L'Acerba

By Cecco d'Ascoli

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Title: L'Acerba

Author: Cecco d'Ascoli

Annotator: Pasquale Rosario

Release date: November 1, 2025 [eBook #77167]

Language: Italian

Original publication: Lanciano: Carabba, 1916

Credits: Barbara Magni, Carlo Traverso and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'ACERBA ***

                             CECCO D’ASCOLI


                                L’ACERBA


                  CON PREFAZIONE, NOTE E BIBLIOGRAFIA

                                   DI
                            PASQUALE ROSARIO

           E, IN APPENDICE, I SONETTI ATTRIBUITI ALLO STABILI



                                LANCIANO
                          R. CARABBA, EDITORE
                                  1916




                          PROPRIETÀ LETTERARIA
                        DELL’EDITORE R. CARABBA

              Lanciano, tip. dello Stabilimento R. Carabba




PREFAZIONE


I — L’AUTORE

Parlare di Francesco Stabili, detto comunemente Cecco d’Ascoli, pur
dopo tanto fiorire di critica storica e letteraria, riesce assai
difficile; giacchè, dai primi diligenti lavori del Frizzi e del Bariola
fino a quelli più recenti e pregevoli del Castelli e del Boffito,
i nuovi documenti venuti in luce non ci mettono ancora in grado di
conoscere appieno le varie vicende della sua vita e di dar fine, una
buona volta, alle acerbe contese che si sono agitate intorno a lui.
Onde, ben a ragione il Bariola diceva che «chi si accinge a scrivere
di questo infelice poeta trova, ad ogni passo, difficoltà ed ostacoli
quasi insuperabili, tanto scarse e mal sicure sono le notizie che ne
abbiamo».

Infatti, intorno all’anno della sua nascita, le opinioni sono tuttavia
discordi. Gli storici regionali, posteriori di molto all’età di Cecco,
lo fan nascere nel 1250 o nel 1257: per contro, secondo gli appunti
sui poeti provenzali e italiani dell’umanista iesino Angelo Colocci,
nato circa un secolo e mezzo dopo la morte di Cecco, il nostro autore
sarebbe venuto al mondo nel 1269, forse nella seconda quindicina di
ottobre, mentre la madre incinta si recava nel paesello di Ancarano ad
una festa religiosa, che ivi allora si celebrava. E quest’ultima data,
poi che il Castelli ebbe discoperti tali appunti nel 1887 di sul Codice
Vaticano 4831, e quindi pubblicati in miglior lezione nel 1890, per
l’aiuto di Giulio Salvadori, nel _Giornale Storico della Letteratura
Italiana_, vien ritenuta come la più probabile, se non la vera. Tutti
gli storici, intanto, gli danno a padre un maestro Simone; ma discordi
sono i pareri se questi fosse un medico o un notaio.

Nella matricola dei notari dell’epoca, che conservasi nell’archivio
comunale di Ascoli Piceno, un notar Simone Stabili, Stabile o degli
Stabili non è menzionato; nè del casato si ha ricordo nel Catasto del
sec. XIV, che pur ivi si conserva. Tanto il Colocci che altri biografi
posteriori opinano che Cecco, dopo gli studi grammaticali in patria, si
conducesse alla famosa Scuola medica di Salerno, ove taluni ammettono
avessero egli e il padre suo anche insegnato. Sorprende, del resto,
come l’indirizzo prevalentemente astrologico delle nozioni mediche e
di tutta la produzione mentale di Cecco si presenti così dissonante
con le dottrine pratiche e positive della Scuola Salernitana di quel
tempo, di già liberatasi dagli inquinamenti arabi e dagli influssi
astrologici[1]. Poi, stette a Parigi; ma è dubbio se egli venisse o pur
no invitato alla corte papale di Avignone. Dal 1322 al 1325, insegnò
alla celebre università di Bologna e, secondo il Ghirardacci, col
salario di cento lire. Alcuni anzi han preteso che egli professasse,
in quella università, matematica medicina filosofia. Chi si rende
ragione, però, dei sistemi e dei metodi d’insegnamento medievali,
comprenderà di leggieri che la matematica era parte essenziale della
materia astrologica e che la medicina, e in ispecie la terapia,
facevasi dipendere in parte dall’influenza favorevole o maligna degli
astri. Forse, potè dettare un corso di cosmografia e di astrologia
applicata alla medicina; e fa maraviglia, per altro, come egli, medico,
trascurasse di proposito, nell’_Acerba_, di parlare del regno vegetale:

      Se d’erbe qui non tracto nè de piante,
    Io prego che chi legge non si sdegne,
    Ch’a medico ne lasso che ne cante.

Il Boffito, con dotte argomentazioni, ha in vero dedotto, dall’esame
del _De principiis astrologiae_ da lui novamente scoverto nel codice
miscellaneo Vaticano 2366 del sec. XIV, che Cecco a Bologna lesse
proprio astrologia; giacchè questo comento all’opera più rinomata
dell’astronomo ed astrologo arabo Abdel-Haziz Al-cabiti del sec.
X, conosciuta col nome di _Alcabizio_, fu dettato a Bologna, dove,
giovane, venne eletto a tale insegnamento dalla scolaresca cosmopolita.
Il comento ci è pervenuto in poche lezioni, forse sei o sette, ed è
così incompiuto o mutilo probabilmente per la condanna inflittagli dal
Sant’Uffizio. Contro ciò che dapprima si ammetteva, il comento alla
_Sfera_ dell’astronomo inglese del sec. XIII, Iohn Halifax da Holywood,
detto il _Sacrobosco_, non fu dettato a Bologna, ma già prima e, forse,
a Salerno, a Padova o altrove. A Bologna, pertanto, il 16 dicembre
1324, l’inquisitore Lamberto da Cingoli gli sequestrava le opere,
lo condannava a varie pene corporali e pecuniarie, gl’interdiceva
l’insegnamento, _per aver sentenziato e discorso erroneamente di cose
attinenti alla cattolica fede_. E vuolsi che il fiorentino Tommaso del
Garbo, lettore di medicina in quella medesima università, per invidia,
l’avesse denunziato al tribunale dell’Inquisizione. Da questa prima
condanna al 1327, non abbiamo notizie certe di lui. Fu a Bologna, a
Napoli o a Firenze? Insegnò in qualche altra università, o andò ramingo
per l’Italia? Noi non lo sappiamo.

Il 30 luglio 1326, il figliuolo di re Roberto d’Angiò, Carlo duca di
Calabria, a cui era stata concessa per dieci anni la signoria della
repubblica contro Castruccio, entrava in Firenze con grande solennità,
accompagnato da molti magnati del regno e, come dice Angelo Di
Costanzo, da più di dugento altri cavalieri a sproni d’oro. Con questo
nobile seguito, alcuni han preteso giungesse pure Cecco d’Ascoli, e che
là si dedicasse all’insegnamento. Anzi, taluno sostenne che, pervenuto
già prima a Firenze, non appena cioè ebbe campo di allontanarsi da
Bologna, i Fiorentini gli offrirono una cattedra creata appositamente
per lui.

Senonchè, dove sono le prove e i documenti?

Giovanni Villani racconta «che egli era astrolago del duca, e avea
dette e rivelate per la scienza d’astronomia, ovvero di nigromanzia,
molte cose future, le quali si trovarono poi vere, degli andamenti del
Bavaro e dei fatti di Castruccio e di quegli del duca». E a Firenze
veramente noi lo troviamo nel 1327. Secondo un documento inedito, da
noi scoperto nell’Archivio di Stato di Napoli, e che pubblichiamo
qui in fine della prefazione, Cecco stette alla corte del duca, in
qualità di _phisicus et familiaris_, con lo stipendio di tre once
in argento per mese, solo dal 12 marzo al 31 maggio 1327. Ora, se,
come ha provato il Davidsohn[2], egli era stato, pria della seconda
condanna, rinchiuso per due mesi nelle carceri inquisitoriali di Santa
Croce, si può, senza tema di errare, concludere che lo Stabili, già
nei primi del giugno, era stato scacciato dal palagio dei Podestà,
di costa alla Badia. Il vescovo di Aversa, Raimondo de Mausac di
Marsiglia (Pelliccia, Parenti), che era frate minore e cancelliere
di Carlo _Senzaterra_, «parendogli abominevole a tenerlo il duca in
sua corte, il fece prendere, perchè il libro astrologico, composto e
riprovato a Bologna, l’usava anche in Firenze». Ed aggiunge il Villani
che maestro Dino del Garbo, famoso medico fiorentino del tempo, già
professore all’università di Bologna e poi a quella di Siena e padre di
Tommaso, «fu grande cagione della morte del sopraddetto maestro Cecco,
riprovando per falso il detto suo libello, il quale aveva letto in
Bologna, e molti dissono che ’l fece per invidia».

Frate Accursio de’ Bonfantini, inquisitore dell’eretica pravità in
Toscana, che tra le mansioni del suo ufficio trovava anche tempo di
commentare il divino poema di Dante, si fe’ mandare da Bologna copia
del primo processo; e le carte giunsero a Firenze il 17 luglio. Così,
l’accusa di eresia si riconfermava; e Cecco veniva bruciato vivo, con
tutte le sue opere, fra Porta a Pinti e Porta alla Croce, tra Affrico e
Mensola, il 16 settembre 1327[3]. Ecco perchè dei suoi lavori non si è
mai trovato un codice autografo o apografo.

Fu ghibellino: di un ghibellinismo diverso da quello dantesco, come
apparisce da molti luoghi dell’_Acerba_ e di altre sue opere. Propendè
per Lodovico il Bavaro, al pari di Fazio degli Uberti; ma inculcò agli
Italiani, per ottenere o conservare la libertà, di esser concordi:

      Così dovría ciascun cittadino
    L’uno con l’altro esser conforme,
    Chè non venisser lor terre ad inchino;

incitò i Colonnesi a mettersi alla testa del movimento politico, per
far _tenere alli nimici el becco al nido_; imprecò al tiranno della sua
patria, Giovanni Veninbene, capo di parte guelfa, capitano a guerra di
Carlo II d’Angiò nel 1305, contro i ghibellini del suo paese, giusta
quanto rilevasi da parecchi documenti inediti dell’Archivio di Stato
di Napoli, e che pubblicherò prossimamente. Contro quel che asserì il
Castelli, il Veninbene, dunque, fu tutt’altro che ghibellino. Ed io,
perciò, nel 1897, con l’appoggio della tradizione e di quanto ne pensò
anche il Trucchi, fui incline ad ammettere che alla condanna di Cecco
contribuisse pure non poco il suo comportamento politico.

Fu amico di Cino da Pistoia e di Petrarca. Fu in relazioni con
l’Alighieri? Qui sta il nodo. Ma, amico o antagonista di Dante;
infetto di magia o scienziato vero; eretico o no, dice il Castelli, il
martire ascolano ha lasciato, egli solo, le più chiare ed esplicite
testimonianze di rapporti intellettuali col divino poeta. E, se
coraggiosamente affrontò la condanna, rifiutando di abiurare alle
sue idee filosofiche e ripetendo nell’estremo supplizio: _l’ho detto
l’ho insegnato e lo credo_; le fiamme del martirio, nella ipotesi più
avversa, han dovuto magari purificare questa figura tetragona ai colpi
della sventura, sì da farcelo apparire come _un vindice della libertà
di coscienza_[4].

Che egli amasse, peraltro, una donna, a parte qualsiasi giudizio sulla
sua posizione sociale, ci è provato dall’_Acerba_; un amore contrastato
forse, e, se non illecito (_l’empio laccio_, come dice nel sonetto
del Cod. Riccardiano 1103), indubitatamente infelice. Egli riconosceva
anzi in questo amore una _dilectio vitiosa_; perchè, come nel commento
all’Alcabizio, _qui diligit monachas, accipit iste amor_; e tuttavia,
pare, perseverasse in esso impenitente. Le tre lettere giocose in
latino, che gli si attribuiscono, pubblicate dal Novati nel _Gior.
stor. d. Lett. ital._, e ritenute apocrife dal Castelli e dal Rossi,
stanno a dimostrare, comunque, la comune credenza in questa passione
amorosa del poeta. In due di esse, rivolgendosi ai _fiorini_ e ai
_danari_, si fa _una stoica invettiva contro la plutocrazia_; nella
terza individua il suo amore in una suor Lucia, clarissa d’un monastero
di Empoli, di Eboli o di Ascoli (il nome della città non si legge bene
nel testo).

Tale fu quest’uomo, che Andrea Orcagna dannava all’inferno,
nell’affresco del giudizio universale dipinto in S. Croce, e che
l’anima molteplice di Leonardo da Vinci studiò accuratamente,
nell’_Acerba_, per le dottrine scientifiche racchiusevi e per
le figurazioni simboliche, di cui potè avvalersi nella sua arte
meravigliosa.


II — L’ACERBA

L’opera sua più rinomata in volgare ebbe pure, come l’autore, una
varia fortuna. Chi la lodò al cielo, riconoscendo in essa i germi
precursori di talune discipline scientifiche, che han poi avuto il
loro pieno svolgimento nell’epoca moderna; ed in questo coro bisogna
annoverare, oltre gli scrittori regionalisti, anche Guglielmo Libri
che, nella classica _Storia delle Scienze matematiche in Italia_,
designò nello Stabili l’acuto e geniale esperimentatore dei fenomeni
fisici. Chi, invece, come il Palermo, volle vedere nell’_Acerba_ la
negazione di ogni vero o gli elementi originari del materialismo e
fin del nichilismo odierni; o, come il Boffito, che le negò qualsiasi
contributo intellettuale e morale alle scienze e alle lettere. Quando
si parte da preconcetti o si è mossi da spirito campanilistico, i
giudizi non possono riuscire immuni da esagerazioni. La fama di cui
godè in vita l’autore, le edizioni che con frequenza si son succedute
dai primordi quasi dell’arte della stampa ci dimostrano che qualche
cosa di originale e di nuovo vi deve pur essere nell’_Acerba_.
Attenendoci all’indole della raccolta «Scrittori Nostri», noi non
possiamo ora che presentare in una forma leggibile un’opera trecentesca
che riusciva difficile ritrovare anche nelle migliori Biblioteche e
che era stata alterata o guasta in tutte le edizioni che se n’eran
fatte fino al 1820. Ci dispensiamo, perciò, da una minuta analisi
del suo contenuto scientifico e dal notarne le fonti, le analogie, le
divergenze, le cose pregevoli o originali. Troppo manca ancora, del
resto, per poter venire a una conclusione definitiva; e la storia delle
scienze non ha tuttavia esplorato a fondo tutti gli svariati campi del
suo immenso territorio. Certo, non poco fu tratto dalle enciclopedie
medievali e rispecchia appunto lo stato del sapere comune dell’epoca;
ma quanta parte egli vi mise di suo e con quali criteri egli interpretò
fatti e idee del suo tempo e quanto intravide pria degli albori
dell’età moderna sarebbe prematuro sceverare. Gli studi non sono
tuttora completi per un retto giudizio scientifico; e la lettura
integrale del lavoro cecchiano servirà, per l’appunto, ad agevolarne
l’indagine. Questo soltanto è il nostro scopo. E, perciò, diamo qui,
per la prima volta, il testo intero dell’_Acerba_, traendolo dal Cod.
Mediceo-Laurenziano di Firenze, N. 52, pl. XL, della prima metà del
sec. XIV. Esso è il cod. più antico, poco corrotto e meno mutilo. Il
V Libro e qualche integrazione di concetto o di forma si son desunti,
invece, dal Cod. N. 82 del sec. XV della Biblioteca Casanatense di
Roma, anch’esso inedito.

Ardua fu la nostra impresa; ma il buon volere e la diligenza che vi
mettemmo ci fanno sperare un’accoglienza onesta e lieta.

Non è, nè poteva essere, un testo critico esauriente dell’_Acerba_: è
un’edizione nuova, mai tentata per lo innanzi, per quanto possibile,
fedele, eseguita sui due codici e, sovra tutto, accessibile anche alla
cultura popolare. Per questa ragione, non si è tenuto alcun conto del
testo delle antiche edizioni e neppure del commento ai due primi libri,
che, nel sec. XVI, fece il modenese Nicola Massetti (ediz. veneta del
1507). Per rammodernare la dizione e renderne più facile la lettura,
noi abbiamo solo sciolti i nessi, tolta qualche forma e desinenza
venetizzante del Laurenziano, tolta l’_h_ ove non è usata nella grafia
contemporanea e messala dove non c’era, espunta qualche lettera o
sillaba dove il verso non tornava, aggiunti i segni ortografici e
d’interpunzione mancanti. Qualche noticina abbiam voluto mettere qua
e là, per gli opportuni raffronti con altre opere o pei necessari
richiami, alieni da ogni pretesa di commento diplomatico, storico,
letterario o scientifico. Una lezione critica definitiva dell’_Acerba_,
se mai potrà farsi, non essendovi un cod. autografo, dovrà tener
calcolo, oltre che di tutte le varianti dei numerosi codici, delle
dottrine altresì e del pensiero di Cecco, come si desumono dalle altre
sue opere. A questo compito di lunga lena e di adeguata preparazione
s’era accinto il Bariola, che dette luminosi affidamenti di riuscirvi
ed ora, come ha promesso da lunga pezza, s’è dato il Castelli. Il
cod. Casanatense contiene molte parole e forme dialettali meridionali
che il Laurenziano non ha; però, poche volte noi abbiam sostituite
quelle a queste, e solo quando occorreva al senso o era richiesto
dalle concordanze della rima. L’_Acerba_, pertanto, così come è divisa
nel Laurenziano, non si riscontra in altri codici. In alcuni non vi
è distinzione di libri e di capitoli, bensì di rubriche, quale il
Palatino esaminato dal Palermo; in altri, i libri sono sei, in altri
cinque, facendo un libro solo del 2.º e del 3.º; in altri quattro,
mancando, come nel Laurenziano, i due cap. del quinto. Il Quadrio le
assegnò tre libri, confondendo i due primi col Commento alla Sfera.
Anche il numero dei capitoli varia da un cod. all’altro. Il Laurenz.
ha 9 cap. nel I Lib., 19 nel II, 56 nel III, 13 nel IV; in tutto,
cioè, 97, a cui si sono aggiunti i due cap. del V.º lib. secondo il
cod. Casanatense. Le differenze tra i due cod. da noi seguiti si son
notate a piè del testo. Per brevità, vi abbiamo aggiunto un indice,
da cui potrà vedersi la contenenza del poema. Piuttosto sarà utile
intrattenerci succintamente intorno al significato del titolo e al
metro dell’_Acerba_.

Il nome dato a quest’opera è del tutto nuovo, e ha dato luogo a varie
interpretazioni. Il Colocci opinò che si fosse detta _Acerba_, per la
durezza dello stile; il Quadrio che stesse a significare _mucchio_ o
_congerie_ di molte cose, e quindi fè derivare _Acerba_ da _acerbus,
acervus_. Altri pensarono che indicasse l’autore medesimo, di carattere
fiero acerbo, e che il poema dovesse intitolarsi veramente: _De
proprietatibus rerum_, come appunto si vuole fosse scritto nel cod.
del sec. XV posseduto da D. Inigo Lopez. Lo Spalazzi, comparandola col
_Convivio_, scrisse che, a simiglianza di Dante che intendeva bandire
agli uomini il cibo del sapere, l’Ascolano offrì ai contemporanei
l’aspra e cruda vivanda dei più difficili problemi della scienza. Il
Bariola crede stia a significare, più che l’acerbità della materia,
l’età giovanile (_juvenilia_) in cui Cecco, forse, la scrisse; e
fu indotto a pensare così dal trovare in qualche codice: _Liber
Acerbae aetatis_. Il Calvi, pur accettando che il titolo primitivo
fosse quello supposto dal Bariola, dà ad esso un significato tutto
speciale. Secondo lui, significherebbe: _Libro composto per servire
all’educazione dell’uomo_; e crede di trovarne una conferma nei versi
dove si parla del leone, che: _Deve li soi nati ammaestrare, Lassando
il tempo dell’acerba vita, Con soe parole in lor vertù spirare_; e
in quegli altri: _Io voglio qui che il quare trovi il quia, Levando
l’ali dell’acerba mente_, ecc. Pel Gaspary è opera _acerba_, per
la difficoltà della materia. Pel Lozzi, invece, dovrebbe scriversi
realmente _Cerba, Cervia, Cerbia, Cerva_, cioè il cervo o la cerva,
volendo in quel mistico animale Cecco figurare sè stesso; o, secondo il
Salutati, l’alto sentire di sè nella glorificazione del vero, per cui
l’uomo si eterna. In fine, il Castelli, seguito anche dal Volpi, crede
che sia un neutro plurale latino e significhi _cose acerbe_ al gusto
della gente abituata ai dolciumi della consueta poesia.

Lo schema metrico dell’_Acerba_ è una specie di terzina, la cui serie
è: ABA, CBC... ZZ, che, a pari della terzina dantesca, procede dalla
forma di _serventese incatenato_, «costituito da una serie di strofe di
tre versi variamente rimati, ma sempre in modo che tra strofe e strofe
vi sia concordanza di rime». Vi fu chi attribuì a Cecco l’invenzione
della sestina o dell’ottava (Appiani). Ma, ben dice il Castelli
che «del loro errore si sarebbero facilmente accorti, se avessero
considerato che l’ottava si esplica per due sole rime nei primi sei
versi e si chiude con un distico monorimo indipendente; laddove,
prendendo ad esame gli ultimi otto versi di un capitolo dell’_Acerba_,
si hanno tre rime per i sei versi che precedono il distico di chiusa»
a rima baciata. Il Marcucci, per primo, notò che l’_Acerba_ è scritta
in _terzetti_; ed è l’espressione naturale del fatto «che la ritmica
e la metrica delle lingue romanze sono una spontanea evoluzione degli
elementi musicali contenuti nella poesia popolare, sopravvissuta al
crollo dell’impero e della civiltà latina (Castelli)». Cecco, quindi,
non inventò nulla, ma scelse quella varietà di serventese incatenato,
che rendeva i ricorsi delle parole omioteleute meno frequenti, per
ottenere, in conseguenza, i desiderati effetti, come avvertì il Casini,
di gravità e maestà, adatti allo svolgimento delle sue esposizioni
scientifiche.

E, come il metro, così anche il contenuto della sua opera contiene
e rivela molte delle antiche credenze e superstizioni e dei motivi
poetici più in voga nel Medio Evo; onde la letteratura folk-loristica
avrà non poco da spigolare. La forma dell’_Acerba_ è o espositiva o
dialogica; e, così, come ci è pervenuta monca nei vari cod. e senza
proporzione delle parti di che si compone, ci fa lecito pensare
che non dovette punto esser compiuta dall’autore. Considerandone,
d’altronde, pacatamente la struttura esteriore e l’organismo interno,
si addimostra, senza dubbio, un poema originale per la forma e per
la sostanza, ammesso pure che questa non sia che l’esposizione dello
scibile dell’epoca, su fonti comuni, a cui attinsero, si sa, tutte le
enciclopedie e le produzioni allegoriche e didascaliche, dal dugento al
quattrocento.

Vi è arte nell’_Acerba?_ A questa domanda non si può che rispondere
negativamente. Se ne escludi alcuni brani ove vibra potente il fuoco
dell’amore o il ricordo del dolce suo paese nativo, ove si attrista
pel suo stato infelice o parla ed ammonisce, agitato dalla passione
politica; pel resto, il poema non è che una selva selvaggia ed
aspra e forte, in cui solitario vaga unicamente la solenne ed altera
figura di Cecco, il quale, sovra tutto per questa assenza di arte,
si palesa incomparabilmente inferiore alla mente, per ogni verso
divina, dell’Alighieri. Ecco perchè abbiam voluto, a disegno, non
pronunciarci intorno alle questioni che si riferiscono a Dante, nello
intento di essere rigidamente imparziali nella presentazione del
lavoro e di lasciare a chiunque, sulla completa bibliografia che diamo
in fine della prefazione, la libertà di formarsi un concetto sereno
ed equo sulle relazioni che corsero tra i due. Si sono aggiunti poi
all’_Acerba_ i pochi sonetti che vengono attribuiti a Cecco, sia perchè
son le altre cose in volgare che di lui si conoscono, sia perchè col
poema hanno grande attinenza. Sarò grato a quanti vorranno comunicarmi
giudizi e suggerimenti, specie per quel che riguarda la lezione del
testo, onde io possa farne tesoro in una novella edizione.

  _Ascoli Satriano, Gennaio 1913_.

                                                          P. ROSARIO.




I CODICI DELL’ACERBA


Firenze — R. Biblioteca Mediceo — Laurenziana:

1. Codice N. 52, Pl. XL, di dim. 0.201 per 0.277, di ff. scritti 84,
non compresa la prima di guardia, sul cui _verso_ è delineato l’albero
della virtù. Nel f. 1. _verso_, è dipinto un ricco stemma; sul f. 2
_recto_, un ritratto che vuolsi rappresenti Cecco. Quasi ogni f. è
ornato riccamente di figure simboliche, dipinte a colori con eleganza.
MS. membranaceo della prima metà del sec. XIV; ed è il testo seguito in
questa lezione.

2. Cod. N. 51, Pl. XL, cartaceo, di dim. 0.215 per 0.283, di ff. s. 99.
Titoli rubricati, con fig. colorate. Sec. XV.

3. Cod. N. 39, Pl. XLI, cart., di dim. 0.220 per 0.288, di ff. s. 67.
Contiene frammenti dell’Acerba e altri scritti. Principio del sec. XV.

4. Cod. N. 23, Pl. LXXVIII, parte membr. parte cart., di dim. 0.210
per 0.275, di ff. s. 256. Miscellaneo, in parte del sec. XIV, in parte
del sec. XV. L’Acerba è mutila in principio e in fine, senza titolo nè
soscrizioni: seconda metà del sec. XIV.

5. Cod. N. 111, Pl. 89 sup.; membr. con larghiss. margini, di dim.
0.244 per 0.356, di ff. s. 88, senza soscrizione. Lettere iniziali
dei versi rubricate; iniziali dei canti e dei libri ornate di fregi a
penna, rossi e azzurri. Sec. XIV.

6. Cod. N. 370, Laurenz. Ashburnh., cart., di dim. 0.132 per 0.209, di
ff. s. 100. Manca di titolo e soscrizione; in fine, mutilo. Margini
delle prime carte con note esplicative del testo, in latino. Qualche
rozza figura. Sec. XV.

7. Cod. N. 1223 Laurenz. Ashburnh.; membr. elegante, di dim. 0.149 per
0.209, di ff. s. 88. Il testo comincia col f. 3., la cui prima iniziale
contiene un ritratto di Cecco e, nel margine inferiore, uno stemma.
Iniziali miniate, con fregi a quelle dei capit. e talora a quelle delle
strofe. Fine del sec. XIV.

8. Cod. N. 1225 Laur. Ashb.; cart., di dim. 0.140 per 0.216, di ff.
100. Titoli dei lib. e capit. rubricati; iniziali ornate di fregi a
penna. Sec. XIV.

9. Cod. N. 1724 Laur. Ashb.; cart., di dim. 0.160 per 0.242, di ff. s.
118. Titoli dei capit. non rubricati. Alcuni commenti marginali. Sec.
XV.

10. Cod. N. 2, Pl. XLI; membr., di dim. 0.261 per 0.364, di ff. s. 50.
Ha un frammento dell’Acerba. Sec. XIV.

Firenze — Biblioteca Nazionale:

Cod. N. 436 della R. Bibl. Palatina. N. 71 della nuova numerazione.
Cart. in fol. del sec. XV, mancante in principio almeno di una carta,
in cui aveano a essere scritti i primi 60 versi, col tit. del poema:
e invece la prima c. contiene gli ultimi due versi dell’8. capit.,
il 9. capit. e i primi versi del 10., e tutto ciò doppio a c. 15 e
16. Mancano in fine le c. 86 e 87. Rubriche rosse, grandi iniz. rosse
o turchine, con fregi e filettature, e maiuscole tratteggiate anche
in rosso. A carte 88, dove finisce l’Acerba, si legge: «Finito Deo
gratiasse amen, per me Andrea Benozzi da Firenze, nella cità d’Ascoli,
anni dni MCCCCXLIIII». Alla fine è un canto di frate Iacopone.
Descritto e illustr. da F. Palermo, in _I Manoscritti Palatini di
Firenze_, Tip. Galileiana, 1860, vol. II, pagg. 163-258. Il Bariola ne
enumera altri 5 nella Magliabechiana.

Firenze — Bibl. Riccardiana. Il Bariola menziona i cod. 2732 e 2235,
entrambi cart. in carattere corsivo, del sec. XV.

Firenze — Bibl. particolare del Principe Strozzi: Cod. cart. in fol.,
miscellaneo, contenente l’Acerba. Sec. XV.

Firenze — Libreria antiquaria del Sig. Cav. Leo S. Olschki: MS.
cartaceo, pervenutogli dall’Inghilterra, in fol., di dim. 0.305 per
0.212, di ff. 82. Rubriche in rosso, con soscrizione; inelegante.
Ultimi anni del sec. XIV. (C. Mazzi, _Un Codice sconosciuto
dell’Acerba_, in «_La Bibliofilia_» di L. S. Olschki, vol. II,
Febbraio-Marzo, 1901).


Bologna — R. Biblioteca Universitaria:

1. Cod. N. 1, cart. in 4. di ff. 72 non rileg. Sec. XV (1462?).

2. Cod. N. 2346, cart. in fol. di ff. 81 n. e 5 non n. Proveniente
dalla Bibl. di S. Salvatore. Sec. XV?

3. Cod. N. 448, cart. in fol. di ff. non n. 66. Proveniente dalla Bibl.
del Conte Cornelio Pepoli. Sec. XV.


Torino — Biblioteca privata del Re:

Cod. N. 120, membr., di dim. 0.270 per 0.188, di ff. 69, mancante di
rubriche iniziali e finali. Sec. XIV. Illustrato dal Prof. R. Renier.,
in _Giorn. stor. d. Lett. ital_., vol. I, A. I, 1883, fas. 2. pagg.
301-305.


Milano — Biblioteca Trivulziana:

1. Codice N. 914, cart. in 8., Sec. XV. (Descritto dal Quadrio, _Stor.
e Rag. d’ogni poesia_, T. VI. p. 40).

2. Cod. N. 1020, cart. in f.; mutilo, con fig. Sec. XV.

3. Cod. N. 1021, cart. in f. con fig. — Sec. XV.

Biblioteca Ambrosiana:

1. Cod. B. N. 156, sup., cart., di ff. 71 con fig. e soscrizione. Sec.
XV.

2. Cod. V. N. 13, cart., di dim. 0.20 per 0.30, con fregi e soscriz.
Sec. XV.


Modena — R. Biblioteca Estense:

1. Cod. estense XII. DD. 22; cart. di ff. 85 num. con rubr. Sec. XV
(1457-58).

2. Cod. estense X. D. 32; cart., di ff. 90 non num. con rubr. Mutilo in
principio; adespoto, anepigrafo. Fine del Sec. XV.


Parma — R. Biblioteca Palatina:

Cod. in f.; cart., di ff. 68, senza titolo. Forse del Paciaudi. Fine
Sec. XV.


Ravenna — Biblioteca Classense:

Cod. N. 139. 2. I; cart., di ff. n. 144; di dim. 0.15 per 0.20;
carattere minutissimo. Miscellaneo. Sec. XV.


Roma — R. Biblioteca Casanatense:

  1. Cod. d. V. 1. (N. 78).  }  Miscellanei. Sec. XV. Il Cod.
  2. Cod. d. IV. 3. (N. 82). }    N. 82 è quello seguito da noi
  3. Cod. d. V. 5. (N. 433). }    in questa edizione.

Biblioteca Vaticana:

Cod. Vaticano-Urbinate N. 697; cart., di ff. 110 num. Cent. 29 per
22.5, Miscellaneo, di bella mano. Sec. XIV.

Biblioteca Boncompagni:

1. Cod. in 4. piccolo, di ff. 136 n. cartacei, meno il 1. e l’ultimo
che son membr. Miscellaneo. Sec. XV.

2. Cod. cart. in f. di 97 ff. n. Sec XV. (Entrambi descritti nel
Catalogo di questa Biblioteca fatto dal Narducci, pagg. 155-56). La
biblioteca, però, fu dispersa.


Parigi — Biblioteca Nazionale. Ha tre Cod. (Giuseppe Mazzatinti,
_Manoscritti italiani delle Bibl. di Francia_. Ministero della P. I.;
Indici e Cataloghi. Vol. I. p. 113):

1. 576 (7784; Sec. XV). L’Acerba di Cecco d’Ascoli.

2. 577. (7785; Sec. XV; Luigi di Rodolfo Pomozzi fiorentino; Mazarino).
L’Acerba di C. d’A.

3. 579. (7264; Sec. XIV; Celso Cittadini); con note marginali.


Spagna — Iosè Amador de Los Rios (_Obras de Don Inigo Lopez de Mendoza
marques de Santillana_, Madrid, 1852), parlando della vita del poeta
castigliano Inigo Lopez (1398-1458), dice che questi fece trarre in
Italia un pregevole Codice dell’Acerba, col titolo: _De proprietatibus
rerum_. Ma ora non si sa dove questo Cod. sia andato a finire.


Germania — Cod. del 1475 nel R. Gabinetto delle stampe di Berlino.
Miniato. (B. Wiese ed E. Pércopo, _Storia della Lett. ital._, Torino,
Un. Tip. Ed. Tor. 1904).

Un altro cod. del sec. XIV esisterebbe ad Amburgo (citato dal Bariola
come prezioso).




LE EDIZIONI DELL’ACERBA


1. _La Cerba di Cecco d’Ascoli, Brisciae, Thoma Ferrando Autore_,
in f., nove quaterni, o carte 72, di 36 righe per facciata, senza
numeri, segnature o richiami, 1475 (?). (Luigi Lechi, _Memorie della
tipografia bresciana nel secolo decimoquinto_, Brescia, Venturini,
1854, in 4. gr.). La rozzezza del carattere e l’ineguaglianza delle
righe, secondo l’ab. Mauro Boni (_Lettere sui primi libri a stampa di
alcune città e terre dell’Italia superiore_, Venezia, 1794), mostrano
che il Ferrando forse esordiva nella carriera tipografica. Il Lechi
dice che, giusta il catalogo della celebre Biblioteca di Lord Spencer,
p. 95 unita poscia all’Althorpiana, in questa esisteva un esemplare di
tale edizione. Di poi, passò al Museo Britannico; ma, ora, pare sia
introvabile. Questa, dunque, sarebbe l’edizione principe. «Il poema,
nella ediz. del Ferrando e in quella del Di Pietro — la 1. con data —
non è diviso in 5 libri, come dice il Brunet, ma in 4, quantunque non
manchi, come nelle altre ediz. quattrocentine, l’ultimo capit. del 4.
libro, intitolato _De la nostra sancta fede_, del quale se n’è formato
un 5. aggiungendovi quattordici versi, col titolo _Conclusio hujus
operis, cap. ultimo_, soltanto nelle ediz. del sec. XVI, cominciando
da quella del 1501 col comento del Massetti ai due primi libri... Le
ediz. sin qui conosciute dell’_Acerba_ sono venticinque, delle quali
10 quattrocentine, dalla prima bresciana senz’anno alla veneziana del
12 settembre 1500, senza nome d’impressore, e tutte senza figure.
Quattordici del sec. XVI, tutte ornate di figure e col comento del
Massetti, di formato più o meno grande; ma nessuna di queste nè delle
quattrocentine, è in f., tranne la principe bresciana. Nessuna dei
sec. XVII e XVIII, una sola del sec. XIX, Venezia 1820, compresa
dall’Andreola nella Raccolta del _Parnaso italiano_, e formante il vol.
XII in 8. picc., col titolo _L’Acerba di Cecco d’Ascoli_, e col solo
testo, arbitrariamente ammodernato e racconcio». (C. Lozzi. Op. cit).

2. _La Cerba di Ciecho Esculano per Mastro Philipo de Piero_, Venezia
in 4., a 24 linee per pagina, di carte 110. L’Hain e il Brunet
le danno 106 carte. Rarissima edizione del 1476. I bibliografi
la ritengono prima con data certa; altri, prima in modo assoluto
(Passigli, _Dizionario biografico universale_, Firenze, 1849, all’art.
Fr. Stabili). Il libro, nel suo Catalogo, dice: _Voyez sur cette
édition, et en général sur Cecco d’Ascoli, un article curieux, daté
du 28 germinal an. VI, que l’Abbé de Saint-Leger a fait insérer dans
le Magasin encyclopédique de la même année, et dont il y a quelques
exemplaires tirés à part en 8. pp._ Fa parte della collezione del Sig.
Comm. Carlo Lozzi in Colli del Tronto. Un esemplare trovasi forse nella
B. Trivulziana di Milano; un altro nella Biblioteca del Comm. Landau,
in Firenze.

3. _Venezia, per Filippo di Piero e Bartolomeo Campani, 1478, VI
nonas maias_, in 4., a 24 linee per pagina, in caratteri romani come
la precedente. Nella Biblioteca Smithiana è registrata come principe.
Collezione del Lozzi.

4. _Venetia, per Thomam de Alexandria, 1481. Die V, mensis sept._ in
4., di carte 102, di cui l’ultima bianca. Solito titolo: _Incomencia il
primo libro_ ecc. _dicto la Cerba_, L’Hain, n. 4827, l’accenna appena.
Un esemplare nella Bibl. Palatina di Parma.

5. _Venetia, per Baptistam De Tortis, 1484, die XII febr._, in 4. Car.
rom. con. segn. a m., tutti quaderni, senza richiami. Titolo: _Libri
quattro del clarissimo Philosopho Ciccho Asculano dicto Lacerba_. Hain
n. 4829. Un imperfetto esemplare nella Bibl. Estense di Modena, con
note manoscritte del sec. XV.

6. _Milano, Antonio Zaroto, 1484, die XVIII maii_, in 4., splendido
esempl., proveniente dalla famosa Bibl. Syston Park nella collezione
del Lozzi. Un esempl. nella Bibl. Palatina di Parma.

7. _Bologna, per Henrico de Haerlem, 1485, a dì XX de novembre_, in 4.,
caratteri gotici a due colonne, con segn. Hain n. 4830. Rarissima. Un
esempl. nella Bibl. della R. Università di Bologna.

8. _Venetia, per Bernardino de Novaria, 1487, die XIX dec._, in 4.
Bellissima ediz. col titolo: _Cecho Asculano_. L’esempl. della collez.
Lozzi proviene dalla Bibl. Giuliari di Verona. Un esempl. nella
Palatina di Parma; un altro nei _Monumenta typografica_ dell’Olschki.
Catalogo Manzoni n. 3578.

9. _Venetia, Thomas de Piasis, 1492_, in 4. Un esempl. nella collez.
Lozzi. Hain n. 4832.

10. _Ediz. senza data di luogo e d’impressore, 1500, die XII
septembris_ in 4. oblungo. Collez. del Lozzi.

