Una misura eccezionale dei Romani - Il senatus-consultum ultimum

By Barbagallo

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Title: Una misura eccezionale dei Romani - Il senatus-consultum ultimum

Author: Corrado Barbagallo

Release date: October 13, 2025 [eBook #77044]

Language: Italian

Original publication: Roma: Loescher, 1900

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UNA MISURA ECCEZIONALE DEI ROMANI - IL SENATUS-CONSULTUM ULTIMUM ***


                           CORRADO BARBAGALLO


                         UNA MISURA ECCEZIONALE
                               DEI ROMANI

                      IL SENATUS-CONSULTUM ULTIMUM


            (STUDIO DI STORIA E DI DIRITTO PUBBLICO ROMANO)



                                  ROMA
                         ERMANNO LOESCHER & C.º
                      (BRETSCHNEIDER E REGENBERG)
                                  1900




               Catania — Tip. Sicula di Monaco e Mollica




INDICE


  PREFAZIONE.

  CAP. I. — _Due s. c. u.ª dei secoli V e IV a. C._ Un _s. c. u._
  del 464 o 463. La condizione dei debitori nella prima metà del
  sec. IV. M. Manlio Capitolino, l’agitazione plebea e il _s. c. u._
  del 381. Discussione sulla realtà storica del _s. c. u._ del 464.
  Discussione sulla realtà storica del _s. c. u._ del 381.

  CAP. II. — _I s. c. u.ª posteriori alla prima metà del IIº sec.
  a C._ La quistione agraria nel II. sec. a. C. L’opera di Tiberio
  Gracco e il tentativo di _s. c. u._ del 132. L’opera di C. Gracco
  e il _s. c. u._ del 121. Il _s. c. u._ del 100. Il _s. c. u._
  dell’83. Il _s. c. u._ del 77? Il _s. c. u._ del 63. Il _s. c. u._
  del 62. Il _s. c. u._ del 52. Il _s. c. u._ del 49. Il _s. c. u._
  del 48. Il _s. c. u._ del 47. Il _s. c. u._ del gennaio 43. Il _s.
  c. u._ del 29 maggio-19 agosto 43. Il _s. c. u._ del 40. _S. c.
  u._ª dopo la repubblica?

  CAP. III. — _Il Senatus consultum ultimum._ Origine del
  nome; occasioni in cui il _s. c. u._ è votato; esclusione
  dell’intercessio; persone da cui moveva; luogo e ora in cui si
  poteva votare; formula; persone a cui affidava la difesa della
  repubblica e modalità dell’affidamento. Misure d’ordine generale
  (dichiarazione d’_hostis publicus, tumultus, iustitium_). Misure
  speciali nel caso di una guerra estera, o di un’agitazione interna.
  Modalità dei giudizii contro i ribelli in aperta sedizione.
  Modalità dei giudizii contro i cospiratori. Misure speciali contro
  i magistrati ribelli all’osservanza della legge. Il _s. c. u._ nei
  suoi rapporti coi tribuni e coi comizi. Dopo il _s. c. u._; durata
  del medesimo. Considerazioni generali sulle caratteristiche della
  misura.

  CAP. IV. — _L’incostituzionalità del s. c. u. I populares_ contro
  il _s. c. u._ Loro accuse. Novero delle incostituzionalità. Difese
  degli _optimates_. Un’osservazione sulla modalità della procedura
  seguita dai _populares_ contro i responsabili del _s. c. u._
  Un’ultima considerazione.

  CAP. V. — _Dal senatus-consultum al senatus-consultum ultimum._ Il
  _s. c. u._ e la storia del senato romano. Le ingerenze del senato
  nell’ambito del potere esecutivo. Il senato contro i tribuni. Il
  senato e i privati. Il _s. c. u._ o il dritto di muover guerra. Il
  senato e l’_ius provocationis_. I tribunali straordinari dei tempi
  ordinari e i tribunali straordinari in seguito ad un _s. c. u._ Il
  senato e il potere legislativo. Conclusione.

  CAP. VI. — _Cagioni dell’origine, della durata e della fine
  del s. c. u._ Carattere storico del _s. c. u._ Fine della lotta
  patrizio-plebea. Lotta fra _optimates_ e _populares_, e relazioni
  di codeste due classi colle istituzioni dello stato. Lotta tra
  _optimates_ e _populares_ nelle quistioni agrarie, politiche,
  giudiziarie, sacerdotali. Fine della dittatura _seditionis sedandae
  causa_. Il _s. c. u._ invece della dittatura _seditionis sedandae
  causa_. Riforma cesariana della costituzione. L’impero e la fine
  del _s. c. u._ Conclusione.




INDICE DEI CAPITOLI


  PREFAZIONE        pag. VII
  Cap.  I.           »     1
   »   II.           »    11
   »  III.           »    53
   »   IV.           »    81
   »    V.           »    97
   »   VI.           »   111




PREFAZIONE


Come si rileva dal titolo, con queste pagine io ho voluto scrivere un
lavoro di storia e di dritto pubblico. Ho quindi mirato ad un triplice
scopo: 1) narrare accuratamente i vari casi, pei quali in Roma fu
votato il _s. c. u._; 2) ricostruire la situazione giuridica, che allo
stato romano imponeva tale misura eccezionale; 3) spiegarne la natura
particolare in relazione con la situazione politica e sociale del
tempo.

Però mentre non dubito che i due primi punti andranno esenti
da controversie e da attacchi più o meno ostili, non posso dire
altrettanto del terzo.

Per i più degli studiosi la storia deve limitarsi alla semplice
narrazione degli eventi, ed abborrire sdegnosamente da ogni sguardo
sintetico e generale, come, se così facendo, si fosse costretti ad
uscire dal campo della scienza per entrare indeprecabilmente in quello
della retorica e dell’ignoranza.

A me quindi non resta se non replicare che si tratta di una divergenza
teorica sul contenuto della nostra disciplina e che, per conto mio,
accetto l’opinione, che stimo più razionale e che venne formulata
magistralmente dal Bernheim[1].

Ma la difficoltà sta in ciò, che qualora, dopo aver narrato, si voglia
avere la precisa concezione del moto delle energie di una data società
in un dato periodo, occorre una dottrina del funzionamento della
società in genere, la quale ci guidi a connettere certi dati fatti con
certi altri ed a porli come loro causa od effetto.

La teoria direttiva, in tal caso, è l’ipotesi che spiega e che è tanto
meglio verificata dagli eventi storici, quanto più soddisfacentemente
li spiega.

Or bene tutto ciò non è che un _desideratum_, dappoichè la
_sociologia_, che soltanto ce la potrebbe offrire, un po’ per colpa
di coloro che ne trattano quotidianamente, un po’ per l’avversione
dei letterati e degli storici di professione a qualsiasi disciplina
teorica, suscita ancora troppi sorrisi e troppo scetticismo.

Ciò non ostante, io credo che non si possa deplorare abbastanza gli
effetti di una siffatta trascuranza, quando si osservi in che modo i
quotidiani libri di storia spiegano e giudicano i fatti storici.

Interi secoli di vita sociale sono considerati come un intrigo di
ambiziosi, di violenti e di corruttori. Quando non vi si sostituisca
la mano di Dio, è l’imperativo categorico del destino e del progresso,
ciò che guida gli eventi ed i popoli a determinate soluzioni. I partiti
e gli uomini avversi al governo e a date istituzioni non possono
non essere un sozzo reclutamento di facinorosi destinati ad aver
torto. Peggio ancora, se da questi fatti generali si scende ad esempi
concreti. Gli astiosi e parziali pettegolezzi di politica quotidiana,
registrati sulle fonti, che spesso sono tali a distanza di secoli,
inquinano e falsano la maggior parte dei nostri giudizi; nè, per
sottrarcene, basta la pratica della minuta storiografia.

Nella spiegazione quindi del fenomeno sociale da me studiato ho
cercato di tenermi lontano da codesto inconsapevole dilettantismo, ed
ho seguito l’unica ipotesi sociologica, che credo veramente seria,
contenuta nella concezione materialistica della storia, intesa —
s’intende — nella sua maniera più criticamente accettabile.

I lettori giudicheranno se io abbia violentato i fatti, e gli storici
di professione, se a me spetti di subire la scomunica.

Da questa ricerca infine mi si è insinuata sotto mano, senza che io me
ne avvedessi, una lezione di morale storica e politica. Rimesse sulle
prosaiche rotaie delle realtà, le misure eccezionali d’ogni tempo
e d’ogni luogo mi sono apparse tali quali il lettore le troverà, ed
il loro velo tradizionale di equità o di giustizia mi si è per via
miseramente dileguato.

_Historia magistra vitae_! sono stato più volte tentato di esclamare.
Ma — pur troppo — gli uomini determinano la loro condotta, non già in
base alle astratte nozioni della morale o delle teorie sociologiche,
ma sotto l’impulso decisivo di circostanze, bisogni, ed interessi
immediati, e le future sirti del gran mare della storia, di là da
incontrare, non ànno, per essi, somiglianza alcuna con le altre del
passato, di cui hanno imparato a conoscere la natura.

Ed anche ad ammaestrarci di tale verità può, a rigor di logica, essere
capace soltanto la concezione materialistica della storia.




UNA MISURA ECCEZIONALE DEI ROMANI

IL SENATUS-CONSULTUM ULTIMUM




CAPITOLO I.

DUE _s. c. uª_[2] DEI SECOLI Vº e IVº a. C.


I.

La più semplice e cauta definizione di _s. c. u._ è quella di misura
eccezionale di salute pubblica, per cui il Senato delega poteri
ugualmente eccezionali ai consoli, o, insieme con essi, ai tribuni e ad
altri magistrati rivestiti d’imperium, mediante la formula più usitata:
«_Videant consules ne quid respublica detrimenti capiat_».

I due primi _s. c. uª_ ci vengono ricordati da Livio, l’uno, come del
464 o 63, l’altro, come del 381 a. C.[3]

Narra egli[4] che al 464 erano consoli A. Postumio Albo e Spurio
Furio Fuso. A quest’ultimo toccò di guerreggiare contro gli Equi. Fu
data battaglia, mentre costoro saccheggiavano le terre degli Ernici:
l’esercito romano fu sconfitto e circondato insieme col console. Gli
Ernici portarono a Roma la triste notizia, e misero il Senato in tanto
spavento, che fu commesso all’altro console «_videre ne quid respublica
detrimenti capiat», «quae forma senatus consulti ultimas semper
necessitatis habita est_».

Fu allora ingiunto al console residente in Roma di recarsi, quanto
più celeremente potesse, in aiuto del collega; ma poscia si reputò
più opportuno farlo rimanere per l’arrolamento di tutti coloro «_qui
arma ferre possent_», e inviare in sua vece T. Quinzio, che l’anno
precedente avea guerreggiato contro gli Equi. Fatte le leve, Postumio
si recò al campo.[5]

Sarebbe questo — per dir così — un _s. c. u. rei gerundae causa_.[6]
Il secondo invece fu votato _seditionis causa_; e costituì uno degli
atti posteriori all’agitazione plebea del 382, capitanata da M. Manlio
Capitolino, il memorando salvatore del Campidoglio.


II.

M. Manlio è una delle figure più simpatiche della storia civile di
Roma, quantunque la sua biografia ci sia stata tramandata con una certa
ampiezza solo attraverso l’ostile narrazione di Livio.

I plebei, sia che si accetti l’opinione del Niebuhr,[7] del
Mispoulet[8] e del Becker,[9] che li considerano come i vinti di
Roma, sia quella del Mommsen[10] e del Willems,[11] per cui essi non
sarebbero se non una trasformazione della clientela, gli è chiaro
che nei rispetti economici debbano in ogni modo essere ritenuti come
una classe inferiore alla patrizia, la quale, per la limitazione dei
diritti civili, in cui era costretta, si trovava impotente a migliorare
la propria condizione.

Alla metà del sec. V., persino gli _aerarii_[12] erano stati sottoposti
all’obbligo del _tributum_ e del servizio militare.[13] Cosicchè,
mentre prima non erano tassati che i possessori di proprietà fondiaria,
ora l’imposta gravava su ogni forma di possessione.[14] Pare anzi
verisimile che quella degli _aerarii_ fosse ancora più grave che non
pel rimanente dei cittadini.[15] L’indennità personale, che, dopo la
guerra di Veio (406), veniva concessa alla fanteria, formata in massima
parte di plebei, subiva la detrazione delle spese per le forniture,[16]
e se l’introito dell’erario non era sufficiente, il _deficit_ veniva
tosto colmato da un’imposta sui medesimi.[17]

La ripartizione delle terre conquistate, unico beneficio che la romana
politica militaresca avrebbe potuto loro procurare, non era, nè in
dritto nè in fatto, uguale pei patrizi e pei plebei[18].

Al termine di ogni guerra essi ritrovavano i campi mal coltivati, i
fitti arretrati, l’azienda domestica in rovina, seppure — (allora le
guerre si combattevano in regioni limitrofe alla capitale) — i loro
beni non avessero patito saccheggi e devastazioni.

Così le lunghe campagne degli ultimi anni, la ricostruzione di Roma
in seguito all’invasione dei Galli, l’assenza d’ogni commercio aveano
sempre più imposto la necessità di contrarre debiti.

