che non comprendono
come la libertà sia il cavallo che ci porta verso l’avvenire, ma sfrenato
precipita, troppo ritenuto ricalcitra e s’impenna, procede sol quando
è moderato da mano esperta; quelli sprovvisti d’iniziativa di spirito e
di volontà, che lasciano unico partito l’assopirsi con dignità; quelli
materiali, che riducono la scienza statistica a speculazioni e gendarmi;
e quelli che non si persuadono il disordine poter essere vinto soltanto da
chi lo rinnega, non da chi ad esso ricorre per reggersi momentaneamente.

La classe colta smaniava di partecipare al Governo; i Governi
pretendeano intrigarsi della famiglia, dell’istruzione, della religione,
dell’industrie individuali: reciproca illegittimità d’ingerenze, da cui
un necessario scontento. Il popolo, che poco bada a ciò che non tocca
l’individuo, la famiglia, la città, non intendeva gran fatto di coteste
Costituzioni, versanti sull’esterno non sull’essenza della libertà, e
capiva che anche i re possono tutelare le persone, le case, l’industria,
il commercio. E davvero di tante Costituzioni nate e morte in questo mezzo
secolo, quale è che abbia distinto le attribuzioni dello Stato da quelle
della famiglia e dell’individuo? qual principe osò di dare utile pascolo
alla smania governativa della classe media coll’abbandonarle i giudizj,
l’istruzione, la sicurezza pubblica, l’ispezione domestica, riservando
pel Governo la sovranità, i pubblici lavori, le finanze, l’esercito? Fra
un medio ceto che non sapea bene che cosa chiedesse, un vulgo che niun
vantaggio scorgeva in mutazioni che erano soltanto di persone; e principi
che, vincolati da un’autorità che gli umiliava, non sapeano bene che cosa
concedere, poteva egli trovarsi quella fede che ingagliardisce le opere,
quella sicurezza che va diritto a un fine ben determinato?

Da alcuni anni, ma più nei due ultimi, il parossismo del rumore avea
simulato l’attività della gloria, e sfogavasi colla sonora ciancia
e con quel vago di concetti che rende insulsi alla pratica. Fattisi
alla declamazione, costoro declamarono anche quando bisognava operare;
ridondanti in parole come chi manca di idee, cominciarono litigi dove il
vero vinto era il buon senso; e trascinando i migliori non a giudizio ma a
supplizio, nei caffè, sui fogli, e dovunque fosse da adoperare la lingua
non il braccio, volendo far qualche cosa e non valendo ad altro, faceano
strepito; e in giornali, caricature, affissi, imponevano all’autorità,
svilivano i magistrati, dettavano provvedimenti sconsigliati, e
inventavano mozioni. L’opinione di questi parabolani si era modellata
sopra i giornali di Francia, e come quelli, riponeva il liberalismo
nell’opposizione sistematica; l’aveano fatta quando portava pericolo;
vollero continuarla quando non era più che gazzarra, quando l’arma
proibita era divenuta arma d’onore.

Amatori antichi della libertà, la accolsero con austero culto; mentre
quelli che balzavano dall’idolatria dell’assolutismo all’idolatria
dell’individualità, la accostavano come una meretrice; per bisogno di
far dimenticare prische bassezze, affettavano altezzosa indignazione
nell’insolentire contro i valenti, e in una stampa spudorata dare sul
capo a tali che, mentr’essi genufletteano, ritti in piedi affrontavano
i martirj della persecuzione pubblica e privata quando nulla aveano da
sperare, neppure l’applauso, neppure d’essere riconosciuti dai proprj
partigiani; e col titolo d’uomini di talento indicandoli per teste false
e inetti alla pratica, li dichiaravano disacconci alle emergenze nuove; e
a rincalzo di frasi convincevano che, gran pezza meglio degli antichi ed
esperti, valeano quei neonati, che metteano la coccarda perchè altra prova
di patriotismo non potevano dare alla folla, solita a scambiare l’emblema
per l’idea.

Alcuni, sbigottiti dalle trascendenze, vedendo il guasto che le commozioni
politiche recano nei costumi e negli intelletti, l’indifferenza de’
principj, l’assurdità degli odj e degli amori, il bruciare oggi gli
idoli di jeri, il credere segno di libertà l’arroganza e la calunnia,
affrettaronsi d’abjurare come errori anche le verità che soccombeano;
e vergognati d’avere troppo sperato di sè, e d’essersi creduti degni
della libertà, si sbracciarono in rimpedulare alla vecchia i Governi e le
opinioni; o in sussulto svegliati dai sogni d’una coscienza connivente,
e vedute le conseguenze inattese di principj mal posati, buttaronsi
all’intolleranza persecutrice, biascicando i nomi d’ordine e di religione,
la quale, dopo essersi da alcuni, come fatto individuale, adoprata qual
mezzo d’indipendenza fino alla rivolta, da altri come fatto sociale,
volevasi strumento di potere fino all’assolutismo.

I tentativi temerarj fanno indietreggiare gli spiriti sgomentati: ma fra
i reazionarj, que’ che vantansi della forza è poi giusto che invochino
la ragione? Alcuni, non ravvisando la ricomposizione se non come quiete,
condannano fino le oneste libertà e le prudenti garanzie, a foggia di chi
bestemmiasse le macchine a vapore pel rumore che fanno; pigliano paura
della filosofia anche quando viene in appoggio al senso comune; paura
della storia anche quando non giustifica i fatti, ma solo li sincera e
li racconta; paura d’ogni aspirazione al meglio, vedendovi un irrompere
della demagogia; paura dei sapienti, e perciò privilegiano l’istruzione
a tali in cui ha fiducia il Governo, ma non la gioventù, la quale rimane
svogliata dallo studio, e discrede fino alla verità perchè bandita da
gente screditata; computano il crescere dei delitti, delle carceri, dei
trovatelli, quasi non vi fossero ribaldi anche prima della stampa e delle
Costituzioni.

Altri volsero le mani a strapparsi i capelli, anzichè ajutarsene nel
naufragio per salvare almeno le convinzioni: poco migliori di quegli
impotenti, che, senza l’audacia del male nè il coraggio del bene, si
vantano di star neutrali nell’ora ch’è mestieri di decisioni risolute, e
forbendosi s’accontentano di dire «Io l’avea predetto». Altri denunziano
di codardia il non perseverare negli errori, e impossibile ogni
ricomponimento, e viltà il pensarvi e l’avviarvi; simili al nocchiero
che, battuto dalla procella, giurasse eroicamente di non volere più
esporsi al vento finchè non l’abbia richiuso nelle otri di Eolo. Altri
s’ammantano del titolo di moderati: ma la moderazione non ha merito se
non palesi forza; nè quella di Pilato che lascia uccidere Cristo piuttosto
che mettere sè in pericolo, vuolsi confondere con quella dei martiri che
si lasciano uccidere piuttosto che offendere la propria coscienza. Altri
invece non considerano quei disastri se non come effetto dell’altrui
moderazione, e reclamano i procedimenti avventati e radicali, che sono
sintomo d’irritazione, quanto di marasmo il non provare quel desiderio,
ch’è tormento e dignità dell’uomo.

Chi tese l’orecchio alla voce di Dio, il quale, traverso alle folgori e
al tuono, parla per mezzo degli eventi; chi medita sugli errori proprj
e gli altrui, e scandaglia quanta virtù si trovi in fondo ai cuori,
onde comprendere quanta libertà si meriti, conosce che la tempesta
sconvolge il naviglio ma lo caccia avanti, purchè il piloto, deviando,
orzeggiando, retrocedendo anche, s’affissi però sempre alla stella. In
tempi sì turbinosi, sotto sferze sì laceranti, la libertà e la dignità
naufragarono, ma poi dai marosi furono spinte s’una riva assai più
avanzata, e donde non potrebbe rincacciarle se non una nuova procella.
Anche in Italia i Governi si svecchiarono, la rivoluzione, operando a
guisa della pietra caustica che, passando sull’ulcera, ne modifica la
superficie e sollecita il granulamento e la guarigione; molte fasce furono
levate, che al bambino voleansi conservare anche fatto adulto; l’industria
e il benessere fisico procedettero a passi giganteschi; e sebbene
gl’interessi materiali pajano prevalere, fino a voler ridurre la società
ad una accomandita, l’uomo a un mulino, dove ai motori intellettuali e
morali sono surrogati il calcolo e i contrappesi, noi crediamo che rimedj
non ultimi sieno i materiali, e la cura di crescere la ricchezza nazionale
e di ben ripartirla.

L’Italia contava ventisei milioni di abitanti, tutti cattolici, tutti
quasi d’una lingua, eppure divisi in quindici Stati, di cui sette
forestieri[146]. Possiede eccellenti linee geografiche militari, fortezze
inespugnabili, buoni porti, canali e fiumi non mai gelati; il ferro
dell’Elba, il rame d’Àgordo e della Toscana, la canapa del basso Po,
le selve dell’Alpi e degli Appennini potrebbero fornire d’eccellente
marina lei che siede fra due mari, e che dalle sue coste vede la Francia,
l’Algeria e la Grecia. Pure, malgrado i progressi dei due regni estremi,
la sua marina è insufficiente, nè da noi direttamente ricevono gli olj,
le sete e le frutte i lontanissimi consumatori. Nella Lombardia aumenta
l’operosità agricola e la popolazione, mentre scarseggia nelle parti
meridionali, ove troverebbero asilo e lavoro que’ tanti, che dai laghi
superiori e dalla vicina Svizzera migrano ad ingrate lontananze. Ora
poi che il Mediterraneo recupera l’importanza antica, e che si matura
il taglio dell’istmo di Suez, presto si sentì come là consisterebbe
la vita o la morte dell’Italia: l’Austria favorì quest’impresa in ogni
modo, presagendone un immenso incremento alla navigazione di Trieste: il
Municipio di Venezia nominò una Commissione che divisasse e proponesse i
modi di meglio vantaggiarne il commercio veneto, e promuoverlo con società
commerciali; e l’Istituto pose a concorso un’indagine sulle probabili
conseguenze che ne verranno al commercio in generale e a quel di Venezia
in particolare, e come provvedere che il continente europeo diriga pel
porto di questa le spedizioni: si propone d’ingrandire i porti di Genova
e di Civitavechia, perchè diventino pari alla estensione che al commercio
darà quella nuova via. Le Due Sicilie stanno all’antiguardo, sporgendosi
quasi in atto di provvedere alle vaporiere l’acqua, il legname, i grani,
e di competere nella comunicazione coi mari dell’Arabia e dell’India.
Insomma vorrebbesi che l’Italia si trovasse allestita in modo di non
lasciar preoccupare da altri le nuove comunicazioni, che offrirebbero un
opportuno campo all’attività di essa, e un modo di conseguire que’ nobili
vantaggi, che mai non saranno per gl’infingardi.

Intanto fra terra si sollecitano le vie ferrate, che non solo, superando
gli Appennini, congiungeranno fra loro i disuniti fratelli d’Italia, ma
traverso alle Alpi avvicinandoci ai forestieri, ci mostreranno che la
nazionalità non può essere esclusiva e repellente nè come sentimento nè
come istituzione.

Fra queste utili cure e le meste sollecitudini del rinascente cholera,
dello scarseggiante grano, e di nuovi micidj alle viti e ai bachi da seta,
parevano gli animi staccarsi dalla politica, quando un nuovo miraggio fu
spiegato agli occhi dalla guerra rottasi fra i grossi Stati.




CAPITOLO CXCIV.

Aspirazioni e preparativi piemontesi.


Il Piemonte era divenuto la mira per tutti i nemici dell’Austria e de’
Governi tormentatori degli Italiani; l’appoggio dei vinti del 1848. Il
Parlamento, per quanto scarmigliato, parea voce di tutta l’Italia, e a
quella davasi ascolto; i ministri, che si sbalzavano a vicenda, erano
considerati come rappresentanti di idee, e ne avevano, certo non tali
da bastare al grande concetto nazionale. Stavano dalla destra Revel,
D’Azeglio, Balbo, altri illustri per nobiltà e carattere, per posizione e
precedenti, che credeano essersi fatto abbastanza per allora, e tremavano
non giungessero al potere i rivoluzionarj, nati nel 48.

Dei quali oratore era Camillo conte di Cavour, variamente giudicato mentre
visse, sistematicamente ammirato dopo morte. Egli stava coi conservatori,
anzi coi clericali dapprima, e collaborava al giornale _Il Risorgimento_,
mentre Rattazzi conduceva la sinistra, irrequieta, impaziente, che voleva
un’altra riscossa. I due capi s’unirono, e formossene quel che si disse
il connubio, transazione per unire le forze de’ varj partiti. Il colpo di
Stato del 2 dicembre in Francia parea far prevalere la riazione; e poichè
il nuovo imperatore domandava si frenassero le cospirazioni e la stampa,
fu proposta una legge per regolarla (1852 2 febbrajo). Il Menabrea la
sostenne con fortissimo discorso, ma con violenza gli si opposero Rattazzi
e Cavour. Quest’ultimo, entrato nel ministero D’Azeglio, veduto che a
nulla approdava la parte che dicevasi moderata, se ne staccò; e ito col
Rattazzi a Parigi per intendersi coll’imperatore, presto ebbero abbattuto
D’Azeglio. E alla politica moderata e timida sottentrava la bellicosa e
aggressiva, che diceasi virile, e che dichiarava passato il tempo degli
iniziatori. Ne parve manifestazione e frutto l’attentato milanese del 6
febbrajo 1853.

E cominciando dagli ordinamenti interni, furono aboliti gli stabilimenti
religiosi, pochi eccettuandone; colla legge Siccardi si cassò il fôro
ecclesiastico e la personalità giuridica delle corporazioni; si dichiarò
distrutto il concordato del 1841 col papa; si escluse dalle scuole laiche
ogni ingerenza di ecclesiastici; ai beni di manomorta s’impose una tassa
particolare. Roma protestò; le popolazioni si divisero di parere, altre
approvando, altre disapprovando i mutamenti introdotti. Nei sei anni del
Ministero Cavour il Piemonte si ravvivò, giacchè Paleocapa spingeva le
strade di ferro; Lamarmora ricomponeva l’esercito; Rattazzi riformava
l’amministrazione e la legislatura; Cavour inaugurava la nazionale
politica a danno dell’Austria.

Ingegno vivace e pronto; efficacia a persuadere meravigliosa, comechè
infelice parlatore; colla prudenza e l’imprudenza d’un politico; fino
conoscitore degli uomini, dei quali valevasi come di stromenti; destro a
mescersi fra le parti più esaltate, e a scompigliarne le trame; sapendo
per mille esperienze quanto le sublimi declamazioni nascondano vilissimi
pensieri; persuaso intimamente che tutto si compra nelle moderne società,
conoscendo la propria abilità e confidando in quella; ridendo in cuor
suo delle forme e dei formalisti, guardando nei fatti e nella realtà;
le dicerie al Parlamento ascoltava sempre col sogghigno sulle labbra
e rispondeva coll’ironia pungente e sprezzante, ch’era tanta parte del
suo talento oratorio. «I fischi (diceva alla Camera) non mi muovono; li
disprezzo altamente e proseguo».

Nell’intento di sbrattare l’Italia dai principi indigeni e stranieri,
sempre avea cerco appoggio dall’Inghilterra, amica dei paesi turbolenti e
nemica del papa. Ma allorchè Palmerston cedette al Ministero conservatore
di Derby, meno condiscendenza vi trovò Cavour, chè si accostò di più alla
Francia.

Dopo che il 1848 ebbe rotte le alleanze del 1815, non si era mai riuscito
a costituirne di tali, che assodassero l’equilibrio in Europa. Col
pretesto di attentati della Russia, Inghilterra e Francia si allearono
(1854 marzo) a sostegno della Turchia e procurarono trarre nella propria
lega le altre Potenze europee. La Prussia si tenne in disparte; l’Austria,
sul cui territorio sarebbesi dovuto passare per attaccare la Russia,
esitò lungamente; alfine, sentendo i pericoli d’un incendio europeo, lo
prevenne col chiarirsi neutra. Ne ebbe dispetto la Russia, che nel 1848
aveale dato mano a salvarsi: più n’ebbero le due alleate, che giurarono
vendetta; ma fu merito di essa se così la guerra non divenne generale e se
i combattenti dovettero restringere le orribili loro stragi nella penisola
della Crimea.

Fu certo una delle guerre più micidiali e forse delle meno ragionevoli
che la storia ricordi: ma con essa rinacquero tutte le speranze dei popoli
oppressi, fidenti in una conflagrazione universale; e come la Grecia, così
l’Italia ribollì.

Quando la guerra fu ridotta marittima, importava alle due alleate d’avere
un appoggio in Italia, e lo ricercarono dal re di Napoli. Questi avea
sempre tenuto relazioni amichevoli coll’imperatore di Russia, e avutolo
anche ospite, per lo che ricusò. Vi diede ascolto Cavour. Benchè i timidi
trovassero strano questo andare in sostegno del Turco, per una causa in
cui non s’aveva interesse alcuno, lasciando il paese sguernito ed esposto
agli Austriaci, che potrebbero valersi dell’opportunità; altri riflettè
s’aprirebbe un’occasione di riparare le ultime sconfitte, di trovar
posto fra le grandi Potenze, d’addestrare sulla Cernaja i soldati per poi
adoprarli sul Po o sull’Adige, dopo fattesi amiche Inghilterra e Francia.
Si mandarono infatti 20,000 uomini sotto il generale Lamarmora, e ben si
disse che da Torino s’andò a Milano per la via della Cernaja.

Perocchè, presa Sebastopoli, si fece la pace colla Russia, e per trattarne
si radunò un Congresso a Parigi (1856 30 marzo). Il Piemonte, come avea
combattuto colle grandi Potenze, domandò di poter sedere con esse nel
Congresso, e per quanto altri contraddicessero, e massime l’Austria,
lo ottenne. I liberali speravano in quell’occasione si sarebbero levate
di mezzo le differenze che esistevano coll’Austria; si torrebbero via,
mediante un concordato, le irregolarità delle relazioni col papa e
l’inquietudine delle coscienze timide; s’indurrebbe l’Austria a levare i
sequestri de’ Lombardi, a rimpatriare i banditi, a far buoni trattati di
commercio, a concedere qualcosa alle aspirazioni nazionali. Destinavasi
a rappresentare il regno Massimo D’Azeglio, ma poichè la condizione sua
privata l’avrebbe reso inferiore agli altri inviati, risolse d’andarvi lo
stesso ministro Cavour. Non si aveva alcun programma determinato; al più
cercavasi ottenere qualche compenso pel tanto denaro e pel sangue versato,
ma presto furono introdotte quistioni estranee allo scopo proposto.

L’imperatore dei Francesi, da un lato volea vendicarsi dell’Austria, la
cui neutralità armata aveva impedito una guerra che portasse un totale
rimpasto dell’Europa, dall’altro avea più volte domandato al re o al
ministro che cosa potesse fare a vantaggio dell’Italia. Spinse egli il
Cavour a cacciare in mezzo qualche proposito, ed egli, scostandosi affatto
da ciò che vi si trattava e dagli interessi delle Potenze intervenute,
tolse a deplorare la condizione sregolata in cui si trovava l’Italia, e
principalmente gli Stati meridionali e il Pontifizio: rimaner la penisola
parte in guardia de’ Tedeschi, parte dei Francesi; da ciò un fomite
di scontentezza e disordine, che rendeva impossibile qualsiasi assetto
regolare: e proponeva si secolarizzasse il governo papale, surrogando
al diritto canonico il Codice Napoleone, e staccando le Legazioni, che
si porrebbero sotto un vicario pontifizio laico decennale, con truppa
indigena: si mettesse anche un limite all’Austria, richiamandola ai
trattati del 1815, mentre ora si fortificava a Piacenza, si era estesa a
Parma, in Toscana, nelle Romagne, divenendo minacciosa all’indipendenza
de’ varj Stati.

Alcuno dei congregati protestò contro l’oratore italiano; d’altro qui
trattarsi; mancarvi i rappresentanti delle Potenze accusate: i Greci
sotto la Turchia stavano ben peggio: eppure si era fatto guerra perchè la
Russia avea voluto mescolarsene: or qual diritto di mescolarsi degli Stati
italiani? ciò contrastare alla non intervenzione negli affari interni d’un
altro paese, sancita nel 1830 qual dogma politico, e per la quale appunto
erasi fatta la spedizione di Crimea. Ma Cavour, animato dall’imperatore,
stende una lunga memoria sui casi d’Italia: spinge i giornali a parlare
nell’egual senso: tornato a Torino, nella Camera, prorompe più violento,
vantandosi che «la situazione anormale e infelice d’Italia fosse stata
denunziata all’Europa non più da demagoghi e rivoluzionarj, ma dai
rappresentanti delle prime Potenze europee»: agli smoderati soddisfaceva
coll’assicurare che la politica della Sardegna rimaneva ostile all’Austria
più che non fosse stata giammai.

Così la guerra fattasi in Crimea a favore dei Turchi, riuscì in realtà
contro l’Austria: la pace di Parigi che la chiudeva, diveniva «semenza
di denti di drago»; e mentre garantiva la conservazione della Turchia,
preparava la distruzione dei principati tra cui era divisa l’Italia;
ed il rinnovamento italiano, fino allora commesso all’iniziativa de’
particolari, diventava impresa di un Governo.

Pertanto in tutti i modi secondare gli Italiani nel riluttare contro
gli invisi regnanti e massime contro l’austriaco; e cercarvi adesioni
all’estero. In Inghilterra si moltiplicarono scritture, discorsi,
_meeting_ contro dei Governi italiani, e massime del Pontifizio. Ma poichè
non più in là che nel 1849 aveano tutti i Potentati attestato la necessità
del dominio temporale, non sarebbe puerilità il voler abbatterlo adesso?
pertanto le ire si addensarono piuttosto contro il Governo di Napoli.

Già nel 1854 Mazzini avea esibito a Garibaldi d’andare a conquistare
la Sicilia; questi ricusò: l’accettò Giovanni Interdonati, che scoperto
fuggì. Dai ripetuti tentativi restavano eccitate le speranze e fomentate
le ire dei rivoluzionarj; mentre si asseriva che il movimento dovea
fondarsi, non più su congiure e sollevazioni, ma sulla diplomazia, e sul
proposito di costituire un regno dell’Alta Italia.

Manin, già dittatore di Venezia, che fermo nell’amore dei Governi
repubblicani, non si era rifuggito in Piemonte a godere, ma in Parigi a
stentare, il 19 settembre 1855 aveva emanato una lettera, consigliando
una società che mirasse all’indipendenza e unificazione dell’Italia,
fosse monarchica o federativa; poi riponendo affatto la sua bandiera, il
6 gennajo 1856, pubblicò un indirizzo, dove eccitava a concorrere colle
forze popolari a sostenere il Governo sardo, e vi poneva in testa:

                        Partito nazionale italiano.

                       _Indipendenza. Unificazione._

«Convinto che, anzitutto, bisogna _fare l’Italia_, che questa è la
quistione precedente e prevalente, io dico alla Casa di Savoja: «Fate
l’Italia e sono con voi; se no, no». Dico ai costituzionali: «Pensate
a fare l’Italia e non ad ingrandire il Piemonte; siate Italiani e non
municipali, e sono con voi; se no, no». Dico infine ai repubblicani:
«Sparisca ogni denominazione di partiti accanniti a concordanza e
discrepanza, piuttosto sopra quistioni secondarie e subalterne che non
sopra la quistione principale e vitale: fate voi per primi nuovo atto
d’abnegazione e sacrifizj alla causa nazionale. La vera distinzione è in
due campi. Il campo dell’opinione nazionale vivificatrice, e il campo
dell’opinione municipale separatista. Io repubblicano pianto pel primo
il vessillo vivificatore. Vi si rannodi, lo circondi, lo difenda chiunque
vuole che l’Italia sia, e l’Italia sarà».

Altro nemico a combattere diceva essere la teoria dell’assassinio
politico; mentre la morale in atti e in teorica costituisce la forza viva
e vera. «È vergognoso l’udire ogni giorno raccontare accoltellamenti
atroci in Italia. Le nostre mani debbono essere nette; il pugnale
lasciamolo ai Sanfedisti».

Erano dottrine vaghe; parole prolisse e condite colla solita prurigine
d’insulti a chi diversamente pensasse: ma gli avversarj del Mazzini
andarono superbi di opporgli un nome illustre, e così, a fronte della
_Giovane Italia_, restò la _Società Nazionale_.

Nella nuova via si posero molti anche repubblicani, e Torino divenne
il centro dell’azione italiana, e fattore principale Giuseppe La
Farina, profugo siciliano, di pronto ingegno e di forte volere, che
da repubblicano risoluto volgeasi allora a sostenere la monarchia,
personificata nel re di Sardegna.

Mentre Manin da Parigi proclamava _Agitatevi ed agitate_, Mazzini da
Londra ripeteva: «Non libri ci vogliono, ma cartuccie». Ordironsi dunque
nuove cospirazioni. Un pugno d’uomini, partito da Sarzana, invase le
terre di Massa (1856 agosto), ma non vi trovò rispondenza. Un altro pugno
sollevossi a Cefalù e Girgenti in Sicilia; nel tempo stesso che a Napoli
scoppiavano la polveriera e una fregata: e un Milano, soldato, in una
festiva rivista al Campo di Marte, avventava un colpo di bajonetta al re.
Costui fu mandato a morte, e così il barone Bentivegna, capo di sollevati
siciliani; e furono celebrati in versi e in prosa come eroi e martiri e
«i migliori de’ figli d’Italia». Anche Pisacane salpava da Genova per
isbarcare nel regno, ma sbarcato fu ucciso, e sequestrato il legno.
Cavour ne levò rumore come di violato diritto delle genti, e l’Europa
lo sostenne: l’Inghilterra mandò in quelle acque una flotta; si minacciò
richiamare gli ambasciadori: e il re, malgrado la sua fermezza, dovette
restituire il vascello portatore di guerra.

Dalle Legazioni fu mandata al Cavour una medaglia col motto «Che fan qui
tante peregrine spade?» e un’altra come al «Solo che la difese a viso
aperto», e una spada al Lamarmora col motto «L’antico valore negli italici
cor non è ancor morto»: si aprì una soscrizione per munire Alessandria con
cento cannoni, un’altra per dare diecimila fucili a quel qualunque paese
d’Italia che primo insorgesse.

Ad ogni sobbuglio tentato contro gli altri paesi rinfacciavasi la
sicurezza che godeva il Piemonte, senza reazioni, senza corti marziali,
senza violazione dello Statuto; garantito unicamente dalle libertà
costituzionali e dalla fiducia nel proprio re. Ma ecco appunto in quei
giorni scoprirsi in Genova un complotto. La notte 30 giugno 1857 si
tenta occupare i forti, incendiare le caserme, uccidere i capi; al tempo
stesso che sollevavasi Livorno, e che una nave portava l’insurrezione in
Calabria. Il tentativo fu represso colla forza su tutti i punti; ma le
indagini d’allora, e più i vanti di poi, rivelarono come una mina fosse
preparata sotto tutti i Governi della penisola, non eccettuato quello che
stava all’ombra del vessillo tricolore.

Felice Orsini, uno dei più zelanti atteggiatori delle idee mazziniane,
nel maggio del 1854 avea tentato una spedizione alle foci della Magra.
Entrato poi al servizio dell’Austria, forse per corrompere le truppe, era
stato carcerato a Mantova, donde fuggito passò in Inghilterra, e quivi
preparò, con altri Italiani, una macchina infernale (1858 gennajo), che
lanciò a Parigi sotto la carrozza dell’imperatore mentre andava al teatro.
Molte persone innocenti ne restarono uccise o ferite; l’imperatore ne
andò illeso: Orsini preso e processato, professò avere operato per amore
dell’Italia, che credeva tradita da Napoleone, e morendo la raccomandava
a questo, come fosse del dover suo il redimerla.

Vuolsi che questo fatto operasse sull’animo dell’imperatore, il quale
viepiù si fissò nel concetto di fare qualcosa per l’Italia, oppure
di sostituirvi all’influenza austriaca l’influenza francese. Chiamato
Cavour alle acque di Plombières, vi concertò che la Francia ajuterebbe
il Piemonte a sbrattare dagli Austriaci il regno Lombardo-Veneto; questo,
coi piccoli ducati e l’Istria e il Trentino verrebbe annesso alla Corona
sarda, che in compenso cederebbe alla Francia Savoja e Nizza. Dicono
si convenisse pure che il Reame toccherebbe a Murat, la Sicilia a un
secondogenito di Savoja, a un Buonaparte la Toscana, cresciuta colle
Legazioni; tutti legati in federazione, avente a capo il pontefice, il
quale modificherebbe il suo Governo sul modello francese.

Tutto stava nel trovare un’occasione, un pretesto di romper guerra
all’Austria, e d’allora tutte le mire furono volte a ciò. S’incalorì
quindi la stampa, furibonda in Italia, in Francia alternantesi
fra ingiurie violente e ipocrite disdette. Quivi, sotto il nome di
Lagueronnière, uscì un opuscolo ove, commiserate le condizioni d’Italia,
proponevasi un rimpasto di essa in federazione: nessuno degli Stati
presenti verrebbe alterato, salvo dare un incremento alla Toscana, che
diverrebbe quasi il punto d’appoggio al bilanciarsi dei due maggiori
Stati della settentrionale e della meridionale Italia: il papa capo della
federazione italica, gran cancelliere di essa, come della germanica era
un tempo l’arcivescovo di Colonia.

Di ciò tutto, più o meno apertamente discutevasi nei giornali, che a
centinaja erano pullulati in Italia. Il La Farina cominciò a pubblicare
il _Piccolo Corriere d’Italia_, in fogli sottilissimi, che spedito in
lettere negli altri paesi d’Italia, ajutatane la diffusione dai tanti
comitati, v’era accolto come un oracolo perchè proibito, e le notizie e
i sentimenti n’erano ricevuti senza disputa nè critica, e servivano di
materia e di testo agli altri giornali tutti. Ebbe quindi un’influenza
estesissima, divisa pure colla _Corrispondenza litografata_, per cui lo
Stefani, profugo veneto, mandava le notizie da ripetere a tutti i giornali
d’Italia; mezzi onde far echeggiare da mille organi la verità o menzogna
qualunque che si volesse. Cavour se ne servì a oltranza; se ne servirono i
cospiratori di ciascun paese per mandarvi informazioni, le quali, fossero
pure false e assurde, acquistavano fede dall’essere ripetute. Se ne
servirono tutte le ignobili passioni per isfogarsi in lodi o in calunnie,
che esaltavano mediocri e ribaldi, deprimevano e minacciavano i meglio
onorati e pensanti, e destinavano i posti e incombenti futuri, secondo
un’idoneità convenzionale.

Di tal passo i migrati divennero i veri padroni dei paesi; nessuno
poteva operare se non secondo le loro prescrizioni, sotto pena di essere
denigrato: un libro, uno scritto era levato a cielo con lodi, o sepolto
col silenzio: davasi la parola d’ordine, fuori della quale non v’era
che oscurantisti, austriacanti, spie: nessuno fu più se non quello
che il giornale lo faceva: chi avrebbe osato contraddirvi per l’amore
infruttifero e pericoloso della verità e della giustizia?

Se n’agitava viepiù il Lombardo-Veneto. Quando vi venne l’imperatore,
erasi preparato il terreno in modo, che guai a chi non solo l’avesse
festeggiato, ma pur lasciato di mostrargli avversione. Il giorno che
questi entrava in Milano, a Torino s’inaugurava con gran solennità e
davanti al palazzo del Senato un monumento, che i Lombardi facevano
erigere in glorificazione dei vinti del 1848. Ogni atto, ogni passo
dell’imperatore era accompagnato di beffe, caricature, minaccie.

Questa scherma fu seguitata contro l’arciduca Massimiliano, destinato
governatore del Lombardo-Veneto, e che cercava tutti i modi di farsi
perdonare l’essere straniero. Acquistò così una popolarità che dava
ombra, come un ostacolo alla meditata annessione: e perciò fu scalzata
in tutte le maniere. Fra le quali scaltrissimo fu il divulgare che alcuni
ordissero di farlo re del Lombardo-Veneto; arma a due tagli che lo faceva
sospetto alla Corte viennese, e insieme bestemmiare dagl’Italiani come un
impedimento all’emancipazione.

Tutto ciò aveva accumulato materie incendiarie, quando, al ricevimento del
Capodanno 1859, l’imperatore de’ Francesi, invece de’ soliti complimenti,
disse all’Hübner, ambasciatore austriaco: «Duolmi che le nostre relazioni
col vostro Governo non sieno più così buone».

Conturbossi l’Europa a quel motto, scaddero le azioni pubbliche: ne
trasalirono di gioja gl’italiani, come ad intimazione di guerra: guerra
fu il grido generale; l’Austria credette doversi munire movendo in qua il
terzo corpo d’armata: il Piemonte raddoppiò i preparativi, e sollecitò la
fuga dei coscritti e la migrazione de’ giovani lombardi; lo che divenne
una moda, alla quale il sottrarsi costava insulti e peggio: il generale
Garibaldi preparavasi, e domandò denari per procacciare un milione di
fucili.

Il re di Piemonte, nell’aprire le Camere a Torino, professava di «non
essere insensibile alle grida di dolore che da tante parti d’Italia si
levavano verso di esso», col che costituivasi centro de’ lamenti e oggetto
delle speranze.

Vi si aggiunse il matrimonio del principe Napoleone, cugino
dell’imperatore, colla figlia del re di Sardegna, celebrato nel gennajo.

Il Governo fece dal Parlamento autorizzare un prestito di 50 milioni per
resistere alle minaccie dell’Austria, e dirigeva una Nota alle Potenze (4
marzo), assicurandole che tutti i provvedimenti non erano che difensivi.
L’Austria anch’essa diramò Note (5 e 29 marzo) mostrando com’essa non
desiderasse di meglio che di essere lasciata tranquilla negli Stati
garantitile dai trattati, e di poter effettuarvi miglioramenti, i quali
però erano stati cento volte promessi, e cento volte falliti. E le
Potenze rispondeano assicurazioni di pace e la conservazione delle _cose
esistenti_; i liberali sinceri temeano questa guerra, persuasi che dal
conflitto di principi con principi non può uscire se non il despotismo.
Russel disapprovando il contegno del Piemonte, assicurava che all’Italia
niuna cosa gioverebbe meglio che le trattative diplomatiche. Una nuova
Nota del Cavour (7 marzo) alle intimazioni del Governo inglese rispondeva,
i suoi provvedimenti non essere che difensivi, nè farebbe se non «una
propaganda pacifica onde viemeglio illuminare l’opinione italiana, e
preparare gli elementi ad una soluzione, sì tosto l’Austria disarmando
rientrasse nei limiti assegnatile da formali accordi.»

Lord Malmesbury alle Camere inglesi protestava (28 marzo) che nè l’Austria
al Piemonte, nè il Piemonte all’Austria avrebbe mosso attacco. E pareva
aver ragione, poichè l’Austria mostravasi disposta anche a ritirare le sue
guarnigioni dai luoghi occupati, e il papa, con Nota espressa, domandò che
sì la Francia, sì l’Austria revocassero le truppe che teneano a Roma e a
Bologna, volendo egli «affidarsi alla Provvidenza, che certo non l’avrebbe
abbandonato».

La Società Nazionale invece pubblicò un programma ove organizzava il paese
per la guerra.

Garibaldi, rappresentante le forze vive della nazione, parea non volesse
adoprarsi dal Governo; pure il saperlo venuto più volte a Torino bastò
perchè molti giovani dalla Toscana, e più dal Lombardo-Veneto accorressero
a prendere servizio in Piemonte, ove si formò a Ivrea un’Accademia
militare per formare uffiziali. Questo concorso, più che i parziali
conflitti prorompenti qua e là, agitava gli spiriti, poichè non poteva
omai sottrarsene alcun giovane che non volesse insulti dagli uomini,
sprezzo dalle donne. Il carnevale riesce chiassoso a Torino quanto cupo
a Milano: ogni fatto è occasione di dimostrazioni: i giornali attizzano,
e non solo divulgano qualunque errore dell’Austria, ma ne inventano; il
Governo piemontese chiama sotto le armi tutti i contingenti, e manda fuori
un _Memorandum_, in cui si dicevano all’Austria le più severe parole che
mai in diplomazia si fossero formulate, pur confessando che il possesso
di essa in Italia era conforme ai trattati e legale.

E l’Austria, stanca della situazione, irritata dalle provocazioni,
prevedendo che alle parole minacciose terrebbero dietro i fatti, risolse
uscire dal sistema d’aspettazione, pel quale era sempre stata famosa, e
mandò un _Ultimatum_ (26 aprile), domandando che la Sardegna sciogliesse
i corpi franchi, come condizione preliminare all’accettare il proposto
congresso. Era tardi. Se avesse voluto invadere il Piemonte, dovea averlo
fatto nel gennajo: ora aveagli lasciato quattro mesi per prepararsi, e
alla Francia per ingrossare verso le Alpi: tre giorni dava ancora per
rispondere all’intimazione: due altri fece perdere l’Inghilterra per
rappiccare accordi; intanto Cavour fa decretare tra immensi applausi la
dittatura; e proclama che scopo della guerra dev’essere l’indipendenza
d’Italia.

Tirata l’Austria _nella rete tesale_, l’esercito passò il Ticino l’ultimo
d’aprile 1859, capitanato dal generale Giulay, che non godeva la fiducia
nè dell’esercito nè del paese. Perchè mai non si procedette colla maggiore
rapidità, in modo da trovarsi sopra Torino e sotto Alessandria nel minor
tempo possibile? Ben gl’Italiani avevano munito la sponda del Po con opere
improvvisate, ma che valeano solo contro chi non le affrontasse; aveano
rotte strade, allagate campagne; ma ciò intercettava alcuni, non tutti i
passi.

Appena dichiarata guerra, il Piemonte alzò il grido d’allarme, e tosto
l’imperatore dei Francesi dichiarò muovere in soccorso di re Vittorio,
suo parente, aggredito dall’Austria. Ma l’esercito non era pronto; le
strade del Moncenisio in quella stagione ancora ingombre di neve, e quasi
inaccessibili alla cavalleria: il trasporto per mare lungo e faticoso. Il
Piemonte potea disporre di non più di 64,000 soldati, 9400 cavalli e 120
cannoni; talchè, se grave era il pericolo, maggiore apparve il coraggio.

Ma gli Austriaci stettero accampati fra il Ticino e il Po, coi disgusti e
i danni che reca inevitabilmente un esercito, massime di nemici, e nessuna
importante fazione fu tentata.

Alcuni Francesi erano giunti a Genova sino dal 26 aprile; il 10 maggio si
mosse da Parigi l’imperatore, il 12 sbarcò a Genova, in persona volendo
per la prima volta capitanare una guerra, nella quale spiegò tutti i mezzi
che danno le nuove invenzioni.