11. _Venetia, per Iohanne Baptista Sessa, Anni del signore 1501,
adì 15 de Zennaro_; in 4., di carte 100 numerate solo nel retto, con
questo titolo in carattere gotico: _Lo illustro poeta Cecho Dascoli:
con comento no / vamente trovato: et nobilmente historiato; revisto:
/ et emendato: et da molta incorrectione extirpato: et / da antiquo
suo vestigio exemplato, etc._ Ediz. piena di mende, con commento fino
al cap. 2. del II Libro del Modenese Nicola Massetti. Esempl. nella
collez. del Lozzi, il quale, descrivendola, dice: «Sono intercalate nel
testo molte figure astronomiche e simboliche, rappresentanti le virtù,
i vizi e i più notevoli tra gli animali. Questi intagli e segnatamente
la figura di Cecco (nella _silografia_ del titolo) rivelano la mano
maestra di un incisore della scuola veneta, e probabilmente di Zuan
Andrea, uno dei più valorosi allievi del Mantegna, e de’ più fecondi
in questo genere d’illustrazione di libri a stampa. Ond’è che se
questa edizione non vale gran cosa pel confuso Comento del Massetti,
al quale il Gamba (_Testi di lingua_, al n. 789) rimprovera d’essersi
fatto corruttore anzichè correttore [come] del Morgante Maggiore,
poema cavalleresco di Luigi Pulci, nella edizione dello stesso Sessa
(Venezia, 1502), essa acquista pregio singolare e merita d’essere
segnalata per gl’intagli ond’è ornata, e specialmente per la maestosa
figura di Cecco, desunta forse da qualche tradizionale suo ritratto.
Vedasi ciò che ne dice l’illustre Duca di Rivoli, or Principe di
Essling, il quale esaminando il mio esemplare ne prese nota pei suoi
pregevolissimi lavori bibliografici».

12. _Milano, per Giovan Angelo Scinzenzeler, 1505 addì 29 de Zenaro_,
in 4., fig. quasi simile alla precedente. Collez. Lozzi.

13. _Milano, per Joanne de Castelliono, 1507 a dì 26 di aprile_, in 4.,
fig. Un esempl. nella Bibl. Comunale di Ascoli Piceno; un altro nella
collez. Lozzi.

14. _Venetia, Sessa, 1510_, in 4., fig.

15. _Milano, Scinzenzeler, 1511_, in 4., fig. Ristampa della 12.

16. _Milano, per Johanne Angelo Scinzenzeiler_ (sic), _1514 a dì 17 de
novembre_, in 4., fig. Collez. Lozzi.

17. _Venetia, per Marchio Sessa e Pietro di Ravani, 1516_, in 4., gr.,
fig. Collez. Lozzi. Un altro esempl. nella Bibl. Reale di Torino.

18. _Venezia, Tacuino de Trino, 1519 adì XX di mazo_ (sic), in 8., fig.
Collez. Lozzi.

19. _Milano, Scinzenzeler, 1521_, in 4., picc. fig. Un esempl. nella
collez. Lozzi; un altro nella B. Palatina di Parma.

20. _Venetia, 1524_, in 4., fig. Menzionata dal solo Brunet.

21. _Venetia, per Giovanni Andrea Vavassore detto Guadagnino, 1532, a
dì 4 decembris_, in 8., picc. Collez. Lozzi. Un esempl. nel Catalogo
del libraio Dario Rossi.

22. _Vinegia, per Francesco Bindoni et Mapheo Pasini, compagni, 1535_,
del mese di settembre, in 8., fig. Collez. Lozzi.

23. _Venezia, Giovanni Andrea detto Guadagnino Vavassore, 1546_, in
8., picc., fig. Ristampa di quella del 1532. Un esempl. nella Bibl.
Governativa di Lucca.

24. _Venetia, per Candido de Benedetto Bendoni, 1550_, in 8., picc.,
fig. Collez. Lozzi. Un esempl. Bibl. Nazionale di Torino.

25. _Venezia 1820. L’Acerba di Cecco d’Ascoli_, in _Parnaso italiano_
dell’Andreola, vol. XII, in 8., pic., solo testo, arbitrariamente
ammodernato e racconcio.




ALTRE OPERE DI CECCO


Oltre i sonetti a Cecco attribuiti e che riportiamo in appendice, le
opere latine di lui sono le seguenti:

I — _De principiis Astrologiae_, novamente scoverto, di sul cod.
miscell. Vaticano 2366 del sec. XIV dal Boffito, che lo pubblicò,
illustrandolo, in _Gior. stor. de Lett. ital._, 1903, Suppl. n.
6, e a Firenze, L. Olschki, 1905, in 8., pp. 64, con tav. È un
commento, d’indole prevalentemente astrologica, all’opera più famosa
dell’astronomo e astrologo arabo del sec. X, Abdel-Haziz Al-cabiti,
conosciuto col nome latinizzato di _Alcabizio_.

II — _De morbis cognoscendis ex aspectu astrorum_, che l’Alidosi,
l’Andreantonelli ed altri riferiscono sotto questo titolo: _Ratio
cognoscendi ex sideribus quinam morbi laethales sint quive non_. Forse,
un commento ai _Pronostici_ di Ippocrate, secondo il Boffito.

III — _Epistola seu tractatus de qualitate planetarum_, menzionata in
_Tractatus in Sphaeram_. Secondo il Boffito, sarebbe stata un’epistola
didattica indirizzata al cancelliere della città di Bologna, in cui
si agitava la questione sulla costituzione dei cieli, se cioè fossero
questi d’una sola o di più specie.

IV — _Commentarii in Logicam_, citati da molti biografi, e che il
Boffito crede doversi accogliere con benefizio d’inventario. L’Appiani
dice che dovrebbe trovarsi nella Bibl. Barberina di Roma. (Bariola,
_op. cit._ pag. 191).

V — _Tractatus in Sphaeram_, di cui si hanno queste edizioni: 1.
Basilea, 1485, irreperibile (Castelli); ma non si trova neppure
menzionata nelle bibliografie e repertori più noti. 2. Venezia, senza
data. 3. così intit.: _Sphaera mundi tribus commentis nuper editis,
videlicet Cicchi Esculani, Francisci Capuani de Manfredonia, Iacobi
Fabri Stapulensis. Impressum, Venetiis, per Simonem Papiensem dictum
Bevilacquam_, 1499, in f. con molte fig. astronom. incis. in legno e
marca tipografica. L’Hain, sotto il n. 14125, ne descrive due ediz.
con la stessa data, ma con lievi differenze, rilevate da L. Olschki
nel n. 1126 dei _Monumenta Tipographica_, in _Bibliofilia_, Fasc.
Settembre-Ottobre 1902. Un esemplare nella collezione del comm. C.
Lozzi. Queste due ediz. furono anche descritte dal Boffito nella prima
Memoria sulla _Quaestio de aqua et terra_, in _Mem._ d. R. Accad. di
Torino, ser. II, t. 51, p. 108, n. 1 e 122, n. 2. Vi sono poi le ediz.:
4. Venezia, Giunti, 1518, in f., di cui un esempl. presso il Lozzi; 5.
Venezia, 1519, apud Iac. Pentium de Lencho, di cui un esempl. nella
Bibl. Casanatense di Roma; 6. Venezia, 1559. È un commento, d’indole
prevalentemente cosmografica, alla _Sfera_ dell’astronomo inglese Iohn
Halifax da Holywood, detto il _Sacrobosco_, nato nella contea di York
sui primi del sec. XIII e morto a Parigi nel 1256.

VI — _De quodam modo physonomiae._ (Cod. perg. in 4., secc. XIII-XIV,
con belle miniature, in calce al vetusto cod. dell’_Acerba_ della Bibl.
Laurenziana, plut. 40, n. 52). Pubblicato dal Boffito nel _Gior. stor.
d. Lett. ital._, 1903, Suppl. n. 6. Il Bandini (Catal. V. 74, Firenze,
1778) «fu il primo e forse l’unico, secondo il Boffito, a sospettare
che questo trattatello, adespoto e anepigrafo, dovesse attribuirsi
all’Ascolano. Per parte mia son confermato nel medesimo sospetto dalla
somiglianza che presenta col cap. 3. lib. II (_alias cap._ 1. lib.
III.) dell’_Acerba_ e da altre ragioni interne. Coi trattati di altri
fisonomisti (Pseudo-Aristotele, Polemone, Adamanzio sofista, Avicenna,
Razi, Michele Scoto, ecc.) vi ha pure, è vero, qualche somiglianza, ma
non tanta. Altri cod. delle bibl. fiorentine contengono, per lo più,
adespoti dei trattatelli di fisonomia, ma sono differenti dal nostro.
(Riccard. 2224, 1270, 1166; Magliab. cl. 20 cod. 10 e 34; Strozz., cl.
20, cod. 55, ecc.)».

VII — _Esculeus, sive Liber de ascensione signorum_, che l’Haenel
(_Catalogi librorum mss. qui in bibliothecis Galliae, Helvetiae,
Belgii, Brit., Hisp., Lusit. asservantur_. Lipsiae, 1830, col. 518)
ed altri citavano come esistente nella Hofstadtbibliothek di Basilea;
ma che il Boffito trovò che era una mistificazione. Invece, pubblicò
nel citato Suppl. n. 6 del _Gior. stor. della Lett. ital._, 1903,
_l’Esculeo_, che per cortesia del Delisle ebbe in fotografia dalla
Bibl. Naz. di Parigi, Cod. Lat. 9335, c. 22 r., col. 1.-23 r., col. 2.:
_Liber esculei de ascensionibus incipit_. Si vede però chiaramente,
egli dice, «che non si tratta che di un commento o trattato di
Ipsicle (sec. 2. av. C.?), che non è credibile che si debba alla penna
dell’Ascolano, ma a quella, almeno nel testo greco, di Ipsicle stesso,
stranamente deformato nella pronuncia in _Esculeo_. Cfr. G. Friedlein,
_De Hypsicle mathematico_, nel _Bull. di storia e bibl. d. sc. mat. e
fis._ di B. Boncompagni, VI, 493-529. Cfr. anche di questo _Bull._,
V, 353; XIV, 193; XIX, 345. L’_Anaforico_ di Ipsicle fu pubblicato
a Parigi nel 1657 da Giacomo Mentelio, ma in una versione molto
differente dalla nostra. Cfr. _Bull._ cit., VI, 526».

VIII — _De eccentricis et epicyclis_ (Da un cod. misc. cart. della
Bibl. Palatina di Parma, n. 984 del sec. XV), pubblicato nel 1905, in
_Pubbl. dell’Osserv. del Collegio alle Querce_, Firenze, Serie in 4.,
n. 7, dal Boffito, il quale la giudicò «opera che pur dal titolo appare
più seria e grave e degna in ogni modo d’esser presa in considerazione
anche dagli odierni scienziati, come quella che concerne una pagina
della storia delle scienze non ancora ben decifrata neppure ai nostri
giorni». È una lezione tenuta su questo argomento da Cecco, verso il
1324, nell’Università di Bologna.

IX — Le tre lettere giocose, in latino, che Francesco Novati pubblicò
nel _Gior. stor. d. Lett. italiana_, I, 62 traendole dai Codd.
Corsiniano 33 E 23 e Marciano XIV 69, ritenute, del resto, apocrife dal
Castelli e da Vittorio Rossi. In due di esse, l’autore, rivolgendosi
ai _fiorini_ e ai _danari_, si fa _una stoica invettiva contro la
plutocrazia_; nella terza, individua il suo amore in una suor Lucia,
clarissa d’un monastero di Empoli o di Eboli o di Ascoli (il nome della
città non si legge bene).




BIBLIOGRAFIA


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critica del testo lat. di G. Boffito, con intr. scientif. dell’ing.
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1905.

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di consultare.

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ARCHIVIO DI STATO DI NAPOLI

Registri Angioini, n. 262, f. 82 r. e t. 31 Maggio 1327, X.ª Indizione.


Carolus Illustris Ierusalem et Sicilie Regis Roberti primogenitus
Dux Calabrie ac eius Vicarius Generalis Raimundo Russo de Cathania
Thesaurario et familiari nostro salutem et dilecionem sinceram.
Volentes magistro Cicco de Esculo quem in phisicum et familiarem
nostrum duximus diebus non longe preteritis retinendum gagia sicut
aliis nostris phisicis exhiberi fidelitati tue presentium tenore
expresse jubemus quatenus eidem magistro Cicco, quousque fuerimus
in partibus Tuscie vel alibi extra Regnum gagia ad racionem de uncis
auri tribus et postquam in Regnum feliciter redierimus dante domino
ad racionem de unciis auri duabus ponderis generalis per mensem a die
duodecimo proximo preteriti mensis martij uius X.e Indictionis usque
nunc simul et semel et deinde in antea de mensei in mensem nostro
durante beneplacito de pecunia camere nostre sistente et futura per
manus tuas solvere et exhibere procures apodixas ab eodem magistro
Cicco de his que sibi propterea solveris suis vicibus recepturus
ordinacione seu mandato quocum que contrario facto et in antea faciendo
eciam si de illo vel aliqua ejus clausula esset in presentibus expressa
mencio facienda execucione presencium non obstante. Datum Florencie
en nostre cambre anno domini MCCCXXVII die ultimo maij dicte X.e
Indictionis.

Cuius auctoritate mandati.

Die ultimo madij X.e indicionis Florencie solute sunt magistro Cicco
de Esculo phisico et familiari prefati domini ducis pro gagiis suis
ultimorum dierum XVIII proximo preterite mensis martii ac mensis
Aprilis et presentis madij uius anni decime Indicionis ad racionem
de uncis tribus in argento per mensem extra regnum pro uncis VII
et tarenis XXIV reductis ad florenos auri ad predictam racionem
auri........ floreni XXIII et solidi XXVIII.

Eodem die solute sunt notario nicolao de Alifia Regie ac ducalis
cancellerie notario pro gagiis suis et unius scriptoris sui presentis
mensis madij pro unciis III tarenis XXVI et granis V in argento
reductis ut supra ....... floreni XVI solidi XXXVIIII denari VIII.

Eodem die ibidem solute sunt notario mactheo de scuccula Regie et
ducalis cancellerie notario pro gagiis suis et unius scriptoris sui
presentis mensis madij pro uncis III tarenis XXVI et granis V in
argento reductis ut supra auri ..... floreni XVI solidi XXXVIIII denari
VIII.

Que tota predicta pecunia soluta et liberata. Infra predictum mensem
madij uius X.e Indicionis personis prescriptis pro Gagiis corum
temporis predistincta est ut supra dici particulariter continetur auri
florenorum quindecim milia contingentem quatuor solidos quinquaginta
novem et denarios decem.




LIBRO PRIMO[5]


CAPITOLO I[6]

      Ultra non segue più la nostra luce [C. Laur., c. 1 r.] [C. Casan.
          c. 1 r.]
    For de la superficie de quel primo,
    In qual natura, per poter, conduce
      La forma inteligibel, che devide
    Noi dagli animal, per l’abito estrimo,
    Qual creatura mai non tutto vide.
      For d’ogne cielo substanzie nude[7]
    Stanno benigne per la dolce nota,
    Ove la pietà non li occhi chiude;
      E, per potenzia de cotal virtude,
    Conserva el giro de ciascuna rota,
    Unde de vita recevem salute.
      E l’arco, dove son diversi lumi,[8]
    Gira de sotto con subiecte stelle,
    E lassa un grado ben con tardi tumi.
      Le quattro qualità costui ’nforma,
    Sì ch’el subiecto in acto ven da quelle,
    Perchè le strenge con sua dolce forma.
      De sotto luce quella trista stella,[9]
    Tarda di corso e di vertù inimica,
    Che mai so raggio non fè cosa bella.
      Gelo col freddo flato mette a terra,
    Et a chi n’ha mercè s’ella s’applica,
    L’aire, stridendo, chiama guerra guerra. [C. L. c. 1 t.]
      È circumscripta la luce benigna[10]
    Nel sesto cielo onde quel s’acquista,
    Che ben se prova là ove se signa.
      Se l’anima li occhi belli soi non clude,
    Stando ne l’ombra de l’umana vista,
    Vol che la dorma ’n le so brazza nude.
      L’ignea stella pietà non mira,[11]
    Ma sempre de mercè se mostra freda:
    A chi la scombra, de sotto le gira;
      E tal tempesta per l’aire despande [C. C. c. 1 t.]
    La sua potenzia, ch’in tutto preda
    Al nostro tempo noi miramo grande.
      Po’ gira il corpo de la nostra vita,[12]
    Agente universal d’ogni subiecte:
    Qual virtù pinge sì la sua ferita
      De li ferventi raggi, onde se scalda
    La grave qualità che ’n lei se flecte;
    Che ciò che vive lor potenzia salda.
      D’amor la stella, nella terza rota,[13]
    Al spirto dà angoscia con sua luce
    Da cosa bella che non sta remota:
      Da lui, se morte spenge sua figura,
    In cui so dolce raggio non vi luce,
    Non è animata cosa tal natura.
      Gira ’l pianeta con la bina voglia
    Per quella spera unde vene tal lume,
    Qual tutta obscurità de l’alma spoglia.
      La fredda stella in quel poco cerchio[14]
    Ultimo gira, e n’è ver che consume
    L’ombra, per lo splendor che sia soverchio.
      Anche onne luce che possede ’l cielo
    Ven da quel corpo, qual natura prima
    Illa formato d’amoroso zielo:
      Sì come stella per costui resplende,
    Ma l’ultima se mostra più sublima;
    Cessandose da lui, più luce prende. [L. c. 2]
      Ma quando infra li raggi ella si volve,
    Attrista la virtù de ciò che vive
    E l’aire per tempesta se dissolve:
      Assima li fiumi e onne vertù sbada,
    Qual insigna ’l tempo campo circumscrive;
    D’onor se priva per contraria spada,
      Se ’n oriente luce la sua stella;
    Ne l’octava parte s’ella se trova,
    A tal potenzia non po’ star rebella;
      E se l’altra gira nel più alto punto, [C. c. 2]
    Serà da pinger l’aire quella prova,
    E far volar chi de plumbe è unto.
      Move li corpi de minor rascione
    E fuga ciò che non po’ lor natura
    Assimigliare a soa perfezione:
      Lor viso bello turba ’l nostro aspecto,
    Nel specchio pinge de nebbia figura
    E toglie luce ’l figlio a gran delecto;
      E l’altr’animali de vertute nudi,
    La ’stremità possende decio sempre;
    O gran vertù che tutte cose mudi!
      O quando ’l to voler fa bella mostra,
    Che voi e onne natura così tempre,
    Per più benigna far la vita nostra!
      O tu che mostri el terzo in una forma,
    E accendi di pietà la spessa norma.


CAPITOLO II[15]

     El principio che move queste rote [L. c. 2 t.]
    Sono inteligenzie separate:
    Non stanno dal divin splendor remote,[16]
      Non cessano l’acti de mover possenti,
    Non posseno nostre menti star celate
    A lor intellecti de vertù lucenti.
      Movendo stelle e lor diverse spere,
    Diverse genti con contrarii acti,
    Forma la lor potenzia qual non pere.
      Altri che sono de vertù esperti,[17]
    Altri che sono dal subiecto estratti,
    Altri che sono del fallir converti,
      Altri che de l’arme prendon possa,
    Altri che de viltà portano insegna,
    Altri che danno nell’altrui percossa,
      Altri che lor voce sempre chiama:
    O tirannia, o cosa benegna,
    Non curan de vertù posseder fama.
      Ma l’anima bella del fattor simile, [C. c. 2 t.]
    Per so valore, a queste po’ far ombra,
    Se non s’enclina ’l so voler gentile.
      Quando l’influenzia ven da quelle,
    Se soa vertù per queste non se scombra,
    Allora è donna sopra tutte stelle.[18]
      Nove son questi qual movon li cerchi,
    E l’altri sott’a questi pone altrui,
    Qual spira l’anima de l’acti soverchi.
      Inteligenzia del terrestro mundo[19]
    Con la benignità conforma nui,
    Prendendo l’anima in l’esser secundo.
      E quest’è l’anima ch’è una in tucti,
    Ch’è sott’al cerchio de la prima stella;
    E d’altra vita semo privi e structi:
      E questo pone lo falso Averoisse
    Con soa sofista e penta novella,
    Ma mo ha plù vertù che quando visse. [L. c. 3]
      Poreste dubitare del primo celo,
    Che ciò che sensibilità possede,
    Loco circumscrive e li fa velo.
      Se fosse contenuto d’altra spera,
    Et ella contenuta rason vede
    Sì ch’aver fino il cielo non è vera;
      Dico, che chi per sè possede loco,
    Conosce niente di che loco tegna,
    Ponendo ’l cielo così del vero poco;
      Che per accidenti il loco si mantene,
    Avegna che per sè el mondo spegna,
    Ond’ha la vita l’amoroso bene.
      Oltra quel cielo non è qualitate,
    Ne anche forma che move intellecto,
    Ma nostra fede vole che pietate
      Dimori sopra nel beato regno,
    Al qual la spe ne mena a quello effecto.
    De quella luce del fattor benegno.
      De’ qua’ già ne trattò quel Fiorentino.[20]
    Che lì lui se condusse Beatrice;
    Tal corpo umano mai non fo divino,
      Nè po’ sì come ’l perso essere blanco,
    Perchè se renova sicomo fenice
    In quel disio che li ponge el flanco.
      Ne li altri regni ov’andò col duca,
    Fondando li soi pedi en basso centro,
    Là lo condusse la sua fede poca:
      E so ch’a noi non fe’ mai retorno
    Chè so disio sempre lui tenne dentro:
    De lui mi dol per so parlar adorno.
      La degna intelligenzia prima move [C. c. 3]
    El primo celo che moto governa:
    Ogne ora nel girar sono più nove;
      L’altre che verde tegnon nostra palma,
    E questa vole che null’ al moto sperna,
    Sì che d’ogne vita viva l’alma; [L. c. 3 t]
      E per queste ne la figura di morte
    Molte anime d’accidenti sono scorte.


CAPITOLO III[24]

      Cerchiase con l’arco ove se fonda
    L’ignea qualità di quella stella,
    E la gira po’ sotto questa abonda.
      In quella spera sempre vinta essendo
    La strema parte gira pur con ella,
    Si como levi corpi suso attendo.
      El centro pete de la grave natura,[25]
    Però queste altre tegnon ’l basso sito.
    De tutte qualità lor forma pura
      Se cela ai occhi nostri e non se mira,
    Salvo el subiecto ch’è da lor finito,
    Per la vertù de sovra che ciò spira.
      La grave qualità el ciel divide;
    Asperica de forma sta nel mezzo,
    Si como ’l punto che nel cerchio asside
      Alcuno con quel che so nome demostra
    Del celo la plica non appare al senso,
    Dal qual se move intelligenzia nostra.
      La minor stella che nel celo splende
    Máiore che la grave qualitate,
    Et ella com’el punto se comprende
      Nel cielo; e questa se demostra vera
    Ne le stelle ferme che mirate,
    Ma non in questa dell’ultima spera; [L. c. 4]
      Perchè ’l minor lo maior non cela,
    Però la luna non è miga grande
    Plù che la terra che ’l so lume vela:
      Se ciò non fosse già morta, non tutta [C. c. 3 t.]
    L’ombra de la terra che lei spande
    Che mostra a tempo soa bellezza strutta.
      In quarta parte si vivon li animali,
    E l’altre parti tegnon ’l caldo e frido,
    Unde la vita e l’acti naturali,
      Stando remoti da elli al ver non face
    Animato corpo nè voce nè strido:
    La demorasse a chi vertude spiace.
      Lo quarto si divide in septe parti
    Da septe stelle poste de fin’ in austro;
    Ciascuna a l’altra d’ombra getta salti;[26]
      Si como gira ’l sole e ’l lume scima,
    Ombra e luce non è in onne castro;
    Se nel quarto obscura, lo quinto dima.
      Ciò forma de la terra el gran tumore,
    Però inseme onne animal non vede,
    Quando la luna perde so splendore.
      Chi stesse sotto la luce sempiterna,
    Da septe stelle ch’a noi tengon fede,
    Si como nostra luce pone eterna,
      Porebe andare verso ’l cel del mundo
    Tanto che queste già non vedería,
    Sì como noi quel cerchio secundo,
      Che nella parte sta meridiana:
    Prendesse verso queste stelle via,
    Lassarà la secunda tramontana.
      Tegnon la terra nel mezzo dui poli:
    Di sopra l’uno, e l’altro oppost’a lui:
    Di simel virtute natura formolli.
      Se l’un facesse sua potenzia quita,
    L’altro verso ’l ciel tiraria nui;
    Perchè ciascuno fa como calamita. [L. c. 4 t.]
      La nostra luce nega quel che dice
    La falsa oppinion de queste genti,
    Che verde mostra de trista radice.
      Vanno leggiadri di belli animali [C. c. 4]
    Quelle anime obscure de l’atti lucenti:
    A’ vertuosi già non dico quali.
      Dal cielo sta la terra ogual lontana,
    Però la luce de le stelle mostra
    Ogual splendore ad ogne vista umana.
      Se ’n oriente omne ’l mezzo gira,
    Over si ’n occidente ella s’è posta,
    Da quella forma ciascadun la mira.
      Molte ore el falso prende nostro viso,
    Per lo corpo diafano ne le stelle,
    Stando nel mezzo e trasparendo fiso.
      De l’esser vero li occhi nostri scombra,
    Perchè lo raggio le mostra più belle,
    Si como luce ch’è lontana in ombra;
      Chè nel mezzo, per natura, posa
    La terra ’l celo come grave a centro.
    Non pote fare ’l moto miga iosa.
      Però ch’ascendere bel grave suso,
    Natura tal potentia non ten dentro
    Nè vinta fue già mai de cotal uso.
      E se possibile fusse che fondasse
    De questa superficia là de sota,
    Sì che l’omisperio lo mirasse,
      Essendo sì leggero, avría festa,
    Voltando nel mezzo de la rota
    In ver de noi li pei et illa testa,
      Sì como li acti, che sono accidenti
    Ne l’acque che trapassaron sì lucenti.


CAPITOLO IV[27]

      Cessa intellecto cum le rotte vele, [L. c. 5]
    Ch’a tua vertù non basta veder luce
    De quel che te convene d’esser fidele,
      Unde perfecto Deo fae natura
    Universal che sempre spera e luce,
    Ch’in acto di potentia trasfigura
      Intelligenzie stelle moto e lume. [C. c. 5]
    Onne natura che la spera ammanta
    Mantegnon e de ciò l’essere sume.
      Se non fosse d’onne animal che vive
    E de ciascuna vegetabel planta,
    Serian de lor virtute morte e prive.
      S’a li occhi nostri appare nova forma
    Lo umano ingegno allor se mova e quera,
    Fin che de lui el ver se ponga norma.
      Ma non transcenda e levi l’alto ingegno
    Sopra le stelle, sì che illu pera,
    Che de cotal luce non mostra segno.
      O viste del miracoloso affanno
    Ch’in voi s’include sempre miraviglia
    Del poco cerchio la stella miranno!
      Non è virtù non dubitare al mondo,
    Ma far de l’ombra umana semiglia,
    Rason non vede como sia ’l secondo.
      Dico che umbra de stella umana
    Si fa el terrestro assisso in quella parte
    Ch’a nostra qualità non è lontana.
      Per bello raggio non la priva ’l sole
    Perchè n’è desposta como Marte,
    Che con li soi raggi el foco mostrar vole.
      De questa stella se cela bellezza
    De li acquistati raggi, sicch’in nui
    Par che natura perda sua vaghezza.
      De ciò che vive la virtude germe
    Per questo che receve corpo in lui; [L. c. 5 t.]
    De tutti li celi l’aver si sperme.
      Langue natura si como costei,
    Perchè nel tempo perde de valore,
    Che sua potenzia non se spande in lei.
      Cessa l’effecto, se la causa è priva,
    Alotta chi è subiecto a gran dolore,
    Verso a la morte prendon la trista riva.
      Vegnon nel mondo e sono già venute
    Molti accidenti, qual de dir mi noia,
    Perchè se vederanno e sun vedute
      De l’anime belle figurate e pente
    De la virtù del cel che lor innoia,
    Mirando quanto è in noi el cel possente.
      E de li primi raggi el bel corpo
    Pense paura ne l’umani aspecti,
    Quando se mostra de sua luce torpo.
      S’in questo si maciela lo suo splendore,
    Ne l’altro li soi raggi son concepti,
    Che in tutte parti sua luce non more.
      Doi cerchi sono intersetti inseme[28]
    E quanto differenti, dico altrui,
    Ove sono iuncti e là ove sono streme.
      La prima stella si gira in quel sito,
    El sole ne l’altro, e questo opposto a lui
    Quand’el so corpo è de splendor finito.
      De le do stelle, nel mezzo è la terra
    Per qual la luna lo raggio non vede,
    Che nel so corpo l’ombra se deserra.
      Sempre non tutta questa stella oscura,
    Si como nostra vista ne fa fede,
    Ch’in parte mor’ a tempo soa figura.
      Girando ’l celo, vegnon le triste ore,
    Che ’l bello raggio nello sol se vela,
    Stando la luna vincta nel so core;
      Ove se gionse l’una e l’altra rota,
    Ai occhi umani la bellezza cela [L. c. 6]
    De quella luce ch’è per lei remota;
      Unde celando sì nova bellezza,
    Sotto le stelle mor onne allegrezza.


CAPITOLO V[29]

      Comate stelle cum diversi modi[30] [C. c. 5 t]
    De luce, qual se mostra su ne l’aire,
    Dico che desegna, si tu m’odi,
      Ciascun corpo de li septi cerchi
    Per qual che tempo e per moti varie
    L’aire s’infiamma di raggi soverchi.
      Dico che nel mondo se desegna
    Effecti novi paurosi e gravi,
    Se per la trista stella el tempo regna.
      Geme chi regge e chi porta corona,
    E tema li accidenti feri e pravi
    E l’altr’animal chi de vertù rasona.
      Non troppo negro mostra lo so colore
    Questa ne l’aire che plove la morte,
    Che nella vita planta lo gran dolore.
      Ciascuna di costor più vaccio lede
    Se in oriente appare e raggia forte,
    E tarda, se occidente la possede.
      L’altra soa vista de bella luce
    Porta lo bello raggio como luna,
    Che ben lo sexto celo la conduce:
      Fa germinar la terra, e piove ’l bene.
    Se de le stelle tre Iove ten l’una [L. c. 6 t.]
    De gracioso effecto è plù la spene:
      Gema natura umana se l’ammira. [C. c. 6]
    L’altra, che de foco porta vista,
    Che con la longa cauda sempre gira,
      Marte la move e Marte la mantene,
    Sì che natura sotto ’l celo attrista,
    Perchè desicca lo sangue ne le vene.
      Se verso l’oriente lo capo volta,
    Seranno l’acque ne l’aire private:
    In foco peste e fame serà involta
      La terra nostra da mercede scorta.
    Fontana d’occhi farà pietate,
    Natura bella lasso; or te conforta.
      Demostra l’altra orribel aspecto,
    Qual sempre gira e move circa ’l sole,
    E verde d’onne planta ’l dolce effecto
      Morte desdegna nel potente regno;
    E sopra quello che ricchezza cole,
    Priva sua vita col maggior desdegno.
      De l’amplio raggio l’altro tira torma,
    E como l’altra stella costei fere,
    Così la nostra umanitate informa.
      Se quel moto de quel corpo grave
    O del più leve la morte se spere,
    Che invola noi con la trista clave;
      Se ’l Marte del so raggio fa ferita,
    Over che regni nel secundo celo,
    Serà la morte ne l’acerba vita.
      De pace al tempo more onne salute [C. c. 6 t.]
    Se Marte raggia sopra questo celo;
    Con l’altra occide là ov’è virtute.
      Anchi son tre, l’una de le quali
    Qual mostra crini e raggi naturali;
    L’altra se vede in so corpo rotonda,
      Si como vista umana poco manca:
    Se mostra in viso de la stella bianca [L. c. 7]
    L’altra sì è poca, ma di retro abunda.
      Ciascun’ al mondo mostra novitate,
    Et acti qual desdegna pietate.


CAPITOLO VI[31]

      La tarda stella de la spera grande[32]
    Manten la terra e serve in sua natura;
    La prima stella, la qual move e spande,
      La spietata stella move ’l foco,
    Mercurio tene l’aire in sua figura,
    Tempesta move per so tempo e loco.
      Li spiriti sono quattro principali:
    Un ven da l’angol primo a l’orizzonte,
    Che ’n nui conserva l’acti naturali;
      Mostrase sua natura temperata
    Fra le due qualità active e conte,
    Sana la terra per qual fa iornata,
      Se l’è centada[33] da monti e da colli
    E verso l’angol primo aperta e rotta,
    Dov’io fu’ nato tu per exemplo tolli,
      Cessando l’acque riposate e triste
    Ch’hanno lor natura sì corrotta,
    Qual fa veder le umilitate viste;
      E movese per tempo lo dolce flato, [C. c. 7]
    Che li tenebrosi vapori accompagna:
    Se non li rompe el sol va celato;
      Perchè sonno densi e de la terra tratti,
    Fanno planger l’aire, sì ch’el mondo bagna, [L. c. 7 t.]
    Da l’altre stelle se no sono refratti.
      Levano le stelle da ponente
    Lo spirito con tempestata voce,
    Qual move l’aire verso l’oriente.
      Mostrase d’acque in natura simile,
    Soa qualità varia per foce,
    Sì como per virtute l’anima vile.
      Levase da le septe stelle eterne
    El freddo flato e per natura sicco,
    Vertù che passi animati ma’ non sperne;
      Ma lede quel che liga corpi animati
    E pone a caso del dolore stricto:
    Non dico li altri effetti nominati.
      Da quella parte dove el sol desegne
    Al basso grado per lo eterno corso
    Ven l’altro flato, sì che l’aire impegne.
      Umiditate con lo calor sorge,
    A molti animal tolle lor soccorso:
    Vertute animata da lui ben s’accorge.
      Potenzia tolle ove questo spira,
    O gente che abitate el basso sito,
    Quanta viltà l’animo vostro gira!
      Se questo sopra noi cammino move,
    Stando celato per lo core ardito,
    Non vol natura che ’n voi se trove;
      Ma l’animi vigorosi de li munti,
    Ov’assotiglia l’aer le so vele
    Si che li mostra del vigor coniuncti,
      Non portano viltà nel cor superbo,
    Avegna che saver in lor se cele
    E reca l’anima loro el senno acerbo.
      Per questo flato geme l’air fosco, [C. c. 7 t.]
    Umidità corrumpe ne le vene
    E fa molti accidenti che cognosco.
      Move ciascuno per tempi diversi
    Sì como ’l sole le altre stelle tene [L. c. 8]
    Del torto cerchio de l’animali inpersi;
      E quale in quarta parte se devide.
    Como si move ’l sole, così vedemo
    Che l’una qualità l’altra occide;
      Però uno tempo variata rota
    Demostran ne la terra ove noi semo,
    S’in quella che dal sole sta remota.
      Torno a li quattro spirti che dico
    E lasso le lor membra in questa mossa:
    Cessando l’uno, leva il so inimico,
      Quando la luce de le stelle poste
    Da l’altri corpi receve percossa,
    Stando convincti ne le parti opposte;
      Sì che li quattro con le membra loro
    Sono formati per cotal valore.


CAPITOLO VII[34]

      Tira el sole li vapori levando[35]
    Da questa terra verso ’l bel serino,
    E l’aire po’ va sempre spessando:
      Saliendo, se condensa a poco a poco,
    Fin ch’è nel mezzo ov’è ’l fredd’alpino.
    Per li reflexi raggi e po’ per foco,
      Stando nel mezzo de le genti estremi,
    L’acqua se forma, così come grave
    Vengon a la terra le so parti insemi.
      Quando è più fredo quel mezzo sito,
    Tanto più sente le tempeste prave [L. c. 8 t.]
    De le ghiacciate pietre ciascun lito;
      Ma qui po’ dubitar l’anima gentile.
    Nel tempo caldo così se forma ’l ghiaccio
    E privase nel so tempo simile.
      La spera che ten lo foco in sua virtute,
    Dico che fuga ’l freddo col so braccio
    E tolle in novità con so ferute.
      Così di fuoco li raggi reflessi [C. c. 8]
    Inverso l’aire de la nostra terra
    Per l’orezzonte essendo connessi:
      E quando regge ’l Cancro e po’ Leone,
    Assa’ più freddo ne lo mezzo serra
    Però el ghiaccio plove la stazone.
      In questo tempo sono fredde l’acque
    Che sotto terra vegnon per le vene,
    Che ’l caldo spense ’l freddo che ’n lor nacque.
      E calde sonno nel gelato tempo,
    Perchè el calor sub terra se tene,
    E questo dura fin che ’l celo ha tempo.
      Ma quando Scorpione regge e po’ Pesce
    Questo mezzo aire quasi temperato
    Però se ’n lui qualche vapore cresce,
      Nasce la neve con acque quiete:
    Per l’uno contrario da esse privato,
    Fan forte strido con suave mete.
      Pluvia move potenzia de luna,
    Se con le prave stelle seque ’l moto
    Da così fatti tempi mostrando fortuna.
      Maligno corpo inforca sua luce
    Verso la luna, fin che non è remoto;
    Tempesta move e acqua conduce:
      Quando se move con le dolce stelle
    Fuga le nube, sì che luce ’l mundo;
    Per qual clarezza l’anime se fan belle.
      Quando la luna sta in benignitate,
    Onne elemento se move iocundo [L. c. 9]
    E tolle de tristicia qualitate.
      La piccinina pluvia pruina
    Se forma dal vapor ch’è congelato
    Ne l’aire presso, e così la brina:
      Sottil vapore e freddo e poca altura
    Fanno questi acti come ’l nostro flato.
    Se dorme respirando per natura.
      De tutte umidità la luna è matre, [C. c. 8 t]
    Quando se mostra de sua luce plena:
    Quattro fiate ’l mare pare che latre
      Fra iorno e nocte, si como ne’ quarte;
    In alto e basso così l’acqua mena,
    E ciò te dico per scienzia et arte.
      Così d’animati corpi move ’l sangue
    Fra luce e nocte, si como fa ’l mare;
    Così s’attrista et natura langue.
      Però, in qualche ora, l’animi umani
    Senza rasone senton pene amare
    Et allegrezza de li effecti vani.
      Onde la luna, si como riceve,
    Da lei se forman venti acqua e neve.