Per la classe governante questo era il mezzo migliore d’assoggettamento
della plebe, venendosi con le sue conseguenze alla espropriazione e
all’asservimento di metà dei cittadini.[19]

Troviamo infatti nelle XII tavole una legislazione severissima contro
i debitori. Il debitore insolvibile veniva, dietro sentenza del
magistrato competente (_manus iniectio_) messo nel dominio quiritario
del proprio creditore (_addictio_). Per dare agio al pagamento gli
si accordavano trenta giorni, trascorsi i quali, il creditore era in
facoltà di portare il debitore a casa sua, imprigionarlo, legarlo a
una gogna (_nervum_), tenervelo per il collo o pei piedi, caricarlo
di catene, e, per due mesi, cibarlo con una libbra di biada al giorno.
Poscia lo esponeva nel _comitium_ del foro per tre mercati consecutivi;
e, se nessuno avesse pagato, l’infelice soggiaceva alla vendita o
all’uccisione. Se i creditori erano più d’uno, potevano spartirsene le
membra in proporzione del loro credito.

Ma la forma di contratto, che troviamo allora più usitata, il debito
per _nexum_, dispensava dalla succennata procedura. Era desso un
surrogato della sentenza: il debitore s’impegnava come schiavo nel caso
d’insolvibilità, garanzia vivente del saldo della propria obbligazione.

Gli effetti penali del contratto si estendevano ai componenti la
famiglia del debitore. E, quando si riflette che negli ultimi tempi le
sentenze giudiziarie aveano reso suscettibili delle pene specifiche
pei debitori i reati per indennità o ammende non pagate, si capisce
facilmente quanto fosse divenuta penosa la condizione dei plebei.[20]


III.

Manlio,[21] un patrizio passato alla classe opposta, cominciò a
ricercare la coscienza della plebe, proponendo o la generale estinzione
dei debiti esistenti, oppure, se non una riforma delle leggi agrarie,
come dichiara Livio,[22] una vendita del demanio pubblico ancora
indiviso, allo scopo di scaricare i plebei del saldo dei loro debiti
col ricavo della medesima.[23]

L’agitazione impose la nomina di un dittatore, il quale si volle far
credere necessario per la guerra coi Volsci. Partito a tale scopo
da Roma, fu richiamato in fretta dal campo, e, pigliando occasione
di un’accusa, messa fuori da Manlio contro i patrizi, per dell’oro
pattuito con i Galli e sufficiente a liberare la plebe dai debiti,[24]
la dimane, dopo aver convocato il senato, citò in piena assemblea
centuriata il patrizio sobillatore perchè si scolpasse dal sospetto
di calunnia. Ne seguì l’arresto. I plebei tacquero; ma i più di loro
furono visti, di lì a pochi giorni, vestiti a bruno aggirarsi numerosi
intorno alle mura della prigione. Fu necessità rilasciare Manlio, il
che fornì un duce all’agitazione.

Il Senato decise «d’incaricare i _magistrati_ perchè provvedessero a
che la republica non patisse alcun danno». E qui, narra Livio, avvenne
un fatto abbastanza strano.

I _tribuni militares consulari potestate_ e gli stessi tribuni
plebei accusarono Manlio dinnanzi ai comizi di avere aspirato alla
restaurazione della monarchia.

L’assemblea, dal campo di Marte, donde si scorgeva il Campidoglio,
monumento della gloria dell’imputato, venne trasferita nel bosco
Petelino.

Colpito da condanna capitale, Manlio fu dai tribuni precipitato dalla
rupe Tarpea.


IV.

Si è dubitato di ambedue i precedenti _s. c. uª_ e per varie ragioni.

Il Mispoulet[25] vi sospetta un’invenzione aristocratica di tempi
posteriori, intesa a consolidare con la tradizione la legittimità di
una misura non riconosciuta mai come legale dai partiti democratici.

Il Mommsen[26] e il Willems[27] li ritengono un procronismo, 1) perchè
debolmente connessi col resto del racconto, 2) perchè, nell’un caso,
l’indizione delle leve, nell’altro, l’accusa tribunicia vengono, cosa
insolita, introdotti da un _s. c. u._

Non è male ripigliare in esame la questione, e, sopratutto, distinguere
il primo caso dal secondo.

Quanto al primo è a notare, come abbiamo fatto, che esso è l’unico
che sia stato suscitato da una guerra all’estero, cosa che però non
deve indurci in sospetto. Un provvedimento, che servì in origine a un
determinato scopo, può, per nuove condizioni sopraggiunte, venire usato
ad intendimenti opposti.

La dittatura implicava una perdita di tempo pericolosa. Occorreva che
il Senato proponesse ai consoli, spesso assenti, la sua decisione, che
questi designassero il candidato, e che i comizi ne ratificassero i
poteri.

In vista della salvezza della patria era senza confronto più agevole
trasmettere direttamente i pieni poteri al console rimasto in città.

Livio, d’altronde, è troppo preciso ed esplicito, non subisce
contraddizioni nè sospetti di tendenziosità, ed è noto come ciò che
più l’onora, quale storico, è l’incapacità di dire il falso sapendolo
falso. A chi poi osservasse che anche Dionigi narra il fatto, ma senza
accenni ad alcun _s. c. u._, si dovrebbe rispondere che Dionigi non
conosce _s. c. u.ª_


V.

Meno evidente apparisce l’attendibilità della seconda menzione liviana.

1. Livio per l’anno precedente ci à fatto parola di un dittatore,
il cui ufficio, di regola semestrale[28], pare sia dovuto scadere
parecchio tempo prima del giorno della condanna di Manlio[29]. Ma Livio
stesso menziona, come avvenuta quest’anno, la nomina di un _magister
equitum_, C. Servilio,[30] che precede di poco la morte di Manlio.
Un _magister equitum_ presuppone un dittatore, il che esclude la
possibilità di un _s. c. u._

Sull’esistenza di un dittatore insiste Dione Cassio,[31] il quale
ricorda come tale Camillo, dittatore per la _quarta_ volta. Dione è
contraddetto da Livio, per cui la quarta dittatura di Camillo sarebbe
anteriore di parecchi anni[32]. Ma Plutarco, che adesso ricorda
Camillo come _tribunus militaris c. p._, e che, contrariamente a
Livio, ne riferisce la quarta dittatura come posteriore alla sedizione
manliana,[33] pone in suo luogo dittatore uno dei due Quinzii
Capitolini![34].

2. Nel liviano processo di Manlio pare non si sia venuto mai meno
alla concessione del dritto di _provocatio_, l’appello al popolo,
che è escluso recisamente dalla procedura giudiziaria esistente sotto
l’impero del _s. c. u._

Ma se da Livio, il solo a parlarci di tale concessione, passiamo
alle versioni, che, del giudizio e della fine di Manlio, ci dànno
Plutarco,[35] Dione,[36] Diodoro Siculo[37] e Dionigi,[38] siamo
costretti a dubitare gravemente dell’ammirata legalità.

Già Livio stesso ci avverte che, secondo alcuni annalisti, la condanna
sarebbe stata pronunziata dai _duoviri perduellionis_. Ma dalle altre
fonti si ricava altresì come i differimenti della sentenza siano stati
più di uno, e tutti, non già nello specioso intento di scansare la
vista del Campidoglio, (sarebbe bastato uno solo), ma allo scopo di
strappare ai giudici la condanna dell’imputato.

E il Niebuhur, sorpreso di ciò, fa, sulla dizione di Livio,
un’osservazione gravida di conseguenze. — Visti, dice Livio,
gli ostacoli, che alla condanna porgeva il primo consesso «cum
_centuriatim_ populus citaretur», Manlio fu portato dinnanzi al
«concilium populi». — Ma — osserva il Niebuhur — _concilium_ non è
che la riunione di una parte sola della nazione, non già di tutta la
nazione, come avviene pei comizi centuriati,[39] che «_nessun annalista
avrebbe_» così «denominati».[40] «Non vi è dubbio che le centurie»
«abbiano prosciolto» l’accusato; «e, se ci si dice che il giudizio fu
differito, non è che per soggiungere che il tribunale che lo condannò
fu sempre lo stesso».[41]

L’ultimo giudizio di Manlio dovette invece essere tenuto nell’assemblea
delle curie.

Poteva tutto ciò darsi senza provvedimenti eccezionali?

Nè durante i secoli dell’impero, nè tanto meno sotto la republica,
avevano i comizi curiati posseduto alcuna competenza giudiziaria. Nè,
se dittatore ci fosse stato, avrebbero i patrizi subito la necessità di
ricorrervi.[42]




CAPITOLO II.

I _s. c. uª_ POSTERIORI ALLA PRIMA METÀ DEL IIº SEC. a. C.


I.

Dal 381 alla seconda metà del II. sec. non si riscontra nelle fonti
traccia alcuna di _s. c. u.ª_

Il primo che vi seguì fu votato 260 anni dopo, e precisamente contro
Caio Gracco. Se non che, essendo questo preceduto da un tentativo di
_s. c. u._ contro Tiberio, e non potendosi l’opera di Caio spiegare
senza quella del fratello, sarà bene rifarsi dalle origini della
questione.

Da Tiberio[43] ebbe principio una serie importantissima di proposte
e di riforme economico-sociali concernenti i bisogni più vitali della
società romana del suo tempo.

La ricchezza[44] della popolazione della republica era fondata, non già
sul commercio o sull’industria, l’uno e l’altra di uno sviluppo scarso
e primitivo, sibbene sull’agricoltura. Se non che un numero svariato
di cause aveano, sin da prima della seconda metà del IIº secolo a.
C., mutato sostanzialmente gli antichi rapporti fra il suolo e i suoi
detentori, come fra i detentori medesimi. Anzi tutto le continue guerre
ed il lungo servizio militare distoglievano dai lavori campestri e
decimavano il numero dei possidenti, tra i quali, come censiti[45],
si reclutavano, in massima parte, le legioni. Tale condizione si
era aggravata negli ultimi anni, durante i quali le guerre si erano
combattute in regioni lontane od estere: nord Italia, Spagna ed Africa.

Lo scarso prodotto delle possessioni era stato contemporaneamente
colpito dalla concorrenza del grano della Sicilia, della Spagna e della
Sardegna, di recente conquistate, e dal fatto che l’approvvigionamento
dell’esercito, fonte d’enormi guadagni, toccava in pratica ai più
grossi possidenti, i quali figuravano tra le persone più cospicue della
capitale, arrogandoselo per avere in mano il governo, o facendosene
conferire l’incarico.

A rimediare a tanto danno occorrevano dei capitali, coi quali lavorare
con metodi progrediti la terra. Ma la scarsezza, in cui i piccoli
possidenti se ne trovavano, importava il loro assoggettamento ai grandi
detentori di proprietà fondiaria, i quali, cominciando col rendersene
creditori, terminavano collo spogliarli dei propri beni per via di
espropriazioni, che riescivano più numerose e più inique durante
l’assenza del _pater-familias_, quando non si opponevano più limiti
alla violenza del ricco vicino.

Spesso l’espropriazione era volontaria. I grandi possidenti, che,
giusta la tradizione o le leggi romane, subivano il divieto di
riversare il proprio capitale nelle industrie e nel commercio, erano
sempre pronti a comperare lotti di terra, con cui arrotondare i propri
latifondi; e le disperate condizioni del piccolo possidente rendevano
questo proclive a cedere alle condizioni meno peggiori il proprio
possesso.

D’altro canto l’affidamento dell’agricoltura in mano degli schiavi,
capaci di un lavoro prolungato e numeroso, ma al cui sostentamento
potevano solo sopperire i più grossi possidenti, non aveva che
accelerato la scomparsa della piccola proprietà, sostentata dallo
scarso lavoro individuale dell’assente proprietario, e perciò incapace
a resistere alla concorrenza.

Cicerone, che era pure un aristocratico e un conservatore, confesserà
che al suo tempo il vasto suolo della republica era nelle mani di
duemila cittadini.[46] Tutti i rimanenti o figuravano come veterani tra
le file dell’esercito, o dalle campagne erano accorsi alla capitale,
dove la vita costava relativamente poco, a costituire quel proletariato
urbano, che sarà la piovra e la zavorra della vita pubblica e privata
della republica e dell’impero.

Esso, mentre da un canto era reclutato fra i contadini, vittime della
concorrenza della piccola con la grande proprietà, veniva altresì
costituito dalle classi lavoratrici, sia agricole, sia industriali,
ormai soccombenti dinnanzi all’irrompere del lavoro servile, molto
più comodo[47] e meno costoso del libero. E qui, nella capitale, esso
viveva da parassita dei privati e dello stato, il quale, sebbene non
avesse ancora ricorso alle _largitiones_ e alle _frumentationes_, era
già costretto a comperare il grano dalle province per rivenderlo ad un
prezzo inferiore al costo.

Le funeste conseguenze della formazione di eserciti, costituiti in
gran parte di veterani, non erano ancora palesi. Lo erano invece,
pur troppo, quelle altre, a cui portava il sistema di agricoltura a
schiavi, l’unico capace di profitto.

Il ricco latifondista non viveva più nella campagna, ma in città,
abbandonando quella al _villicus_, il capo degli schiavi, il quale
mirava a trarre dalla terra per sè e pel suo padrone il maggior frutto
con la maggior fatica dei suoi dipendenti e la minor quantità possibile
di capitale affidatogli. Gli schiavi, dal canto loro, eludevano il
lavoro, ogni volta che lo avessero potuto, dandosi più alla rapina
che all’agricoltura, e, noncuranti o senza esperienza, coltivavano
male o maltrattavano i buoi e gli istrumenti[48]. L’agricoltura, ogni
anno, presentava una produzione geometricamente decimata e sempre più
insufficiente ai bisogni della popolazione.

Peggiori poi erano i ripentagli, a cui la schiavitù metteva la
sicurezza dello stato.