Qual tripudio fu a Torino allorchè v’arrivò l’esercito francese! era
non solo la salvezza, ma la vittoria: e uniti procedettero verso il
Ticino. Ognun capisce come la Lombardia stesse in febbrile ansietà,
mentre combattevansi le sue sorti così davvicino; sebbene però se
ne fossero ritirate tutte le truppe, non fece verun movimento. Ma il
generale Garibaldi, a capo di un corpo franco, cominciò a volteggiare
sulle rive del Ticino e del Lago Maggiore, lasciate scoperte dai
Tedeschi, e varcatolo prese il forte di Laveno e s’avanzò verso Varese
e Como (23-26 maggio), donde contava pel Lario spingersi a Bergamo e
Brescia, e sollevando dappertutto le popolazioni, tagliare la ritirata
agli Austriaci. L’esercito, continuando in avanti e fatta una stupenda
conversione, presentò battaglia al nemico (3 giugno); il quale già era
in ritirata per ripararsi alla sua linea militare, il Mincio e l’Adige.
Il ponte di Boffalora minato, non saltò quanto bastasse per sospendere
la marcia degli alleati, i quali, non misurando i sacrifizj d’uomini,
potettero passare, e dare la battaglia di Magenta (4 giugno), ove
restarono feriti o morti cinque generali tedeschi, 276 ufficiali, 5432
soldati; e dei Francesi perirono i generali Espinasse e Cler, feriti 246
ufficiali, 4598 soldati.

I Milanesi, come videro gli Austriaci difilare, in ordine sì ma in
ritirata, vuotando il castello e la città, proruppero in esultanze e in
quei disordini a cui gettasi una città abbandonata. Presto v’arrivarono
commissarj regj; il Municipio proclamò re Vittorio Emanuele; i più destri
s’accalcarono attorno a chi poteva largire posti, speranze, vendette,
mentre i chiassoni facevano alzare barricate quando niun bisogno ve n’era,
e i buoni studiavano ad allestire ospedali ove ricoverare le migliaja
di feriti che giungeano dal campo. Da Magenta l’imperatore scrisse un
memorabile proclama, ove diceva l’onore e gl’interessi della Francia
avergli imposto di soccorrere l’assalito Piemonte; cercare egli gloria
non da conquiste materiali, ma nel far libera una sì bella parte d’Europa:
il suo esercito non avrebbe atteso che a combattere il nemico e mantenere
l’ordine interno, senza porre ostacoli alla libera manifestazione dei voti
legittimi, e concludeva esortando a volare sotto la bandiera di Vittorio
Emanuele e non essere «oggi che soldati, per domani trovarsi liberi
cittadini d’un gran paese».

Era un evidente appello alla insurrezione generale, ad armarsi tutti per
l’acquisto dell’indipendenza dall’Alpi all’Adriatico.

L’esercito austriaco, nel cui comando a Giulay era succeduto Schlick,
ritiravasi con tutti i suoi armamenti verso il Mincio, e l’aveva anche
passato. Nel tempo stesso che l’esercito francese scendeva pel Cenisio, un
altro corpo, sotto la direzione del principe Napoleone, era stato spedito
per mare a Livorno, che (tacendo per ora l’intento politico) dovea per
la Toscana risalire verso il Po, prendendo così di fianco gli Austriaci,
stanziati a Bologna, a Ferrara, a Piacenza. Questi, forse nell’intento
di serbarsi grossi per le battaglie decisive, abbandonarono quei posti,
distruggendo i forti; talchè il principe Napoleone, senza ferir colpo,
potè congiungersi all’imperatore sul Mincio. Il generale Canrobert era
stato spedito verso Mantova. Il re di Sardegna col suo esercito formava
l’ala sinistra, mirando alla fortezza di Peschiera: il centro era tenuto
in linea estesa dai Francesi. In tali condizioni avvenne la battaglia
di Solferino (24 giugno), ove si combattè l’intera giornata al sole
bruciante; sul tardo, un’orrida procella parve crescere lo sgomento d’una
delle maggiori stragi che la storia delle più accannite battaglie ricordi.

L’imperatore d’Austria si credette vinto, e ordinò la ritirata,
abbandonando non più che una ventina di cannoni al nemico, e ripiegossi
ancora dietro al Mincio. Gli alleati ben tosto passarono quel fiume (26
giugno), colla baldanza della vittoria e colla fiducia di nuove.

In questo mezzo gravi fatti erano succeduti. Il clero francese credette
minacciata la podestà pontifizia; fu dunque mestieri chetarlo con
esplicitamente assicurare che non era la rivoluzione che passasse le Alpi,
bensì lo stendardo di san Luigi; e l’imperatore diramò una circolare
ai vescovi promettendo che «il papa sarebbe rispettato in tutti i
suoi diritti di governo temporale». Ma appena gli Austriaci lasciarono
Bologna, le Legazioni si sollevarono, e vi si dichiarò la dittatura di
Vittorio Emanuele. Appena l’esercito francese toccò il suolo toscano,
Firenze tumultuò (27 aprile); il popolo cominciò a schiamazzare perchè
si accettasse la bandiera tricolore: gli aristocratici intimarono a
Leopoldo che abdicasse: il quale sentendosi circumvenuto, preferì partire,
mentre sonavano le grida di Viva la guerra, Viva l’indipendenza, Viva
Vittorio Emanuele. Buoncompagni dal verone della legazione sarda annunziò
che il granduca avea abbandonato il paese, e il suo re provvederebbe
alle sorti toscane e fece nominare un Governo provvisorio, e offrire la
dittatura a Vittorio Emanuele. Anche la duchessa di Parma si ritirò,
lasciando una reggenza che governasse a nome di suo figlio Roberto, e
andava a ricoverarsi in paese neutro, e subito i Parmigiani alzavano
le insegne italiane. A Massa e Carrara levasi rumore, e le occupano le
milizie italiane, subito dichiarando la dittatura di Vittorio Emanuele;
il duca protesta contro tale slealtà, e il Piemonte dichiara accettarne
la responsabilità e tenersi in guerra col duca. Questi, istituita una
reggenza, si ritira (11 maggio). Così il moto si propaga più di quello
che avessero sperato coloro che gli aveano dato l’impulso.

Ma l’Europa si adombrava dell’immensa influenza che la Francia veniva
ad acquistare nella penisola. Credeasi necessario alla Confederazione
Germanica che l’Austria restasse padrona della linea del Mincio; e dieci
giorni dopo la battaglia di Magenta, la _Gazzetta Prussiana_ annunziò che
si mobilizzavano sei dei nove corpi dell’armata prussiana. Potea dunque
credersi che la Germania si movesse tutta a soccorrere l’Austria, che fino
allora aveala indarno richiesta.

In Francia pure stavasi inquieti, sì perchè vedeasi dilatare la
rivoluzione, sì perchè spiaceva il combattere a fianco di quel Garibaldi
che tanti Francesi aveva uccisi nel 1849; e mentre a Plombières si era
convenuto che la Sardegna guerreggebbe solo con truppe organizzate,
esclusi i corpi franchi, or vedeasi il nome di lui ne’ bollettini a fianco
a quelli di Niel, di L’Espinasse, d’altri luogotenenti d’Oudinot.

Rimostranze di vario genere arrivavano dunque al campo dell’imperatore.
D’altra parte, egli era rimasto sbigottito dalla strage di Solferino:
incerte essere le sorti della guerra, ed egli affrontando le fortezze,
dovrebbe combattere non più colle bajonette ma coi cannoni, e sapeva
che gli Austriaci aveano intero l’esercito, preparavansi a una nuova
battaglia, non meno fiera e pericolosa: e in ogni modo rinserrandosi nel
quadrilatero, erano certi di resistere.

Mandò dunque esibire all’imperatore d’Austria un armistizio (8 luglio),
e invitatolo a sè, conchiuse con esso un accordo (12 luglio). Davasi egli
la parte migliore, offrendo pace dopo la vittoria: l’imperatore d’Austria
l’accettava come abbattuto dalla sventura, non privato di forze.

Le condizioni ne erano: l’Austria cedeva la Lombardia all’imperatore de’
Francesi, che la donava al re di Sardegna. L’imperatore d’Austria conserva
la Venezia, la quale entra in una confederazione italiana, preseduta
dal papa; non s’impedirà la ristaurazione dei principi: s’aumenteranno i
possessi del granduca di Toscana.

Tutto ciò erasi combinato senza farne motto agl’Italiani, e perciò il
ministro Cavour, vedendo falliti gli accordi fatti a Plombières, gittò
via il portafoglio, e quindi, ritiratosi alla sua villa di Leri (12
giugno), disse col solito sogghigno: «Or ricominceremo a cospirare». E
così fece, affaticandosi ad eludere la firma del suo re come avea già
eluso l’Austria. Il portafoglio fu raccolto da Rattazzi, sul quale pesò
dunque tutta l’impopolarità di quel trattato.

La Lombardia restava, con tutte le regole dell’antica diplomazia,
acquistata al Piemonte. Il Parlamento aveva concesso i pieni poteri al
Governo, valendosi dei quali, il nuovo paese venne ridotto all’assetto
piemontese. Ne derivarono infiniti malcontenti; e dovendo allora
confessare molti e sentire tutti che l’amministrazione in Lombardia
era assai superiore, più pronto ed esatto il servizio delle casse, più
regolari la finanza e i protocolli, più indipendente l’organizzazione
comunale e la giudiziaria, più liberale il Codice civile, meno fiero il
criminale, pareva che il Piemonte potesse imparare e adottare assai. Ma la
ragion politica induceva a tutto rovesciare, sì per prevenire ogni idea
di ristabilimento del dominio antico, sì per rimuovere le aspirazioni
di parità e d’autonomia: e tanto più quando credevasi la conquista del
Piemonte si fermerebbe a questo punto.

Gli Austriaci avevano portata con sè la corona ferrea, e conservato al
paese rimasto il nome di Regno Lombardo-Veneto, benchè del Lombardo non
ritenessero che parte del Mantovano. Neppure il Po restava esatto confine,
giacchè serbavano parte di territorio anche sulla destra in modo da poter
varcarlo a loro voglia.

Ma già il Piemonte, elevato a Regno dell’Alta Italia, grandezze maggiori
agognava. La pace di Villafranca non era per anco ratificata, come fu
poi a Zurigo, e già tutto era disposto a violarla. Nei Ducati e nelle
Legazioni si protestò non voler più gli antichi principi. Clamorose
deputazioni da tutte le parti venivano a fondersi col nuovo regno; ma
poichè ne mostrava alta disapprovazione l’imperatore, il re non volle che
«accogliere i loro voti», fece protestare dai giornali contro l’illegalità
d’un pugno di cospiratori che esprimevansi a nome delle popolazioni;
intanto però lo stemma di Savoja s’alzava dappertutto, e i dittatori
dichiaravano governare in nome del re Vittorio (24 7bre). Quando vennero i
deputati delle Romagne, il re accolse parimente i loro voti. Meno agevole
fu il sollevarsi dell’Umbria e delle Marche; ed essendo insorta Perugia,
fu presa dagli Svizzeri pontifizj.

Il Governo aveva mandato governatori Farini a Modena, Pallieri a Parma,
a Bologna Azeglio, poi Lionetto Cipriano per tutte le Romagne. E subito
si fecero prestiti per 33,380,000 lire, oltre le anticipazioni avute di
lire 4,733,039: e 500,000 lire dal re, e 300,000 dal Ministero. Poi Farini
fu acclamato dittatore a Modena e Parma, dove promulgò lo Statuto e i
Codici piemontesi, e cercò far detestare i caduti col far pubblicare le
loro carte, anche domestiche. Stabilita la legge militare fra i quattro
Stati, ne veniva conferita la capitananza a Garibaldi, che vi sostituì il
generale Fanti.

Un’Assemblea costituente accoltasi in Firenze il 10 agosto decretava
decaduta la Casa di Lorena. Poca fatica durò per conservare in quiete il
popolo toscano, che non aveva preso parte al tumulto; e per soddisfare ai
voti di coloro che volevano si concorresse alla guerra dell’indipendenza,
pregò il re di Piemonte ad assumere la dittatura militare del paese.
Il napoletano Ulloa diede spinta agli ordinamenti militari, negletti in
paese. I triumviri Danzini, Malenchini e Peruzzi in tredici giorni fecero
più leggi e provvedimenti che altri in molti anni, poi rassegnarono i
poteri in mano al Buoncompagni. Egli creò un Ministero, preseduto da
Bettino Ricasoli, e tutti si diedero a riformare a pressa pressa, cercando
soprattutto creare istituzioni che rimarrebbero al paese quand’anche
venisse annesso al nuovo regno. Con fermezza moderarono l’interno, e
repressero così coloro che volevano portar la rivolta nel Napoletano
e negli Stati Pontifizj, così i fiacchi tentativi degli affezionati al
prisco Governo, i quali si limitavano a guajolare, tener il broncio, far
epigrammi e lanciare qualche petardo. Ma poichè realmente in mano della
Toscana stava il decidere se la federazione pattuita fosse possibile, colà
si diressero tutti gli sforzi e gl’intrighi.

E scopo comune era sofisticare il trattato di Villafranca, e ridurlo a
parola morta, atteso che l’imperatore dei Francesi ripeteva assolutamente
volerlo osservato, ma non permetterebbe mai che altri s’intromettesse
nelle sorti italiane, neppure i Napoletani che pur sono italiani. Capirono
il linguaggio i realisti, e solo vedeano che bisognava accelerare, prima
che la riflessione sottentrasse.

Così l’idea della confederazione diveniva ognor meno possibile. Come il
papa sarebbe potuto essere a capo d’un’unione che aveagli già tolto metà
del dominio? Come il re di Napoli, che pur sentivasi minacciato? e come
non vedere che l’Austria vi ricupererebbe quel primato, per abbattere
il quale erasi versato tanto sangue? Inoltre la confederazione tende al
repubblicano, mentre ora l’Europa è foggiata alla monarchia, o alle varie
forme dell’assolutismo democratico, troppo avverse all’assoluta libertà.
Benchè dunque ripetuta nella pace di Zurigo, conchiusa il 17 ottobre, e
giurata da Francia e Piemonte, la confederazione metteasi sotto i piedi,
vagheggiando l’unità geografica, il regno forte, il pesar sulla bilancia
europea.

Un opuscolo parigino _Il papa e il congresso_, scritto o consentito
dall’imperatore, asseriva la necessità del dominio pontifizio, ma
ristretto a Roma e suo circondario; e parve un sagrificare alla
nazionalità i diritti pattuiti. Cavour, che opportunamente erasi ritirato,
ritornò al Ministero (1860 14 gennajo) con propositi nuovi, quali erano di
tentare l’acquisto non più soltanto dell’Alta Italia, ma di tutta. Osare
molto è il modo di riuscire.

L’imperatore de’ Francesi cercò ancora fermar quella valanga delle
annessioni con consigli e proteste; e proponeva al regno d’Italia
s’annettesse Parma e Piacenza: la Toscana tornasse nella sua autonomia
politica; le Romagne avessero un’amministrazione laica col vicariato di
Vittorio Emanuele in nome del pontefice. Ma queste interposizioni non
si credettero mai sincere, o si pensò poterle sorpassare francamente.
In fatto stabilivasi che l’Emilia e la Toscana col suffragio universale
dicessero sì o no sulla formola, «Annessione al regno costituzionale di
Vittorio Emanuele, o dominio separato».

Compita la votazione colla inevitabile superiorità del _sì_, il Farini e
il Ricasoli recavano a Torino (22 marzo) gli omaggi di quelle provincie,
che restavano dichiarate parte integrante del regno italico.

Alle Potenze europee non poteva piacere questa infrazione dei trattati del
1815, che alle stipulazioni diplomatiche surrogava il suffragio popolare.
«Attesi questi incrementi» Napoleone reclamò la cessione alla Francia di
Nizza e della Savoja. Cavour poco esitava su questo patto, del resto già
consentito a Plombières.

La facilità con cui erano riuscite l’Emilia e la Toscana, e gli applausi
che vi si alzavano, doveano essere stimolo al resto d’Italia ad imitarle.
In fatto l’Umbria e le Marche erano sommosse dagli impazienti, viepiù
dacchè parea la Francia voler rimettere l’accordo tra il papa ed il
regno. La politica romana era diretta dal cardinale Antonelli, ed era
venuto ministro delle armi monsignor De Mérode, figlio di quel che fu
capo e martire della rivoluzione, per cui nel 1880 il Belgio cattolico si
sottrasse all’Olanda protestante. Per un drammatico accidente da soldato
fattosi prete e cameriere di Sua Santità, con ingegno brillante e attività
instancabile si fece campione della causa del papa, e con ardito concetto
pensò dar alla santa Sede una forza propria. Chiese a ciò un generale di
grand’abilità nell’organizzare, il Lamoricière, onestissimo uomo quanto
prode soldato, vincitore di Costantina e di Abdel-Kader, popolarissimo per
aver creato il corpo degli zuavi, poi ritiratosi malcontento dagli affari
e dalle armi quando alla repubblica successe l’impero. Egli accettò, sia
per devozione alla santa Sede, sia per esercitare la propria attività,
e l’imperatore, cui dovea piacere questo modo di trarsi d’impaccio, gli
consentì l’andata. Si fece appello a tutti i Cattolici come a nuova
crociata; e vi accorsero molti della nobiltà francese e belga, non
ricevendo soldo; molti giovinetti usciti dai collegj di Francia vennero
a schierarvisi come un tempo alle crociate, poi alla guerra d’America;
taluni accompagnati dai loro parenti. Ma il Lamoricière capiva che gente
sì fatta è eccellente per colpi di mano, all’uso di Garibaldi, mentre qui
si trattava di tener l’ordine interno, e seriamente imporre a un nemico
che si presentasse.

Ai rivoluzionarj spiaceva questa possibilità di difesa, onde accaloravano
le esclamazioni esterne e le irrequietudini interne; formavansi bande;
cresceano i delitti, tantochè il Governo italiano spediva un’intimata a
Roma che le bande d’avventurieri formatesi sotto un capitano straniero
si licenziassero, se no, l’esercito italiano invaderebbe le provincie
pontifizie.

Prima che la risposta potesse giungere, il generale Fanti invadeva la
Romagna (1860 11 settemb.): Cialdini penetrava nelle Marche, Della Rocca
nell’Umbria. Lamoricière, scorgendo non poter resistere, cercò guadagnare
Ancona, ma raggiunto a Castelfidardo, fu disfatto (18 settemb.), e a
stento potè giungere soletto ad Ancona, che per nulla preparata, dopo
breve assedio cedeva. Così le Marche e l’Umbria entrarono a far parte
della famiglia italica.

Non minore sentivasi l’agitazione nelle Due Sicilie, commosse dai tanti
esuli, che non erano voluti rimpatriare malgrado l’amnistia. Morto
Ferdinando II (1859 maggio), succedeva il giovane figlio Francesco. Col
mandar via novantun cittadini sgombrò le carceri politiche. Del prender
parte alla guerra dell’indipendenza sentiva il pericolo. Mancatane
l’occasione per la pace di Villafranca, moltiplicaronsi le imputazioni
contro il re, che aveva lasciato decidere le sorti italiane senza di lui.

In Sicilia s’indussero a sollevarsi alcuni, ed ora si gridavano decaduti
i Borboni, ora si acclamava Vittorio Emanuele. Da ciò il dover adunarsi
truppe a difesa dell’isola, e l’occhieggiarla tutti i rivoluzionarj
come opportuno appoggio. Infatti a Genova si preparava una spedizione;
tutti sapevano che il 5 maggio Garibaldi s’imbarcherebbe co’ suoi; e
infatti quel giorno, occupati con finta violenza due legni della società
Rubattino, costeggiavano raccogliendo da ogni proda uomini e armi. Tutta
Italia si scosse all’annunzio di questo fatto e all’incertezza della
destinazione.

Quei mille ardimentosi sbarcarono a Marsala, dove legni inglesi ne
agevolarono la discesa, impedendo che le navi napoletane potessero
bombardare i battelli se non quando furono vuoti. Garibaldi (1860 12
maggio), avuti pochi seguaci e cavalli, procedette verso Milazzo, il
fascino del successo accrescendogli seguaci e applausi: egli si proclama
dittatore a nome di Vittorio Emanuele (14 maggio); superata a Calatafimi
una piccola resistenza, giunge a Palermo, che fu presa via per via, poco
mescolandovisi i cittadini: al 6 giugno soscrivevasi la convenzione,
per cui 30,000 buoni soldati cedevano a un pugno di ragunaticci, e parte
arrolavansi con questi, parte salpavano pel continente.

Già il resto dell’isola erasi sollevato. A Palermo sistemavasi un Governo,
ma Garibaldi non consentì l’immediata annessione al regno d’Italia, avria
potuto farsi o re o capo di repubblica.

Facile è immaginarsi lo scompiglio di Napoli, ben prevedendo che la
rivoluzione, ormai padrona dell’isola, si appiglierebbe al continente;
per condiscendenza a chi credeva così rimuovere il pericolo si richiamò
in vigore la Costituzione del 1848, mettendo a capo del Ministero lo
Spinelli, in voce di liberale; si mandarono Manna e Winspeare a Torino
per far lega offensiva e difensiva.

A questi temporeggiava le risposte il Cavour, col pretesto di voler
rispettare il voto dei popoli e non conoscere le intenzioni di Garibaldi,
al quale il re dirigeva una lettera consigliandolo a non più conturbare
il regno.

Il tentennare del Governo napoletano, come succede in ogni rivoluzione,
lasciava sfrenare le passioni, onde delitti e cozzi, e tumulti e rivolte
contro i rappresentanti o del popolo o del Governo o delle Potenze.
La flotta, che unica poteva riparare un’invasione, diveniva sempre più
sospetta. E già Garibaldini sbarcavano qua e là: Garibaldi stesso scende a
Reggio; le provincie insorgono; il re, veduta vana la resistenza, lascia
la capitale per non esporla a un assalto, e per concentrarsi a Capua e
Gaeta, dopo protestato contro quanto avveniva.

Liborio Romano, suo ministro fin a quel giorno, mandò subito invitar
Garibaldi, dicendolo aspettato come un liberatore: Garibaldi entrava senza
seguito come senza ostacolo: e padrone qui pure faceva atti sovrani,
e consegnava la flotta al Persano ammiraglio piemontese, e la Corona a
Vittorio Emanuele.

Le truppe italiane entravano nel regno per Pescara, e unitesi a Garibaldi
che sul Volturno era dovuto arrestarsi, attaccavano Capua che s’arrendeva.
Re Vittorio mosse alla volta del Napolitano «per rassodare l’ordine» e
fermare e spegnere la rivoluzione; e alle Camere domandava il voto di
approvazione alla politica fin là seguita, e di poter unire allo Stato le
nuove provincie; e n’ebbe 296 voti con 6 contrarj. Proclamavasi in Napoli
il plebiscito che annetteva anche quel regno (3 novembre).

Chiuso in Gaeta, il re di Napoli doveva aspettare o che il popolo si
riavesse dalla sorpresa, o lo soccorressero i re, i quali comprendessero
che nel trionfo dell’insurrezione trattavasi la propria loro causa, e
volessero far rispettare o la dignità regia, o il diritto delle genti, o
le loro promesse.

Il generale Cialdini presto raccolse quanto era duopo a un serio assedio
di Gaeta, mentre l’ammiraglio Persano disponeva la flotta per mare: e
l’imperatore di Francia, che aveva dichiarato non permetterebbe l’attacco
da quella parte, recedendo da tal proposito, fece dalle sue navi
abbandonare la rada, e così fu intimato il blocco.

La difesa fu degna di miglior sorte, e lunghissima sarebbe durata se non
intervenivano o casi o arti inattese. Il 5 febbrajo scoppiava in Gaeta
(non si sa bene se per accidente o per altra cagione, dice la relazione
officiale) un deposito di polveri, onde moltissimi morti e feriti, e,
aperta larga breccia, era impossibile di più resistere. Il 13 febbrajo si
capitolò. La famiglia reale s’imbarcava per Civitavecchia, accolta dal
papa coll’amorevolezza ond’egli n’era stato accolto nel suo esiglio. La
cittadella di Messina, tenuta dal maresciallo Fergola con 4000 uomini,
negò lungo tempo rendersi, finchè Cialdini la prese.

Da tutto ciò nacquero scontenti, e viepiù nella Sicilia, per molti mesi
in mano dei prodittatori, che non essendo d’accordo sulle sorti future
dell’isola, variarono d’intenti, patendone e le finanze, e la sicurezza
pubblica, e la libertà.

I volontarj stavano ancora sotto la mano di Garibaldi, vogliosi di
lanciarsi contro gli Stati Pontifizj, dacchè vedevano che l’imperatore dei
Francesi era disposto a lasciar fare. Di ciò s’inquietavano le Potenze,
che unanimemente avevano considerata l’indipendenza del pontefice come
reclamata dal mondo cattolico, e non credevano opportuno restasse in
tutela della sola Francia; ma l’imperatore le rassicurava: aver veduto
mal volentieri la caduta del regno delle Due Sicilie, e violate le
stipulazioni di Zurigo, ma i fatti compiuti non potersi non riconoscere.

Garibaldi domandava sino in Parlamento un milione di fucili, e non dava
pace al Ministero, e massime al Cavour, «il cattivo genio d’Italia»,
quasi gli avesse guasta l’impresa di Napoli coll’introdurvi le truppe
regie, e credeva poter gettarsi contro l’imbelle Roma come contro l’armato
quadrilatero, e di là avventare la rivoluzione in Austria, in Boemia, in
Ungheria, e rassettare tutta Europa nell’ordine nuovo.

E il re di Sardegna mutava il titolo con quello di re d’Italia (1861
27 marzo); e la Camera accettava un ordine del giorno pel quale si
riconosceva l’Italia una e Roma sua capitale. Le Potenze ne protestarono
e Russia e Prussia richiamarono l’ambasciatore: lo stesso imperatore dei
Francesi ricusava di riconoscere il nuovo regno.

Tutto ciò rese amari gli ultimi giorni di Cavour, che spirava il 6 giugno
a cinquantun anno; ogni bene che accadde da poi, si disse conseguenza del
preparato da lui; ogni male, conseguenza dell’essere egli mancato. Tanto
era morto a tempo.

Il succeduto Ministero Ricasoli durò nel proposito di voler Roma e
Venezia, o almeno di dirlo: e se Cavour lo sperava dalla Francia, Ricasoli
confidava nell’Inghilterra.

La Francia, quasi a consolazione della perdita del gran ministro,
riconobbe il nuovo regno, o piuttosto il titolo di re d’Italia assunto da
Vittorio Emanuele II, «declinando qualunque solidarietà in imprese atte
a turbare la pace dell’Europa» (_Moniteur_ 25 giugno): frasi elastiche,
malgrado le quali adoprò anche in appresso perchè altre Potenze lo
riconoscessero, siccome hanno fatto.

Ma dacchè erasi costituito un Governo, doveva cessare la rivoluzione;
bisognava tornare a qualche calma gli spiriti, a qualche ordine la
sovvertita Italia, ricostituire l’esercito, risanguare le finanze, ridurre
le nuove provincie ad abbandonare e le pretensioni e le abitudini per
uniformarsi ad unità: tutto ciò fra le esorbitanze dei rivoluzionarj, e
l’ebbrezza di successi che nulla lasciavano credere impossibile.

Garibaldi, creazione del pensiero popolare, acquistava le proporzioni non
d’un eroe ma d’un dio. L’amor proprio gli fu solleticato dalle immense
lodi profusegli da un secolo meticoloso, debole, egoista, cui parve
fenomeno un uomo che non ha esitanze o riguardi, non cerca impieghi,
decorazioni, stipendj. Bisognò conchiudere che l’ambizione sua era più
elevata, e trovava soddisfazione nel servir la nazione, sebbene talvolta
siasi messo fin sopra di essa, esclamando: «L’Italia l’ho fatta io; posso
disfarla».

Sciaguratamente trovossi a lato settarj egoisti, inetti al Governo perchè
formati nelle società segrete, e che davano consigli personali, gretti,
irosi; cortigiani, che sono ben lungi dal suo disinteresse, talvolta
gl’insinuarono ch’e’ sia l’apostolo dell’umanità, l’iniziatore di tutte
le rivoluzioni da farsi, di tutte le nazionalità da costituirsi.

Cavour, maneggiatore di giornali, e abile a scassinare il credito altrui
nei caffè o alla tribuna, avea saputo dargli il gambetto dopo le imprese
nell’Italia meridionale, e surrogare a lui il re, ai volontarj il
Parlamento; non volle lasciargli vincere neppure i più innocenti puntigli,
come la medaglia di cui volea decorare i Garibaldini; concitò contro di
questi le gelosie dell’esercito.

Ricasoli sottentrato, restituì a Garibaldi l’iniziativa, sebbene
si trovasse costretto a dichiarazioni e concessioni intempestive.
I Garibaldini erano scontenti che la conquista da essi vantata del
Napolitano fosse attribuita ai regj: i Mazziniani disapprovavano l’aver
consolidata la monarchia; molti tornavano verso l’unione federale. Per
satollare tutti non v’era che offrir in pascolo Roma, e tutti speravano
da oggi a domani vederla occupata.

Ricasoli, che l’invasione di Roma sentiva impeditagli dalla cattolicità,
diresse al papa una lettera (10 settemb.) per persuaderlo ad una
transazione, per cui, rinunziando al potere temporale, s’assicurerebbe
ampie facoltà spirituali. Suggeriva insomma che il papa conservasse l’alto
dominio sopra gli Stati toltigli, e la sovranità assoluta di Roma e del
Patrimonio di san Pietro, formanti uno Stato autonomo, con governo laico:
il re d’Italia pagherebbe un tributo, ma governerebbe le provincie come
parte integrale del regno: le Potenze garantirebbero il trattato, e si
obbligherebbero ad un sussidio al pontefice.

Col titolo di solennizzare la canonizzazione di martiri del Giappone,
il papa convocava a Roma grandissimo numero di prelati da tutta la
cristianità; i quali in tal occasione dichiararono che, per l’indipendenza
spirituale della Sede pontifizia, credevano, ora più che mai necessaria
la conservazione del potere temporale.

Ne fremettero gli esagerati: e costituivasi un’_Assemblea nazionale
italiana_ per promuover arrolamenti di volontarj, con comitati
dappertutto. Ne crescevano la baldanza dei sommovitori e le apprensioni
del Governo, che prima parea secondarli; sicchè Ricasoli, soverchiato
dalla sinistra, abbandonato dalla destra, dovette rassegnar i poteri
il giorno appunto (2 marzo) che Garibaldi sbarcava a Genova. Rattazzi,
richiamato alla presidenza del Ministero, Garibaldi mostrò aggradirlo,
e s’intese con lui per portar la rivoluzione in Grecia, in Albania, nel
Montenegro, poi nell’Ungheria; di là prendere alle spalle l’Austria, e
strapparle la Venezia.

A Genova intanto tenevasi un’adunanza (9 marzo), diretta a collegare in
un’_Associazione emancipatrice_ tutte le associazioni democratiche del
regno, collo scopo di compiere il plebiscito 21 ottobre 1860; con Roma
capitale; eguaglianza de’ diritti politici in tutte le classi; concorso
delle armi civiche a promuovere e assicurare l’unità e la libertà della
patria. Per quanto i capi temperassero i discorsi e le risoluzioni,
appariva il costituirsi d’un potere estralegale, che esautorerebbe il
Governo, e lo trascinerebbe ai fini, che sono rappresentati da Garibaldi
e Mazzini: sol come una necessità o un atto di gratitudine accettando
la monarchia, finchè i casi europei portassero ad altro principio più
razionale.

Di fatto Garibaldi passa in Lombardia, e in tutte le città inaugura
i tiri nazionali, con feste e con discorsi che dicevano assai, e pur
lasciavano intendere di più: proclamavasi l’êra dei popoli; l’apoteosi
della carabina: «Donne, sospendete al capoletto la santa carabina»; ed
ogni ovazione dovea finire con un improperio a Roma, una provocazione
contro i preti, scabbia d’Italia, vermi da calpestare. Per moderare la
trascendenza, il Governo credette opportuno fondere coll’esercito antico
il meridionale, qual erasi costituito sotto Garibaldi e con volontari.
Provvedimento che disgustò e i tanti ufficiali garibaldini dimessi, e quei
dell’antico esercito che si vedeano sorpassati da gente subitaria.

Si pensò pure di mandar il re a Napoli, tristissima essendo la condizione
delle Due Sicilie. Moltissimi erano gl’interessi guastati in un paese che
cessava d’esser autonomo, in una gran città decaduta da capitale, in un
regno dove le imposte venivano più che triplicate; tolte le istituzioni
più lodate, fra cui il Banco di San Giacomo che tanto era prosperato.

Per effettuare la coscrizione, il Governo doveva colà applicar le sue
leggi, e poichè i natii vi repugnavano, ne nascea la trista necessità di
rigori. A Licata si tolse l’acqua in punizione; si cacciarono in carcere
madri e spose lattanti perchè i figli o i mariti erano contumaci; altri
eccessi erano consigliati dallo zelo de’ nuovi impiegati.

Nella tornata 5 dicembre 1863 della Camera dei deputati si dovette fremere
all’esposizione che amici e nemici fecero dello stato della Sicilia.
Gli abitanti di Girgenti progettavano di migrar tutti insieme; Palermo
fu messo in istato d’assedio, e la popolazione era unanime contro i
forestieri; sessantaquattro carabinieri in un anno furono assassinati. Il
ministro Pisanelli esclamava: «Se un uomo di Stato s’inchinasse verso le
popolazioni napoletane come un medico sul morente per esplorarne i dolori,
udrebbe: «Noi ci sentiamo feriti, ci sentiamo umiliati».

Da ciò orribile incremento del brigantaggio. Sono strani e sin feroci
i modi con cui venne combattuto: si vuol mostrarsi zelanti e si diventa
feroci; si sveglia lo spirito di calunnia e di denunzia; cadono sotto le
stesse reti e liberali e retrivi, e la coscienza pubblica si sgomenta. Fu
votata una legge, che prese il nome del deputato Pica, ove metteasi che
almeno i côlti fossero sottoposti a qualche forma di giudizio, e non solo
la morte, ma potesse infliggersi o la prigionia o la relegazione; pur si
ricorreva fino alla taglia, come ne’ tempi più calamitosi.

Garibaldi intanto continuava la sua corsa trionfale per la Lombardia:
fermatosi ai bagni di Trescorre fra Bergamo e Brescia, ivi accorreano come
a santuario i suoi devoti, e i giovani che seco aveano combattuto, e quei
che speravano combatter seco; e formavasi un battaglione di volontarj,
a titolo di voler andare nelle provincie meridionali a sconfiggere i
briganti, meglio che nol sapessero le truppe regie. Insomma voleasi
per forza di popolo compire ciò chela diplomazia non permetteva agli
eserciti regolari; e dal Tirolo non men che dalla Dalmazia metter fuoco
al Lombardo-Veneto. Il Governo pensò impedirlo seriamente, attesochè
gli Austriaci avrebbero potuto prendere il passo innanzi, e difendersi
nel modo migliore, cioè attaccando. Si fa qualche arresto, ma Garibaldi
protesta altamente, aver egli stesso raccolti a Sárnico quei giovani,
smaniosi di servire un’altra volta la patria. Ciò impediva i tribunali
dal giudicarli secondo la legge.

Diminuivasi dunque anche la giustizia, onde l’Italia potea trovarsi
gettata in quelle annuali insurrezioni militari, di cui sono tormentate da
sì lungo tempo la Spagna e le antiche sue colonie. Che il Governo avesse
intelligenze con Garibaldi non v’è dubbio; ma mentre esso parlava di
Grecia e di Albania, Garibaldi intendeva Roma, e forse credea realmente
che il Gabinetto non facesse che dissimulare la meta vera. Come aveva
voluto nel 1860 che fosse cassato di ministro Cavour, così ora il voleva
di Rattazzi, e che si rinnegasse l’alleanza di Francia e si assalisse
Roma, e non cessava di lagnarsi gli si fosse interrotto il progetto di
provocar l’Austria, e costringerla a rompere ella stessa le ostilità,
nelle quali infallibilmente soccomberebbe. Nel Parlamento (sbigottito
dall’esposizione finanziaria che attestava pel 1862 uno squilibrio di
432 milioni) le interpellanze imbarazzavano il Ministero, mentre non
sollevavano che un lembo del velo che tutto offuscava: ma parve la
vittoria rimanesse al Ministero, poichè la maggioranza gli raccomandava
di tener illese le prerogative della Corona e del Parlamento; e alle
Potenze estere mandava attestando essere e risoluto e forte abbastanza per
reprimere qualunque turbamento, senza riguardi a persona qual si fosse.

Garibaldi sbarcò a Palermo, accolto con frenetici applausi come venuto a
liberarli da questi, siccome già dai Borbonici. L’entusiasmo propagavasi a
tutta l’isola; attruppamenti; grida sediziose; raccoglievansi volontarj e
denari; la guardia nazionale vi teneva mano; il prefetto denunciava mene
del partito borbonico e de’ clericali, e scontentezza per le nuove tasse
del registro e bollo.

Cresceva la persuasione che Garibaldi operasse d’accordo col Ministero, e
poichè questo non avea dato nessuna istruzione ai prefetti, avea rimesso
in libertà i sollevati di Sárnico, neppur impedendo partissero per la
Sicilia, supponeansi intenzioni nascoste, che le autorità locali dovessero
ignorare, ma non contrariare.

Garibaldi stesso (10 luglio) passando in rassegna la guardia nazionale
davanti alle autorità civili e militari, svelenivasi contro Napoleone
che impediva all’Italia di occupar Roma: e cinquantamila spettatori
applaudivano a furia, e la stampa diffondeva per tutto il mondo ingiurie
contro l’autore della emancipazione italiana, come fosse ostacolo alla
italiana unità: le dimostrazioni di piazza prorompevano in altre città e
notabilmente a Milano, fin a insultare la casa del console di Francia.
Le autorità municipali connivevano se non eccitavano; anzi a Milano
emisero esse prime il motto di _Roma o morte_, che subito, con tutta la
frenesia dell’imitazione e della paura, fu scritto su tutti i cappelli, e
si propagò a Genova, a Brescia, dappertutto, urlando contro la Francia,
e dalle bandiere tricolori levando le strisce azzurre che soleano
accompagnarle.

Il Governo più non potea starsi quieto: mandò in Sicilia il generale
Cugia, con otto reggimenti di truppe e quattro battaglioni di bersaglieri;
e facea fare dal re un proclama (3 agosto), ove riprovava quei «giovani
inesperti e delusi, che faceano segno di guerra il nome di Roma»; si
guardassero dalle colpevoli impazienze e dalle improvvide agitazioni; ogni
appello che non fosse il suo era «ribellione e guerra civile».