CAPITOLO VIII[36]

      La prima stella con l’impio Marte[37]
    Move per tempo tempestati troni,
    De fin che l’un contrario l’altro parte;
      Lo foco messo dal Marte crudele
    Verso le fredde nube unde i soni [L. c. 9 t.]
    Resultano con le ’nfocate vele.
      Trono non è altro che de fuoco spenta
    In elli corpi de le nube frede,
    Che l’una qualità da l’altra è venta.
      In le verdi frondi prendi exemplo
    Che fanno scoppi se fuoco le lede:
    Or ’scolta l’accidenti ch’io contemplo.
      Inseme è ’l trono e l’enfocate orme,
    Avegna che la luce è nanti ’l scoppo,
    Parono in doi tempi divisate forme.
      E ciò fa ’l viso ch’è nancti l’audito,
    Che l’anim’ha li occhi da presso troppo;
    Pe lo nostro veder ch’è molto ardito.
      E ciò se mostra in remoto colpo,
    Che in un tempo è ’l sono e el facto,
    E ven sì tardo che l’audito incolpo;
      Che già non segue lo veder presente [C. c. 9]
    Anti _che_ percote anche l’altro tracto,
    Che ’l primo sono vegna ne la mente.
      Po esser trono senza foco ardente,
    Dico al nostro viso, ma non invero,
    E questo si advene per accidente.
      Quando obscura e l’aire è ben spessa,
    Movese ’l vento infocato, se vero
    Trono fa grande; non rumpendo; cessa.
      Et allustrare senza trono vene,
    Perchè non trova qualità nimica,
    Sì como nel seren si vede bene.
      Ma quando sono dense queste nube,
    Allora el foco forte le nimica,
    Facendo soni cum l’accese tube.
      Se sono rare e de basse note
    Lo sono, perchè non han contraria faccia:
    Non resistendo, poco le percote.
      Ciò che resiste, duramente offende,
    Como vedemo che lo ferro faccia [L. c. 10]
    Et soa coverta soa salute ostende.
      E queste nube e queste impressioni
    Oltra una lenta[38] e anche otto staggi
    Non son più erte; ciò nel cor te poni.
      Sono montagne sopra le quali stando,
    De sotto plove e neva, e tu li raggi
    Vidi de sopra nel seren guardando.
      La sottile flamma in onne cosa rara
    Poco l’offende; però noi vedemo
    Per accidente che devenne a Sara:
      Portando sopra lo capo le molt’ove,
    Essendo lesa del fuoco supremo,
    Erano sane come fosser nove;
      Ma dentro senza fructo e plen de vento
    Forno trovate, chè da l’una fronte
    Intrò la fiamma e strusse lor contento.
      Petra descende con l’aire infocata, [C. c. 9 t.]
    Como sagitta che non have ponde,[39]
    Per gran potenzia del foco creata.
      Non tanto petre, ma corpi de ferro
    Sono descinti dal focato celo
    In Alamagna; e de ciò non erro;
      Però le spade de todesche genti
    Fanno tremare addosso ciascun pelo,
    Mirando in altrui lor colpi possenti.
      Onn’elemento se move e corrompe,
    Secundo che li celi sono diversi;
    Così de novitate fanno pompe.
      Trema la terra per l’inclusi flati,
    Fan l’aire e l’acqua lor moti perversi,
    Ne’ tempi che li cercli son mutati.
      L’inclusi venti, che non possono uscire
    For de la terra, moti dal Saturno,
    Fanno li terremoti a noi sentire.
      Nel grande fredo e nel tempo caldo
    Se celano li venti e non vann’intorno, [L. c. 10 t.]
    Però la terra sta quieta e in saldo:
      Non dico che non possano venire
    Li terremoti e d’estate e de verno;
    Ma quando mostran ’l caldo e ’l fredo l’ire
      Durano poco, chè li flati strutti
    De lor valor non fanno governo,
    Che queste qualità li fanno assutti.
      Ma ven nel dolce tempo el gran tremore
    E non se cessa, fin che non è corrotta
    La dura terra per cotal valore.
      Questo non sempre devene, chè el vento,
    Movendose con ira li de sotta,
    La soa potenzia perde po’ ch’è vento.
      Sì che li monti li colli e l’abissi
    Sono formati da li inclusi venti,
    Che spirano sotto terra dur’e spissi.
      Et anche le acque sott’a noi celate [C. c. 10]
    Fanno questi acti, se tu ti rammenti,
    Le parti del mundo concavate.
      Le gran montagne hanno lo gran piano
    Che, l’acque sotto sopra sumergendo,
    Lassano l’Alpi nel terren toscano;
      Basso facendo lo sito lombardo,
    Romagna con Toscana allor cadendo.
    Or prendi questo exemplo, ch’io guardo:
      Molte montagne in esser de petra
    Sono converse, se guardi le ripe,
    Chè de la terra natura s’arretra.
      Potenzia natural correge e compone,
    E fa de terra petre dure e stipe;
    E ciò se mostra per blanca rasone.
      De fronde iusta però vidi impressa
    Nel duro marmo, che quando se strense,
    Nel mezzo de le parti stette compressa.
      Nel molle tempo, come cira al segno,
    Mostra nel duro sì como depense [L. c. 11]
    Natura, che de forma non ha desdegno.
      Or pur m’ascolta in cose divine,
    Che arte non vale, se non se procaccia.
    Cosa perfecta non è senza fine;
      Principio d’onne bene è cognoscenza.
    Prima si bono, nanti c’abii faccia;
    Entendi e vidi con la mente accensa.
      Che mai l’eterna beata natura,
    Senza rasone, non fe’ creatura.


CAPITOLO IX[40]

      L’arco che vedi in divisata luce[41]
    Sempre se penge ne l’opposto sole,
    Perchè ’l so raggio in forma ’l conduce.
      Se ’n oriente è l’arco, il sol s’occide
    Ciò se converte perchè rason vole
    E al to vedere conven che te fide.
      L’arco n’è altro che fletter de raggi [C. c. 10 t.]
    In ne le acquose nube divisate:
    Conven che per intellecto in questo caggi.
      Lustre, oscure, sottili e grosse
    Sono le nube così variate,
    Quando dal sole receven percosse;
      Però demostrano diversi coluri,
    Como per exemplo tu pora’ vedere
    Nel vetro pleno se de far ten curi.
      Olio e acqua nel vetro ponendo,
    Quando lo raggio del sole ne fere [L. c. 11 t.]
    Serai contento li colur’ vedendo.
      E da la luna, quand’è tutta plena,
    Se forma l’arco de nocte, ma de raro;
    Obscura po’ se fa l’aire serena.
      Spesso da lei se fa l’arco blanco
    Che mota ’l dolce tempo ne l’amaro.
    A pochi giorni de ciò non te manco.
      Quando ne l’aire vederai molti archi
    E ciò se forma là nel mezzo giurno,
    Se de penserò de ciò la mente carchi,
      Vederai l’air a pochi dì turbare
    Per la forza del Marte o del Saturno,
    Se l’altro celo ciò non fa variare.
      Anche le ferme nube che tu vedi
    Non intendo de lassar che non te dica,
    A ciò ch’a fabulete più non credi.
      Sì com’el cel intra l’acqua sempre tira
    Per la vertù che dentro la nutrica
    Così fa Capricorno che pur spira:
      Vapor sottili sua potenzia abbranca,
    Sempre tirando su ne l’air clara,
    E par che ’n celo se mostri la via blanca.
      O quante sono le nature occulte
    A nostra umanità ceca e ignara;
    O quante cose mire son sepulte
      Al nostro ingegno che ’l ben abandona,
    Sequendo el mundo qual morte sperona!




LIBRO SECONDO[42]


CAPITOLO I

      Torno nel campo de le prime note. [L. c. 12] [C. c. 11]
    Dico che ciò ch’è sotto ’l cel creato
    Depende per vertù de le so rote.
      Chi tutto move sempre tutto regge,
    De fin el moto principio e stato
    In ciascun celo pose la sua legge.
      Son li celi organi divini
    Per la potenzia de natura eterna,
    Che in lor splendendo son de gloria plini.
      In forma del disio innamorati
    Movendo così ’l mundo se governa,
    Per questi eccelsi lumi immaculati.
      Non fa necessità ciascun movendo,
    Ma ben despone creatura umana,
    Per qualità qual l’anima seguendo,
      L’arbitrio abbandona e fasse vile
    Serva e ladra: de vertute strana
    Da sè despoglia l’abito gentile.
      In ciò peccasti florentin poeta,[43]
    Ponendo che li ben de la fortuna
    Necessitati siano con lor meta.
      Non è fortuna che rason non venca;
    Or pensa Dante se prova nessuna
    Se po’ plù fare che questa svenca.
      Fortuna non è altro che desposto
    Celo che dispone cosa animata;
    Qual desponendo, se trova l’opposto.
      Non ven necessità col ben felice,
    Essendo in libertà l’anima creata,
    Fortuna in lei non po’ se contradice.
      Substanzia senza corpo non receve
    Da questi celi, però l’entellecto
    Mai a fortuna subiacer non deve.
      Se foi desposto e foi felice nato
    E conseguer dovea el grand’effecto, [L. c. 12 t.]
    Io posso non voler e esser da lato;
      Che ’n sua balìa ha l’alma so volere:
    L’arbitrio lo acquista lo so merto,
    Non po’ necessità in lei cadere.
      Or se fortuna l’anima così spoglia,
    Già seria Deo iniusto scoverto,[44]
    Se per altro non poter ne mena doglia.
      Non val ventura a chi non s’affatiga,
    Perfecto bene non s’ha senza pena,
    Fasse felice chi vertù investiga:
      Ma chi ch’aspetta la necessitate
    Del ben che la fortuna seco mena,
    Pigricia lo comanda a povertate.
      Fortuna per rason se augumenta,
    E plù felici se fanno l’effecti,
    Quando ’l volere natura argumenta.
      Nasse onne pianta per natural moto.
    Non coltivando mai fructi perfecti
    Non fa nel tempo. Ciò se mostra noto.
      Così la rea ventura a l’alma bella
    Tolle la morte da l’impia carne,
    Se ’l mal pur contradice e sta rebella.
      Rompese qualità per accidenti,
    Non che ’l subiecto de l’esser se scarne:
    Dell’unta calamita ti rammenti;
      Chè non tira ferro se non è assutta
    L’umidità che sua vertù resserra;
    Così fa l’anima quand’è donna tutta.
      Destruge qualitate viciosa,
    Sì che nel male l’anima non desserra,
    E tira nel bene la vita dampnosa.
      Contra fortuna onne om’ po’ valere,
    Seguendo la rason nel so vedere.


CAPITOLO II[45]

      Per grazia de l’umana creatura [L. c. 13]
    Deo fe’ li celi col terrestro mondo,
    In lei creando divina figura,
      A someglianza de soa forma degna, [C. c. 12]
    Ponendola ne l’orizzonte fondo,
    Ove se dampua over se fa benegna.
      Movendo queste benedecte spere
    De l’umano seme, se forma ’l subiecto;
    De tutte la potenzia lì ne fere.
      Prima el core nel concepto nasce,[46]
    L’altre doe prime pone ’l ceco aspecto,
    Ma pure nel cor lo spirito se pasce.
      Lo spirto che fo del patre messo,
    Per le ferventi stelle del Leone,
    Forma le membre, movendose spesso.
      Da questo nasce lo spirto animale
    E naturale de sua perfeczione;
    Passano in acto sotto le prime ale.
      Dodece parti de l’octava spera
    Sono cagione de le nostre membra,
    Ciascuna del creare è forma vera;
      In lor fa qualitate et accidenti;
    Per la vertù divina se remembra
    De la soa parte cum acti lucenti.
      Quando tu vedi questi zoppi e scombi,
    Impio fo lo signo de la parte,
    Et anche questi con li flexi lombi.
      Defecto corporal fa l’anema ladra,
    In peggiorando, dico, le lor carte; [L. c. 13 t.]
    Sono soperbi de la mala quadra.
      De doplo sceme se fan corpo umano
    Le vestite ossa de la carne pura:
    Ciò fa el superchio de lo tempo sano.
      Lo spirto del patre, che nel sperma,
    Sempre operando, le membra figura,
    Le molle parte per potenzia ferma.
      De lo soverchio che da donna move
    Pascese creatura, non per bocca;
    E ciò se mostra per l’antique prove.
      Per l’ombelico va ciò che nutrica, [C. c. 12 t.]
    Stando ligato sì che le vene tocca.
    Or scolta como sta nel corpo implica.
      Sta genuflexa con l’arcato dosso,
    Le mani ten a le gote in fra le cosse
    Sopra le calcagne, como veder posso;
      Verso de noi son le spalle volte;
    Così natura informa le mosse,
    Per più salute de le membra raccolte.
      In questo tempo non macula specchio
    La donna ch’al soverchio se devide.
    L’una nutriga, lassando lo vecchio.
      Natura l’altra manda a le mammille,
    Per le doe vene che de ciò son guide,
    Nel tempo in blanca forma, sì che stille.
      Septe recepti per ciascun planeta
    Sono ne la matre, però septe nati
    Nascer posson, como vidi a Leta:
      Questo adovenne per lo molto seme,
    Et anche per li signi geminati,
    Quando li lumi si vingon inseme.
      Nel nono mese ven nel mondo lustro
    Per la vertù che signoreggia Iove;
    Perchè de septe vive, mo’ te mustro:
      La luna in questo mes’ha signoria,
    Benignitate in creatura plove, [L. c. 14]
    Natura confortando tutta via.
      Ma, ne l’octavo, chi che nasce more,
    Chè lo signoreggia quella stella trista,
    Che per fredezza tira l’anima dal core.
      Ciascun planeta spira nel so mese,
    Fin che vene a luce la creata vista;
    Così natura in ciò l’ordene prese.
      Quando concepe, la matre se strenge
    Ch’entrarve non porìa na ponta d’aco;
    Così Saturno sua virtù gl’impenge.
      Ben se po’ aprire per novo disio,
    Como addevenne a Leta del Laco,
    Che fè do nati là ov’era io:
      Uno nel nono, l’altro lo fe’ nel dece;
    Qual foe concepto nel tempo serato,
    Quando a la voglia sua sodesfece.
      Per gran voler de l’acto carnale
    Se gemina ’l concepto già creato,
    Quando a la donna ben d’amor l’encale.
      El nato porta de lo patre semiglia,
    Quando ’l sceme de la donna è vincto;
    Intanto nasce la viril famiglia.
      Ciò se converte dal contrario senso,
    Quando el nato è da parenti spinto
    E ’l doplo sperma fo dal celo offenso.
      El forte imaginar fa simel vulto
    Quando la donna, nel desìo d’amore,
    Tenendo l’omo ne la mente occulto,
      Simele celo fa simele aspecto,
    Natura se non perde ’l so valore;
    Lo imaginar fa caso e vede affecto.
      La tarda stella la memoria pone
    Nel concepto; è Iove per lo qual cresce,
    Mercurio move lo acto de rasone,
      Marte ne forma l’impeto con l’ira,
    El terzo cielo l’appetito mesce, [L. c. 14 t.]
    Lo primo spiritello lo Sol ve spira,
      La Luna move natural vertute,
    Ciascun pianeta con l’octavi lumi
    Dispone ’l mondo con le lor vedute.
      Onne creato se corrumpe in tempo.
    Passano l’acti umani como fumi;
    Chi ne va tardo e chi ne va per tempo.
      Tu vidi bene como in questi celi
    Movendo, creatura per sè produce
    In acto umano: ciò tu non me celi.
      Conven ormai che dei segni certi [C. c. 13 t.]
    Tu veggi lo iudicio de la luce;
    Po’ che seranno li occhi nostri esperti,
      Noi cantaremo de le donne sancte,
    Lor diffiniendo perchè, como e quante.


CAPITOLO III[47]

      Mostra la vista qualità del core,
    Lagreme poche col tracto sospiro,
    Col pietoso sguardo _che_ ven d’amore.
      Cambiar figura con acti umili,
    Poco parlare con dolce remiro
    Segni perfecti son d’amor non vili.
      Crispi capilli con l’ampiata fronte
    Con li occhi piccinini posti dentro
    Memoria e rason con lor son ionte:
      Fanno desdegno ne l’anema superba,
    Et onne sottil cosa mira al centro [L. c. 15]
    Ma pur de umilità se mostra acerba.
      Non te fidar de le iuncte ciglie,
    Nè de le folte se guizza la luce,
    Chi che le porti guarda non te piglie.
      Impio, d’animo falso, ladro e fello
    Col bel parlare so tempo conduce;
    Rapace lupo con vista d’agnello.
      Non fo mai guercio con anima perfecta
    Che non portasse de malicia schermo,
    Sempre seguendo la soperba secta.
      Li occhi eminenti in figura grossi,
    Li occhi veloci con lo sbatter fermo
    Matti e falsi de mercede scossi,
      La impia fortuna d’aquilino naso
    Viver desìa de lo bene altrui,
    Onde de morte vene l’impio caso
      E l’è magnanimo for de pietate,
    Sempre deserve et non guardando a cui
    Vive come fera senza umanitate.
      El concavato et anche ’l naso fino [C. c. 14]
    Ciascuno ad luxuria s’accosta
    Più del secundo, dico, che del primo.
      Chi l’ha sottile e nell’extremo aguzzo,
    Over rotundo con l’ottusa posta,
    Movese a ira ’l primo che me cuzzo.
      L’altro è magnanimo e de grave stile.
    Soperbo è chi possede l’ample nare
    E l’ample oregle de bestia simile:
      Così le labre grossa chi demostra.
    Chi l’ha sottili e de bellezza care
    Serà magnanimo per scienzia nostra.
      Mostrase audace chi ha li denti rari,
    Concupiscenzia ten carnosa faccia
    E forte teme piccolini affari.
      Chi che possede la sua vita macra,
    Con la sollicitudine s’abbraccia, [L. c. 15 t.]
    E non l’abbandona como cosa sacra.
      Chi che l’ha grande, ben se mostra tardo
    Ne li soi moti: de ciò ben t’accorgi:
    Piccola faccia, te poni a reguardo;
      Che raro ne foe nulla liberale
    E timida se fa, se tu li porgi:
    Nel mondo non fo mai si nov’animale.
      Vista dolente e lintiginosa,
    Che par traslata col beato aspecto,
    De l’altrui male se fa graciosa.
      Non fe’ mai tanto el populato Gracco (?)
    Che questo plù non faccia ne l’effecto;
    Iuda tornasse, non li darìa scacco.
      Li omini che hanno lo curto collo,
    Pelosi per natura como lupi,
    Non basterebbe la virtù d’Apollo
      A solvere lor ditti senza norma
    E senza modo de malicia cupi:
    Con lor gridar la contrata storma.
      E grosso collo de fortezza è segno, [C. c. 14 t.]
    E imbecille como sottil legno:
    Sottile e longo fa timido l’omo;
      El grande quale non ten troppo de grosso
    Magnanimo se mostra: tu entendi como;
    Ciò ch’io penso, qui dirte non posso.
      L’omo guardando in terra, che va chino,
    O ell’è avaro o de sottil ingegno.
    Or me conven lassar questo cammino.
      De corporati segni e aver modo,
    Sì como intendo ciò ch’io desegno,
    È questa cognoscenza como lodo.
      Iudicio procede da savere,
    Cum scritta legge receve repulsa
    Ecceptuando ’l singular vedere.
      Per una vista iudicare ’l facto
    Sentenzia da vertute se resulta
    Erro e rasone se corrumpe ’l pacto.
      Non iudicare, se tu non vedi,
    E non serai ingannato se ciò credi.


CAPITOLO IV[48]

      Vertù s’acquista per raggio de stella,
    Non dico ch’a noi sia naturale,
    Ma in quanto se despon l’anima bella
      Ad conseguir el vertuoso bene.
    Fugendo per rason l’impio male
    Desposta creatura in acto vene.
      Se per natura la vertute fosse,
    Como la terra a la gravezza soa,
    Che mai per soa natura sè non mosse,
      In ciascun tempo seria l’om beato,
    Se al natural pon la mente toa:
    Non se costuma nel contrario lato.
      Abilitata l’anima e desposta
    Da questi celi elege el ben perfecto,
    E plù leggera con vertù s’accosta
      Non che ciascuno non possa seguire [C. c. 15]
    Per so voler de vertù l’effecto,
    Ma non desposto plù li po’ languire.
      Donqua, vertù è abito electivo
    Che sta nel mezzo de do parti extreme,
    Onde procede el bene effectivo.
      E quel che senza ’l mezzo contradice,
    Che l’una de le parti sempre preme, [L. c. 16 t.]
    Per lui se priva tutto ’l ben felice.
      Questa radice con li sancti rami
    Già fo plantata ne l’umano sangue,
    Quando se andava per li diritti trami;
      Ma ’l tempo ha variato li costumi
    De gente in gente, sì che virtù langue
    Nel ceco mondo con li spenti lumi.
      Quest’enno le scale de nostra gravezza
    A sormontare sopra tutti celi,
    Ire mirando l’eterna bellezza;
      Ma ’l vizio che tutto ’l bene desface
    Del mondo nostro cum l’aguzzi teli
    Da voi il tolle l’una e l’altra pace.
      El tutto ne le parti se divide:
    Questa è la vertute diffinita,
    Che sotto lei ciascuna s’asside.
      Conven ch’io canti de la iusta donna
    In prima, po’ de l’altre de la vita;
    Per più vedere la toa mente sonna
      E mira ne l’aspecto de costei
    Che tanto piacque sempre a l’occhi miei.


CAPITOLO V[49]

      O guida sancta de queste altre donne
    Le to belance con la spada nuda
    Sono nel mondo perfecte colonne.
      O desolata terra, o posta a guai,
    Che toa bellezza mirando refuda, [L. c. 17]
    Soa trista plaga non sanarà mai.
      Verrà ’l diviso, povertate e fame, [C. c. 15 t.]
    Ploverà sangue sopra campi et erbe,
    Pararà che ’l celo la vendetta clame.
      Seranno li iusti oppressi da tiranni,
    Bagnando ’l viso de lacreme acerbe,
    Per la tristezza de l’impii affanni.
      Però vedemo le città deserte
    Con basse mura a l’ombra di boschi,
    Che già fo tempo ch’erano ben erte.
      Non forno fundate ne la iusta petra
    Come Pistoia, terra di Toschi,
    Che peste nascerà de sua faretra.
      Però diritto iudicate, o vui,
    Con li volumi de Cesare Augusto,
    Ch’a tutti specchio sia la pena altrui.
      Non provocate ad ira li alti poli,
    Ponendo man ne lo sangue iusto,
    Ch’a stento caccia li nostri fioli.
      Fanno nel mondo paterni peccati
    E le acerbe uve de lo tempo antiquo
    Plaga cadere ne li iusti nati;
      Ma li occhi cechi che non vego ’l fine,
    Per lo volere del disio iniquo,
    Non reguardando le cose divine.
      Onne peccato ha limitata pena,
    E più gravosa quant’è più lontana,
    Contra vertute, lasso, chi ne mena?[50]
      Non altro che l’inordinata voglia,
    Per qual s’attrista la natura umana
    Nel tempo che del dolce sente voglia.
      El iudicare con l’impii scripti,
    Che fanno lacrimar li occhi innocenti
    E lor fanno de povertate afflicti.
      Mover da celo fa la iusta plaga,
    Iustificando queste grave genti, [L. c. 17 t.]
    Ciascun movendo ch’a vertù se traga,
      Pe l’orfani vedoe e pupilli [C. c. 16]
    Clamando deo ne l’amaro planto,
    Stirpando con le mani li lor capilli.
      Sì como iusto prende lor balestre,
    Sedendo soli e afflicti tanto,
    Como columbe ne le lor fenestre.
      Ma sopra terra l’impio tenere,
    O voi, con la milicia pomposa,
    Faite nel mondo l’anima virtuosa.
      Faite a la croce novo desplacere
    Non librate chi è degno de morte
    Sì che non planga ne l’eterna sorte.
      Questa vertute ven dal quarto celo,
    E como ’l sole illuma l’orizzonte,
    Così fa questa con lo iusto zelo,
      Illuma ’l mondo, dando a ciascun so merto
    Et pena vendicando sopra l’onte,
    Per lei el mondo sta che non è deserto.
      Iusticia non è altro, a meo vedere,
    A ciascun tribuendo soa rasone
    Che fermo con perpetuo volere
      È iusto quel che vive onestamente,
    Altrui non offende nè fa lesione,
    A ciascun dà so merito puramente;
      E questo porta le trumfe olive
    E ne l’eterna pace sempre vive.


CAPITOLO VI[51]

      O Colonnesi, o figlioli de Marte,[52] [L. c. 18]
    Toccaste ’l celo con l’armata mano,
    Che sempre sonarà per onne parte.
      Subita spada con gigliato grido
    Faravve onnora nel terren romano
    Tenere all’inimici lo becc’ al nido.
      De gente in gente pur la terza foglia
    De la colonna serà posta in croce.
    Tornando el celo ne la prima doglia
      Non perderà la gloria del so nome, [C. c. 16 t.]
    Pur resurgendo di tenebre a luce:
    Qui non è loco de dirvi come.
      O figurati[53] de la forte donna,
    Firmi e constanti ne li tempi pravi,
    Senza temere sta vostra colonna,
      La qual pur vignirà nel degno merto,
    Aprendo el celo con le iuste clavi
    De dirne qui del quando non sum certo.
      Dal Marte vene la fortezza umana,
    Quando se mostra soa benigna luce,
    Che sotto l’Ariete s’entana.
      Omo desposto dal soperno lume
    Legeramente a lo ben s’adduce,
    Se non l’offende el paternal costume.
      Che la villana natura paterna,
    Che passa nel fiol naturalmente,
    Repugna a l’influenzia superna.
      Pono ch’ensceme sian doi creati:
    L’uno è gentile, l’altro è de vil gente,
    Sotto una spera, in un grado nati.
      Mostre el celo che debia conseguire
    Ciascun de dignitate la corona:
    Ciò ben serà secondo ’l me sentire
      De nato de l’exelso re Roberto,
    Che ’n gentilezza molto l’un sperona,
    A conseguir lo cel che l’ha coverto. [L. c. 18 t.]
      Serà questo altro sopra so legnaggio.
    Sì como rege fra li vili parenti,
    Chè cel non po’ levar plù so coraggio.
      Cosa desposta fa nel celo aiuto,
    Se deversi effecti te rammenti;
    L’acqua lercera desecca e fa luto.
      Fortezza non è altro diffinita
    Ch’animo constante de paura
    In ne l’avverse cose de la vita.
      Non è vertute prodezza sforzata, [C. c. 17]
    Quando de morte vedem la figura,
    Se l’alm’è in soa defensa donata.
      Maior prodezza tegno lo fuggire
    Quando abesogna, che noe lo stare
    Sol per ’vitare l’acerbo morire.
      Sempr’è fortezza col iusto temere.
    Ma chi che vole la vita abandonare,
    Già non è forte: dico, in mio vedere.
      Ma alla fortezza, tegno, vertuosa,
    Che per tre modi l’om s’abandona,
    Che fa nel mondo la vita famosa:
      Prima, per non recever desenore,
    Ne le so cose pone la persona
    E per soa terra conservando onore;
      Ma li occhi mei ben se ne son accorti,
    Che pochi son nel mondo questi forti.


CAPITOLO VII[54]

      Non è vertù là ov’è el poco ingegno. [L. c. 19]
    Or fuga l’anima mia el penser vile
    Che ’l qual’è grande, chè questo fa degno.
      Prudenzia, dico, over discrezione
    Altro non è, secondo ’l nostro stile, [C. c. 18 r.]
    Che ’l ben dal male descerner per rasone:
      E la memoria del tempo passato
    E provedenza de quel ch’ha a venire
    Conserva l’omo nel felice stato.
      Da questa de saver la fonte nasce
    Che fa la vita benigna finire,
    Quando la mente de so amor se pasce.
      Questa natura vertuosa e bella
    Prende radice ne l’umana planta,
    Quand’è in so stato l’anima bella.
      Questa è la luce de saver umano,
    Che dona a l’alma conoscenza tanta,
    Che trae l’umanità dal penser vano.
      Plù val saver che tesor non vale,
    Ov’è savere ricchezza non manca
    Se l’alma te non sforza nel so male.
      Non vidi virtuoso mai perire
    Ma ben repulso de la contraria branca,
    Ov’è vertute pur conven salire.
      Non po’ morir chi a saver è dato,
    Nè vivere in povertà nè in defecto,
    Nè da fortuna po’ esser dampnato
      Ma questa vita e l’altro mondo perde
    Chi del savere ha sempre despecto,
    Perdendo ’l bene de lo tempo verde.
      Chi perde ’l tempo e virtù non acquista,
    Como plù ce pensa, l’anima plù s’attrista.


CAPITOLO VIII[55]

      O madre bella, o terra esculana, [L. c. 19 t.]
    Sfondata fosti nel dopliato cerchio,[56]
    Sì ch’hai mutata toa natura umana.[57]
      L’acerba setta de le genti nove,
    Sì t’ha conducta nel vizio soperchio,
    Or te conduca quel che tutto move.
      Alteri occulti son li toi fioli
    E timidi in conspecto de le genti;
    Invidiosi son pur fra lor soli.
      O Esculani, omini inconstanti,
    Tornate ne li belli acti lucenti,
    Prendendo note de li primi canti,
      Chè da li celi siti ben desposti,
    Ma non seguite el ben naturale
    Del sito bello dove foste posti.
      Fra le vertute pur de temperanza
    Dovreste stare sotto le so ale,
    Ma nol possete se vizio avanza.
      È temperanza ferma signoria [C. c. 17 t.]
    E de li moti naturali è freno,
    Quando nel male l’animo pur disía.
      Move da Lione la dolce vertute,
    È ne l’umanitate plù e meno
    Secondo le beate so ferute.
      Ma chi refrena lo natural instincto
    Del vizio, che de qualitate vene,
    De sofferenza ben se mostra cinto.
      O quant’è bella, o quant’è gentile
    La mente che se conduce nel bene,
    Quando se vince ne l’affanno vile.
      Chi sè non vince non vincerà altrui
    De sì medesmo avendo ’l so valore:
    De questa oppinione sempre fui
      Ma chi sè vince in questi septi modi
    Ben è fondato nel divin amore. [L. c. 20]
    Dico de’ quali se m’entendi et odi.
      In giovenezza se vidi l’om casto,
    Et in allegrezza vidi l’om antiquo
    E largo in povertà che non porti asto.
      In ubertate anche chi ha mesura,
    Et in grandezza umilitate sico.
    E pacienzia nella ría ventura;
      E sofferenza ne li forti moti
    Del gran desio che ven nella mente.
    Or quisti sono dal vizio remoti,
      E desprezzando el mondo dolente;
    Or quisti sono immaculati e puri,
    Sempre seguendo li acti maiuri:
      Ne l’alto celo la vertù li mena,
    L’altri lassando ne l’eterna pena.


CAPITOLO IX[58]

      Questa vertù che tanto onora altrui
    El terzo celo la forma ne li umani,
    Sì como nel crear fo posta in lui
      Volere col poder è bella vista,
    Larghezza vole se tena lontani
    E miri la soa graziosa lista.
      È largitate con mesura dare [C. c. 18 t.]
    A cui e quando e como se convene;
    Questa è vertute nel gentil affare.
      Ma chi che fanno contra queste note,
    A povertà conduceli la spene, [L. c. 20 t.]
    Se la fortuna varia le rote.
      È plù beato el dare ch’el recevere,
    E de vertute recevendo l’omo
    Quando e quanto dico como devere.
      Ma chi che pur receve e non vergogna,
    Et in lui non è defesa perchè e como,
    Contra vertute dì e nocte sogna.
      E vui, che date pur passando el modo,
    Or ve recordi che la fronte suda
    Del domandare poichè siti a sodo.
      La conoscenza in povertà è pena;
    Quel’è felice che vizio refrena,
    E plù dogliosa fa la vita cruda.
      O quanti amici, o quanti parenti
    Se vede l’omo nel felice stato,
    Non respirando li contrarii venti.
      Dura l’amore fin che dura ’l fructo,
    Che quanto l’om po’, tant’è amato
    Da queste genti col vedere structo.
      Tant’è l’omo, quant’è de vertute,
    E tanto quanto plù el se fa valere.
    O gente ceche con le menti mute
      Mirate che la milicia è desolata
    E senza onore, se non v’è podere:
    Plù che de vita, de morte è beata.
      Non retineti ne l’antica bursa
    Quel che misura vol che pur se spenda,
    Ch’a poco ven lo tempo de la cursa
      Con accidenti non pensati e pravi.
    Chi vole che la spera non li offenda
    Tegna misura con l’aperte clavi.
      Questa vertute degno fa ciascuno,
    E grazia possede in ciascun loco.
    Plù tosto dare che recever duno,
      Plù tosto soffrir che far vendetta:
    Questa è la carità col dolce foco
    Che de l’eterna pace el tempo aspecta;
      E fa nel mondo grazia possedere
    A chi con queste serva ’l bel tacere.


CAPITOLO X[59]

      Da quant’è posta in croce questa donna
    Da li omini col falso iudicare,
    Perchè lo celo questi non profonna?
      Ove è conducta la noiosa vita,
    Solea nel tempo umilità regnare:
    Del ceco mondo par che sia smarrita.
      Quel è plù degno che po’ triumfare,
    Per lo diviso ch’è fra ’l nero e ’l bianco,
    Dando a li vicini le percosse amare.
      Deo prese al mondo la umilitate,
    Se ’l ve recorda de sanguigno fianco,
    Quando recomparò la umanitate.
      Segue ’l so fattor la creatura.
    Donqua se deve conseguir costei,
    Si como degna e beata figura;
      Chè chi se exalta fa depresso ’l volto,
    Cadendo sopra lui li tempi rei:
    Per plù soa pena regna l’omo stolto.
      Umilitate fa grazia seguire,
    Et a la summità de le vertute,
    Per nova cognoscenza, fa salire.
      Che sì como li auseli stringon l’ale,
    Per sormontare ne l’alte vedute, [L. c. 21 t.]
    Così te strenge se del ben te cale.
      Non fare como fa el villan grifango,
    Che nel gran stato fa nota superba
    E non se recorda del primo fango.
      De grande altura vengon li gran tumi, [C. c. 19 t.]
    E vidi umiliare la vista acerba,
    El tempo variando li costumi.
      Deve ciascun lo cor umiliare
    Al so fattore de l’eterna luce,
    A vertuosi la testa inclinare;
      A quilli che sono de povertate afflicti
    Umiliar l’audito a la lor voce,
    Sì como aviti ne l’antichi scripti.
      La Luna sopra questa vertù spira
    La qual refrena del voler l’altezza:
    Questa è umilità chi ben la mira.
      Subiecto e menor mostrase sempre
    A cui e quando deve e non sprezza,
    Abbandonando de virtù le tempre.
      La reverencia qual se fa al maiore,
    Onor ch’è testimonio de lo bene;
    Obedienzia qual se fa al signore;
      Gratificare ch ’l servir cognosce,
    Da l’umeltate ciascaduna vene.
    Così dal so contrario l’angosce.
      Questa vertute che dal cel descense,
    Fa pur beato chi con lei se strense.


CAPITOLO XI[60]

      Move la castitate dal Saturno [L. 22]
    Fermezza, abstinenzia e misura,
    Che mostra l’alma bella con el so giurno.
      Grandezza d’animo per l’alta soa spera
    Se forma desponendo creatura
    In el so fermo segno, se li era.
      È castitate freno de rasone,
    E del carnal vizio le morse
    Strengendo natural complexione.
      La lingua refrenando, li occhi e ’l core,
    E sustinendo le subite corse,
    Del gran desio che nasce d’amore.
      O quanto è forte l’amorosa flamma [C. c. 20]
    Che ven da l’imaginar de cosa bella,
    Che per disio tutto ’l cor s’enflamma!
      Ben è plù casto, ben è plù beato,
    Se amor che nasce de simele stella
    Non rumpe l’omo po’ ch’è ’namorato.
      La castità perde soa radice,
    Per lo superchio de la plata gola,
    Che sempre ad abstinenzia contradice.
      Li occhi amorosi inseme reguardando,
    E l’occhio, che ten la vita sola,
    Fa pur languir l’anima sospirando.
      Ben è gran cosa se nel conversare
    De lo gran tempo non nasce peccato;
    Dico ch’è como morto suscitare.
      Però tu prendi la iusta baglia
    Contra ’l mal e pensa nel tuo stato,
    Lo qual non dura como ’n foco paglia.
      Constanzia è vertù che sempre adorna
    E ten le tempre fuggendo durezza,
    Che ’l fermo so voler mai non se storma
      Quando ’l voler la rason se vede.
    O quant’è bella cosa la fermezza [L. c. 22 t.]
    D’amor, caritate e dolce fede!
      Non chi comenza vederà salute,
    Ma dico chi è constante fin’ a la fine
    Serà beato ne l’alte vedute.
      Non aver fede ne l’omo inconstante
    Che n’è fondato ne le vertù divine,
    Unde procedeno le opere sancte.
      Abstinenzia è freno con le tempre
    Del fer voler con la gola giotta;
    Como vertute a lei s’oppone sempre.
      Questa vertute fa crescer la vita.
    Et accidenti pravi tolle allotta,
    Che venerieno con doglia infinita.
      Misura è modo de tutte le cose, [C. c. 20 t.]
    Schivando sempre tutto lo soverchio;
    Sempre nel mezzo questa vertù animosa.
      De tutte l’altre donne questa è nave
    E guida, reposando nel so cerchio,
    Pur combattendo con le donne prave.
      Grandezza d’animo s’è a conseguire
    Le valorose cose de lo mondo,
    E ne la vita de fin al morire.
      Non è magnanimo chi ne l’acti vili,
    Quasi temendo par che regga pondo,
    Cessandose con li occhi quasi umili:
      A le formiche già mai non fa guerra.
    Or prendi exemplo e guarda lo leone
    E l’aquila: le mosche non diserra.
      Così ’l magnanimo segue ’l valor grande,
    Ne l’acti vili l’animo so non pone,
    Ma pur le alte cose lo cor spande.
      Or le conserva queste sancte liste
    Chè qui te lasso, perchè voglio alquanto,
    Nanti ch’io canti de le donne triste,
      Veder che è gentilezza e chi è gentile;
    E mostrarote, nel seguente canto, [L. c. 23]
    Se nobele se po’ far chi è nato vile.
      Poi vederai queste prave donne,
    Per qual’el ben felice se nasconne.