Sempre pronti alla ribellione, perchè quotidianamente torturati, gli
schiavi si prestavano facile istrumento in mano di ambiziosi o di
nemici; o, se questi fossero mancati, non tralasciavano di spiare le
occasioni di ribellarsi per conto proprio.[49]

Così al 198 si era sollevato il Lazio, al 196 l’Etruria, al 185
l’Apulia, al 134 la Sicilia, per terminare al 133 con la ribellione
collettiva di Minturnae, Sinuessae, Delo, l’Attica, Pergamo, Nuceria,
Bruzzio.

Rimedio contro tutto ciò era la stabile ricostituzione del ceto dei
contadini allo scopo di far rifiorire l’agricoltura nazionale. E a
ciò pareva che le condizioni stesse di Roma offrissero facile la via,
stante l’esistenza di numerose terre demaniali.

Lo stato romano infatti possedeva la larga proprietà stabile dell’_ager
publicus_, costituito dai territori conquistati. Di essa, una parte
era _adsignata viritim_ a privati o usata quale _ager colonicus_,
una era dotazione del culto, una era concessa ai singoli cittadini
con la riserva del diritto di proprietà, e una, serbata ai bisogni
pubblici, veniva data in affitto o in uso a privati, sotto prescrizione
d’imposta, o istituzione di monopoli, o diritto a riscossione di
gabelle.

In senso ristretto, con la qualifica di _ager publicus_, si indicavano
appunto queste due ultime forme di possessione, ed esse concernevano le
leggi agrarie.

Se non che, il possesso del suolo demaniale era rimasto accumulato
nelle mani di quella stessa classe della cittadinanza, che avea
confiscato tutte le proprietà rustiche d’Italia.

Una legge Licinia del 167 avea vietato la possessione di più di
cinquecento iugeri di terreno demaniale per ogni _pater familias_;
ma era stata presto elusa dai nobili, i quali, cominciato col far
comparire di possederne di meno, mentre altri occupava per loro il
soprappiù, aveano terminato per violarla apertamente.

Occorreva per lo meno spostare tale situazione con nuovi espedienti
legislativi ed a ciò si rivolgeva l’opera del partito radicale.


II.

Tiberio Gracco perveniva al tribunato nel 134. La sua _lex
agraria_ è del 133. Essa aveva per unico obbietto le _possessiones
italicae_ dell’_ager publicus_, sulle quali lo stato si riserbava
un dritto di proprietà. Secondo la sua legge gli antichi possessori
potevano continuare ad occupare i 500 iugeri di terreno per ogni
_pater-familias_, concessi dalla legge Licinia, più 250 per ogni
figliuolo, purchè la famiglia non ne possedesse complessivamente più di
1000. Anzichè infliggere pena alcuna ai violatori della legge Licinia,
Tiberio chiedeva che lo stato indennizzasse i possessori del dippiù,
che ora dovevano restituire[50]. Stabiliva infine che tutte queste
terre demaniali sottratte fossero spartite _viritim_ ai meno abbienti,
trenta iugeri per ogni _pater-familias_.

Si volea così creare una classe di contadini possidenti, che scemasse
il proletariato delle città e delle campagne, alla conservazione
della quale provvedeva una clausola vietante ai nuovi possessori
l’alienazione della proprietà.

Un’annuale commissione di tre membri, eletta dal popolo, dovea curare
l’esecuzione della legge.

I nobili videro in essa un attentato ai propri interessi e si rivolsero
al tribuno Ottavio, perchè ne impedisse con la sua _intercessio_ la
votazione. Tiberio, dopo lungo esitare e pregare, propose che le tribù
scegliessero tra lui ed Ottavio. Quest’ultimo fu deposto, e la legge
passò.

Il Senato, allora, cominciò ad osteggiare e calunniare Tiberio in tutto
quanto poteva; e, per dippiù, ad apporgli ad accusa la deposizione del
collega.

Tiberio si preparava a un secondo anno di tribunato[51] con delle
proposte di leggi non meno importanti della succitata: 1) riduzione
del servizio militare, 2) dritto d’appello al popolo per ogni sentenza
giudiziaria, 3) uguale numero di senatori e di cavalieri nei tribunali
penali pei reati di azione pubblica, proposte che saranno, una per una,
ripigliate dal fratello Caio.

Ma, il giorno dell’elezione, un amico di Tiberio, Flavio Flacco, lo
avvertì che i senatori divisavano di ucciderlo, non ostante un reciso
rifiuto del console.

I più intimi di Tiberio cinsero allora le toghe, e, spezzate le aste
degli incaricati a tenere a bada la folla, se ne armarono. Quelli che
erano distanti, pieni di meraviglia, chiedevano a vicenda la ragione
del fatto. Tiberio si toccò il capo con la mano, volendo accennare
al pericolo che correva. Gli avversari corsero al Senato, annunziando
ch’egli chiedeva il diadema[52]. Avendo il console nuovamente declinato
l’incarico della repressione, P. Scipione Nasica, «_princeps senatus_»,
un nobile, ferocemente avverso alla riforma demaniale, invitò i
senatori ad armarsi e seguirlo.

Tiberio fu ucciso, (luglio 133).[53]

Il Senato vittorioso conferì ai consoli dell’anno seguente (132),
Rupilio e Popilio Lenate, la facoltà di agire contro i partecipi
dell’agitazione sopravvissuti[54].

All’infuori di più di trecento, periti nella mischia, gli altri furono
o esiliati, senza regolare processo, o arrestati ed uccisi.


III.

L’eredità di martirio, lasciata da Tiberio, fu raccolta dal fratello
Caio.[55]

Tribuno al 123, propose due leggi: 1) che, se il popolo avesse tolto di
carica qualche magistrato, costui non avrebbe potuto aspirare ad alcun
pubblico onore; 2) che, se un magistrato avesse colpito un cittadino
senza il giudizio di legge, il popolo sarebbe stato in diritto di
giudicare il magistrato medesimo.

L’una andava a colpire coloro che in avvenire si sarebbero comportati
al pari di Ottavio, il deposto da Tiberio; l’altra, gli esecutori
passati e futuri dei _s. c. u.ª._ Le due leggi furono seguite dalla
ripresentazione della scorsa legge agraria, la di cui applicazione era
caduta in non cale, tanto più che da cinque anni il senato avea tolto
al triumvirato esecutivo l’indispensabile potere giudiziario.

Ma Caio non si limitò a quest’opera, pressochè impersonale, e andò
via via colmando le lacune e ricorreggendo la legge in quei punti, che
richiedevano i nuovi bisogni.

Tiberio aveva mirato solo al rialzamento dei contadini, trascurando il
proletariato industriale. Si trattava nella sua legge di assegnare dei
latifondi ed era naturale che i preferiti fossero dei contadini.

Non avea toccato inoltre la questione delle terre demaniali date in
locazione, quali l’esteso _ager campanus_, nè consigliata la fondazione
di nuovi comuni (_coloniae_), là, dove le assegnazioni avrebbero avuto
luogo.

Caio concepì un sistema di colonizzazione in Italia e all’estero.

Al 123, pel suo collega Rubrio, proponeva la fondazione della colonia
di Cartagine; e, al 122 riesciva a fare approvare quella di due colonie
a Capua e a Taranto, composte di _cives romani_ e di _socii italici_,
rivestiti della cittadinanza romana.

Erano le prime colonie sprovviste di intendimenti militari e
strategici, che il governo romano permetteva; ed era la prima volta
che si adibiva alle assegnazioni coloniali anche l’_ager publicus_ in
locazione. L’estensione poi della concessione agl’Italici sanzionava
il loro dritto in maniera indiscutibile, come non era avvenuto per la
legge agraria di Tiberio; e costituiva un precedente per una riforma
politica, colla quale Caio sperava di guadagnare nuove forze alla
democrazia.

Infatti, alla fine dello stesso anno, propose la cittadinanza romana
pei _socii italici_, e la latina per gli Italici. Mentre il senato avea
stabilito il dominio dei nobiles romani a scapito dei proletari, dei
federati italici e dei soggetti nella penisola e fuori, non concedendo
a tutti uguale possibilità di conquiste politiche ed economiche, Caio
tentava di agitare contro la classe dominatrice tutte queste sfruttate
energie dello stato romano.

Alla legge agraria seguì una _frumentaria_, per la quale lo stato
si sarebbe dovuto obligare a fornire il frumento ai proletari della
capitale a 6 e 1/3 di asse (_seni et trientes_) per ogni moggio. A
conti fatti, con questa legge l’erario veniva a rimetterci più della
metà del valore del frumento; e ciò dava la misura esatta delle
strettezze, a cui il governo avea ridotto lo stato.

Queste riforme economico-sociali C. Gracco volle consolidare con delle
altre d’indole politica.

Tra queste rientrava la succitata, concernente i _socii italici_, di
cui abbiamo discorso.

Propose ed ottenne l’abbreviazione del decenne servizio militare, il
divieto d’arrolamento dei cittadini inferiori ai diciassette anni, e
l’indennizzo, da parte dello stato, delle spese pel vestiario, prima
detratte dal soldo.

Sin da Servio Tullio, la votazione nelle centurie si faceva
gerarchicamente per classi, fatto, che, da per se solo, bastava a
dar vittoria ai nobili. Più tardi, dalla prima delle medesime, si era
scelta la così detta _praerogativa_, una centuria, chiamata a votare
prima delle altre, la cui voce, essendo ritenuta un divino presagio,
avea un valore decisivo[56].

Caio propose che tale sistema di votazione fosse abolito, e, fra le
cinque classi, fossero tratte a sorte, tanto la _praerogativa_, quanto
le altre centurie, sinchè si fosse avuta la maggioranza[57].

La più importante tra le sue riforme non economiche riguardava però
l’amministrazione della giustizia.

Una sua legge sulla pena di morte vietava le sentenze capitali
contro i _cives_ romani, salvo in caso d’alto tradimento, e imponeva
l’obbligatoria ratificazione dei comizi.

Un’altra avea per obbietto la costituzione istessa dei tribunali
penali pei reati di azione pubblica. Essi erano composti unicamente
di senatori, tutti grossi proprietari, senza partecipazione alcuna
dell’altra frazione della classe, economicamente e politicamente
dominante, i cavalieri, ricchi capitalisti dediti alle speculazioni.

Una legge Claudia del 225 avea vietato alla nobiltà senatoria
l’esercizio del commercio, avendo così acuito quella rivalità fra i due
ordini, che già preesisteva per un antagonismo d’interessi economici.

I cavalieri infatti impiegavano i loro capitali in appalti d’ogni
genere, che ricevevano dallo stato, specie nelle province. Ma qui
appunto essi entravano in conflitto coi governatori, che non erano
se non componenti dell’ordine senatorio, specie a proposito della
riscossione dei tributi, e venivano giudicati nei tribunali della
capitale, tutti in mano dei senatori, e quindi favorevoli ad una delle
due parti litiganti.

Caio, intanto, era stato incaricato della fondazione della colonia
cartaginese.

Quando egli ritornò, era console L. Opimio, un secondo P. Nasica, il
quale, non solo avea annullato parecchie delle leggi Sempronie, ma
inquisiva sfavorevolmente sull’operato di Caio in Africa.

Un giorno di votazione, una tragica baruffa, provocata da uno dei
ministri del console, diede ai senatori l’occasione sospirata di usare
della violenza e votare il _s. c. u._, con cui si conferivano pieni
poteri ad Opimio[58] (121).

La dimane Caio Gracco era cadavere. Le case di molti dei suoi seguaci,
periti nella mischia, furono distrutte[59], i beni messi all’asta,
interdetto il lutto alle loro mogli. Il Tevere fu visto galleggiare di
ben 3000 cadaveri[60], e, dei superstiti, gli arrestati, per ordine di
Opimio, vennero tratti in carcere e strangolati[61].


IV.

Il terzo _s. c. u._ fu votato a proposito dei tumulti suscitati dal
tribuno Saturnino e dal pretore Glaucia.

Benchè le fonti contemporanee siano destituite di ogni senso storico,
e ci manchi perfino il racconto di Livio, si deve ritenere che, se i
nuovi difensori dei _populares_ ereditarono la tradizione politica dei
Gracchi, non così può dirsi della loro onestà morale.

L. Apuleio Saturnino, poco prima del 100[62], avea corso il rischio di
essere espulso dal Senato; il che l’indusse ad aspirare per la seconda
volta al tribunato, cogliendo l’occasione che il pretore Glaucia
avrebbe presieduto i comizi.

Riescì, per contro, Q. Nunnio, suo avversario politico. Ma Glaucia e
Saturnino lo tolsero via di mezzo, e, la dimane, all’alba, prima che
il popolo s’adunasse, i loro partigiani elessero quest’ultimo tribuno.
Era la seconda volta ch’egli copriva tale carica[63]; e da un canto
la corruzione e l’inettezza della classe dominante, palesatesi nella
guerra Giugurtina e nei numerosi processi intentatile dai democratici,
dall’altro, le numerose e gravi ribellioni di schiavi in Sicilia ed
altrove, tanto più pericolose, in quanto ognuna di esse reclutava
i suoi militi tra i malcontenti d’ogni classe e d’ogni partito,
(carattere tipico, come vedremo, della congiura di Catilina), avevano
imposto sempre più alla coscienza dei ben pensanti la necessità delle
riforme sociali e politiche propugnate dai Gracchi.

Benchè cronologicamente distinte, è bene considerare complessivamente
le leggi apuleie, sia perchè questo del secondo tribunato fu l’anno
della maggiore attività di Saturnino, sia perchè egli vi ripetè e
rifuse le sue anteriori proposte, in maniera da renderne malagevole
ogni tentativo di distinzione[64].

Esse vanno a costituire una _lex frumentaria_ e una _coloniaria_.