Si arrivò a creder finzione anche ciò. Garibaldi leggeva a’ suoi sdegnoso
il proclama reale, asserendolo opera dei ministri, mentr’egli col re aveva
altre intelligenze. E diviso il suo esercito in tre colonne, una dirigeva
a Messina, una verso Girgenti, una menava egli stesso per Caltanisetta,
e ricevendo continui rinforzi, giungeva a Catania. Se toccasse il
continente, la guerra civile era inevitabile; già erano disposti novemila
uomini a Castelpucci per entrar nell’Umbria, altri verrebbero da Bologna,
seimila dal mare, convergendo sopra Roma; la demagogia concentrerebbe
tutti i suoi sforzi con quelli dell’eroe. Il quale, fidato nella sua
stella e nell’insurrezione, su due vapori francesi imbarcava i suoi, e
traverso alla flotta regia, sbarcava a Melito in Calabria. Il Governo
dichiara in istato d’assedio e l’isola e la terraferma napolitana,
affidando pieni poteri al generale Lamarmora, che procede risolutamente,
impedisce ogni moto della Basilicata e della Calabria. Garibaldi respinto
a Reggio, guadagna le alture di Aspromonte, divisando di là sparger bande
alle sottoposte marine che propaghino la rivoluzione. Ma Cialdini manda
il colonnello Pallavicini che lo attacca e ferisce: duemila Garibaldini
sono fatti prigioni da milleduecento soldati regolari, e la campagna è
terminata.

Dell’inaspettato trionfo non osò gloriarsi il Ministero: contro cui le
imprecazioni tonarono dappertutto, come i vanti al percosso: e Rattazzi
restò esecrato perchè aveva prevenuto la guerra civile e l’onnipotenza
delle armi. Il vero vinto era la giustizia, poichè sottraevasi un
cittadino al suo giudice, nessuno osando processare l’idolo del popolo.

All’azione di Garibaldi mescolavasi quella di Mazzini, che ricominciò
quella sua agitazione da impotente; mandò fuori proclami; moltiplicossi
sui giornali; infine chiarì guerra al Ministero, e chiese i fondi
necessarj a ravvivare l’impresa; ma mentre Garibaldi domandava un
milione di fucili, cioè trenta milioni in dono, Mazzini contentavasi di
trecentomila lire, e raccomandava di raccoglierle anche dai più poveri,
dirigersi specialmente ai centri industriali, alle manifatture! La
cospirazione rinterzò le fila; si diffusero gli stili; si protestò contro
il Piemonte come erasi fatto contro l’Austria; nuova bufera gittata in un
paese che già navigava in mare burrascoso.

Con intenti più vasti operava la massoneria. Colle loggie italiane
corrispondevano quelle di altri paesi, principalmente per congratulare
del trionfo della nazionalità e unità, e delle idee massoniche. In
appresso moltiplicaronsi; e quaranta funzionavano nel 1863: nel 1864 il
grand’Oriente di Torino n’avea dipendenti settantasei, di cui dieci fuor
d’Italia; oltre le irregolari che dipendono o da nessuno o dal grande
Oriente di Palermo. A questo avea cercato Garibaldi, dopo un famoso
viaggio a Londra, incardinare le loggie tutte italiane, ma non riuscì,
e invece s’adunarono a Firenze il 21 maggio 1864, dove si ripristinò
l’unione fra le trenta del grand’Oriente di Torino e le altrettante di
quel di Palermo sotto Garibaldi, coll’unità massonica consolidando l’unità
nazionale: il grand’Oriente fu composto di venti membri del rito italiano,
eguale al francese, e venti dello scozzese: appena Roma sarà divenuta
capitale d’Italia, verrà proclamata sede dell’Ordine, e vi si convocherà
un’assemblea generale[147].

Le loggie nel 1865 erano cresciute a cenquindici, ed operarono
efficacemente nelle elezioni di quell’anno. Loro principale obiettivo è
Roma, centro dell’unità cattolica. Pertanto Pio IX pensò premunire coloro
che si illudessero col credere la massoneria solo occupata ad ajutare i
poveri e sollevare i sofferenti.

Un riso beffardo si levò perchè il papa, minacciato d’ogni parte e già
prossimo a perdere il suo dominio temporale, avesse tirato fuori una
predica dal cassone, e coi luoghi comuni fulminato quell’associazione di
trastullo o di beneficenza. Ma i sinceri accertano, essere efficacissimi
gl’intendimenti secreti della massoneria, nella quale sono venute a colare
tutte le società ch’eransi formate dapprima per abbattere i principi
antichi, poi riunite per usufruttare il regno nuovo.

L’opera provvidenziale di formare la nazione fra tanti disordini di popoli
e inettezza di governanti, apparve singolarmente nella serie di ministeri
che sbalzaronsi a vicenda, e che compromisero l’onore e l’orgoglio
del paese, e lasciarono, quanto fu da loro, soffogare la coscienza
pubblica, il sentimento del diritto, il discernimento del bene e del
male, mediante l’indisciplina espressa da atti o violenti o avidi e da
una stampa vendereccia o piazzajuola, che sovverte l’opinione arrogandosi
d’esprimerla.

Costoro fomentavano il mal essere, e in parte lo creavano mettendo a nudo
o anche esagerando i pubblici sofferimenti; il debito pubblico andar più
sempre ingrossando; durare tuttavia i briganti: non nata l’industria:
spento il commercio sotto gl’improvvidi trattati esteri e la mancanza
di capitali; dimezzato il valore de’ beni fondi; nessun ostacolo alle
dilapidazioni e prevaricazioni degl’impiegati; scontenti le migliaja di
frati e monache, continuamente minacciati di soppressione; spinta alla
manìa la voglia dei godimenti e l’intolleranza dei doveri: il Governo non
sapere altro se non vendere, far debiti, mettere imposizioni: mezzo suo
la corruzione: teoria il distruggere: circondarsi di nullità: comprare i
piazzajuoli perchè applaudissero e ingannassero, deprimendo la probità e
la capacità: invece di dare vita indipendente ai Comuni, vi si fomentava
la febbre dello spendere e indebitarsi: lo sgoverno era eretto a sistema;
non rivoluzione, non riordinamento: il Parlamento disonoravasi non solo
coll’ignoranza, ma con bassezza di calunnie, d’ingiustizie.

Infatto i delitti crebbero a segno, che dovettero moltiplicarsi le
prigioni, destinandovi principalmente i conventi, e spendendovi venti
milioni l’anno, oltre i bagni: nel 1865 non meno di 60,360 arresti furono
fatti dalla sola arma de’ carabinieri, mentre internamente i costumi
si sbrigliavano, lettere e scienze giacevano, a dir poco, neglette, a
vergogna de’ ministri che ogni tratto piantavano e spiantavano nuovi
metodi di istruzione quando nè la gioventù nè i professori aveano voglia
di studiare: onde non riuscivano che ad incepparla pedantescamente fra
ispettori, presidi, provveditori. Mentre si minacciava continuamente al
vicino esoso, non si preparavano i modi onde rapidamente trasformare le
truppe dallo stato di pace a quello di guerra.

Fra ciò lo Stato teologizzava; premiava e decorava i preti meno
meritevoli; si arrestarono alcuni che soscrissero un indirizzo al papa;
proibivasi l’obolo di san Pietro, mentre raccomandavasi la soscrizione al
giornale e all’indirizzo d’un padre Passaglia. Così, non potendo trarre
Roma all’Italia, scalzavasi il principio cattolico, calpestavasi colla
religione ogni sentimento d’autorità. L’emigrazione crebbe a proporzione
elevatissima. Onde era uno scontento di tutti, eccetto quel milione di
persone che rosica alla greppia del Governo.

Alle accuse contrapponeasi la consolazione di vedere il regno riconosciuto
dalla Spagna, dalla Baviera, dalla Sassonia, dopo che l’avevano fatto
e la Russia e la Prussia, sempre tutte protestando accettare il fatto,
senza ledere il diritto di nessun pretendente; contrapponeasi la gloria
dell’essere nazione, del sentirsi grandi. Pure confessavasi troppo pesante
la dipendenza dal forestiero. Il Ministero, quasi a sua discolpa, dichiarò
che «da Torino non si potea governare». Ma a tai detti pochi s’accorsero
di ciò che si tramava. In fatto improvvisamente si annunziò che, il 15
settembre 1864, il Governo avea conchiuso colla Francia una convenzione,
per la quale otteneva Roma all’Italia, col patto di trasferire la capitale
a Firenze. La prima parte faceva tollerare la seconda; ma come si scoprì
ch’era bugiarda, proruppe lo sdegno de’ Torinesi, il quale fu interpretato
per ribellione, e domato con una strage, qual mai non erasi fatta in
nessuna delle città ribelli, quasi a provare che si sapea reprimere
ogni rivolta, fin sulla città più fedele e iniziatrice, sul popolo più
soldatesco.

In quel sangue scivolò il Ministero Minghetti-Peruzzi, e al nuovo fu
messo a capo il generale Lamarmora al solo scopo di dare effetto a quella
convenzione. Essa portava che fra due anni i Francesi usciranno d’Italia:
il regno promette rispettare il dominio papale, nè adoprare verso di
esso che mezzi morali: si assumerà la parte di debito che compete alle
provincie da esso occupate: la capitale sarà da Torino trasportata entro
sei mesi a Firenze.

Se di alcuna cosa fosse ancora possibile meravigliarsi nella politica
odierna, sarebbe la diversa interpretazione che diedero i due contraenti
alla convenzione. L’ambasciadore di Francia a quel ministro degli affari
esteri dichiarava: «Noi, firmando la convenzione del 15 settembre, avevamo
inteso assicurare la coesistenza in Italia di due sovranità distinte:
quella del papa nei limiti odierni e quella del regno d’Italia;

2º «che mezzi morali significano per noi la persuasione, lo spirito
conciliante, l’influenza degl’interessi morali e materiali, l’effetto del
tempo che, calmando le passioni, dee fare scomparire gli ostacoli che fino
ad oggi si opposero alla riconciliazione d’una Potenza cattolica col capo
della cattolicità;

3º «che finalmente, per le eventualità non prevedute dalla convenzione,
la Francia si riservò formalmente la più assoluta libertà d’azione, senza
qualsiasi restrizione».

In una memorabile nota 18 novembre 1865, il cardinale Antonelli, detto
come fosse strano il fare una convenzione senza tampoco informarne la
parte più interessata, riprova la condotta delle Potenze verso la santa
Sede, lasciandola spogliare di tutti quasi i suoi possessi. Ed ora che il
papa è minacciato in quel poco che gli resta da coloro che lo circondano
da ogni parte, eccolo abbandonato, senz’altra garanzia che la promessa di
chi ha pronunziato, sua necessaria capitale essere Roma. Rammenta poi come
la libertà dell’apostolico ministero non appartenga alla sola Roma o al
suo sovrano, bensì riguardi tutti gli Stati cattolici o che hanno sudditi
cattolici: essere ironico parlare «dei felici cambiamenti del Governo
piemontese rispetto a Roma, mentre il sacrilego voto di Roma per capitale
non fu mai ritirato, anzi ogni tratto ridestasi; mentre si assicurò,
volersi adoprare tutti i mezzi morali per raggiungerlo; cioè, al partire
delle truppe francesi vi si susciterà la rivoluzione, e col pretesto di
calmarla si occuperà il rimasto territorio».

Tristissima restava la condizione delle provincie pontifizie, minacciate
tuttodì dalla cospirazione interna e dalle mene esterne. Il papa,
prevedendo quel che succederà al levarsi di colui che si era assunto di
essere unico a difenderlo, benedicendo gli uffiziali prossimi a partire
diceva: «Se Dio ci conserverà la tranquillità lo benedirò: se mi mandi
disastri, lo benedirò ancora».

Con nobile iniziativa Pio IX avea scritto al re d’Italia, invitandolo
a trattare seco per provvedere alle sedi vescovili del regno, di cui
ben ottanta trovavansi vacanti, sia per morte, sia per incarceramento
o esiglio dei titolari. Il re spedì a Roma con carattere confidenziale
il commendatore Vegezzi, che facilmente potè venire a un accordo, ma
nuove pretensioni del Ministero impedirono ogni conclusione, lasciando
incancrenire la piaga delle ostilità che contro le credenze della
maggioranza esercitava il Governo, «spaventato da un’opinione pubblica
del tutto artificiale».

Trasferita la capitale con tutto il disordine della fretta, lo crebbero
e l’attuazione dei Codici improvvisati e la rinnovazione della Camera
elettiva. Il Ministero era stato modificato, e il Parlamento sciolto e
intimate le nuove elezioni per la fine d’ottobre, dove il Ministero,
impaurito dall’apparire di tanti cattolici, che poteano impedire
le soppressioni e gl’incameramenti, voluti dagl’intolleranti e dai
finanzieri, pose tutto in opera per attraversarli, laonde restò il
sopravvento al partito d’azione, che secondato dalla frammassoneria,
potè (come fu scritto) mostrare la sua ostilità non solo per gli
uomini d’ordine, ma per gl’ingegni limpidi e i caratteri fermi. Nel
discorso d’apertura, al re faceasi tacere ogni rimpianto o saluto
per la capitale abbandonata, ogni parola allusiva a Venezia, eppure
domandare nuovi sagrifizj; applaudirsi d’avere interrotte le trattative
col papa, e annunziare non solo la soppressione degli Ordini religiosi
e l’incameramento de’ beni ecclesiastici, ma la segregazione dello
Stato dalla Chiesa. Erasi voluto con ciò dare un’esca al partito ormai
prevalente, ma questo agognava al potere, e ben tosto il disaccordo
apertissimo fra la Camera e il Ministero portò la caduta di questo.




CAPITOLO CXCV.

Acquisto di Venezia e di Roma.


Cominciava l’anno 1866 fra uno scontento maggiore, quanto più fantastiche
erano state le speranze. Nel Governo sentivasi mancanza di pratica, di
politica, di cognizione vera dello stato pubblico, d’un deciso programma.
E come averlo quando bisognava conformarsi alla diplomazia estera? e
come conoscere l’opinione vera quando questa non arriva che traverso a
giornali, ligi alle passioni, alle avidità, ai partiti? E i partiti stessi
non si pronunziavano deciso, aspirando soppiantare chi tiene il potere
senza sapere quel che faranno succedendogli.

Delle finanze sempre maggiore si manifestava la piaga, e si asserì
ufficialmente che ogni giorno si avea lo scapito di un milione. Si
fecero prestiti grossissimi: dal Cavour per 720 milioni, dal Minghetti
per 1000, dal Sella per 725, nè si passò pur un anno senza contrarre
un nuovo debito. Riepilogando trovasi che i varj Ministeri dal 1860
al 1866, prima dell’ultima guerra, spesero 7000 milioni; de’ quali
2700 trascendono le entrate e costituiscono il disavanzo, coperto con
prestiti, con alienazioni di rendita, con anticipazioni e vendite. Contro
tale condizione di cose sclamava la pubblica coscienza e tramestava la
politica.

Venuta la Prussia in rotta coll’Austria pel possesso dei ducati dello
Schleswig e dell’Holstein, e per l’antico desiderio di quella di
predominare nella Germania, cominciarono ad armarsi. L’Austria, dalle cui
supposte minacce il Governo italiano avea tolto pretesto per armarsi,
parve non attendere più che a difendersi entro il quadrilatero, fra
Peschiera, Legnago, Mantova inespugnabile nel suo lago, Verona, munita di
500 pezzi in batteria, comunicante pel Tirolo con Vienna, e che accoglie
le munizioni e le riserve; con una guarnigione di 30,000 uomini: e
dappertutto forti e trincee. Chi poteva mai lusingarsi di cacciarnela, per
quanto si vantasse il fornitissimo esercito e la formidabile flotta del
regno? Se in ciò v’era fatuità di vanti, cosa degna di storia è l’ardore
col quale, appena brillò la possibilità d’una guerra coll’Austria, la
gioventù da ogni parte accorse ad arruolarsi sia nell’esercito regolare,
sia nell’esercito dei volontarj. Allora riapparve uno di quei momenti
solenni, in cui un popolo sente che i suoi interessi sono vivamente
impegnati, che trattasi dell’onor suo, d’un gran pericolo o d’una
grande speranza: sicchè ogni altro sentimento si tace, le preoccupazioni
quotidiane cadono davanti al patriotismo, esaltato di dolore o di gioja,
d’orgoglio o d’indignazione.

Non è qui luogo di divisare i piani preparati: tutti speravano che la
guerra, lunga, difficile e di successi alternati, ritemprerebbe gli
animi, farebbe prevalere i coraggiosi agli intriganti, i devoti ai
gaudenti; eleverebbe qualche uomo sopra la fecciosa mediocrità; torrebbe
la direzione delle cose ai pennajuoli per darla a gente d’azione. —
S’ingannavano. Non era una guerra, ma un dramma diplomatico.

Veduto a segni troppo evidenti che governare la Venezia le era
impossibile, l’Austria era disposta o rassegnata a farne il sagrifizio,
e tanto più quando, venuta in rotta coi Prussiani pel primato nella
Germania, sentì che avrebbe sempre alle spalle nemica l’Italia. Per
mezzo dunque di Napoleone fece proporre al regno una alleanza o almeno la
neutralità, cui compenso sarebbe la cessione di quel che ancora chiamavasi
regno Lombardo-Veneto. Ma il Ministero italiano aveva già concordato
altri patti colla Prussia, e il 10 aprile del 1866 stipulato che l’Italia
farebbe contro l’Austria tutti gli sforzi suoi, in modo da pigliarla fra
due fuochi, e assicurare così la prevalenza dei Prussiani, i quali dal
canto loro non verrebbero a pace se non assicurando al regno d’Italia il
Veneto.

Così, pace o guerra, inazione o sacrifizj, il Veneto era accertato.
L’Europa sentì che accendeasi una guerra che divamperebbe dappertutto,
sicchè cercò interporsi mediante una conferenza, a cui invitò i Potentati.
L’Italia vi aderì, asserendo ch’erasi armata unicamente per difendersi e
protestando non comincerebbe essa le ostilità contro l’Austria, ma che
non sarebbe quieta finchè non possedesse la Venezia. L’Austria accettò
pure il convegno, ma con queste riserve: 1º che nessuna delle Potenze
intervenienti dovesse chiedere aumento di territorio; 2º che per trattare
di cose italiane dovesse essere invitato anche un rappresentante del papa,
giacchè Roma vi era interessata non men che Firenze; 3º che per punto di
partenza delle trattative dovesse prendersi il trattato di Zurigo.

Ciò fu preso come un deciso rifiuto, nè l’Austria poteva più fare
una cessione che cessava di parere spontanea, se prima non avesse
salvato l’onore delle armi, come, nel linguaggio diplomatico, si chiama
l’assassinio di migliaja di vite, e lo sperpero delle fortune d’un paese.

Un manifesto reale del 20 giugno dichiarò che le «provocazioni guerresche
dell’Austria sui nostri confini e le ingiuste e improvvise minaccie
d’aggressione» costringevano il regno ad armare per «compiere il programma
nazionale, stato interrotto dalla pace di Villafranca, e liberarsi
da una Potenza che, col suo contegno ostile e minaccioso, impediva di
costituirsi all’interno, e costringeva agli incompatibili sacrifizj d’una
pace armata». Dell’alleanza colla Prussia nessun atto ufficiale fe motto,
per parte nè nostra nè di quella, come neppure di 150 milioni di denaro
effettivo che dicesi essa mandasse all’Italia.

Allora i giornali più non seppero che gridare alle armi; l’Italia, che non
avea ravvisato salvezza alle finanze se non nel ridurre l’esercito suo, lo
crebbe sterminatamente, e vi aggiunse 40,000 volontarj che opererebbero
sotto Garibaldi; si accelerò la confisca dei beni ecclesiastici,
sorpassando a tutte le forme parlamentari; si diedero al Ministero
estesissimi poteri, dei quali si valse per ordinare il corso forzoso della
carta e per gettare un prestito forzato di 400 milioni.

In aggiunta si lanciò la legge dei sospetti, nominata dal Crispi,
principalmente diretta contro del clero, di cui moltissimi e rispettabili
membri furono imprigionati o deportati; e si istituì in ogni paese una
giunta che denunziasse i sospetti.

I discorsi erano che, non essendo possibile prendere con assalto diretto
il formidabile quadrilatero, si farebbe lo sforzo maggiore per mare, dove
la formidabile nostra flotta era immensamente superiore all’austriaca:
questa certo si ritirerebbe nel porto di Pola, ove le nostre bombe la
incendierebbero; allora si porterebbe un grosso sbarco di volontarj sulle
coste della Dalmazia, mentre la flotta prenderebbe Venezia, donde si
assalirebbero a rovescio le fortezze; l’esercito, di oltre 400,000 uomini,
superiore non solo di numero ma di abilità all’austriaco, coll’ala destra
entrerebbe nel Veneto pel Basso Po e fino alle alpi di Bassano, mentre
i volontarj per le alpi del Bresciano e della Valtellina invaderebbero
il Tirolo, congiungendosi coll’ala destra per dare mano ai Prussiani in
Baviera, e occupare Vienna, ove dettare la pace all’Austria.

Questa d’altro lato riposava sulle inespugnabili fortezze del Mincio e
dell’Adige: ed era creduta superiore alla Prussia, marciando prontamente
contro della quale, occuperebbe la Slesia, anticamente da essa toltale,
e proporrebbe di tenersi questa conquista in compenso della Venezia che
cederebbe.

Tutto andò al rovescio. La Prussia, non aborrendo dalla guerra civile,
e con una strategia qual nessuno sospettava, assalse i piccoli Stati
germanici, incapaci di resisterle, poi prevenuto l’esercito austriaco,
sgomentato dai rapidissimi movimenti, coltolo in posizioni sfavorevoli, e
ajutata dalle nuove manovre de’ fucili a spillo, lo ruppe principalmente
nella battaglia di Sadowa, una delle più micidiali del nostro secolo
micidiale. Occupata anche la Boemia, la Prussia si trovò alle porte di
Vienna, e ottenuti i suoi intenti, propose la pace, purchè si sciogliesse
la Confederazione Germanica, e si riformasse sotto la sua primazia,
escludendone l’Austria, che resterebbe ancora intatta, eccetto il Veneto.

All’Italia i gridi dei giornali non avevano lasciato aspettare questi
eventi. L’esercito spiegato sul Mincio, lo passò il 24 giugno, e i
giornali che ve l’avevano spinto prima, non ebbero parole sufficienti per
vituperare i generali che non riuscirono a vincere. Sebbene la giornata
di Custoza fosse nelle alte sfere considerata come decisivo disastro, e
annunziata a Garibaldi come disfatta irreparabile, fin a sospendere le
mosse delle due ale, e ritirarsi a difesa dietro l’Oglio, presto si vide
che, come mal concertato erasi l’attacco, così esagerato o artifiziale
era lo spavento. Ma l’Austria, salvato l’onore delle armi, mandò a cedere
il Veneto all’imperatore dei Francesi, come nel 1859 aveagli ceduto la
Lombardia. Ciò accettato, avrebbe potuto trasportare il suo esercito a
difendere Vienna, e forse prendere la rivincita sui Prussiani.

La Francia tripudiò di quest’atto, che dava ad essa tutti i frutti d’una
guerra dov’erasi tenuta neutrale, ma in Italia i giornali misero un urlo
concorde contro di esso. Rassegnandosi al qual grido, il Ministero, con
dispendj e pericoli nuovi, fece dall’ala destra passare il Po: la quale,
senza più incontrare nemici, occupò tutto il Veneto fuor delle fortezze.
I volontarj, che a tante migliaja, e male armati e peggio pasciuti,
eransi accumulati in gole, dove pochi e subitarj bastavano, a viva forza
occuparono alcuni paesi del Tirolo italiano, e già Trento era vicina ad
esser presa in mezzo dalle nostre forze.

I giornali, che creano gli idoli ad immagine propria, non rifinivano
di gridare contro la flotta perchè non isgominasse l’austriaca, e non
occupasse Trieste e l’Istria. Si dovette dunque dare lo spettacolo
d’una battaglia navale, e il 20 luglio a Lissa toccò un altro disinganno
alle nostre immaginazioni. Quei che avevano provocata la battaglia si
sfogarono allora, tacciando di tradimento o d’inettitudine l’ammiraglio,
come faceano di parecchi generali di terra e di quanti, invece di stare
a scrivere e a ragionacchiare, si erano messi alla prova della fortuna.

Come si devano intitolare questi massacri, fatti per casi di cui era
prestabilita la risoluzione, lo pronunzierà la coscienza pubblica. Intanto
la Prussia avea combinata la pace, per cui Italia accettò un armistizio,
in forza del quale i volontarj dovettero uscire dal Tirolo, l’esercito
abbandonare le sue posizioni del Tagliamento e dell’Alpone.

Non è a dire lo scontento che ne sorse, perocchè una guerra motivata
unicamente dal bisogno di difendersi, ora si voleva che acquistasse
al regno, non solo tutto il Lombardo-Veneto, ma il Tirolo italiano,
Trieste, l’Istria, la Dalmazia, escludendo così affatto la Germania dal
Mediterraneo, e prendendo per nostri confini _naturali_ le Alpi Retiche
e le Carniche. Non bastavano però esclamazioni di giornali o fremiti di
volontarj a spingere i ministri a una nuova guerra, ove ci saremmo trovati
soli rimpetto a 350,000 soldati dell’Austria, padrona delle fortezze,
e non solo sciolta dal suo nemico, ma forse ajutata da questo. Bisognò
accettare la pace di Vienna, per la quale l’Austria cede alla Francia e
la Francia al regno d’Italia tutto il Lombardo-Veneto.

Questa mostra di guerra costò al regno 555 milioni. L’Austria restava
così esclusa affatto dall’Italia e compita l’indipendenza: ma doleva
l’aver dovuto riconoscere l’inferiorità dell’esercito e della flotta
nostra: l’accettare la Venezia come un dono dalla Francia, la quale anzi
volle la superflua formalità del plebiscito: il non essersi giovati di
tale acquisto per correggere molti difetti dell’amministrazione, e per
sistemare meglio la quistione religiosa. Questa anzi venne esacerbata, e
mentre gli Austriaci aveano sempre considerato il clero come ostile alla
loro dominazione, contro di esso si sfogavano i nuovi padroni: ed oltre
l’invasione di predicanti e di chiese protestanti e valdesi nel Veneto, il
Ministero si valse de’ pieni poteri per effettuare la soppressione delle
corporazioni religiose e la confisca de’ beni ecclesiastici.

Volle credersi conseguenza di ciò la sollevazione di Palermo (17 settemb.
1866), ove lo scontento proruppe alla prima occasione, tanto da veder
minacciata la perdita della Sicilia, quando si acquistava la Venezia. In
un tratto la sollevazione si trovò padrona della città, ma forti truppe la
sedarono. Ne seguirono carcerazioni e bandi, e la subita distruzione degli
antichissimi conventi. Intanto, per la legge Crispi, in ogni provincia
si erano istituite giunte per indicare le persone sospette da mandare a
domicilio coatto, e ne venne una persecuzione, degna dei peggiori tempi
rivoluzionarj: applicata a 4171, la più parte parrochi e monsignori.

L’eccesso portò a pensare qualche conciliazione fra la Chiesa e lo Stato:
si spedì a trattare col papa per la nomina degli 80 vescovi, che mancavano
alle diocesi, ma contemporaneamente si spingeva alla confisca di tutti i
beni ecclesiastici e alla abolizione di tutti gli enti morali.

Restava poi sempre il proposito di occupare Roma, e mentre i ministri lo
dissimulavano, gli avventati pensarono effettuarlo, appena ne partisse il
presidio francese. Una Giunta nazionale, diretta da Garibaldi, d’intesa
col Comitato romano, mandò fuori un proclama (24 luglio) eccitando alla
sollevazione; e Garibaldi moveva per invadere, quando fu arrestato a
Sinalunga e portato in fortezza, ma subito rilasciato fra trionfi. Ben
presto egli è di nuovo a capo de’ suoi, e profittando della caduta del
ministro Rattazzi, creduto connivente a questi tentativi, moltiplica
comitati, processioni, _meeting_, eccita tumulti nelle varie città.
Tutta Italia n’era sossopra, commossa la Francia che manda truppe da
Tolone a Roma; a Mentana Pontifizj e Francesi sconfiggono i Garibaldini;
e il Ministero italiano dà l’amnistia ai sollevati, pur protestando che
Roma dev’essere «la sede più sicura del pontefice, e che l’Italia saprà
difenderlo e circondarlo di tutta la venerazione che gli è dovuta, e farne
rispettare l’indipendenza e la libertà».

Ma il Comitato romano preparava attivamente l’insurrezione, e una banda
si spinse pel Tevere fin a Monte Rotondo, mentre in Roma faceasi saltare
in aria la caserma de’ zuavi pontifizj; ma ancora i Pontifizj riuscirono
a respingere gli aggressori (1867 23 ottobre).

Questi avvenimenti aveano obbligato i Francesi a non ritirarsi da Roma.
Il malcontento del paese era grande, mentre le finanze andavano in
deplorabile deperimento. Nell’Italia meridionale e nella centrale, nel
Veneto era fermento contro le sempre crescenti imposte, e la ridestata
del macinato.

Di fuori la Francia s’agitava verso una nuova rivoluzione; domandava
che l’imperatore coronasse l’edifizio, cioè desse forme costituzionali,
ed egli si vide costretto ad eleggere un Ministero responsabile, dal
quale fu spinto a muovere guerra alla Prussia. Vi si accingeva con mezzi
imperfettissimi, mentre la Prussia vi si era preparata con finissima arte
e lungo proposito, in modo che essa ebbe ben presto invasa la Francia,
sconfitti gli eserciti, fatto prigione l’imperatore, assediato Parigi, e
imposte le condizioni più gravose e più umilianti.

Francia erasi lusingata d’esser soccorsa dall’Italia, per la quale
avea tanto fatto e tanto lasciato fare; ma nel pericolo che la piccola
guarnigione che ancora teneva a Civitavecchia fosse fatta prigioniera
dal nemico, la richiamò. Restava così di nuovo lo Stato Pontifizio senza
difesa, e l’esercito italiano lo invase, e presa Roma ridusse il papa
entro il palazzo vaticano. Ben presto da Firenze si trasportò il Governo
a Roma, compiendo così, sotto al doppio impulso della rivoluzione e della
volontà imperiale, l’assunto del Mazzini, assunto che non tutti credono
il più conducente nè alla gloria nè al ben essere della patria comune.

Di fatto nel marzo 1876, sconfitto il Ministero Minghetti, saliva al
potere la sinistra, ed era un concerto quasi unanime di disapprovazione
per quanto erasi fatto nei 16 anni da che il regno esisteva, condannando
e atti e persone, peggio che mai non avessero fatto i nemici e i
detrattori. Se quel noviziato fu veramente infelice, possano i nuovi amare
sinceramente la patria, riconoscere che i mali suoi vengono da scarsezza
di virtù, la quale non consiste nell’ostentare patriotismo intollerante,
o nell’orzeggiare fra il bene e il male verso un esito che discolpa i
mezzi; o nell’alleare il sentimento religioso ad un partito od a un nome;
bensì nell’anteporre il bene pubblico all’individuale, e sapersi rendere
superiore alle lusinghe dell’oro e degli onori e alla paura dei giornali.

A raddrizzare il buon senso, la facoltà che peggio deteriora nelle
rivoluzioni, molto varrebbero gli scrittori, ma neppure essi vi prestarono
grand’opera: e mentre dopo il 1830 erasi tanto fidato nell’efficacia dei
libri sul popolo, oggi si riducono sempre più a schermaglia letteraria
o arraffamento d’associati; mai non si sono edite tante scritture buffe,
pubblicati tanti giornali da ridere; che se anche non fossero un insulto
alle pubbliche sciagure, nel ghigno perpetuo e sistematico vi ha qualcosa
di scimmiesco e di stupido che cagiona disgusto e ribrezzo; com’è
assassinio della patria il risolvere col riso le grandi quistioni.

Continuò la sensibilità pei paroloni, che ci deriva dall’abitudine
retorica e teatrale; confondendo la parola ch’è comune a tutti, coll’arte
del bene usarla che è di sì pochi, ogni pusillo vi si credette capace,
aggravando la mediocrità col non volere istruirsi, quasi il lavoro
s’addica solo a chi manca d’ingegno: povero ingegno che serve di velo
all’inerzia, e consiste solo in un poco d’immaginazione senza sicurezza
di giudizio, in una concezione subitanea che non si consiglia colla
riflessione, in una facilità d’esprimersi, caroleggiante sopra qualunque
primo pensiero, senza quel secondo che lo matura e perfeziona.

Compilazioni, dizionarj, manuali, enciclopedie, con poco tempo e poco
denaro portano a minuto la dottrina e in digrosso la presunzione, e quel
falso sapere ch’è peggio dell’ignoranza, dispensando dal lungo e forte
tirocinio intellettuale, alla memoria attribuendo tutta la parte della
riflessione, con replezione di cibi superflui impedendo la digestione
de’ necessarj; e mentre importerebbe tesorizzare cognizioni assolute,
verificarle, operare su di esse, ricomporle, discernere, concludere, si
va allucinati alle immagini, al movimento, alle impressioni, ricevute
colla passività di specchi. Il galante e la signora, che conciliarono
il sonno con libri siffatti, cianciugliano di tutto, e trattano da
pedante chi parla seriamente di ciò che faticosamente apprese; sempre
più diminuendo quella classe di lettori assennati e indipendenti, i
cui giudizj costituirebbero un’opinione pubblica, e mentre una volta i
pensatori credeano poter creare l’opinione, ora si piegano a subirla;
mentre chiedeasi che ne direbbero coloro che si stimavano, oggi si ha
paura di quello che diranno la piazza e i folliculari che si disprezzano.

Di qua il bello spirito surrogato allo spirito buono, e quella leggerezza
vivace ch’è ormai l’unico vanto della coltura nostra, a micidio della
forza e della profondità: di qui il preferire i moti convulsivi alle forze
regolari, i giornali ai libri.

I quali giornali, frivoli, venderecci, di consorteria (colle debite
eccezioni), quasi perenne insulto alla morale, al retto sentire, a chi
nel meglio confida, si ostinarono a proscrivere ogni indipendenza morale,
a calunniare le persone e le cose che menomamente sovrastino alla loro
bassezza, e tolgansi dall’oscurità a cui essi sono condannati. Una
critica, come prima, negativa, stizzosa, oppositrice, deleterica, sconobbe
che la situazione nuova imponeva altri doveri; neppure la seria, colla
calma nelle dispute mostrò fiducia nell’esito, ma rassegnossi a blandire
gl’ignobili istinti dell’invidia e della denigrazione, svogliando della
generosità col calunniarla, e immaginando che bisogna avvilire gli uomini
per attaccarseli.

Garzoncelli appena usciti di collegio strascinano al loro predellino
i veterani, e credono muovere e dilettare il mondo con un articolo che
inseriscano in una gazzetta; sprovvisti di canoni sintetici e di nozioni
positive, disprezzano i classici per dispensarsi dal conoscerli, i
filosofi per non faticarsi a comprenderli. Introdotti il genio meccanico
e la soffice sapienza, poco s’ascolta, nè si giudica pure quel poco;
più scrive chi ha men cose a dire, non mettendo intervallo fra l’ideare
un articolo e stenderlo e pubblicarlo; moltiplicando opuscoli senza
riflessione per lettori senza calma. E per verità, qual bisogno di
sperdere cure per libri che devono morire nell’anno o gazzette nel
giorno? per convinzioni che anche prima dell’anno l’autore avrà cambiate?
Audacia e basta. Ma chi si briga di discutere il pro e il contro,
discernere, conchiudere? chi sa scovare un sofisma? chi trovare il vizio
d’un’argomentazione? Così il paradosso viene tollerato non meno che una
dimostrazione, anzi invade il dominio della ragione, la quale non è più
individuale, ma appiccicata; e si reputa franchezza il mettere eguaglianza
fra l’errore e la verità.

Tra questo fragore di mulini, destinati a triturare anche quando più non
si produce grano, deperisce la vera letteratura, e pochi autori camminano
scrupolosi dove altri ballonzano presuntuosi; pochi credono al buono e
al bello rimanere luogo anche fra il vortice delle passioni. A questi
toccherebbe combattere il dubbio, l’illusione, la bassezza mascherata
d’eroismo; non lasciarsi togliere la mano dai pregiudizj vulgari, ma
disporre alle grandi riforme col creare una opinione pubblica, risultante
di sentimenti e d’interessi, ma che si fondi su compita e accertata
cognizione della morale pubblica e privata in chi comanda, su giusto
sentimento dei proprj diritti in chi obbedisce. Il mondo li bestemmierà,
ma gli avrà uditi; e di mille semi che il vento sparpaglia, ve n’è pure
qualcuno che germoglia e prospera a vantaggio delle generazioni future.

Di questa o scarsa o infelice fecondità ci si allegava per causa il
non avere unico centro: ma forse l’ebbero i Greci o le età di Dante e
dell’Ariosto? e i concetti della divinità, della morale, della natura,
della nazione, non sorvolano alle combinazioni politiche? La mancanza
di regj favori salva la dignità e l’indipendenza, nè questa è la pietra
ove da noi più s’inciampi. Ben è scarsezza di patriotismo quest’adottare
qualunque cosa venga di fuori, e più che altro i giudizj sugli uomini
e le cose; privandoci così d’originalità, e contristando i pensatori
sinceri col continuo raffaccio delle opinioni di forestieri, o a meglio
dire di Francesi, voltabili secondo la moda, eppure imposte con sordida
intolleranza, fino a turbare la borsa, l’onore, la vita di chi non
le accetta. Persone che sanno chi sia, cosa abbia fatto, cosa prepari
qualunque mediocre oltramontano, ignoreranno, affetteranno d’ignorare
le produzioni d’insigni compatrioti, o le conosceranno solo a detta. Di
rimpatto viene vergogna quando vediamo qui intitolare scienziati e geologi
e chimici e antiquarj e orientalisti persone che appena reggerebbero il
confronto d’un laureando di altri paesi.