CAPITOLO XII[61]

      Provate celi la vostra chiarezza
    E correggete de questi l’errore,
    Che falsamente appellan gentilezza.
      Fo già tractato con le dolci rime[62]
    E diffinito el nobele valore
    Dal Florentino con l’antiche[63] lime.
      Ma con lo schermo de le iuste prove,
    Io dico contra de la prima secta
    E voglio che rason me ditto trove.
      È gentilezza de vertute forma, [C. c. 21]
    Che nel subiecto desposto s’aspecta,
    Quando el celo ha de qualitati l’orma.
      Se vertù fosse de l’antico sangue
    Forma saria ch ’l particular moto,
    Del vizio dunque perchè ’l nato langue.
      Già noi vedemo de secondi agenti
    E la lor natura l’effecto remoto,
    Li gran cattivi de gentil parenti.
      Donqua el celo con quieta luce
    Despone a gentilezza creatura,
    E per voler a l’opera s’adduce.
      Ven questo raggio dal secundo celo
    Che ten de gentilezza la figura,
    Per cui s’espone ’l mondo a questo zelo. [L. c. 23 t.]
      Ma se se giunge l’un con l’altro cerchio
    De sangue antiquo con l’excelso lume
    Gentil fa l’omo col valor soperchio.
      Ma ’l celo, illuminando el sangue novo,
    Non li po’ dare consimel costume,
    Como a l’antiquo: ciò de sovra provo.
      Ma qui me scrisse dubitando Danti:[64]
    Son doi fioli nati in un parto,
    E plù gentil se mostra quel de ’nanti;
      E ciò converso, sì como già vidi,
    Torno a Ravenna e de lì non me parto.
    Dimme Esculano quel che tu ne cridi.
      Rescrissi a Dante, intendi tu che legi:
    Fanno li celi per diversi aspecti,
    Secondo ’l me filosofo che pregi,
      Per qualitate le diverse mustre, [C. c. 21 t.]
    In un concepto, variati effecti,
    Secondo quelli ch’hanno l’alme lustre.
      Lo primo nato forma l’oriente,
    Et ine l’altro per vertù divina
    Inspirano le stelle d’occedente.
      Se ’l primo è vertuoso e l’altro vile,
    La prima parte nel ben fo latina;
    L’altra maligna po’ non è simile,
      Unde retorno e dico contr’a quilli
    Che dicono: noi semo gentil nati,
    Fedeli avemmo ben già plù de milli,
      In cotal monti for nostre castelle,
    Movend’el capo con li cigli arcati,
    Facendo de lor sangue gran novelle.
      Ciascun de questi renova soa vergogna,
    Tenendose gentil per li passati;
    Crede che sia vero chel se sogna:
      Non consequendo el ben de sangue antico,
    De desenore ha li occhi velati.
    Assai son quisti li qual non te dico. [L. c. 24]
      Non è piggior roncin che de destriero;
    Or prendi esemplo se un de la colonna[65]
    Lassasse li acti del sangue primiero.
      Cosa perfecta for de soa natura,
    Quando el so contrario se forma,
    Impia forma prende altra misura
      En gentilezza non per accidente.
    Quel’è gentil che per sè sa valere,
    E non per sangue de l’antica gente.
      Omo desposto in lui è naturale [C. c. 22]
    El conseguir del gentil volere,
    Non per ricchezza che l’è accidentale
      Per sè nullo accidente monstra effecto;
    Donqua ricchezza non fa l’om felice,
    Che po’ fuggire et esser nel subiecto.
      Ma como spira el sole el so splendore,
    E como pianta ne la soa radice,
    Vertù con l’anima ionse el so fattore.
      Ma la ricchezza a gentilezza face,
    E plù gentile se mostra l’omo;
    Ma chi ch’el so podere onnora sface
      E malamente soa ricchezza mena,
    Dar non possendo a cui quando e como,
    La conoscenza lo conduce a pena.
      È l’omo gentil, si como destengo
    Volendo queste secte contentare:
    Gentil de sangue fiol d’omo tengo.
      Gentil d’anima è figliol de Deo,
    E plù gentil non se po’ mostrare,
    Se non è pertinace fariseo.
      L’eterno Deo plù che l’om è degno
    Et plù che ’l sangue è l’anima perfecta:
    Ciò tu confessi come noto segno.
      Donqua è più degna la nobilitate
    De l’anima, che ’n vertù se delecta,
    Representando in sè benignitate, [L. c. 24.]
      Sonno dal celo potenzie già venute
    Che defferenza fanno fra l’umani,
    Secondo che ’l fa cerchio le so mute.
      L’om è gentil, quando è vertù in lui, [C. c. 22 t.]
    E tutti l’altri penser son vani,
    Che l’antica gente faccia bono altrui.
      Si como a luce se conosce ’l sole,
    E l’omo quando mostra e vertù cole.


CAPITOLO XIII[66]

      Onne creata cosa vede ’l fine
    Salvo la mente ch’è ceca e avara,
    Che volta in verso Deo le flexe rine,
      Che quanto plù possede plù desia,
    Partendose dal ben de la vita amara,
    E si smarrisce la dritta via.
      O voi del Patrimonio e del Ducato,[67]
    Che presso siti a le romane coste,
    Vui siti pur subiecti a tal peccato.
      Ma incresieme de Riete e de Spoliti
    Ch’a poco tempo vederanno l’oste
    De negra gente con l’elmi politi.
      Se non prega la croce san Francesco,
    Che guardi Assisi de lo grifo bianco,
    Serà spelonca nel deserto fresco;
      E s’a Perugia la pena se allonga,
    Serà ferita ne lo lato manco,
    Per lo peccato vil de nova flonga.[68] [L. c. 25]
      Todi che tene le gonfiate vele,
    Ch’aspecta pur de l’aquila el volato
    Ordendo con la mente nove tele,
      Del so vicino vederà la piaga,
    Perdendo ’l sangue cum l’acerbo flato,
    Purchè ’l Saturno sopra ’l Marte traga.
      Io torno e dico de l’avara lista[69] [C. c. 23]
    Che de li mali è cruda radice,
    Che men possede, quanto plù acquista.
      Plù de valore è l’om senza dinari
    Che non è dinar senza l’om felice.
    O vertuosi, o nel mondo cari!
      Quanto plù plove, tanto più s’indura
    L’arena: è così lo avar coraggio;
    Plù possedendo, plù d’aver se cura:
      Sì nasc’e more l’avaro e l’omo stulto;
    Non po’ far bene, ma sempre dammaggio,
    Dico in manifesto et in occulto.
      Onne peccato invecchia l’umani;
    Pur l’avarizia ten le verde fronde
    E plù nel tempo de capilli cani.
      Opposto è questo vizio a largitate,
    Che sparse tanto ne la vita l’onde,
    Ch’io veggo desdegnare la pietate.
      Cupidità soperchia in acquistare,
    In onno modo pur che possa avere
    E retenendo quel che deve dare,
      Per quisti effecti l’omo ditto è avaro;
    Che ’n acquistare e ne lo retenere
    Non è misura nel so tempo amaro.
      In onne vicio la contraria stella
    Tu prendi con l’avaricia nota,
    Che lassa forma de la luce bella
      E fa in diversi tempi el bene e ’l male:
    Io dico variando la soa rota,
    Si como muta el corso naturale. [L. c. 25 t.]
      Li vicii li quali io noto scritti
    Tu poi sentire per l’opposti ditti.


CAPITOLO XIV[70]

      O Roma, capo de l’acti possenti, [C. c. 23 t.]
    Quando retornerai nel primo stato,
    Serà la borsa giunta a li bisenti.
      Tenesti già lo fren de l’universo,
    Se te ricordi del tempo passato,
    Sì como del to segno dice el verso.
      Ma consequendo la superba vita,
    Li toi fioli t’han conduct’a tanto,
    Che par la toa memoria finita.
      Non serà mai boschi toa sancta terra,
    Ben sentirai de l’amaro planto;
    Ciò mostra ’l cel che sotto lui deserra.
      Per li peccati de la toa Romagna,
    Bagnato de lo sangue peregrino,
    El iusto cerchio sovra voi se lagna.
      Ma in poco tempo venirà ’l diviso,
    Che cacciarà el francesco lo latino,
    Per la soperbia nota del so viso.
      L’omo soperbo non po’ abitare
    In terra, e nel cel non po’ salire;
    Sempre demora nel gravoso affare.
      Consuma la soperbia le persone,
    Da lei procede el subito morire,
    Seguendo pur l’aspra opinione. [L. c. 26]
      Tre sonno le persone da spiacere:
    Lo povero soperbo et arrogante,
    Lo matto vecchio senza senno avere,
      Bugiardo ricco con soa onesta vista
    Che par che paternostri sempre cante.
    A Deo despiace troppo questa lista.
      Questa è radice de tutti peccati [C. c. 24]
    E fo dal primo, volendo la Sede,
    Quilli maligni spirti dampnati.
      Però plobe in terra questa iniqua secta,
    Da cui el male e inganno procede,
    E fan la vista de lo ben sospecta.
      Soperbia non è altro che volere
    Sovra de tutti esser tenuto,
    E quel che l’om non è volse tenere,
      Entrando ’nanti a ciascun omo bono;
    E pare a lui che non sia descaduto.
    Ten per negota che de gracia ha dono
      E differenzia de la gloria vana[71]
    Che questa dentro ten l’acerba norma
    Sovra de tutte tense la sovrana.
      Ma quisti, che del van son gloriosi,
    Voglion de laude manifesta torma:
    Mostrando forte, sonno desiosi.
      Essere ingrato da soperbia vene,
    Per questo se destrugge pietate;
    Chè non ha a mente lo passato bene.
      L’omo ch’ha vertute, se nel cor te poni,
    Como se spoglia de sua libertate,
    Tenendo a mente li passati doni.
      Deh! quanto nasce mal da l’omo ingrato,
    Che guasta per altrui l’om liberale,
    E per desdegno fa cader in peccato.
      Questa è la pena con sanguigno dolo,
    Quando per bene l’om receve male;
    El dolce patre parte dal fiolo. [L. c. 26 t.]
      Ma l’altrui male lo to ben non guaste, [C. c. 24 t.]
    El vizio la toa vertù desperga,
    Quando tu senti le soperbe taste;
      Che combattendo l’omo acquista onore.
    O quanto è degno che ’l soperbo merga,
    E senta pena de novo dolore.
      Che l’om soperbo deguasta le terre;
    Per lui ven piaga con l’accese guerre.


CAPITOLO XV[72]

      O Bolognesi, anime de foco,
    A picciol tempo veneriti al punto,
    Che caderà Bologna a poco a poco.
      Or ve ricordi como el divin arco
    Onne peccato con la pena giunto
    Et aspectando assai plù se fa carco.
      De voi me dol che spero de venire
    Al nido che è fondà sotto la chioccia
    De le globate stelle, al mio parere.
      E po’ me doglio e piango de Fiorenza,
    Che, lagrimando, scordarasse Doccia,[73]
    Facendo li Lucchesi nova offenza.
      Or piangi Pisa con li sospir dolenti,
    Quando ’l triunfo de Montecatino
    E del francesco sangue te rammenti:
      El to valor conven che pur se spegna
    E caggia nel iudicio divino,
    Lassando ’l freno de la tua Sardegna. [L. c. 27]
      O Siena, posta sotto ’l bel sereno
    Conven che piangi per l’opposte case
    Guastandose el to dolce terreno;
      E tempo venirà che la Toscana
    Sentirà pena con le bocche passe [C. c. 25]
    Per lo despecto de natura umana.
      Tenete la luxuria vostra dea,
    E fate nel fattor le piaghe nove,
    Plù che non fece la setta iudea.
      Or reguardate alquanto pietate
    Che sovra voi le lagreme plove,
    Veggendo como ’l ben divin lassate.
      Destrugge le ricchezze e le persone
    La gola, la luxuria e le guerre
    Le femene con li occhi in ciò se pone.
      Consuma ’l corpo e l’aneme se manduca,
    Per lei me pare che ’l cel se serre
    E in desdegno l’alto Deo conduca.
      E l’enimico de l’umana gente
    Più che de l’altri vicii se gode,
    Facendose ’l peccato carnalmente.
      Et è rason che questo non po’ fare,
    Per soa natura non se po’ dar lode
    Ma tutti l’altri ben ponno operare.
      Lo spirito, che ten la vita, invola
    Offende e tolle vertuosa fama
    Che desonesta per lo mondo vola.
      Destrugge ’l senno, corrumpe la legge,
    Fa ne la mente de desio brama,
    Conturba sovra ’l cel che tutto regge.
      Da lui descende fera servitute
    Che legge impone a cui donna comanda,
    Stando subiecto a la carnal salute.
      O servi tristi, o companati schiavi, [C. c. 25 t.]
    Perchè l’atto carnal così ve affanna
    Che contra Dio ve fa cotanto pravi? [L. c. 27 t.]
      Deh! non credete a femena sciocca
    E non v’accenda soa finta bellezza,
    Ma resguardate como dentro fiocca.
      Miri la mente con li occhi cerveri,
    Che allora prenderete la vaghezza
    De lei, mirando li sciocchi misteri.
      E li occhi falsi, come l’ammaestra
    Nel pianto per formar maior obiecto
    Tragendo guai, li sospiri addestra,
      O quanto è ceco chi a femena crede!
    O quanto nasce pena da delecto
    Passando ’l tempo che lo ben non vede!
      Si como el fuoco non se po’ celare,
    Tenendolo celato nel so seno,
    Così non po’ mai l’omo conversare
      Con femena che non sia delitto;
    Chè sempre ha ’l core de malicia pleno,
    E ciò demostra ne lo sguardo fitto.
      Lo foco, le femene e la terra
    L’abisso, l’inferno, dicon, non le basta,
    Ma senza fine l’appetito sferra.
      Ma se la fine del disio carnale
    Considera, serà la mente casta,
    Veggendo senza fructo lo gran male.
      Incesto, adulterio e fornicare
    Et anche far despecto a la natura,
    Luxuria se po’ in ciò divisare.
      Col simel sangue se commette incesto, [C. c. 26]
    Ma chi de matrimonio ten figura,
    Commette l’adolterio manifesto,
      Orribel vizio che natura prende.
    O anime diffidate sodomite
    O quanto per questo a Dio s’offende!
      Cercate amor, ove amor non regna.
    O menti ceche da lo ben partite,
    De vostra vita l’air se desdegna! [L. c. 28]
      Or ve ricordi como le nude ossa
    Remaneranno ne l’oscura tomma,
    E como a tutti morte dà percossa.
      Abbandonate donqua lo vil acto,
    Che se voi fate de rason la somma,
    Negota s’acquista, po’ che s’è desfacto.
      L’omo carnale con lo senno acerbo
    E quando vince perde l’om soperbo.


CAPITOLO XVI[74]

      O bel paese con li dolci colli,[75]
    Perchè non cognosciti, o genti acerbe.
    Con l’atti avari invidiosi e folli?
      Io pur te piango, dolce mio paese,
    Che non so chi nel mondo te conserbe,
    Incontr’a Deo facendo tante offese.
      Vinirà ’l tempo de li tristi iorni
    De guerra che farà sanguign’i campi
    Et infocati li toi monti adorni;
      E rotti li toi nervi, caderai,
    Se ciò s’alonga, però tu non scampi:
    Senza remedio, nuda plangerai.
      L’avara invidiosa mente vostra, [C. c. 26 t.]
    O Marchisani, con le gravi colpe,
    Secondo che lo celo me demostra,
      Conduceravvi ne le menti accese,
    Che lassarete l’ossa con le polpe,
    Intrando l’anno de lo tristo mese. [L. c. 28 t.]
      Da voi serà l’invidia lontana,
    Quando al ponente retornerà Tronto
    E Castellano de terra esculana.
      Si v’ha conducti Recanati et Exi,
    Che, se tornate al ben, serà ionto
    El monte de San Marco con Polexi.
      Scolta Romagna con l’antiche volpi,
    Che fanno per aver le nove tane
    De la gran pace li celati colpi.
      Serai pur subiugata da tiranni;
    Carne vulpina vol salsa de cane,
    E l’aspre pene li peccati granni,
      La invidia che ’l mondo non abbandona
    E fura la vertù de l’intellecto
    Et arde cecamente la persona
      Manduca l’anima, destrugge ’l core.
    Onne peccato fa qualche delecto,
    O invidia, non altro che dolore.
      Questa è tristezza de lo ben altrui
    Et allegrezza del dampnoso male
    Che ven per caso ne li tempi a nui.
      La invidia è più forte a sofferire,
    Che a noi povertà accidentale
    Che fa de summo stato l’om cadere.
      Se vuoi de invidioso far vendecta [C. c. 27]
    E con plù accesa fiamma far languire,
    Accostate a vertù che ’l ben aspecta;
      De l’altrui male sempre si’ dogliuso,
    Recordete del tempo ch’è a venire,
    E como la fortuna muta l’uso.
      Che chi se gode del vicino pianto,
    In ver de lui vegnon le triste ore
    Che prende de tristezza novo canto.
      O anima invidiosa e smarrita
    Resguarda como è in cruce el to fattore,
    E per qual fin tu fosti redimita: [L. c. 29]
      Io dico a conseguir la degna sorte,
    Fuggendo per vertù l’eterna morte.


CAPITOLO XVII[76]

      O voi Lombardi, con l’ampiata gola,
    Fareteve rebelli de San Piero,
    Pur resguardando l’aquila se vola.
      Venirà tempo, dico, ne lo quale
    Iuveni acerbi con lor acto fiero,
    Che sovra ’l templo spanderanno l’ale,
      Tollerà ’l nome con sanguigna spada
    Ciascun de quisti a lo gran lombardo,
    Se ’l so valor non perde presso all’Ada
      Veggio cader li guelfi in Lombardia,
    Se al cel Deo non fa novo resguardo,
    Tollendo dal Saturno signoria.
      El gran diviso guastarà Cremona
    E Padoa e Milano con Piacenza;
    Di Mantoa non dico e di Verona,
      Che non so de qual celo fur lor stelle.
    I’ temo ch’a lo voler non faccia offensa;
    Dunqua conven che taccia lor novelle.
      Sempre a tiranni serà sottoposta
    La vostra Lombardia col dolce plano,
    Se a la natura pietà non osta.
      La gola col gran mal de lo sexto clima [C. c. 27 t.]
    Voi conseguendo con sì grande accano, [L. c. 29 t.]
    Non credo che Deo muti questa rima.
      Non po’ far con l’altri vicii contesa
    Chi la soa giotta gola non refrena,
    Chè con la gola la luxuria è accesa.
      Destruge la memoria e tolle il senno,
    Corrumpe el sangue de ciascuna vena
    E mor cantando el giotto como Cenno.
      Debilita lo spirito e la lingua
    E tolle lo intellecto de lo bene
    E subito s’affoca[77] tanto impingua,
      Che en desenore termena la vita
    E tolle de la gloria la spene;
    Fa sentir flamma de doglia infinita,
      E spoglia l’anima de la sua vertute
    Plangendo nuda sempre de salute.


CAPITOLO XVIII[78]

      Ben’ ha vertute chi desia onore
    E laude de lo ben che l’omo acquista,
    Chè per la fama cresce plù lo valore;
      Ma quisti vani de la gloria sciocca
    Che voglion laude de la pinta lista
    Passando ’l modo che l’estremo tocca.
      Non specti laude chi laude refuta,
    Nè aver salute chi salute offende,
    Che per celarse el vero non se muta.
      Non sempre è fructo ov’è verde foia,
    E nè tesoro ciò che luce e splende; [L. c. 30]
    E chi ciò crede, pur del ben se spoia.
      E poi che l’om non è quanto se mostra, [C. c. 28]
    E pur desia le pompose laude,
    E forte desprezza questa vita nostra;
      Questa si è l’anima de la ipocresia,
    Che de la vana gloria se gaude,
    Voltando lo intellecto a fantasia.
      La falsa nomenanza poco dura:
    Chi ben parla e malamente vive
    E chi coprir se vol de soa natura.
      Ben è scoverto chi che vol celare
    A li occhi umani le opere cattive,
    El perso per lo bianco demostrare.
      L’altrui parlare la toa laude spanda
    E la toa bocca servi lo bel tacere,
    Perchè de vergogna l’anima s’affanda.
      Propria bocca fa le laude sorde,
    E fasse fra le genti gran despiacere,
    Quando la vanagloria la morde.
      A magnanimitate contradice
    La vana gloria che ne l’omo regna,
    Che vol plù laude che non è felice.
      Tra li altri questo vizio meno noce
    E nostra umilitate meno sdegna
    Ma pur del maggior falla ov’è luce.
      È ceca l’anema de la conoscenza
    Che de la soa salute plù non pensa.


CAPITOLO XIX[79]

      Ira non è altro che acceso sangue [L. c. 30 t.]
    Dentro nel core che ’l desdegno infoca,
    Per qual de la vendetta l’anima langue.
      Subito sdegno tolle lo gran bene [C. c. 23 t]
    Del grand’amor che torna in cosa poca,
    Se d’amorosa pace non è spene.
      Là ove amor perfecto se desdegno,
    Bramase pace con dolce vergogna,
    Se del celato ben non mostra segno.
      O quant’è bella cosa la dolce ira,
    Che per far doppia pace pur besogna,
    Nel tempo che d’amor lo cor sospira!
      L’accesa gelosia con l’ira forte
    E lo pensero che la fin non vede,
    Denanti a lo tempo conduce a la morte
      Nasce de l’ira subita parola
    Per qual la morte subita procede,
    Che l’alma desperando ne va sola,
      Lo irato se mitiga per tre cose:
    Dolce respondendo, over tacere,
    O departirse fin che l’ira pose.
      Li occhi umani, quando son irati,
    Cecano l’anima del iusto vedere,
    Remota stando da l’acti beati.
      È pur in parole l’ira de li matti,
    Sonando l’aire con l’irate voci;
    Ma quella de li savii è in facti.
      O quant’è a l’anima forma de bellezza
    Che se refrena de quisti acti atroci,
    Prendendo de vertute la fermezza.
      Tepor è d’animo l’accidia ria
    Ch’abbandona nel comenzar li effecti,
    E, comenzando, non segue la via.
      E questa la pigricia ten le branche [C. c. 29]
    De questi vegnon li penal difecti, [L. c. 31]
    Mostrandose del ben poco stanche.
      Or queste donne triste qui le lasso,
    Entendo de seguir altro camino
    Da questa riva con plù dolce passo:
      De certi animali e petre far simiglie,
    Parlando in questa parte plù latino
    Che la comuna gente qui se sviglie.
      Comenzo in prima de l’alter valore,
    Dicendo unde procede e ch’è amore.




LIBRO TERZO[80]


CAPITOLO I

      Dal terzo celo se move tal vertute,
    Che fa doi corpi una cosa animata,
    Sentendo pene de dolce ferute,
      Conformità de stelle move effecto,
    Transforma l’alma ne la cosa amata,
    Non variando l’esser del subiecto.
      Questa vertute è con l’alma unita
    Nel so creare, como sole e luce;
    Chè fo in un tempo lor forma finita,
      Lassando le ore de l’acerbi iorni:[81]
    Però, nel disio, l’anima se conduce,
    Donna mirando, con l’effecti adorni.
      El terzo aspecto, dico, col sextile,
    È permutando la luna col sole,
    Et anco l’oriente se simile.
      Ciascun amore move per natura,
    Inseme l’anime per vertù recole, [L. c. 31 t.]
    E plù e meno secondo lor figura.
      Amor non fo già mai nostro volere; [C. c. 29 t.]
    Ma ven per natural conformitate,
    Che nasce in voi per sobito vedere.
      Li occhi umani sono calamite,[82]
    Che tirano de nostra umanitate
    Lo spirto col piacer, como vedite.
      Amor è passion de gentil core,
    Che ven da la vertù del terzo celo,
    Che nel crear la form’al so splendore.
      Errando, scrisse Guido Cavalcanti[83]
    «Non so perchè se mosse e per qual celo».
    Qui ben me sdegna lo tacer de Danti,
      «Donna me prega ch’io debbia dire»:
    Demostra ch’amor move da Marte,
    Da qual procede l’impeto con l’ire;
      Destrugge pietà con la mercede,
    Unita cosa per desdegno parte,
    Corrumpe amor con la dolce fede.
      Non è effectivo agente quel che priva;
    Donqua el Marte non po’ per so lume
    Amor formar in animal che viva.
      L’antiche prove de l’excelsi dicti
    Spoiano Marte de cotal costume,
    Che ten de guerra l’acti circoscripti.
      Anche onne agente, dico, naturale,
    Che termena alcuna passione,
    Da ella departirse mai non vale.
      Del so creare fo el Marte cinto,
    Ch’a l’ira e a l’impeti despone:
    Amor donqua da lui fo dispinto.
      Senza vedere, l’om po’ inamorare, [C. c. 30]
    Formando specchio de la nuda mente,
    Veggendo vista su nel ’maginare;
      Ma pur da li occhi nasce plù piacere,
    E plù se chiude amor in noi possente, [L. c. 32]
    Con gran dolcezza e con maior temere.
      Questa conformità me move de viso,
    Fa l’anima parziale senza rasone
    Nel primo sguardo, mirando nel viso.
      Amor non nasce prima de bellezza:[84]
    Consimel stella move le persone
    E d’un volere ferma la vaghezza.
      Non se departe altro che da morte,[85]
    Quando la luce trina le conforma
    Inseme l’anime del piacer accorte.
      Ma Dante, rescrivendo a messer Cino,
    Amor non vide in questa pura forma,
    Chè tosto avria cambiato ’l so latino.
      «I’ sono con amore stato inseme»:[86]
    Qui pose Dante che novi speroni
    Sentir po’ ’l flanco con la nova speme.
      Contra tal dicto dico quel ch’io sento,
    Formando filosofiche rasoni;
    Se Dante po’ le solve, son contento.
      Natura move per l’eterno moto
    E quando qualitati unde resulta
    Esser perfecto che non sta remoto.
      I’ prendo exemplo intra lucente petra,
    Che ha per qualità soa forma occulta,
    Che mai dal soiecto non s’arretra:
      È natural ciò che ’l cel qui move; [C. c. 30 t.]
    E ciò non prende mai contraria faccia,
    Finchè non torna in qualitate nove.
      Se questa trina luce amor compone,
    Non veco ch’accidente l’amor desfaccia:
    De ciò sum certo senza opinione.
      Non intendo tractar d’amor divino,
    Como de l’alma nostra è somma vita;
    Chè qui de lui parlar non posso a plino;
      D’amor che nasce per vertù de sangue
    Che per natura ne li nati alita, [L. c. 32 t.]
    I’ lasso; e dico como lo cor langue,
      Como la luce propria ha l’aspecto,
    Illuminando l’aire che resplende,
    Facendo a li occhi natural delecto.
      Così del core è oiecto l’amore,
    Lo qual, se limitato, non offende
    Nè tolle alla vertute el so valore;
      Ma como offende la vertù visiva,
    Dico, el so visibil excellente,
    Chè lei corrumpe potenzia passiva.
      Amor così tremendo fa languire
    El cor, che sospirando fa dolente,
    Sentendo pena del novo martire.
      Là ov’è amor, sempre è gelosia
    Et è paura penser e sospecto
    E l’anima con la spene tutta via.
      Amor nel cerchio non ten fermo puncto:[87]
    O cala o monta ne l’uman concepto;
    Sempre col moto fo così coniuncto.
      Chi non segue la carnal salute, [C. c. 31]
    Reguarda donna, como sol a fango,
    Descaccia d’onne vizio servitute,
      E vede la certezza de lo bene;
    Ma i’, dolente, onne tempo plango,
    D’amor sperando quel che non convene.
      Amor de l’acto quant’è plù lontano,
    Con tant’è plù possente ’l dolce foco
    Che ten gioioso sempre lo cor umano.
      Ardendo fa la vita el ben sentire
    Donna mirando nel beato loco
    Che pace con dolcezza par che spire;
      Ma sonno in nostra umanità venute
    Gente obscure con lor acto fero,
    Che son de tal vertù lor mente mute,
      E vista carnal van pur querendo.
    Per l’abito cessa el moto altero, [L. c. 33]
    Vilmente lor disio conseguendo.
      Amor, se è vizioso, poco dura;
    Se è per vertute, onn’ora se ferma,
    Chè l’anima ne lo ben transfigura.
      Amor che non comenza in ferme stelle
    Tosto s’accende, e vaccio se descerma,
    Partendo desdegnate l’alme felle.
      I’ son dal terzo celo trasformato
    In questa donna, che non so chi foi,
    Per cui me sento onn’ora plù beato.
      De lei prese forma el meo intellecto,
    Mostrandome salute li occhi soi,
    Mirando la vertù del so conspecto.
      Donqua, io so ella; e se da me scombra, [C. c. 31 t.]
    Allora de morte sentiraggio l’ombra.


CAPITOLO II[88]

      O amorosi spirti de lo mundo,
    Se ’n lei se mostra la vertute tanta,
    Procede da chi move el cel secundo
      Se om non mirasse bellezza in costei,
    L’umanitate, che la spera ammanta,
    Seria plù degna, cognoscendo lei.
      O anima bella de la spera nostra,
    Trassela al mondo per salute umana;
    De voi le stelle fanno nova mostra.
      O viste umane, se fossete degne
    De veder como de grazia fontana [L. c. 33 t.]
    E com’el celo in lei vertute pegne!
      Costei fo quella che prima me morse
    La nuda mente col disio soverchio,
    Che subito mia luce se n’accorse.
      Onne intellecto qui quiesca e dorma,
    Chè non fe’ mai, sotto ’l primo cerchio,
    Deo e natura sì leggiadra forma.
      Questa è la donna, qual mai non coverse
    Spera de l’umana qualitate,
    Avegna che nel mondo qui converse.
      Fo ’nanti ’l tempo e ’nanti ’l cel soa vista;
    Qui fa beata nostra umanitate,
    Seguend’el ben che per lei s’acquista.
      Or questa de fenice ten semeglia,[89]
    Sentendo de la vita gravitate.
    Morendo nasce; scolta meraveglia:
      In elle parti calde d’oriente [C. c. 32]
    Canta, battendo l’ale desfidata,
    Sì che nel moto accende fiamma ardente;
      Però, che conversa, dico, in polve trita,
    Per la vertute che spreme la luna,
    Reprende in poca forma prima vita:
      E, pur crescendo, monta nel so stato.
    Al mondo non ne fo mai plù che una;
    De l’oriente spande el so volato.
      Così costei, che al tempo more
    Per la grifagna gente oscura e ceca,
    Accende flamma del disio nel core:
      Ardendo, canta de le iuste note;
    Con dolce foco la ignoranzia spreca
    E torna al mondo per le excelse rote;
      La guida de li celi la conduce
    Ne l’alma,[90] ch’è desposta per soa luce.


CAPITOLO III[91]

      E l’aquila per tempo se renova,[92] [L. c. 34]
    Volando ne la excelsa parte ardente,
    Chè sotto la vecchiezza ella sè cova.
      Nel gran volato, le sue penne ardendo,
    Reprende iovinezza; e ciò consente
    Natura, presso a l’acqua ella cadendo.
      Stando nel nido con li piccoli nati,
    Verso li raggi fa ciascun mirare:
    De quel che vede li occhi ’maculati,
      Che non son fermi aperti verso ’l sole,
    Beccandolo, comenza a desdegnare;
    E nel so nido mai star plù non sole.
      Ov’è ’l so nido, non li sta da presso [C. c. 32 t.]
    Nessun auselo, se non vol morire
    E da soe branche esser da cesso[93].
      De soa rapina sempre lassa parte;
    Piccoli animal non vol mai ferire;
    Vegendo lor temer, tosto se parte.
      Così me renova nel piacer costei.
    Et arde de vergogna la mia mente,
    Quando s’agrava pur de seguir lei:
      Spandendo l’ale de la soa vertute,
    Allora cresce lo intellecto agente,
    Mirando de bellezza la salute.
      E chi con lo suo sguardo non remira
    Al so Fattore e depreme ’l viso
    Costei desdegna, per cui lo corso spira.
      Le lagreme pur bagnano la terra,
    Essendo da costei così diviso, [L. 34 t.]
    Che per defecto cade in la soa guerra.
      Si como donna de le iuste genti,
    Desprege d’onne vicio radice
    Dal cor che mostra po’ l’acti possenti:
      Avendo misericordia e caritate,
    A la vilità del mondo contradice,
    Facendo degna nostra umanitate;
      Da li occhi soi nascendo tal piacere,
    Che fa beato l’omo nel vedere.


CAPITOLO IV[94]

      In ne le parti d’Asia maiore
    Lumerpa nasce con lucente penne,
    Che tolle l’ombra con lo so splendore.
      Morendo, non è morto questo lume; [C. c. 33]
    Non vol natura che già mai se spenne;
    Partita penna vol che poco allume.
      Così da questa ven la dolce luce,
    Ch’aluma l’alma nel disio d’amore;
    Tollendo morte, a vita conduce.
      E l’om, morendo po’ con questa donna,
    Luce la fama; nel mondo non more
    E de sospiri fa questa Ionna.
      Ma, chi da questa donna s’allontana,
    Perde la luce de le prime penne,
    De soa salute onn’ora s’estrana;
      Ma, prego, con li dolci occhi me sguarde,
    Tollendo del mio cor le penne vane[95], [L. c. 35]
    Del ceco mondo che onn’ora m’arde:
      E la soa forza me conduce a tanto,
    Che sempre li occhi gira ’l tristo[96] pianto.


CAPITOLO V[97]

      Segue stellino bellezza de celo,
    I’ dico, per vagezza de la stella,
    Ne l’aire muggia, fin che trova ’l gelo;
      E vola, abbandonando el dolce nido:
    Vegendo che Mercurio l’appella,
    Lui consegue, facendo gran grido.
      Ma pur vagezza de la stella lassa,
    Scordandose de l’ovo che ’mbranca,
    Che mai per gelosia da lui non scassa.
      L’ovo cadendo, nasce ’l so fiolo:
    Poi che ’l vedere de la stella manca,
    Gridando lo nato, verso lui fa volo.
      È simel donna questa del stellino, [C. c. 33 t.]
    Che fa volar la mente nostra accesa,
    Nel gran disio de lo ben divino;
      E tolle la viltà de questa vita,
    Del tristo amor che commette offesa,
    Amando plù che Deo cosa nutrita.
      Conforma l’alma con l’eterna spene,
    Lassando ’l mondo che vicio mantene.


CAPITOLO VI[98]

      El pellicano, col paterno amore, [L. c. 35 t.]
    Tornando al nido fatigando l’ale
    Tenendo li soi nati sopra ’l core,
      Vedeli occisi da l’impia serpe;
    E tanto, per amor de lor, glien cale,
    Che lo so lato fin al cor diserpe.
      Plovendo ’l sangue sopra li soi nati
    Dal cor che sentì le gravose pene,
    Da morte in la vita son tornati.
      Da questa in noi se move conoscenza
    De quel che move e tutto sostene,
    E l’universo per lui se despenza.
      Como de pellicano tene figura,
    Per li peccati de’ primi parenti,
    Resuscitando l’umana natura;
      E noi, bagnati da sanguigna croce,
    Resuscitando da morte despenti
    De servitute lassammo la foce:
      Sì che per morte reprendemmo vita,
    Che per peccati fo da noi partita.


CAPITOLO VII[99]

      La salamandra, che nel foco vive[100] [L. c. 36] [C. c. 34]
    E l’altro cibo la soa vita sprezza
    Non sonno in lei potencie passive,
      Ardendo, se renova soa coverta.
    Così natura in lei pose fermezza;
    Non vol che ’n fiamma già mai se converta.
      Così fa l’alma che costei consegue,
    Che mai non sente tormento nel foco,
    Se la fortuna rumpe le sue tregue.
      Pascese sola per la soa salute,
    E del dolente mondo cura poco,
    Considerando la soa servitute.
      Camaleone che vive ne l’aire,
    Qual è subiecto di tutti li uccelli,
    E se de claritate fosse vanie,
      Sopra le nube volando s’adduce
    E passa quelle parti de li celi,
    De fin che trova l’aire ’n pura luce.
      Ive se pasce, ive se nutrica.
    Allech in acqua et in terra talpa;
    Or qui m’ascolta, se voi che te dica.
      El pesce, for de l’acqua, poco guizza;
    In picciol tempo la morte lo palpa:
    E talpa ne la morte li occhi svizza.
      Cossì fa l’alma che tal donna porta, [C. c. 34 t.]
    Qual è subiecto de vertute sancte,
    Che verso ’l celo da lui prende scorta,
      Lassando de la vita oscuritate.
    E per la fede sostene pene, o quante! [L. c. 36 t.]
    Sol per vedere l’alta claritate.
      E l’anima, che per luce fo creata
    Per sormontare nelle dolci scale,
    Per li occhi de costei deven beata.
      Ma quando guizza da costei divisa,
    Verso la morte con tristezza sale
    E mai con conoscenza non s’avisa.
      Sì como talpa elude li occhi belli,
    Celando fin a la morte le soe colpe
    De li acti avari invidiosi e felli.
      Nel storto tempo sguarda el so fattore;
    Debelità ten l’osse con le polpe,
    Sperando a poco a poco le triste ore.
      Quest’ultimo pentire mai non lodo,
    E non desprezzo chi ten cotal modo.


CAPITOLO VIII[101]

      Poi che morte le penne ha plombino,
    Renascono per soa qualitate;
    Son temporate, dico, plù e mino.
      Vertù se serra in lui, si como in seme
    Che ten occulta soa humiditate;
    Chè planta nasce, quando ’l sol la preme.
      Cossì costei; chi la ten nel core,
    In onne modo segue temperanza:
    In cel fiorisce, poi ch’al mondo more.
      E le nude ossa con la fronte calva, [C. c. 35]
    Che dormeno vestite de speranza, [L. c. 37]
    Renasceranno con la carne salva,
      Quando la forza del Fattor benegno
    Chiuderà giurno ne l’umano regno.


CAPITOLO IX[102]

      El struzzo, per la soa caliditate,
    In nutrimento lo ferro converte.
    Non vola in air per soa gravitate.
      De giugno, quando vede quelle stelle
    Globate in oriente ben aperte,
    Sotterra l’ova, e scordase de quelle.
      Mettendo l’ova sotto nel sablone,
    Nascono per vertù che ’l sol ne spira,
    Onde de vita ven perfeczione.
      Nutrica li fioli, poi che son nati;
    Recordase de l’ova, e ficto mira,
    Guardando lor con occhi humiliati.
      Cossì, chi sente al core el dolce foco
    Che nasce per disio de costei,
    El mal consuma e serva in suo loco;
      E se de lei peccando se scorda,
    Plangendo con sospiri dice omei,
    Quando de questa donna s’arrecorda.
      El gran pentire tolle el gran peccare,
    S’el core fa per doglia lagremare.


CAPITOLO X[103]

      El cigno è bianco senza alcuna macchia [L. c. 37 t.]
    E dolcemente canta nel morire
    E non fina, fin che morte no l’attacca.
      Cossì è bianca l’alma per vertute, [C. c. 35 t.]
    Volendo questa donna conseguire.
    Per essa se vede l’eterna salute
      E canta nella morte enamorata,
    Andando al so Fattor, cossì beata.


CAPITOLO XI[104]

      Cicogna, quando ha male, el ben conosce,
    Chè bene ha forza de l’acqua marina:
    Cossì da lei fa fuggir l’angosce.
      Se mai in fallo trova soa compagna,
    Desdegna e mai con lei non s’avicina,
    Sola pensando va per la campagna,
      D’animali venenosi se nutrica,
    E lor veneno già mai non l’offende,
    Naturalmente le serpe mastica.
      Non fa col petto, ma col viso cova;[105]
    Dritto al core l’ova pur comprende,
    Chè sovra sperma la vertute nova. [L. c. 38]
      Poi ch’è vecchia, da li soi fioli
    Receve nutrimento e gran dolcezza,
    Sì che ’n pace posa li soi doli.
      Cossì fa chi conosce questa donna:
    Sentendo di peccati la gravezza,
    Prende conforto sì che non profonna;
      El vizio abbandona desdegnando;
    Non teme so veneno, che nel mondo
    Occide l’omo; su, nel doce affanno,
      Drizza el core verso ’l fine e ’l bene;
    E, soffrendo el corpo el grave pondo,
    Vede salute a la gravosa spene,
      E posa l’anima con dolcezza e pace [C. c. 36]
    Sopra le stelle, si como a Deo piace.