La prima scemava il prezzo del frumento, che ogni cittadino potea
ricevere dallo stato, da 6 e 1/3 di asse, tariffa stabilita dalla
_lex sempronia_ a 5/6 di asse (_semisses et trientes_) per moggio. La
seconda proponeva che coloro, i quali avevano combattuto sotto Mario,
venissero spediti come coloni in Africa con 100 iugeri di terreno per
ciascuno.

Quest’ultima aveva uno scopo più strettamente politico. Mario, nel
suo primo consolato (107), per fornirsi di numerosi soldati, che gli
sarebbero occorsi nelle guerre di Numidia e di Gallia, aveva ridotto a
4000 assi il _minimum_ necessario pel servizio militare, e, più tardi,
vi aveva ammesso tutti i nulla tenenti (_capitecensi_), comprendendovi
i _socii italici_,[65] e promettendo bottino e assegnazioni demaniali.
Adesso si trattava di soddisfare agli impegni.

Va però da sè come, nè la riforma mariana, nè tali conseguenze erano
state suscitate unicamente o principalmente dalle ambizioni dei
riformatori.

Le condizioni storiche ed economico-sociali di Roma ne aveano
determinato la politica verso un certo indirizzo, e codesta politica
avea reagito sulle prime, sì da imporre a Mario le riforme che avea
introdotto.

Ad alcune proposte concernenti l’Africa, Saturnino ne aggiungeva
un’altra di assegnazione dell’_ager Gallicus_, di recente conquistato
da Mario, non ancora provincia romana, a coloni romani e italici.
Se questo non fosse bastato, imponeva che il governo si obligasse ad
acquistare le proprietà principali, private e limitrofe.

Caratteristica di queste leggi è: 1) il non aver di mira le
_possessiones_ dell’_ager publicus_, occupate da privati, come era
stato nelle sempronie, ma il demanio provinciale ancora indiviso;
2) il concedervisi indistintamente il dritto d’iscrizione ai _socii
italici_, cosa del resto naturale, in quanto costoro figuravano tra i
veterani[66].

Quasi ad abbassare l’autorità del Senato, Saturnino avea aggiunto la
clausola, — anch’essa da votarsi —, che, se il popolo avesse accettato
le sue proposte, i senatori, entro cinque giorni, avrebbero dovuto
giurare di sottostarvi, pena la destituzione ed una multa di venti
talenti.

Il proletariato urbano era avverso; ma, non ostante le reciproche
violenze, le leggi furono approvate per l’accorrere dei soldati
mariani, tra cui abbondava la popolazione rurale.

Allo scadere dell’anno Saturnino veniva creato tribuno per la terza
volta, avendo a collega un sedicente figlio di T. Gracco.

Al tempo stesso, Glaucia e Memmio si presentavano avversi candidati al
consolato, a cui il primo non avea dritto di concorrere, non essendo
ancora scorso il biennale intervallo di legge dalla sua carica di
pretore.

_More solito_, Memmio fu tolto di mezzo. La popolazione urbana insorse.

Glaucia e Saturnino si ritirarono sul Campidoglio. Il Senato allora, su
proposta di Emilio Scauro, _princeps senatus_, votò un _s. c. u._,[67]
con il quale s’incaricavano i consoli C. Mario e L. Valerio di salvare
la libertà e le leggi, e si concedeva loro di scegliersi ausiliari tra
i pretori e i tribuni (luglio 100)[68]. Questi, all’infuori di Glaucia
e Saturnino, furono tutti invitati, e tutti risposero all’appello[69].
Mario armò il popolo[70]. Ai nobili e alla popolazione urbana si
aggiunsero i cavalieri, e la sedizione fu spenta nel sangue. Le case di
Saturnino furono demolite[71].


V.[72]

Un nuovo _s. c. u._ pare si venga ad avere all’83 contro Silla
medesimo, di ritorno allora dall’Oriente. Si tratta adesso di un _s. c.
u._, che il partito radicale riesce a strappare da un senato pauroso di
nuove guerre civili contro un ottimate a capo di un esercito e reduce
da una spedizione militare[73].

Erano consoli Caio Norbano e Lucio Scipione,[74] l’uno e l’altro
fautori di Mario, i quali, all’annunzio del ritorno del più implacabile
dei loro nemici, ottennero dal Senato il conferimento dei pieni
poteri[75], (primavera 83).

Insieme con Cn. Carbone, già console l’anno precedente, marciano in
corpi separati contro Silla. L’esercito di Scipione passa, armi e
bagaglio, al nemico. Carbone, allora, si affretta verso Roma e fa dal
Senato dichiarare _hostes publici_ Silla e i suoi aderenti[76], il
che è principio di una serie di operazioni militari, che terminano per
riescire sfavorevoli ai consoli (inverno 82).


VI.

Gravi dubbi ci assalgono pel _s. c. u._ votato, secondo il Willems[77],
nel 77.

Silla era appena estinto, e già si attentava a rovesciarne la
restaurata oligarchia.

Il console M. Lepido[78] era l’uomo, a cui metteva capo
l’opposizione. Partito per l’Etruria ad apparecchiare eserciti in pro
dell’insurrezione, al Senato che gl’intimava di tornare senza indugio
a Roma, rispondeva imponendo: 1) che i tribuni, per cui Silla avea
prescritto una multa, caso mai abusassero del dritto d’intercessione,
insieme col permesso del senato, ogni qualvolta volessero conferire
col popolo, e ai quali egli stesso avea vietato di aspirare a cariche
superiori, venissero restituiti nell’antica autorità; 2) che gli
illegalmente esiliati fossero richiamati e ripristinati nel possesso
dei loro diritti civili e dei loro beni; 3) che a lui fosse concessa la
rielezione al consolato.

Era già scorso l’anno di carica dei consoli, e L. Filippo, in Senato,
propose che all’_interrex_ Appio Claudio, (la sedizione di Lepido non
avea permesso le elezioni consolari), al proconsole Q. Catulo e a tutti
i magistrati rivestiti di _imperium_ fosse affidata la salvezza della
republica[79]. (77)

Ci rimane però ignoto se la proposta di Filippo sia stata accettata.
Certo si è che il comando delle operazioni militari non fu affidato
agli indicati dal medesimo, ma al proconsole Catulo e al privato Cn.
Pompeo[80].

Battuto presso Roma. Lepido fu dal Senato dichiarato nemico della
patria, e costretto[81] a rifugiarsi in Sardegna.


VII.

Ma il _s. c. u._ più noto è quello votato per la congiura di Catilina,
diretto a reprimere, non già le mene di tribuni sediziosi o di generali
a capo di eserciti, ma un colpo di mano di semplici privati.

Cicerone non vide nei Catilinari che una serqua di debitori dissoluti
ed insolvibili, una ciurma di ribaldi incendiari e (meraviglioso a
dirsi da lui, che tremava al solo nome di Catilina!) un’accozzaglia di
vili e di effeminati[82]. Ma, pur troppo, oltre ai nobili spiantati, i
quali, come gli altri che stavano al governo, non potevano ricolmare il
patrimonio con gl’introiti dello stato,[83] il grosso dei congiurati
era costituito da tutti quegli elementi della popolazione romana, di
cui il governo non avea voluto tutelare gl’interessi, sacrificandone
anzi, il più delle volte, i sostenitori, dai proletari urbani senza
tetto, senza pane e senza libertà[84], da tutti i rovinati dalle
usure[85] e dalla corruzione dei magistrati[86], dal proletariato
agricolo senza possedimenti e senza lavoro,[87] dai proscritti e
dai figli dei proscritti di tutte le guerre intestine, destituiti di
patrimonio e di dritti civili,[88] da tutti gli avversari politici
dell’oligarchia dominante[89]. «Noi combattiamo», dirà Catilina,
prima di venire all’ultima battaglia, «per la patria, per la libertà,
per la vita», i nostri nemici «per la potenza di pochi che li
signoreggiano».[90]

Al 63 egli si era presentato quale concorrente al consolato, quando,
poco prima del giorno dei comizi, Cicerone, allora console, seppe di
un’adunanza privata, in cui Catilina avea esposto il proprio programma,
e stabilito — si diceva — pel giorno delle elezioni, l’assassinio del
console che le avrebbe presiedute.

Il 20 ottobre, Cicerone, convocati i senatori, fa postergare i comizi,
e, in una nuova seduta, impone a Catilina di scolparsi.

Questi si comportò fieramente; e, con una metafora, nella quale volle
accennare agli ottimati ed al popolo, rispose che due corpi esistevano
nella republica, uno debole dalla testa mal sana, l’altro saldo, ma
senza capo[91], che, lui vivo, più non ne sarebbe mancato! Fu tosto
votato un _s. c. u._, che affidava ai due consoli, Cicerone ed Antonio,
la salvezza della republica. (ottobre 63).[92]

Il 27 ottobre[93] Catilina aveva spedito C. Manlio in Toscana, e
metteva alla rivolta Capua, la Puglia e la Marca Anconitana.

Il senato quindi invia quattro generali sui luoghi minacciati, promette
ricompense agli schiavi delatori, ricompense ed immunità ai liberi,
che avessero defezionato dall’esercito dei rivoltosi, e rimanda i
gladiatori a Capua e nelle fortezze, istituendo in Roma una guardia
civica comandata dai magistrati minori, forse dietro un’ordinanza di
_tumultus_[94].

Dopo il 7 o l’8 di ottobre (data della Iª Catilinaria), il senato
costringeva Catilina ad uscire da Roma[95].

Poco dopo, in una coi suoi, lo dichiarava nemico della patria[96], e
delegava il collega di Cicerone, Antonio, a muovere contro i ribelli,
ingiungendo a Cicerone di rimanere a custodia della città[97].

Frattanto, questi riesciva ad avere in mano i capi dei congiurati:
senatori, pretori, antichi nobili romani, lasciati da Catilina in città
— si narrava — con ordini feroci.

Sfuggendo a qualsiasi risoluzione personale, egli convocò il senato,
il quale assistette all’interrogatorio di tutti i presunti colpevoli,
ascoltò le delazioni e le denunzie, e ordinò che gli arrestati fossero
trattenuti e che il pretore Lentulo, uno dei medesimi, deponesse la
carica[98]. La loro sorte fu decisa in una prossima tornata. Colpiti
da sentenza capitale, essi caddero strozzati dai _tresviri capitales_,
sotto la sorveglianza del console.[99]

L’anno appresso, Catilina coi suoi periva combattendo contro l’esercito
di Antonio,[100] mentre, in Roma, i nuovi consoli (Silano e Murena)
proseguivano le loro inchieste sui sospetti di collusione coi
ribelli.[101]


VIII.

La repressione lasciò come sempre, uno strascico di odî.[102] Il
senato, previggente, avea per ciò stabilito che, chiunque avesse osato
citare alcuno in giudizio per la condanna dei Catilinari, lo si sarebbe
considerato quale nemico e traditore.

Il tribuno Metello Nepote, che accusava appunto il senato di avere
condannato a morte dei cittadini senza la suprema decisione dei comizi,
fu costretto a tacere.

Più tardi tornò alla carica, proponendo il richiamo di Pompeo, che
guerreggiava allora in Oriente e fidando nel di lui zelo per la
causa popolare; ma fu osteggiato dagli aristocratici e dai suoi
stessi colleghi. Ne seguì una zuffa in pieno comizio. Il senato votò
immediatamente un _s. c. u._[103] (62). Nepote, temendo, riparò presso
Pompeo.


IX.

Era il 52 a. C. Per gl’incessanti tumulti suscitati dalle brighe
dei candidati, non si erano potuti tenere i comizi consolari, nè dai
consoli dell’anno precedente, nè dai successivi _interreges_[104].

Milone, un fiero avversario dei democratici, uccide per via Clodio,
il nemico implacabile di Cicerone e dell’aristocrazia. Il popolo e i
tribuni della plebe gli fanno splendidi funerali, incendiano la curia
del senato, minacciano di radere al suolo la casa di Milone, e invadono
quella dell’_interrex_, per costringerlo a tenere immediatamente i
comizi, che speravano allora sfavorevoli agli ottimati.

Sopraggiungono le bande miloniane e scacciano gli invasori. Il senato
allora vota un _s. c. u._, per cui affida ai tribuni, all’_interrex_
e al proconsole Pompeo, che aveva ottenuto la proroga quinquennale del
governo della Spagna, la difesa della republica[105] (30 gennaio)[106].
Indi, riconfermatolo in una nuova seduta, tenutasi tra una guardia di
soldati, fuori del _pomerium_, in prossimità dell’esercito pompeiano,
invia Pompeo a Roma a far nuove leve[107] e gli conferisce il consolato
senza collega.

Pompeo però nomina come tale Quinto Scipione, figlio di Nasica, e,
per non offendere Cesare, fa a quest’ultimo dai tribuni decretare
sin da ora il consolato per il tempo, in cui l’avrebbe legalmente
potuto ottenere. Indi propone nuove forme regolatrici dei processi,
che avrebbero riguardato i fatti determinanti il s. c. u., inizia
i dibattimenti, e chiude l’anno dei suoi poteri straordinari colla
votazione di due nuove leggi, alle quali era però accordato un valore
permanente.


X.

Scadeva a Cesare il secondo quinquennio del preconsolato[108], dopo
il quale, secondo il parere del senato, egli avrebbe dovuto deporre
la carica ed il comando dell’esercito, mentre, secondo lui, e secondo
molti degli ottimati, avrebbe potuto tenere l’una e l’altro sino alle
elezioni consolari[109].

Così avrebbe evitato un intervallo di vita privata, accessibile ad
accuse e a processi, solito sfogo di rappresaglie politiche.