E appunto la mancanza di cultura generale fa che all’esercizio della
propria facoltà di sentire e giudicare si rinunzii per chiedere le
sentenze già belle e fatte dai giornalisti; titolo davanti il quale l’arte
cede il campo al mestiero. Ristrettissimi nel secolo precedente, scarsi e
inconcludenti nell’êra napoleonica, dappoi sembrarono una protesta contro
l’inazione, desiderata se non prescritta; e poco a poco estendendosi,
massime dopo il 1825, gli scrupoli dell’arte e le abitudini serie e di
gusto, proprie d’un pubblico ristretto, immolarono alle basse pratiche
dello scrivere senza cancellature, senza pentimenti, senza riflessione.
Miopi per proposito, svaporando in particolarità come incapaci di
sintesi, petulanti a vicenda e servili, la franchezza separando dalla
dignità, prendendo quale segno di superiorità la sicurezza fragorosa
e scortese; risoluti a vivere colla penna, la intingono a vicenda nel
vero e nel falso, nel generoso e nel vigliacco, secondo il vento che in
quella giornata muove il mulino; perciò adulatori nella lode come nel
vitupero. Nè dico dell’adulazione che ravvisa tutte le virtù nei gaudenti
e denigra la generosità de’ soffrenti, compito d’un servidorame brigante,
che sarebbe sacrilegio chiamare letterato; bensì dell’adulare l’opinione
che quel giorno impongono i circoli, i caffè, i chiaccheroni; adulare la
turba che, col ricevere i giudizj belli e fatti, vuole dispensarsi dal
pensare e ragionare; adulare la patria affinchè non senta il dolore e
la vergogna rigeneratrice; adulare la forza per istordire il pensiero;
adulare la mediocrità perchè aduggi il genio; adulare i primaticci perchè
non s’ostinino a migliorarsi; adulare il sofisma acciocchè soffoghi il
vero; adulare la libertà acciocchè s’infami coll’eccesso; adulare, se niun
altro li vuole, i pregiudizj e gl’istinti ingenerosi.

Fu a Milano che primamente si vide un folliculare giudicare di otto,
dieci opere in ciascun numero di gazzetta; poi la gramigna si propagò
al Piemonte, indi al resto d’Italia. Il vedere schiaffeggiati autori o
cattivi o mediocri, che fino allora aveano soprusato ai novizj, piacque; e
le fischiate a quelli parvero applausi ai loro giustizieri, che presto si
eressero proscrittori, a norma della paura e dell’invidia: quell’invidia
che trapela meno nella brutalità del vitupero che nella parsimonia delle
lodi, o nel profonderle a mediocri, le cui idee non eccedono le vulgari,
il cui spirito non urti nessuno.

Nè questo era un male necessario, ma piuttosto un abuso del bene, giacchè
una critica dignitosa, che tolleri l’impavida manifestazione, che rispetti
la libertà della scienza e l’autorità della ragione, che temperi gli
applausi con appunti assennati e il biasimo col riconoscere i meriti,
si farebbe stromento primario d’educazione, affratellando ragionamento
e simpatia, poesia e dottrina. Alcuni in fatti pensarono dirigerla a
vantaggio delle lettere e della nazione, e qualche giornale rimase in
buona nominanza: ma i migliori ne disperarono, e si ascrissero a gloria il
non avervi mai collaborato; a differenza de’ forestieri, di cui non v’è
illustre che non vi cooperi, e dove forse è altrettanta la petulanza de’
saputi, ma i critici recano, se non maggiore lealtà, maggiori cognizioni
e rispetto del pubblico.

Così oltr’Alpi la critica si collocò in posto elevato, studiando le
manifestazioni del genio ne’ varj paesi e sotto forme diverse; calcolando
le influenze subite dagli autori e il carattere particolare di ciascun
popolo e di ciascun secolo e i sentimenti e le passioni; dando risalto
al lato morale nella letteratura. Critica siffatta richiede e ingegno e
ragione docili e splendidi, e avvicina il giudice all’autore, quand’anche,
come tra i Francesi, sia più storica che filosofica, non s’elevi a
scienza, nè risalga ai principj delle sue decisioni, come suole fra i
Tedeschi e gl’Inglesi. Ma chi guardi, per dire d’un solo, i commenti
che a Shakspeare posero Schlegel, Gervinus o Guizot, deplora che da noi
si scrivano tuttodì note ed appunti a Dante, al Tasso, ad altri vecchi
e recenti, con una analisi di deplorevole leggerezza, cui mancano e la
premessa assoluta e la conclusione necessaria, cioè l’insegnare come
avrebbesi a fare.

Eppure anche in que’ paesi lo strato che giace sotto a quello del merito
vero, è composto di ciarlatani, intriganti, corridori di diplomi,
di congressi, d’accademie; ivi pure in teste concave ogni oggetto si
dipinge esagerato e ingrossito, talchè non mentiscono, ma danno a tutto
proporzioni false, forme antisimmetriche: e se i più nominati, sono i più
impacciosi come fra noi, se colla flessibilità dell’arco dorsale ottengono
titoli e posti e lodi, ciò non toglie che si trovi del merito vero e
solido, tanto più commendevole quanto che sboccia fra la gramigna della
falsa scienza e la zizzania della carpita reputazione.

Ma giacchè tanto s’imitano i Francesi, e copiansi anche quando non si
traducono, almeno si facesse com’essi, che ogni vanto patrio ricantano al
mondo, e presentano al pubblico applauso tutto quanto giovi alla gloria e
alla potenza nazionale. Qui invece le arti sotterranee della denigrazione
sormontano al rispetto e alla benevolenza; con censure alle quali non
è permesso rispondere, si cerca deprimere l’ingegno finchè si può, poi
il carattere, poi le intenzioni; si critica col silenzio se non si osa
coll’ingiuria; si accanniscono i piccoli contro i fratelli migliori, e
si fa considerare liberalità l’impacciare i passi generosi, l’istigare
la plebe ricca e patrizia contro persone che il giorno di loro esequie
sublimerà.

Chi salì in onoranza senza le costoro scarificazioni? a quanti feticci
non diedero essi qualche anno di gloria, solo perchè servissero di nuvola
al sole? Sta bene che la democrazia non soffra idoli; ma l’eguaglianza
pareggiasi a ingratitudine quando d’ogni testa che sa star dritta si fa
sagrifizio alla plebe, dilettantesi del sarcasmo e della depressione. Da
ciò deriva che fra noi rimangano municipali le glorie, e gl’illustri di
Napoli vengano vilipesi in Toscana, ignorati a Milano e viceversa; i libri
letti siano diversi dai lodati, e in generale siano letti pochissimo.
E mentre ad autori di trenta opere nate morte si procura una galvanica
longevità con applausi semestrali al sempre nuovo volume, fu dichiarato
scrittoraccio l’autore forse più letto; eretico spregevole un sommo
filosofo; ipocrito e innajuolo il tipo dell’odierna letteratura[148].

Qual meraviglia se i buoni stizziscono del vedersi non solo defraudato
quello che più si brama, la quiete, l’amore de’ concittadini, la
compiacenza nazionale, ma impediti nel bene che desiderano, nel giovare
alla nazione col fervore delle opere, colla dignità dell’opposizione,
col valore d’un nome che, rispettato dagli oppressi, non potrebbe essere
conculcato dagli oppressori? se irritati da questo sistematico ferire di
sotto in su, persino uomini nati ed educatisi all’amore ed all’armonia
finiscono col sarcasmo e col furore?

Cotesti a taluni pajono fastidj da nulla, e s’impone all’autore che,
come il fanciullo spartano, si lasci rodere il ventre dalla volpe senza
strillare: ma introdotti in questo campo la prepotenza e l’assurdo, si
prende l’abitudine di tollerarli nella vita, nella filosofia, ne’ Governi.
E noi, ai colpi esponendoci più francamente siccome abituati, credemmo
dover nostro il battere, non men delle altre, questa tirannia; perchè,
se alle altre si piega il collo come ineluttabili, questa è sordida,
giacchè a fiaccarla basta che la nazione ripigli il buon senso, non
infeudi il proprio giudizio a chi ha meno diritto di imporlo perchè manca
di convinzioni, e non creda a un presuntuoso detrattore o ad un compro
panegirista più che all’opera stessa, più che alle azioni, più che al
proprio convincimento.

Intanto i veri libri divengono sempre più rari, cessato quel vivo anelito
che trasforma in idea il fatto dell’uomo; se anche si serba qualche
sentimento della melodia, mancano la passione e l’affetto; immolando la
logica al rispetto umano, si associano il luogo comune e il paradosso, che
pure pajono opposti; prendendo per principale l’accessorio; numerando le
voci in luogo di pesarle, per modo che l’uomo costumato non conta nulla
meglio che il novizio; non scrutando le cause; non salendo da sbricciolata
analisi a una sintesi efficace; ciascuno tenendo per vero ciò che opina,
per buono ciò che preferisce, per diritto ciò che desidera; pronto poi,
al primo infierire della tempesta, a far getto delle proprie convinzioni.
Uomini del dubbio! e pretendete sapere dove consiste la verità, e
sentenziate al fuoco chi non crede quella che voi oggi dichiarate tale e
che domani avrete rinnegata; e distrutta l’autorità, volete distruggere
la libertà; abbattuta la fede, abbattere la ragione.

Il giudicare le scritture de’ vivi è sempre più difficile a chi scriva
egli stesso; e quand’anche l’ignoranza di esso o la dimenticanza non
fossero imputate d’invidia, insorgerebbe sempre l’amor proprio di
quelli che credono avere merito assoluto o relativo. Ed ora chi non
scrive? chi non può far lodare un suo scritto? Nè alla storia letteraria
compete rammentare tutti i libri, bensì l’attestarne il profluvio, e la
discordanza dei giudici sul merito loro e fra i lettori e i giudici, vale
a dire la leggerezza della pubblica opinione. Alcuni arcigni si ergono
vindici del savio gusto contro ogni novità, ignorando che, anche nel senso
estetico, le rivoluzioni dipendono da tutt’altro che dalla volontà degli
scrittori.

Alcuni, credendo riservate ai classici e alla sonnolenza l’unità, la
deduzione, il legame, sproloquiano in uno stile che, col pretesto del
volo lirico, surroga fantasia, immagini, capricci alla logica, ch’è
pure bisogno del secolo; talchè riesce vago senza verità, oscuro senza
profondità, di colorito brillante ma falso, di contorni senza rilievo.
Da accademici sudacchianti una frase e il rancidume e la trasposizione e
l’enfiamento del nulla e la laboriosità de’ luoghi comuni, ed affoganti il
buon senso in un mare di parole; da misantropi ostentanti vilipendio pei
presenti e sdegni a freddo e stizze d’imitazione, disposte a conchiudersi
in panegirico per chi le careggi; da predicatori che pompeggino di
declamazione e di arrogante eloquenza davanti alla semplice maestà
dell’altare, da deputati che rinnegano la logica per avere applauso dalle
tribune e dai giornalisti, quali frutti possono attendere la patria e la
moralità?

L’espressione di un sentimento che non si ha, cercasi invano; e in
questa ricerca si contorce lo spirito, e così lo stile. Per fuggire sino
questa fatica, i più fanno getto del carattere nazionale per tradurre e
copiare; scrivesi molto e infranciosato, poi si freme di non essere letti
dai nostri e di non vederci tradotti nè conosciuti dai forestieri. Ma
perchè avrebbero a tradurre libri, che sono pasta di loro farina? o quale
Francese leggerebbe un suo nazionale che non sapesse la propria lingua?

Agli arditi che spasimano di novità, bisogna ripetere che il fondo
del talento letterario non è l’immaginativa ma il buon senso, la ricca
intelligenza vestita di felice espressione e temperata da logica costante;
e soltanto così la letteratura può divenire stromento primario di
quell’educazione che infonde le abitudini di benevolenza reciproca e di
tolleranza, le quali fra i cittadini traduconsi in giustizia ed armonia,
proponendosi di dar ragione dei diritti, norma ai doveri, lume alle
dubbiezze, impulso alla volontà, per tradurre i nobili pensieri in nobili
azioni.

Ben sono a lodare quelli che dirigevansi alle applicazioni, a migliorare
le carceri, istruire ed occupare i detenuti e gli scarcerati, volere la
salubrità delle case e delle officine. Molto si parlò di popolo: ed è
lodevole l’attività applicata alla educazione di esso da ingegni capaci di
comprendere che, per essere intesi da quello, non bisogna improvvisare nè
secondare l’ispirazione del momento, ma pesare ogni parola, poichè ogni
parola gettata in quelle menti può essere seme di torti giudizj e d’atti
perversi. Alcuni scrittori siffatti riescono triviali per l’affettazione
più disgustosa, quale è quella della naturalezza; altri sotto forme
cercate mascherano concetti particolari, due qualità le più disopportune
a farsi capire alla moltitudine: molti ripongono tutta l’educazione
nel dare idee di macchine, di storia naturale, e nozioni statistiche,
secondando già ne’ fanciulli la propensione della nostra società verso ciò
ch’è sensuale, denaro, godimento: troppi credono merito il tenersi alla
gretta analisi, ignorando che questa riesce facile a chi tiene la sintesi
d’una scienza, mentre è faticosissimo l’elevarsi a questa dall’analisi,
dalle particolarità all’insieme, e che nell’educazione giova posare
quelle verità complessive, da cui l’uomo in tutta la sua vita deduca
verità e intellettuali e operative. Non abbastanza ricordando che per
imparare si richiede la difficoltà, e che la coltura, non la semenza,
è quella che feconda il campo, si propaga un’educazione enciclopedica,
per cui a quindici anni i giovani già sanno tutto, ma a quarantacinque
sanno come a quindici. Fanno compassione certi giornali educativi, stesi
coll’irriverente leggerezza con cui stendesi un articolo di politica
o di teatro. Fanno orrore quelli che pongono da banda la religione, e
vogliono fino dalla tenera età, fino nella classe più buona spargere
le aridità d’una filosofia, indipendente da credenze superiori[149]. Si
moltiplicarono e asili per l’infanzia, e scuole di metodo ed elementari:
in generale parve progresso l’escluderne gli ecclesiastici, benchè
eccellente prova e bonissimi libri dessero i Padri delle Scuole Pie e i
Fratelli della Dottrina Cristiana.

Certo chi paragona le teorie del Lombardelli, del Sadoleto, dell’Antoniani
con quelle del Lambruschini, della Ferrucci, del Tommaseo, e le pratiche
del Soave, del Taverna, del Giudici con quelle del Parravicini, del
Thouar, dell’Aporti, del Rosi, del Fava,.... deve riconoscere un notevole
miglioramento, e desiderare che divenga vanto principale delle nostre
scuole il dirigersi, qualunque ne siano i metodi, al libero svolgimento
della ragione personale dei giovani, al rispetto del dovere, ad estendere
fra il vulgo quell’istruzione, che persino alla fisionomia imprime maggior
dolcezza, come la maggiore agiatezza dà più posato operare e più dolci
costumanze: progressi veri che avvicinano le differenti classi sociali
per arrivare a costituire una sola famiglia.

A peggior danno poi, il bello e il vero non si cercarono più indipendenti
e per sè, ma si subordinarono alle passioni e all’idea politica:
principalmente in libri che si presumevano popolari, ed erano vulgari,
dimenticando che delle scienze bisogna servirsi per accrescere e
perfezionare la pubblica ragione.

E noi, credenti all’alleanza del genio che crea col buon gusto che
conserva, vorremmo che la critica tornasse un albero del bene, insegnasse
a studiare il libro per mezzo dell’uomo, l’uomo per mezzo del libro,
ravviasse a quell’arte antica di cui sono carattere la serenità, e scopo
l’addolcire le passioni e tranquillar l’animo; diffondesse il buon gusto,
che è il fiore del buon senso; non che sconfortare, spingesse all’azione,
suscitasse l’entusiasmo della verità e della virtù; vorremmo si cercasse
raggiungere finalmente una forma unica di stile, che sia la più precisa,
la più fedele; chiara come il buon senso, poetica come la fantasia;
traducendo l’idea vera in forma bella, con sintassi ferma, lingua comune,
impronta individuale; e portando la semplicità ad essere un’originalità
audace.

Alcuni guatansi attorno, e non vedendo insigni uomini, strepitosi
fatti, stupende mutazioni, dichiarano meschino il tempo, degradata la
razza. Eppure quanti fatti da confortare anche i meno pazienti! quanto
progresso per chi valuti non l’individuo ma questa moltitudine che tutta
ingrandì, che tutta contribuisce agli avanzamenti cui un tempo bastavano
i principi; chi badi a tanti svolgimenti e applicazioni delle scienze,
alle arti raffinantisi ogni giorno, alle rapide comunicazioni, ai mezzi
d’istruzione molteplici e agevolati, alle comodità diffuse, al benessere
crescente! L’applicare la scienza al Governo diminuisce allo Stato
amministratore e centralizzante gli arbitrj di Corte e di Ministero; ai
monopolj e ai privilegi sociali surroga un’economia meglio intesa; cassa
i decreti umilianti e le massime inette, sia del cesaresco arbitrio,
sia dei moderni sovvertitori: sebbene sia vero che troppo si restringe
in valutazioni materiali, al contrario de’ nostri vecchi attribuendo la
suprema importanza al corpo, una accidentale all’anima; così scambiando
per grand’uomo il buon amministratore, l’applicatore d’una macchina, quel
che seppe arricchirsi. Ne deriva un inebriamento dell’oggi, che acceca sul
domani, un rinnegare la storia per avventarsi nelle ipotesi, un coricarsi
nell’ironica indifferenza della gaudente ciurma cittadina.


Compiuta poi la unità territoriale, cioè l’esclusione del dominio
straniero, tolta ogni probabilità di restaurazione dei principi antichi,
ridotta quella di Roma ad una questione di famiglia, i governanti
potrebbero omai procedere al riordinamento interno, all’assetto
delle finanze, alla trasformazione dell’esercito, alla estinzione del
brigantaggio, al rispetto dei sentimenti religiosi, all’ascoltare i
bisogni del popolo, finora impediti dall’interpretazione o d’una bugiarda
rappresentanza, o d’una perfidiata opinione.

Il naturale separamento delle nazioni all’esterno, e nell’interno i più
larghi accordamenti politici colla libertà di famiglia, di provincia, di
Comune, di religione, d’insegnamento, sono i due scopi, a raggiungere
i quali ha perduto vigore la formola de’ principi d’anni fa e dei
sovvertitori d’oggi, «Tutto pel popolo, niente per mezzo del popolo».
Ma nell’universale appello allo spirito dei tempi, chi è che comprende
la libertà e l’autorità doversi avvicinare, non per combattersi ma
per ponderarsi e limitarsi: che il modo di sminuire il contrasto fra
la situazione sociale e le aspirazioni della civiltà, fra le opposte
esagerazioni della democrazia e del principato assoluto, di non
pericolare la libertà coll’eccesso dell’eguaglianza, nè l’eguaglianza
cogli sfrenamenti della libertà, si è il discernere precisamente le
attribuzioni dello Stato, del Municipio, della Chiesa; il ridurre i
Governi alle elevate loro attribuzioni, sbarazzandoli dall’amministrare,
regolare, sindacare l’azione di tutti; e nell’impossibilità di dirigere
il movimento sociale, restringersi a mantenere l’ordine materiale? Avanti
la rivoluzione, lo Stato poco s’immischiava delle faccende private, nè
svogliava i cittadini dal curarle coll’impacciarveli. Gli statisti,
a quella libertà senz’eguaglianza volendo surrogare un’eguaglianza
senza libertà, presero in veduta soltanto il modello francese, dove
si bersaglia l’autorità, eppure vuolsi che a tutto ella intervenga,
in nome dell’emancipazione proclamando quello che già i cortigiani più
servili; smaniando di mutare la forma de’ Governi e le persone, l’essenza
mantiensi sempre dispotica senz’altro limite che la ribellione, nè a
questa sapendosi rimediare che col despotismo. Intanto dimenticarono
l’Inghilterra, dove abbonda la libertà personale; non guardarono
donde venga la possa della stirpe slava, e qual sarà l’elemento che
essa rifonderà nel mondo se mai è destinata a scomporre la società
romano-germanica; rinnegarono tutta la storia patria, garrendo come
piaga e ostacolo quel municipalismo, che è antico quanto l’Italia e che
potrebb’essere il nocciolo della nazionale rigenerazione; nè pensarono che
la democrazia consiste, non nel sovvertire Governi e nel sistema unitario,
bensì nel restituire all’uomo, alla famiglia, al Comune la natura propria,
i proprj diritti, la libera attività.

Il popolo non giunge a comprendere che cosa importi il cambiare le persone
che governano, e maggior interessamento prende al cambiare del curato.
Quello di che sente bisogno è sicurezza della persona, della roba, della
reputazione, dell’industria, della casa; e a ciò meglio arriva, e con
migliore persuasione quel Governo che, riservando a sè la direzione
suprema e il rimuovere gli ostacoli e impedire l’ingiustizia, lascia
quella libertà che sola può ridurre le azioni in armonia coi fini: e
alla naturale intelligenza, alla morale attività de’ cittadini lascia
la cura delle faccende proprie, i giudizj, l’istruzione, l’incremento
dell’industria, la tutela della tranquillità interna.

Perocchè avvi un liberalismo, che crede esistere al mondo qualch’altra
cosa che la politica; repubblica e indipendenza non essere libertà,
come non è ordine la monarchia; tirannide essere quella d’Ezelino
come quella de’ Ciompi, quella del Passatore come quella d’una ciurma
cittadina plaudente o fischiante, e l’uomo essere qualcosa più e prima
che cittadino. Questo liberalismo, quando gli manchi vigore sovra i grandi
centri della forza, della ricchezza, della legalità, non trovasi ridotto
nè ad accidiosa impotenza, nè a subdole combriccole, nè a sofistica
predicazione di teoriche ineffettibili: ma persuaso della potenza di
ciascuno e dell’obbligo di adoprarla, se non può riformare lo Stato, pensa
a riformare se stesso e la famiglia e la patria mediante i costumi; fida
nell’energia sua personale, anzichè nei soccorsi dello Stato, sviluppando
il sentimento della propria indipendenza, piuttosto che questuare dallo
Stato impieghi e dignità che sono catene e abjezione; non fa della
politica una casa di industria, dove accorre chi ha fame; porta soccorso
al fratello coll’associamento delle forze e dell’intelligenza, anzichè
col cospirare; e così insinua quello spirito che è garanzia dell’ordine
e tutela della libertà, e che agevola la buona riuscita rattenendo la
speranza entro i limiti del possibile; rettifica le idee, invigorisce i
caratteri, sana i costumi, per essere padroni di sè quando non s’avranno
altri padroni.

E già la democrazia prevale dappertutto, fino nelle azioni di coloro
che la reprimono. A ripristinare l’immoralità dei privilegi e delle
esclusioni o i vincoli feudali, nessuno più pensa, dacchè l’eguaglianza
civile tornò giovevole a quegli stessi che più pareano scapitarne: la
facilità delle comunicazioni mescolò le genti, intanto che la folla degli
esuli, non rattenuti da riguardi, pareggiati dalla sventura, bisognosi
delle moltitudini, connessi a quei d’ogni altro paese, diffondevano le
idee democratiche: l’avidità de’ godimenti fa che tutti s’arranchino a
salire: l’arrogante durezza ch’è carattere della gioventù odierna, ostenta
eguaglianza col rinnegare e il merito e l’esperienza: la letteratura,
sacrificando a bisogni triviali la raffinatezza dell’arte, fra una plebe
di mediocri confonde i pochi ottimati.

Nè i mali che ci credemmo in dovere di svelare alla patria perchè
l’amiamo, non sono mali necessarj della libertà, ma forse un inevitabile
noviziato, nel quale giova che sentinelle, austere forse ma benevole,
tengano desti contro i pericoli; anzichè imitare il despotismo, ove il
male e il bene dormono sullo stesso capezzale. Ma l’onesta opposizione fa
noja a coloro che s’impinguano ne’ pubblici disordini, e che, avvedendosi
come poco frutti la pesca quando lo stagno non è turbato, urlano ancora
guerra e sovversioni per obbligare così ai disastri della pace armata,
delle finanze diroccate, delle arti perdute, di sterili delitti e inutili
virtù. E questo intitolano amore di patria! ubriachezza di testa non
poesia di cuore, che indignandosi contro ogni cosa che senta di uomo,
denunzia come traditori d’Italia quei caldi e sinceri amatori di essa,
che di tutti questi danni osano incolpare la mancanza di virtù.

Vero è che il nome di virtù viene inteso diversissimamente dai varj
partiti. I ciarlieri lo ripongono solo nell’ingloriare il paese. I
moderati, nell’orzeggiare fra il bene e il male verso un esito che
assolve dalla iniquità dei mezzi: i consortieri nel reggersi l’un l’altro
alla borsa, al Parlamento, alla mangiatoja: i politici nell’esclamare
con Azeglio, «Facciamo punto e da capo». I veri cristiani, cioè buoni
cittadini, lo ripongono nel credere e praticare i principj d’un diritto
eterno, che può rassegnarsi alle incoerenze d’un diritto nuovo, ma non
approvarle; ed essi pei primi, non urlano, ma esclamano, «Dio benedica
l’Italia indipendente».

A tale intento sono necessarie la coscienza autonoma, la ragione non
impacciata da congegni amministrativi, nè da prepotenze d’un partito,
d’un giornale, d’una società secreta, bensì fidente nel popolo. Chi il
vero popolo non vede in quel che tumultua sulle piazze, ciarla nei caffè,
fuma sotto i portici, denigra ne’ giornali, s’ubriaca nelle bettole, non
dirà mai che il nostro popolo è ateo, e che non è ancora maturo a libertà;
bensì che gli arzigogoli moderni vorrebbero renderlo incapace di libertà.

La sana natura di questo popolo sente bisogni meno ignobili che l’ira e le
impotenti rampogne e le vendette; non la frenesia di continui sbaragli,
non il pescare al fondo d’una rivoluzione un impiego e un padrone, ma
vuole la calma domestica e civile, ed amare, lavorare, migliorare da sè
la propria posizione. A questo popolo date non il pane quotidiano, ma
il modo di guadagnarlo con fatiche, le quali non avviliscono se condite
di pace e di rassegnazione: dategli dei libri, non quali li raffazzona
cotesta letteratura o speculatrice o pedantesca o sovversiva, che,
portando congestione nel cervello, cagiona paralisi alle braccia; bensì
quella che, se non può dire tutto, insegna a riflettere su tutto: dategli
la conoscenza de’ suoi diritti, non iscompagnata dal sentimento de’
suoi doveri: dategli quella dignità, che, gradendo i freni necessarj,
ripudia gli arbitrarj, da qualunque parte vengano: dategli lo spirito
d’associazione, con cui, migliorando la condizione sua particolare,
migliori quella di tutto il paese: dategli la passione pel vero, cercato
con lealtà, professato con intrepidezza: dategli il rispetto verso quegli
eroi d’una carità che il vulgo liberale non conosce tampoco, i quali soli
possono assodarvi quel potere delle coscienze, che rende superfluo il
potere della Polizia, e infondervi il sentimento religioso, l’unico che
esso intenda perfettamente, e che può servire di temperamento agli altri,
come è il migliore avviamento alla libertà.

A questo popolo insegniamo ch’è assurdo voler riformare il paese prima
di riformare se stessi; nè ottenere libertà e progresso senza il mutuo
rispetto, la tolleranza, l’abnegazione; che quanto meno inceppati si
vogliono gli atti esterni, più vien necessaria la disciplina, la quale
è insieme sapienza e verità; innamoriamolo della libertà, che consiste
nel diritto limitato dal dovere; innamoriamolo dell’ordine, che è la
libertà collettiva della società: insinuiamogli quella politica, franca
nell’opposizione non meno che nell’assenso, che aborre le frasi, che, tra
le impotenze e i dolori del secolo, assume la responsabilità de’ proprj
atti e ne accetta le conseguenze, ma allo scetticismo dissolvente surroga
la fede in qualche cosa, in qualche persona; sa amare, sa lodare fino i
nemici, e sagrificare fin le invidie; vuole la benevolenza e la stima, ma
non a prezzo delle proprie convinzioni.

Sciagurati i cospiratori che al popolo disabbelliscono le gioje della
vita e della natura collo spargervi il fiele dell’iracondia e il sospetto
contro ogni superiorità di posizione o di merito, lo ingannano colla
promessa di panacee politiche; e dopo infarcitogli d’ira e di calunnia
la parola, arrivano ad armargli il pugno di coltello o di fiaccole.
Sciagurati i Governi che, per fare contrasto a’ ricchi riottosi, non
sanno altro che esacerbare il rancore contro chi possiede, e irritare il
plateale sentimento dell’ingiusta distribuzione degli averi! Sciagurati
gli scrittori che adulano bassamente alla plebe, come un tempo faceasi ai
re, ridendo, beffando, mirando a dissolvere anzichè unire, solleticando
gli istinti vulgari, e fra piccolezze, vanità, immoralità clandestine,
fatuità compromettenti, perfide gelosie, pérdono di vista che, per
essere utile alla nazione, bisogna conoscere essa e i vicini e gli
avversarj, i fondamenti del suo passato, la realità del presente, la
probabilità dell’avvenire; e questi comparando, al vago sentimentalismo
surrogare massime concrete e positive, abituare a conoscere le cause e le
conseguenze, il carattere e le ispirazioni, in modo che dall’esito non si
prenda nè vanità nè scoraggiamento ma istruzione, e il convincimento che
solo dall’unione degli spiriti può derivare l’unione degli Stati.

Così anche le quistioni di politica si risolvono in quistione di morale;
e non crederemmo avere gettata la lunga nostra fatica se questa unica
verità avessimo fatta penetrare nella persuasione e negli atti de’ nostri
cari fratelli italiani: e siccome nessuno avrà amato questi più di noi,
così vorremmo che nessuno potesse apporci d’averli men sinceramente e meno
legittimamente o applauditi o imputati.


  _FINE, il marzo 1877._




CRONOLOGIA ITALICA


§ 1. — Re di Sicilia.

Fra gli antichi re di Sicilia si annoverano Cocalo, v. 1295 a. C.; Siculo,
1289; figliuoli d’Eolo, 1173.

_Siracusa_.

  _Governo aristocratico_                    735   a. C.   485
  Gelone, re di Gela 491, s’impadronisce
    di Siracusa                              484           478
  Gerone I                                   478           467
  Trasibulo                                  467           466
  _Democrazia_                               466     —     405
  Diocle                                          v. 412
  Dionigi il vecchio                         405           368
  Dionigi il giovine                         368           356
  Dione                                      356           354
  Callippo                                   354           353
  Ipparino                                   353           350
  Nipsio                                     350           347
  Dionigi il giovine _di nuovo_              347           343
  Timoleone                                  343           337
  Sosistrato                                      v. 320
  Agatocle                                   317           289
  _Democrazia_                               289     —     266
  Iceta, stratego della repubblica           289           280
  Tinione e Sosistrato                       280           278
  Pirro                                      278           276
  Gerone                                     276           269
  Gerone II re                               269           215
  Geronimo                                   215           214
  _Democrazia_                               214           210
  Andranodoro e Temistio; Epicide e
    Arpocrate; morte d’Archimede                    212
  Ridotta in provincia romana                       210

_Agrigento_.

  _Governo aristocratico_                    582   a. C.   566
  _Tiranni:_ Falaride                        566           534
  Alcmane e Alcandro                         534           488
  Terone                                     488           480
  Trasideo                                   480           470
  _Reggimento democratico_                          470


§ 2. — Re del Lazio.

  Giano           v. 1451
  Saturno            1415
  Pico               1382
  Fauno              1335
  Latino             1301
  Enea               1250
  Ascanio            1175
  Silvio Postumo     1136
  Enea Silvio        1107
  Latino Silvio      1068
  Alba Silvio        1018
  Episto Silvio       979
  Capi Silvio         953
  Carpento Silvio     925
  Tiberio Silvio      912
  Archippo Silvio     904
  Aremulo Silvio      863
  Aventino Silvio     844
  Proca Silvio        817
  Amulio Silvio       796


§ 3. — Re di Roma.

  Romolo                              753   a. C.   715
  Numa Pompilio                       714           671
  Tullo Ostilio                       671           639
  Anco Marzio                         639           614
  Tarquinio Prisco                    614           578
  Servio Tullio                       578           534
  Tarquinio il Superbo                534           509
    Seguono consoli annui.


§ 4. — Imperatori romani.

  Augusto                                     31  a. C.   14  d. C.
  Tiberio                                     14  d. C.   37
  Caligola                                    37          41
  Claudio I                                   41          54
  Nerone                                      54          58
  Galba, Ottone, Vitellio                     68          69
  Vespasiano                                  69          79
  Tito                                        79          81
  Domiziano                                   71          96
  Nerva                                       96          98
  Trajano                                     98         117
  Adriano                                    117         138
  Antonino                                   138         161
  Marco Aurelio e Lucio Vero                 161         169
  Marco Aurelio _solo_                       169         180
  Comodo                                     180         192
  Pertinace, Didio Giuliano, Nigro, Albino         193
  Settimio Severo                            193         211
  Caracalla e Geta                           211         212
  Caracalla _solo_                           212         217
  Macrino                                          217
  Eliogabalo o Elagabalo                     217         222
  Alessandro Severo                          222         235
  Massimino I                                235         237
  I due Gordiani, Massimo e Balbino          237         238
  Gordiano III _il Pio_                      238         244
  Filippo _l’Arabo_                          244         249
  Decio                                      249         251
  Gallo e Volusiano                          251         253
  Emiliano                                         253
  Valeriano                                  253         260
  Gallieno; i Trenta tiranni                 260         268
  Claudio II _il Gotico_                     268         270
  Quintilio                                        270
  Aureliano                                  270         275
  Tacito                                     275         276
  Floriano                                         276
  Probo                                      276         282
  Caro                                       282         284
  Carino e Numeriano                               285
  Diocleziano                                285   abd.  305
  Massimiliano Erculeo associato a
    Diocleziano                              286   abd.  305
  Costanzo {  succeduti  }                               306
  Cloro    {      a      }                   305
  Galerio  { Diocleziano }                               311
  Massenzio                                  306         312
  Massimino II Daza                          307         313
  Costantino I                               306         337
  Licinio                                    307         323
  Costantino II                              337         340
  Costante I                                 337         350
  Costanzo II                                337         361
  Giuliano _l’Apostata_                      361         363
  Gioviano                                   363         364
  Valentiniano I _in Occidente_              364         375
  Valente _in Oriente_                       364         378
  Graziano _in Occidente_                    375         383
  Valentiniano II _in Occidente_             383         390
  Teodosio I _in Oriente_                    379         395

_Impero romano d’Occidente_.

  Onorio                                     395         423
  Valentiniano III                           423?        455
  Petronio Massimo                                 455
  Avito                                      455         456
  Magioriano                                 457         461
  Libio Severo                               461         465
  _Interregno di 20 mesi_                    465    —    467
  Antemio                                    467         472
  Olibrio                                          472
  Glicerio                                   473         474
  Giulio Nepote                              474         475
  Romolo Augustolo                           475         476
  Fine dell’impero d’Occidente.
  Odoacre _erulo_, re d’Italia               476         493


§ 5. — Papi.