CAPITOLO XII[106]

      Canta cicale per ardente sole
    Sì forte, che ’l morire in lei fa scucco;
    Le dolce olive per natura cole.
      Quant’è plù puro l’aire, plù resona
    La voce soa, che fa tacere ’l cucco;
    Si che ’l suo tristo canto plù non sona.
      Ne l’olio messa, subito se more;
    Spandendo aceto sopra lei, resorge.
    Sì fa costei che la porta nel core,
      Sentendo del divino splendor la luce:
    Non fina la soa prece, fin che urge
    La morte, dico, che al tacer conduce.
      Facendo el canto de la iusta prece, [L. c. 38 t.]
    Ne l’alma fa tacire ogne vil cosa;
    E, se pur cade ne la trista nece,
      Per penitenzia reprende la vita,
    Che, per vergogna, plangendo fa posa
    Satisfacendo con la mente unita;
      Sì che retorna in grazia divina,
    Quale beata vita che non fina.


CAPITOLO XIII[107]

      Nocticora, querendo el cibo, grida;
    De nocte canta e volando preda;
    Ove son corpi morti, là s’annida:
      Vede la nocte, ma nel giurno è ceca;
    Al’altri oselli è angoscia e feda;
    Como resguarda el sole plù s’acceca.
      Cossì fa l’anima viziosa e rea, [C. c. 36 t.]
    Quando da questa donna se departe,
    La quale è de bellezza summa dea;
      Acceca li occhi d’onne cognoscenza
    E segue la viltà in onne parte,
    Fin che la luce de veder non pensa;
      E fin el bene de l’eterno amore
    Non vede, chè vivendo ella se more.


CAPITOLO XIV[108]

      In femina lo maschio transfigura [L. c. 39]
    Perdice, descordandose de lo sesso,
    E, quando po’, de l’altri l’ova fura:
      Per l’invidia le cova, e fa fioli;
    Da lei ciascun se parte e sta da cesso,
    Verso la madre propria fa voli.
      Cossì como l’homo for de conoscenza,
    Che questa donna non porta nel core
    Nè teme de comettere onne offenza;
      E l’altrui bene per invidia tolle,
    La qual t’adduce a pena e a dolore
    E d’altra salute te destolle:
      Or pensa che l’aver facto de furto,
    Tu vidi trapassar in tempo curto.


CAPITOLO XV[109]

      La rondene doie petre preziose[110]
    Naturalmente porta nel so ventre,
    Che vagliono ad amore, e son famose.
      Se li fioli sonno cechi et orbi,
    Biascia la celidonia, sì che c’entre
    El cano succo che sana lor morbi.
      Cossì serai tu gracioso sempre, [C. c. 37]
    Se porti amore e caritate dentro,
    De questa donna servando le tempre.
      Se ’l vicio te ceca li belli occhi,
    Cercando questa donna nel to centro,
    Prego, ch’al Factore t’engenocchi;
      E de salute non te desfidare, [L. c. 39 t.]
    Chè propria natura è lo peccare.


CAPITOLO XVI[111]

      Del sangue de la upupa chi sogne
    Da spiriti, dormendo, vederasse
    Essere preso, che non par che sogne,
      Io non vorria che onn’om sapesse
    Quanta viltà in lei natura sparse;
    No saría furo che so core avesse.
      Invecchia tanto, che non po’ vedere
    Nè po’ volare, sì che ciascun nato
    Trappa le penne e la piuma a lor podere;
      E poi la cova, e, con vertù d’erbe,
    De giovenezza torna al primo stato:
    Cossì natura vol che se ne conserbe.
      Cossì tu divi non essere ingrato,
    Divi pensare, se non fosser illi,
    C’al mondo mai non saria creato.
      Pensa a toa matre quanto ne fatica,
    Non si’ maledetto sì como son quilli,
    Ma sempre con dolcezza la nutrica.
      Honora el patre con toa genitrice,
    A ciò che sopra terra la toa vita
    Sia plu lontana prospera e felice.
      A voi fioli la consimel specte: [C. c. 37 t.]
    Crudezza, impietate over ferita,
    Sì como ho già veduto a più de septe
      E somme in la memoria presso a cento,
    Che morti sonno pur per ciò a stento. [L. c. 40]


CAPITOLO XVII[112]

      El calandrello, qual’è tutto bianco,
    Portandolo denanci a quel ch’è infermo,
    De ciò che qui te dico non te manco,
      Se morir deve, voltali la coda;
    Se campar deve, resguardali fermo.
    De questo animal tal natura loda.
      Cossì fa questa donna: a cui resguarda,
    De morte a vita e de salute torna;
    Volta l’aspecto a cui lo vizio imbarda,
      Sì che, vivendo, mor, perchè ’l mal vive.
    O quanti la speranza al mondo scorna
    Pur conseguendo le opre cattive!
      Ell’è de salute nel presente giorno,
    Chè, astrimando, la morte gli è intorno.


CAPITOLO XVIII[113]

      Molte nature trovo nel voltore;
    Non tutte a simiglianza le reduco,
    Ma voio che de lui si è venatore
      De lupo e de lione ligato in pelle [L. c. 40 t.]
    El core de Satanas e del gran Bruto
    Et onne spirito l’impeto repelle.
      Da venenosi animal fa l’om seguro;
    Ardendo le soe penne, li serpenti
    Fugeno tutti; questo ben te giuro.
      Ligando la soa penna nel pe’ dextro,
    Quando nel parto son dolor pungenti,
    A ciò che te dico non guardar celestro,
      Tira la creatura fore a luce;
    E chi non leva subito la penna,
    Ciò ch’è dentro de for ne conduce.
      La lingua tracta da lui senza ferro,
    In panno novo al collo se sospenna,
    Fa certe cose che qui non deserro.
      El pe’ dextro ligato al sinistro,
    E ciò converso, tolle el gran dolore.
    Anche d’un’altra cosa t’amaestro:
      La polvere de l’ossa molto vale,
    Con celidonia resulta ’l valore
    Che priva de langor ciascun animale.
      Li soi fioli, quando son nel nido, [C. c. 38]
    Beccali forte se li vede grassi
    E, percotendo sopra lor, fa grido.
      Cossì fa l’omo tristo invidiuso,
    Che lassa de costei li dolci passi,
    Fin che se vede de morte confuso
      E se medesmo ardendo se percote,
    Gridando verso Deo con triste note.


CAPITOLO XIX[114]

      Erodio, il quale è dicto falcone, [L. c. 41]
    Plù fere col pecto che non fa col becco.
    Ascolta quant’è in lui perfeczione:
      Se in doi volati non prende soa caccia,
    Vergognase forte, sì che sta a stecco,
    Nè in quel giorno animal plù menaccia.
      L’altro, che demestego pur vaga
    E per vergogna per l’air va sperso,
    De retornare a lui tardo s’emplaga.
      Non becca mai de putrida carne,
    Sia quanto vole de fame converso;
    Quando è infermo, prende pur le starne.
      L’omo ch’è prudente fiol de vertute
    Plù fa col core che non fa con bocca
    L’occhi voltando ne l’aspre ferute
      Sempr’è vergogna, là ov’è gentilezza,
    Azzara, dico, ad cui tal dicto tocca
    Che con la lingua l’inimici spezza.
      Non prende l’om gentile le brutte cose,
    Ma, per vertù de l’animo ch’è granne,
    Consegue sempre le più valorose.
      Ma sonno al mondo cotali gentilotti [C. c. 43]
    Che gridano, mostrando le lor sanne,
    Schernendo altrui con lor grigni e motti.
      Per l’opera se mostra l’om gentile,
    Sì como è scritto nel secondo stile.


CAPITOLO XX[115]

      El grifo assai è forte, ma pur teme [L. c. 41 t.]
    Per molti animal che son ne li monti,
    Chè per lor corpi lo tossico freme.
      Sempre nel nido lo smeraglio pone,
    Sì che non sieno li soi nervi ponti:
    Per questa pietra fa defensione.
      Cossì de vertù divi mettere costei
    Dentro nel core, con la ferma fede,
    La qual defende l’om da l’acti rei,
      Da l’inimico e dal serpent’antiquo,
    E dona pace gloria e mercede,
    Togliendo a l’alma lo valor iniquo.
      Chi seco porta questa bella pietra,
    Già mai de soa salute non s’arietra.


CAPITOLO XXI[116]

      Ciò che se dice non è tutto vero[117]
    Che, morto, lo paone non se corrompa:
    Quel che già vidi, tolla el to pensero.
      Ben se conserva assai, ma non d’agusto,
    E, quando el Sole in Cancro mostra pompa,
    De lui s’accorge el naso et anche el gusto.
      La paonessa, quanto po’, nasconde
    L’ova, che ’l paone non le offenda;
    Quando illo grida, tace e non risponde:
      Assai plù la luxuria l’affanna [C. c. 43 t.]
    Che par che la compagna non lo attenda.
    Ov’è che trova l’ova, lì le danna.
      Gode de soa bellezza nella rota;
    Guardandose a li pedi, prende tristezza, [L. c. 42]
    E l’alegrezza da lui sta remota.
      Voce ha maligna, capo de serpente,
    Le penne paion d’angelica bellezza,
    Li passi de latrone fraudolente.
      È l’omo pravo simel de paone,
    Che guasta la comune utilitate,
    Per lo voler che cieca la rasone.
      Se con le man ce gionge, no vole uncino;
    Ma, se resurge la comunitate,
    Tempera mano a folle et a molino.
      O tu, ch’intorno toa bellezza miri,
    Che sì la sciocca gloria t’enbarda,
    Se hai intellecto, como non sospiri?
      Guarda li pedi e li veloci passi
    Che fai verso la morte che te guarda
    E como el tempo che traluce lassi!
      Or pensa, donqua, che, nel mondo tristo,
    Se lassa con suspiri el male acquisto.


CAPITOLO XXII[118]

      Hanno le grue ordene e signore,
    E quella che conduce spesso grida,
    Corregge e amaestra lor tenore.
      Se questa manca, l’altra in ciò soccede,
    E quando dormen, questa ch’è lor guida
    La guardia pone che alcun non le prede.
      Questa che le guarda, sta con l’una gamma [C. c. 44]
    Nell’altra ten la pietra: chè, se dorme,
    Cadendole dal sonno, li occhi sbramma. [L. c. 42 t.]
      Cossì dovria ciascuno citadino
    L’uno con l’altro esser conforme,
    Chè non venisser lor terre al dechino.[119]
      Ma tanta è questa invidia che regna,
    Che sempre se desface el ben comuno,
    E l’uno de seguir l’altro se desdegna.
      Lo senno de li governi[120] qui veggio.
    Non è chi faccia ben, non è, se ad uno
    Per l’utel se consiglia pur lo peggio.
      Veggio cader deviso questo regno;[121]
    Veggio ch’è tolto l’ordene e lo bene;
    Veggio che regna ciascun om malegno;
      Veggio li boni qui non aver loco;
    Veggio che tacere a ciascun convene;
    Veggio ch’arde qui l’occulto foco;
      Veggio venire qui le piaghe nove,
    Dico, se pietà ciò non remove.


CAPITOLO XXIII[122]

      La tortora pur sè sola plangendo,
    Vedua de compagno in secco legno,
    E loco pur deserto va querendo.
      No s’accompagna ma’, po’ che lo perde;
    De bevere aqua clara prende sdegno;
    Già mai non sta nè canta in ramo verde.
      Cossì ciascuno planger dovería
    Lo so peccato, che l’anema fura,
    E mai con lui prender compagnia;
      Lassare ’l mondo e onne so delecto. [L. c. 43] [C. c. 44 t.]
    Facendo penitenzia forte e dura,
    Per contemplare, nel divin conspecto,
      El sommo bene de l’eterna vita,
    Ov’è la gloria, che sempre è infinita.


CAPITOLO XXIV[123]

      Nasce onne corvo, per natura, bianco,
    E pascese dal cel de dolce manna,
    Per qual el patre sente doglia al fianco,
      Fin che non vede in lui le penne negre.
    De trovar cibo per lor non s’affanna;
    E mai natura non vol che s’alegre.
      Cossì è l’anima nostra bianca e necta,
    Tabula rasa, ove non c’è peccato;
    Doventa negra, po’ che se delecta.
      El vizio la nutrica, che lei conduce
    E cieca e negra ne l’eterno stato,
    Spogliandose da sè la degna luce:
      E la soa pena non se cessa mai,
    Sospir traendo de dolorosi guai.


CAPITOLO XXV[124]

      Canta sì dolcemente la serena, [L. c. 43 t.]
    Che, chi lei intende, dolce fa dormire,
    Sì che l’om prende e con seco lo mena,
      E forte lo constrenge de iacer con lei.
    Languendo per amor, par che sospire,
    Poi lo devora con li denti rei.
      Cossì, con la dolcezza de la vita,
    Inganna lo nimico l’alma nostra,
    Fin che la mena a la morte infinita.
      Cossì fa l’omo falso nel so canto, [C. c. 45]
    Che con la lengua lo mel te demostra,
    De riete po’ te ponge in onne canto.
      Chi non se fida, non receve inganno:
    El senno fa gran pena pe lo[125] danno.


CAPITOLO XXVI[126]

      Gronco, che dentro a le caverne nasce
    E per natura arengo lo nutrica,
    Fin ch’è grande, lì dentro lo pasce.
      Mustrali el cibo con l’usata branca;
    Con l’altra occultamente lo nimica;
    Tanto lo strenge, che soa vita manca.
      Cossì fa lo nimico de la gente,
    Che mostra de delecto la dolce esca;
    Fino a la morte pasce nostra mente.
      In questo mare grande e spaziuso,
    Con diversi ami, dolcemente pesca:
    Beato è quello che volta lo muso
      E mette a la soa gola el freno e ’l camo, [L. c. 44]
    A ciò che preso non sia da questo amo.


CAPITOLO XXVII[127]

      Lu rospo sempre mira verso ’l celo,
    Chè ha un occhio in mezzo de la testa;
    Vestito ha el dorso so de bianco pelo.
      Cossì è l’anima con la vera fede,
    Chè ’l mondo con delecto non l’infesta,
    Che le divine cose sempre vede;
      Segue vertute senza alcun delecto,
    Rengraziando chi le diè intellecto.


CAPITOLO XXVIII[128]

      L’ostrega, quand’è la luna plena,
    Aprese tutta; qual, veggendo ’l cancro,
    Imagina d’averla a pranzo o a cena.
      Meteglie dentro petra over festuca,
    Per qual lo so coprire le ven manco;
    Cossì el cancro l’ostrega manduca.
      Cossì è l’omo che apre soa bocca
    E con l’omo falso mostra ’l so secreto,
    Onde ven piaga che lo cor li tocca. [L. c. 44 t.]
      En la lengua è la vita e la morte;
    Plù tace che non parla l’omo discreto,
    Stando nel cerchio con l’impia sorte.
      Serva la vita lo longo vedere; [C. c. 38 t.]
    Nè damno fè già mai lo bel tacere.


CAPITOLO XXIX[129]

      Chi mangia del delfin, se fosse in mare,
    Subito lui sente per natura
    E verso lui move l’onde prave.[130]
      De far questa vendetta sempre è attento,
    E mai de perdonar non mette cura;
    De molti devorando ha fatto stento.
      Cossì è l’anima impia e cruda,
    Che de vendetta far onn’ora desía;
    Cossì se fa de cognoscenza nuda.
      O quant’è cieca la gente soperba!
    Crede che perdonar vergogna sía,
    E questa opinione in lor se serba.
      O impio, che mal pur te delecta
    Vedi la morte ch’appresso t’agogna
    E quanta pena nasce a far vendetta!
      È plù vertute quando l’om perdona,
    Potendo vendicar la soa vergogna,
    Che vendicando offender la persona.
      Or vinci, sofferendo, e tempo aspecta,
    Nel qual conven cader la iniqua secta.


CAPITOLO XXX[131]

      Signor è ’l basalisco de’ serpenti, [L. c. 45]
    E ciascun fugge, sol per non morire,
    Da lo mortal viso con li occhi lucenti.
      Nessuno animal po’ campar de morte,
    Che subito la vita non espire;
    Cotant’è lo so veneno atroce e forte.
      La donnola, trovando de la ruta, [C. c. 39]
    Combatte con costui, e sì l’occide,
    Che ’l tosseco de lui con questa stuta.
      Cossì fa l’alma col maior inimiquo,
    Che per vertù lo tosseco divide,
    Da sè lassando lo voler iniquo;
      E, pur vincendo al mondo, in sè combatte,
    Sì che lo nimico finalmente abbatte.


CAPITOLO XXXI[132]

      L’aspido, ch’è aspro de veneno,
    Che sempre move con la bocca aperta,
    Porta la spuma in bocca nel sereno.
      Per non sentire la magica prece,
    Ciascuna orecchia obtura e sta coperta; [L. c. 45 t.]
    Porta in li denti la subita nece.
      Cossì fa la toa mente senza spene,
    Io dico, desperata de salute,
    Che non se degna de ’scoltar lo bene.
      Troppo è gran segno esser desperato
    L’om che, fuggendo, desdegna vertute.
    Prego che ’ntendi lo parlar beato,
      Chè ’l cor umiliato mai non sperne,
    Chi tutto move iudica e discerne.


CAPITOLO XXXII[133]

      Maior è ’l draco de tutti serpenti;
    Intosseca lu mar e l’aire turba;
    Plù con la coda noce che coi denti.
      Fra gatto e cane, draco et elifante
    Naturalmente la pace se sturba;
    E mai cavallo e struzzo non fo amante.
      El piè de l’elifante el draco annoda [C. c. 39 t.]
    Con la soa coda: combattendo stride,
    Fin che la vita da lo cor desnoda.
      Ma lo elifante sopra ’l draco cade,
    Si che morendo el so nimico occide.
    Cossì conven che la soa vita sbade.
      Cossì fa l’omo impio e crudele;
    Rumpe soa gamba per piagar l’altrui
    E se medesmo intosseca col fele.
      Resguarda el fine ’nanti che comenzi
    E quando offendi, perchè, como et cui:
    Non pensa a ciò la secta de melensi; [L. c. 46]
      Segue el voler pur con l’ira forte,
    Onde procede non pensata morte.


CAPITOLO XXXIII[134]

      È venenoso vipera serpente,
    Che parturisce li fioli per forza,
    Sì ch’illa more dolorosamente.
      In gravedezza occide ’l so marito,
    E con li denti lo capo li scorza,
    Sentendo el core ben d’amor ferito.
      Ciascun fiolo squarta el so lato
    E vene a luce como vol natura,
    Ch’a tutte creature ordene ha dato.
      Ha tal veneno, sì che dorme sempre
    Ne le caverne, fin che ’l freddo dura;
    De prima vera resurge a la dolce tempre.
      Con li fenocchi cura el cieco aspecto;
    Vomita ’l veneno ’nanti che se giunga
    Con la morella nel carnal delecto;
      E, poi ch’è compiuto el so volere, [C. c. 40]
    Reprende quel veneno, e poi s’alunga;
    Non po’ la vita senza quel tenere.
      Cossì fa l’omo quando se confessa,
    Che conta soi peccat’ e par contrito,
    E de tornar a ciò lo cor non cessa.
      Non se confessa ’nanti, perchè ciance,
    Sì che ritorna, poi ch’è dipartito
    Da quel peccato, con l’ardite guance.
      Contrito cor, con bocca a satisfare, [L. c. 46 t.]
    Tolle la colpa de l’uman peccare.


CAPITOLO XXXIV[135]

      De nocte in aqua e de iorno in terra
    Quiesce el cocodrillo e sempre cresce;
    Crestato pesce sempre a lui fa guerra.
      La mandibola de sopra sempre move;
    L’altra de sott’a lui sempre quiesce,
    E l’ova in terra con delecto fove.
      De tutto inverno non appar de fore;
    Resurge ne la dolce prima vera,
    Chè l’erba verde serva ’l so valore.
      Prendendo l’omo, subito l’occide;
    Po’ che l’ha morto, piange questa fera;
    Con pietosa voce par che gride;
      Poi ch’ha pianto, devora e manduca
    La carne umana; e, su nel dormire,
    Per soa bocca entra el serpe endruca:
      Desterpali el core e mai non fina,
    Facendo a grande stento costu’ morire,
    Che quasi per vendetta l’assassina. [C. c. 40 t.]
      Cossì fa l’omo ipocrito et occulto,
    Che del dampnoso mal nel cor s’alegra
    E pietà demostra nel suo volto.
      Chi subito per onne cosa piagne
    Anima è incostante de malicia negra.
    Or guarda che non caggi a le soe ragne.
      Che Deo punisca duramente, aspecto,
    Queste alme doppie con lor falso aspecto. [L. c. 47]


CAPITOLO XXXV[136]

      Quando la Luna illuma ’l Scorpione,[137]
    La prima faccia che figura scolpe
    Non po’ dal scorpo aver ma’ lesione.
      Son molti scorpioni ch’hanno l’ale,
    E son grandi assai de maior polpe,
    E lor veneno fa ’ssai maior male;
     Pur more quando sente la saliva
    De l’om degiuno; e l’altra non l’offende;
    Po’ de desnar soa vita non priva.
      Cossì fa l’abstinenzia fuggire
    Onne maligno vizio che depende
    Da gola, qual conduce noi a morire.
      E tolle de vertute onne valore,
    Che l’omo plù non cura d’altro onore.


CAPITOLO XXXVI[138]

      Aspero veneno, dico, ch’è nel botto,
    Che per freddezza fa le membra morte;
    Ha li occhi ardenti; el corpo com’otto
      Se tu ma’ cerchi nel so lato dextro [L. c. 47 t.] [C. c. 41]
    De l’osso che genti non sonno accorte
    Ha gran vertute e de ciò t’amaestro.
      La fervente aqua subito l’affreda;
    Val ad amore e a molt’altre cose,
    Et anche la quartana febre seda.
      Fugge la ruta e mangia le dolce erbe
    E le radici lor fa venenose;
    La salvia glie par che lui conserbe.
      Fugge l’aspetto, quanto po’, del sole;
    Nel bruno tempo lassa le caverne;
    Per plù salute sempre l’ombre cole.
      Cossì desdegna, fuggendo la luce,
    La mente che ’l peccato non discerne,
    E sempre nella pena se conduce:
      Plù che ’l Factore, teme la creatura
    A cui celar non po’ la soa figura.


CAPITOLO XXXVII[139]

      L’aranea che ha plù sottil tacto,
    Tessendo et ordendo la soa tela,
    Pur de so corpo defila e fa tracto.
      Quand’è nel tempo che amor la stregne,
    Tirando il filo, la compagna cela;
    Cossì fa lo maschio, fin che la confregne.
      E subito che escono de l’ova
    Li soi fioli, pon in la tesura:
    De tessere ciascun subito se prova.
      Lavora sempre quando nasce el sole,
    E quand’è in occidente soa figura [L. c. 48] [C. 41 t.]
    Fin che no’ cunza, mai cacciar non sole.
      Tesse sottile, sì che ma’ non conosca
    Ciascun animal piccol che vola,
    Ma so nimica propria è la mosca:
      Poi che s’embatte ne la cieca rete,
    Battendo l’ale, canta nova fola;
    Prima lo capo prende, como vedete.
      Cossì ’l peccato cieca el nostr’aspecto,
    Che non vedemo l’inganni del mondo,
    Come noi prende e volve in delecto.
      Altro che vento non è nostra vita.
    O morte, quant’è grave quel tuo pondo,
    Che ’l cacciador non vada lui seguendo.
      Quant’è più grave donqua el to sentire!
    Prego che chi ha ’ntellecto qui sospire.


CAPITOLO XXXVIII[140]

      Non clude li occhi lo lion, dormendo;
    De li soi pedi sempre l’orme copre,
    Che ’l cacciador non vada lui seguendo.
      Ciascun so nato fin al terzo iorno
    Dormir non cessa, sì che il patre l’opre
    Li sensi sopra lor gridando irato.
      Non fugge lo lion e non s’asconde; [C. c. 42]
    Fermase al campo senza alcun temere,
    E mai so core paura non confonde.
      Stase celato ne le gran montagne,
    Perchè la preda vol de lì vedere;
    Poi che la vede, forte grida e lagne.
      Ciascun animal s’affligge per so grido, [L. c. 48 t.]
    Et illo intorno con la coda signa
    E stanno timenti senza voce e strido.
      E sempre de soa preda parte lassa;
    A li prostrati de donar se degna,
    Per sindicare se l’ira passa.
      Cossì, ciascun om che porta corona
    Deve, onne tempo, tener li occhi aperti,
    Che inganno non receva da persona;
      Celare el so secreto e la soa via,
    De lui facendo l’inimici incerti,
    Chè, dubitando, in lor paura sia;
      Deve li soi nati amaestrare,
    Lassando el tempo de l’acerba vita,
    Con soe parole in lor vertù spirare,
      A ciò che non desdegna soa stepe;[141]
    Arbusta vile, ch’è da lui partita
    Tolta dal fructo de l’ardita sepe:[142]
      Deve esser sempre nudo de paura
    Animo regal, con l’ardita vista,
    Veggendo de inimici la figura
      E far temer sempre li soi servi,
    Tenendo de iusticia la[143] lista,
    Che ’n fra lor non siano protervi;
      E, quando se conven de perdonare, [C. c. 42 t.]
    Voltar se voglion li occhi a pietate,
    Chè sempre in gentil cor conven de stare.
      Perdoneme a chi tocca quel ch’io parlo;
    E voi de Puglia qui me perdonate,
    Chè troppo onor se fa a l’ossa de Carlo.
      Peccato vecchio fa nova vergogna:
    Tu vidi ben che dir più non bisogna.


CAPITOLO XXXIX[144]

      Sopra onne animal che non ha intellecto, [L. c. 49]
    Ha plù de conoscenza l’elefante,
    Che, quasi per rason, fa onne effecto.
      Sempre s’aduna ne la luna nova;
    Ciascun se bagna, nel fiume stante;
    Chinando el capo, par che fè lo mova.
      Quando el forma tron in le crude erbe, [C. c. 45 t.]
    Qual verso ’l celo umilmente mostra,
    Quasi Dio prega che ’l so mal desnerbe.
      Se vede l’omo de la via smarrito,
    Va ’nanti a lui e la via demostra,
    Fin che retorna nel camin sentito:
      Se allora l’omo se scontra col dragone,
    Combatte l’alifante e fa defesa,
    Che l’omo non receva lesione.
      Cossì tu divi conoscenza avere,
    Tenendo sempre la memoria accesa
    Et in tutti l’acti la rason vedere;
      E bagnar l’alma da li peccati enorme,
    Humiliando el cor al to Fattore.
    Oi mente peccatrice che pur dorme,
      In ciò che fai, leva el grand’aspecto
    E la toa mente verso ’l primo amore
    Chè da lui nasce tutto ’l ben perfecto!
      E, se peccando smarrisci la via,
    A penetenzia rason te conduca,
    Sì che non caggi ne la morte ria:
      Mira la morte como forte rugge;
    Tolle el disio dal cor che te manduca [L. c. 49 t.]
    E pensa che la vita onnora fugge.
      Certa è la morte, ma incerta è l’ora;
    Però resisti combattendo, et ora.


CAPITOLO XL[145]

      De lionessa el liopardo nasce;
    E lo lion giace con la lioparda.
    Crudo de pietà, quando se pasce,
      Desdegna, se non prende in quattro salti, [C. c. 46]
    E per vergogna in terra fisso guarda;
    Pensando sdegna de li vili assalti.
      Inganna lo lion ne la so caverna,
    Qual ha do’ bocche e de mezzo è stretta.
    Cossì natura vol che qui descerna.
      Veggendo lo lion, prende a fuggire;
    E lo lion lui consegue in fretta;
    Como tu sai, li conven morire.
      Cossì ’l peccato, che conduce a morte,
    Ne l’infernal caverne te rechiude,
    Che de l’escire mai non trovi porte.
      Lì se piange e stride eternalmente,
    Lì la pietà li occhi chiude,
    Lì non passa mai la trista gente,
      Lì la mente umana è senza spene
    Di ritornar nel divino bene.


CAPITOLO XLI[146]

      Cava li morti de le sepolture [L. c. 50]
    Hiema, e contrafà l’umana voce,
    Per devorar l’umane creature.
      Muta el sesso animal sodomito
    E, quanto po’, a li cani sempre noce;
    A la soa voce onne animal sta quito.
      Giace con lionessa questa fera,
    E nasce de costoro animal feroce,
    Che chi lo vede de vita despera.
      Cossì lo nimico al laccio mena,
    Dando l’audito al parlar atroce,
    Che con dolcezza ne conduce a pena;
      Si che, peccando, devora noi morti, [C. c. 46 t.]
    Se de resuscitar non semo accorti.


CAPITOLO XLII[147]

      De macchie negre e bianche è la pantera;
    Natura la depense per bellezza;
    El draco, quando vede lei, despera;
      Po’ de desnar, dorme al terzo giorno;
    E po’ che surge, fa de odor dolcezza,
    Si che l’animal stann’a lei intorno,
      Salvo che ’l draco. Cossì fa lo cattivo
    Che fugge de li boni sempre l’aspecto, [L. c. 50 t.]
    Perchè de conoscenza è ceco e privo.
      Pur conversando con le vil persone,
    Da lor non nasce ma’ benign’effecto,
    La voglia pur seguendo e non rasone;
      Ma, conversando con li boni, s’acquista
    Honore e laude, che esalta l’omo,
    E in onne loco mostr’ardita vista.
      Usanza dà la forma a li costumi.
    Secondo el conversar, s’acquista nome.
    A ciò che la ignoranzia si consumi,
      Fuggi li pravi e con li boni conversa,
    Da i quali non nasce mai cosa perversa.


CAPITOLO XLIII[148]

      Veloce corre, sì como sagetta,
    El tigro, quasi simil de pantera;
    De soi fioli sempre sta suspetta.
      El cacciatore con passi soperchi
    Li soi fioli, a ciò che questa fera
    Non segua lui, vedendo soa figura.
      Crede, guardando dentro ne li specchi, [C. c. 47]
    Che sian soi fioli, e così fugge
    El cacciatore con passi soperbi.
      Poi che se vede ingannata da l’ombra,
    O quanto dolorosamente rugge,
    E de dolore la soa mente ingombra.
      Cossì ’l nimico fura l’alma e tolle,
    Con questi dolci specchi che vedemo,
    Chè da la cognoscenza ne destolle. [L. c. 51]
      Ai, quanto qui el pensier me fa paura,
    Pensando a poco tempo ove saremo,
    Veggendo che la vita poco dura;
      E, sì como l’acqua che descorre, passa
    La vita nostra, e questo mondo lassa.


CAPITOLO XLIV[149]

      Per terra va castoro con l’animali.
    E nato sotto acqua como pesce.
    Sterpa de lui le membra genitali,
      Vedendo el cacciator, per non morire:
    De darli quella parte non l’incresce,
    Veggendo che da lui non po’ fuggire.
      Or quest’exemplo prendi, omo carnale;
    Affliggi la toa carne, ’l to pensero,
    Qual te conduce nel gravoso male;
      Lassa el delecto per la toa salute,
    Si che non mori da l’inimico austero;
    Non possa mai sentir le sue ferute;
      E, se ’l delecto la toa mente pasce,
    Pensa che de dolcezza pena nasce.


CAPITOLO XLV[150]

      O quanto è l’unicorno fero e forte, [L. c. 51 t.] [C. c. 47 t.]
    Che l’elifante combatte e inimica
    E molte volte lo conduce a morte.
      Dentro nel cor lo prende umilitate;
    Mirando la donzella a lei s’applica,
    Cossì lo prende la virginitate.
      Or qui m’entendi, plù ch’io non so dire,
    Se vertù po’ de femena venire.


CAPITOLO XLVI[151]

      Forte s’alegra ne la luna nova
    La simia; e, quand’è mezza, si fa trista,
    Che par che sopra lei li penser plova.
      Se cacciator la trova con li so nati,
    Presto è smarrita; e volta soa vista;
    Fugge stridendo con l’occhi infiammati.
      El picciol fiol, el qual plù ama,
    Pialo in braccia, e po’ lo maiore
    Al collo glie s’appicca e fa glie brama:
      Lassa lo maggiore per gravezza,
    E porta quello che l’è plù nel core,
    E tosto se prende per cotal carezza.
      Cossì fa la dolcezza de i fioli
    Cader lo patre nel gravoso affanno,
    Onde possede li gravosi doli.
      Per li fioli non deve el iusto patre
    De l’alma soa medesma esser tiranno,
    Avegna che l’amor nel cor li latre;
      Pur, l’anima dev’amar, sopr’onne cosa, [L. c. 52]
    La mente de ciascun, se è virtuosa.


CAPITOLO XLVII[152]

      El cervo in melodia se delecta,[153] [C. c. 48]
    Sì che l’un cacciatore canta e sona,
    E l’altro mortalmente lo sagetta.
      Se ’l fiume o qualche acqua po’ passare,
    Reprende forza: sì con sè rasona,
    Che li cacciador lui non pon pigliare;
      Ma, quando è preso, forte muge e piange,
    Veggendose che è de vita privo,
    Con pietose lagreme pur langue.
      Molte proprietate son nel cervo
    E in molt’altr’animal che qui non scrivo,
    Che nella stanca penna li reservo.
      Ormai conven tractar de petre certe,
    Che siano lor vertù qui ben aperte.


CAPITOLO XLVIII[154]

      Non ch’io sia bon nè che bon me tegna,
    Ma seguirò lo viso de li boni,
    Se ciò ch’io dissi vidi che non ategna.
      L’uman pensero spesse volte falle,
    E ’l tempo muta l’alte opinioni. [L. c. 52 t.]
    Se nova stella regna in questa valle.
      Io ciò te dico, chè de queste pietre
    Già t’impromisi de far simiglianza:
    Piace ad Apollo che de ciò m’arietre.
      A ciò che me despone non me doglio,
    Perchè ’l miore de ciò n’è dubitanza:
    Ascolta adonqua ciò che dir te voglio.
      Per foco nè per ferro el diamante
    Se rompe, per potenzia del Saturno;
    Resiste soa natura al negromante;
      Li spirti fuga tosseco e paura; [C. c. 48 t.]
    Raccende amore, se ’l desdign’è inturno.
    È simel de cristallo soa figura;
      Chi che lo porta nel sinistro braccio,
    Val contra l’inimici e leva sogni.
    Contra de briga mattezza et impaccio,
      Io taccio, per servir qui a le donne,
    Natura occulta che pur abisogni,
    Non sì dolente, se ciò se nasconne.
      Chi in caldo sangue questa petra involve,
    Over con plumbo per natura occulta,
    Poca percossa in polve lo dissolve.
      Presente questa, già mai calamita
    In lei de trar lo ferro non resulta,
    Ma fa nel tempo soa potenzia quita.
      E l’altro, che Arabia produce,
    Vaccio se rompe como lo cristallo.
    Una vertute in tutti questi luce.
      Plù ch’una fava non passa soa forma;
    In lui è gran vertute senza fallo;
    Col ferro soa natura se conforma.
      E lo zaffiro, per potenzia de Jove,
    Conforta el cor, dico, orientale,
    Serva le membre e lor vertute fove;
      Val contra febre veneno et antrace,
    E subito l’appicca su in quel male; [L. c. 53]
    Conforta ’l viso e conserva la pace;
      Tolle dal core l’invidia maligna;
    Fuga ’l temere e fa l’omo audace;
    Umel fa l’omo e castità designa:
      E questa gemma val’ a l’idromanti [C. c. 49]
    Et a li magi, per vertù che face,
    Chè solve ’l captivato con lor canti.
      Mostra ’l color simel de lo celo;
    Posto a le tempie, el sangue del naso
    Restrenge, per vertute e no per gelo;
      Onne tumore et apostema sana;
    Se soa natura non perde per caso
    D’acto carnale, per cui sta lontana.
      Mercurio li spira le vertute
    In el smeraglio, ch’è sopr’onne verde;
    De molte infirmitate fa salute;
      Morbo caduco e li mitriti cura;
    Conserva ’l viso che per vertù non perde;
    Conforta la memoria e la natura;
      Li spirti fuga e lor false scorte;
    Chi vol divinar seco lo porte.


CAPITOLO XLIX[155]

      El terzo celo col secondo agate
    Negra la forma con le bianche vene,
    E l’altra con sanguigne variate.
      El fiume Agate, che Cicilia bagna,
    Questa con le bianche macchie tene,
    E l’altra con citrine che tolle lagna. [L. c. 53 t.]
      Con quella che Cicilia ne manda
    El negromante converte tempesta,
    El fiume fa seccare che più non spanda;
      E l’altra, qual ha sanguigne macchie,
    Conforta li occhi et alegrezza presta,
    Ole nel foco, non che se desmacchie.
      Contra ’l veneno, dico, che resiste [C. c. 49 t.]
    E anche quella con le macchie citre;
    Fa l’omo piacente ne l’umane viste;
      A forza a facundia et a parlare
    Despone l’omo, se non sonno vitre;
    Le parti nude tutte virtù care,
      E Iove che in testa forma o ventre
    In el capone ch’è sotto lui concepto
    Pur che ’l so raggio sotto ’l Cancro c’entre.
      Alestrio, ch’intro reten lo sperma.
    Sì com’oscuro cristallo mostr’aspecto,
    Fa l’om constante e grato onor conferma;
      Fa l’omo vincitor ne la battaglia,
    Discreto, con dolcezza de parole;
    E forte con luxuria t’abaglia:
      Tolle la sete a chi la porta in bocca;
    Li amici desdegnati flecter sole;
    Se non sta in oro soa vertù sbrocca.
      D’amor la stell’e soa vertù compone
    Le parti del berillo e l’altri tutti,
    Che sono de cotal complexione.
      Pallido verde, simele del smerallo,
    Li sospir tolle e l’occhi mostr’assutti;
    Resiste a l’inimici e a lor fallo;
      Dal ficato remove infirmitate;
    Sottiglia la vertù de l’intellecto,
    Dal stomaco la soa ventositate;
      Val ad amor e sempre l’omo exalta;
    El matrimonio ten con gran delecto;
    Fa verso l’inimici la mente alta; [L. c. 54]
      Incender fa la man, de ciò si’ certo, [C. c. 50]
    S’al sol s’oppone, como tu se’ già sperto.