Dopo parecchie violente discussioni in senato e privati reciproci
messaggi, Cesare, da Ravenna, dove, reduce dalle Gallie, si trovava ad
invigilare le vicende della capitale, inviò al senato un _ultimatum_,
dichiarandosi, checchè facesse Pompeo, allora luogotenente delle
Spagne, pronto a congedare otto e persino nove delle sue legioni,
purchè il senato gli concedesse il comando della Gallia Cisalpina e
dell’Illirico fino alle prossime elezioni consolari.[110]

Era un tornare alle solite. La questione giuridica celava infatti una
più grave questione politica.

Cesare aveva esordito sposando una figlia di Cinna, e, dopo essersi
rifiutato ad obbedire agli ordini del dittatore Silla, che gl’imponeva
il divorzio, avea, contro il volere del medesimo, mantenuto la carica
sacerdotale conferitagli da Mario.

Poco prima della congiura catilinaria, egli era stato la mente
ispiratrice di quell’abile disegno di legge agraria presentato da P.
Servilio Rullo, che, a giudizio del Mommsen, «doveva preparare alla
democrazia una posizione eguale a quella fatta a Pompeo dalle proposte
gabino-manilie».[111] Della congiura di Catilina egli era stato senza
dubbio simpatizzante, ed egli solo avea sostenuto, a viso aperto, la
difesa degli imputati, come, dopo la loro condanna, avea osteggiato
fieramente Cicerone. Console al 59, egli aveva ripresentato la legge
agraria di Rullo[112] e l’anno appresso un plebiscito, che gli avea
concesso per un quinquennio la luogotenenza della Gallia Cisalpina, gli
avea offerto i mezzi di raccogliere i frutti che si aspettava dal suo
consolato, ed incarnare finalmente l’ideale suo e del partito: l’impero
della democrazia per mezzo delle proprie legioni di generale.

I suoi successi nelle Gallie non avevano servito che a rinfocolare
tale speranza. Adesso era venuto il momento di tirare le somme, ed era
questa la catastrofe che il senato tentava di scongiurare, ritogliendo
a Cesare le legioni.

Quanto a Pompeo, il quale non aveva mai seriamente appoggiato il
partito radicale, e ne aveva ricevuta alleanza solo perchè talvolta si
era schierato contro quello senatorio, avea, poco a poco, girato la
propria posizione, e ciò che più ve l’aveva determinato, erano state
le vittorie di Cesare in Gallia e la sua misera contesa con Clodio in
Roma.

Il convegno di Lucca del 56 avea per un momento eliminato i palesi
rancori, ma, al 52, Pompeo, creato in realtà dittatore, oltre a
perseguitare giudiziariamente alcuni degli antichi partigiani di
Cesare ed emanare una nuova legge _de ambitu_, nella quale era agevole
intravedere un pericoloso attacco personale contro il proconsole
delle Gallie, lo aveva trascurato nella scelta del collega, e — fatto
ancora più grave — egli si era riconfermata per altri cinque anni la
luogotenenza della Spagna. Quando poi la questione giuridica era stata
posta all’ordine del giorno del Senato, la coalizione di Pompeo con il
partito aristocratico era già un fatto compiuto.

L’_ultimatum_ di Cesare, come del resto le sue anteriori proposte,
accolte con entusiasmo dal popolo, a cui erano state notificate dai
tribuni Curione ed Antonio, trovò vivissima opposizione da parte
dei consoli e del senato, che lo respinse a grande maggioranza, e
votò invece la proposta di Scipione, suocero di Pompeo, colla quale
si minacciava a Cesare la qualifica di traditore e nemico pubblico,
qualora, entro un dato termine, non avesse deposto la carica e
l’esercito[113].

Al s. c. fu opposta l’_intercessio_ dei tribuni. Il senato allora
decreta il lutto pubblico[114], e si riconvoca per decidere sul divieto
tribunizio.

Nuova _intercessio_ e nuove proteste. L’assemblea, scioltasi fra il
tumulto, viene riconvocata la sera da Pompeo, che eccita i senatori
a rifiutare ogni partito più temperato. I tribuni, vista inutile la
loro opera, anzi pericolosa la loro permanenza in Roma, tanto più
che il console ve li costringeva, riparano presso Cesare, ed il 7
gennaio veniva votato un _s. c. u._, col quale si affidava ai consoli,
pretori, tribuni e proconsoli, residenti in città, la difesa della
repubblica.[115]

Pochi giorni dopo, il senato si recava da Pompeo fuori del _pomerium_,
e, dopo aver proclamato _tumultus_,[116] iniziava i preparativi per la
guerra: 1) leve in tutta Italia, sì da raccogliere 130 mila soldati; 2)
arrolamento di mercenari da nazioni estere; 3) concessione del denaro
pubblico a Pompeo; 4) tasse municipali d’armi e di danaro, e, se questo
non bastasse, contribuzione privata; 5) espoliazioni degli arredi
dei tempî; 6) conferimento a privati di due province pretorie e due
consolari.

Senza nemmeno riconfermare loro l’_imperium_ con una deliberazione
popolare[117], si dà principio alla guerra.


XI.

Mentre Cesare in Oriente si apparecchiava all’ultima battaglia contro
Pompeo, in Roma il pretore Celio Rufo, un democratico e cesariano,
promulgava nuove leggi in pro dei debitori.

«Il cronico male della necessità di contrarre debiti, scrive l’Ihne, si
era acuito col deprezzamento delle proprietà, determinato a sua volta
dal timore di devastazioni militari e dal ristagnamento degli affari.
Un gran numero di ragguardevoli e minuti debitori della specie dei
Catilinari sperava in una universale estinzione dei debiti».

«Poichè molti si affrettavano a nascondere in luogo sicuro quanto
possedevano, il denaro era sparito dal commercio. Non esisteva più
fiducia», «e i proprietari si trovavano nell’impossibilità di vendere o
ipotecare le case o i latifondi allo scopo di riscattare gli eventuali
loro debiti».[118] La guerra permanente avea generato i suoi effetti
naturali, e Cesare stesso, sentendo la necessità di nuove leggi sui
debiti, prima della guerra civile, avea ordinato l’estimo di tutte le
possessioni mobili ed immobili, che dovevano, in proporzione del loro
valore, passare in mano dei creditori. Al punto, in cui gli eventi
erano precipitati, la proposta riesciva di una discutibile praticità,
ma, quel ch’è peggio, essa probabilmente non ebbe corso.

Molto più radicale invece voleva essere l’opera del pretore Celio
Rufo. Egli in una legge che presentò ai comizi centuriati, propose una
dilazione di sei anni senza decorso d’interessi, e a questa ne fece
seguire due altre, l’una condonante ai pigionali il saldo del fitto
d’alloggio arretrato, l’altra promulgante l’estinzione generale dei
debiti[119].

Il senato allora, dietro relazione del console, vota un _s. c. u._
(48).[120] Il console, incaricato dell’esecuzione, sospende Celio e
lo sostituisce con un altro pretore, lo caccia dal senato, lo strappa
dalla tribuna, mentre quegli si doleva del trattamento inflittogli, e
ne spezza pubblicamente la sedia curule.

Celio temette che ne fosse per seguire qualche grave punizione. Tentò
di evadere dalla città, ma la sorveglianza del console ne lo impedì.
Si presentò a lui, chiedendo di recarsi presso Cesare. Gli fu accordato
con l’obbligo di farsi scortare da un tribuno e col diritto di uscire,
portando seco le insegne di pretore. Per via, presso Capua, si rifiutò
di obbedire alla sua scorta, che gl’imponeva di proseguire il viaggio.
Tentò muovere un’insurrezione negli Abruzzi, dove perì ucciso dalle
milizie del console.


XII.

L’agitazione suscitata da Celio Rufo fu ripresa immediatamente dal
tribuno P. Cornelio Dolabella[121]. Era l’anno 47, e, nell’assenza
di Cesare dall’Italia, rimanendo il governo di Roma nelle mani di
Antonio, il suo _magister equitum_, Dolabella ripropose le leggi di
Rufo. Il senato, sentendosi, per varie ragioni, nell’impossibilità di
opporvisi, volle tentare una dilazione, e vietò che si proponessero
delle innovazioni sino al ritorno di Cesare, mentre Antonio sospendeva
la concessione del porto d’armi entro l’ambito del _pomerium_.

Ambedue le misure riescirono vane, e il senato ricorse al _s. c. u._,
affidando la difesa della capitale ai tribuni del popolo e al _magister
equitum_,[122] con la raccomandazione di tenere l’esercito consegnato
in città. Il nuovo espediente non fruttò più degli antichi. Allora
Antonio, che avea precedentemente favorito Dolabella, gli suscita
contro il di lui collega ed avversario Trebellio. Il senato torna ad
affidargli la difesa della republica.

Ma neanco questa volta si venne a capo di nulla. Bisognò attendere il
ritorno di Cesare, che placò poscia definitivamente le contese mediante
un’amnistia generale.


XIII.

Agli idi di marzo del 44, Cesare moriva assassinato in seguito alla
nota congiura degli _optimates_.[123]

Ma costoro, i quali illudevano che tale violenza fosse sufficiente a
svegliare nel popolo, insieme con l’antico amore verso le istituzioni,
nuovo sdegno contro il morto dittatore, che le avea in gran parte
violate, dovettero restare ben attoniti al bieco silenzio, da cui
furono circondati, quando, poco dopo l’eccidio, si diedero a percorrere
le strade di Roma coi pugnali stillanti sangue nella destra.

Tale episodio, che più tardi diede agio a Cicerone di declamare non so
che sentenze sui fatali effetti della corruzione dei popoli, bastò a
suscitare nuove speranze tra le file degli scorati cesariani.

L’autorità dell’estinto era stata singolare.

Cogliendo occasione dalla gravità delle circostanze sociali e
politiche, sospinto in gran parte dai suoi sogni ambiziosi, egli aveva
assommato in sè quasi tutti i poteri dello stato.

L’esempio era pericoloso, e, non poteva non prevedersi che voglie
analoghe sarebbero, alla sua morte, risuscitate in uomini di analogo
temperamento. Infatti, non mancarono i candidati alla eredità del
dominio: da un lato M. Antonio, il più favorito degli amici del
dittatore, il sostenitore della sua politica interna, il compagno delle
sue imprese estere; dall’altro il diletto figlio adottivo, l’erede
universale delle proprie sostanze, C. Cesare Ottaviano. La lotta
combattuta con criteri eminentemente politici fra Cesare e Pompeo
risuscitava tra le file di uno dei due partiti, degenerando in un
conflitto di miseri interessi personali.

Antonio, pel primo, in virtù di una «_lex de actis Caesaris
confirmandis_», pubblica le postume _leges iuliae_, fra cui ne
interpola altre di fattura propria, scaltra macchina di guerra per
ischiacciare gli antichi nemici, assicurarsi nuovi amici, e legare più
saldamente ai propri gl’interessi di quei partiti, che tanto avevano
sostenuto il suo predecessore.

Una scorsa al contenuto delle più importanti fra le medesime non può
non rendercene avvisati.

A base di tutto stava una legge agraria e una coloniaria (_de colonis
in agros deducendis_), ambedue aventi lo scopo di favorire i veterani
dell’esercito, sia col distribuire gli scarsi avanzi delle terre
demaniali italiche, sia col rendere tali nuove _possessiones_ ancora in
potere di privati.

Di eguale importanza era una legge giudiziaria, colla quale si
stabiliva che nei tribunali penali alle due decurie dei senatori e dei
cavalieri fosse aggiunta altra dei centurioni[124], e ciò allo scopo
di far guadagnare agli ufficiali dell’esercito una notevole influenza
nello stato.

Una nuova legge _de vi_ conferiva ai presunti rei per attentati
alla sicurezza della republica e per lesa maestà l’appello ai comizi
centuriati, e stabiliva, in luogo della morte, come massimo di pena,
l’esilio e la confisca di metà degli averi.

Per isbarazzarsi di Lepido, foriero di probabili ostacoli, al quale
avea promesso il pontificato, Antonio ripigliò la legge, per la quale
Cesare avea deferito al popolo la scelta del titolare a codesta suprema
magistratura; ed il popolo, interpetre dei di lui desideri, rimandò
Lepido ad altri uffici.

Come si vede, siamo ancora nel programma democratico dei tempi andati,
rincarato di una leggera tinta militarista, che vi avea introdotta
Cesare, e, prima di lui, Pompeo, il quale, a sua volta, l’aveva
ereditato da Silla e da Mario.

Ma se questa era l’opera di Antonio, poco meno abile ci appare quella
di Ottaviano, il quale, non potendo gareggiare nel campo legislativo,
dove già altri l’aveva con tanta fortuna preceduto, risponde con un
atto d’abnegazione, soddisfacendo, colla vendita dei beni mobili ed
immobili di sua proprietà, al legato di Cesare, che lasciava trecento
sesterzi per testa ai 150000 cittadini, che ricevevano grano dallo
stato.

Della sorte dei due uomini, forse allora egualmente favoriti
dai _populares_ e dall’esercito, rimaneva arbitro il partito
conservatore, il quale metteva capo al suo _leader_ intellettuale,
M. Tullio Cicerone. La vittoria sarebbe toccata a chi avesse saputo
guadagnarselo.

Coerente al proprio passato ed a quello del suo partito, Cicerone
scelse come primo bersaglio quello dei due uomini che più gli appariva
temibile, e attaccò subito Antonio per la succitata legge _de vi_ e
per l’altra _iudiciaria_[125]. In pari tempo Ottaviano, pur fermo a
garantire con la sua persona e col suo passato prossimo e remoto le
proprie simpatie politiche, capiva che contro Antonio bisognava a sua
volta servirsi di Cicerone.