                                  Anno              Durata
                                  dell’elezione     del pontificato
                                                      _a.   m.  g._

  S. Pietro, galileo, principe
    degli Apostoli                          32        25     »   »
    Risedè prima in Antiochia,
      quindi dall’anno 42 in
      Roma, ove morì nel 67?
      dopo i venticinque anni,
      che la _Cronaca_
      d’Eusebio assegna al suo
      pontificato.
  S. Lino, di Volterra in Toscana,
    martire                                 67?       11     »   »
  S. Anacleto o Cleto, di Atene, martire    78        12     »   »
  S. Clemente I, romano, martire            91         9     »   »
  S. Evaristo, di Betlem, martire          100         9     »   »
  S. Alessandro I, romano                  109        10     »   »
  S. Sisto I, romano della gente
    Elvidia, martire                       119         9     »   »
  S. Telesforo, di Turio nella Magna
    Grecia, martire                        127        11     »   »
  S. Igino, ateniese, martire              139         4     »   »
  S. Pio, di Aquileja, martire             142        15     »   »
  S. Aniceto, d’Ancisa in Siria, martire   157        11     »   »
  S. Sotero, di Fondi in Campania          168         9     »   »
  S. Eleuterio, di Nicopoli, martire       177        16     »   »
  S. Vittore, africano, martire            193         9     »   »
  S. Zefirino, romano, martire             202        17     »   »
  S. Calisto I, romano della gente
    Domizia, martire                       219         4     »   »
  S. Urbano I, romano, martire             223         7     »   »
  S. Ponziano, romano della gente
    Calpurnia, martire                     230         5     »   »
  S. Antero, di Policastro nella Magna
    Grecia, martire                        235         »     1   »
  S. Fabiano, romano, della gente Fabia,
    martire                                236        14     »   »
  *Novaziano, primo antipapa               251         »     »   »
  S. Cornelio, romano, martire             251         1     3  10
  S. Lucio I, romano, martire              253         »     5   »
  S. Stefano, romano della gente Giulia,
    martire                                255         4     6   »
  S. Sisto II, ateniese, martire           257         »    11   »
  S. Dionisio, di Turio nella Magna
    Grecia, martire                        259        10     5   »
  S. Felice I, romano, martire             269         5     »   »
  S. Eutichiano, toscano, martire          275         8    11   »
  S. Cajo, di Salona in Dalmazia,
    martire                                283        12     4  17
  S. Marcellino, romano, martire           296         8     »   »
  S. Marcello I, romano, martire           304         4     7  20
  S. Eusebio, di Cassano in Calabria       310         »     4   »
  S. Melchiade o Milziade, africano        311         2     6   »
  S. Silvestro I, romano                   314        21    11   »
  S. Marco, romano                         336         »     8   »
  S. Giulio I, romano                      337        15     2  15
  S. Liberio, romano dei Savelli           352        14     4   2
  S. Felice II, romano, durante
    l’esiglio di Liberio, o come vicario
    di lui, o creato papa, forse
    illegittimamente; poi si ritirò
    a vita privata                         355         2     »   »
  S. Damaso I, da Vimarano in Portogallo   366        18     2   »
  *Ursicino                                366         »     »   »
  S. Siricio, romano                       384        14     »   »
  S. Anastasio I, romano                   398         3     »  10
  S. Innocenzo I, albanese                 401        15     »   »
  S. Zosimo, di Mesuraca nella Magna
    Grecia                                 417         1     9   9
  S. Bonifazio I, romano                   418         3     8   7
  *Eulalio                                 418         »     »   »
  S. Celestino, campano                    422        10     »   »
  S. Sisto III, romano                     432         8     »   »
  S. Leone I _Magno_, romano o
    toscano                                440        21     1   4
  S. Ilaro o Ilario, di Cagliari           461         6     »   »
  S. Simplicio, di Tivoli                  467        15     »   »
  S. Felice III, romano                    482?        9     »   »
  S. Gelasio I, africano                   492         4     9   »
  S. Anastasio II, romano                  496         2     »   »
  S. Simmaco, sardo                        496        15     8   »
  *Lorenzo                                 498         »     »   »
  S. Ormisda, di Frosinone in Campania     514         9     »  11
  S. Giovanni I, toscano, martire          523         2     9   »
  S. Felice IV, fimbrio, di Benevento      526         4     2   »
  Bonifazio II, di Roma, goto d’origine    530         2     »   »
  Giovanni II, Mercurio, romano            532         2     4   »
  S. Agapito I, romano                     535         »    10  19
  S. Silverio, di Frosinone, martire       536         2     »   »
  Vigilio, romano, eletto vivente ancora
    Silverio: poi riconosciuto come
    legittimo                              538        16     6   »
  Pelagio I Vicariano, romano              555         4    10  18
  Giovanni III, romano                     560        13     »   »
  Benedetto I, romano                      574         4     1  28
  Pelagio II, romano                       578        12     2  10
  S. Gregorio I Magno, romano degli
    Anicj                                  590        13     6  10
  Sabiniano, di Volterra                   604         3     3   9
  Bonifazio III, romano                    607         »     8  22
  S. Bonifazio IV, di Valeria ne’ Marsi    608         6     8  13
  S. Diodato, romano                       615         3     »   »
  Bonifazio V, napoletano                  618         6    10   »
  Onorio I, della provincia Campania       625         2    11  16
  Severino, romano                         640         »     3   4
  Giovanni IV, dalmatino                   640         1     9  18
  Teodoro I, greco, di Gerusalemme,
    oriondo greco                          642         6     2   9
  S. Martino I, di Todi, martire           649         6     2  12
  Eugenio I, romano, creato col consenso
    del predecessore vivente               654         2     8  42
  S. Vitaliano, di Segni in Campania       657        14     6   »
  Adeodato, romano                         672         4     2   »
  Dono I, romano                           676         1     5  11
  S. Agatone, di Reggio nella Magna
    Grecia                                 678         3     6  15
  S. Leone II, da Piana di San Martino
    nella Magna Grecia                     682         »    10  17
  S. Benedetto II, romano                  684         »    10  12
  Giovanni V, di Antiochia                 685         1     »  10
  *Pietro e Teodoro                        686         »     »   »
  Conone, siciliano, oriondo trace         686         »    11   »
  S. Sergio I, palermitano, oriondo
    d’Antiochia                            687        13     8  24
  *Teodoro e Pasquale                      687         »     »   »
  Giovanni VI, greco                       701         3     2  13
  Giovanni VII, di Rossano                 705         2     7  17
  Sisinnio, siro                           708         »     »  20
  Costantino, siro                         708         7     »  12
  S. Gregorio II, romano de’ Savelli       715        15     8  24
  S. Gregorio III, siro                    731        10     8   »
  S. Zaccaria, di Santa Severina nella
    Magna Grecia                           741        10     3  14
  Stefano II, romano                       752         »     »   3
    Morì d’apoplessia il terzo giorno
      dopo la sua elezione, e prima
      d’essere consacrato, onde presso
      alcuni cronologi non fa numero
      tra i papi di questo nome.
  Stefano III (o II), romano               752         5     »  20
  S. Paolo I, romano                       757        10     1   »
  *Teofilatto, Costantino, Filippo         767         »     »   »
  Stefano IV (o III), di Reggio nella
    Magna Grecia                           768         3     5  27
  Adriano I, romano dei Colonna            772        23    10  17
  S. Leone III, romano                     795        20     5  16
  Stefano V (o IV), romano                 816         »     7   »
  S. Pasquale I, romano                    817         7     »  17
  Eugenio II, romano                       824         3     »   »
  *Zizimo                                  824         »     »   »
  Valentino, romano                        827         »     1  10
  Gregorio IV, romano                      827        16     »   »
  Sergio II, romano                        844         3     »   »
  S. Leone IV, romano                      847         8     3   6
  Benedetto III, romano                    855         2     6  10
  *Anastasio                               855         »     »   »
  S. Nicola I, romano                      858         9     6  20
  Adriano II, romano                       867         4    11   »
  Giovanni VIII, romano                    872        10     »   2
  Marino I, di Gallese nel Patrimonio
    di San Pietro                          882         1     4   »
  Adriano III, romano                      884         1     4   »
    Credesi il primo che cambiasse nome.
      Prima si chiamava Agapito.
  Stefano VI (o V), romano                 885         6     »   »
  Formoso                                  891         5     »   »
    Già vescovo di Porto; ed è il primo
      trasferito da sede vescovile alla
      papale.
  *Bonifazio VI, toscano                   896         »     »  15
    Fa numero fra i pontefici di questo
      nome.
  Stefano VII o (VI), romano               896         1     2   »
  Romano, di Montefiascone?                897         »     4   »
  Teodoro II, romano                       898         »     »  20
  Giovanni IX, romano                      898         2     »  15
  Benedetto IV, romano                     900         3     »   »
  Leone V di Ardea                         903         »     1   9
  Cristoforo, romano                       903         »     6   »
  Sergio, romano                           904         7     »   »
    Già eletto nell’898.
  Anastasio III, romano                    911         2     2   »
  Landone, sabino                          913         »     6  10
  Giovanni X, romano                       914        14     2   »
  Leone VI, romano                         928         »     7   5
  Stefano VIII (o VII), romano             929         2     1  12
  Giovanni XI, romano de’ conti di
    Tuscolo                                931         4    10   »
  Leone VII, romano                        936         3     6  10
  Stefano IX (o VIII), dei duchi di
    Lorena                                 939         3     4  15
  Marino II o Martino III, romano          942         3     6   »
  Agapito II, romano                       946         9     7   »
  Giovanni XII, de’ Conti                  956         8     »   »
  *Leone VIII, romano                      963         »     »   »
    Fa numero tra i pontefici omonimi.
  Benedetto V, romano                      964         1     »   »
  Giovanni XIII, romano                    965         6    11   6
  Benedetto VI, romano                     972         1     3   »
  *Bonifazio VII (_Francone_)              974         »     »   »
  Dono II, romano, per breve tempo         974         »     »   »
  Benedetto VII, de’ Conti                 975         8     8   »
  Giovanni XIV, Pietro Canepanova,
    di Pavia                               983         »     9   »
    Privato della vita da Bonifazio VII,
      che per la seconda volta invase la
      Sede apostolica.
  Giovanni XV, romano, per pochi mesi o
    giorni                                 985         »     »   »
  Giovanni XVI, romano                     985        10     »   »
  Gregorio V, figlio di Ottone duca di
    Carinzia                               996         2     9  12
    Nel 997 Giovanni Filagato calabrese,
      vescovo di Piacenza, fu da
      Crescenzio tiranno di Roma
      collocato violentemente sul soglio
      pontifizio col nome di
  *Giovanni XVII                           997         »     »   »
  Silvestro II, Gerberto, d’Orillac in
    Alvernia                               999         4     1   9
  Giovanni XVII, Sicco, romano            1003         »     5  25
  Giovanni XVIII, Fasano, di Rapagnano
    presso Fermo                          1003         5     4  22
  Sergio IV, romano                       1009         3     »   »
  Benedetto VIII, de’ Conti               1012        11     9   »
  *Leone Gregorio                         1012         »     »   »
  Giovanni de’ Conti                      1024         9     »   »
  Benedetto de’ Conti                     1033        10     7   »
    Rinunziò.
  Nel 1043 *Silvestro III, poi *Giovanni
    XX, deposti nel 1046 da un concilio
    radunato a Sutri dall’imperatore
    Enrico III.
  Gregorio VI, Graziano, romano           1044         2     8   »
  Clemente II, dei signori di Marcsleve
    ed Horneburg in Sassonia              1046         »     9  15
  Damaso II, Poppone, di Baviera          1048         »     »  23
    Creato dopochè Benedetto IX di nuovo
      abdicò il pontificato, che avea
      invaso alla morte di Clemente II.
  S. Leone IX, Brunone, dei conti
    d’Egesheim in Alsazia                 1049         5     2  18
  Vittore II, dei conti Xew in Svevia     1055         2     3   »
  Stefano X (o IX), dei duchi di Lorena   1057         »     9   »
  *Benedetto X, de’ conti di Tuscolo,
    detto Mincio                          1058         »    10  18
    Da alcuni riputato legittimo, e fa
      numero tra i pontefici di questo
      nome. Abdicò il 18 gennajo 1059.
  Nicola II, Gerardo, di Borgogna         1058?        2     6  25
  Alessandro II, da Baggio, milanese      1061        11     6  21
  *Cadaloo (vescovo di Parma), detto
    Onorio II                             1061         »     »   »
  S. Gregorio VII, Ildebrando, di Soana
    nel Senese                            1073        12     1   4
  *Guiberto (arcivescovo di Ravenna),
    detto Clemente III                    1080         »     »   »
  Vittore III, Epifani di Benevento
    (già Desiderio abate di
    Montecassino)                         1086         1     3  24
  Urbano II, de’ signori di Châtillons,
    da Reims                              1088        11     4  18
  Pasquale II, Ranieri, di Bleda presso
    Viterbo                               1099        18     5  11
  *Alberto, Teodorico e Maginulfo,
    detto Silvestro IV, dopo Guiberto
    nel 1100                                 »         »     »   »
  Gelasio II, Giovanni di Gaeta           1118         1     »   5
  *Maurizio Burdino, detto Gregorio VIII  1118         »     »   »
  Calisto II, de’ conti di Borgogna       1119         5    10  13
  Onorio II, Fagnani, bolognese           1121         5     »  20
  Innocenzo II, romano, de’ Papi o
    Papereschi, che si reputa essere
    la famiglia Mattei                    1130        13     7  15
  *Pier di Leone, col nome di
    Anacleto II                           1130         »     »   »
  *Gregorio, col nome di Vittore IV       1138         »     »   »
  Celestino II, di Città di Castello      1143         »     5  13
  Lucio II, Caccianemici dall’Orso,
    bolognese                             1144         »    11  14
  Eugenio III, Paganelli, di Montemagno
    nel Pisano                            1145         8     4  10
  Anastasio IV, romano                    1153         1     4  23
  Adriano IV, Breakspeare, di Langley
    nel contado di Hartford               1154         4     8  29
  Alessandro III, Bandinelli, di Siena    1159        21    11  23
  *Ottaviano, Guido di Crema, Giovanni
    di Strum, e Landò Sitino,
    successivamente, coi nomi di Vittore
    III, Pasquale III, Calisto III, ed
    Innocenzo III.
  Lucio III, Ubaldo Allungoli, lucchese   1181         4     2  23
  Urbano III, Uberto Crivelli, milanese   1185         1    10  25
  Gregorio VIII, Alberto di Morra,
    beneventano                           1187         »     1  28
  Clemente III, Paolino Scolari, romano   1187         3     3   9
  Celestino III, Giacinto Orsini, romano  1191         6     9  10
  Innocenzo III, Lotario dei conti di
    Segni, da Anagni                      1198        18     6   9
  Onorio III, Cencio Savelli, romano      1216        10     8   1
  Gregorio IX, de’ conti di Segni         1227        14     5   »
  Celestino IV, Goffredo Castiglioni,
    milanese                              1241         »     »  17
  Innocenzo IV, Sinibaldo Fieschi,
    genovese                              1243        11     5  14
  Alessandro IV, Rinaldo de’ conti di
    Segni                                 1254         6     5  14
  Urbano IV, Giacomo Pantaleon, di
    Troyes                                1261         3     1   4
  Clemente IV, Guido Fulcodi o Foulques,
    linguadochese                         1265         3     9  20
  B. Gregorio X, Tibaldo Visconti,
    piacentino                            1271         4     4  10
  Innocenzo V, Pier di Tarantasia         1276         »     5   2
  Adriano V, Fiesco, genovese             1276         »     1   8
  Giovanni XXI, Pier Giuliano, di
    Lisbona                               1276         »     3   5
  Nicola III, Giangaetano Orsini, romano  1277         2     8  27
  Martino IV, Simone di Brion,
    sciampagnese                          1281         4     1   4
  Onorio IV, Giacomo Savelli, romano      1285         1     »   2
  Nicola IV, Girolamo Musei, di Lisciano
    presso Ascoli                         1288         4     1  14
  Celestino V, Pier Morone, d’Isernia     1294         »     5   9
    Rinunziò.
  Bonifazio VIII, Benedetto Cajetani,
    di Anagni                             1294         8     9  18
  Benedetto XI, Nicola Boccasini,
    trevisano                             1303         1     8   »
  Clemente V, Bertrando di Goth, di
    Villandraut presso Bordeaux           1305         8    10  15
  Giovanni XXII, Giacomo d’Euse, di
    Cahors                                1316        18     3  28
  *Pietro di Corberia negli Abruzzi,
    detto Nicola V                        1328         »     »   »
  Benedetto XII, Giacomo Fournier, da
    Saverdun nella contea di Foix         1334         7     4   6
  Clemente VI, Pietro Roger, di Maumont
    presso Limoges                        1342        10     7   »
  Innocenzo VI, Stefano d’Aubert, di
    Mont presso Limoges                   1352         9     8  26
  Urbano V, Guglielmo di Grimoard, del
    Gevaudan                              1362         8     1  23
  Gregorio XI, Pietro Roger, dei conti
    di Belford e Turenne, da Maumont      1370         7     2  20
  Urbano VI, Bartolomeo Prignano,
    napoletano                            1378        11     6   8
  *Clemente VII (Roberto di Ginevra)
    eletto a Fondi va a sedere in
    Avignone, e comincia il grande
    scisma d’Occidente. Nè questo nè
    i suoi successori contano nel
    catalogo dei pontefici                1378
  Bonifazio IX, Pierino Tomacelli,
    napoletano                            1389        14    11   »
  *Pietro di Luna, col nome di
    Benedetto XIII                        1394         »     »   »
  Innocenzo VII, Cosimo Meliorati, di
    Sulmona negli Abruzzi                 1404         2     »  21
  Gregorio XII, Angelo Correr, veneto     1406         »     »   »
    Il suo pontificato se si fa
      terminare nella sess. XV
      del concilio di Pisa, durò anni
      due, mesi sei e giorni quattro;
      se si prolunghi fino alla sess.
      XIV del concilio di
      Costanza, nella quale rinunziò,
      durò anni otto, mesi sette e
      giorni quattro.
  Alessandro V, Pietro Filargo, di
    Candia                                1409         »    10   8
  Giovanni XXIII, Baldassare Cossa,
    napoletano                            1410         5     »  13
  Martino V, Ottone Colonna, romano       1417        13     3   9
  *Clemente VIII (Gilles di Muñoz)
    eletto in Aragona dai cardinali di
    Pietro di Luna, dopo la costui morte  1424         »     »   »
  Eugenio IV, Gabriele Condulmer, veneto  1431         »     »   »
  *Felice V (già Amedeo VIII duca di
    Savoja), eletto dal concilio
    scismatico di Basilea. Rinunziò dopo
    10 anni                               1439         »     »   »
  Nicola V, Tommaso Tarentucelli, di
    Sarzana                               1447         »     »   »
  Calisto III, Alfonso Borgia, di
    Valenza in Ispagna                    1455         3     3  29
  Pio II, Enea Silvio Piccolomini, di
    Corsignano (Pienza)                   1458         5    11   »
  Paolo II, Pietro Barbo, veneto          1464         6    11  26
  Sisto IV, Francesco Della Rovere, nato
    in una villa presso Savona            1471        13     »   4
  Innocenzo VIII, Giambattista Cybo,
    genovese                              1484         7    10  27
  Alessandro VI, Rodrigo Lençol Borgia,
    di Valenza in Ispagna                 1492        11     »   8
  Pio III, Francesco Todeschini
    Piccolomini, sienese                  1503         »     »  27
  Giulio II, Giuliano Della Rovere,
    d’Albissola presso Savona             1503         9     3  20
  Leone X, Giovanni de’ Medici,
    fiorentino                            1513         8     8  12
  Adriano VI, Adriano Florent van
    Trusen, di Utrecht                    1522         1     8   6
  Clemente VII, Giulio de’ Medici,
    fiorentino                            1523        10    10   7
  Paolo III, Alessandro Farnese, romano   1534        15     »  29
  Giulio III, Gianmaria Ciocchi, di
    Monte San Savino                      1550         5     1  16
  Marcello II, Marcello Cervini, di
    Montepulciano                         1555         »     »  21
  Paolo IV, Gianpietro Caraffa,
    napoletano                            1555         4     2  27
  Pio IV, Gianangelo Medici, milanese     1559         5    11  15
  S. Pio V, Michele Ghislieri, di Bosco
    presso Tortona                        1566         6     3  24
  Gregorio XIII, Ugo Buoncompagni,
    bolognese                             1572        12    10  28
  Sisto V, Felice Peretti, di Montalto
    presso Ascoli                         1585         5     4   3
  Urbano VII, Giambattista Castagna,
    romano                                1590         »     »  13
  Gregorio XIV, Nicola Sfondrati,
    milanese                              1590         »    10  10
  Innocenzo IX, Gianantonio Facchinetti,
    bolognese                             1591         »     2   »
  Clemente VIII, Ippolito Aldobrandini,
    di Fano                               1592        13     1   3
  Leone XI, Alessandro Ottaviano de’
    Medici, fiorentino                    1605         »     »  27
  Paolo V, Camillo Borghese, romano       1605        15     7  13
  Gregorio XV, Alessandro Ludovisi,
    bolognese                             1621         2     5   »
  Urbano VIII, Maffeo Barberini,
    fiorentino                            1623        21     »   »
  Innocenzo X, Giambattista Panfili,
    romano                                1644        10     3  23
  Alessandro VII, Fabio Chigi, sienese    1655        12     1  16
  Clemente IX, Giulio Rospigliosi, di
    Pistoja                               1667         2     5  19
  Clemente X, Emiliano Altieri, romano    1670         6     2  24
  Innocenzo XI, Benedetto Odescalchi,
    comasco                               1676        12    10  23
  Alessandro VIII, Pietro Ottoboni,
    veneto                                1689         1     4   »
  Innocenzo XIII, Antonio Pignatelli,
    napoletano                            1691         9     2  16
  Clemente XI, Gianfrancesco Albano, di
    Pesaro                                1700        20     3  25
  Innocenzo XIII, Michelangelo Conti,
    romano                                1721         2    10   »
  Benedetto XIII, Pierfrancesco Orsini,
    romano                                1724         5     8  23
  Clemente XII, Lorenzo Corsini,
    fiorentino                            1730         9     6  25
  Benedetto XIV, Prospero Lambertini,
    bolognese                             1740        17     8   6
  Clemente XIII, Carlo Rezzonico, veneto  1758        10     6  28
  Clemente XIV, Gianvincenzo Antonio
    Ganganelli (già fra Lorenzo), di
    Sant’Arcangelo presso Rimini          1769         5     4   3
  Pio VI, Gianangelo Braschi, di Cesena   1775        24     6  14
  Pio VII, Barnaba Chiaramonti, di
    Cesena                                1800        23     5   6
  Leone XII, Annibale della Genga, di
    Spoleto                               1823         5     4  13
  Pio VIII, Francesco Saverio
    Castiglioni, di Cingoli               1829         1     8   »
  Gregorio XVI, Mauro Capellari, di
    Belluno                               1831        15     4   »
  Pio IX, Gianmaria dei conti
    Mastai-Ferretti, di Sinigaglia        1846


§ 6. — Imperatori e re d’Italia.

  Carlo Magno re dei Longobardi                   774
    incoronato imperatore            800 o 799  25 xbre  914
  _Pepino_ re d’Italia                     781           810
  _Bernardo_ re d’Italia                   810           818
  Luigi o Lodovico _il Pio_
    associato all’impero 813, re           818           840
  Lotario associato dall’817               820           855
  Luigi II associato dall’849              855           875
  Carlo _il Calvo_ imperatore e re         875           877
  Carlomanno re d’Italia                   877           879
  _Impero vacante_                         877     —     881
  Carlo _il Grosso_ re 879,
    imperatore                             881           887
  Guido da Spoleto re 889, imperatore      891           894
  Berengario I re 888, imperatore          915           924
  Lamberto imperatore e re                 894           898
  Arnolfo imperatore e re                  896           899
  Luigi III re 899, imperatore             901           903 o 905
  Rodolfo di Borgogna re                   922           926
  Ugo re                                   926           947
  Lotario associato dal 931, re            947           950
  Berengario II e Adalberto, re            950           961
  Ottone I re 961, imperatore              962           973
  Ottone II imperatore 973, re di
    Germania                               962           983
  Ottone III imperatore 996                983          1002
  Enrico II imperatore 1014               1002          1024
  Corrado II _Salico_ imperatore 1027,
    re di Borgogna 1032                   1024          1039
  Enrico III imperatore 1046              1039          1056
  Enrico IV imperatore 1053               1056          1106
  Enrico V imperatore 1111                1106          1125
  Lotario II imperatore 1133              1125          1137
  Corrado III di Hohenstaufen             1138          1152
  Federico I _Barbarossa_ imperatore
    1155                                  1152          1190
  Enrico VI imperatore 1191               1190          1197
  _Filippo di Svevia_                     1198          1208
  Ottone IV imperatore 1209               1198          1218
  Federico II imperatore 1220             1212          1250
  Corrado IV                              1250          1251
  _Grande interregno_                     1254     —    1273
  _Guglielmo d’Olanda_                    1247          1256
  _Ricardo di Cornovaglia_                       1257         m. 1272
  _Alfonso di Castiglia_                  1257          1273
  Rodolfo I d’Habsburg                    1273          1291
  Adolfo di Nassau                        1292          1298
  Alberto I d’Austria                     1298          1308
  Enrico VII di Luxemburg imperatore
    1312                                  1308          1313
  Luigi V _il Bavaro_ imperatore
    1328                                  1314          1347
  _Federico III il Bello_                 1314   abd.   1325
  Carlo IV di Boemia imperatore 1355      1347          1378
  Venceslao                               1378   dep.   1400  m. 1419
  Roberto                                 1400          1410
  Josse                                   1410          1411
  Sigismondo imperatore 1433              1410          1437
  Alberto II, d’Austria come i
    successivi                            1438          1439
  Federico III imperatore 1452            1439          1493
  Massimiliano I                          1493          1519
  Carlo V                                 1519   abd.   1556  m. 1558
  Ferdinando I                            1556          1564
  Massimiliano II                         1564          1576
  Rodolfo II                              1576          1612
  Mattia                                  1612          1619
  Ferdinando II                           1619          1637
  Ferdinando III                          1637          1657
  _Interregno di 15 mesi._
  Leopoldo I                              1658          1705
  Giuseppe I                              1705          1711
  Carlo VI                                1711          1740
  _Interregno di 6 mesi._
  Carlo VII d’Hannover                    1742          1745
  _Maria Teresa_ e Francesco I di
    Lorena                                1745          1765
  Giuseppe II                             1765          1790
  Leopoldo II                             1790          1792
  Francesco II                            1792          1835
    che nel 1806 rinunzia al titolo
    d’imperatore romano, e così l’impero
    si scioglie.


§ 7. — Re ostrogoti.

  Teodorico                                493           526
  Atalarico                                526           534
  Teodato                                  534           536
  Vitige                                   536   dep.    540  m. 543?
  Eldibaldo o Teodebaldo                   540           541
  Erarico                                         541
  Totila (_Baduilla_)                      541           552
  Teja                                     552           553
  I Greci, guidati da Narsete, rimangono padroni dell’Italia nel 554.


§ 8. — Esarchi di Ravenna.

  Narsete, duca d’Italia                   554           568
  Longino, primo esarca                    568           584
  Smaragdo                                 584           590
  Romano                                   590           597
  Callinico                                597           602
  Smaragdo _di nuovo_                      602           611
  Lemigio                                  611           616
  Eleuterio                                616           619
  Isacco                                   619           638
  Platone                                  638           648
  Teodoro I Calliopa                       648           649
  Olimpio                                  649           652
  Teodoro Calliopa _di nuovo_              652           666
  Gregorio                                 666           678
  Teodoro II                               678           687
  Giovanni Platino                         687           702
  Teofilace o Teofilatto                   702           710
  Giovanni Rizocopo                        710           711
  Eutichio                                 711           713
  Scolastico                               713           727
  Paolo                                    727           728
  Eutichio _di nuovo_                      728           752
  Astolfo longobardo pon fine all’esarcato nel 752.


§ 9. — Re longobardi.

  Alboino, vincitore de’ Gepidi,
    chiamato da Narsete in Italia          568           573
  Clefi                                    573           575
  Governo dei 30 duchi                     575           584
  Autari                                   584           590
  Agilulfo                                 591           615
  Adaloaldo                                615   dep.    625  m. 626
  Ariovaldo                                625?          636
  Rotari                                   636           652
  Rodoaldo                                 652           653
  Ariberto I                               653           661
  Gondiberto e Pertarito                   661           662
  Grimoaldo                                662           671
  Garibaldo                                      671
  Pertarito _rimesso in trono_             671           686
  Cuniberto il Pio, associato dal 678      686           700
  Luitperto o Liutperto                    700           701
  Ragimperto                                     701
  Ariberto II                              701           712
  Ansprando                                      712
  Liutprando o Luitprando                  712           744
  Ildebrando, assoc. dal                   736           744
  Rachi                                    744   abd.    749
  Astolfo                                  749           756
  Desiderio                                      756
  Adelchi o Adelgiso associato v.          759    m.     788
  Carlomagno s’impadronisce del regno dei Longobardi nel 774.


§ 10. — Duchi del Friuli.

  Grasolfo I                               568           590
  Gisulfo                                  590           611
  Grasolfo II                              611           621
  Tasone e Cacone                          621           635
  Grasolfo II _di nuovo_                   635           651
    _Alcuni cronologi mettono_
  Gisulfo                                  568           615
  Tasone e Cacone suoi figli               615           635
  Grasolfo fratello di Gisulfo             635           651
  Agone                                    651           663
  Lupo                                     663           666
  _Varnefrido_                                   664
  Vettari                                  666           678
  Laudari                                        678
  Rodoaldo, Ansfrido, Adone                      694
  Ferdolfo _ligure_                        694           706
  Corvolo                                        706
  Pemmone bellunese                        706           737
  I suoi figli Rachi e Astolfo re dei
    Longobardi                             737           749
  Anselmo, loro fratello                   749   abd.    751  m. 803
  Pietro                                   751           775?
  Rodgaudo                                 775           776
  Marcario (Marquard)                      776             —
  Unrico (Hurok) I                           —           799
  Cadaloaco                                799           819
  Bodrico o Balderico                      819           846
  Everardo                                 846           868?
  Unrico II suo figlio                     868           874
  Berengario (_re d’Italia_, 888)          874           878  m. 924
  Gualfredo                                878           895
  Grimoaldo                                895           922
  Enrico III, fratello di Ottone Magno     922           952
  Non appajono più duchi del Friuli.


§ 11. — Duchi di Spoleto.

  Faroaldo I                               570           601
  Ariulfo                                  601           602
  Teodolapio                               602           650
  Attone                                   650           665
  Trasimondo I                             675           703
  Faroaldo II                              703           724
  Trasimondo II                            724           740
  Ilderico                                 740           741
  Ansprando                                741           746
  Lupo o Lupone                            746           757
  Alboino                                  757           758
  Gisulfo                                  759           763
  Teodorico o Teodicio                     763           773
  Ildebrando                               773           789
  Vinigiso                                 789           822
  Suppone I                                822           824
  Adalardo, Mauringo, Berengario           824           838
  Guido I                                  838           866
  Lamberto I                               866           871
  Suppone II                               871           879
  Guido II                                 879           880
  Guido III (_re d’Italia_, 889)           880           891  m. 894
  Lamberto II                              891           898
  Guido IV                                       898
  Agiltrude, _Anonimo_, Alberico            898           926
  Teodobaldo I                             926           935
  Anscario                                 935           940
  Sarilone                                 940           943
  Umberto                                  943           946
  Bonifazio I e Teodobaldo II              946           959
  Trasimondo III                           959           967
  Pandolfo _Testa di ferro_                967           981
  Trasimondo IV                            982           989
  Ugo I _il Grande_                        989          1001
  Bonifazio II                            1001          1012
  Giovanni, Ugo II                        1012          1030
  I duchi di Spoleto diventano governatori, mutabili ad arbitrio degli
  imperatori e re d’Italia.


§ 12. — Duchi, poi principi di Benevento.

  Zottone                            571 o 589           591
  Arigiso o Arechi I                       591           641
  Ajone I                                  641           642
  Rodoaldo                                 642           647
  Grimoaldo I (_re de’ Longobardi_ 662)    647           667  m. 671
  Romoaldo I                               667           683
  Grimoaldo II                             684           686
  Gisulfo I                                686           703
  Romoaldo II                              703           729
  Gisulfo II                               729           731
  Andela                                   731           733
  Gregorio                                 733           740
  Godescalco                               740           741
  Gisulfo II _ristabilito_                 741           747?
  Liutprando                               747           758
  Arigiso II, _principe nel 774_           758           787
  Grimoaldo III (o I)                      787           806
  Grimoaldo IV (o II)                      806           827
  Sicone                                   827           833
  Sicardo                                  833           840
  Radelgiso I                              840           851
  Radelgario                               851           853
  Adelgiso                                 853?          878
  Gaideriso                                878?          881
  Radelgiso II                             881           884
  Ajone (II)                               884           890
  Orso                                     890           894
  Guido (IV _duca di Spoleto_)             894           896
  Radelgiso II _ristabilito_               896           900
  Atenolfo I                               900           910
  Landolfo I e Atenolfo II                 910           943
  Landolfo II e Landolfo III               943           961
  Pandolfo I                               961           981
  Landolfo IV                              981           982
  Pandolfo II                              982          1012
  Landolfo V                              1012          1033
  Pandolfo III                            1033          1053
  _Landolfo VI_                           1038          1053
  Rodolfo                                 1053          1054
  Pandolfo III e Landolfo VI _di nuovo_   1054          1077
  Pandolfo abdica, e Landolfo gli
    sostituisce suo figlio Pandolfo IV    1059          1074
  Fine de’ principi longobardi di Benevento.


§ 13. — Conti e duchi di Puglia e Calabria.

  Guglielmo I _conte_                     1043          1046
  Drogone                                 1046          1051
  Umfredo                                 1051          1059
  Roberto Guiscardo _duca_                1059          1085
  Ruggero                                 1085          1111
  Guglielmo II                            1111          1127


§ 14. — Conti e re delle Due Sicilie.

  Ruggero I conte di Sicilia       1061 o 1074          1101
  Ruggero II                              1101
    s’impadronisce della Puglia           1127
    re di Puglia e Sicilia col
    nome di Ruggero I                     1130          1154
  Guglielmo I _il Malo_                   1154          1166
  Guglielmo II _il Buono_                 1166          1189
  _Tancredi_ conte di Lecce               1189          1194
  Guglielmo III                           1194          1195
  Enrico VI (o I) di Hohenstaufen         1194          1197
    marito di Costanza, morta nel 1198.
  Federico I, II come imper.              1197          1250
  Corrado                                 1250          1254
  Corradino                               1254          1258
  Manfredi                                1258          1266
  Carlo I d’Anjou                         1266          1285
    perde la Sicilia nel 1282.

_Re di Sicilia._

  Pietro d’Aragona                        1282          1285
  Giacomo                                 1285          1295
  Federico I (o II) _re di Trinacria_     1296        1337
  Pietro II                               1337          1342
  Lodovico                                1342          1355
  Federico II (o III) _il Semplice_       1355          1377
  Maria                                   1377          1402
  Martino I                               1392          1409
  Martino II                              1409          1410
  Ferdinando I di Castiglia               1412          1416
  Alfonso I d’Aragona, ottiene anche il
    regno di Napoli                       1416          1458
  Giovanni I                              1458          1479
  Ferdinando II _il Cattolico_,
    anche re di Napoli come Ferdinando
    III                                   1479          1516

_Re di Napoli contemporanei a quelli._

  Carlo II _il Zoppo_                     1285          1309
  Roberto (II) _il Savio_                 1309          1343
  Giovanna I                              1343          1381
  _Luigi_ di Taranto                      1352          1362
  Carlo III[150]                          1381          1386
  Ladislao                                1386          1414
  Giovanna II                             1414          1435
  _Renato_ d’Anjou                        1435          1442
  Alfonso I d’Aragona                     1442          1458
  Ferdinando I                            1458          1494
  Alfonso II                              1494          1495
  Ferdinando II                           1495          1496
  Federico II                             1496          1501
  Ferdinando III (già II di Sicilia)      1504          1516
  Carlo V come imperatore, IV di Napoli,
    II di Sicilia, I di Spagna            1516          1554
  Filippo I, II di Spagna                 1554          1598
  Filippo II, III di Spagna               1598          1621
  Filippo III, IV di Spagna               1621          1665
  Carlo V di Napoli, III di Sicilia,
    II di Spagna                          1665          1700
  Filippo IV, V di Spagna                 1700          1707

_Re di Sicilia._

  Vittorio Amedeo di Savoja               1713
  Carlo d’Austria, VI di Napoli nel
    1707 e come imperatore         1720 o 1721

_Re delle Due Sicilie della Casa di Borbone._

  Carlo di Borbone figlio di Filippo V,
    III di Spagna, VII di Napoli          1735          1759
  Ferdinando IV di Napoli, III di         1759   dep.   1798
    Sicilia ristabilito                   1802   dep.   1805
  Giuseppe Buonaparte re di Napoli e
    Sicilia, 30 marzo                     1806
  Gioachino Murat, 15 luglio              1808  ucciso  1815
  Ferdinando suddetto è ristabilito col
    titolo di Ferdinando I re del regno
    delle Due Sicilie                     1815          1825
  Francesco I                             1825          1830
  Ferdinando II                           1830          1859
  Francesco II, 20 marzo                  1859  spod.   1860


§ 15. — Duchi di Parma e Piacenza.

  Questi paesi formarono parte del ducato di Milano, fin quando
    papa Paolo III li diede a suo figlio naturale Pier Luigi Farnese,
    primo duca                            1545          1547
  Ottavio                                 1547          1585
  Alessandro                              1585          1592
  Ranuccio I                              1592          1622
  Odoardo                                 1622          1646
  Ranuccio II                             1646          1694
  Francesco                               1694          1727
  Antonio                                 1727          1731
    Estintasi coi tre precedenti
    fratelli la casa Farnese,
    Elisabetta, figlia di Odoardo
    e moglie di Filippo V di Spagna,
    seppe far toccare quel dominio a
    suo figlio don Carlo di Borbone       1731          1748
  Don Filippo                             1748          1765
  Ferdinando                              1765          1802
  Luigi I                                 1802          1803
    cede Parma e Piacenza alla Francia,
    ed ottiene la Toscana sotto il
    titolo di _re d’Etruria._
  Carlo Luigi II                          1803   dep.   1807
  Maria Luigia d’Austria, imperatrice
    dei Francesi, _duchessa di Parma_     1815          1847
  Carlo Luigi suddetto                    1847   abd.   1849
  Carlo III                               1849          1854
  Roberto (_Luigia di Borbone
    reggente_), 27 marzo                  1854   spod.  1859


§ 16. — Marchesi, duchi e granduchi di Toscana.

  Bonifazio I (o II) marchese di Toscana   828           845
  Adalberto I _il Ricco_                   845           890
  Adalberto II                             890           917
  Guido                                    917           929
  Lamberto                                 929           931
  Bosone                                   931           936
  Umberto                                  936           961
  Ugo _il Grande_                          961          1001
  Adalberto III                           1001          1014
  Riniero                                 1014          1027
  Bonifazio II (o III)                    1027          1052
  Federico                                1052          1055
  Beatrice                                1055          1076
  Matilde                                 1076          1115
    morendo, fa donazione alla santa
    Sede; ma Enrico V imperatore ne
    occupa i beni, e mette al governo
    della Toscana presidi e marchesi
    amovibili, che durano                 1116     —    1133
  Enrico _l’Orgoglioso_, investito
    duca di Toscana dall’imperatore
    Lotario II                                   1133
  Ingelberto, eletto vicario del duca
    Enrico dal concilio Pisano, poi
    scacciato dai Lucchesi                1134     o    1135
    ristabilito da Lotario II                    1137
  Ulderico, creato marchese di Toscana
    dall’imperatore Corrado III           1139          1153
  Welfeste, fratello del duca Enrico,
    creato marchese dall’imperatore
    Federico Barbarossa                   1153          1195
  Filippo, quintogenito del Barbarossa,
    eletto marchese dall’imperatore
    Enrico VI                                    1195
  Cominciano le fazioni dei Guelfi e
    Ghibellini                                   1198
  La Toscana si regge a repubblica
    fino al                                      1530
  Allora Carlo V soggiogatala, vi pone
    _duca_ Alessandro de’ Medici          1531          1537
  Cosimo I de’ Medici                     1537
    ha il titolo di _granduca_ di
    Toscana                               1569          1574
  Francesco Maria Medici                  1574          1587
  Ferdinando I                            1587          1609
  Cosimo II                               1609          1621
  Ferdinando II                           1621          1670
  Cosimo III                              1670          1723
  Gian Gastone                            1723          1737
  Estinta la linea medicea, vi è
    surrogato Francesco Stefano di
    Lorena                                1737          1765
  Un atto di Francesco I imperatore del
    14 luglio 1765 stabilì che il
    granducato sarebbe una
    secondogenitura della Casa
    d’Austria. Perciò gli succede il
    secondogenito Leopoldo                       1765
  Essendo questo eletto imperatore di
    Germania nel 1790, succede nel
    granducato il suo secondogenito
    Ferdinando III                               1790
  Nella pace di Luneville 1801, il
    granducato è dato alla infante Luigia
    di Parma.
  Elisa Buonaparte è creata granduchessa
    di Toscana                                   1807
  Ferdinando III ritorna                  1814          1824
  Leopoldo II                             1824
    che, per abdicazione del duca Carlo
    Luigi di Lucca (1847) acquista anche
    questo ducato. È espulso nel 1859.


§ 17. — Duchi di Ferrara, Modena e Reggio.

  La Casa longobarda dei principi d’Este si divise in due rami 1097;
    uno con Guelfo si stabilì in Germania, ove dominò il
    Brunswik-Luneburg, e salì al trono inglese; l’altro con Folco
    stette in Italia. Borso, discendente da questo, fu da
    Federico II imperatore
    fatto duca di Modena e Reggio         1453          1471
  Ercole I                                1471          1505
  Alfonso I                               1505          1534
  Ercole II                               1534          1559
  Alfonso II                              1559          1597
  Cesare d’Este                           1597          1628
    che nel 1598 perde il ducato di
    Ferrara.
  Modena, come feudo imperiale, è
    data ad Alfonso III figlio di Cesare  1628   abd.   1629  m. 1644
  Francesco I                             1629          1658
  Alfonso IV                              1658          1662
  Francesco II                            1662          1694
  Rinaldo                                 1694          1737
  Francesco III                           1737          1780
  Ercole III Rinaldo                      1780   dep.   1797  m. 1803
    la cui unica figlia Maria Beatrice
    nel 1771 sposa
  Ferdinando Carlo _arciduca d’Austria_   1803          1806
  Francesco IV                            1806
    entra in possesso                     1814
    succede a sua madre Maria Beatrice
    nel ducato di Massa e principato
    di Carrara, e diviene ceppo
    d’una nuova Casa d’Este               1829          1846
  Francesco V, 2 gennajo                  1846  sposs.  1859


§ 18. — Dogi di Venezia.