CAPITOLO L[156]

      In graziosi raggi de lo sole,
    Ne l’isola d’Arabia splendendo
    Topazio se trova, el qual se cole.
      El moto de la Luna per sè sente;
    La vista fa reversa lui veggendo;
    Affredda l’aqua quand’è ben fervente
      Resiste a la lunatica malía,
    A passion moridial, resiste
    A l’ira, tristezza e frenexia;
      El sangue strenge per la soa freddezza,
    E credese che dignitate acquiste;
    Sopr’onne pietra mostra soa chiarezza.
      Subita morte lo topazio tolle;
    In ciò non aggi la memoria molle.[157]


CAPITOLO LI

      Diaspro nasce, per vertù de Marte,
    Permisto de coluri varii e multi;
    In dece sette spezie se parte;
      Idropica malia e febre calde
    E fantasía de li moti stulti
    Mitiga, e le vertute in nui fa salde.
      Ne li gran fatti fa l’om securo;
    Strenge la donna, sì che non conceve,
    Et omne sangue corrupto lo fa puro;
      Luxuria e sudor constrenge e serra;
    Ligata ne l’argento portar deve
    Ciascun questa pietra, se fa guerra.
      Del nostro viso la vertù ’ssottiglia. [L. c. 54 t.] [C. c. 50 t.]
    Che macula non prende mai nè sorde
    D’ogne fattura ciascun om despiglia.
      La Luna forma per vertù gagate;
    De soa proprietà non te discorde,
    Chè te fa certo de virginitate.
      Chi l’acqua beve, per vertù divina
    De questa petra et omo non conube,
    Senza ’l so voler subito urina;
      Se è corrotta, urina non distilla:
    Or questa prova lo to cor desnube,
    Se de piacer te tocca mai favilla.
      Li spirti fuga da li corpi umani
    E, con l’odor, fuga li serpenti,
    L’idropici retorna quasi sani,
      Giova a la donna nel gravoso parto;
    Soa polvere refrena ben li denti:
    Lo mio segreto con teco lo parto.[158]
      Litropia, ch’è dicta l’orfanella,[159]
    Verde del corpo con sanguigne gotte,
    Marte la forma con la trista stella.
      Ne l’acqua fredda ove ’l sole spire
    Se questa mitti, parrà che zangotte
    L’acqua fervente per lo gran bollire:
      Anche se metti questa in acque chiare,
    Sì che li raggi del sol la percota, [L. c. 55]
    Sanguigno l’aire subito traspare;
      Sì che lo sole a nui se mostra obscuro,
    De fin che questa petra fia remota.
    Cum questa po’ chi vol essere furo.
      Gionta con questa litropia planta. [C. c. 51]
    Como la calamita, el ferro suge.
    Cossì, sugando, el nostro viso amanta.
      Restrenge ’l sangue quando è l’om ferito;
    El aspro veneno da nui destruge;
    Chi seco l’ebbe non fo mai fallito.
      El panteron è ditto da pantera,
    Nel qual tu vederai septe coluri;
    In lui pose vertù ciascuna spera:
      Fa l’omo audace e de vertù convincto,
    El sol nascendo con li raggi puri,
    Che chi lo sguarda non po’ esser vincto.
      È nebuloso iacinto et rubino,
    Secondo che ne l’air se demostra:
    Quel ch’è granato, dico ch’è plù fino.
      In lui se trova gran perfeczione;
    Conforta in tutto la natura nostra,
    Da noi tollendo la suspizione;
      Tolle dal core sempre la tristezza;
    Resiste a pestilenzia de l’aire;
    Ad nerbi et a le membra dà fortezza;
      Fuga veneno e li umori adegua;
    Umor che fosse de natura vaire,
    Per soa vertù, el destrenge e l’equa.
      Dal sole in lui fo penta tal vertute,
    Chè a nostra vita facesse salute.


CAPITOLO LII[160]

      Diacodio, se tocca el corpo morto, [L. c. 55 t.]
    Perde la so vertù e ma’ non torna:
    Molte fiate de ciò me son accorto.
      S’è messo in aqua, vegnon per natura [C. c. 51 t.]
    Li spirti tutti de la setta borna.
    È simel de berillo soa figura.
      Et abeston, se in foco s’accende,
    Per cosa natural non sarà morta,
    Ma sempre como stella lì resplende.
      È como ferro in vista el so colore;
    Altra vertù in sè, dico, non porta,
    Ma alcun vol dir che vaglia ad amore.
      La calamita per sè tira lo ferro,
    E questa nasce in India maiore;
    E l’altra in Etiopia, se non erro.
      Da lei lo ferro fuga con l’aspecto;
    Un’altra è calamita de dolore,
    La carne umana tira ’l so conspecto.
      Reforma amore fra donna e marito;
    Dà grazia e bellezza nel parlare:
    Se c’è suspecto, puni qui el to dito.
      Dormendo a lato a donna, mitti questa,
    Che sott’al capo se conven celare
    Sì plano che a lei non sia molesta:
      In ver de te se volta, se l’è casta;
    Delecto fugge quasi col temere,
    Se già mai fo cercata d’altra tasta.
      El diamante simelmente face:
    Per cortesia ben devria tacere,
    Ma dicer voio ciò che dentro giace.
      La calamita, quanto poi, la trita
    Et in quattro canti de la casa poni;
    Carboni ardenti senza fiamma ardita
      Despargi questa polver sopra quisti, [C. c. 52]
    Pararà cader la casa senza troni
    Et altre novetà che non vidisti. [L. c. 56 t.]
      Queste tre petre le conduce Marte,
    Et anche ’l Saturno ce ten parte.


CAPITOLO LIII[161]

      Luce ’l carbonco ne l’oscuritate,
    More nel foco sì como carbone,
    Bagnato in aqua torna in claritate.
      Dodeci sono le spezie de costui.
    Marte, so patre, la luce despone;
    La nocte in foco se demostra a nui.
      Epistico è che luce e franca ’l core
    E fuga onne tempesta da li fructi;
    A lo sole opposto manda ’l foco fore.
      La fervente aqua questa pietra afreda;
    Locuste et auseli fuga tutti;
    E nulla cosa vol che ’l fructo leda.
      Mostrase violato l’amatisto,
    Qual da noi tolle ’l pravo cogitare;
    Sollicito fa l’om, si com’ho visto.
      Vale a l’intellecto e a l’om imbriago:
    In cinque modi se po’ demostrare.
    De quel ch’è violato pur m’appago.
      Dal Sol se forma de queste ciascuna;
    Queste altre qui de sotto da la Luna.


CAPITOLO LIV[162]

      Ceramo pur nasce del gran tono.[163]
    Chi castamente quisto seco porta
    Mai non porà morir de quil trastono.
      In quella casa, castello nè villa [C. c. 52 t.]
    Non po’ cader, che questo l’ha morta
    Con soa vertù, secondo la sibilla.
      A vincer onne briga e le battaglie
    Vale, et a dolce sonno con quiete,
    Sì che, dormendo, non sente travaglie.
      È calcidonio pallido e incolore;
    De le vertute conserva le mete
    De iuventute vence briga e dà valore.
      S’è perforato, anche me resiste
    A spirti maligni e a lor beffe,
    Mostrando insigno le diverse viste:
      De dì e de nocte fanno gran paure,
    Che, dubitando, l’omo par che ceffe,
    Veggendo l’ombre e subite figure.
      Nasce ne l’Alpe del septentrione
    Cristallo fatto de l’antiqua neve,
    Secondo la comuna opinione:
      Opposto al sole, de for mand’el foco;
    La sete, posto in bocca, cessar deve;
    Trito col mele fa lacte non poco;
      E forte vale al colico dolore,
    Chè fa cessar quel maligno umore.


CAPITOLO LV[164]

      Lentra, che l’aqua per vertute tira [L. c. 57]
    De l’aire, e sopra sè cossì condensa
    E par che dentro nasca chi la mira,
      La rondene la porta nel so ventre;
    Chè nasce in lei, allor quando comensa;
    Che chi la vole, giovene la sventre.
      Dico de celidonio, quel ch’è rosso: [C. c. 53]
    Vale a la lunatica malía
    Et a chi fosse de mattezza mosso;
      Grato e facondo fa l’omo parere.
    L’altro, ch’è negro, tolle tutta via
    L’ira e la febre, quanto al mio vedere.
      Questo se mostra nudo de bellezze;
    In lui è gran vertute senza fallo,
    Chè d’ogne umore tolle le gravezze.
      Nel Rosso Mare da l’aqua coperto
    È legno per natura lo corallo;
    Ne l’air se fa petra, e quest’è certo.
      A folgore resiste et a tempesta;
    Li spirti fuga col caduco morbo;
    Fa la fortuna in noi veloce e presta;
      Multiplica li fructi; el sangue stregne;
    Lo stomaco conforta. Or non si’ orbo,
    Che de portarlo la mente te sdegne.
      Rosso e bianco corallo se trova
    In tutti. Credo che sia una prova.


CAPITOLO LVI[165]

      Ne le marine conche margarite
    Nascono, ma pur quelle del celo[166]
    Credo che sieno de vertù compite. [L. c. 57 t.]
      Da la celeste rosata se forma
    Ciascuna margarita senza velo;
    La vita nel valor sempre reforma.
      Perpetua iacesse galassía
    Nel foco, già mai prenderia calore:
    Cossì natura vol che fredda sia.
      La corniola pur mitiga l’ira [C. c. 53 t.]
    De ciascun membro, chè non vada fore,
    E stringe el sangue per vertù che spira.
      Qui faccio fine de le sacre pietre,
    Che qui tu trovi scripte le più degne.
    Prego che chi po’ de queste impietre.
      Se d’erbe qui non tracto nè de piante,
    I’ prego che chi legge non se sdegne,
    Ch’a medico le lasso che ne cante
      E leve la vertù intellectiva,
    Veggendo che peonia ven da la Luna,
    E da Saturno ven la sempreviva,
      E dudece erbe de cotanti signi.
    Ciascuna, quando regna lor natura,
    Remove e strenge tutti umor maligni.
      E tu ad me; Ornai vorrìa vedere,
    Da qui innanti, qual’è el tuo volere.




LIBRO QUARTO[167]


CAPITOLO I

      Io voglio qui che ’l quare trovi ’l quia,
    Levando l’ale de l’acerba mente,
    Seguendo del filosofo la via.
      Del dubitar querendo è gran vertute,[168]
    Chè l’amirare de la prima gente [L. c. 58]
    Fece nui certi de l’alte vedute.
      Amor che nasce de consimel stella
    Perchè, se dui una cosa amando,
    In ver de l’altro sta la mente fella?
      Dico che ciò deven per accidente;
    E ciò tu poi veder, che, l’un cessando,
    In grazia torna de l’offesa mente.
      Se per consimel cel costei pur amo, [C. c. 54]
    Et ella in ver da me perch’è sì dura
    Nemica de mercè quant’i’ plù bramo?
      O genti cieche et intellecti storpi,
    Como la via deritta n’è obscura,
    Non contemplando li celesti corpi!
      Esser non po’ che sia la mente nuda
    D’amare amante, dico, più e meno:
    Or voglio che tal ditto in te se chiuda.
      Se altri t’ama, vogli esser esperto;
    Or mira se ami e como se’ pieno
    D’amor; e del contrario serai certo.
      Se le toe stelle for nel basso cerchio
    E quelle de costei ne l’alto punto,
    Amor t’enfiamma del desio soverchio.
      E tu a me: Perchè quisto desío
    Non cessa, fin ch’amor non è congiunto?
    E qui te scrivo ciò che ne cred’io.
      Onne desio presuppone el fine,
    Et onne moto consegue soa forma,
    Et, conseguendo, conven che decline.
      Como do’ anime è una per piacere,
    Cossì doi corpi natura conforma,
    In quanto po’ seguendo el so volere.
      Perchè è sì ardente el paterno amore
    Che, più che sè, assai li fioli ama,
    E, sopra tutti, perchè più el menore?
      Chè ’l nato la memoria ten del patre,
    Accorso scrive che de ciò s’enfama: [L. c. 56 t.]
    Voglio che mia rason so ditto squatre.
      Se altra cosa fa maior memoria [C. c. 54 t.]
    Che li fioli prima ver non dice;
    De ciò serai tu certo a poco d’ora.
      Chi al mondo scrive ciò è noto espresso
    Che fa maior memoria e più felice:
    Ascolta como è ver ciò che confesso.
      Tesoro edificare e li bon nati,
    E chi scrivendo leva ’l so intellecto,
    Conserva la memoria a li passati.
      È gentil cosa vivere per fama,
    Che poi la morte a l’alma fa delecto,
    Odendo che lo mundo de lei chiama.
      Propria carne spirito e natura
    Che veste ’l nato per vertù divina,
    Quest’è del patre propria figura.
      Nessun altri più che sè sì po’ amare:
    Questa me pare sentenzia latina;
    Non te conven plù de ciò dubitare.
      Naturalmente ciascun ama tanto,
    Ma l’accidente che natura volve,
    El patre move el plù el meno alquanto.
      Per simel pacto et hanc utilitate,
    El natural voler se desolve,
    Amando più el menor per puritate.
      Move la purità la mente umana
    E como donna onesta infiamma ’l core:
    De qui la mente toa non sia lontana;
      Chè cognoscendo questi dolci passi,
    Sentirà l’alma del novo valore;
    Sì ch’io te prego che qui non mi lassi,
      E fa che ’l dubitare to’ sia possente, [C. c. 55]
    Se voi che respondendo te contente.


CAPITOLO II[169]

      Perchè nel celo son contrarii moti, [L. c. 59]
    Che da ponente movon onne pianeta,[170]
    Contra del primo manifesti è noti?
      Dico che Deo e la natura digne
    In tutte cose pose fine e meta;
    Or mira la rason che qui t’assigne.
      Se tutt’i celi movessero inseme,
    Già mobele saría la ferma terra,
    E solo un tempo senza l’altre streme.
      Le qualitati servan quattro tempi,
    El moto natural che non deserra,
    Per altri cursi che son plù per tempi.
      Perchè scentilla de l’octava spera
    Ciascuna stella, e le pianete stanno?
    La mente dubitando vol che quera.
      Perchè son più lontan dal nostro aspecto,
    L’octave stelle, sì che li occhi fanno
    De questo scintillar novo concepto.
      Or prendi exemplo nel propinquo lume,
    Che quanto più se cessa plù scintilla;
    Stando da presso muta tal costume.
      Perchè s’obscura lo Sol e la Luna?[171]
    Nel primo libro tal rason se stilla,
    Ma non perch’è sanguigna negra e bruna.
      Io dico che movendo quisti lumi,
    Allora, se Saturno segnoreggia,
    Son verdi e negri como densi fumi.
      Sono sanguigni si li mira Marte; [C. c. 55 t.]
    Ciascun vol Iove che bianco se veggia;
    Venus citrini li fa in onne parte. [L. c. 59 t.]
      Quando la Luna è ne l’oscuro Sole,
    Tu vederai diversi colori,
    Si’ certo che Mercurio ciò vole.
      E tu a me: Perchè lo Sole scalda
    Aprendo d’onne animal li soi pori,
    S’in lui nisiuna qualità s’esalta?
      Li corpi luminosi per natura,
    Per la reflexion de lor clarezza,
    In calda forma l’aire trasfigura.
      Nel vaso freddo vitriato e polito,
    De ciò ch’io dico vederai certezza:
    Or ’scolta che de ciò te fo sentito.
      Removi ’l vaso ch’io t’ho sopra ditto,
    Sì che dal foco caldo non receva,
    Ma ’l so splendore in lui fera diritto:
      Senterai ’l caldo, s’appressi le guance.
    Per plù sentire, la tua mente leva,
    Chè ciò ch’io te dico non son ciance.
      E tu a me: Perchè sempre vedemo
    La Luna poca, e poi ven crescendo,
    De fin ch’è piena, e de ciò certi semo?
      Io dico che la Luna non ha la luce
    Se non dal Sole, che ’n lei splendendo:
    Quanta ne vedi, tanto ella reluce.
      La Terra in mezzo infra lor s’oppone,
    Però la Luna cossì se demustra,
    Che là el sole più veder non pone;
      Ma quanto va plù verso l’oriente, [C. c. 56]
    Tanto a noi plù se mostra lustra,
    Chè vede el sole più speditamente.
      Perchè la donna, se la Luna è piena,
    Non turba specchio con li occhi sdegnati;
    E s’ella è poca, de ciò sente pena?
      La Luna, per soa natural vertute,
    Rectifica li umor destemperati,
    Sì che da lei procede tal salute; [L. c. 60]
      Ma diminuta soa natura innata,
    Multiplica l’umidità corrotta,
    Qual fugge la natura stimulata.
      E tu a me: Perchè allor questa piaga?
    Per la freddezza e per la gola giotta
    Conven ch’ogne mese a ciò se traga.
      Perchè ciascuno più la Luna teme,
    Che non fa ’l Marte Saturno con Iove,
    Essendo lor potenzie tanto estreme?
      Dico che la Luna, se è subiecto
    De tutti celi, e più presso move,
    Però tememo plù el so defecto.
      E tu a me: Perchè, quando è rotunda,
    Onne villano li soi travi taglia?
    Chè allor l’umidità più abbunda,
      La qual per più tempo li conserva,
    Sì che da la ruina non si baglia
    La fabrica, ma sta dura e acerba.
      Perchè suo raggio, se dintra per buco,[172]
    E fer cavallo col piagato dorso;
    E ciò non avven, se ’n campo lo conduco?
      Tu sai che more e spasemando langue,
    Perchè scolora chi dorme a so corso,
    Che par che ’n corpo non li sia sangue.
      Lo raggio, che per buco cossì spira,
    Sopra la piaga è più forte unito
    E reflectendo più renforza l’ira;
      Ma li campestri raggi son dispersi,
    Per l’air che se move e non sta quito;
    Però tu vidi li effecti diversi.
      Trovando la corrotta umiditate,
    Che per la Luna prende più vigore,
    Ciascuna de li parti a lei, compate.
      Menando el sangue per diverse vene,
    Li spiriti che corrono al dolore,
    E quanto po’ ciascuna, tanto sostene. [L. c. 60 t.]
      Longo dormire non fo senza danno
    Sotto suo raggio che la vita scorta,
    E fa de gran dolore novo affanno:
      Corrumpe la vertù che l’om nutrica,
    Per la freddezza che ’l viso ammorta.
    Conven che d’altra cosa qui te dica.
      Or leva la vertù del to intellecto
    Verso la qualità, dov’hai sospecto.


CAPITOLO III[173]

      Perchè cigotta la fiamma nel stizzo[174]
    E perchè l’omo subito la smorta?
    È cosa occulta, natural o vizzo?
      Ventosità rechiusa ch’è nel legno,
    E l’umido ch’è seco ogn’ora porta,
    Move la fiamma, sì che fa tal segno.
      Anch’io te voio dir como nel foco [C. c. 57]
    Fanno venir figure li piromanti,
    Chiamando scarbo marmores e sinoco.
      Li geomanti con li sicchi[175] punti,
    Con l’ossa de li morti nigromanti,
    Ne l’aire l’idromanti son coniuncti.
      Ciascun de quisti, ne la piena Luna,
    Li spiriti chiamando con lor muse,
    Sanno ’l futuro per caso e fortuna:
      Per strepiti de l’incantate palme,
    Per l’osso biforcato che se chiuse,
    Sanno el futuro queste dampnate alme.
      E tu a me: Or qui me parli obscuro; [L. c. 61]
    Che voi tu dir de l’osso biforcato?
    Chè de le palme qui saver non curo.
      L’osso davanti al pecto ch’è nel gallo,
    Posto nel foco poi ch’è incantato,
    O strenge o apre senza alcun intervallo.
      E tu a me: Or qui voio esser certo,
    Lassando ’l primo unde ’l sermon nacque;
    Prego che ’l vero qui non sia coperto.
      Queste fatture e quisti sortilegi
    E carmi che se fanno sopra l’acqua
    Io non credía. De ciò mi correggi.
      L’imagin de lo stagno e de la cira,
    De sperpeglion scriptura de sangue
    Che con lo spago ligando se tira,
      E l’anoctare de le prave vecchie,
    Che par che ’n celo la stella s’ensangue,
    Li furti vede alcun pur che se specchie.
      E io a te: Omne creata cosa [C. c. 57 t.]
    Ha soa vertute sopra qualitate,
    Occultamente in lei nascendo posa.
      Quisti maligni spiriti, che sanno
    De li elementi le vertù celate,
    Per cosa natural questi acti fanno;
      Sì che chiamati, con li lor tributi
    D’umano sangue e con morti gatti[176]
    Con ugne e capilli e altri vuti
      E con le dinà carne mirra e ’ncenso
    Con legno d’aloe e altri patti,
    Fanno quisti acti veggendo lor censo.
      L’imagine che fanno, per amore
    De quella cira che da prima appare,
    De ciò io voglio che non si’ in errore.
      Lo spirto chiamato in quella faccia
    Le cose natural subito rape,
    Et onne cosa che delecto faccia.
      Move la fantasia de la donna [L. c. 61 t.]
    Con queste cose, ardendo nel disio,
    Sì ch’amor in lei nascendo abonna.
      Topazio, che fa vista reversa,
    A ciò resiste. Quel che te dico io
    Fa che tu celi a la gente perversa.
      Quisti altri, che non possono iacere
    Con le lor donne, chè son fascinati,
    Che su ne l’acto perdono ’l volere,
      La forza de la vertù genitale,
    E li organi che per lei son animati
    Stando ligati in acto naturale;
      Ma del cappon la graziosa pietra, [C. c. 58]
    Coniuncta con li rami di coralli,
    Questa freddezza da l’omo si arietra.
      Con li fanciulli vergini lo furto,
    Nel specchio ne lo vitro in cristalli,
    Alcuno incanta con lo veder curto.
      Voglio che saggi qui la nova fraude
    Che fanno le maligne creature
    Fra li compagni, per aver plù laude.
      Stando ne l’air, reflectendo l’ombre,
    Non son nel specchio le iuste figure:
    De tal pensero la mente se sgombre.
      El primo, qual ch’incontra quel che fura,
    Appareli con lo furto manifesto,
    Con l’accidenti de la soa figura.
      E tu a me: Sì dolce è lo savere,
    Che me de’ perdonar, se io t’enfesto,
    Ch’io me movo a ciò, per plù vedere.
      Le imagin del stagno over del plumbo
    Fatte sotto l’aspecti de le stelle;
    Carattere trianguli con salumbo;
      Como s’acquista in lor forma e vertute
    Vorria saver de ciò; dimme novelle;
    Or leva li occhi per la mia salute.
      Et io a ti: Dal celo ven la forma, [L. c. 62]
    Che limitando la proporzione,
    Le quattro qualità questa conforma;
      Sì che, nel mixto, natura resulta:
    Simel è ’l creare e poi perfeczione,
    Si como ’n calamita è form’occulta
      Or prendi exempio qual qui te demostro: [C. c. 48 t.]
    Son doie figure d’un beato e santo
    D’ugual bellezza, presso al viso nostro;
      Fatto per Giotto, dico, in divers’ore:
    L’una s’ador’e lauda con gran canto,
    E l’altra press’a questa non ha onore.
      Lo spazio che tu fra le stelle vidi,
    Fra ’l confalone el puzzo el foco sacro,
    El gran secreto voglion che tu cridi.
      Lì sono le carattere consignate.
    Le lor vertute qui non te disacro,
    Qual sono da la sibilla sigillate.
      E tu a mi: Or quisti ciromanti
    E quisti auruspi, e quando l’occhio sbatte,
    Voio saver como de lor canti;
      E se ’l sternuto è segno d’accidente,
    Et incontrare animal vecchie o matte
    E cieco e zoppo e chi de guercio sente.
      Et io a te: Li ciromanti signi,
    In quanto in noi sono per natura,
    Io dico che de nota sono digni.
      Passa lu signo per li sensi umani,
    De fin’ a l’entellecto, con forma pura,
    Si che ’ntendemo l’effecti lontani.
      Non che tal segno sia cascion de questo,
    Ma noi fa certi onde ’l segno move,
    Chè tanto el iudicar se fa plù presto.
      Metter se vol la man ne l’acqua calda,[177]
    Che li accidenti segni ella remove;
    E con li natural reman poi salda.
      Del sbatter de li occhi qui te dico, [C. c. 59]
    Che ben è segno de futuri eventi: [L. c. 62 t.]
    Ascolta la rason che qui te applico.
      Quisti doi lumi de la nostra vita
    Sono casone de quisti accidenti,
    E po’ natura ch’è da lor nutrita.
      L’alma gentile, che rememorata
    Da li superni lumi e da lor guida,
    Mostra per segno sì com’è informata.
      Denanti al caso, col temer se stregne;
    Denanti de lo ben, forte se fida,
    Secondo che disopra in lor se pegne.
      E tu a me: Se questo acto depende
    Dal celo, che ne l’alma fa conspecto,
    El proprio futuro perchè non intende?
      Che la grossezza de li umani sensi
    Obfusca la vertù de l’intellecto:
    Qui non te parlo secondo li sensi.
      Dormendo, quisti sensi ben receve
    El proprio accidente su nel sogno,
    Che contemplando la vertù conceve.
      Or prendi exempio e guarda l’epilenti,
    Qualor de dubitar te fa bisogno,
    Che dicono el futuro resurgenti.
      E tu a me: Perchè son quisti moti
    Ne li occhi sempre e ne l’altre membra
    Sono da li iudicii remoti?
      Che l’alma, mota da la summa luce,
    De la più degna parte se remembra,
    Sì che ne li occhi tal moto conduce.
      Auruspi sternutare e altri effecti, [C. c. 59 t.]
    Ciascun ha qualche vero, ma non sempre,
    In quanto noi de ciò semo sospecti.
      Questi che fanno la notoria arte
    È ver che l’ignoranzia da lor stempre,
    O è ver che son perdute le lor carte?
      Et io a te: In ciò t’è testo Deo;
    Chè in quell’arte son le prece sancte: [L. c. 63]
    È utele secondo ’l parer meo.
      Son molti li chiamati e pochi electi
    A conseguire le vertute tante
    E contemplar li divini conspecti.
      Ormai resurga in te la mente nova
    Del dubitar, per veder la prova.


CAPITOLO IV[178]

      Perchè è più freddo quant’è più serino?
    Dico che ’l vento che ven d’aquilone
    Allora li vapori mett’ al declino;
      Ma, respirando poi el meridiano,
    Che soa caldezza li vapor compone,
    Sì che fa ’l tempo quasi dolce e piano.
      Perchè è più friddo nascendo l’aurora
    Che in mezza nocte e quando ’l Sol se cela?
    Che la rosata stilla giù in quell’ora.
      In mezza nocte l’ora è più fredda.
    Chè più remoto è ’l sole e più congela;
    La sira è press’al sole, e però non affredda.
      Perchè d’estate sono maior le vampe
    La nocte assai più che ’l iorno, dico?
    O tu che scrivi la tua man non ’ngiampe.
      Che l’aquilone ten le penne strette [C. c. 60]
    D’estate, perchè regna ’l so nimico;
    Ma, nel gelato tempo, for le mette.
      Perchè d’estate, quando è l’air bruno
    Celato ’l Sole da le nube dense,
    Che sì gran vampa fa languir ciascuno?
      Dico che allotta ’l sole è sì fervente [L. c. 63 t.]
    Che scalda queste nube e falle accense;
    Po’ la vampa ne l’air se sente.
      Anch’io te voio più expresso dire
    Perchè è plù freddo nel tempo stellato:
    Or ’scolta qui, se ciò vôi sentire.
      Exala el caldo e l’umido su mena,
    Per qual’umidità l’air è gelato,
    E la rosata piove allor ben piena;
      Però, nel freddo e nel tempo fosco,
    Che ’l caldo se reserva e non exala,
    Brina non cade nè in prato nè in bosco.
      E tu a me: Perchè vedem la stella
    Fuggir per l’aire, e in terra cala?
    De ciò te voio dir certa novella:
      Non cagiono le stelle de le spere,
    Che l’una copreria tutta la terra,
    Ma ’l vento, che da quella parte fere,
      Move per l’aire li vapori infocati.
    Dicono certi che nel celo è guerra;
    Or quisti son li simplici dampnati.
      Perchè chiamando in Ascoli tu senti,
    Presso a le mura de le oneste donne,
    Consimel voce respondendo senti?
      Dico che l’aire questa voce porta, [C. c. 60 t.]
    Trova l’opposto che reflecte l’onne,
    Sì che la voce torna qui rescorta.
      E tu a me: Or questa galassia,[179]
    Secondo la sentenzia del magistro,
    Voio saver da te che cosa sia.
      Dico, secondo l’altra opinione,
    Ma non prindissi l’altra nel sinistro!...
    Ove se forma la mia intenzione.
      Son prima molte stelle troppo spisse,
    Ch’illuminando fanno la chiarezza,
    Son de l’octava spera stelle fisse:
      Son strette sì, che l’una l’altra tocca; [L. c. 64]
    Cossì se mostra la bianca bellezza,
    Questa è la via de la gente sciocca.
      E tu a me: Or di’ se io dico bene:
    Vento non è altro che de l’air moto.
    Ormai de dubitar qui me convene.
      Perchè, quando comenza primavera
    De verno e quando autunno sta remoto,
    Regna l’australe con la spessa schera?
      Dico che ’l sole che leva li flati
    De verno ascende verso quella parte,
    E scaldali ne li tempi nominati;
      E l’aquilone respira d’estate,
    Che ’ntanno el sole de lì non se parte,
    Secondo le nature son limitate.
      Perchè lo vento che ven d’oriente
    D’essere sano porta più la voce,
    Che non fa l’altro che ven da ponente?
      Dico che ’l sole, con li dolci raggi, [C. c. 61]
    Purificando sempre lo conduce;
    Or guarda che in error de ciò non caggi.
      Perchè ven de la bocca freddo e caldo
    El flato, dico, quando hala l’omo?
    Ven congregato el fiato e tutto saldo;
      Soffiando, non ven l’air congregato,
    Però ven friddo; tu vidi ben como.
    Or vidi tu medesmo se t’ho ’ngannato.
      E tu a me: Or di’ come prende forma
    Del cor dolente e como nasce ’l sospiro
    E quando del pensier l’alma se forma.
      Non respira l’omo, onde infiamma ’l core;
    Da po’, tira l’air, sentendo il martiro,
    Sì che ’l suspir, languendo, manda fore.
      Como plù è ’l penser, più lu sospir se spande;
    Che, quanto plù del tempo el penser fura,
    Cotant’è più de l’aire el tracto grande.
      Contenta l’alma lo sospir d’amore, [L. c. 64 t.]
    E certa gente forma la natura,
    Che desiando nel suspir se more.
      Io me ricordo che già sospirai,[180]
    Sì nel partire da quil dolce loco,
    Ch’io dir non so perchè ’l cor non lassai:
      Sperando de tornar, passo martiri,
    Strugendose lo cor a poco a poco,
    ’Nanti ch’io traga l’ultimi sospiri.
      Oimè quill’occhi da cui son luntano,[181]
    Oimè memoria del passato tempo,
    Oimè la dolce fe’ de quella mano,
      Oimè la gran vertù del so valore, [C. c. 61 t.]
    Oimè che ’l mio morir non è per tempo,
    Oimè pensando quant’è el mio dolore!
      Ora piangete, dolenti occhi mei,[182]
    Poi che, morendo, non viditi lei!


CAPITOLO V[183]

      Veggio ch’ ’l tempo tralucendo passa,
    Però non dare induzio a lo bene,
    Che ’l tempo mai non torna, poi che lassa;
      Po’ ’l tempo non vale, se non è pentire.
    Per quattro cose pianger se convene,
    Che fanno per dolor el cor languire.
      Conven ch’a lagrimar l’alma consenta
    A li occhi tristi per l’inchiusa doglia,
    Che ’l iusto pianto so quanto contenta.
      Pianger dirietro al tempo è senza fructo,
    E sopra amico che fuo d’una voglia
    E fin a la morte liberale in tucto.
      Chi ha vertù e non consegue onore,
    A chi fo già felice et è caduto,
    Licito è el pianto per cotal dolore.
      Quasi se perde, chi che perde amico:
    O quanto attrista lu tempo perduto,
    Pensando l’alma e ragionando sico!
      Sì che non perder tempo; ormai te leva
    Del tuo intellecto movendo li remi,
    Dicendo a me perchè ’l mar se solleva
      E poi s’abbassa, fra la nocte e ’l iorno;
    E perchè è l’acqua salsa, tu me spremi:
    De ciò sentir assai son ito intorno.
      La Luna, dico, per soa forma occulta, [C. c. 62]
    Da l’oriente fin ch’è nel mezzo celo,
    Tirando ’l mare nasce l’onda molta;
      Dal mezzo celo, fin ch’è a l’occidente,
    Quiesce ’l mare, e ’l perchè non te celo;
    Chè soa vertù in lui non è possente:
      Da l’occidente in fin a la mezza notte[184],
    Regonfia el mare, e verso la luna alza;
    Da poi se posa in fin a la prima otte.
      L’ardente sole el sottile resolve,
    Lassando el grosso po’ e l’acqua salsa
    Amara sì che mai non se dissolve.
      Perchè son calde e sì ferventi l’acque,
    Che vegnon sotto terra da le vene?
    O quanto l’ignoranzia me despiacque,
      Vedendo de Viterbo el Bulicano,
    El bagno de Pozzolo[185] come vene,
    E l’Acqua Santa nostra e sott’Agnano.
      Dicote che de sotto, ne le caverne,
    Per solfore se fanno l’acque calde,
    Sì como per l’odor ciascun discerne.
      O quanti son li meati, ch’i’ non appello,
    E l’infernali abissi e le castalde [L. c. 65]
    E Strongolo e Vulcano e Mongibello.
      Perchè el dinaro ne l’acqua se mostra
    Maior, quando el Sole lì resplende?
    Che sono spersi ne la vita nostra
      Li spirti, dico, da cotal splendore
    E a lo nostro viso, che comprende,
    Se mostra questa quantità maiore.
      Perchè se l’acqua fredda in vetro messa [C. c. 62 t.]
    Oppost’al sole arde il bianco panno;
    Se è calda l’acqua, questo effecto cessa?
      Dico che l’acqua fredda fa repulsa
    De quisti raggi che nel vetro danno,
    Sì che ’l caldo verso ’l panno stulsa.
      E tu a me: Perchè de le cisterne
    L’acqua naturalmente se restregne,
    In ciò ciascun quest’altre vieta e sperne?
      Io dico che per soa subtilitate
    E ligerezza el corpo se congegne;
    L’altr’acqua move per soa gravitate.
      Perchè è plù sana l’acqua che plù tosto
    Se scalda e affredda in poco d’ora?
    Se tu m’hai inteso ben, io t’ho resposto.
      L’acqua suttile il foco tosto infiamma,
    El caldo nel sottil poco dimora,
    Ma l’acqua cruda assai plù te’ la fiamma.
      Perchè d’estate, quando l’acqua plove,
    Demostra sopra terra tante ampolle,
    E l’acqua ch’è de verno ciò non move?
      Dico che l’acqua è calda d’istate;
    Cadendo in terra, resurgendo bolle;
    L’iverno per lo freddo son pianate.
      Perchè d’estate, in le gran tempeste,
    La gente sona a stormo le campane?
    Che ’l sono rompe l’aire e tolle peste:
      Anch’io te dico che li angeli maligni,
    Invidiosi de le genti umane, [L. c. 66]
    Fanno tempeste per certi desdigni,
      Sì che, sonando le divine tube, [C. c. 63]
    Fugge lor secta como gente rotta.
    Quisto secreto Dante non conube.[186]
      Sì che ’nvano, dico, non se sona
    Onne campana tempestando allotta,
    Secondo che ’l mio dicto te rasona.
      Perchè è signo che più dure l’acqua,
    Facend’in terr’ampolle e li gran cerchi?
    Che de maior altezza se desacqua
      E dalle spesse nube forte cade;
    Però se fanno li cerchi soverchi,
    E par, cadendo, che la terra sbade:
      E l’arco d’oriente te sia signo
    Che muta ’l dolce tempo nel maligno.