Questi, il 20 dicembre, con la terza Filippica induceva il senato a
confermare la Gallia Cisalpina a quel Decimo Bruto, che era stato uno
dei congiurati, di cui approvava le leve fatte contro Antonio; e, al
tempo stesso, faceva decretare dal senato onori e rendimento di grazie
ad Ottaviano e alle legioni disertate da Antonio.

Uguale, se non migliore resultato, egli otteneva con la 5ª Filippica
(1 gennaio 43), colla quale avea proposto che Bruto fosse dichiarato
benemerito della patria, e fatto stabilire che si erigesse ad Ottaviano
una statua; che gli s’accordasse la dignità senatoria e il diritto di
chiedere le altre magistrature dieci anni prima dell’età prescritta, lo
si rimborsasse delle spese patite per l’arrolamento delle soldatesche
al servizio della republica e si esentassero quelli tra i suoi soldati,
già disertori di Antonio, da ulteriore servizio militare, promettendo
inoltre una prossima spartizione di terre demaniali.

La questione, su cui l’oratore e il senato non si trovarono pienamente
d’accordo, fu quella dell’invio di un’ambasceria ad Antonio. Una
decisione definitiva non si potè avere che con un notevole ritardo. In
essa fu stabilito d’intimare ad Antonio: 1) che lasciasse le legioni
e la Gallia Cisalpina, in cambio della quale avrebbe ricevuto la
Macedonia; 2) che levasse subito l’assedio a Decimo Bruto, che già
s’era chiuso a Modena; 3) che, entro un termine prescritto, ripassasse
con l’esercito al di qua del Rubicone.[126]

Quanto ai suoi soldati, essi erano obligati a tornare in patria sotto
minaccia di essere dichiarati _hostes publici_.[127]

Le risposte di Antonio non furono meno recise. Egli prometteva: 1)
di ritirarsi dalla Gallia _togata_, non già dalla _chiomata_; 2) di
licenziare l’esercito, salvo sei legioni, sino al giorno, in cui Cassio
e M. Bruto avessero, in qualità di consoli o di proconsoli, occupato
le loro province; 3) chiedeva che il senato accordasse ai suoi soldati
i medesimi onori, che erano stati accordati a quelli di Ottaviano, e,
oltre a riconoscere la già avvenuta distribuzione dei territori campano
e leontino, assegnasse loro nuovo bottino e terre demaniali.

Chiedeva altresì: 1) che fossero mantenute le leggi sue e dei colleghi
fondate sui chirografi e i comentari di Cesare; 2) che fosse concessa
immunità ai settemviri[128] pei loro atti trascorsi; 3) che infine non
si facesse inchiesta sui tesori del tempio di Opi, dove, secondo i suoi
avversari, si celava uno sperpero di ben sette milioni di sesterzi.

Ma nè Ottaviano, nè il senato potevano annuire a tali contro-proposte.
Ogni tentativo di conciliazione era esaurito; non rimaneva che intimare
la guerra, e così fu fatto.

Venne immediatamente votato un _s. c. u._, pel quale si raccomandava
ai consoli Irzio e Pausa e al propretore[129] Ottaviano la difesa
della republica (gennaio 43).[130] Il _s. c. u._ era stato preceduto
da un altro di _tumultus_[131]. Tutto il popolo romano prese le armi.
Per ricolmare l’esausto erario ogni cittadino contribuì 1/25 dei
propri beni, ciascun senatore pagò quattro oboli per ogni tegola delle
case possedute in città, mentre universali contribuzioni d’armi e di
forniture militari sopperivano all’urgenza della circostanza.

I voti di Cicerone potevano dirsi esauditi, se non fosse stato il
cattivo esito dei suoi tentativi per far dichiarare Antonio nemico
dello stato. Contro di lui prevalse, oltre alle ripetute intercessioni
tribunizie,[132] l’eloquenza del suocero di Cesare, L. Calpurnio
Pisone; e tale gioia non gli fu concessa, se non dopo la totale
disfatta di Antonio in Gallia e il suo raccozzamento con Lepido[133].
La dichiarazione d’_hostis publicus_ fu allora, come sempre,
accompagnata dalla confisca dei beni[134].


XIV.

La disfatta di Antonio[135] fece accorgere il senato di avere ecceduto
nell’esaltare quell’Ottaviano, che non lasciava di essere figlio
di Cesare e democratico per giunta, rappresentante cioè di quelle
tendenze monarchico-militari, che avevano condotto a morte il padre
suo. Perciò come si era servito dell’erede di Cesare contro Antonio,
così esso tentò di servirsi contro quest’ultimo del molto più schietto
conservatore e republicano D. Bruto. Per tali ragioni decretò, ma solo
a costui, sacrifizi e trionfo; a lui solo affidò la continuazione della
guerra ed il comando delle legioni, (dei due consoli, uno era morto,
l’altro moribondo), mentre ne onorava i soldati coi premi e con gli
elogi promessi a quelli di Ottaviano, i soli che si fossero realmente
battuti.

Contro al nuovo nemico intanto stavano armati i più noti conservatori
del tempo: Sesto Pompeo con la flotta, M. Bruto colle legioni
di Macedonia e C. Crasso in Siria con l’incarico di guerreggiare
Dolabella, reo di avere ucciso Trebonio, uno dei congiurati contro
Cesare. Come se ciò non bastasse, il senato cercava di insinuare la
discordia fra Ottaviano e il suo esercito. Il buon senso e la fedeltà
di quest’ultimo fece fallire il colpo, mentre d’altro canto Ottaviano
si decideva ad entrare in trattative con Antonio.

L’antico luogotenente di G. Cesare si era il 29 maggio congiunto con
M. Emilio Lepido,[136] uno dei più noti seguaci del morto dittatore; e
la notizia era stata accolta con tale terrore dal consiglio senatorio
da indurlo, temendo di peggio, a riaffidare ad Ottaviano la ripresa
delle ostilità. Questi rispose che il suo esercito avea giurato di
non muovere contro legioni, che, come quelle di Lepido e di Antonio,
fossero appartenute a Giulio Cesare. Quattrocento dei suoi soldati
si recano anzi dal senato, chiedendo per sè le ricompense promesse e
non ricevute, pel loro duce il consolato, e l’amnistia per le legioni
di Antonio. Avuto un diniego a tutte le loro richieste, tornano ad
Ottaviano, e questi non tarda a marciare su Roma. Il senato allora,
dopo avere invano tentato di conciliarselo insieme all’esercito con
onori e con l’esaudimento di tutte le precedenti richieste, decretato
_tumultus_,[137] vota un _s. c. u._,[138] affidando ai pretori la
difesa della republica, e facendo occupare il Gianicolo e il Tevere
dalle milizie, che esso potè avere a sua disposizione (29 maggio-19
agosto 43).[139].


XV.

Ottaviano[140] avea elevato ai primi onori Salvidieno Rufo. Ma, per
ignote ragioni, al 40, il suo protettore medesimo lo accusò in pieno
senato di cospirazione contro la propria persona e contro il popolo
romano. I triumviri (Antonio, Lepido e Ottaviano) vennero incaricati
della difesa della repubblica.[141] (40)

Furono ordinate delle pubbliche preghiere. Rufo fu condannato alla pena
capitale, e finì, non si sa bene, se suicida o sgozzato.[142]


XVI.

Non si può segnare alcun _s. c. u._ posteriore alla fine della
republica. Uno, di cui il Mommsen[143] à creduto ci sia fonte Dione, è
originato da una falsa lezione del testo del medesimo[144].




CAPITOLO III.[145]

IL SENATUS-CONSULTUM-ULTIMUM.


I.

Il nome, con cui i moderni hanno designato l’eccezionale misura
senatoria, è sconosciuto alla classicità. Nè può darsi diversamente,
poichè esso s’è formato e fissato dagli epiteti, con cui qualcuno
degli antichi l’à qualificato. Livio l’avea detto «_utimae semper
necessitatis_»; Cesare «_extremum atque ultimum s. c._,» e i moderni
l’hanno denominato l’«_estremo s. c._»: il _senatus consultum-ultimum_.

Il _s. c. u._ è votato nell’occasione di una guerra esterna, di
un’agitazione politica interna, di un’insurrezione armata di qualche
generale al di fuori della città, di una congiura, di una grave e
pericolosa violazione delle leggi esistenti da parte di un magistrato
civile, di una sedizione, etc.

Esso quindi, con le operazioni che inizia, colpisce nemici esteri ed
interni, privati e magistrati civili o militari.

Essendo un _s. c._, soggiaceva a tutte le modalità del medesimo.
Veniva inscritto e incorporato (_perscriptum_) insieme con gli
altri,[146] depositato _nell’aerarium Saturni_[147], trascritto in un
giornale officiale etc.

Se non che, pur essendo differente da quel genere di _s. c.ª_ i quali,
perchè votati in seguito a plebisciti, che delegano al senato la
decisione su date materie, non ammettevano intercessione di magistrati
o di tribuni,[148] esso la esclude _a priori_.

Benchè di ciò non abbiamo attestazione teorica alcuna, nè lo potremmo,
perchè non esiste legge, che autorizzi al _s. c. u._, ciò non pertanto,
possiamo dire di possederne la sicurezza più indiscutibile. Lo
comprova:

1. La costante assenza d’_intercessio_, persino in casi, nei quali i
minacciati erano, per esempio, i tribuni insieme con gl’interessi dei
rappresentati dai medesimi.

2. Il carattere, come vedremo, esecutorio, non già semplicemente
consultivo del medesimo.

3. Il dritto, che il senato s’arrogava o conferiva agli incaricati
di sospendere i magistrati sediziosi, nel cui novero sarebbero certo
entrati gli intercessori.

4. La sospensione di guarentige, ancora più importanti, quali la _lex
de provocatione_.

E mentre negli ultimi secoli della repubblica, che sono anche i più
frequenti di _s. c. u.ª_, il semplice _s. c._ non diveniva esecutorio,
se non dopo depositato nell’erario[149], il _s. c. u._ si considerava
tale sin dall’istante della sua votazione.

Siffatta misura non moveva sempre dai rapporti ufficiali del potere
esecutivo sulla situazione interna od estera dello stato.

Il più delle volte ci sfugge la persona, sulla cui domanda è stata
indetta l’assemblea senatoria, e, quando si pensa che questa spesso
votò dei _s. c. u.ª_, malgrado il sentimento dei magistrati, allora
investiti dell’_ius agendi cum patribus_, i quali avrebbero avuto
interesse di evitarne la decisione col non convocarla, non è ardito
supporre che codeste sedute si siano tenute dietro iniziativa di
qualche gruppo di senatori, forse dei _principes senatus_, i quali,
ogni qualvolta si tratta di votazioni di _senatus-consulta ultima_,
figurano tra le prime file dei combattenti.[150]

Tanto meno ci apparisce probabile che la convocazione sia stata
indetta dai capi del potere esecutivo, in quanto che, non essendo le
sedute senatorie regolate da un ordine del giorno qualsiasi, riesciva
agevolissimo da ogni questione particolare sollevare, quando si fosse
voluto, la domanda di votazione della temuta misura eccezionale.

Se, in tali casi, negli stati contemporanei, il potere esecutivo evita
scrupolosamente la convocazione delle assemblee legislative, le quali,
alla peggio, possono infliggergli un voto di biasimo, quanto più grave
tale convocazione non doveva riescire nello stato romano, dove non solo
l’onore, ma la vita del partito e degli amici politici dei magistrati
convocatori potevano per un simile atto correre il più grave dei
pericoli!

Mai però, è bene notarlo, la proposta partì direttamente da un
magistrato o da persona estranea al senato.

Occorrendo votare il _s. c. u._ in momenti di pericolo, il senato
poteva far ciò anche in ore estranee a quelle consentite dall’uso,[151]
per esempio di notte, facendosi spesso custodire da una guardia
ordinata all’uopo dal console,[152] nè curava che la sede dell’adunanza
fosse, come di regola, un tempio.[153]

La sua formola ci viene riferita variamente («_Videant_» o «_dent
operam consules etc. ne quid respublica detrimenti capiat_», «_ut
consules etc. armis rempublicam tuerentur_»; «_ut consules etc.
libertatem legesque manu defenderent_», «_ut cons. adhiberent operamque
darent_», «_ut imperium populi romani maiestasque conservaretur_»,
«_ut cons. rempublicam defenderent_»[154] etc.), salvochè tutte queste
formole, toltane la prima, non sono che rifacimenti o riferimenti
sommari della genuina, e di ciò ce ne assicura a più riprese
Dione.[155]

Il _s. c. u._ affida la difesa della repubblica a dei magistrati
forniti d’_imperium_, ordinari e straordinari, quali il _magister
equitum_[156] e i _tresviri reipublicae constituendae_, e, talvolta,
con essi ai tribuni.[157]

Essi vi sono nominati in ordine gerarchico: consoli, pretori, tribuni
etc. Se i consoli sono assenti,[158] si comincia dai pretori.

In mancanza dei consoli e dei pretori, vi si sostituisce l’_interrex_.
Possono aggiungervisi i proconsoli e i propretori.

Alle volte, il senato, anzichè incaricare altri magistrati, oltre ai
consoli, concede a questi la facoltà di aggregarsene.[159] Nel caso
però che il _s. c. u._ sia diretto contro dei magistrati, i colpiti si
ritengono esclusi dall’appello, che si fa al loro ordine.

Il senato può, insieme con l’incombenza della repressione, conferire ai
magistrati una nuova carica, che essi, salvo il caso di un’ordinanza
di _institium_, geriscono insieme con le loro specifiche attribuzioni
dei tempi normali. E se si tratta di magistrature collegiali, può anche
lasciare ai medesimi la scelta del collega. Così avvenne al 52, quando
Pompeo nominò console Q. Scipione[160].