  Paoluccio Anafesto, primo doge                  697
  Marcello Tegagliano                             717
  Orso Participazio                               726
  _Maestri della milizia_                  737      —     742
  Deodato Orso, doge                              742
  Galla                                           755
  Domenico Monegario                              756
  Maurizio Galbajo                                764
  Giovanni Galbajo                                784
  Obelerio                                        804
  Angelo Participazio                             810?
  Giustiniani Participazio                        827
  Giovanni Participazio I                         829
  Pietro Tradonico o Gradenigo                    837
  Giovanni (_figlio e collega_)
  Orso Participazio II                            881
  Pietro, poi Orso (_fratelli e colleghi_)
  Pietro Candiano I                               887
  Giovanni Participazio II
  Domenico Tribuno (_da alcuni_)
  Pietro Badoero Tribuno                          888
  Orso Participazio II (o III)                    912
  Pietro Candiano II                              932
  Pietro Participazio o Badoero                   939
  Pietro Candiano III                             942[151]
  Pietro Candiano IV                              959
  Pietro Orseolo I                                976
  Vitale Candiano                                 978
  Tribuno Memmi                                   979
  Pietro Orseolo II                               991
  Ottone Orseolo                                 1009
  Pietro Centranigo                              1026?
  Orso Orseolo _patriarca_
  Domenico Flabanico                             1032
  Domenico Contarini                             1043
  Domenico Silvio                                1071
  Vitale Faliero                                 1084
  Vitale Michiel I                               1096
  Ordelafo Faliero                               1102
  Domenico Michiel                               1117
  Pietro Polano                                  1130
  Domenico Morosini                              1148
  Vitale Michiel II                              1156
  Sebastiano Ziani                               1172
  Orso Malipiero                                 1179
  Enrico Dandolo                                 1192
  Pietro Ziani                                   1205
  Jacopo Tiepolo                                 1229
  Marino Morosini                                1249
  Renier Zeno                                    1252
  Lorenzo Tiepolo                                1268
  Giacomo Contarini                              1275
  Giovanni Dandolo                               1279?
  Pietro Gradenigo                               1289
  Marino Giorgi                                  1311
  Giovanni Soranzo                               1312
  Francesco Dandolo                              1328
  Bartolomeo Gradenigo                           1339
  Andrea Dandolo                                 1343?
  Marino Faliero                                 1354
  Giovanni Gradenigo                             1355
  Giovanni Delfino                               1356
  Lorenzo Celsi                                  1361
  Marco Cornaro                                  1365
  Andrea Contarini                               1367
  Michele Morosini                               1382
  Antonio Venier                                 1382
  Michele Steno                                  1400
  Tommaso Mocenigo                               1414
  Francesco Foscari                              1423
  Pasquale Malipiero                             1457
  Cristoforo Moro                                1462
  Nicola Tron                                    1471
  Nicola Marcello                                1473
  Pietro Mocenigo                                1474
  Andrea Vendramin                               1476
  Giovanni Mocenigo                              1478
  Marco Barbarigo                                1485
  Agostino Barbarigo                             1486
  Leonardo Loredano                              1501
  Antonio Grimani                                1521
  Andrea Gritti                                  1523
  Pietro Lando                                   1539
  Francesco Donato                               1545
  Marcantonio Trevisan                           1553
  Francesco Venier                               1554
  Lorenzo Priuli                                 1556
  Girolamo Priuli                                1559
  Pietro Loredano                                1567
  Luigi Mocenigo                                 1570
  Sebastiano Venier                              1577
  Nicola Da Ponte                                1578
  Pasquale Cicogna                               1585
  Marino Grimani                                 1595
  Leonardo Donato                                1606
  Marcantonio Memmi                              1612
  Giovanni Bembo                                 1615
  Nicola Donato                                  1618
  Antonio Priuli                                 1618
  Francesco Contarini                            1623
  Giovanni Cornaro                               1624
  Nicola Contarini                               1630
  Francesco Erizzo                               1631
  Francesco Molin                                1646
  Carlo Contarini                                1655
  Francesco Cornaro                              1656
  Bernuccio Valier                               1656
  Giovanni Pesaro                                1658
  Domenico Contarini                             1659
  Nicola Sagredo                                 1675
  Luigi Contarini                                1676
  Marcantonio Giustiniani                        1684
  Francesco Morosini                             1688
  Silvestro Valier                               1694
  Luigi Mocenigo                                 1700
  Giovanni Cornaro                               1709
  Sebastiano Mocenigo                            1722
  Carlo Ruzzini                                  1732
  Luigi Pisani                                   1735
  Pietro Grimani                                 1741
  Francesco Loredano                             1752
  Marco Foscarini                                1762
  Alvisio Mocenigo                               1763
  Paolo Renier                                   1779
  Luigi Manin, ultimo doge                1789          1797


§ 19. — Genova.

  Questa repubblica è successivamente governata da consoli, podestà
   e capitani del popolo; incomincia ad aver dogi con
  Simone Boccanegra                              1339
  Giovanni De-Murta                              1344
  Giovanni De-Valenti                            1350
  Genova si dà al signore di Milano              1352
    e ristabilisce il dogato con Simone
    Boccanegra                                   1356
  Gabriele Adorno                                1363
  Domenico Fregoso                               1370
  Antoniotto Adorno, deposto                     1378
  Nicolò Guarco                                  1378
  Leonardo Montaldo                              1383
  Antoniotto Adorno                              1384
  Giacomo Fregoso                                1390
  Antoniotto Adorno                              1391
  Antonio Montaldo                               1392
  Clemente Promontorio                           1393
  Francesco Giustiniani                          1393
  Nicolò Zoagli, Antonio Guarco e
    Antoniotto Adorno                            1394
  Genova si dà alla Francia                      1396
    poi al marchese di Monferrato                1409
  Giorgio Adorno, doge                           1413
  Barnaba Giano                                  1415
  Tommaso Campofregoso                           1415
  Genova si arrende al duca di Milano            1421
    e dopo quindici anni nomina doge
    Isoardo Guarco                               1436
  Tommaso Campofregoso                           1436
  Battista Fregoso                               1437
  Tommaso Campofregoso                           1437
  Rafaele Adorno                                 1443
  Barnaba Adorno e Giovanni Fregoso              1447
  Luigi Fregoso                                  1418
  Pietro Fregoso                                 1450
  Genova si dà alla Francia                      1458
  Prospero Adorno, doge                          1461
  Spinetta Fregoso e Luigi Fregoso               1461
  Paolo Fregoso, arcivescovo                     1463
  Genova soggetta al duca di Milano              1464
  Prospero Adorno                                1478
  Battista Fregoso                               1478
  Paolo Fregoso, arcivescovo                     1483
  Genova soggetta al duca di Milano              1487
    poi alla Francia                             1499
  Paolo da Novi, doge popolare                   1507
  Giovanni Fregoso                               1512
  Ottaviano Fregoso                              1513
    il quale dal 1515 al 1522 è governatore
    regio
  Antoniotto Adorno                              1522
  Cacciati i Francesi, Genova adotta il
    governo dei dogi biennali
  Oberto di Lazzaro Cattaneo                     1528
  Battista Spinola                               1531
  Giambattista Lomellino                         1533
  Cristoforo Grimaldo-Rosso                      1535
  Giambattista Doria                             1537
  Gianandrea Giustiniani                         1539
  Leonardo Cattaneo                              1541
  Andrea Centurione-Pietrasanta                  1543
  Giambattista Fornari                           1545
  Benedetto Gentile                              1547
  Gaspare Bracelli-Grimaldo                      1549
  Luca Spinola                                   1551
  Giacomo Promontorio                            1553
  Agostino Pinelli                               1555
  Pier Giovanni Cybo-Chiavari                    1557
  Gerolamo Vivaldi                               1559
  Paolo Battista Calvi-Giudice                   1561
  Battista Cicala-Zoagli                         1561
  Giambattista Lercaro                           1563
  Ottavio Gentile Oderico                        1565
  Simone Spinola                                 1567
  Paolo Moneglia-Giustiniani                     1569
  Gianotto Lomellino                             1571
  Giacomo Durazzo-Grimaldo                       1573
  Prospero Fattinanti-Centurione                 1575
  Giambattista Gentile                           1577
  Nicola Doria                                   1579
  Girolamo De-Franchi                            1581
  Girolamo Chiavari                              1583
  Ambrogio De-Negro                              1585
  David Vaccaro                                  1587
  Battista Negrone                               1589
  Gianagostino Giustiniani                       1591
  Antonio Grimaldo Cebà                          1593
  Matteo Senarega                                1595
  Lazzaro Grimaldo-Cebà, morto doge              1597
  Lorenzo Sauli                                  1599
  Agostino Doria                                 1601
  Pietro De-Franchi, già Sacco                   1603
  Luca Grimaldo                                  1605
  Silvestro Invrea, morto doge                   1607
  Girolamo Assereto                              1607
  Agostino Pinelli                               1609
  Alessandro Giustiniani                         1611
  Tommaso Spinola                                1613
  Bernardo Clavarezza                            1615
  Giangiacomo Imperiali                          1617
  Pietro Durazzo                                 1619
  Ambrogio Doria, morto doge                     1621
  Giorgio Centurione, che rifiutò
    la dignità                                   1623
  Federico De-Franchi                            1623
  Giacomo Lomellino                              1625
  Gianluca Chiavari                              1627
  Andrea Spinola                                 1629
  Leonardo Torre                                 1631
  Giovanni Stefano Doria                         1633
  Gianfrancesco Brignole                         1635
  Agostino Pallavicino                           1637
  Giambattista Durazzo                           1639
  Gianagostino De-Marini, morto doge             1641
  Giambattista Lercaro                           1642
  Luca Giustiniani                               1644
  Giambattista Lomellini                         1646
  Giacomo De-Franchi                             1648
  Agostino Centurione                            1650
  Girolamo De Franchi                            1652
  Alessandro Spinola                             1654
  Giulio Sauli                                   1656
  Giambattista Centurione                        1658
  Gianbernardo Frugone, morto doge               1660
  Antoniotto Invrea                              1661
  Stefano Mari                                   1663
  Cesare Durazzo                                 1665
  Cesare Gentile                                 1667
  Francesco Garbarino                            1669
  Alessandro Grimaldo                            1671
  Agostino Saluzzo                               1673
  Antonio Da-Passano                             1675
  Giovannettino Odone                            1677
  Agostino Spinola                               1679
  Luca Maria Invrea                              1681
  Francesco Imperiali-Lercari                    1683
  Pietro Durazzo                                 1685
  Luca Spinola                                   1687
  Oberto Torre                                   1689
  Giambattista Cattaneo                          1691
  Francesco Invrea                               1693
  Bendinelli Negrone                             1695
  Francesco Maria Sauli, morto doge              1697
  Girolamo Mari                                  1699
  Federico De-Franchi                            1701
  Antonio Grimaldo                               1703
  Stefano Onorato Ferretto                       1705
  Domenico Maria Mari                            1707
  Vincenzo Durazzo                               1709
  Francesco Maria Imperiali                      1711
  Gianantonio Giustiniani                        1713
  Lorenzo Centurione                             1715
  Benedetto Viale                                1717
  Ambrogio Imperiali                             1719
  Cesare De-Franchi                              1721
  Domenico Negrone                               1723
  Girolamo Veneroso                              1726
  Luca Grimaldo                                  1728
  Francesco Maria Balbi                          1730
  Domenico Maria Spinola                         1732
  Stefano Durazzo                                1734
  Nicolò Cattaneo                                1736
  Costantino Balbi                               1738
  Nicolò Spinola                                 1740
  Domenico Canavero                              1742
  Lorenzo Mari                                   1744
  Gianfrancesco Brignole                         1746
  Cesare Cattaneo                                1748
  Agostino Viale                                 1750
  Stefano Lomellino, che abdicò                  1752
  Giambattista Grimaldo                          1752
  Gian Gioachino Veneroso                        1754
  Giacomo Grimaldo                               1756
  Matteo Franzoni                                1758
  Agostino Lomellino                             1760
  Rodolfo Brignole-Sale                          1762
  Francesco Maria Rovere                         1765
  Marcello Durazzo                               1767
  Giambattista Negrone, morto doge               1769
  Giambattista Cambiaso, morto doge              1771
  Ferdinando Spinola, che abdicò                 1773
  Pietro Francesco Grimaldo                      1773
  Brixio Giustiniani                             1775
  Giuseppe Lomellini                             1777
  Giacomo Maria Brignole                         1779
  Marcantonio Gentile                            1781
  Giambattista Ajrolo                            1783
  Giancarlo Pallavicini                          1785
  Rafaele Deferrari                              1787
  Alerame Pallavicini                            1789
  Michelangelo Cambiaso                          1792
  Giuseppe Maria Doria                           1793
  Giacomo Maria Brignole                         1793
  Giacomo Maria Brignole, nominato dal
    generale Buonaparte a Montebello             1797
  Francesco Cattaneo, per un mese e mezzo        1802
  Girolamo Durazzo, 30 luglio                    1802
  Girolamo Serra, presidente del Governo         1811
  Genova è unita al regno di Sardegna            1815


§ 20. — Signori e duchi di Milano.

  DELLA TORRE          Martino            1257          1263
                       Filippo            1263          1265
                       Napoleone          1265          1277  m. 1283
  VISCONTI             Ottone             1275          1295
                       Matteo I           1295   abd.   1322  m. 1323
                       _Guido_            1302          1311
                       Galeazzo I         1322          1328
                       Azzone             1328          1339
                       Luchino            1339          1349
                       Giovanni           1349?         1354
                       Matteo II          1354          1355
                       Galeazzo II        1354          1378
                       Bernabò            1354          1385
                       Gian Galeazzo
                         succ. a
                         Galeazzo II      1378
                       poi a Bernabò,
                       ed è fatto _duca_  1395          1402
                       Gianmaria          1402          1412
                       Filippo Maria      1412          1447
  SFORZA               Francesco, duca
                         nel 1450         1447          1466
                       Galeazzo Maria     1466          1494
                       Gian Galeazzo      1476          1494
                       Lodovico
                         _il Moro_        1494   dep.   1500  m. 1510
                       Luigi XII _re
                         di Francia_      1500          1512
                       Massimiliano
                         Sforza           1512   dep.   1515  m. 1530
                       Francesco I _re
                         di Francia_      1515          1521
                       Francesco II
                         Sforza, ultimo
                         duca             1521  e 1525  1535


§ 21. — Mantova e Monferrato.

  Luigi di Gonzaga, _signore di
    Mantova_                              1328          1360
  Guido di                                1360          1369
  Luigi II                                1369          1382
  Francesco                               1382          1407
  Giovanni Francesco, _marchese_
    nel 1433                              1407          1444
  Luigi II                                1444          1478
  Federico I                              1478          1484
  Giovanni Francesco II                   1481          1519
  Federico II, duca nel 1530              1519          1540
  Francesco III                           1540          1550
  Guglielmo, _duca di Monferrato_
    nel 1573                              1550          1587
  Vincenzo I                              1587          1612
  Francesco IV                                   1612
  Ferdinando _cardinale_                  1612          1626
  Vincenzo II _cardinale_                 1626          1627
  Carlo di Nevers                         1627          1637
  Carlo II                                1637          1665
  Carlo III                               1665   dep.   1703  m. 1708


§ 22. — Savoja.

  Cronologia incerta; la più probabile
  pare questa:
  Umberto _Biancamano_                           1003
  Amedeo I                                       1056?
  Odone                                   1045          1060?
  Pietro I e Amedeo II                    1060          1078  e 1080
  Umberto II _il Rinforzato, conte
    di Savoja_                            1080          1103
  Amedeo III                              1103          1148
  Umberto III _beato_                     1148          1188
  Tommaso                                 1188          1233
  Amedeo IV                               1233          1253
  Bonifazio                               1253          1263
  Pietro II                               1263          1268
  Filippo I                               1268          1285
  Amedeo V                                1285          1323
  Edoardo                                 1323          1329
  Aimone                                  1329          1343
  Amedeo VI (_il Conte Verde_)            1343          1383
  Amedeo VII (_il Conte Rosso_)           1383          1391
  Amedeo VIII, _duca_ nel 1417            1392   abd.   1440  m. 1451
  Lodovico                                1440          1465
  Amedeo IX _beato_                       1465          1472
  Filiberto I                             1472          1482
  Carlo I                                 1482          1489
  Carlo II                                1490          1496
  Filippo II                              1496          1497
  Filiberto II                            1497          1504
  Carlo III                               1504          1553
  Emanuele Filiberto                      1553          1580
  Carlo Emanuele I _il Grande_            1580          1630
  Vittorio Amedeo I                       1630          1637
  Francesco Giacinto                      1637          1638
  Carlo Emanuele II                       1638          1675
  Vittorio Amedeo II                      1675
    che nel 1713 pel trattato di
    Utrecht ottiene la Sicilia, e nel
    1720 la cambia colla Sardegna,
    avendone il titolo di _re_                   abd.   1730  m. 1732
  Carlo Emanuele III                      1730          1773
  Vittorio Amedeo III                     1773          1790
  Carlo Emanuele IV                       1790   abd.   1802  m. 1819
   Il Piemonte è riunito alla Francia
  Vittorio Emanuele I                     1814   abd.   1821  m. 1824
  Carlo Felice, ultimo della Casa di
    Savoja                                1821          1831
  Carlo Alberto della Casa di
    Savoja-Carignano                      1831   abd.     e   m. 1849
  Vittorio Emanuele II, 23 marzo          1849
    nel 1860 dichiarato re d’Italia.




INDICE


  CAPITOLO
  CLXXXIX.  Principi e popoli dal 1830 al 46.
              Aspirazioni e trame                         _Pag._    1
      CXC.  Pio IX. Le Riforme. Le Costituzioni             »      79
     CXCI.  Le insurrezioni                                 »     116
    CXCII.  Guerra santa. Conquassi                         »     142
   CXCIII.  Rassetto forzato. Moto ripreso                  »     261
    CXCIV.  Aspirazioni e preparativi piemontesi            »     314
     CXCV.  Acquisto di Venezia e di Roma                   »     354
  CRONOLOGIA ITALICA                                        »     383




NOTE:


[1] A credere vere queste parole c’induce il lutto che noi stesso vedemmo
in Firenze alla malattia e morte d’una giovane figlia del granduca
Leopoldo II. Stavamo a colloquio una sera con esso, quando ci chiese
di poter correre un istante a vedere quella morente; e ritornato, ce ne
parlava con tutto l’affetto, ch’è troppo naturale in un padre, ma che i
grandi non osano palesare.

[2] Pietro Giordani al 16 dicembre 1824 scriveva: — A dir bene di questo
Governo non si finirebbe mai. Dirò solo una cosa recentissima. Un amico
mio aveva letto ai Georgofili una dissertazione affatto economica. Piacque
molto, e volle subito leggerla un ministro di Stato. La lodò molto; ma
perchè lo scrittore aveva detto essere poco discrete e poco prudenti le
brame di molti che vorrebbero diminuite le imposte, il ministro lo fece
avvertire che anzi dicesse (poichè la dissertazione si stampa) le tali e
tali ragioni (e suggeriva le vere e buone) per cui le imposte si devono
sempre restringere quanto si può. Questo ministro non è un plebeo, non
un giacobino, un carbonaro, un liberale; è don Neri Corsini. I Georgofili
sono una società reale: eppure nello stesso giorno spontaneamente nominò
socj l’esule Poerio, l’esule Colletta, l’esule Giordani».

[3] A Londra verso il 1770 si erano stabilite varie compagnie dei Muns,
dei Tityre-tus, dei Mohocks, che si dilettavano a fare del male pel male
stesso; coglievano donne e le voltavano colla testa in giù; rompeano
il naso agli uomini; li faceano _sudare_, cioè metteano il primo che
capitasse in un circolo, e quello a cui esso volgesse il sedere glielo
punzecchiava colla spada, e ognuno ripeteva il giuoco, poi lo davano da
strigliare ai valletti, e lo faceano ballare pungendone i polpacci: e
malgrado ordini ripetuti, durò fino al fine del regno di Giorgio I.

A Milano verso il 1820 erasi pure introdotta una _Compagnia della Teppa_
che andava facendo simili tiri. E quando il Gualterio dà questa e la
_Compagnia Pantenna_ come sintomi ed effetti del liberalismo, vien da
piangere al vedere come le belle cause sieno insozzate dai loro adulatori.

[4] Gioberti asserisce che alla _Gazzetta Piemontese_ «era interdetto
lodare gli uomini celebrati dalla pubblica opinione»; _Gesuita moderno_,
tom. V, p. 22. Il Gualterio dice che Fossombroni pagò trenta scudi un
articolo contro Niccolini. In Lombardia, oltre i sistematici attacchi
della _Gazzetta_ e della _Biblioteca Italiana_, si sono poi trovate le
commissioni date per denigrare taluno (il Cantù) su giornali forestieri,
e perfino le bozze di tali articoli spedite alla _Allgemeine Zeitung_, e
le aggiunte postevi dagli affidati della Polizia.

[5] Il più smottato panegirista di Carlalberto (Gualterio) asserisce
che metà del ministero di esso era «venduto allo straniero, non che
aggregato alla Cattolica»; ed esso il sapeva e non sapea congedarli! Di
qui «quella che chiamossi oscitanza, ed era accorta prudenza», pag. 620.
Il medesimo asserisce che l’Austria avea comprato _tutte_ le persone che
lo circondavano, e che per mezzo di queste lo trasse in tanti errori, e
in quella abituale ascetica debolezza. Così per isgravare il principe, si
taccia tutta una nazione, che pure è tanto lodevole per dignitosa morale.
Costui anche sa «per documenti certi che ebbe in mano» ma che non produce,
che fino dal 1832 Carlalberto bramava l’amnistia degli esuli del 1821, e
che la concesse «spontaneamente con gioja sincera nel 1842»!

[6] Secondo il conto pubblicato dal conte Revel al 4 marzo 1848,

  le rendite del Piemonte erano      fr.  84,282,216
  L’uscita                            »   80,966,372
  Il debito                           »   95,714,392

cioè poco più dell’entrata di un anno.

[7] Questo avvenne alle edizioni di questa nostra storia, contro le quali
protestiamo, non dall’aspetto mercantile, ma dal morale.

[8] «Per selvaggia incuria del Governo», dice La Farina.

[9] Bianchini, nella _Storia delle finanze del regno di Napoli_, dice che
il viaggio di Francesco I in Ispagna per condurvi Maria Cristina costò
allo Stato 692,705 ducati, che sono tre milioni e mezzo.

[10] Del marchese Giovanni D’Andrea (1776-1841) elogio ben più splendido
che non i gonfj panegirici fanno gli stati discussi, pubblicatisi
nel 1848, ov’è divisato come nel decennale suo ministero restaurasse
le finanze, scassinate dal ministero Medici, spegnesse il debito
fluttuante ed altri, imprendesse opere pubbliche, attivasse i fondi
dell’ammortizzamento; «pagò con esattezza i pesi dello Stato, tolse talune
imposizioni, procurò i fondi per varie opere pubbliche, non contrasse
alcun nuovo debito, ritrovò il corso delle iscrizioni del debito pubblico
consolidato al 68, lo lasciò al 106; lasciò ducati 2,200,000 di deposito
nella tesoreria». Vuolsi ricordare come, essendo magistrato allorchè
si attuò il codice Napoleone, egli rinunziò all’impiego per non dover
applicare la legge del divorzio, da cui la coscienza sua repugnava. Dopo
il 1830 fu insieme ministro delle finanze e delle cose ecclesiastiche, e
potè compiere il concordato del 10 settembre 1859, e mantenere in armonia
le due potestà.

[11] Nel 1853, i ducentundici battelli che faceano la pesca del corallo
sulle coste di Bona e della Cala, quasi tutti erano napoletani, e
raccolsero trentacinquemila chilogrammi di corallo, che vendesi a sessanta
lire il chilogramma.

[12] La sola Inghilterra nel 1840 consumò un milione di quintali di solfo:
nel 1833 se ne erano tratti dalla sola Sicilia quintali 676,413, del
valore di ducati 1,952,067.

[13] La prima informazione delle condizioni della Lombardia venne data
da noi nel libro _Milano e suo territorio_, pubblicato in occasione del
Congresso scientifico del 1845. Una commissione municipale s’incaricava
di ottenere di qua, di là risposta ai differenti quesiti che noi le
presentavamo; e su ben pochi punti le venne negata. Fu quel libro la
fonte a cui attinsero poi i liberali di partito; e vi si riferivano
tanto più sicuramente in quanto che, dicevano, era _ufficiale_. Talmente
ignoravano la distinzione del Municipio dal Governo quegli stessi che si
ergeano maestri e riformatori del governare. Ci dispiace dover soggiungere
che _ufficialmente_ venne aperta un’indagine contro l’autore: ma tale
stitichezza dell’elemento deleterico di quel Governo non rende meno vera
la possibilità di avere e di pubblicare notizie positive, se da queste
non fossero stati allora e adesso aborrenti lo spirito di fazione e il
sentimentalismo.

[14] Memorabili sono le inondazioni del Po nell’ottobre 1839, in
conseguenza di dirottissime pioggie. Ai 17 ottobre presso Torino l’acqua
sorgeva metri 5,80 sopra il pelo ordinario, e metri 6,96 presso Lagoscuro
alli 8 novembre. Ne furono allagate moltissime parti del Piemonte, ove
franò la grossa terra di Solagni nel Tortonese; e più il Mantovano, il
Polesine, il Modenese; ed essendosi rotto, forse ad arte, un argine sulla
destra a tre miglia sotto Revere, furono allagate da quattrocento miglia
quadrate di terreno fra il Po e il Panáro. Nuove piene nel settembre
del 1842 ingrossarono ancora più i fiumi, e il Modenese e le Legazioni
n’ebbero danni incalcolabili. Nel 1844 l’Arno guastò tutta la valle e
Firenze stessa.

[15] Il De Bruck, dappoi ministro in Austria, indi suicida. La società
del Lloyd fu autorizzata nel 1836; col capitale di mille cinquecento
azioni da mille fiorini nel 1837 fece ottantasette corse con cinque
piroscafi; e in quell’anno tragittò ottomila passeggeri, ed ebbe
l’introito di censessantatremila trecenquattordici fiorini, ma la spesa di
ducentrentaduemila. Nel 1846 aveva venti piroscafi, fece settecenquattro
viaggi con cendiciotto mila passeggeri; trasportò denaro e preziosità per
venticinque milioni e mezzo, ducenventisettemila lettere, centrentacinque
mila settecentrentatre botti, ducentrentasettemila centinaja di Vienna
di merci; facendo l’introito di fiorini un milione e quattrocenventimila
quattrocencinquanta, di cui trecentrentaseimila erano guadagno netto. La
crescente importanza dell’Oriente, i viaggi della valigia dell’Indie, lo
sperato taglio dell’istmo di Suez sono felicissime opportunità per quella
compagnia, la quale per altro ebbe a soffrire sia dalla rivoluzione, sia
dalla guerra di Crimea. Nel 1854 avea cresciuto il suo fondo a tredici
milioni di fiorini, e colla spesa di trecensessantamila fiorini avea
l’entrata di seicentrentaquattromila. È divisa in tre sezioni: l’una
per le assicurazioni; l’una pel servizio de’ battelli a vapore, e ha
costituito fucine, arsenali, tiene uffiziali, marinaj, studia le nuove
linee d’aprire: la sezione artistico-letteraria sarebbe come la mente
di quel corpo, attenta a ricevere le notizie che comunica subito alla
borsa, e diffonde per via di giornali; inoltre ha stamperia e calcografia,
gabinetto di lettura, e giornali.

[16] È la più bella pagina d’un’arguta _Storia degli ultimi trent’anni_,
quella ove sono descritte le conseguenze dell’obbligo di denunziare
i colpevoli di Stato, e dello spionaggio. «Il pensiero (traduciam
compendiando) che alla lunga viene a prevalere sotto tale giurisprudenza,
è la paura; paura di commettere una viltà, paura di parere d’averla
commessa, paura d’esporsi a guaj per non commetterla. La paura più forte
la vince; e da tale proporzione dipende spesso l’onore o l’ignominia
d’una vita intera. Il prudente non vede altro scampo che evitare una
via, da cui non si esce che coll’infamia e colla condanna; ma il farlo
è fatica di tutti i momenti, e d’una incessante vigilanza. S’imbatte per
via in uno di cui non bene conosce le opinioni politiche? deve mostrare
di non conoscerlo. Un amico gli si accosta per chiedergli un consiglio?
il prudente deve pregarlo di astenersene, di dirigersi a tutt’altri;
attesochè quell’amico potrebbe voler consultarlo sul come rispondere a
un emissario dei nemici del Governo. Se suo figlio si mostra pensoso e
abbattuto, si guarderà dal chiedergliene il motivo; chè potrebb’essere
scontentezza politica. Ogni colloquio gli pesa, giacchè può di tratto
volgersi a cose di governo. Uomini sì fatti non sono rari, e sono i più
onesti fra i vili: ma se un di questi fosse arrestato o interrogato alla
Polizia, e s’avvedesse che tante cautele non gli bastarono, non s’ha a
temere ch’egli rinunzierebbe all’onore, anzichè alla propria salvezza? Se
tale è la prudenza delle persone allevate sotto allo spionaggio austriaco,
come meravigliarsi dell’universale diffidenza? Basta che un uomo di
genio amabile, insinuante, compagnevole, frequenti molti crocchj, per
essere battezzato spia. Zelanti officiosi corrono a tutte le case, aperte
all’amabile persona, e susurrano le voci che corrono sul conto di lui.
E con che facilità non si credono questi ragguagli! Il padrone di casa,
quasi illuminato da subito lampo, — Di fatto (esclama) che vien egli a
fare in casa mia? perchè vi si mostra tanto amabile? Da me non ha nulla
a sperare. E quando mi arrivò una sventura, quando le sorde persecuzioni
della Polizia mi avevano condannato alla solitudine, perchè egli pure non
s’allontanò da me? non temeva egli dunque per se stesso? Alla larga da
quest’uomo pericoloso». Se un altro si apparta, e stringesi a vivere in
angusto circolo, dicono che ha fatto la spia lungo tempo, e che scoperto,
cela la propria vergogna. Chi si palesa amico dell’Austria, è naturalmente
cansato dagl’Italiani; ma chi biasima il Governo, cade in sospetto
di agente provocatore e di tendere insidie. Colui è ricco: sarebbesi
impinguato con servigi resi alla Polizia? Colui è povero: resisterà alle
tentazioni della miseria? Nessuno insomma è sicuro di simili sospetti;
nè si dà Lombardo che possa vantarsi di non temer nulla... e di cui la
fiducia nei più intimi amici non abbia vacillato più d’una volta.

[17] L’amnistia fu data il marzo, e i carcerati allo Spielberg nè tampoco
la conobbero fino al novembre. Allora non ottennero se non di poter andare
in America. Giunta la coronazione, e ripetutasi l’amnistia, chiesero di
rimpatriare, e non n’ebbero licenza. Solo nel 1840 il padre di Federico
Confalonieri, trovandosi in fin di morte, chiese di veder il figlio; e
pare che allora soltanto il buon Ferdinando sapesse com’erano perfidiate
le sue intenzioni, poichè senz’altra domanda fu permesso a tutti il
ritorno.

[18] Nella raccolta di _Lettere di fisica sperimentale_ di Serafino
Serrati, Firenze 1787, è descritta una barca che correa sull’Arno mossa
a vapore, e c’è anche la figura. Il primo battello a vapore costruito da
una società napoletana il 1818, navigò da Napoli a Marsiglia; ma presto
fu abbandonato. Un altro se ne pose nel 1820 sul laghetto di Pusiano in
Lombardia, per mero sperimento, o piuttosto per velo alle intelligenze
de’ Carbonari, coi quali terminò. Nel 1824 una società, preseduta dal
principe Butéra siciliano, ne comprò uno in Inghilterra, che navigò le
coste d’Italia.

[19] Nel _Gesuita moderno_, tom. III. pag. 484.

[20] Per ciò, essendo addetto all’ambasceria francese in Toscana, dovette
venir a duello con Gabriele Pepe.

[21] Un Boccheciampe, condannato solo a cinque anni per «aver fatto parte
della banda, ma non essersi trovato nei due conflitti», fu tenuto come
traditore. Ce n’era bisogno? Chi vuol saperne di più intorno a queste
mosse veda ANDREINI, _Cronaca epistolare dal 1843 al 45_. Chi racconta
a lungo le mene delle società segrete senza disapprovarle, non viene con
ciò a giustificare le procedure di cui incolpa i Governi?

[22] Il papa nel 1845 comprò quei beni per 3,750,000 scudi (lire
20,250,000) in obbligazioni di debito pubblico al cinque per cento; poi
li vendette per 3,880,000 a una società Rospigliosi, Fedi, De Dominicis,
che li rivendette a privati in ritaglio.

[23] Un Mazziniano scriveva, a proposito delle scritture dei moderati,
ch’egli intitola soffiafreddo: «Bene o male, il sentimento della dignità
nazionale e l’odio dello straniero crescevano; e noi dovevamo confessare
che, in quindici anni, non eravamo riusciti che a propagare nella
gioventù studiosa la passione politica, ma nel vero popolo mai». _Archivio
triennale_, tom. 1. pag. 491.

[24] _Ricordi ai giovani_.

[25] Tal quistione fu introdotta dal Cantù: riprodotta poi a Venezia, fu
causa di fatti significativi. _Gli Editori._

[26] Del neoguelfismo in Italia le prime manifestazioni sono a
rintracciare (chi il crederebbe?) in Ugo Foscolo. Durante il regno
d’Italia, malgrado mille ostacoli, potè pubblicare un articolo in lode di
Gregorio VII, e sta fra le opere sue. Nel 1815 preparava un discorso a Pio
VII per mostrare «la necessità che il pontefice rimanga in Italia difeso
dagl’Italiani». Nel discorso II _sulla servitù dell’Italia_ dice: «Noi
Italiani vogliamo e dobbiamo volere, volerlo fin all’ultimo sangue, che il
papa sovrano, supremo tutore della religione d’Europa, principe elettivo e
italiano, non solo sussista e regni, ma regni sempre in Italia, e difeso
dagl’Italiani». E nel III si lagna che si fossero «obliate la sovrumana
fortezza e la sapienza politica di quel grande pontefice (Gregorio VII)
che vedeva consistere la temporale dignità della Chiesa nell’indipendenza
delle nostre città, e quindi nella loro confederazione la più fidata
difesa de’ suoi pastori».

[27] Una lega de’ principi italiani era stata proposta dall’Austria
fin dal 1821, e si dicea che tale fosse lo scopo d’un congresso
dell’imperatore col granduca di Toscana. La Corte romana sentì quanto
varrebbe sulle sorti italiche, e rifiutò aderirvi.

[28] Ivi lo trovammo noi quando finiva il _Primato_, e ci lesse
quell’ultimo capitolo, ove parla degl’illustri viventi; e ci chiese i
nomi de’ migliori, ch’esso ignorava: eppure ne fece una tale mescolanza,
da vergognarsi della compagnia. Egli stesso poi stampò che le lodi da lui
sparpagliate erano sulla fede d’amici, alle cui relazioni aveva dovuto
attenersi.

È naturale che dappoi tutto il merito fosse dato a lui, e niuno a coloro
di cui egli professavasi seguace. Tra gli scrittori efficaci sull’opinione
italiana, il Gualterio (_Ultimi rivolgimenti italiani_) nè tampoco nomina
Manzoni.

[29] Asserisce unica e quasi necessaria alle scienze, alle lettere, alle
gentili arti la censura preventiva, e ne magnifica retoricamente i pregj,
sol chiedendo non sia esercitato da un uomo solo, ma da un corpo.

[30] _Storia d’Italia_; e passi inediti, addotti dal Ricotti nella _Vita
e scritti del conte Cesare Balbo_.

[31] Dedica seconda delle _Speranze_.

[32] «Ridotta ai principi la decisione del passare o no a un Governo
deliberativo, sarebbe egli utile passarvi? Parliamo schietto: anche presa
dai principi, può esser decisione piena di pericoli, feconda di disunioni,
distraente dall’impresa d’indipendenza, nociva dunque». Cap. X. p. 121.

[33] «Confondeasi il gesuitismo colla Compagnia di Gesù, e credeasi che,
cacciati i padri da una città o da uno Stato, la peste gesuitica fosse
rimossa, e i popoli fatti sicuri. Or i padri Gesuiti non sono che la
milizia più attiva ed astuta del gesuitismo, il quale, con altro nome
preesisteva ad Ignazio di Lojola». LA FARINA, _Conclusione_ del lib. III.

[34] Nell’_Introduzione alla filosofia_, pag. 32 scriveva: «Dichiaro
espressamente ch’io non intendo di far allusione a nessuna persona in
particolare, parendomi che il costume di ferire i vivi non sia da uomo
civile nè da uomo onesto nè da cristiano».

[35] _Storia del Piemonte_.

[36] E altre volte diceva: «Quando ad un libro si dà l’impronta di satira
e di caricatura, l’effetto è vulgare e non durevole. Per esser efficace
bisogna saper produrre il bello e il giusto, e non secondare i vulgari.
Miro con rispetto le oneste confutazioni, ma anche le oneste mi pajono di
poco o niun frutto. Aspettando l’azione del tempo si guadagna lo stesso, e
non si perde inutilmente la pace. Di qui a qualche anno Gioberti medesimo
arrossirà d’avere ceduto all’impulso de’ falsi amici, di avere pubblicato
come pretesi documenti cose che non sono; d’aver macchiato la bella fama
ch’ei godeva».

Quelle sopra il Gioberti sono forse le uniche parole acerbe che si
lasciasse sfuggire la colomba dello Spielberg. E diceva anche: «Gioberti è
uomo d’impeto, ma sincero. Un giorno s’accorgerà del suo torto. Preghiamo
per lui e per gli animi così disposti all’ira. Con questa passione si
possono fare quadri orribili d’ogni istituto e d’ogni umana società.
L’eloquenza arrabbiata non è mai giusta, ed è sempre stimata dai soli
intelletti che poco riflettono».