CAPITOLO VI[187]

      Non ha vertute, dico, d’intellecto
    Chi non ha el ben per bene e ’l mal per male
    E chi non sdegna de l’altrui defecto.
      Superbia non cade mai in desdigno
    Ne l’omo, perchè, se nel mondo vale,
    Possendose vendicar se fa benigno.
      L’ingiuria che nasce plù da presso
    Redoppia ne l’alma el gran dolore,
    Chè l’omo se desdegna fra sè stesso.
      E tu a me: Io prego che retorni
    Ne li penseri primi del tuo core,
    Da me che l’ignoranzia distorni.
      S’una natura è in tutta la terra, [L. c. 66 t.]
    Perchè in un loco doie simel piante
    Inseme poste, che l’una s’atterra
      E l’altra cresce producendo fructi? [C. c. 63 t.]
    Perchè minere d’oro e pietre tante
    Sono in Levante per li lochi tucti?
      E io a te: Sì como dice Plato,
    De octo nature de vertù le parte
    Che li prendesse forme onne creato.
      Secundo el celo se dispone el loco.
    È lì che nasce, secondo nostra arte.
    Or qui me vieni intendendo un poco.
      Sì como ferro tira calamita,
    Cossì ciascuna vegetabel pianta
    Tira l’omore proprio a soa vita;
      Sì che la terra le piante nutrica,
    Secondo la vertù che loro ammanta:
    Cossì la qualitate in lor s’applica.
      La colloquinta de le parti aduste
    Tira l’amaro e lassa la dolcezza;
    E fanno lo contrario le altre arbuste.
      Ben ha la terra, dico, una natura,
    Ma son diversi lochi per certezza,
    Secondo el celo che li ten figura.
      Sì che respondo a la toa questione:
    De le toe piante, io dico, terminando,
    Facciate certo questa opinione.
      Sotto diverse stelle furon poste,
    O for per accidente lor piantando:
    Quì non te posso far altre resposte.
      E tu a me: Perchè qui la minera
    De l’oro, e qui de ferro, e lì de stagno?
    E io a te: Questa sentenzia è vera.
      De molte question, se qui m’entendi, [C. c. 64]
    Vederai el ver e non te darai lagno:
    Del dubitar or guarda e attendi.
      Divi saver che septe metalli [L. c. 67]
    Son generati da li septe celi,
    I’ dico ’n monti, in piano, in valli.
      Dove el pianeta regna, per soa vista,
    Con li soi raggi acuti como teli,
    Forma el metallo de la terra mixta.
      Saturno lo piumbo, lo ferro fa Marte,
    Venus lo stagno, fa Iove lo rame,
    Lo Sol fa l’oro, che male lo comparte;
      La Luna fa l’argento, dico, morto,
    Mercurio fa ’l vivo senza scame;
    O quanti n’ha conducti già a mal porto!
      E tu a mi: Cridi che, per arte,
    Se possa dar a li metalli forma,[188]
    Se li elementi alcun vince e desparte?
      Dico che l’arte la natura segue
    Quanto al poter, ma non se conforma
    Chè possa conseguir mai le soe tregue.
      Sono doie case in un piccol monte;
    Ne l’una onne animal che nasce, more;
    Ne l’altra la salute in lor ten fronte:
      Vorria saver se el loco ha cotal forza,
    Over onde procede tal valore;
    Per contentarme la toa mente sforza.
      E io a te: Da li superni lumi,
    Ciascun dà forma, conserva e corrompe
    Queste create cose e lor costumi.
      È simel pietra de l’umano seme,[189] [C. c. 64 t.]
    Che subito che ’n donna lo prorompe,
    Sotto cotal celo la vertù se spreme
      Quando la prima pietra che s’asside
    Nel fundamento, allora si despone
    Lo loco che da ciò non se divide.
      Sotto ’l maligno celo fo edificata
    La casa, ove è questa lesione;
    E sotto el benigno l’altra fo fondata.
      Sì che li siti sono divisati [L. c. 67 t.]
    Da li celesti corpi, e poi vidi
    Li effecti de le terre variati.
      In una terra guerra e fame e peste;
    Guarda Toscana, se tu non mi cridi;
    E l’altra del contrario se veste.
      Le stelle viziose de li signi
    Fanno accidenti e vicii ne le terre:
    Se’ Romagnolo e temo che non sdigni.
      Or guardisi la testa el Bolognino,
    Che piccoletta piaga non l’atterre;
    Cossì le gambe guardi el Fiorentino;
      La chiocca taurina, che ascese
    Facendo de filosofi lu nido,
    L’Ariete cadendo allor discese.
      E parte de l’Aquario e de Pesce[190]
    Cadde in Fiorenza: ciò non sappe Guido.
    Perchè quisto accidente li più cresce?
      L’Ariete fa la testa con la faccia
    In onne animal, e Tauro el collo,
    E Gemini le spalle con le braccia;
      Del Gammaro le stelle tucto el casso; [C. c. 65]
    El stomaco el polmon e el cor non tollo;
    El splene con le coste a lor pur lasso;
      E formano le stelle de Lione
    Lu stomaco, lu core e dosso e ’l lato;
    Nel ventre ten la Virgine rasone;
      Porta la Libra, ne le soe belance,
    Le membra genital de ciascun nato
    De for el ventre: Queste non son ciance.
      E l’ombelico li lombi con l’anche,
    E le doie parti sopra quai se posa
    L’omo, sentendo le soe gambe stanche;
      Ove sta el seme e l’acqua che se stilla,
    E altro che tacere è bella cosa,
    Governa Scorpion quando sintilla.
      E chi con l’arco in celo pur menazza [L. c. 68]
    Le femora conforma soe sagette;
    E Capricorno le genocch’allazza.
      Aquario le gambe radiando,
    El Pesce, che è ultimo de’ sette,
    Forma li pedi onnora guizzando.
      Per questi l’oniverse creature
    Sono disposte le terre e li siti,
    Secondo el modo de le lor figure.
      Quel che tu vidi poi sentir omai
    De li mei citadini, che son politi,
    E como lepra lì non fo già mai:
      Ben fo possente in lor lu sexto signo,
    E son contento de quel che se dice,
    Ch’ha renovato el scripto Sancto Mingno.
      E tu a me: Perchè non po’ seguire, [C. c. 65 t.]
    E quale è la rason che contradice,
    Dui corpi che ’n un loco un se mire?
      Ficcando lancia giù ne l’acqua in fondo,
    Un corpo, è in tre lochi: e questo è certo.
    L’ultima è vera, se provi il secondo.
      Non è la lancia in terra, in acqua e in aire.
    Anch’io te provo e dico plù scoverto:
    Un elemento se de l’altro vaire,
      Son quattro corpi, dico, simul mixto,
    E l’air con la luce corporata
    Io veggio dunqua; pur, nel primo insixto.
      E io a te: Se io solvo, non gridare,
    Che utel è ’l tacere a la fiata,
    Quando non se conven plù de parlare;
      E dico ch’è impossibel che dui corpi
    Esser in un loco e loco senza corpo:
    Non voio plù che del falso te torpi.
      Pone ’l me’ maestro, tu divi saper dove,
    Rason è che te ponge come scorpo;
    Ascolta ciò che te dico e che me move.
      El loco è como forma de locato[191] [L. c. 68 t.]
    Che termena el corpo qual contene,
    Sì como soa materia ha informato.
      Non po’ una materia aver plù forme,
    Sì ch’a un corpo un loco convene,
    Ch’è sì como materia in lui se forme.
      Onde, a la toa prima rason respondo:
    Per contiguitate quella lancia
    È in un loco; cossì te confondo;
      E li elementi, dico, un corpo fanno. [C. c. 66]
    Chi dice che la voce è corpo ciancia.
    Secondo el ditto de color che sanno,
      Non tegnono nel mixto li elementi
    Proprie forme; voglio che tu senti.


CAPITOLO VII[192]

      Io ho avuto paura de tre cose:
    D’esser d’animo povero e mendico,
    Io so che tu m’entendi senza chiose,
      De servire altrui e despiacere,
    E perder per lo mio defecto amico;
    Onde io so’ ricco, quanto al mio vedere,
      Chè speso ho el tempo de mia poca vita
    In acquistar scienzia et onore
    Et in seguire altrui con l’alma unita.
      Non per ricchezza fra li boni ho loco;
    Non val ricchezza a povertà de core,
    E poco vale a chi conosce poco.
      S’io avessi conoscenza, qual io bramo,
    De le bestie, sì como de li umani,
    Non amaria molti ch’io amo. [L. c. 69]
      Amore e anche l’odio desface
    La cognoscenza con li penser vani,
    Fin che ven iorno che speranza tace.
      Porresti dubitar perchè ciò dico?
    E io a te: Perchè son nati multi,
    Che parlano secondo el tempo antiquo,
      Chè a saver cose meraviose
    Ove non è fructo, dicono li stulti,
    Snizzando le lor bocche desdegnose.
      Grande è la pena qui e plù lo tacere; [C. c. 66 t.]
    Convience de partir da questa gente,
    Che d’omini non nacque ma de fere,
      Rengrazio ’l mio Signor che non me fece
    Del numero de quisti da niente,
    E de intellecto che non me desfece.
      Un om iuva cento, e cento no iuva uno;
    Tant’è ’l valor de l’om, quant’ha intellecto,
    E quanto ha al mondo de grazia dono;
      Assai è ricco l’om po’ ch’è contento;
    E meglio è conoscenza con defecto,
    Che non ricchezza con viver in stento.
      Non ebbi, n’averò, nè ho mai spene
    In om che viva, sì ch’è d’avanzo
    S’io conseguisco el non pensato bene.
      Per te si’ bono, non sperando in omo;
    Chè troppo ha sale la cena col pranzo
    De l’altrui pane, tu vidi ben como.
      E tu a me: Omai è tempo et ora,
    Con questa gente, de parlar tacendo,
    Ove cotanta ignoranzia demora.
      Or dimme de queste ombre che vedemo,[193]
    Prima ch’io faccia quel ch’è diffinendo,
    Chè ’l tempo te non lassi. O quanto io temo!
      Ombra non è altro che celata luce
    Da corpo tenebroso che receve
    Lo raggio che dirietro non traluce. [L. c. 69 t.]
      Secondo che la luce è alta o bassa,
    L’ombra cossì diversa e qui advene;
    Per più veder in ciò la mente spassa.
      E tu a me: Omai vorria sentire [C. c. 67]
    Qual’è quell’ombra che chiami reversa,
    Che la deritta so ben che vol dire.
      Che onne corpo ch’è diritt’en piano
    Facendo, como vole, umbra reversa,
    Questa è deritta da presso e lontano.
      Se corpo astile cade sopra torre,
    Quell’ombra si è reversa che tu vidi,
    Che varia secondo che ’l Sol corre;
      Questa crescendo, la deritta scema,
    E ciò converso, voglio che te fidi,
    Chè ver te dice qui onne mio tema.
      Perchè, quanto la luce è plù da presso
    Dal corpo, tanto fa l’ombra menore,
    Et è maior, quanto è più da cesso?
      Lu raggio ch’è da presso è in sè unito,
    Despargese lontano lo splendore;
    Guarda lu lume e leva su ’l to dito.
      Perchè tremano l’ombre ne l’extremo?
    Guarda lo Sole che ven per fenestre:
    Dal gran Magistro doie rasone avemo.
      Trema la spera de lo Sol movendo,
    O l’aire move ’l Sol con soe palestre?
    La prima e la seconda qui commendo.
      E tu a me: Perchè l’ombra più dura,
    Io dico, de le nocti de lo verno;
    E varia d’estate soa figura?
      E io a te: In ciò pun cura e guarda:
    Se li signi son d’inverno, i quai discerno,
    La nocte che ciascun so moto tarda,
      Ne l’oriente nascono directi [C. c. 67 t.]
    Dal Cancro fin a la stella che sagetta:
    Guarda la Spera in ciò se ti delecti. [L. c. 70]
      E l’altri signi, se po’ nascono torti,
    Ciascun nascendo lo so moto affretta;
    Io so che quisti ditti a te son forti.
      Da Capricorno fin al doppio segno
    Nascono torti di verno nel iorno;
    La nocte è altri sopra ’l nostro regno.
      Li signi dritti nascono d’istate;
    Non varia già mai el moto diurno
    Le nocte che dal primo li for date.
      Tene ciascun signo a nascere doie hore;
    Sei nascono de iorno, e sei de nocte,
    Secondo ch’è el voler del lor motore.
      Vinti quattro hore è el iorno naturale;
    Tucte l’hor non son oguali ma dirocte,
    Io dico del iorno artificiale.
      El quale è tanto, fin che ’l Sole alluma
    Una fiata tucto l’orizzonte;
    Cossì la gente lui chiamar costuma.
      Arteficial è ditto, perchè l’arti,
    De fin che ’l Sol non posa, tegnon fronte;
    Or te sia a mente se de qui te parti.
      E tu a me: Or dimme se quest’ombra
    È luce o corpo o natural acto,
    Chè ’n gran penser de ciò la ment’ingombra.
      Ascolta qui che ciò ch’è qualitate,
    Io dico, in concreto et in abstracto,
    Natura, che sia corpo, ciò non pate.
      Sopra le cose corporate e mixte. [C. c. 68]
    La luce è forma, io dico, excellente,
    Tolta da li occhi perchè onn’omo atriste.
      E tu a me: Or questo onde procede,
    Che senza luce l’om deven dolente?
    E io a te: Natura ciò concede.
      Li spiriti son lustri per natura,
    E simele con simel se conforma;
    Cossì li spiriti, con la luce pura, [L. c. 70 t.]
      Ciascun attrista l’ombra, quando apprende.
    Sì como dal contrario se disforma
    De l’allegrezza che prima comprende.
      Com’io distinguo qui, fa che si’ attento,
    Poi saverai de la luce tucto
    El termene del vero, ch’io sento.
      Dico, la luce in dui modi s’entende:
    O quando, distinguendo, nasce fructo,
    O quando, per fallazia, alcun contende.
      La luce ch’esce da lu primo agente
    Ha luminoso corpo, und’è activo;
    Cossì è forma sustancialmente:
      El fulgure de lei che cerca ’l mixto,
    Ch’è obiecto del senso motivo,
    È accidente. Qui plù non resisto.
      Più ch’io non voglio dir, intendi et odi
    La luce, distinguendo, in questi modi.


CAPITOLO VIII[194]

      Se ciascuna de l’ape non ha audito,
    Al son perchè se posa? Di’ magistro,
    Chè dubitando l’om se fa sentito.
      Dico ch’ ’l sono pon l’aire in moto, [C. c. 68 t.]
    Che per natura a l’ape è gran sinistro;
    Non volano, se è vento; e ciò è noto.
      Non per lu sono, ma per movemento
    Che fa ne l’aire, se posano l’ape,
    Chè lor natura sempre teme ’l vento.
      Sono correcte da lu lor signore,
    Che morderte non po’, se tu la cape, [L. c. 71]
    Chè nulla nel mal tempo va de fore.
      E tu a me: Perchè ciascun animale
    Movese et anda subito ch’è nato?
    Perchè non l’omo? Di’ la rason, quale?
      Dico ch’onne animal nasce perfecto,
    Che ’n poco tempo termene ’l so stato,
    In lor natura fa veloce effecto;
      Ma imperfecto al mondo l’omo nasce,
    Chè de portarlo se n’ha gran gravezza,
    Sì che de fore se nutrica e pasce.
      La spezie umana caderia,
    Se ne la matre prendesse fermezza,
    Però natura vol che cossì sia.
      Perchè li cani e li lioni tucti
    Nascono ciechi, con li occhi coperti;
    E li altri con la luce son producti?
      Dico ch’onne animal, ch’ha aguzze l’ogne,
    De dubitar voglio che t’accerti,
    La matre dolorosamente pogne;
      E, quand’è la natura stimulata,
    Denanti al tempo for li manda in frecta;
    Però la vista in lor non è formata.
      Nervoso membro è la matre, che sente, [C. c. 69]
    Sì che lontan tempo non aspecta;
    Natura ch’è constrecta ciò consente.
      Perchè li animali, dico, ch’hanno corna,
    Non hanno denti ne la parte de sopra;
    E quilli ch’han denti acuti se discorna?
      Dico che quel soperchio de li denti
    Natura ne le corna manda sopra,
    E quisti sol de l’erba son contenti;
      Però natura in lor li denti piani
    Pose per questo fin ne le lor guance;
    A l’altri acuti como lupi e cani:
      Sì che onn’animal cum li denti acuti
    Non ha de corna ne la testa brance; [L. c. 71 t.]
    Voglio che nel serpente lo dicto muti.
      Perchè l’auxelli ch’hanno el becco torto
    Non bevon mai, se non per accidente,
    E questa è medicina e lor conforto?
      E io dico che lor pasto over lor civo
    Ha per natura l’umido possente,
    Sì che de sete niuno è passivo.
      Perchè tutti li animal ch’hanno penne
    Non fanno urina, si como se vede,
    E lor natura perchè ciò sostenne?
      Dico che quel soverchio se converte,
    Sì como ’l mio Maistro et ognun crede,
    In quelle penne che son lor coverte.
      Perchè ciascuno de quisti pennati
    Mutandose lu tempo, se spelucca,
    Stando dolenti tucti congregati?
      Perchè in natura ciascun de l’aire [C. c. 69 t.]
    Turbata sente subito in lor ciucca,
    Se d’altra qualità se mostra vaire?
      Perchè in un tempo plù la morte occide
    De quisti animal, che non fa de quilli?
    Dico che ’l celo le specie divide.
      De questa question de li animali
    Io n’ho già ben campati plù de milli
    Da povertade; io non te dico quali.
      L’ariete sua specie conserva
    In se medesmo, e cossì fa lu toro;
    E sì de l’altre: ciò ch’io dico serva.
      Quando lo Sol retorna al primo punto
    De cui la stella sta nel tristo coro,
    Quel geno da la morte serà giunto.
      E tu a me: Perchè formò natura
    Animali che son tanto venenosi,
    Se de la vita nostra ha tanta cura?
      Per grazia de l’omo tucto fece,
    Chè avendo lo venen son graziosi, [L. c. 72]
    Perchè li topi, dico, per lor fece;
      Sì che non fa, nè fè mai Deo
    Animal, pietre, erbe e ciò che vidi,
    Ove non sia vertute al parer meo.
      E tu a me: Or sono animali bruti
    Quisti omini silvestri? che ne cridi,
    Pelusi piccinaculi e negruti?
      De ciò son certo; più non me ne impiglio,
    Salvando sempre lo meior consiglio.


CAPITOLO IX[195]

      E tu a me: Oimè, perchè advene [C. c. 70]
    Che raro de bon patre fiol nasce[196]
    Che conseguisca lo consimel bene?
      È per peccato, o perchè natura vole,
    O è fortuna che nel cel se irasce?
    Questo me pare ben novo sotto ’l sole.
      Natura è principio d’ogne sangue
    Et augument’e stato, e po’ declina
    De gente in gente, fin che ultimo langue.
      Se ’l patre ha l’ultimo ben de soa schera,
    Naturalmente in lui vertù s’affina.
    Conven che ’l nato sia de vil manera,
      E quisti tempi più e min son lati,
    Secondo le figur de l’alti lumi,
    Sotto li quali foron generati.
      Guarda dirieto, e vederai tumulti
    De gran casate e de gentil costumi
    Che, terminando, son in terra occulti.
      Per quattro tempi passa omne creato; [L. c. 72 t.]
    Non è fermezza nel terrestre regno;
    Chi va chi ven chi piange e chi è beato.
      Tucte l’umane cose sono in moto;
    De l’extremo riso ven pianto malegno;
    Felice chi da Dio non sta remoto.
      E tu a me: Perchè questa fortuna
    Che onne vertuoso pover vive,
    E subito se sparge ciò che aduna;
      E veggio gente senza umanitate,
    Spogliate de vertute intellective,
    Che tucte le ricchezze a lor son date?
      E io a te: Or qui divi savere [C. c. 70 t.]
    Che gran ricchezza non se po’ acquistare;
    Ch’a Deo non despiace ’l meo vedere.
      L’om, ch’ha vertute, de seguire sdegna
    Quisti guadagni e quest’accumulare,
    Avendo l’anema de vertute degna:
      Ov’è intellecto, el più degno elege,
    Cioè vertute scienzia et onore;
    Conven adonqua che ricchezza sprege.
      È con la fama coniuncta la spesa,
    E ciò non po’ fuggir chi ha valore,
    E contra lei non po’ mai far defesa.
      E tu a me: Perchè un pover’omo
    Serà plù largo de quel che possede,
    Che un altro ricco? tu vidi ben como.
      E io a te: Che ’l non po’ peggiorare,
    Non po’ salir per poco, si com se vede;
    Sempre se sdegna de ciò conservare,
      Ma quilli ch’hanno, sanno che è amore
    De posseder, sì che fervente teme
    De non venir ne lo stato peiore:
      Anco, onne ricco deven tenace
    Per sormontare a le maior steme,
    Sì che non sente quiete nè pace.
      O idolatri, con la gran ricchezza,
    Voi siti posseduti, possedendo!
    O nudi e cechi de l’alta chiarezza!
      Volti ’l suo volto ventura fallace,
    Con pianto volve la rota submergendo,
    Po’ che de Dio in voi speranza tace.
      E tu a me: Perchè se sdegna tanto [C. c. 71]
    La mente umana, se coniunge amore
    Soa donna col piacer? Che move tanto,
      Se queste doie persone è una carne?
    Non è de morte cossì gran dolore
    Alcun veggendo che sue membra scarne;
      Anch’io te dico che chi amor congiugne
    Con altrui donna, prende tanto ardire
    Che so maior desprezza e par che agugne.
      Per non esser tenuto vile al mondo,
    L’omo ch’è offeso, mettese al morire,
    E non descerne quel che porta el pondo.
      E tu a me: Perchè non è fermezza
    In cor de donna che, si como vento,
    Se move or qua or là per soa vaghezza?
      De fin che ’l viso accende, tanto dura
    Ferm ’l voler in donna, e ciò consento;
    Stando devisa, più de te non cura.
      Naturalmente umida è ciascuna,
    E l’umido la forma non conserva,
    Nè per gran tempo li dura a nisiuna.
      È per natura in lei la falsa fede,
    Con dolce inganno fa la toa vita serva,
    Mostrando l’occhi plini de mercede.
      Ben se vorria piegar li cinque rami,
    Mettendo ’l primo fra li dui più appresso
    Dicendo: or togli, poi che tanto m’ami:
      Poi, li altri cinque del sinistro tronco
    Voltare verso l’occhi de se stesso;
    Chi mai se fida in lor è guercio o cionco.
      Perchè fanno più rumor doe donne, [C. c. 71 t.]
    Che altretanti omini parlando? [L. c. 73 t.]
    A la mia mente la rason s’asconne.
      Onne creata cosa onde descende
    Prende natura de li cominzando,
    Si como dal filosofo resplende.
      Eva fo prima plasmata de l’ossa
    E de la terra del primo parente:
    La terra non fa voce chi la scossa.
      Movendo, l’ossa fanno le gran vuci;
    Questa rasone qui non te contente.
    E tu a me: Or l’altra qui m’adduci.
      Ov’è intellecto voglio che tu senti;
    Iust’è ’l tacere e iust’è lo parlare.
    O quanto col tacer qui me contenti!
      Non fo in donna mai vertù perfecta,
    Salvo in Colei che, ’nanti el comenzare,
    Creata fo et in eterno electa.
      Rare fiate, como disse Dante,[197]
    S’entende sottil cosa sotto benna;
    Donqua con lor perchè tanto millante?
      Non dà vertute lo parlar inepto.
    Maria va cercando per Ravenna
    Chi ’n donna crede che sia intellecto.
      Femena che men fè ha che fera,
    Radice, ramo e fructo d’onne male,
    Superba, avara, sciocca, matta e austera,
      Veneno che venena el cor del corpo,
    Via iniqua, porta infernale;
    Quando se pinge, pogne più che scorpo;
      Tosseco dolce, putrida sentina; [C. c. 72]
    Arma del diavolo e fragello;
    Prompta nel male, perfida, assassina,
      Luxuria malegna, molle e vaga,
    Conduce l’omo a fusto et a capello;
    Gloria vana et insanabel piaga.
      Volendo investigar onne lor via,
    Io temo che non offenda cortesia. [L. c. 74]


CAPITOLO X[198]

      Ultima cosa ne la mente è prima,
    Dico, per natural conceptione,
    Si como, per forbir, fo facta lima.
      Considerando perchè como e quanno,
    Tu vederai la toa perfeczione
    Chi contr’al tempo va, non vede ’l fine;
      E de te stesso non serai tiranno.
    Aspecta tempo ’nanti che te movi,
    Se te vôi conservar ne le toe rime.
      El temp’ha tucto et omne cos’ha tempo;
    Movendo el celo fa li effecti novi;
    Mai desiata cosa non è per tempo.
      Perchè ciò dico se ’l penser te copre?
    E io a te: Convenme de tacere,
    Chè non è saggio chi tucto descopre.
      Parlo tacendo, perchè tu recogli.
    Or, alma graciosa, pôi vedere
    Quanta dolcezza è in quisti acerbi fogli.
      E tu a me: Perchè, dov’è bellezza
    Rare fiate vertute demora?
    Ascolta, ch’io te dico la certezza.
      Formando belle membra s’affatiga [C. c. 72 t.]
    Lu spirito, che opera a onn’ora;
    Vertù resolve quant’è più la briga.
      Ne l’omo sicco[199] con le chine spalle
    Non s’affatiga la vertù del celo,
    E raggio de salute non li falle.
      Nel vile stepe se mostra bel fiore,
    E se la vista de ciò te fa velo,
    Dà intro ’l cerchio che move ’l splendore.
      Perchè de morte indicato signo
    Nel fantesino, quant’è più discreto?
    Chè ’l non ha ’l tempo; la rason t’assigno.
      Vede che ’n piccol tempo morir deve [L. c. 74 t.]
    Natura che contempla onne secreto;
    Da lì ’l saver ha nel tempo breve.
      Perchè le piaghe de l’occulto occiso
    Manda ciascuna lo sangue de fore,
    Guardando chi l’ha morto nel suo viso?
      Se son le piaghe nove, ciò te dico,
    Spiriti remagnano nel core,
    Quai movon l’ira verso ’l so inimico.
      Ciascun se move a lo dolente loco
    E move ’l sangue per le calde vene,
    Ma questa novetate dura poco;
      Ma, l’acqua calda, per le piaghe messa,
    Resolve quilli spiriti che contene
    El core intanto, sì che ciascun cessa.
      Perchè nel mondo son diversi volti?
    E io a te: De ciò son tre ragioni,
    Le qual te dico qui, se ben m’ascolti.
      Diversi agenti stelle et anche ’l sito,
    Dì da mia parte, se già mai ragioni
    Con omo, che de vero sia sentito.
      E tu a me: Anch’io vorria savere,
    Perchè l’imaginar fa simel caso
    E più veloce là ov’è ’l temere?
      E io a te: Or qui de l’imaginare, [C. c. 73]
    Se vôi sentire, ten l’audito basso,
    Se te delecte de ciò iudicare.
      L’immaginare subito chi ’nalpa
    Che dal volere prende nascimento
    Consimel caso già mai non palpa
      Ma ’l cel, che ’maginando l’alma move,
    El cor nel ’maginar fa forte e attento
    Vol che l’effecto imaginato trove.
      Perchè l’om teme tanto ’l corpo morto,
    Che subito trovando l’omo s’agriccia?
    Io qui de ciò te voglio far scorto.
      Tucte animate cose, per natura, [L. c. 75]
    Lo cor lo gran temer subito ’mpiccia,
    Veggendo del contrario la figura.
      Perchè dormendo l’omo a la supina,
    Sente accidente che non po’ far mutto;
    Como più se sforza più la voce inclina?
      Ciò ven da sangue che nel cor s’engorga,
    Per ciascuna artaria movendo tutto,
    Advenga che de ciò l’om non s’accorga.
      De sangue pien el cor forte s’aggrava,
    Par che se reghe l’om per grande carco,
    Sì como sopra ’l pecto avesse trava.
      Perchè l’om trema tucto quando urina?
    Qui de penser la toa mente scarca,
    Che non te grave più sopra la schina.
      Quando el soperchio la natura piove,
    Resbalda in se medesmo e prende forza,
    Over vapore nocive remove.
      E tu a me: Perchè è l’om sinistro? [C. c. 73 t.]
    Dico che usanza la natura sforza,
    Over è, como dice ’l gran Magistro,
      El fecato che scalda el lato ritto,
    Ove le vene tegnono radice,
    Converte quello sangue com’è scritto:
      Cambia lu lato so col friddo splene.
    A ciò ch’io dico, tu non contradice,
    Perchè non pôi, se m’hai enteso bene.
      Dal cerebro procedono li nervi;[200]
    Nasce dal core ciascuna artaria;
    Voglio che quisti dicti in te reservi.
      È artaria sempre ov’è vena;
    Onne artaria in sè ha doppia via;
    Per l’una al cor lo sangue se mena,
      Per l’altra vaccio lo spirito corre,
    Come splendor che move da candela,
    Che senza tempo per l’air discorre.
      El sangue pian se move con quiete; [L. c. 75 t.]
    Quisti canali natura non cela;
    Che l’un da l’altro lu curso deviete.
      E tu a me: È ver quel che se dice
    Che d’alegrezza ven subita morte?
    E io a te: Lu cor, che è radice
      De nostra vita e primo fundamento,
    Aprese tucto in alegrezza forte;
    Resolve poi lu spirito nel tormento:
      Cossì, ne la tristezza, se costrenge
    Sì forte, che lu spirito de for manda,
    Che nostra vita subito despenge.
      Or prindi exemplo ne la cava mano [C. c. 74]
    Tenendo l’acqua, fi’ che non se spanda.
    Se stringi o apri l’acqua torna ’n mano.
      E tu a me: Questa rason non sento,
    Perchè nisiuno qui fo mai contento.


CAPITOLO XI[201]

      Mira quisti altri de plù bassa schera
    E lauda te medesmo, chè natura
    Non te produsse de sì vil manera.
      E tu a me: Cossì me div’ blasemare,
    Mirando quisti de la gran ventura,
    Che sopra li altri veggio triumfare.
      Natura dà a ciascun como se convene;
    Or non te turbe toa perversa voglia;
    Chè como è ’l grado, se ministra ’l bene.
      Uman volere se vol nova repulsa
    A fuggir la viltate onde ven doglia,
    E mai de povertà non se restulsa.
      La mente qui non po’ esser contenta.
    Pono che ciò che vol possa seguire,
    Da poi pur desiando se lamenta.
      Non cessa el moto natural agente;
    Sempre se move, fin che ’l fine mire;
    Questa rasone ciascheun consente. [L. c. 76]
      Se tu m’entendi qui, ben te respondo:
    Onne natura è creata al fine,
    Lu qual de l’alma non è in questo mondo;
      Ma, quando vederà el so Factore
    De vista a vista con l’altre divine,
    Sentirà pace de l’eterno amore.
      E tu a me: Non sono iuste prove [C. c. 74 t.]
    Che l’alma veggia Deo de faccia a faccia,
    Chè contra te, dico, che rason me move.
      In fra l’obiecto e la potenzia nostra
    Proporzione pur conven che giaccia;
    Cossì in lei l’essere se demostra
      Fra quel ch’è infinito e ’l termenato
    Proporzione non po’ mai cadere;
    Cossì ha l’alma el so Factor beato.
      Sì che qui conven che medio sia,
    Da Deo informato che ne l’alma spere,
    Sì como el sole ne l’aire tutta via.
      E io a te: Or qui conven ch’io taccia,[202]
    Ma quando vederò el tempo e ’l loco,
    De ciò conven ch’io te satisfaccia.
      E tu a me: Or di’ de quisti sogni,[203]
    Ch’onne ignorante ne cura sì poco,
    E dice che de cerebro abbisogni.
      O bono Apollo, fammi li sensi ingordi
    E tollime lo ben de l’intellecto,
    ’Nanti ch’io parli con quist’almi sordi;
      E, se tu m’hai disposto, ch’io non credo,
    A la mercede altrui per gran defecto,
    Almen la morte me dà per remedo.
      De li captivi voglio che tu odi,
    Che nesiun vede como nasce ’l sogno,
    Sì como te distinguo qui in dui modi.
      Quel che la mente nostra pur desía,
    De darli fede de ciò non è bisogno,
    Perchè tal sogno ven da fantasia. [L. c. 76 t.]
      Ma l’altro sogno, che dal cel procede, [C. c. 75]
    Non cogitato puncto de figura,
    Che l’alma le future cose concede,
      Contemplativo sogno quisto chiamo;
    Non ha intellecto chi de ciò non cura,
    E non senza rasone lui desamo.
      La Luna quando sta nel fixo segno,
    Fermo è ’l sogno, e quando ven in parte,
    Con le comune stelle non ha sdegno.
      L’Ariete la Libra e anche ’l Cancro
    El sogno in tucto dal voler departe,
    Sì como nilli marmi scripse L’Ancro.
      On’omo ha qualche cosa qual se sogna
    Infra se stesso, iudicando male;
    Quasi suspecto pur temendo agogna.
      L’alme veraci son dal sogno scorte
    A l’omo ch’è maligno e naturale,
    Che molto sogna da presso a la morte.
      Quisti intellecti quisti celi movendo
    Queste future cose ce demostra:
    In quisti sogni per figure comprendo
      Che chi se sogna gir nudo, et è scalzo,
    Per lo gran fango, questo a l’om demostra
    Peccare oribelmente; e ciò non è falso.
      Chi de iacer se sogna carnalmente
    Con matre o con sorella, vederai,
    Conven che in quill’anno sia dolente.
      Se l’om resogna quel ch’ha già sognato,
    E su nel sogno se recorda mai,
    Non vede effecto del sogno passato.
      E tu a me: De quisti veggio como; [C. c. 75 t.]
    Vorria veder quant’è ’l ben de l’omo.


CAPITOLO XII[204]

      Tant’ha de ben ciascun, quant’ha d’amore;[205]
    Tant’ha de ben ciascun, quant’ha de fede;
    Tant’ha de ben ciascun, quant’ha d’onore; [L. c. 77]
      Tant’ha de ben ciascun, quant’ha de spene;
    Tant’ha de ben ciascun, quant’ha mercede;
    Quant’ha intellecto l’om, tant’ha de bene;
      Perchè la cognoscenza de l’intellecto
    Conduce l’omo per li deritti trami,
    Onde consegue el glorioso effecto.
      Questa sia specchio de la toa speranza,
    Per qual tu vederai li sancti rami,
    Che sopra tucti li cel ciascuno avanza.
      Non sia la spene toa ne li mortali
    Che ven fallace nuda de salute,
    E nei besogni se parte non vali.
      Oimè speranza de lo cor nemica,
    Che fure ’l tempo con le toe vedute,
    Perchè te mostri cossì dolce amica?
      E tu a me: Or qui voglio esser certo:
    L’omo che fa ben ne l’avversitate
    Più che ’l felice, non dee aver merto?
      Eo dico che ciascun che è felice,
    Seguendo de vertù benignitate,
    Che de più laude ten ferma radice.
      Quant’è più ricco l’om, tant’è più avaro;
    Quant’è più forte, tant’è più arrogante;
    Cossì de l’altre cose. E ciò è chiaro.
      Donqua el felice ten maior battaglia, [C. c. 76]
    Vincendo el mal con le vertù sante,
    Che pover’om de ciò non ha travaglia;
      Chè povertate superbia confunde,
    Refrena la luxuria e constregne,
    Che par che ne l’abisso l’om profunde.
      Sì che ’l felice, senza fallo, dico,
    È d’onne fama e di più lode degne:
    Exemplo prindi in Sancto Lodovico.
      E tu a me: Doie orecchie e una bocca
    Perchè natura fece a ciascun omo?
    Io so che quisto dicto a multi tocca. [L. c. 77 t.]
      Deve ciascun odire, più che parlare;
    Tristo è chi parla se non vede como
    Et chi non sa soa lengua refrenare.
      Natura sempre fa perfeczione;
    Tu vidi ben qual’è la rasone.


CAPITOLO XIII[206]

      Qui non se canta al modo de le rane;
    Qui non se canta al modo del poeta,
    Che finge, imaginando cose vane.
      Ma qui resplende e luce onne natura,
    Che a chi intende fa la mente leta.
    Qui non se gira per la selva obscura;
      Qui non veggio Paulo nè Francesca;
    De li Manfredi non veggio Alberigo,
    Che diè l’amari fructi ne la dolce esca;
      Del Mastin vecchio e novo da Verucchio,
    Che fece de Montagna, qui non dico,
    Nè de’ Franceschi lo sanguigno mucchio.
      Non veggio el Conte che, per ira et asto, [C. c. 76 t.]
    Ten forte l’arcevescovo Rugero,
    Prendendo del so ceffo el fero pasto.
      Non veggio qui squadrar a Dio le fiche,
    Lasso le ciance e torno su nel vero,
    Le fabule me furon sempre nimiche.
      El nostro fine è de vedere Osanna.
    Per nostra sancta fede a Lui se sale,
    E senza fede l’opera se danna.
      Al sancto regno de l’eterna pace
    Convence de salire per le tre scale,
    Ove l’umana salute non tace,
      A ciò ch’io veggia con l’alme divine,
    El sommo Bene de l’eterna fine.




LIBRO QUINTO[207]


CAPITOLO I

      Conven ch’io canti de la sancta fede,
    Lassando le potenzie sensitive,
    Et dica ciò che l’alma mia ne crede.
      Sopra l’ottava spera che nui vedemo,
    Osanna che eternalmente vive,
    Forno dui cieli, li qual nui chiamemo
      Impirio et anco cristallino.
    Qui non scintilla, nè lì è moto;
    Sempre sta fermo per poder[208] divino.
      Nel cielo cristallino son le guidate acque:
    Laudate Dio, come se mustra noto
    Per lo psalmista, che ciò scriver piacque.
      Et Paulo che vide el gran secreto,
    El qual se tace a la umana gente,
    Ben po’ pensare perchè ciascun discreto,
      De fin al terzo imperio fo rapto, [C. c. 77]
    Lassando el corpo la levata mente,
    Mirando el sancto regno come è facto.
      Li è una natura e tre persone;
    Lì è lu sommo [Bene] et l’alegrezza;
    Lì non è pietà ma pur ragione.
      Et l’angeli benigni senza corpi,
    Cantando sempre el ciel pien d’alegrezza,
    Non come alli omini gridando scorpi.
      Da quisto cielo ven tucta la luce,
    La qual per l’oniverso ognora splende;
    Lì, Dio, creando, l’alme in noi conduce.
      Ma ciò negava al mundo Averroisse,
    Ma ben è certo poi ch’arde et incende.
    Ascolta come è falso ciò che disse.[209]
      Se tucto fosse un’alma o vero intellecto,
    Seria la mia sentenzia dico in tucti,
    Perchè è nell’alma come un suo subiecto.
      El conseguent’è falso, dunqua el primo
    Et quilli silogismi son distructi.
    Anch’io con un’altra rascion li biastimo.
      Se fosse uno intellecto nelli umani,
    Uno in quanto già mai non se forma
    D’acti diversi variati e strani
      Dico in un tempo. Provo la menore:
    Non intendi in lor diversa l’orma,[210]
    Ascolta ch’io reprovo l’altro errore.
      L’alma intellectiva è forma nostra
    Substanzial, che dà l’essere ad nui,
    Secundo che la mia ragion demostra;
      O Averroisse, con la secta sciocca, [C. c. 77 t.]
    Che verso el ben chiudisti l’occhi tui,
    Questa rascione tuoi dicti sbrocca.[211]
      Dalla substanzial forma procede
    Omne operazion che è perfecta,
    Secondo che ’l filosofo concede.
      Lo proprio oprare e intendere l’omo
    Da l’alma move la spezie intellecta;
    Donqua, ella è forma, tu vidi ben como.
      Questa creando in nui, Dio la spira;
    Et omne umano per sè ha l’alma sua.
    Et tu, che la ignoranzia te tira,
      Contra del vero formando arguminti,
    Reguarda el fine de la vita tua,
    Chè, con la pena, vederai che minti.
      Tu poni el cielo et anco el moto eterno,
    Formando filosofice ragioni,
    Le qual de l’alma farino mal governo.
      Senza subiecto moto et transmutare
    Non cridono le ceche opinioni
    Che ’l mondo possa in tempo comenzare.
      Io ciò confesso in lume de natura,
    La qual comprende _creazione_,
    Chè de rigotta non se fa figura
      Ma, spiculando, la virtù possente,
    Ad cui sol se conven creazione,
    Li cieli el mundo fece de niente.
      Ciò che comenza in tempo, in tempo more;
    Passando et rinovandose li moti
    Del mundo, pur s’appressa all’ultime ore.
      Del quando sonno incerti li mortali, [C. c. 78]
    Che li secreti divini non sonno noti,
    Ma sonno celati li più speziali;
      Ma quando tornarà l’anno magiure,
    Che omne stella de l’ottava spera
    Serà nel sito del primo splendure,
      Considerando le passate etati
    Et noi che semo nell’ultima schera,
    Seranno l’acti umani terminati.
      Qui coniectur[212] secundo el parer mio,
    Et so che nostra conoscenza umana
    È cosa stulta verso l’alto Dio.
      Ma comenzando alla etade prima,
    Da Adaam fine ad Noè se mustra piana,
    Che pure[213] nui femo nell’ultima scrima.
      Da Adaam fine ad Noè tornò lo Sole
    Mille ducento quaranta doie volte
    Ne le prime stelle, si come far sole;
      Et da Noè fine ad l’Abraama lista
    Fo novecento quaranta doie volte,
    Et po’ Abraam, sorse el gran Iurista.
      Ciò fo Moises con l’antica legge;
    Da poi fo Cristo con l’ultimi iurni:
    Lasso la fine a Lui che tucto regge.
      Chè termenare el mundo è in suo volere,
    Li moti naturali e li diurni.
    De tucti ciel, secundo el mio vedere.
      Ma qui resurge el dubitare umano,
    Considerando le gente passate,
    Che sopra lor el ciel non fo più sano.
      Se ’l cielo impressioni peregrine [C. c. 78 t.]
    Non ha, si come le cose create,
    Donqua, perchè è de noi più breve ’l fine?
      Perchè sì prodi? Perchè li giganti
    Erano al tempo? Perchè s’è smarrita
    Natura umana nell’acti cotanti?
      Dico che ciò che è creato in tempo
    In lui fo sempre la virtù finita;
    Passando stato declina per tempo.
      Li septe cieli con l’ottavi lumi,
    Che hanno le potenzie terminate,
    Sì come è scripto ne’ sacri volumi,
      Quando in primo tempo fuor creati,
    Ciascun facia gli effecti in summitate
    Con li eleminti puri immaculati;
      Ma per diversi et per antichi cursi,
    Le quattro qualitate son corropte,
    Però li gran difecti son discursi.
      Guarda la terra rotonda creata,
    Sì come le sue parte son diropte
    Et come nel suo corpo è concavata.
      Per più vedere prindi quisto exemplo,
    Advenga che non sia come se pone,
    Ma meglio senterai ciò ch’io contemplo.
      Simel è el cielo de la nova sezza,
    Che mustra nova più perfeczione
    Et antiquando sua virtù se sprezza.
      Non dico che non sia alto Saturno
    Novanta[214] circhi quanto ch’è la Terra,
    Sì come fo creato el primo giurno
      Novantacinque dico ch’è più Iove, [C. c. 79]
    Quanto è la Terra et Marte et poco sopra;
    Secundo Ptolomeo son queste prove.
      El Sole è più cento sexanta sei,
    Et è de vinti septe parte l’una
    Mercurio secundo gli occhi mei.
      La terza stella è simele. En tanto[215]
    Et della terna parte è la Luna[216]:
    De ciò ch’io dico qui non te milanto.
      Ma ’l cielo, in quanto è corpo ’n sua virtute
    Determinato, conven che pur manche,
    Et le nature sonno diminute.
      Donqua te cessa, o loico tristo,
    Con le sofiste tue ragioni bianche,
    Chè senza fe’ del ben non se fa acquisto.
      La fede non ha merto de salute
    Ove l’umana vista vede el quia
    Tacciase ’l quare de l’alte vedute
      Fede e credenza con l’accesa spene
    Demustrano de gloria la via,
    La qual conduce nello eterno bene,
      Sopra li cieli, nel beato regno,
    Ove l’umano spirito è benegno.