Se i magistrati, o il principale tra essi, è assente da Roma nel giorno
della votazione, o, se la sicurezza della città lo richiede, il senato
può testimoniargli la costanza dei propri propositi e dei propri
desideri, riconfermandone l’incarico in una posteriore seduta, alla
quale egli abbia agio di partecipare.

Possono i magistrati rifiutarsi di assumere l’incarico loro affidato,
come lo possono rispetto al semplice _s. c._?[161]

È una questione, che ci è impossibile non lasciare insoluta, giacchè
l’unico fatto, che possa risolverla, è il rifiuto del console Muzio
Scevola al _s. c. u._, votato contro Tiberio Gracco, della cui realtà
storica non possiamo però vantare una sicurezza superiore ad ogni
dubbio.[162] Mario, piuttosto che venire a tale estremo, preferì
sacrificare i suoi amici politici.[163] Se non che, il tentato _s. c.
u._ contro Tiberio sta a provarci come un rifiuto del potere esecutivo
non costituiva un ostacolo alla esecuzione dei decreti del senato,
i quali perciò dimostrano di possedere quel valore esecutivo, che
caratterizza la nostra misura. Può anzi dirsi che tutti i magistrati,
sin dal giorno della votazione, vengano a stipulare il patto della loro
servitù col consiglio senatorio.

Questo moltiplica le sue sedute, le trasporta, in prossimità della
residenza dei generali, a cui à affidata la difesa della republica,
vi si fa custodire da picchetti armati, diramando ordini perentori
e inoppugnabili. Cosicchè tutti gli atti, successivi al _s. c. u._,
procedono e dai magistrati incaricati e dal senato, in maniera che le
attribuzioni degli uni vengono a confondersi promiscuamente con quelle
dell’altro.

Quest’ultimo avoca a sè tutti i poteri dello stato, e, se non legifera,
sospende le più salde guarentige della costituzione, e governa come in
base a delle leggi, che non formula, ma che esegue.

Tanta onnipotenza scema nel caso che l’incombenza della difesa sia
trasmessa a un generale. Allora questo, in realtà, s’impone al senato,
e occupa nella direzione del governo un posto superiore ai magistrati
civili.

Nè seguono conflitti di preminenza.

La sommissione a lui, che detiene la forza armata, si opera quasi
consenzientemente.


II.

Le misure da usare differiscono a seconda dei casi. Ne esistono però di
comuni. Votato il _s. c. u._, coloro, contro i quali tacitamente esso
era diretto, possono, se cittadini, venire dichiarati _hostes publici_,
con o senza riserva di riabilitazione, dietro resipiscenza entro un
dato termine,[164] o minacciati di tale dichiarazione, se non avessero
voluto sottomettersi agli ordini del senato[165].

Tale qualifica importava la messa al bando di tutte le garenzie dei
cittadini insieme con la necessità di una persecuzione militare[166].

Mi sono espresso in maniera da mostrare che io non ritengo codesta
misura inevitabilmente connessa al s. c. u., come fa il Willems[167],
e ciò perchè noi conosciamo dei _s. c. u.ª_, pei quali i presunti
colpevoli non furono punto dichiarati _hostes publici_, e delle
dichiarazioni di _hostes publici_ senza precedente, (spesso senza
conseguente), _s. c. u._

Non lo fu infatti C. Gracco, non Metello Nepote, non gli avversari
di Milone, non Celio Rufo, non Ottaviano. Il _s. c. u._ non è votato
perchè vi siano degli _hostes publici_, ma esservi degli _hostes
publici_ ne è uno dei casi che lo motivano. Al 43, votatosi il _s.
c. u._ contro Antonio, Cicerone si scalmanò invano fino alla XIVª
Filippica perchè costui fosse, insieme coll’esercito, dichiarato
_hostis publicus_.

Per contro, all’88, furono dichiarati _hostes publici_, senza
preventivo o successivo _s. c. u._, Sulpicio e Mario insieme con altri
dieci cittadini, Antonio dopo la sua prima campagna contro Bruto ed
Ottaviano, quando ogni misura eccezionale era scaduta, Lepido prima
della seconda guerra, che il senato affidava ad Ottaviano contro
Antonio, senza farvi nemmeno precedere un _s. c. u._[168]. Spesso,
sotto l’impero del _s. c. u._, si colpiscono colla dichiarazione di
_hostes publici_ persone imputate di torti estranei a quelli, che
aveano motivato la misura precedente. Tale fu il caso di P. Cornelio
Dolabella al 43[169].

D’altro canto, dopo la dichiarazione di _hostes publici_ insieme con
persone perseguitate secondo lo spirito di detta dichiarazione, noi ne
troviamo delle altre, per cui i suoi effetti si estinguono, direi così,
_lapsu memoriae_[170], ed altre, per cui ciò si ottiene solo previa una
legge centuriata, introdotta da un _s. c._[171].

Oltre alle dichiarazioni d’_hostes publici_, il senato poteva far
decretare dai capi del potere esecutivo l’armamento generale della
cittadinanza, il così detto _tumultus_ (= ταραχὴ [Dio — XXVII, 31; XLI,
3; XL VI, 29]).

Il _tumultus_, nei primi secoli della repubblica, veniva ordinato o dal
dittatore o dai magistrati ordinari, dietro un semplice _s. c._[172].
Nè questa consuetudine andò in disuso, come crede il Willems[173].
Ordinanze di _tumultus_, senza precedenti _s. c. u.ª_, ne furono
votate, tra le altre, durante la guerra sociale[174], durante le
ostilità del 43 fra Ottaviano ed Antonio[175], al 63 per la congiura
di Catilina[176]. Esse precedono o seguono il _s. c. u._, senza
regola prestabilita, e, se di consueto, coincidono con tali decisioni
senatorie, ciò avviene perchè anch’esse segnano il sovrastare di un
pericolo imminente.

Dopo il decreto, tutti i cittadini, indistintamente, anzichè al
disarmo, sono costretti a indossare il costume militare, il _sagum_,
e a pigliare le armi: i consoli, o chi per essi, ne dispensano nel
foro[177], e gli arrolati sono inscritti a seconda che vengono a dare
il nome. Dopo l’iscrizione, invece di prestare il giuramento personale
(_sacramentum_), giurano in massa (_coniuratio_).[178]

Si costituisce una guardia civica permanente, le cui pattuglie, sparse
per la città, sono comandate dai magistrati minori.

Il giuramento però non legava gl’inscritti che pel momento del
pericolo: erano volontari, che tornavano a casa senza bisogno di
congedo[179].

L’arrolamento poteva, anzichè da un magistrato, essere indetto da un
privato, ed allora, invece del _tumultus_, si avea l’_evocatio_[180].

Il decreto di _tumultus_ poteva, come era avvenuto in altri tempi,
accompagnarsi con quello di _iustitium_, che, colla sospensione
d’ogni affare pubblico e privato[181], avea lo scopo di facilitare
l’arrolamento. Ma questa seconda misura, forse per difetto delle fonti,
non v’è caso di _s. c. u._, nel quale ci si presenti.

Se sovrasta il pericolo di una guerra estera, o v’è grave sedizione
dell’esercito di un generale, deliberato a muovere contro Roma, il
senato può, anzichè _tumultus_, decretare che c’è vero e proprio
_bellum_[182], senza che questa differenza abbia più di un valore
morale.

Da ultimo, il senato può vestire le gramaglie o decretare lutto
pubblico[183].

Tutte queste misure particolari scadono contemporaneamente rispetto a
se medesime e rispetto alla principale[184].


III.

A questi provvedimenti d’ordine generale ne seguono degli speciali, a
seconda dei casi.

Se si tratta di una guerra estera, i magistrati incaricati ànno anzi
tutto il dovere di affrontare in persona il nemico, ed accorrere
in aiuto degli eserciti pericolanti.[185] Ma, se ragioni più gravi
impongono la loro presenza in Roma, possono e debbono immediatamente
surrogare a se medesimi i migliori generali, anche se pel momento
questi siano semplici privati[186], conferendo loro l’_imperium_, senza
intervento dei comizi, per recarsi al campo appena sia loro concesso.

Non diversamente occorre che i magistrati si comportino nel caso
d’insurrezione dell’esercito di un generale romano. Indicono leve e
arrolamento di mercenarii; il senato designa i generali, servendosi
all’uopo di semplici privati, di pretori in funzione di governatori
o di proconsoli, di ritorno in Roma e rivestiti quindi dell’imperium
finchè non avessero varcato il _pomerium_[187]; ripartisce loro i vari
comandi militari[188], conferendo spesso ai proconsoli un _imperium_,
estendentesi a più _provinciae_ e superiore a quello dei governatori
ordinari[189]; preannunzia ed impone tasse private o municipali d’armi
e di denaro, espolia, occorrendo, i tesori dei templi[190]; mette
l’erario a disposizione dei bisogni della guerra, e, se la città è
in pericolo, trasmette direttamente le sue disposizioni ai soldati
residenti in essa, ed a quegli altri che è possibile procurare[191].

Più inusitate e complesse erano le misure, che sarebbero occorse per
un’agitazione interna (sedizione, insubordinazione di magistrati,
congiura, agitazione elettorale).

Nel primo e nell’ultimo caso, dopo il _s. c. u._, il senato era
deliberato a farla finita con la violenza.

I magistrati incaricati potevano in tal guisa contare sull’aiuto dei
senatori come corpo armato[192], a cui s’aggiungeva spesso l’ordine
equestre[193], senza che ciò li impedisse dall’emanare altresì un
proclama, nel quale s’invitavano a seguirli i cittadini, che avessero
voluto salva la republica[194].

Se il tempo non stringeva, potevano regolarmente indirsi nuove
leve[195].

Sui capi dei ribelli veniva posta una taglia[196]. Quest’esercito
improvvisato moveva contro i sediziosi insieme con le milizie, di cui
disponeva il console. Se tra questi erano dei magistrati, potevano
venire uccisi, coperti o no delle insegne della carica[197]. A strage
compiuta, si poteva vietare la sepoltura dei morti, interdire il
lutto alle mogli, privare i congiunti dei beni, dei dritti civili,
e spesso della vita[198]. I loro uccisori ricevevano le promesse
ricompense, e, se schiavi, il beneficio dell’affrancamento[199]. Dei
vivi, gli arrestati potevano impunemente venire trucidati in prigione o
sottoposti a ulteriore processo.

Passiamo quindi a studiare le modalità del giudizio, che in ispecial
modo suscitano la curiosità di noi moderni.


IV.

Disgraziatamente non ebbero luogo che due soli processi, quello del
381 contro M. Manlio Capitolino e l’altro del 52 contro Clodiani e
Miloniani, dei quali il primo, per l’età in cui seguì, il secondo, per
le circostanze eccezionali, entro cui venne regolamentato, non possono
ritenersi come tipo dei processi possibili sotto l’impero del _s. c.
u._

Al 381 il giudizio fu, come in tempi normali, portato direttamente
dinnanzi alle centurie.

Livio confonde, o meglio non distingue quale parte vi abbiano avuto i
_tribuni plebis_ e i _tribuni militares consulari potestate_[200]. Noi
però, fondandoci sulla pratica dei tempi ordinari, possiamo ritenere,
che mentre i primi adunarono l’assemblea, furono i secondi a sostenervi
l’accusa.

Questa fu di alto tradimento (_regni crimen_). Stante la gravità
eccezionale della situazione, si fece quindi a meno della _quaestio_,
ma fu rispettato l’_ius provocationis_. Manlio potè produrre
testimoni a difesa, esporre le spoglie dei nemici vinti in guerra e
le onorificenze riportate, recitare la sua autodifesa. Se non che
i patrizi (siamo ancora nel cuore della lotta patrizio-plebea),
prevedendo favorevole all’imputato l’esito della causa, «_prodicta
die_»[201], tradussero, come vedemmo, l’accusato dinnanzi all’assemblea
delle curie.

Le modalità del nuovo processo, che, per la sua novità ci avrebbe
interessato molto più del primo, rimangono completamente oscure.
A condanna pronunziata, Manlio fu dai tribuni, (non si sa se dai
_militares c. p._ o dai plebei), precipitato dalla rupe Tarpea.

La sentenza implicò la demolizione delle case di Manlio[202], la
confisca dei beni, la distruzione delle effigie e la cancellazione del
suo nome, dovunque esso apparisse, insieme col divieto ai patrizi di
abitare sul Campidoglio, ove già Manlio aveva abitato[203].

Al 52, l’incaricato della repressione era un generale, i cui
sentimenti, non assolutamente benevoli verso il consesso e il partito,
che gli avea conferito i poteri straordinari, erano allora poco noti.
Egli[204] pensò dapprima a rivolgersi contro coloro, i quali, dopo
essere stati causa dei tumulti, aveano poi voluto la repressione
contro quegli altri, che ne erano rimasti vittime, e fece dal senato
qualificare i fatti accaduti, (uccisione di Clodio, incendio della
Curia, assalto alla casa dell’_interrex_), come reati «_contra
rempublicam_», attentati cioè alla sicurezza dello stato.