[37] Quantunque ad essi ostilissimo, dice: «L’Austria non ignorava che,
fra i discendenti dagli uomini della Lega Lombarda, il neoguelfismo è
una specie di virtù cittadina e di passione generosa; poichè trovandosi
i Lombardi faccia a faccia col prepotente e col rappresentante del
ghibellinismo, si recherebbero a viltà il cedere all’oppressione presente
senza la sola protesta che loro sia consentita, quella cioè di resistere
intellettualmente, associandosi ai principj che guidarono l’antica
loro indipendenza contro Germania. Ciò spiega, parmi, onorevolmente
come i più forti ingegni del Lombardo-Veneto inclinino più o meno
apertamente alle idee guelfe», pag. 108. Onore al militare leale, che
cerca nobili spiegazioni perfino a idee che disapprova. Non è lo stile
dei liberalastri; nè egli il conserva quando opinioni, vere o no, ma
discusse e ponderate, attribuisce «a monomania di scrittore e cecità
di partito», pag. 133. Perchè però non si dica che l’idea repubblicana
nacque dopo le barricate, si avverta ch’egli stesso gl’intitolava fin
d’allora _neo-guelfo repubblicani_, pag. 394, e dice che «si gettano
il monarcato sotto le calcagna». Del resto, tutti sanno quali Lombardi
direttamente trattassero tale quistione; onde il concetto dell’anticipato
repubblicanismo lombardo egli non potea dedurlo che da un’opera sola,
attesa la sua diffusione, cioè la nostra _Storia Universale_.

[38] Leone XII avea stabilito riedificarla, assegnando dalla Camera
apostolica cinquantamila scudi annui; trentamila ne diedero i cardinali
dimoranti in Roma; gl’impiegati lasciarono parte del loro soldo; i re
stranieri contribuirono, sebbene non cattolici; onde dai sudditi pontifizj
s’ebbero cencinquantanovemila scudi, seicendiciottomila dall’erario,
cenventissettemila dal resto del mondo in quindici anni.

[39] Secondo i conti pubblicati da monsignor Morichini nel 1848, lo Stato
Pontifizio nel 1814 incassò meno di tre milioni di scudi, e nel 45 più di
dieci; nel 15 spese due milioni trecentomila scudi, e nel 45 dieci milioni
seicentomila; fino al 27 si fece sempre avanzo, eccetto il 21; dappoi
continuò lo spareggio.

[40] La società detta Ferdinandea a Bologna, di cui fu imputato il
Castagnoli nel 1841, diceasi diretta a porre le Legazioni sotto l’Austria.

[41] Di fatti si vantarono per novità, e noi gli avevamo prodotti in tutte
le varie ristampe che femmo della _Storia universale_ del Cantù. (_Gli
Editori_).

[42] Vedi la nostra _Storia universale_, ediz. 3ª tom. XX, p. 66. Fummo
tacciati allora d’avere lodato Gregorio XVI, nè abbastanza esaltato Pio
IX. Chiamiamo ad appello quella sentenza dopo trent’anni.

[43] Più tardi il poeta Montanelli si lodò d’aver egli incoato queste
stampe clandestine, e per mezzo di esse l’agitazione dell’Italia e del
mondo.

[44] BROFFERIO; e lo stesso dice RANALLI, _Le Storie ital_., lib. IV.

[45] Ne’ riti della massoneria è conosciuta la cerimonia del brindisi. A
invito del Venerabile si caricano i cannoni e dispongonsi sulla tavola;
poi egli dice: «Facciamo un brindisi a persona a noi preziosa; faremo un
fuoco, buon fuoco, fuoco il più vivo e sfavillante di tutti i fuochi.
Fratelli, la destra alla spada — Alto la spada — Evviva la spada — La
spada alla sinistra — La destra alle armi — Alto le armi — Al viso — Fuoco
— Ancora fuoco — Basso l’arma — Avanti l’arma — Seguiamoci coll’arma —
Giù l’arma»; e l’arma è il bicchiero, e la manovra un bevere. Venivano a
mente nei pasti d’allora.

[46] Un Lombardo (Cantù), campatosi dagli sgherri, arrivava a Torino nel
maggior fragore del movimento preparativo; ed uno degl’infervorati gli
chiedeva — E voi, non avete voi scritto nulla sulla crisi attuale?» Cesare
Balbo gli rispose: — Che? non scrive egli la storia universale?»

Pellico la prendea coi guastamestieri, non credea una gran cosa i
festeggiamenti popolari e gli schiamazzi, e le magnanime azioni degli
eroi, consistenti nello scrivere ingiurie sui muri e spargere calunnie,
mentre credeva fosse necessaria la virtù, ben inteso fra le virtù contando
il valore in caso di guerra. _Lettere_, 266, 267.

[47] Per devozione alle libertà, alieni dalle società segrete che la
legano ad un’obbedienza irragionata, noi fummo in situazione di conoscerle
in patria e fuori, nelle prigioni e ne’ trionfi, e di poterne parlare
con autorità. Ben ci meravigliammo di non avere, in tante scritture,
veduto accennarsi le mene con cui la Russia cercavasi amici nelle persone
di denaro, d’intelligenza, di cariche. Venezia principalmente deve
ricordarsene.

[48] _Liberalisirend._ Credenziale di Metternich a Radetzky pel conte di
Fiquelmont, 22 agosto 1847.

[49] Dubitavasi che le dimostrazioni fossero provocate dall’Austria
per aver occasione d’intervenire. Palmerston ad Abercromby ambasciadore
a Torino, il 23 marzo 1847 scriveva: _I have to request that you will
report how for your information lead you to give credit to certain reports
which prevail that those manifestation have been in some places secretly
encouraged by Austrian agents, in order that they may furnish a pretext
for active interference in the internal affairs of some of the independent
States of Italy_. I successivi dispacci tornano spesso a questo senso.
Vedasi la raccolta più interessante intorno agli avvenimenti di quegli
anni, cioè: _Correspondence respecting the affairs of Italy, presented to
the House of lords by comand of her majesty_, 1851.

[50] Dispaccio 18 settembre 1847 del ministro Guizot all’ambasciadore
Bourgoing a Torino.

[51] Dispaccio 11 settembre 1847 del ministro Palmerston. Guizot, al
17 settembre, scriveva, la Francia rispetterebbe e farebbe rispettare
l’indipendenza degli Stati, e in conseguenza il diritto di regolare essi
da sè i proprj affari interni; al buon esito delle riforme importare si
facciano d’accordo fra principi e popoli, regolari, progressive; il papa
mostrare un profondo sentimento de’ suoi diritti come sovrano, laonde
otterrebbe l’appoggio e il rispetto di tutti i Governi europei; e gli
esempj di esso e la condotta intelligente de’ suoi sudditi eserciterebbero
salutare influenza sui principi e i popoli della restante Italia.

Nelle istruzioni che Palmerston dava a lord Minto il 18 settembre 1847,
era che portasse assicurazioni d’amicizia in ogni incontro; spiacergli le
minaccie dell’Austria d’occupare una parte degli Stati sardi, caso che
il re desse concessioni ad essa spiacevoli, e lo considerava come una
violazione de’ diritti internazionali; applaudisce all’esibizione fatta
dal re al papa di difenderlo; a Roma secondi le buone intenzioni del
pontefice, e prenda per base il _memorandum_ del 1832.

Ma pare che coteste minaccie dell’Austria fossero un sogno, e il conte
Solaro della Margherita, allora ministro della Sardegna, le smentisce
affatto, nè aver ricevuta alcuna nota relativa all’interna amministrazione
del paese (dispaccio 3 settembre). Lo stesso Metternich al 23 settembre
scriveva: — Non è da parte dell’Austria che l’indipendenza del re di
Sardegna potrebb’essere minacciata. Ben lungi da ciò, contando questo
sovrano fra suoi alleati, il Governo imperiale, qualora richiesto, non
tarderebbe a porsi accanto alla Gran Bretagna per difenderlo contro
ogni esterna aggressione. Unito alla Corte di Roma con vincoli, la cui
doppia origine non può che crescerne la solidità, l’imperatore d’Austria
crederebbe derogare alla dignità e alla religione sua difendendosi dal
sospetto di voler intaccare l’indipendenza d’un sovrano, che alla potenza
temporale congiunge l’augusto carattere di capo della Chiesa cattolica,
della quale l’imperatore è naturale difensore. Nulla è chiaro e positivo
come l’attitudine dell’Austria rimpetto al santo padre; essa non può che
fare voti per la prosperità degli Stati della Chiesa, e pel buon esito
delle riforme amministrative che sono reclamate dal loro meglio, e che,
dalla pace generale in poi, fu spesso la prima a consigliare; mentre in
eventi particolari le proprie armi adoprò ad assicurare l’autorità sovrana
del papa».

[52] Come avea scritto a Carlalberto appena re, Mazzini volle scrivere
a Pio IX, e usava questi termini: — Per opera del tempo, affrettata dai
vostri predecessori e dall’alta gerarchia della Chiesa, le credenze sono
morte, il cattolicismo si è perduto nel despotismo, il protestantismo
si perde nell’anarchia: guardatevi attorno, troverete superstiziosi o
ipocriti, non credenti; l’intelletto cammina nel vuoto; i tristi adorano
il calcolo, i beni materiali; i buoni invocano e sperano; e nessuno
crede».

[53] Apertesi le Camere di Francia nel gennajo del 1848, Montalembert si
lagnò che nel discorso del trono non fosse fatta menzione del movimento
d’Italia e del papa; questo essersi mirabilmente posto in una via, nella
quale avea bisogno d’appoggio; mentre esso e i principi che cominciavano
a imitarlo, trovavansi dolorosamente isolati fra un partito di vecchi
abusi, e le violenze degli esaltati; qualificarsi già di retrograda la
politica di Pio IX all’istante che, protestando contro l’occupazione di
Ferrara, compiva i suoi sforzi per la dignità e indipendenza d’Italia;
essere tempo che gli uomini del progresso in Italia si separassero
da quei del disordine, e il Governo cessasse d’essere nella strada;
l’indipendenza temporale del papa essere condizione indispensabile per
la regolare esistenza e la sicurezza della Chiesa cattolica nel mondo
intero; indipendente dover essere il papa non solo dal giogo straniero,
ma dal giogo delle fazioni e delle sommosse; doversi al popolo romano
infondere coraggio contro l’Austria, ma insieme contro coloro che
vorrebbero speculare su questo movimento italiano e disonorarlo, contro
le denunzie de’ proscritti di jeri, che vogliono divenire proscrittori
domani; coraggio per mostrare al mondo cosa sia una rivoluzione pura,
onesta, insomma cristiana.

Meritano essere letti i discorsi fatti in quell’incontro da Saint-Aulaire,
Dupin, Hugo, Cousin, più liberali di quelli pronunziati nell’assemblea
repubblicana. Guizot ministro rispondendo, mostrò che il trono era
d’accordo nel favorire le libertà italiane, il miglior fondamento delle
quali era il papa.

[54] Vedi il n. 34 dell’_Italia_, giornale di Pisa, scritto o ispirato
dal Montanelli. «Da lungo tempo erano a Livorno manifesti gl’indizj d’una
setta, la quale rinchiusa in una solitudine astiosa e codarda, non seppe
intendere la grandezza del presente movimento italiano, la semplicità
delle origini, la maestà del progresso, la sicurezza del fine; non
comunicare colla nuova vita che si dilatava d’intorno a lei, nè accogliere
nel suo cuore il battito di migliaja di cuori, in un punto rinati alle
speranze ed all’amore.

«L’inaspettato amicarsi della ragione colla fede, dei principi coi popoli,
degli Stati cogli Stati italiani; questo improvviso risorgere d’un popolo
oppresso, per lo spontaneo ma necessario ricomporsi delle opinioni,
degli interessi, delle forze nel principio dell’unità nazionale; questo
magnifico disegno della Provvidenza che si svolge sotto i nostri occhi,
l’abisso che divide i primi dagli ultimi mesi del 1846, e l’aura divina
che vola su quell’abisso, Pio IX e la lega doganale furono un nulla per
lei.

«Non sapendo che le vie della Provvidenza sono assai più di quelle
dell’uomo, si ostinò a non riconoscere il nostro risorgimento in un fatto
che, sebbene ne avesse i caratteri evidenti, per l’autore, il modo e
l’effetto era così diverso da ciò ch’ella aveva fantasticato, predetto,
promesso come il solo vero, il solo possibile risorgimento nostro.
Indurita dal pregiudizio, credè che l’Italia non sarebbe giunta alla meta
per la via segnata da Pio IX, corsa da Leopoldo II, e fatta sicura da
Carlalberto; e si dolse con puntiglio superbo che vi giungesse per una via
qualunque diversa da quella mostrata da lei, e nella quale ella non fosse
duce, mettendo il suo credito e la sua influenza sopra la considerazione
del bene comune».

[55] Rubieri, nello _Spettatore_ di Firenze, rivendicò la reputazione
di Giovanni da Procida, sopra documenti non nuovi, ma di cui l’Amari non
volle trarre tutte le conseguenze. La quistione dura ancora.

[56] Il Gualterio asserisce che l’umiliazione del re nell’affare de’ solfi
vi fu gratissima. Noi ci trovammo nel regno in quel tempo, e ci apparve
tutt’altro.

[57] La Farina dice che il Comitato napoletano era d’accordo sulla forma
che sarebbe gridata in Sicilia: ma quando si fece, trattenne la gioventù
dal sollevarsi, lasciò spedire le truppe ecc., e riprova i regnicoli
d’essersi perduti in suppliche e applausi, e ne incolpa «coloro che
di quei moti aveano assunto la direzione, alcuno de’ quali col tempo
chiarironsi traditori, altri inettissimi e che per perfidia o per
fiacchezza rovinarono Napoli, Sicilia e Italia tutta»; vol. III, p. 170.
Così anche le belle intelligenze possono dalla passione essere tratte alle
vulgarità.

[58] Lo attesta l’ammiraglio Napier in lettera a Palmerston del 31
gennajo, nella citata _Correspondance_.

[59] Era la quinta costituzione che si proclamava in mezzo secolo per quel
paese: nel 1799 quella della Repubblica Partenopea; nel 1808 quella del
re Giuseppe; nel 1815 quella di Murat; nel 1820 quella di Ferdinando.

[60] Al 21 febbrajo, la _Réforme_, unico giornale repubblicano, stampava:
«Uomini del popolo, guardatevi domani da ogni temerario abbandono, non
presentate al potere l’occasione cercata d’una vittoria sanguinosa».

[61] Ne’ carteggi diplomatici compajono una lettera del console britannico
a Milano, che assicura non essere quivi società segrete; e una del Pareto
ministro del Piemonte, che assicura esservi potentissime le società
secrete.

[62] Il conte Giacomo Melerio. _Ils chantent, ils payeront_, diceva
Mazarino a’ suoi tempi.

[63] Nel libro _Palmerston et l’Autriche_ il conte di Fiquelmont descrive
quel Congresso colla sicurezza di chi era presente. Egli attribuisce
ogni colpa a Cesare Cantù, invocando le vendette su lui, come quello
da cui originò il movimento rivoluzionario in quella città, tranquilla
fin allora. Fiquelmont stampò quel libro nel 1853; quando il Governo
militare poteva facilmente adempiere quel voto di vendetta. Richiamato
ai fatti, il Fiquelmont ebbe la lealtà di riconoscere (ma solo in
lettera diretta all’offeso) che avea detto il falso, e che il Cantù non
era stato (espressione di lui) se non «la sfera che avea segnato l’ora
della rivoluzione, siccome a Milano l’arcivescovo». Intanto la parte
primaria ch’e’ gli assegna, dà il diritto al Cantù di attestare, che al
Congresso di Venezia non ci furono intelligenze settarie di veruna sorta;
che nulla v’avea di preparato in quegli applausi o in que’ silenzj;
che l’unico accordo preso fu con Manin e Tommaseo per domandare, non
la libertà della stampa, ma l’esecuzione delle leggi intorno a questa,
violate dall’arbitrio di censori, che nuociono ai Governi più che i leali
avversarj.

[64] Il generale Hess, capo dello statomaggiore, il 18 gennajo 1848 da
Vienna scriveva al colonnello Wratislaw a Milano: — Se l’imbecillità
del governatore e del vicerè e la nullità del loro spirito non fossero
da tempo conosciute, ora apparvero in tale evidenza, che bisogna tosto
rimoverli, e sostituire un governatore che, d’accordo col feldmaresciallo,
ristabilisca l’ordine vigorosamente, e i noti rei di tali scandali mandi
ad essere processati a Palmanova. Io non sarò tranquillo finchè non siansi
raccolti attorno a Milano venticinquemila uomini, e venticinque mila
nelle guernigioni alle spalle, giacchè solo il timore delle bajonette
può imporre a costoro». E il 31 al maresciallo Radetzky: — Sedici fortini
attorno a Milano, ciascuno con cinquecento uomini, e moltissime feritoje
dirette al duomo, deciderebbero in ultimo appello la quistione italiana
fra l’Austria e il Piemonte; e questo tornerebbe all’antica, come che
simulata, umiltà. Quali le cose sono, credo che la tranquillità non si
ripristini senza forti salassi e sciabolate tedesche».

[65] «Qual è la paura dell’Austria? forse che Carlalberto o qualche
altro principe italiano impugni il ferro e faccia l’impresa di Lombardia?
oibò! ella sa quant’altri e meglio d’altri che tal tentativo non è oggi
possibile, e che i concetti di questo genere non possono entrare nè capire
nella mente di un principe così savio come il re di Sardegna». GIOBERTI,
_Gesuita moderno_, 1847, vol. III, p. 577.

Il Balbo, nelle _Speranze_, rimoveva affatto l’idea d’un attacco. Il
Durando, nella _Nazionalità italiana_, posava tutte le combinazioni sue
strategiche sovra il supposto della guerra difensiva. Il _Risorgimento_,
organo ministeriale, al 18 marzo scriveva: — Chi primo bandirà la guerra
in Italia, avrà gettato le sorti del mondo, avrà sconosciuto i santi
incrollabili principj che ci assicurano piena, infallibile, vicina
vittoria... Sorda è l’Austria alle minaccie come alle blandizie, non si
scuote, avvisa il suo tempo e il suo vantaggio con impassibil consiglio.
Or di tutti i desiderj suoi il più ardente, il più sicuro si è quello
di vedersi da noi assalita. Questo solo potrebbe ravvivarla, ecc.».
Nel _Mondo illustrato_, pag. 723, è scritto dal grande panegirista di
Gioberti: — Chi grida _Morte all’Austria, Viva il re d’Italia_, è nemico
di Pio IX, e quindi scismatico; è nemico di Carlalberto, e quindi ribelle;
è nemico della civiltà italiana, e quindi barbaro traditore».

[66] Balbo assicurava l’ambasciadore inglese Abercromby sapere di buona
fonte che «se il Governo indugiasse a soccorrere i Lombardi, sovrasterebbe
al Piemonte una rivoluzione repubblicana; onde, riconoscendo impossibile
reprimere l’entusiasmo delle popolazioni sarde, avea soddisfatto
alle domande dei deputati di Milano: Pareto diceagli, per poco che
s’indugiasse, Genova sarebbesi sollevata, e scissa dagli Stati regj: a
Vienna pure scriveasi dovere temere che le numerose società politiche
di Lombardia e la prossimità della Svizzera non facessero proclamare
un Governo repubblicano, disastroso alla causa italiana e a Casa di
Savoja. _Correspondance_, ecc. Lettera di Abercromby a Palmerston del
23 e 24 marzo: — Il pericolo della monarchia di Sardegna divenne così
imminente agli occhi de’ ministri, che furono costretti ad accondiscendere
alle domande di ajuto presentate dai capi dell’insurrezione milanese,
e appigliarsi a una linea di politica che non avrebbero adottata
spontaneamente». «Supposto un principe il più schivo del nome e delle cose
di guerra, il più freddo per la causa della nazionalità italiana, certo è,
che suo malgrado, ei sarebbe stato trascinato dal torrente dell’opinione
pubblica a recare soccorso ai Lombardi, salvo che amasse meglio vedere
ribellati i sudditi e Genova repubblicana». CIBRARIO, _Ricordi d’una
missione a Carlalberto_.

[67] Il generale Franzini, dopo la sconfitta, diceva in Parlamento d’avere
prima della guerra rappresentato in iscritto al re «la poca attitudine
sua e degli altri generali, avendo brevissima esperienza, con gradi poco
elevati. Il re mi disse che l’Italia doveva far da sè, e che non accettava
la proposta d’un maresciallo francese, ch’io proponeva come valente a
raddoppiare il valore della sua armata». E più tardi Massimo d’Azeglio
diceva ai suoi elettori: «In Italia nulla era preparato negli animi, nei
costumi, nelle abitudini militari».

[68] Questo sentimento è da un pezzo in cuore degli Italiani, e la
scuola liberale lo professò apertamente dacchè Ciro Menotti, spirando
sul patibolo di Modena, ci gridò: — Italiani, non fidatevi a promesse di
forestieri». Ma la frase crediamo siasi formolata primamente nell’opuscolo
di Giacomo Durando sulla _Nazionalità italiana._ Poi il cardinale
Ferretti, visitando la guardia civica di Roma, contento di quella tenuta
esclamò: «L’Italia farà da sè».

[69] Presidente Casati: membri Vitaliano Borromeo, Giuseppe Darmi, Pompeo
Litta storico, Strigelli, Beretta, Giulini, e Guerrieri per Mantova,
Anelli per Lodi, Rezzonico per Como, Turoni per Pavia, Carbonera per
Sondrio, Grasselli per Cremona, Moroni per Bergamo.

[70] «Non vedo gran differenza tra le due forme di Governo. Che cos’è
un principe costituzionale se non un capo ereditario di repubblica? e un
presidente di repubblica, che un principe elettivo?» GIOBERTI, _Lettera
del_ 26 _febbr_. 1848.

Molti giornali del Piemonte asserivano essere forte e temuto in Lombardia
un partito che voleva _sminuzzare l’Italia in centinaja di repubblichette
come nel medioevo_. Per cercare, noi non ne trovammo orma; e gli scrittori
non meno che gli atti uffiziali parlavano sempre di repubblica italiana,
più o meno estesa. A tacere Venezia, di cui tanto generosi furono i
proclami, il popolo di Padova nell’inaugurare il suo Governo provvisorio
diceva al 26 marzo: — Il popolo che oggi vi ha costituito, ha un unico
voto, l’unione italiana. Bando ai municipalismi. La repubblica delle città
d’Italia, qualunque sia per essere la sua estensione, deve intitolarsi
italiana. Stringetevi con Venezia e colle altre città italiane che si sono
dichiarate o stanno per dichiararsi libere, onde operare con quelle di
fraterno consenso. Viva la repubblica italiana!».

[71] «Il grande ingegno... ama il popolo, ma non i suoi favori; aspira
al suo bene, non alle lodi; e sta ritirato dalla turba per poterla
beneficare». GIOBERTI, _Introduz. alla storia della filosofia_, pag. 219.
E a pag. 183: «Il Governo rappresentativo è ottimo in se stesso, attissimo
a felicitare una nazione, e si assesta mirabilmente a tutti i progressi
civili, purchè non si fondi sulla base assurda e funesta della sovranità
popolare».

[72] La più bella esposizione e apologia di quell’intrigo è nei cenni di
Antonio Casati su _Milano e i principi di Savoja_. Raccontata la venuta
di Gioberti a Milano, e come dall’albergo del Marino si trasferisse a
quello della Bella Venezia «che, per la piazza che vi sta davanti, era
atto alle ovazioni popolari», dice che «la folla giunse e si accalcò sotto
le finestre della locanda: ma questa volta era folla di costituzionali
plaudenti all’apostolo della fusione; e quell’occupazione loro della
piazza San Fedele, fin allora tenuta in dominio esclusivo (?) dai
repubblicani, preconizzava il trionfo del partito moderato».

[73] «Il partito liberale (a Torino) e il ministro dell’interno che vi
appartiene, temono che il suffragio universale non metta sotto l’influenza
de’ sacerdoti e del partito aristocratico»: preziosa confessione, che
troviamo nella lettera 16 maggio dell’incaricato lombardo al Governo
provvisorio. E al 26 maggio scriveva, che il ritorno del ministro Ricci
da Lombardia coll’annunzio della fusione «ha contribuito a far rinascere
quella simpatia in Torino, che era da più di un mese morta, e quasi
sepolta per sempre».

[74] _Hujus falsissimæ conjurationis prætextu inimici homines eo
spectabant, ut populi contemptum, invidiam, furorem contra quosdam
lectissimos quoque viros, virtute, religione præstantes, et ecclesiastica
etiam dignitate insignes nefarie commoverent atque excitarent_.
Allocuzione 20 aprile 1848.

[75] Pillersdorf, allora ministro dell’Austria, nel ragguaglio che dappoi
pubblicò sopra la rivoluzione viennese, espone: «Mentre Inghilterra
e Francia facevano ragione delle nostre pratiche di conciliazione, un
ambasciatore della Corte romana (monsignor Morichini) al ministero fece
senza riguardi la proposta di rinunzia a tutte le provincie italiane,
dicendolo unico mezzo per l’Austria d’evitare pericoli maggiori...; i
trattati antichi non avere nissun valore».

[76] Il Comitato generale ai rappresentanti del Governo britannico, il 3
febbrajo. — «La nazione siciliana, che il despotismo si lusingava avere
cancellato dal novero delle nazioni, ha rivendicato col suo sangue il suo
diritto»; Atto di convocazione del Parlamento, 24 febbrajo 1848.

[77] Dispaccio 24 aprile.

[78] Dico almeno in pubblico, giacchè Abercromby scriveva al Ministero
inglese, aver lettera autografa del re, del 7 luglio, ove mostrasi
disposto accettare come base di pace il territorio fino all’Adige; pace
che, attesa la forza relativa della Sardegna e dell’Austria, non potrebbe
dalle Camere e dalla Nazione esser considerata che onorevole e gloriosa.
_Correspondance_, part. III, pag. 62.

La _Gazzetta di Vienna_ 1º luglio 1848 riferiva come, per amore
della pace, fosse stato proposto un armistizio, durante il quale si
tratterebbe sopra la base dell’indipendenza della Lombardia, salvo alcuni
accomodamenti finanziarj e commerciali; il Governo provvisorio aveva
ricusato trattare, perchè la questione non era lombarda ma italiana;
in conseguenza non restar all’Austria che appellarsi al giudizio del
mondo, e raddoppiare di sforzi per sottomettere il paese insorto.
Infatti Wessemberg, il 5 giugno, da Innspruck avea scritto al Casati tali
proposizioni e Hümelauer le avea portate a Palmerston, che credette non
vi s’acconcerebbero gli animi, sopreccitati in Lombardia.

[79] A mezzo aprile 1848, il Governo provvisorio di Venezia insisteva
presso Carlalberto e il generale Durando perchè mandassero truppe a
soccorso del Veneto: «Dell’onore del nome piemontese e pontifizio,
dell’onore del nome italiano si tratta. Ogni indugio potrebbe far perdere
il merito de’ sacrifizj, la lode della vittoria. Noi, che da secoli
siamo dissuefatti dalle armi, legati il braccio e il pensiero, noi non
ci vergogniamo di tendere la mano a fratelli più agguerriti di noi, a
fratelli che ci obbligarono la sacra lor fede; di tendere la mano dopo
aver fatto ogni possibile per armarci, munirci, ordinarci, rinnovare a un
tratto noi stessi».

[80] Un lodatore esclama: _Que dire d’un chef d’armée, se trompant si
longtemps sur sa position, continuant à si mal évaluer les forces qui sont
dévant lui, alors que dépuis trois jours l’ennemi a combattu de tous côtés
à Rivoli, à Sona, à Salionze, à Staffalo, qu’il est en ce moment à si peu
de distance, et qu’on vient de lui faire tant de prisonniers?_

[81] Dottore Maestri, avvocato Restelli, generale Fanti.

[82] Nella Cronistoria dell’_Indipendenza Italiana_ il Cantù ha descritta
a minuto quella trista giornata. (_Gli Editori_).

[83] Dispaccio 15 agosto di Abercromby a Reiset.

[84] Il Governo provvisorio di Venezia, dando annunzio di sè a quel della
Repubblica francese, scriveva: _Le temps des interventions est passé;
et ce ne serait pas un secours dangereux qui nous viendrait d’un pays,
où Lamartine est ministre_. Bisogna vedere come i giornali piemontesi
s’avventarono contro questa invocazione degli stranieri!

[85] Articolo 1º: «Un’assemblea costituente è convocata per tutti gli
Stati italiani, la quale avrà per unico mandato di compilare un patto
federale, che, rispettando l’esistenza de’ singoli Stati, e lasciando
inalterata la loro forma di governo, valga ad assicurare le libertà,
l’unione e l’indipendenza assoluta d’Italia, ed a promuovere il ben essere
della nazione».

[86] Crederei del Rossi l’articolo della _Gazzetta di Roma_ 20 aprile,
che fra altre cose diceva: «Il più grave pericolo per gl’Italiani non
è mai venuto dallo straniero. Le armi nostre lo hanno sempre disfatto
quando sono state concordi: e la nostra civiltà ha sempre trionfato della
sua quando si è potuta sviluppare liberamente. Il più grave pericolo
degl’Italiani è sempre stato nell’abuso de’ più grandi doni che Iddio
abbia loro fatti, di questa varietà di caratteri, di questa ricchezza
d’intelligenza, di questo rigoglio di volontà, di quest’abbondanza di
vita: fa mestieri pertanto, se non vogliamo ricadere negli errori e nelle
sventure de’ nostri maggiori, guardarci da questo pericolo e da questo
abuso, subordinando ad un principio solo tutte le nostre volontà...».

Egli allora scriveva ad una signora come i fatti di Milano l’avessero
commosso al pianto, ma non osava sperare fossero principio d’un
risorgimento durativo e glorioso, anzichè causa di una caduta più
irreparabile. Nè tanto lo spaventava la forza dell’Austria, ridotta a tale
che potrebbe essere cacciata quando l’Italia veramente e solennemente il
volesse. «Non sono io di quelli stolti, che della possanza e del valore
austriaco parlano e scrivono leggermente. So che la vittoria non può
ottenersi che con molto sangue; ma so pure che ove gl’italiani tutti
siano pronti a spargerlo, come già molti fanno, da valorosi assennati ad
un tempo, mostreranno all’universo che è impossibile incatenare un gran
popolo che voglia assolutamente essere libero e donno di sè.

«Ma saranno essi ad un tempo valorosi ed assennati? Valorosi, ne sono
certo; assennati, dubito.

«Tre moti diversi agitano l’Italia; giusto l’uno, santo l’altro, pazzo il
terzo, e che porrà tutto in rovina se nol si reprime. L’Italia non vuol
più Governi assoluti, paterni o no; chè anche i più paterni sono stupidi
ed iniqui se assoluti. Questo primo moto, se l’Italia fa senno, è omai
compiuto; le costituzioni hanno ricondotto nella penisola la libertà
politica; l’Italia, schiava jeri, è oggi libera quanto l’Inghilterra, e
la vince in eguaglianza civile. Che vuole di più?

«Ma tal articolo della costituzione ci spiace, tale o tal mutamento ci
sembra opportuno. Miserie! Chi impedirà, dopo maturo studio, sufficiente
sperienza e regolari discussioni, di variare in alcun che gli statuti,
e di meglio adattarli alle condizioni morali e politiche? E che? ancora
siete nuovi nell’arringo, avete appena allacciata la corazza e brandite
le armi, e già prima di farne la prova volete sputar sentenze da censori,
e dare al mondo insegnamenti di tattica costituzionale? E che? il sangue
italiano scorre gloriosamente sull’Adige e sulla Piave, i vostri fratelli
minacciati dal ferro austriaco implorano soccorso; e voi, invece di correr
all’armi, di chiedere, di gridare soltanto armi, vi state disputando,
chiaccherando, scribacchiando di statuti e di leggi, e ponete la somma
delle cose nel sapere se avrete qualche elettore di più o di meno, una o
due Camere, categorie più o meno larghe!

«Che direste del padrone d’una casa che, vedendola sul punto d’essere
preda alle fiamme, si stesse arzigogolando coll’architetto sul modo
di correggerne la scala e di addobbarne le stanze? Chiunque preoccupa
oggi le menti con sì fatte questioni, o è cieco, o è segreto nemico
dell’indipendenza italiana, o è un fanatico che tenta tutto sovvertire e
porre a soqquadro l’Italia, come i settarj suoi confratelli hanno messo
a soqquadro la Francia.

«Il Governo rappresentativo può senza fatica stabilirsi e lodevolmente
procedere, a poco a poco perfezionarsi, e, se sia duopo, allargarsi per
tutto in Italia; chè di ciò m’assicurano l’ingegno italiano, la crescente
civiltà di questi popoli, e più ancora la loro politica condizione.
Servi erano tutti in Italia, piccoli e grandi, poveri e ricchi; e quindi
tutti gli ordini dello Stato devono portare l’istesso amore alla libertà.
Qui non v’ha antiche gare, vecchi odj, acerbe reminiscenze, desiderj di
vendetta fra un ordine e l’altro. I privilegi de’ signori erano tal fumo,
che non può lasciare, dissipandosi, nè profondi rancori, nè pericolosi
desiderj. Fruisca l’Italia di questo singolare benefizio, e non guasti,
per stolta impazienza e vane ambizioni, un’opera ad essa più agevole, che
non è stata a qualsivoglia altra nazione.

«Solo lo Stato Pontifizio, per le sue peculiari condizioni, sembra
opporre ostacoli di qualche rilievo al sincero stabilimento del Governo
costituzionale. Giova sperare che, quel che non si è fatto da prima, si
farà poi. Il cuore del principe è ottimo, l’animo de’ sudditi moderato;
volesse Iddio non vi fosse a Roma altra difficoltà a vincere in questi
difficilissimi tempi!

«Il secondo moto italiano è quel che vuolsi chiamare nazionale;
quest’impeto santo della risorgente Italia, che la spinge a scuotere
qualsiasi giogo straniero, a spezzarlo coll’armi. Questi due moti non sono
da confondere uno coll’altro: il primo poteva separarsi dal secondo, come
il secondo dal primo. Anzi, se i grandi avvenimenti delle civili società
dovessero essere governati dall’umano giudizio, agevol cosa sarebbe il
dimostrare che in via meno breve ma forse più sicura sarebbe entrata
l’Italia, ove, prima di por mano alle armi contro l’Austria, avesse
avuto agio sufficiente a svolgere e rassodare in ciascuno Stato italiano
i nuovi ordinamenti politici. Il sentimento nazionale sarebbesi fatto
per la nuova vita politica più veemente ancora, e al tutto universale;
le armi sarebbero state pronte, la milizia educata a servirsene. Ma
che giova fermarsi in queste supposizioni? L’opportunità politica s’è
offerta inaspettata, e più bella che desiderare non osavasi; Italia l’ha
afferrata con animo fervido e mano gagliarda; il fervore ha supplito
agli apparecchiamenti. La prima vittoria può essere meno facile, ma
più gloriosa; la seconda meno pronta, ma più durevole; chè più cari e
più sacri sono i conquisti che costarono lunghe fatiche e molto sangue.
Inviolabile e santo è ad animi ben nati il suolo che ricopre le ossa de’
valorosi; e l’Italia vorrà essa soffrire che piede straniero le insulti
e le calpesti? Ma se l’amore della patria è fiamma divina, non vuolsi
però scambiarla co’ sogni di fantasie sregolate, e, peggio ancora, co’
precipitosi giudizj di menti leggiere...

«L’impero austriaco, sconvolto ed infiacchito, non è spento; un nuovo
esercito ha potuto scendere dall’Alpi e manomettere il suolo veneto. Chi
ne assicura che un forte Governo non sia per sorgere a Vienna dalle rovine
di quel vecchio e putrido?

«Riassumo. L’Austria nemica, gagliarda ancora ed ostinata, Russia non
amica, Germania ed Inghilterra neutrali, ma per cagioni diverse attente
e sospettose. E Francia? Voi avete sorriso, come tutti hanno dovuto
sorridere, udendo il Lamartine provare lungamente, minutamente, che gli
Italiani non vogliono a nessun patto i soccorsi francesi, e che neppure
le armi francesi si addensino alla frontiera italiana? — Che vuolsi!
diceva l’illustre poeta: in Polonia non possiamo andare; in Italia non ci
desiderano». E come gongolava di gioja del poter provare che gli Italiani
nè punto nè poco pensano a chiamare le armi di Francia!

«Giova pertanto attentamente considerare in quali condizioni si trovi
l’Italia, volendo fare da sè, siccome essa desidera e si è proposto.
Desiderio e proponimento che i buoni diranno santi, nobilissimi, generosi,
se all’altezza del pensiero rispondono i fatti, i sacrifizj, il senno. Ove
ciò non fosse, il desiderio sarebbe giudicato vanagloria, il proponimento
presunzione e follia...».

[87] Vedi il foglio del Governo 2 ottobre 1848, e la dichiarazione del
Rossi nella _Gazzetta di Roma_ 4 novembre, ove tende a mostrare che gli
ostacoli venivano dal Piemonte, il quale voleva acquistare _magnifiche
accessioni_ coll’armi e col denaro degli alleati.

[88] Lettera al Gioberti 30 ottobre.

[89] _L’Epoca_ al 16 novembre. — Nel _Contemporaneo_ al 17 novembre: «Jeri
cadde sotto i colpi della pubblica indignazione il ministro Rossi, che per
continue provocazioni con parole inserite nella _Gazzetta_, e con fatti
mal pensati in politica aveva talmente esacerbati gli animi del popolo
romano, che ognuno ambiva a cooperare alla sua caduta... S’illuminavano
i balconi, le finestre, le loggie, e uscendo dai quartieri le truppe
fraternizzavano col popolo; e i carabinieri, ch’erano stati più degli
altri presi in sospetto per la comparsa di più centinaja di loro nella
capitale, giravano con bandiere tricolori in mezzo al popolo, giurando
fedeltà». — E nell’_Alba_ di Firenze: «Nella fucilata che ha avuto luogo
per tre ore circa, è morto monsignor Palma e alcuni Svizzeri... L’esterno
del palazzo del papa è crivellato dalle fucilate... Di Rossi non si parla
più. Jeri sera il popolo andò per il corso con torcie e bandiere cantando
_Benedetta quella mano che il tiranno pugnalò_».

[90] Decreto di convocazione, 29 dicembre.

[91] Discorso dell’Armellini.