CAPITOLO II

      Bello è ’l tacere de cotanta cosa,
    Considerando el mio poco intellecto,
    Ma la gran fede me move et excusa;
      Sì ch’io ne prego la virtù de sopra
    Ch’allume l’alma del beato aspecto,
    Che l’imaginare conseguisca l’opra.
      Era el figliolo ’nanti el moto e ’l tempo, [C. c. 79 t.]
    El patre col figliolo una natura
    Eterna, che non cade mai suo tempo.
      Quest’era prima presso ’l primo agente;
    Se l’esser tucto per lui ten figura,
    El facto senza lui, dico, è niente:
      Et ciò ch’è facto era vita in Lui,
    Sì come forma nella vita eterna;[217]
    Et questa vita è luce de nui.




SONETTI ATTRIBUITI A CECCO D’ASCOLI


I

LA PIETRA FILOSOFALE[218]

      Chi solvere non sa nè assottigliare,
    Corpo non tocchi nè argento vivo,
    Per chè non può lo fixo e ’l volativo
    Tenere a chi non sa de’ dua un fare.

      Fatelo adunque stretto abbracciare
    Con acqua viva et sal dissolutivo,
    Ter bene coque pian sì che sie privo
    Della terra mama la qual lo fa celare.

      Allor vedrai fuggir la nocte obscura
    Et ritornar lo sol lucente et bello
    Con molti fiori ornato in sua figura.

      Questa è la preta, questo è quello
    Delli fisici l’antica scriptura
    Che ’n sulla ’ncudin batte lo martello.


II

A MESSER CINO DA PISTOIA[219]

      Di ciascheduna mi mostra la guida
    Per qual vertù si move mia favella,
    Et poi la sesta spera ognor mi affida
    Tenendo la bilancia in man per ella.

      Il terzo cerchio ’l cor mena et appella,
    E l’amorosa fiamma che v’annida
    Del dolce dire Apol ve rinnovella,
    Che par che sua vertù con voi divida.

      Ciascun de questi corpi per voi impetra
    Salute et fama, et non ricchezze nove
    Or non lasciate ’l fior che frutto move.

      Pistoia per sua parte non si spetra
    Girando ’l cielo per questi anni nove,
    Dico se la pietà ciò non rimove.


III

A MESSER CINO DA PISTOIA[220]

      La ’nvidia a me à dato sì de morso,
    Che m’à privato de tutto mio bene,
    Et àmmi tratto fuor d’ogni mia spene
    Pur ch’alla vita fosse brieve il corso.

      O messer Cino, i’ veggio ch’è discorso
    Il tempo omai che pianger ci convene,
    Poi che la setta che ’l vizio mantene
    Par che dal cielo ogni ora abbi soccorso.

      Veggio cader diviso questo regno
    Veggio che a ogni buon convien tacere,
    Veggio quivi regnar ogni malegno;

      E chi vi vuol suo stato mantenere
    Convien che taccia quel che dentro giace;
    Nell’alma, guerra, e, nella bocca, pace.


IV

A DANTE[221]

      Tu vien da lunge con rima balbatica,
    La più che udrò per infino che vivero,
    Chè, se venisse ove nasce il pivero,
    Si basterebbe ad aste alla sua pratica

      Se stai fra gente ch’è sempre lunatica
    Leggere ti convien siffatto livero,
    Che tu possi notar quel ch’io ti scrivero,
    S’tu vuo’ asseguir da Dio virtù Dalmatica.

      Non star con lor con vita melanconica,
    Usa cautela e spesso la ricapita,
    E sappiti mostrar Francesco e Rodico.

      Va, come ti convien, diritto e clodico.
    Capiterai, come quei che ben capita,
    Più chiaro assai che la preta sardonica.

      A me la tua parola stretta legola,
    E tu la mia non la tenere a begola.


V

A FRANCESCO PETRARCA[222]

      Io solo sono in tempestati fiumi
    E rotte son le vele del mio ingegno;
    Non spero di salute omai più segno,
    Che ’l tempo ha variato li costumi.

      Di grande altezza vengono i gran tumi;
    D’extremo riso vien pianto malegno;
    Non è fermezza nel terrestre regno;
    Passano gli atti umani come fumi.

      La guida che fu mia sanza sospetto
    Col dolce inganno m’à fatto infelice,
    E vo’ traendo guai sotto il suo velo.

      Di lagrimar e di sospir m’aggelo,
    Chè più non son quel Cecco che uom dice,
    Avvenga che somigli lui in aspetto.


VI

A FRANCESCO PETRARCA[223]

      I’ non so ch’io mi dica, s’io non taccio;
    Cieco non sono, e cieco convien farme:
    Per mia salute io ho renduto l’arme;
    Chè meno stringo quanto più abbraccio.

      Ma io vivendo [ognor?] nell’empio laccio,
    Levando gli occhi [mie]i non so guidarme,
    Nè posso ormai del bene contentarme,
    Sì m’arde e strugge sempre il freddo ghiaccio.

      Sì ch’io ridendo vivo lagrimando,
    Come fenice nella morte canto.
    Ahimè! sì m’ha condotto il negro manto!

      Dolce è la morte, po’ ch’io moro amando
    La bella vista coverta dal velo,
    Che per mia pena la produsse il cielo.




INDICE


  Prefazione                                       pag. 5
    I. L’Autore                                         5
   II. L’Acerba                                        11
  I Codici dell’Acerba                                 17
  Le edizioni dell’Acerba                              20
  Altre opere di Cecco                                 23
  Bibliografia                                         25
  Archivio di Stato di Napoli. — Registri
    Angioini, n. 262, f. 82 r. e t. — 31 Maggio
    1327, X.ª Indizione                                33
  Libro primo                                          35
    Capitolo I                                         35
    Capitolo II                                        37
    Capitolo III                                       39
    Capitolo IV                                        42
    Capitolo V                                         43
    Capitolo VI                                        45
    Capitolo VII                                       47
    Capitolo VIII                                      48
    Capitolo IX                                        51
  Libro secondo                                        52
    Capitolo I                                         52
    Capitolo II                                        54
    Capitolo III                                       56
    Capitolo IV                                        58
    Capitolo V                                         59
    Capitolo VI                                        61
    Capitolo VII                                       62
    Capitolo VIII                                      63
    Capitolo IX                                        64
    Capitolo X                                         65
    Capitolo XI                                        67
    Capitolo XII                                       68
    Capitolo XIII                                      71
    Capitolo XIV                                       72
    Capitolo XV                                        74
    Capitolo XVI                                       76
    Capitolo XVII                                      77
    Capitolo XVIII                                     78
    Capitolo XIX                                       79
  Libro terzo                                          80
    Capitolo I                                         80
    Capitolo II                                        84
    Capitolo III                                       85
    Capitolo IV                                        86
    Capitolo V                                         86
    Capitolo VI                                        87
    Capitolo VII                                       87
    Capitolo VIII                                      88
    Capitolo IX                                        89
    Capitolo X                                         89
    Capitolo XI                                        90
    Capitolo XII                                       90
    Capitolo XIII                                      91
    Capitolo XIV                                       91
    Capitolo XV                                        92
    Capitolo XVI                                       92
    Capitolo XVII                                      93
    Capitolo XVIII                                     93
    Capitolo XIX                                       94
    Capitolo XX                                        94
    Capitolo XXI                                       95
    Capitolo XXII                                      96
    Capitolo XXIII                                     96
    Capitolo XXIV                                      97
    Capitolo XXV                                       97
    Capitolo XXVI                                      97
    Capitolo XXVII                                     98
    Capitolo XXVIII                                    98
    Capitolo XXIX                                      98
    Capitolo XXX                                       99
    Capitolo XXXI                                      99
    Capitolo XXXII                                    100
    Capitolo XXXIII                                   100
    Capitolo XXXIV                                    101
    Capitolo XXXV                                     102
    Capitolo XXXVI                                    102
    Capitolo XXXVII                                   102
    Capitolo XXXVIII                                  103
    Capitolo XXXIX                                    104
    Capitolo XL                                       105
    Capitolo XLI                                      105
    Capitolo XLII                                     106
    Capitolo XLIII                                    106
    Capitolo XLIV                                     107
    Capitolo XLV                                      107
    Capitolo XLVI                                     107
    Capitolo XLVII                                    108
    Capitolo XLVIII                                   108
    Capitolo XLIX                                     110
    Capitolo L                                        111
    Capitolo LI                                       111
    Capitolo LII                                      113
    Capitolo LIII                                     114
    Capitolo LIV                                      114
    Capitolo LV                                       115
    Capitolo LVI                                      115
  Libro quarto                                        116
    Capitolo I                                        116
    Capitolo II                                       118
    Capitolo III                                      120
    Capitolo IV                                       124
    Capitolo V                                        127
    Capitolo VI                                       129
    Capitolo VII                                      133
    Capitolo VIII                                     136
    Capitolo IX                                       138
    Capitolo X                                        141
    Capitolo XI                                       143
    Capitolo XII                                      145
    Capitolo XIII                                     146
  Libro quinto                                        147
    Capitolo I                                        147
    Capitolo II                                       151
  Sonetti attribuiti a Cecco d’Ascoli                 153
    I. La pietra filosofale                           153
    II. A Messer Cino da Pistoia                      154
    III. A Messer Cino da Pistoia                     154
    IV. A Dante                                       155
    V. A Francesco Petrarca                           155
    VI. A Francesco Petrarca                          156




NOTE:


[1] S. De Renzi, _Storia della Medicina in Italia; Scrittori della
S. Salernitana; Storia documentata della Scuola medica di Salerno_,
Napoli, Nobile, 1857.

[2] _Un libro di entrate e spese dell’inquisitore fiorentino_, 1322-29
(nelle Collettorie Vaticane), in _Arch. stor. ital_., fasc. 222, ser.
V. t. XXVII, pp. 346-55.

[3] G. Rondoni, _I giustiziati a Firenze dal sec. XV al sec. XVIII_, in
_Arch. stor. ital_., 1901, disp. 4.ª, pp. 385 sgg.

[4] L. Luzzatti, _Il monumento espiatorio a Michele Servet a Ginevra_,
in _N. Antologia_, a. 38, fs. 764, 16 ottobre 1903.

[5] _Incipit liber acerbe etatis. Capitulum primum tractat de
ordinatione celorum et de eorum proprietatibus in universali. Inquit
Cichus de Eschulo._ (Cod. Laur.).

[6] Sulla sfericità della Terra, confr. Brunetto Latini, _Tesoro_, L.
II, cap. 25; _Dottrinale_ di I. Alighieri, cap. II; Campano, _Tractatus
de sphaera_, cap. IV.

[7] Cfr. Dante, _Conv._ II, 4; _Acerba_, I, 2 e _Sphaera_, a c. 3
_verso_.

[8] Cfr. Dante, _Par._ XXVIII, 50-51.

[9] Cfr. Ristoro, _Comp. d. mondo_, L. I, c. 18; Dante, _Conv._ II, 14;
_Sphaera_, a c. 9 e 10.

[10] Cfr. Ristoro, I, 18, III, 2; _Acerba_, L. II e VIII.

[11] Confr. Dante, _Conv._ II, 14.

[12] Cfr. Ristoro, I, 18; Dante, _Conv._ III, 12; _Par._ XX, 7.

[13] Cfr. _Acerba_, III, 1; Dante, _Conv._ II, 6; _Purg._ I, 19;
Ristoro, I, 18.

[14] La Luna. Cfr. Ristoro, I, 18.

[15] _Capitulum secundum, tractat de intelligentiis moventibus istos
celos._ (Cod. Laur.).

[16] Cfr. Dante, _Par._ XXVIII.

[17] Cfr. Petrarca, _Canz._ I, XI, stan. 2.

[18] Cfr. Dante, _Purg._ XVI, 76-78.

[19] Su questo argomento dell’anima unica ritorna nel Lib. V, c. 1.º
(Bariola).

[20] Nel Cod. Cas.e le quattro terzine in cui si parla di Dante sono
sostituite da queste altre:

      Move ciascun l’angelica natura[21]
    Et move i cieli in disiosa forma,
    Non fatigando lor substanzia pura.
      Sforzata cosa non ha moto eterno;
    Anco de sotto el tempo se desforma:
    Et ciò non cade in acto sempiterno;
      Perchè, se nelle Intelligenzie nude
    La voglia corporale se converte,[22]
    Allor divina non se schiude.
      Ciascun intende solo Dio contemplando[23]
    Tutte le cose manifeste e certe,
    Sì come nui nello specchio guardando.

[21] Così ha pure il Cod. III del Pl. XIC sup. della Laurenziana,
invece delle terzine rivolte a Dante:

      Move ciascun angelica natura
    De nove cieli in disiosa forma.

Cfr. Dante, _Par._ XXIX, 52-53.

[22] Cod. III, Pl. XIC: La voglia nel podere se converte.

[23] Cod. III. Pl. XIC: Ciascuna move sol deo contemplando. Cfr. Dante,
_Par._ XXIX, 76.

[24] _Cap. III, de speris elimentorum et de multis aliis._ (Cod. Laur.).

[25] L’acqua e la terra, come gravi che tendono al centro, tengono il
luogo più basso, ma, degli elementi, il _substratum_, l’_in sè_, che
Dante direbbe la _quiddità_, si cela, ecc.

[26] Nel Com. alla _Sfera_, ediz. Venezia, 1499, a c. 8 _recto_ in
fine, tratta _ex professo_ di tale questione.

[27] _Cap. IV, de obscuritate Solis et lune et de maculis ipsius lune._
(Cod. Laur.)

[28] I. Alighieri, _Dottrinale_, XXXVI, 37-48.

[29] _Cap. V, de stellis comatis et quid significant cum apparent._
(Cod. Laur.).

[30] Stelle cadenti e comete. Cfr. _Acerba_, IV, 3; V. Beauvais, IV,
71; _Dottrinale_, c. 32; Dante, _Purg._ V, 37:

    Vapori accesi non vid’io sì tosto,
    Di prima notte mai fender sereno.

[31] _Cap. VI, de natura ventorum._ (Cod. Laur.).

[32] Pei venti, cfr. Bellovacense, IV, 27; _Dottrinale_, c. 31. La
teoria è meglio trattata in _Acerba_, IV, c. 3º.

[33] Cod. Cas.: cerchiata.

[34] _Cap. VII, de pluvia, grandine, nive, pruma et rore._ (Cod. Laur.).

[35] _Dottrinale_, c. XXVIII. Per la pioggia, cfr. Dante. Purg. V:
Nell’aere si raccoglie | quell’umido vapor che in acqua riede | Tosto
che sale dove il freddo il coglie. — E il Bellovacense, _Speculum
naturale_, IV, XLV: Non enim fit pluria nisi ex vapore multo quoniam
infrigidatus est; e, per la grandine: Cuius generationis causa
caliditas est: quod est in vapore ascendente a terra, unde fit in
partibus calidis et temporibus calidis plus quam frigidis (IV. XLIX).

[36] _Cap. VIII, de tronitruis, fulgure et terremotibus_. (Cod. Laur.).

[37] Tuoni, saette, baleni, folgore. Cfr. B. Latini, _Tesoro_, L. II,
c. 37; Bellovacense, L. IV, cap. 55 e 59: _Dottrinale_, cap. XXVII. Sui
terremoti, il _Dottrinale_, cap. XXX, dà una spiegazione diversa. Il
Bellovacense dà ambedue le spiegazioni. Cfr. anche _Dottrinale_, L. IV,
c. 27 e _Acerba_ L. VI, c. 26 e 27.

[38] Cod. Casan.; lega.

[39] Cfr. per la _sagitta_ con o senza _pondo_, e per tutto questo
Capitolo, RISTORO D’AREZZO, _Della Composizione del mondo_, pubb. da
Enrico Narducci in _Bibl. rara_ del Daelli, Milano, 1864. Lib. VII,
cap. II.

[40] _Cap. VIIII, de arcu sine yride et via lactea_. (Cod. Laur.).

[41] Sui colori delle stelle e dell’iride, cfr. _Dottrinale_, c. 35.

[42] _Incipit liber secundus. Capitulum primum, ubi tractat de fortuna
reprobando Dantem. Inquit Cichus de Esculo_. (Cod. Laur.).

[43] Cfr. Dante. _Inf_. VII, _Purg_. XVI, _Par_. IV. Veggasi: Fratris
Iohannis De Serravalle Or. Min. Episcopi et Principis Firmami (1417),
_Translatio et Comentum totius libri Dantis Aldigherii, cum textu
italico Fratris Bartholomaei a Colle_, Prato, Giachetti, 1891.

[44] Dante, _Purg_. XVI.

[45] _Cap. II, de formatione humane creature._ (Cod. Laur.).

[46] Cfr. Dante, _Purg_. XXV.

[47] _Cap. III, de qualitatibus anime per aliqua signa corporis._ (Cod.
Laur.).

[48] _Cap. IV, de difinitione virtutis in genere._ (Cod. Laur.).

[49] _Cap. V, de iusticia et a quo celo procedit._ (Cod. Laur.).

[50] Cfr. Dante, _Par._ XXVII, 121-123.

[51] _Cap. VI, de fortitudine et a quo celo procedit_. (Cod. Laur.).

[52] Cfr. Petrarca, _Canz_. P. I, Son. 9º.

[53] Cod. Cass.: insigniti.

[54] _Cap. VII, de prudentia et a quo celo procedit._ (Cod. Laur.). Nel
Casanatense, il cap. VII è sostituito dall’VIII e viceversa.

[55] _Cap. VIII. De temperantia contra Esculanos, et a quo celo
procedit._ (Cod. Laur.).

[56] Cod. Cass.: Fundata fusti nel doppiato cerchio.

[57] Cfr. Dante, _Purg._ 37-42.

[58] _Cap. IX. De liberalitate et a quo celo procedit._ (Cod. Laur.).

[59] _Cap. X. De humanitate et a quo celo procedit._ (Cod. Laur.).

[60] _Cap. XI. De castitate, constantia, abstinentia, mensura et
magnanimitate._ (Cod. Laur.).

[61] _Cap. XII. De nobilitate et a quo celo procedit, reprobando falsas
opiniones._ (Cod. Laur.).

[62] Cfr. Dante, _Conv._ Tratt. IV. cap. XX.

[63] Altri Codici: _acute_.

[64] Cfr. Dante, _Purg._ VII, 21-23 e _Parad._ VIII.; _Dottrinale_, c.
XIV, 51-54.

[65] Allude ai Colonnesi. Dalla famiglia Colonna egli sperava la
salvezza d’Italia.

[66] _Cap. XIII. De avaritia, contra illos de Patrimonio et Ducatu._
(Cod. Laur.).

[67] Cfr. Dante, _Inf._ VI.

[68] _Floncha_ e _fioncha_ (fionda) in _Statuti volgari_ del 1387 di
Ascoli Piceno. illustr. da C. Mazzi, in _La Bibliofilia_ di L. Olschki,
Firenze, V. II, 1900-’901, Disp. 9-10.

[69] Sugli Angioini, cfr. Dante, _Purg._ XX.

[70] _Cap. XIV. De superbia, contra Romanos._ (Cod. Laur.).

[71] Sulla vanagloria, cfr. Dante, _Purg._ XI, 91-93.

[72] _Cap. XV. De luxuria, contra Bononienses et Tuscos._ (Cod. Laur.).

[73] A tutti i comentatori dell’_Acerba_ è sfuggito questo accenno a
Firenze, per la rotta di Doccia, secondo la lezione del C. Casanatense.
Anche il Bariola riporta dal C. Laurenziano: _chioza_ (venetismo) che
fa rima con doza della terzina susseguente, e, benchè gli sorga il
sospetto che _chioza_ stia a significare le Pleiadi, pure non si dà
conto del valore topografico di _doza_. Il Castelli poi: _ghiaccia_,
e, nella seconda terzina: _Che lagrimando irriga la sua faccia_, che
non sappiamo donde sia tolto. Noi, invece, pensiamo che _Doccia_ voglia
riferirsi alla sconfitta di Altopascio (23 settembre 1325). Di qui si
posson trarre varie conseguenze d’indole politica e sul tempo in cui
potè essere scritto questo capit. dell’_Acerba_.

[74] _Cap. XVI. De invidia contra Marchianos et Ronandiolos._ (Cod.
Laur.).

[75] Cfr. Petrarca, Son. 173 P. I, Roma 1821.

[76] _Cap. XVII. De gula, contra Lombardos._ (Cod. Laur.).

[77] Cod. Cas.: se more.

[78] _Cap. XVIII. De vanagloria._ (Cod. Laur.).

[79] _Cap. XVIIII. De ira et accidia._ (Cod. Laur.).

[80] _Incipit liber tercius, in quo tractatur de virtute amoris et
animalibus et lapidibus preciosis. Inquit Cichus de Esculo._ Cod. Laur.

[81] Cfr. Dante, _Vita Nova_, XX.

[82] Dante, _Ibidem_.

[83] La canz. di Guido pure commentata da Dino del Garbo e pubbl. a
Venezia, col tit.: _Enarratio Cantionis Guidonis de Cavalcantibus de
natura et motu amoris_.

[84] Cfr. Dante, _Vita Nova_, XX.

[85] Cfr. Cecco, _De Principiis Astrologiae_; Dante, _Vita Nova_, 2, 3,
4, 9, 12, 13, 21, 24, 43; _Conv._ IV, 16; _De Mon._ II, 3.

[86] Dante in risposta a Messer Cino: _Dante, quando per caso
s’abbandona_. Cfr. anche l’Epistola di Dante a Cino: _Exulanti
Pistoriensi Florentinus exul immeritus, per tempora diuturna salutem,
et perpetuae caritatis ardorem_.

[87] Cfr. S. Thomae, _Declaratio quorundam articulorum, etc._, opusc.
2, n. Opere, t. XIX, Venezia, 1754, p. 42; Dante, _Purg._ XVI-XVIII;
_Par._ XIV, 30, XVII, 17, 18, XIX, 40-43.

[88] _Cap. II. De natura fenicis, assimilando ipsam virtuti._ Cod. Laur.

[89] Cfr. Dante, _Inf._ XXIV, 106-111 — Petrar. _Canz._, P. I, son. 151.

[90] Il Cod. Laur. ha: Ne la luna.

[91] _Cap. III. De natura aquile._ Cod. Laur.

[92] Cfr. Dante, _Purg._ IX, 19-33.

[93] Il Cod. Laurenziano ha: da presso: il Casanatense: depresso.

[94] _Cap. IIII. De natura lumerpe._ Cod. Laur.

[95] Il Laur. ha: drime.

[96] Il Casan. ha: dolce.

[97] _Cap. V. De natura stellini._ Cod. Laur.

[98] _Cap. VI. De natura pellicani._ C. Laur.

[99] _Cap. VII. De quatuor animalibus viventibus ex quatuor elementis._
C. Laur.

[100] Il Notar Jacopo da Lentini:

    La salamandra audivi,
    Che dentro al fuoco vive stando sana.

E il Petrar., _Canz._, P. I, canz. XX, st. 4:

    Di mia morte mi pasco, e vivo in fiamme;
    Stranio cibo, e mirabil salamandra!
    Ma miracol non è: da tal si vole.

[101] _Cap. VIII. De natura plombini._ C. Laur.

[102] _Cap. VIIII. De natura strucii._ C. Laur.

[103] _Cap. X. De natura cygni._ C. Laur.

[104] _Cap. XI. De natura cycognie._ C. Laur.

[105] Cfr. Dante, _Purg._ XXV, 10-12.

[106] _Cap. XII. De natura cichale._ C. Laur.

[107] _Cap. XIII. De natura noctua_. C. Laur.

[108] _Cap. XIIII. De natura perdicis_. C. Laur.

[109] _Cap. XV. De natura yrundinis_. C. Laur.

[110] Il Laur. ha: vertuose.

[111] _Cap. XVI. De natura uppompe_ (sic). C. Laur.

[112] _Cap. XVII. De natura calandrini._ C. Laur.

[113] _Cap. XVIII. De natura vulturis._ C. Laur.

[114] _Cap. XIX. De natura falconis._ C. Laur.

Nel C. Casanatense il cap. XIX tratta del rospo, il XX dell’ostrica, il
XXI del delfino, il XXII del basilisco, il XXIII dell’aspide, il XXIV
del drago, il XXV della vipera, il XXVI del coccodrillo, il XXVII dello
scorpione, il XXVIII del botto, il XXIX del ragno, il XXX del leone, il
XXXI del falcone.

[115] _Cap. XX. De natura grifonis._ C. Laur.

[116] _Cap. XXI. De natura pavonis._ C. Laur.

[117] Cfr. G. Boccacci, _Vita Dantis_.

[118] _Cap. XXII. De natura gruis._ C. Laur.

[119] ad inchino, ha il Cas.se.

[120] giovini, nel Cas.se.

[121] Cfr. Dante, _Purg._ XX, 86-91.

[122] _Cap. XXIII. De natura turturis._ C. Laur.

[123] _Cap. XXIIII. De natura corvi._ C. Laur.

[124] _Capitulum de animalibus aquosis, et primo de sirena._ C. Laur.

[125] Il Laur.: doplo; il Cas.: po lo.

[126] _Cap. II. De gronco et arengo._ C. Laur.

[127] _Cap. III. De orospo._ C. Laur.

[128] _Cap. IIII. De cancro et de ostricis._ C. Laur.

[129] _Cap. V. De dalfino._ C. Laur.

[130] Cfr. Dante, _Inf._ XXII, 19-21.

[131] _Capitulum de animalibus venenosis, et primo de basalisco._ C.
Laur.

[132] _Cap. II. De yaspide._ C. Laur.

[133] _Cap. III. De dracone._ C. Laur.

[134] _Cap. IIII. De vipera._ C. Laur.

[135] _Cap. V. De cocodrilo._ C. Laur.

[136] _Cap. VI. De scorpione._ C. Laur.

[137] Cfr. Dante, _Purg._ IX, 5-6.

[138] _Cap. VII. De botrace._ C. Laur.

[139] _Cap. VIII. De aranea._ C. Laur.

[140] _Explicit de animalibus venenosis: sequitur de quadrupedibus.
Primo de leone._ C. Laur.

[141] Casan.: degenere soa stirpe.

[142] Casan.: arida sepe.

[143] Casan.: sancta.

[144] _Cap. II. De elefante._ C. Laur.

[145] _Cap. III. De leopardo._ C. Laur.

[146] _Cap. IIII. De yema_ (sic). C. Laur.

[147] _Cap. V. De pantera._ C. Laur.

[148] _Cap. VI. De tygro._ C. Laur.

[149] _Cap. VII. De castoreo._ C. Laur.

[150] _Cap. VIII. De unicorno._ C. Laur.

[151] _Cap. IX. De symia._ C. Laur.

[152] _Cap. X. De cervo._ C. Laur.

[153] Cfr. Petrar. _Canz._ P. I, son. 156.

[154] _Capitulum de lapidibus preciosis, et primo de dyamante, zaphiro
et smeraldo._ C. Laur.

[155] _Cap. II De agate, alestrio et berilo._ C. Laur.

[156] _Cap. III. De topatio, dyaspro et gagate._ C. Laur.

[157] Questi due ultimi versi trovansi alla fine del cap. nel Casan. —
Nel Laur. questo cap. e il seguente ne formano invece uno solo.

[158] Qui il Casan. continua il cap.; mentre il Laur. ne fa uno nuovo,
completando il cap. coi due versi con cui si chiude il precedente nel
Casan.

[159] _Cap. IIII. De curopa, panterone et cintro._ C. Laur.

[160] _Cap. V. De dyacodio, alestone et berilo._ C. Laur.

[161] _Cap. VI. De carbunculo, epistite et amantisto._ C. Laur.

[162] _Cap. VII. De ceramo, calendonio et cristallo._ C. Laur.

[163] Trono, il Casan.

[164] _Cap. VIII. De lentra, celidonio et corallo._ C. Laur.

[165] _Cap. VIIII. De malgarita, galasia et corniola._ C. Laur.

[166] Le stelle. Cfr. Dante, _Par._ II., 31, che chiama la Luna:
_eterna margherita_.

[167] _Incipit liber quartus, in quo tractatur de dubiis naturalibus
que sunt circa centia_ (sic) _mundi. Inquit Cichus de Esculo._ C. Laur.

[168] Dante, _Par._ II, dice che non lo seguissero in pelago quei che
s’eran messi in piccioletta barca. Cfr. _Acerba_, L. IV, c. 3, in fine
a c. 10.

[169] _Cap. II. De questionibus naturalibus circa corpora celestia_, C.
Laur.

[170] Ristoro, L. V, c. 2.

[171] Cecco, _Sphaera_, a c. 14 _recto_.

[172] Cecco, _Sphaera_, proemio.

[173] _Cap. III. De questionibus naturalibus circa ignem et vertit se
ad alia._ C. Laur.

[174] Cfr. Dante, _Inf._ XIII, 40-42; V. Beauvais, _Speculum naturale_;
Iac. Aligh. _Dottrinale_, 31.

[175] Il Cas.: sciocchi.

[176] Cecco, _Sphaera_, a c. 23 _recto_.

[177] Cecco, _Sphaera_, a c. 24 verso.

[178] _Cap. IIII. De questionibus naturalibus circa aerem_. C. Laur.

[179] Cfr. Iac. Aligh., _Dottrinale_, che dà una spiegazione diversa.

[180] F. Petrarca, _Canz._ Part. II, son. 20.

[181] F. Petrarca, _Canz._ Part. II, son. 1º.

[182] Cfr. Messer Cino, nella Canz.: _La dolce vista e ’l bel guardo
soave_; e, nelle Rime originali del Petrarca pubbl. dall’Ubaldini, il
frammento, in data 30 novembre 1349.

[183] _Cap. V. De questionibus naturalibus circa aquas._ C. Laur.

[184] Il C. Laur. ha: al mezo de sota.

[185] Petriolo, ha il Casan.; e Cagnano, entrambi i Cod.

[186] Cfr. Dante, nel son.: _Io sono stato con amore insieme_.

[187] _Cap. VI. De questionibus circa terram._ C. Laur.

[188] Nel linguaggio d’allora, _forma_ è la natura, la qualità
speciale, l’intrinseco delle cose, (Bariola). Del resto, era il sistema
predominante della Filosofia Scolastica. Confrontisi, per tutti, S.
Tommaso d’Aquino.

[189] Cecco, _Sphaera_, a c. 9 _verso: Omnis civitas et quod habitatur
habet triplicem significationem, scilicet climatis, provinciae et
aedificationis_.

[190] Ristoro, L. VII, p. III, c. 3º.

[191] Cfr. Dante, _Purg._ XXV, 88. Il Buti, commentando il v. 2 del
c. XI del _Purg._, dice: _Lo luogo circoscrive lo locato_. S. Tommaso
direbbe: alle anime separate dai corpi si determinano alcuni luoghi
corporali, dove sieno _quasi in luogo_.

[192] _Cap. VII. De questionibus naturalibus circa umbras._ C. Laur.

[193] Cfr. Iac. Aligh., _Dottrinale_, c. 34.

[194] _Cap. VIII. De questionibus naturalibus circa animalia._ C. Laur.

[195] _Cap. VIIII. De questionibus naturalibus circa actus humanorum._
C. Laur.

[196] Cfr. Dante, _Purg._, VII.

[197] Dante, nella _Canz.: Donna mi reca nello core ardire_.

[198] _Cap. X. Ad idem._ C. Laur.

[199] Sozo, il Laur.

[200] Galeno, _De usu partium_, L. XV.

[201] _Cap. XI. Ad idem._ C. Laur.

[202] Cfr. Dante, _Inf._ VI, in fine.

[203] Cfr. Cecco, _De Principiis Astrologiae_. — Dante, _Conv._ II. 9,
lin. 101 sgg.; _Par._ XXII, 112 sgg.

[204] _Cap. XII. Ad idem._ C. Laur.

[205] Cfr. Dante, _Purg._ XV, 56.

[206] _Cap. XIII. In quo deridetur Dantes._ C. Laur.

[207] Trovasi anche nel cod. Laur. III, Pl. XIC, sec. XIV.

[208] Altri Cod.: voler.

[209] _Acerba_, L. I, c. 2º. Cfr. Dante, _Purg._ XXV.

[210] Altri Cod.: norma.

[211] Altri Cod.: strocca.

[212] Altri Cod.: qui comenzarò.

[213] Altri Cod.: peiur.

[214] Altri Cod.: octanta cinque.

[215] Altri Cod.: In tanto.

[216] Altri Cod.: Et de le trenta parte si è la luna.

[217] In altri Codici, come nel Laurenziano III del Pluteo XIC
superiore, secondo il Bariola, si ha:

    Sì come forma nella mente eterna,
    E questa vita è luce de miseria.

Mentre nel Palatino di Firenze:

    Et questa vita è l’aire in nui.

Così pure, più o meno alterati, in parecchie edizioni. In quella del
1476, si legge, invece:

    Sì come forma nella mente eterna,
    E in questa vita luce mai s’interna.

Questo capitolo manca in molti cod. e nell’ediz. veneta del 1495.

[218] Questo sonetto fu tratto dal Bariola dal cod. Magliabechiano
3, cl. XVI. Sullo stesso argomento vi è un altro sonetto che, in
una edizione quattrocentina della _Summa perfectionis_ del Geber, è
attribuito a Cecco; mentre in un cod. di Montpellier esso è attribuito
a Dante; ed in altri cod. del sec. XIV e XV o a Cecco, o a Dante o a
Frate Elia. Lo pubblicò Oddone Zenatti di sul cod. Riccardiano 946, c.
10, (_Una canzone capodistriana del sec. XIV sulla pietra filosofale_,
in Archiv. stor. per Trieste, l’Istria e il Trentino, vol. IV, pagg.
81-117; e _Nuove rime d’alchimisti_, Estr. dal Propugnatore, N.º 8,
fasc. 21, Bologna, 1891). Come dice però il Paoletti, non sembra
fattura dell’autore dell’_Acerba_, e per l’ordine, e, molto più,
per l’uso e la frequenza di certi vocaboli; e, perciò, qui non lo
riproduciamo.

[219] Dal cod. d. V. 5, n. 433 del sec. XV della Bibl. Casanatense, in
risposta al sonetto di messer Cino: _Cecco, i’ ti prego per virtù di
quella_. Cfr. G. Carducci, _Rime di M. Cino da Pistoia e d’altri del
sec. XIV_, Firenze, Barbera, 1862, n. 58 e 79; L. Chiappelli, _Vita
e opere giuridiche di Cino da Pistoia_, Pistoia, Bracali, 1881, pagg.
78-79.

[220] Dal cod. Magliabechiano 991, cl. VII.

[221] Lo pubblicò Enrico Narducci dal cod. cartaceo dell’_Acerba_ del
sec. XV, n. 343, posseduto dal principe D. Baldassarre Boncompagni, a
carta 98, in risposta a un altro sonetto attribuito a Dante: _Cecco,
io son qua giunto in terra acquatica_. «Il Narducci non nasconde che il
prof. Alessandro D’Ancona, avendo trovato ambedue questi sonetti sotto
altro nome nel rovescio della carta 43 del primo volume della _Raccolta
di rime antiche_ mss. compilata dal Moncke e dal Biscioni, che si
conserva nella pubblica biblioteca di Lucca (num. gen. del _Catalogo
dei mss._ 530) fu il primo a far notare che i sonetti stessi sono
contesi a Dante e a Cecco d’Ascoli da Ser Ventura Monachi e da Giovanni
Lambertucci de’ Frescobaldi. Ma egli osserva che «ciò non distrugge
la possibilità che questi due sonetti siano l’uno di Cecco, di Dante
l’altro; anzi, nel dubbio, sembra più ragionevole cosa propendere per
l’autorità del codice più antico; oltre di che le molte varianti fra
i due codici non permettono di ritenerne la lezione come identica in
questa parte» G. Castelli, _op. cit._

[222] Pubblicato da Gio. M. Crescimbeni, di su un antico ms. della
bibl. Isoldiana e d’un altro della bibl. Chisiana, in risposta a
un sonetto attribuito a Petrarca giovane (1323): _Tu se’ ’l grande
Ascolan, che ’l mondo allumi_, che il Tiraboschi e il Lami attribuirono
invece a Ser Muccio Ravennate. Il Bariola e il Castelli, sull’autorità
di Francesco Trucchi, che notò aver il Lami erroneamente letto nel
cod. Riccardiano 1103 il nome di Muccio invece di Sennuccio del Bene,
rivendicarono al Petrarca la paternità del sonetto. Il cod. Laurenziano
n. 43 del pluteo XI e il Riccardiano 2823 l’attribuiscono pure al
Petrarca.

[223] Nel cod. Riccardiano 1103. Fu pubblicato la prima volta dal
Bariola, e pare abbia un riscontro nel sonetto del Petrarca: _Pace non
trovo, e non ho da far guerra_.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.



*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK L'ACERBA ***


    

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lieu of a refund. If you received the work electronically, the person
or entity providing it to you may choose to give you a second
opportunity to receive the work electronically in lieu of a refund. If
the second copy is also defective, you may demand a refund in writing
without further opportunities to fix the problem.

1.F.4. Except for the limited right of replacement or refund set forth
in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

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including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
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