[92] Appena avvenuta la fuga di Pio IX, Mamiani mandava una circolare
ai diplomatici, scagionando il Ministero di quei mali, e soggiungeva:
«Di tutto quello che di più duro e violento è succeduto negli ultimi
tempi in Roma e nelle provincie, è stato cagione perpetua il problema
difficilissimo di convenientemente accordare il temporale dominio collo
spirituale, desiderando i popoli tutti, con unanimi voti, che fra i due
poteri intervenga una divisione profonda e compiuta, salva rimanendo
l’unità d’ambidue nella stessa augusta persona, laddove dall’altro
lato si è voluto e sperato ostinatamente di tenerli, come per addietro,
strettamente congiunti e confusi. Alla soluzione quieta e durevole di
tanto problema occorreva un mutuo spirito di tolleranza, di conciliazione
e di longanimità, e soprattutto occorreva la lenta azione del tempo
e la forza degli abiti nuovi, e di nuovi interessi. Ma le passioni di
ambidue gli estremi partiti, e quella fiera impazienza, che spinge in
ogni parte d’Europa e del mondo le presenti generazioni a rompere tutto
ciò che non vagliano a piegare, condussero in Roma la resistenza e il
conflitto, e le subite e forse immature trasformazioni; e poi aggiuntò
asprezza e impetuosità al conflitto il sentimento nazionale soddisfatto,
e il credersi in questi ultimi tempi che venisse a contesa colla politica
nuova italiana la vecchia politica della romana curia, la quale ha pensato
troppe volte di scampare sè sola nel naufragio delle nazioni».

[93] «Odio e fama grave procacciavano gli assassinj politici, dacchè la
vendetta dalle sêtte nudrita in animi selvatici prorompeva traditrice con
impeto tale, che i sicarj erano tiranni di alcuna città. Dirò d’Ancona,
ove uccidevano di pien meriggio nelle piazze, negli atrj privati, nei
pubblici ridotti, al cospetto delle milizie che lasciavano misfare:
dirò che vi erano uffiziali di Polizia, i quali, sgherri, giudici
e carnefici ad un tempo, davano morte ai cittadini, cui per ufficio
dovevano sicurare dalle offese. Felice chi potesse coll’oro comperare
la vita, o camparla colla fuga, tanto gli animi erano dal terrore
signoreggiati, tanto caduta nell’abjezione ogni autorità, tanto profligata
la tirannide. La libertà diserta dalle terre contaminate dall’assassinio,
la civiltà rinega, e Dio castiga oggi con dura servitù le scellerate
costumanze! Gl’impuniti delitti d’Ancona giunsero a tale, che i consoli
stranieri ne fecero doglianza al Governo, e ne mandarono fuori la fama
orribile. Alcuni deputati anconitani, il Baldi, il Pollini, il Berretta
domandavano risolute opere di repressione, ed il Baldi si offeriva andare
commissario per compierle. Ma essi avevano reso il partito contrario alla
proclamazione della repubblica, ed erano in voce di moderati; il perchè
non ebbero tanto d’autorità che il Mazzini volesse fare a fidanza con
loro. Invece mandò commissarj il Dall’Ongaro ed un Bernabei di Sinigaglia,
i quali, vili cortigiani degli scatenati carnefici e della bordaglia
principe, accrebbero la fama odiosa del Governo». FARINI, _Lo Stato
romano_, vol. III.

[94] _Pro Deo et populo_ era stata la divisa anche di Giuseppe II.

[95] «Quel che i giornali toscani fossero in quei mesi di giugno e di
luglio, vietami il pudore di riferire». RANALLI, lib. XII.

[96] Lettera 6 ottobre.

[97] Ajutò a crederlo l’essersi nel giorno medesimo mosse a tumulto
Parigi, Vienna, Berlino, Cracovia. Così all’insurrezione di Milano
erano state contemporanee quelle di Berlino, di Monaco, d’altri paesi di
Germania, e fino di Stoccolma.

[98] _Correspondence_, 9 marzo 1849.

* La Camera legislativa francese voleva intervento rispettoso e
Touqueville ministro degli affari esteri diceva: «Per correggere gli
abusi nello Stato Pontifizio cos’abbiam noi a fare se non supplicare il
S. Padre stesso di seguitar a camminare nella via dov’era entrato da solo
per generosa e gloriosa iniziativa; a ricordarsi de’ proprj esempj, e del
felice esito de’ suoi primi atti?» 8 agosto.

[99] «Eppure nessuno volle prestar fede alle dolorose rivelazioni, perchè
gli uomini da cui erano fatte non ispiravano confidenza (!). _Ove ciò non
fosse stato_, chi avrebbe persistito nel proposito della guerra con un
esercito che a nessun patto la voleva?» BROFFERIO, _Storia del Piemonte_,
part. III, c. 3.

[100] Dispaccio al marchese Ricci, 11 dicembre 1848.

[101] Nell’_Opinione_ del novembre 1848, si legge: «Signor ministro
dell’interno, sapete voi che un vivajo di spie Radetzkiane e Pachtiane
formicola per Torino, e a Genova e dappertutto?... perchè non ne fate
impiccar alcuna a mo’ di esempio? (qui seguono indicazioni affatto vaghe,
e conchiude) E noi non faremo fucilare nessuna spia? _proh dolor!_»
Nelle Camere, il 17 novembre, si prendeva a ribattere tali asserzioni,
assicurando che i Lazzaroni sanfedisti di Lombardia erano rimasti tutti
di là dal Ticino.

[102] Dispaccio di Schwarzenberg, 12 febbrajo 1849.

[103] Dispaccio 14 marzo di Palmerston a Ponsonby.

[104] GIOBERTI, negli _Scritti varj intorno alla quistione italiana_,
stampati nel 1847, pag. 47.

Nella tornata del 21 febbrajo 1849, egli, accusato di questa
intervenzione, diceva non essere intervenzione l’entrare in uno Stato
qualunque con uomini armati, quando si è chiesti dal principe e dal
popolo. Ecco scagionata l’Austria.

[105] Alla vigilia della riscossa, fondava il _Saggiatore_ con trenta
pagine di prefazione, e tra un profluvio di parole diceva: «Una mano di
forsennati testè sconvolgeva la Toscana, e faceva sì che questo giardino
d’Italia, già meta gradita de’ più lontani peregrinatori, divenisse
intollerabile a proprj figli... Ministri subdoli, spergiuri e traditori,
portati al seggio da un tumulto, fecero forza al Parlamento col terrore,
lo costrinsero a votare contro coscienza una legge distruttiva dei patti
giurati; aggirarono, carrucolarono, strascinarono l’ottimo principe nel
precipizio, necessitandolo infine a fuggire... E chi è questo principe?
il medesimo che timoneggiò sempre i suoi popoli con benigni e mitissimi
reggimenti, che spontaneo li privilegiava di libere istituzioni ecc....
Tutti gli statisti convengono che l’intervento a rigore di lettera sia
lecito quando viene comandato dalla suprema legge della necessità e della
propria salvezza, ecc.».

I triumviri di Toscana ristamparono questo passo, anteponendovi parole
ove diceano che «Dio volle umiliare questo non degno suo sacerdote colla
perdita della ragione».

[106] Normanby scriveva a Palmerston l’11 marzo: «Il signor Mercier fu
spedito da Parigi a Torino per mostrare nella più stringente maniera al
re di Sardegna il _suicidale effetto_ della sua condotta nel provocare in
questo momento la rinnovazione delle ostilità, e assicurarlo non s’aspetti
verun sostegno dalla Francia se con ciò provocasse un’invasione de’ suoi
dominj per l’esercito vincitore».

Palmerston, al 19 marzo, ricevuta la denunzia dell’armistizio, incaricava
di esprimere quanto gli dispiacesse la strada in cui metteasi il Gabinetto
di Torino; sperava ancora non si comincierebbero le ostilità; in ogni caso
si procurasse cessarle ove fossero cominciate.

Mercier presentavasi a Novara al re, in nome del Governo francese, per
dissuaderlo dal cominciare le ostilità (_Edwards a Palmerston, 24 marzo_).
Abercromby faceva altrettanto (dispaccio 21 marzo), dopo che al 14 aveva
scritto dolergli senza fine che il re, malgrado i ripetuti consigli delle
Potenze mediatrici, esponesse la pace universale e il proprio paese con
un attacco non provocato contro un vicino.

[107] Lettera a Colloredo 18 marzo 1848, e dispaccio di Edwards a
Palmerston 23 marzo.

Io non credo possa trovarsi romanzo che pareggi la commozione del leggere
adesso gli scritti e i giornali che uscirono dal 18 al 30 marzo 1849. Vero
è che, a differenza dei romanzi, bisogna conoscere prima la catastrofe.

[108] Di pagine che straziano il cuore per la continua immagine d’occulte
mene, di trame liberticide, di corruzione diffusa, tali da far vergognare
d’essere italiani, può raccogliersi lo stillato in queste poche righe:
«Udito il disastro di Novara, che tutti giudicarono tradimento, udite le
condizioni dell’armistizio che a tutti parvero disonorevoli, Genova alzò
il capo fieramente, e non volle sottoporsi nè al croato che invadeva, nè
al Ministero che pareva essere di così buona intelligenza coll’invasore,
ma difendere la città, come essi dicevano, dagli Austriaci di Vienna
e da quelli di Torino... Per poco che il Governo avesse voluto essere
umano, nulla era più facile che ridurre Genova a obbedienza senza lacrime
e senza sangue. I soldati di Lamarmora, volendo emulare gli esempj di
Novara, s’abbandonarono a deplorabili eccessi contro le proprietà e le
persone... Partivano gl’infelici in traccia di men crudeli spiaggie sulle
rive dell’Ellesponto sotto la protezione della mezza luna. Più infelici
ancora quelli che rimasero... Nè le ire si spensero colle tolte sostanze,
coll’oltraggiata onestà, col versato sangue». BROFFERIO, _Storia del
Piemonte_, tom. III, p. 116-120.

[109] Un uffiziale polacco amico del generale Chrzanowsky, e un uffiziale
piemontese, nelle _Considerazioni sugli avvenimenti militari del marzo
1849_, gettarono tutte le colpe sul Ministero. Chiodo, Cadorna, Tecchio
cessati ministri vi risposero, mostrando con documenti che il generale fu
istruito a tempo dell’armistizio disdetto, e aveva assentito.

[110] _Le prompt accomplissement de la régénération de l’Italie a pu être
empêché par de _grandes fautes_ commises à Turin_, scriveva lord Minto a
Massimo D’Azeglio. _La France ne permettra jamais que la Sardaigne fût,
_malgré ses fautes_, réduite à un état voisin de l’anéantissement_, diceva
Drouyn de Lhuys al Gallina. Ma l’avrebbero professato prima dell’esito?
Tocqueville, nuovo ministro in Francia, diceva: _Après une guerre qu’a
justifié et accru la juste renomée de bravoure dont jouit dans le monde
l’armés piémontaise, mais qui c’est terminée par de très-grands revers,
il était peut-être difficile d’espérer des meilleures conditions._

«Arrossisco pel mio paese de’ tanti inni di guerra cantati al tempo
addietro; nè certo io mi resi mai complice di siffatte ciarlatanerie».
D’AZEGLIO, _Dispaccio_ 19 maggio 1819 al conte Gallina.

[111] _Si l’Autriche veut une paix solide et durable, il faut qu’elle se
montre généreuse; il faut qu’elle aide le roi à surmonter les immenses
difficultés qui l’entourent._ Il ministro De Launay al generale Dabormida,
13 aprile.

[112] _Giornale militare_, al 3 settembre 1848.

[113] Il console Goodwin a lord Napier, 1848.

[114] Le imprese degli Svizzeri nelle Due Sicilie furono raccontate dal R.
De Steiger nella _Revue contemporaine_, gennaio e marzo 1861, da soldato
senza passione e in tono ben altro da quello consueto. Loda assai la
moderazione del Filangieri e dei vincitori.

[115] 19 gennajo 1849 il ministro Gioberti richiamava il proprio ministro
a Napoli per «l’indegna calunnia spacciata in Francia dal principe di
Cariati, colla quale ci attribuiva l’offerta di togliere al papa le
Legazioni». Spero che il sospetto di tanta infamia non anniderà per un
solo istante nell’animo del pontefice.

[116] Il principe Butéra al viceammiraglio Parker, 17 marzo 1849.

[117] Vedansi il rapporto di Ferdinando Tadini e Leopoldo Galeotti sul
Ministero democratico e il triumvirato, stampato nel 1850, e i _Ricordi_
di L. G. De Cambray Digny sulla Commissione governativa del 1849, stampato
nel 1853.

[118] Pochi uccisi nel breve assalto; fucilati dopo non meno di sessanta,
fra cui un rumoroso prete Maggini.

[119] LA FARINA. E vedansi i dispacci di Moore nella citata
_Correspondence_. Ranalli divisa a lungo que’ micidj e soggiunge: «Non è
improbabile che secretamente vi dessero mano i settarj della tirannide,
mascherandosi da repubblicani, e co’ più licenziosi della democrazia
accontandosi, per interesse d’infamare la repubblica». Lib. XXIII.
Insinuazione gratuita, che ricorre di spesso. Vedi anche _Fatti atroci
dello spirito demagogico negli Stati romani_; racconto estratto dai
processi originali, Firenze 1853.

[120] _L’orbe cattolico a Pio IX p. m. esulante da Roma_, 1848-49. Napoli
1850.

[121] Vedasi Drouyn de Lhuys ministro, al sig. La Cour ambasciadore a
Vienna il 17 aprile.

[122] Freeborn a lord Palmerston.

[123] Nelle istruzioni a Oudinot leggessi: «Tutte le informazioni ci fanno
credere che sarete lietamente ricevuto a Civitavecchia, dagli uni come
liberatore, dagli altri come mediatore contro i pericoli della riazione.
Se però contro ogni verosimiglianza si pretendesse impedirvene l’entrata,
voi non dovreste arrestarvi per la resistenza oppostavi in nome d’un
Governo che nessuno ha riconosciuto in Europa, e che a Roma si mantiene
contro il voto dell’immensa maggioranza della popolazione».

[124] Seduta del 2 giugno 1849.

[125] Vedi _Giornale di Roma_, 16 luglio 1849; e il discorso del cardinale
Tosti.

[126] Più tardi Bastide stampò _La République française et l’Italie en_
1848, _récits et documents_ (Bruxelles 1858), dove mostra come il re e
il Ministero di Piemonte avessero soprattutto paura della Francia perchè
produrrebbe un movimento repubblicano, pericoloso alla Casa di Savoja;
come Pareto non meno che Brignole ripetessero che Italia voleva far da
sè; come di rimpatto gli Ungheresi e Kossuth specialmente riguardassero
la lotta come fosse tra l’Austria e Carlalberto, e perciò convenisse
sostenere quella.

[127] Nei carteggi diplomatici dell’agosto appare evidente questo
pensiero, che basta a giustificare il Governo veneto. Beaumont,
ambasciadore francese a Londra, scriveva in tal senso a Palmerston, e
conchiudeva: «Certo la Francia non può dispensarsi dal portar prontamente
soccorsi a Venezia, salvo il caso d’una mediazione pacifica conforme alla
politica sua: ma per questa è duopo che cessi subito ogni ostilità». 29
agosto 1848.

Nell’indirizzo di Manin ai ministri d’Inghilterra e Francia, del 4 aprile
1849, è detto: _Si d’autres Etats italiens ont jadis rejété le secours
de la France, Venise était, en revanche, accusée, du contraire: les
journaux du temps en font foi... La durée de la résistance est elle-même
un titre, puisqu’elle démontre que ce n’est pas une ivresse turbulente,
mais une volonté réfléchie. Tout en recommandant à V. E. l’Italie toute
entière, dont les intérêts sont solidaires, et dont la pacification,
c’est-à-dire l’affranchissement est devenu la condition indispensable de
la paix de l’Europe, nous devons vous supplier de prendre dès l’abord en
considération notre Etat, qui, faute de moyens économiques, ne saurait
se prolonger sans donner gain de cause à nos ennemis. Ses délais sont
calculés... Venise affranchie ne saurait donner de l’ombrage; Venise
autrichienne serait une honte et un embarras._

Palmerston rispondea il 20 aprile, che Venezia appartiene all’Austria
pel trattato di Vienna, e che «il componimento proposto dai Governi
inglese e francese a quello d’Austria nell’11 agosto 1848 come base
della negoziazione, non alterava in ciò il trattato di Vienna: nessun
cangiamento può essere fatto nella condizione politica di Venezia se non
col consenso e l’opera del Governo imperiale; e questo ha già annunziato
la sua intenzione a tal riguardo».

Simile, ma più ipocrito era quello di Drouyn de Lhuys: _Si la liberté
italienne eût été partout défendue ainsi, elle n’aurait pas succombé,
ou de moins, en recourant à temps, après une honorable résistance, à la
négociation, elle eût obtenu des conditions, qui lui eussent assuré une
partie des bénéfices de la victoire. Il en a été autrement. Des fautes
irréparables ont été commises, et les Vénitiens qui n’ont pas à se le
reprocher, _doivent_ aujourd’hui, par la force des choses, en supporter
les conséquences_.

[128] È singolarmente memorabile la canzone del Mameli:

    Fra le lagune adriache
    Giace una gran mendica....
    Date a Venezia un obolo ecc.

[129] Agostino Stefani muratore si offre al colonnello Cosenz d’andare a
mettere fuoco al ponte ove il nemico s’accalcava. I difensori lo vedono,
lo credono una spia, e a furore lo ammazzano.

[130] «Il ministro dalle prime ci disse tenessimo un franco linguaggio:
l’Austria del passato non è quella d’oggi; gli uomini che al presente
dirigono, sono di liberali principj, e comprendono avere gl’Italiani avute
poche garantigie, e queste pure talvolta non rispettate ecc.» _Relazione
di Foscolo a Calucci_.

[131] Ne fu poi graziata alla venuta dell’imperatore nel 1857. Manin morì
a Parigi nel 1857, e mentre l’aveano vilipeso governante, insultato o
negletto esule, il divinizzarono come precursore delle idee che dappoi
trionfarono.

[132] Chiudendo la _Storia Universale_ nel dicembre 1847, noi dicevamo:
«Ognun vede che la rivoluzione odierna è ben diversa dalle precedenti; non
si parla d’assassinj, ma si canta l’affratellamento; non si bestemmiano i
preti, ma si va sui loro passi alla conquista di sempre nuovi vantaggi;
non si sbalzano i regnanti, ma si chiedono da loro quelle concessioni,
a cui gl’invita un grande esempio. Come finirà? Possano i nostri
evitare almeno il ridicolo, se non potranno evitare un’altra volta la
commiserazione! Ma se Dio li prospera, abbiano a mente che non dalla
guerra viene la libertà, bensì dalla pace, e che facile è la rivoluzione,
mentre è difficile il far da essa uscire _una società che si difenda, si
ordini, si governi da sè_».

[133] Ho studiato questo modo principalmente in uno che, come negli
atti così nel libro, affettò lealtà. Or vi ritrovi sempre «i faccendieri
pontifizj o imperiali», e «gente venduta e perversa» e quei che servono
al potere, e simili frasi; mentre gli ambasciadori della repubblica,
i capi de’ movimenti, i periti nei processi o nelle battaglie o nelle
sollevazioni sono «anime d’oro, spiriti incontaminati, fedeli dalla cuna
alla tomba alla moralità e alla patria». Se Carlalberto rinnova la guerra,
sono i nemici occulti di esso che ve lo accelerano: se i sommovitori
fanno tumulto e sangue, è «grave disdoro della pubblica autorità, che
nulla fece per prevenire lo scandalo e reprimerlo»: se sono arrestati o
repressi colla forza, ecco «imitati gli esempj dell’Austria, rinnovate
le commissioni di Romagna e i supplizj di Napoli»: i principi e il papa
fingono di cedere alla violenza», hanno «pretesti ridicoli», simulazione
sono i loro atti migliori. In lui frequentissime ricorrono frasi
somiglianti a queste: «Nome tanto in quel dì gradito, quanto aborrito
dappoi. — Personaggio fino allora incontaminato. — Ministro della più
nobile reputazione, che poi tradì — Correnti, segretario che poco potè
giovare alla pubblica causa, e molto nocque alla propria reputazione,
perdendo il favor popolare e gli amici».

[134] Dal libro del Bava appare che s’ignoravano interamente la natura
del suolo lombardo, e fino i monti e i fiumi suoi da quell’esercito «che
da un quarto di secolo si preparava a cacciarne un altro» istruttissimo
d’ogni siepe, d’ogni ridosso. Nel carteggio dell’incaricato di Lombardia
a Torino al 5 giugno 1848 leggiamo: «Si desidera che la Commissione che
sarà spedita (per combinare la fusione), sia composta di persone al fatto
del nostro ordinamento amministrativo e finanziario, essendochè nessuno
dei ministri è al fatto di queste cose».

[135] Lo asserì il _Corriere italiano_ di Vienna al 17 aprile 1855.

[136] Schwarzenberg scriveva al conte Colloredo 17 giugno 1849:
«I principi che primi avevano accordato ai loro paesi garanzie
costituzionali, furono le prime vittime delle vicende della popolarità. In
compendio la storia d’Italia negli ultimi due anni provò un’altra volta
che, per far godere a un popolo i frutti della libertà non basta dotarli
di istituzioni liberali, ma bisognerebbe anzitutto possedere l’arte
d’ispirargli quel profondo rispetto delle leggi e dell’autorità, e quello
spirito pubblico che costituiscono la potenza dell’Inghilterra, e che ne
fanno l’oggetto dell’invidia e dell’ammirazione dell’altre nazioni».

[137] «Uno dei capi del comitato rivoluzionario mantovano, le cui
_tendenze_ erano di far scoppiare una sommossa popolare, onde conseguire
la violenta separazione del regno lombardo-veneto dall’Austria e la di lui
repubblicanazione». Così la sentenza 7 novembre. Prima ch’io imparassi a
conoscerlo ebbe egli la bontà e la pazienza di togliere in minuto esame
la mia _Storia Universale_, appuntandovi ciò che di men esatto vi fosse,
principalmente nella parte ecclesiastica e nella riverenza al dogma
e all’autorità pontificale. Alla memoria sua ho tributato il miglior
omaggio, cioè la verità.

[138] Di tutto ciò, e delle vicende del Canton Ticino parliamo a disteso
nella 2ª edizione della _Storia della città e diocesi di Como_; Firenze
1856.

Il Canton Ticino, quinto in estensione fra i cantoni Svizzeri, e formante
una 14ª parte dell’intera Confederazione elvetica, ha la maggior lunghezza
di miglia 70 da Chiasso al confine di Uri poco oltre l’ospizio del
Sangotardo, e la superficie di circa 780 miglia geografiche quadrate. È in
otto distretti; e il Governo, colla vicenda di sei anni, siede a Lugano,
Bellinzona, Locarno. Cenquindicimila sono gli abitanti, occupantisi del
traffico, e gran parte n’esce come muratori, capomastri, architetti. La
costituzione fu riformata nel 1830 in senso liberale. Scarsissime finanze,
l’entrata valutandosi di un milione e mezzo di franchi.

Spettano ai Grigioni la valle Bregaglia che sbocca a Chiavenna, la doppia
valle Mesolcina e Calanca che riesce presso Bellinzona, e la valle di
Poschiavo che finisce a Tirano in Valtellina. Dipendono nell’ecclesiastico
dal vescovo di Como, e sono composte di comunità, che ponno riguardarsi
altrettante repubbliche, debolmente legate ad altre del Cantone. Hanno
circa dodicimila abitanti italiani.

[139] Secondo lo Zobi, gli ecclesiastici nel 1858 erano 17,505: e di
lire 2,909,650 la rendita affetta alla causa pia ecclesiastica; mentre la
totale del granducato era di 49 milioni.

[140] Lo Stato era diviso nelle prefetture di _Firenze_, _Lucca_, _Pisa_,
_Siena_, _Arezzo_, _Grosseto_, e i governi di _Livorno_ e dell’isola
d’_Elba_. Il conto del 1858 batte sui 38 milioni di lire. La forza armata
consiste in 17,000 uomini. La marina ha 184 legni a vele quadrate, 779
a vele latine, 959 bastimenti. Nel bilancio di previsione pel 1849 si
calcolava un disavanzo di 9,761,290 lire. L’occupazione straniera può
essere costata 30 milioni. Il debito nazionale nel 1847 non eccedeva
i 42 milioni e mezzo. Nel 49 creavasi un prestito di 30 milioni al 5%,
da redimere in trent’anni mediante il canone del tabacco. Un altro si
contrasse col banchiere Bastogi di 12 milioni, dandogli in garanzia la
miniera di ferro dell’Elba. Un terzo, detto consolidato, si fece nel 1852,
vendendo 3 milioni di rendita consolidata al 65%.

Al fine del 1856 i debiti fruttiferi e infruttiferi giungeano a
124,873,256 lire, portanti sul bilancio l’annua passività di lire
6,117,185. Inoltre le comunità si caricarono di debiti che arrivano a 40
milioni. Ultimamente la spesa del tesoro fu preveduta in 39 milioni, e la
rendita in 38, col disavanzo di 934,140 lire.

Firenze verso il 1550 aveva 22,000 maschi, 29,880 femmine, fanciulli e
vecchi 9120; prima della morte nera nel 1438 contava 100,000 abitanti, che
furono ridotti a 60,000; ancor meno rimasero dopo le peste dell’anguinaja
nel 1450; nel 1490 erano 70,500; nel 1530 già 85,500: adesso 112,500.
Ora ha 103,000 abitanti: in tutto lo Stato la popolazione nel 1820 era di
1,172,342, salita nel 1831 a 1,365,705, si trovò nel 1851 a 1,761,140 col
maggiore incremento negli ultimi cinque anni che fu del 2,50 per cento
all’anno.

La popolazione del 1853 era composta di

              _famiglie_  _individui per famiglia_
  Cattoliche   323,272          5 52
  Eterodosse       442          4 53
  Israelite       1443          5 33
              ————————        ——————
  In tutto     325,157          5 12

Si contavano 31 accademie letterarie, 25 casse di risparmio, 114 uffizj
postali da cui si ricavavano 1,211,475 lire: 939 bastimenti mercantili, di
tonnellate 55,631. Un terzo del paese è maremme; il resto floridissimo.
A Volterra son le cave d’alabastro e del sale per quasi tutta Toscana, e
i lagoni del borace.

[141] Nel novembre 1856 si restrinsero a Bologna e Ancona. Nel tempo
dell’occupazione quel comando inviò a morte censessantasette persone.

[142] Vedi _Sulle barche a vapore e sul Tevere_, dissertazione di
Alessandro Cialdi, che s’è posto fra’ migliori idraulici co’ recenti
_Cenni sul moto ondoso del mare e sulle correnti di esso_.

[143] Secondo il bilancio di previsione del 1859, le spese sarebbero
state di 150 milioni e mezzo; le rendite di 141 milioni. Dal 1848 al 58 si
contrassero debiti per 571,152,133, portanti l’interesse di 25,837,339,
sicchè nel 1858 il debito era di 720,600,000 lire, pel cui servizio si
stabilirono 40 milioni e mezzo. Dappoi la previsione della guerra fe
contrarre un altro debito.

Il _Regno Sardo_ comprende l’isola di _Sardegna_ e i dominj di Terraferma.
La Sardegna ha la superficie di 23,920,34 chilometri quad.; la Terraferma
51,402,85: perciò tutto il regno chilom. quad. 75,323,19, pari a miglia
geogr. quadr. 21,964; o a miglia geogr. ted. quadr. 1372. La maggiore
larghezza della Sardegna è di miglia geogr. 77-4/5, e la maggior lunghezza
di miglia 144-1/4, e il circuito di miglia geogr. 800: dei dominj in
Terraferma la larghezza maggiore è miglia 148, la lunghezza 176. Secondo
il censimento del 1838, la Sardegna contiene 524,633 abitanti, la
Terraferma 4,125,735, in totale 4,650,368.

L’isola di Sardegna, già ripartita ne’ due capi di _Cagliari_ e
di _Sassari_, è ora divisa in tre intendenze generali o divisioni
amministrative, _Cagliari_ (30,000), _Sassari_ (22,000) e _Nuoro_
(4200); e suddivisa in 11 provincie, 85 mandamenti, e 367 Comuni. Ebbe
già un Ministero speciale _per gli affari di Sardegna_, e legislazione e
ordinamento particolare; finchè la Costituzione del 1848 agguagliò tutti
i paesi e tutti i cittadini.

Gli Stati di Terraferma sono in undici divisioni amministrative, suddivisi
in 39 provincie, 409 mandamenti, e 2709 Comuni.

L’esercito si recluta per coscrizione, a cui sono sottoposti tutti i
giovani giunti che sieno al ventunesimo anno d’età, e che annualmente
possono valutarsi a 18,000. Di questi, i primi 9000 tirati a sorte
formano il contingente di prima categoria, il quale viene immediatamente
incorporato nell’esercito, con l’obbligo di servire cinque anni
attivamente, e sei in congedo illimitato; i rimanenti 9000 formano il
contingente di seconda categoria, il quale nel primo anno viene istruito
per cinquanta giorni in campo, e rimane di poi a disposizione del Governo
sino al ventesimoquinto anno d’età. Di maniera che, oltre gli uomini in
congedo illimitato deputati a riempire immediatamente i quadri in tempo di
guerra, v’hanno cinque contingenti di seconda categoria per la formazione
de’ quinti battaglioni di deposito.

Per le forze marittime si hanno:

  Bastimenti a vela             Nº   10  con  270  cannoni
  Vapori a ruote                 »    7   »    38     »     1600  cavalli
  Fregate miste ad elice         »    4   »   200     »     2080     »
  Trasporti a vela e a vapore    »    5   »     —     »        —
                                     ——       ———           ————
                                     26       508           3680

Lungo il mare tiene le fortezze di _Sant’Albano_, che assicura le
alture di Nizza; _Villafranca_, che legasi colla precedente in linea
difensiva; _Ventimiglia_, che copre la strada della Riviera ed assicura
la sinistra della Roja; _San Remo; Finale; Vado_, antemurale di Savona;
_Savona_, antico castello, che assicura il porto e difende il passo della
Riviera; _Genova_, coi varj forti e doppio circuito, che domina il golfo;
_Spezia_ e _Sarzanello_, antico castello che copre il passo della Magra.
Entro terra il forte di _Bard_ chiude il passo per la valle d’Aosta;
_Fenestrelle_ per la valle del Chisone al Monginevra in Francia; _Exilles_
per la valle d’Oulx al Monginevra; _Lesseillon_ in valle di Morienna,
domina il corso dell’Arc, e copre il passo del grande e del piccolo
Moncenisio; _Gavi_, antico forte, difendeva il passo per la Bocchetta
ligure; la cittadella d’_Alessandria_ protegge le vie provenienti da
Genova e dal ducato di Parma per Torino; _Vinadio_ chiude il passo
dell’Argentiera, e copre l’entrata nella valle di Stura. Vi sono poi
nell’interno varie piazze di difesa e cittadelle, come Torino e Casale,
oltre quelle dell’isola di Sardegna.

[144] Fu poi concessa nel gennajo 1859.

[145] L’amministrazione comunale è composta da un decurione, un sindaco
e due magistrati, eletti da ciascun Comune. Per le cause civili vi sono
11 tribunali di prima istanza, 4 corti alte e la suprema a Napoli; per le
criminali 15 corti alte.

Il reame divideasi in dominj _di qua dal Faro_ e _di là dal Faro_, e in
22 provincie, aventi miglia geogr. quadr. 31,460.

Di qua sono: 1 Abruzzo Ulteriore; 2 Secondo Abruzzo Ulteriore; 3 Abruzzo
Citeriore; 4 Molise; 5 Terra di Lavoro, dove Caserta, stupenda residenza
reale, e _Montecassino_ dal celebre convento, culla de’ Benedettini;
6 Napoli, colla più grande città d’Italia, in vista del Vesuvio, e per
situazione non comparabile che a Costantinopoli; 7 Principato Ulteriore;
8 Principato Citeriore con _Salerno_; 9 Capitanata, con _Foggia_; 10
Terra di Bari, con porto sull’Adriatico attivissimo; 11 Terra d’Otranto,
cl. _Lecce_, ove _Brindisi_ ha perduto affatto la sua importanza; 12
Basilicata, la più povera provincia del regno; 13 Calabria Citeriore, cl.
_Cosenza_; 14 Seconda Calabria Ulteriore; 15 Prima Calabria Ulteriore,
con _Reggio_ sullo stretto di Messina. Secondo il censimento del 1849,
la città di Napoli avea 416,499 abitanti, di cui 204,010 maschi, non
contando i forestieri, la guarnigione e i carcerati: nacquero 14,667
persone, morirono 14,535; vi furono 2757 matrimonj, e allo stabilimento
dell’Annunciata si ricevettero 2227 projetti.

Di là dal Faro le provincie sono nominate dal capoluogo. 16. Palermo con
200 mila abitanti e crescente commercio; 17 Messina sullo stretto; 18
Catania a piè dell’Etna; 19 Siracusa con piccolo porto: 20 Caltanisetta;
21 Girgenti; 22 Trapani.

Secondo le statistiche del 1856, la popolazione di qua dal Faro era di
6,886,000 anime: il conto bilanciavasi su 32 milioni di ducati: il debito
in 139 milioni di ducati. La flotta a vela e a vapore, di 12 legni, porta
746 cannoni: l’esercito ha 65 mila uomini di fanteria, 6736 di cavalleria;
6322 di artiglieria, 2880 del genio; oltre 51 mila uomini di riserva.

La tavola pubblicata dalla direzione centrale di statistica per la Sicilia
dà che nell’isola

  al fine del 52 eran anime  2,208,392
       —      53     —       2,231,020
  di cui i maschi            1,101,248

[146] Dall’_Annuario_ togliamo questo specchio della popolazione italiana.

  STATI
                       |Ultimo censimento
                       |       |Abitanti
                       |       |          |Presunti
                       |       |          |al 1º gennajo 1857
                       |       |          |          |Superficie in
                       |       |          |          |chil.
                       |       |          |          |quadrati
                       |       |          |          |          |Abitanti
                       |       |          |          |          |  ogni
                       |       |          |          |          |chilom.
  ———————————————————————————————————————————————————————————————————————
                       |1 genn.|          |          |          |
  Due     /Continente  |  1854 | 6,843,355| 6,986,906| 79,233 00|  88 18
  Sicilie \Isola       |  1854 | 2,231,020| 2,294,373| 25,393 50|  90 35
  Lombardo- /Lombardia |  1855 | 3,009,505| 3,037,765| 21,585 45| 141 66
  Veneto    \Venezia   |  1855 | 2,493,968| 2,526,606| 23,831 59| 105 80
  Stati   /Continente  |  1848 | 3,785,160| 3,997,607| 40,161 09|  99 54
  Sardi   \Sardegna    |  1848 |   547,112|   568,098| 24,096 06|  23 58
  Stati Romani         |  1849 | 3,019,359| 3,127,027| 41,434 63|  75 17
  Toscana              |  1856 | 1,779,338| 1,794,658| 22,082 76|  81 27
  Modena               |  1855 |   609,139|   616,883|  6,019 66| 102 47
  Tirolo italiano      |  1851 |   538,524|   551,882| 15,741 65|  35 06
  Trieste, Istria,     |       |          |          |          |
  Gorizia              |  1851 |   527,539|   549,311|  8,524 46|  64 44
  Parma                |  1854 |   508,784|   514,083|  6,201 13|  82 90
  Corsica              |  1852 |   236,251|   243,982|  8,746 91|  27 89
  Malta                |  1851 |   123,496|   129,207|    374 67| 433 80
  Ticino               |  1850 |   117,759|   119,955|  2,675 05|  44 84
  Grigioni italiani    |  1850 |    14,506|    15,037|    853 91|  17 61
  Monaco               |  1848 |     7,627|     7,915|     23 15| 341 90
  San Marino           |  1852 |     5,700|     5,844|     57 15| 102 26
                       |       |__________|__________|__________|_______
  Totale regione       |       |          |          |          |
    italica            |       |26,398,142|27,107,139|327,085 82|  82 87

  STATI   |Tedeschi
          |     |Slavi
          |     |      |Francesi
          |     |      |     |Valacchi
          |     |      |     |   |Albanesi
          |     |      |     |   |     |Greci
          |     |      |     |   |     |     |Catalani
          |     |      |     |   |     |     |    |Arabi
          |     |      |     |   |     |     |    |      |Ebrei
          |     |      |     |   |     |     |    |      |     |Zingari
          |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |Totale
  ————————————————————————————————————————————————————————————————————————
  Illiria |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  italiana|     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  (Litor.)|12000|190000|  ...|320|  300| 2500| ...|   ...| 3200|100|208420
  Lombar.-|     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  Veneto  |40000| 20000|  ...|...|  ...| 3100| ...|   ...| 7530| 60| 70690
  Regno   |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  Sardo   | 6430|   ...|78000|...|  ...|  100|8000|   ...| 6820|100| 99450
  Ducato  |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  di      |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  Parma   |  ...|   ...|  ...|...|  ...|  ...| ...|   ...|  680|...|   680
  Ducato  |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  di      |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  Modena  |  ...|   ...|  ...|...|  ...|  ...| ...|   ...| 2710|...|  2710
  Toscana |  ...|   ...|  ...|...|  ...| 2000| ...|   ...| 7060|...|  9060
  Stati   |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  Pontif. |  ...|   ...|  ...|...|  ...|  150| ...|   ...|12790| 80| 13020
  Due     |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  Sicilie |  ...|   ...|  ...|...|88410|18000| ...|   ...| 2000|150|108560
  Canton  |     |      |     |   |     |     |    |      |     |   |
  Ticino  |  350|   ...|  ...|...|  ...|  ...| ...|   ...|  ...|...|   350
  Malta   |  ...|   ...|  ...|...|  ...|  ...| ...|140000|  ...|...|140000
          ————————————————————————————————————————————————————————————————
  Totale  |58780|210000|78000|320|88710|25850|8000|140000|42790|490|652940

[147] La tesi di Barruel sulla massoneria fu molto meglio e più
scientificamente sviluppata da Edoardo Haus, _Le Gnosticisme et la
Franc-maçonnerie_. Bruxelles 1876.

[148] Cantù, Rosmini, Manzoni.

[149] L’abate Antonio Scoppa messinese, passato in Francia, vi scrisse
molti libri didascalici, e principalmente sostenne essere la lingua
francese non meno atta alla poesia che l’italiana, purchè i poeti
volessero adattarsi a certe regole che suggeriva per l’accento e pel
ritmo. Prediligeva il mutuo insegnamento, e dopo la restaurazione dei
Borboni fu chiamato a introdurlo a Napoli. Questo metodo, proclamato per
alcun tempo fra i liberali, ben presto fu abbandonato come quello che,
rendendo materiale l’educazione, la riduce sensualistica.

[150]

  _Seconda casa d’Anjou._

  Luigi I, adottato da Giovanna I    1380   1384
  Luigi II                           1386   1417
  Luigi III                          1417   1434
  Renato                             1434   1442
  Carlo del Maine, spogliato da Luigi XI re di Francia.

[151] Fin qui la serie comune dei dogi varia da quella data dalla _Cronaca
Altinate_ e da Martin da Canale.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.




        
            *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK STORIA DEGLI ITALIANI, VOL. 14 (DI 15) ***
        

    

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