Ascritto tale valore politico agli atti commessi, in una legge
«_de vi_», che fece ratificare dal popolo, Pompeo stabilì che il
tribunale giudicante e la forma del processo riescissero, nelle
seguenti particolarità, diversi dagli altri ordinari e coesistenti
pei medesimi reati: 1) il presidente dovea venire eletto nei comizi,
ed essere un uomo consolare; 2) la scelta dei giudici dovea toccare
al plenipotenziario che, in numero di 360, li avrebbe tratti dai
tre ordini di cives, cui spettavano i giudizi (senatori, cavalieri,
_tribuni aerarii_); 3) la procedura del giudizio dovea essere più
sbrigativa della ordinaria; 4) le testimonianze e le prove doveano
precedere le accuse e le difese, ed esaurirsi entro quattro giorni; 5)
l’ultimo, il quinto, dovea riserbarsi al dibattimento e alla sentenza;
6) le orazioni d’accusa non doveano oltrepassare le due ore, tre quelle
di difesa; 7) dovea limitarsi il numero degli oratori, e vietarsi le
testimonianze generiche delle _laudationes_; 8) pena conforme al titolo
del reato dovea essere l’esilio perpetuo e la confisca dei beni; 9)
doveva infine, alle cause, contemplate dalla legge, esser concessa la
precedenza sulle altre pendenti[205].

Il processo contro Milone, per l’uccisione di Clodio, il più
importante, si svolse nel foro, il quale, a richiesta della difesa, fu,
sin dal secondo giorno, custodito dalle milizie di Pompeo.

Milone era stato colpito da quattro accuse: due _de vi_, giusta la
nuova legge di Pompeo e la legge Plauzia, una _de ambitu_ e una _de
sodaliciis_. Fu citato contemporaneamente pel primo e pel secondo
giudizio. Fattosi rappresentare da un amico, ottenne per quest’ultimo
una proroga, mentre egli stesso si era recato al primo tribunale _de
vi_.

Vi sostenevano l’accusa due nipoti del morto. Giusta le nuove
disposizioni, le testimonianze precessero il dibattimento. Assisteva
ogni giorno solo una parte dei giudici, che autenticavano con la loro
firma le deposizioni, già raccolte per iscritto, ed i verbali delle
sedute. L’ultimo giorno l’invito fu generale. Stavano apparecchiate tre
urne corrispondenti ai tre ordini di giudici, e 360 schede, portanti i
nomi dei medesimi, fra cui se ne estrassero 81.

Dopo il dibattito oratorio, si diede lettura del verbale di tutto il
processo. Indi seguì la _reiectio_, cioè a dire lo scarto di 15 giudici
per ciascuna delle parti, 5 per ogni ordine.

Ridotti così a 51, dopo avere giurato, segnarono ognuno il proprio voto
su apposite tavolette, indicando con la lettera C la condanna, con A
l’assoluzione.

Queste medesime norme eccezionali furono seguite nella procedura e
nella costituzione dei tribunali per gli altri processi _de vi_, salvo
quanto alla nomina del presidente, che Pompeo avea riserbato per sè,
come del pari per gli altri _de sodaliciis e de ambitu_, da giudicarsi
però rispettivamente colle ordinarie leggi _Licinia_[206], _Plautia_ e
_Lutatia_[207], _Baebia_, _Calpurnia_, _Tullia_, e _Aufidia_[208].

La nuova legge pompeiana, che stabiliva le nuove modalità pei processi
_de ambitu_, presentava altresì un valore retroattivo sino a diciotto
anni. Tutti poi codesti tribunali eccezionali, conforme alla pratica
ordinaria, e in opposizione, come vedremo, a quella del senato eretto
ad alta corte di giustizia, emanarono sentenze contumaciali.


V.

Se si tratta di una congiura, la cosa corre un po’ diversamente.

Dopo avere diramato i loro confidenti, imposto la fuga ai capi dei
sediziosi, consenziente il senato, munito di presidii la città, fatto
promettere dallo stesso senato pene e premi ai delatori e ai disertori,
comunicate quotidianamente al medesimo, e talvolta anche al popolo, le
proprie informazioni[209], sventata la trama, i magistrati, investiti
dei pieni poteri, convocano, quale alta corte di giustizia, il
consiglio senatorio[210].

Chi lo presiede è il più elevato tra i medesimi, colui che à ricevuto
le denunzie e le confidenze[211], seguito gl’indizi del complotto,
ordinato perquisizioni[212], ed eseguito arresti per mezzo dei
pretori[213].

Egli comincia col riferire gli ultimi resultati di questa sua opera
di giudice istruttore e di capo del potere esecutivo. Presenziano la
seduta i magistrati in carica, e, se ce n’è, i designati. Si viene
quindi all’interrogatorio degli imputati e all’esame dei documenti e
delle sole testimonianze a carico[214].

Quelle imputate di falso, (caso eccezionalissimo),[215] importano
l’incarcerazione immediata da prolungarsi sino a nuove ricerche o alla
confessione della colpa; le altre, le ricompense, già in antecedenza
bandite, che vengono dispensate in pieno senato.

Se fra i presunti rei vi sono dei magistrati, il senato può
destituirli, costringendoli a deporre i dritti e le insegne della
carica e decretarne l’affidamento in custodia ai più noti del partito
che à votato il _s. c. u._[216], mentre, in onore degli incaricati,
benemeriti della repressione, il senato può decretare un voto di plauso
e supplicazioni agli Dei[217].

Dietro incarico del presidente, alcuni tra i senatori redigono un
quotidiano verbale[218].

Esauriti tali preliminari, egli chiede al senato quale titolo di
reato creda di riscontrare negli atti, che s’addebitano agli imputati.
In genere, è facile prevederlo, si decideva di trattarsi di delitti
_contra rempublicam_. Nella stessa, o in una prossima seduta si veniva
quindi alla sentenza finale.

Il presidente, seguendo l’ordine di prammatica, cominciava
dall’interrogare il magistrato in designazione più elevato, discendendo
gerarchicamente ai senatori[219]. La pena poteva variare dalla morte
alla reclusione a vita, compresa la confisca e la interdizione dei
pubblici uffici[220]. Quando la discussione era esaurita, il presidente
stesso pigliava la parola per dichiarare a quale delle opinioni si
rimetteva, e per quali ragioni, o ne svolgeva una sua propria. Era
ammessa la replica e la modificazione delle proprie proposte.

Indi si veniva al voto. Se la pena approvata era la capitale, il
console o i pretori s’incaricavano della traduzione degli arrestati
nel carcere Mamertino, e quindi nel _locus_, che di poi si disse
_tullianum_, riserbato alle esecuzioni. Queste, col solito mezzo dello
strozzamento, venivano eseguite dai _tresviri capitales_. L’appello al
popolo era negato[221].

Il senato, in questa sua opera giudiziaria, nè avea competenza su reati
estranei a quelli, per cui il _s. c. u._ si era votato, nè emise mai
sentenze contumaciali. Catilina stesso, il quale andò immune da ogni
condanna, era già da L. Emilio Paolo stato accusato _de vi_[222], ma il
consesso senatorio non si arrogò mai il dritto di giudicarlo per tale
colpa, di cui del resto non si occuparono i tribunali ordinari. Il che
ci dà altresì agio a notare come, in simili momenti eccezionalissimi,
il reato minore potea essere trascurato, stante la necessità di
prevenire gli effetti di uno maggiore[223].


VI.

Se si tratta di magistrati ribelli alla legge nell’esercizio delle
loro funzioni, gl’incaricati del ristabilimento dell’ordine, purchè
gerarchicamente superiori, ànno il diritto di sospenderli dalle loro
funzioni, sostituirli con qualcuno dei loro colleghi, espellerli
dal senato, vietar loro di difendersi in pubblico, sorvegliarli in
previdenza di mene sediziose e impedirne l’uscita dalla città. Una
punizione più grave non era d’obligo. Se il magistrato sospeso avesse
voluto uscire dal _pomerium_, si sarebbe dovuto assoggettare alla
scorta, impostagli dai magistrati plenipotenziari.

E, se in tali condizioni si fosse ribellato alla medesima, i magistrati
superiori incaricati aveano il dritto di spedire delle milizie per
trattarlo come nemico sino ad ucciderlo.


VII.

Abbiamo considerato gli effetti del _s. c. u._, rispetto al senato ed
ai magistrati.

Esaminiamoli adesso, rispetto ai tribuni del popolo e ai comizi.

In realtà i tribuni, oltre al dritto di _veto_, perdono tutti gli
altri, che loro competono in tempi ordinari, e, quando non figurano
come bersaglio delle decisioni del senato, tacciono o si prestano,
servili istrumenti dei magistrati incaricati. Si contano quattro
eccezioni. Al 52, in pieno senato, essi poterono vittoriosamente
intercedere contro una modificazione proposta da Ortensio alla
legge _de vi_ di Pompeo, che non riuscì di lieve importanza[224]; al
49[225] e al 43[226] intercessero contro un _s. c._ o una proposta
di dichiarazione d’_h. p._; e, al 63, durante la discussione in
senato intorno alla pena da infliggere ai Catilinari, Cesare invocò
sebbene inutilmente, l’_intercessio_ tribunizia contro la proposta
di confiscare i beni degli imputati[227]. Ma questi casi ci stanno
piuttosto a provare che, se l’_intercessio_ alla votazione del _s. c.
u._ è impossibile, che, se in fatto ed in genere il dritto tribunicio
del _veto_ è sospeso, non così accade rispetto a qualcuno di quei
provvedimenti, che si considerano come effetti contingenti della misura
eccezionale[228].

Nè di più possiamo affermare rispetto ai comizi. Al 52 ebbero luogo
quelli legislativi, ma furono sospesi gli elettorali.

Al 63, accadde l’opposto[229]. Possiamo però ritenere che, trattandosi,
come vedremo, di una misura contraria agli interessi dei _populares_,
si preferisce imporre il silenzio alle assemblee politiche dei
medesimi.

Finalmente, le nuove leggi, votate in codesti periodi straordinari,
possono essere fornite di un carattere permanente, e proposte non solo
dai magistrati incaricati, ma eziandio da quegli altri, che a costoro
sia talentato di scegliersi quali colleghi[230].


VIII.

Alla repressione segue — e può anche precedere — la fuga dei colpiti. I
magistrati però, e non solo gl’incaricati, ma anche i loro successori,
hanno il dritto di iniziare delle istruttorie supplementari[231]
contro i sospetti di collusione coi ribelli, e condannarli, anche se
contumaci. In tale caso, l’incombenza è affidata più specialmente ai
pretori, mentre il senato detiene le segrete liste di proscrizione,
di cui ordina, se crede, la pubblicazione[232], e vota dei _s. c.ª_
preventivi contro i possibili futuri procedimenti dei partigiani dei
colpiti all’indirizzo dei repressori[233].

Nessuna legge stabilisce la cessazione o la durata degli effetti
del _s. c. u._ Essa deve quindi variare a seconda della durata
del pericolo. Noi non abbiamo agio di precisarla per ogni singola
occasione, e dobbiamo essere paghi delle notizie, che possiamo
rintracciare per qualche singolo caso.

Il _s. c. u._ contro Silla dell’83 dovette durare dalla primavera
dell’anno medesimo sino alla fine della guerra, che ne seguì,
all’inverno cioè dell’82; quello per Catilina, dall’ottobre del 63
al gennaio del 62[234]; quello del 52, dalla fine del gennaio alla
regolare entrata in carica dei nuovi consoli; quello del 49, dal
gennaio all’aprile dell’anno seguente[235]; quello contro Antonio, dal
gennaio alla fine dell’aprile del 43[236].

Un tempio alla Concordia chiudeva spesso la strage fraterna[237].


IX.

Vogliamo adesso, dopo l’esame particolareggiato di tutta la serie degli
atti, che dipendono e si ricollegano al _s. c. u._, ricavarne i tratti
caratteristici, confrontandolo con l’altra misura eccezionale della
vita politica odierna: lo _stato d’assedio_.

Una differenza notevole risiede nella loro origine.

Il nostro stato d’assedio è proclamato dal potere esecutivo, il _s. c.
u._ è imposto al medesimo da un potere consultivo.

Ma la differenza essenziale, che tocca lo spirito della misura, risiede
nel fatto che il nostro stato d’assedio importa necessariamente uno
stato di guerra e l’intrusione del potere militare nella vita civile
e politica del popolo, mentre, al _s. c. u._, tale intervento non
era punto necessario, e vi si poteva notare solo quando vi si fosse
aggiunta un’ordinanza di _tumultus_.

Ma, anche in tale caso particolare, le due misure si differenziano per
due nuovi caratteri, procedenti a loro volta dalle diverse condizioni
politiche dei nostri stati rispetto al romano.

Mentre l’odierno stato d’assedio impone al tempo stesso il disarmo
ai cittadini e un atteggiamento di guerra all’esercito permanente,
raramente impegnato in imprese estere, l’ordinanza di _tumultus_, la
quale cadeva tra un popolo, le cui legioni avevano il compito costante
di fronteggiare il nemico, chiamava alle armi i cittadini non militari,
e si serviva dell’esercito permanente solo nel caso di un’insurrezione
armata di generali.

Così essendo, la condizione che il _s. c. u._, accompagnato dal
_tumultus_, veniva a creare in Roma, assai più che quella imposta dai
nostri stati di assedio, richiama l’altra, che le sommosse popolari
creano nella moderna Inghilterra. Come in Roma, senza far entrare in
ballo l’esercito, l’aristocrazia e la borghesia inglese si recano in
tali casi alla sezione di polizia a prestare giuramento e ad armarsi
per muovere contro i rivoltosi, non abbandonando i _policemen_
all’isolazione e al disprezzo della folla, che da noi termina col
considerarli come i peggiori nemici dei propri diritti, mentre le
classi sociali in lotta, i conculcati e i conculcatori, si scontrano,
fronte a fronte a difendere i propri interessi, senza che sia creato
uno squilibrio artificiale di forze tutto a danno di una delle
medesime.

Per contro, del pari che nei nostri stati, nessuna legge prevedeva in
Roma l’eccezionale misura; anzi si era, da questo lato, meno liberali
od ipocriti, che dir si voglia, non chiedendosi nè prima, nè dopo,
ratificazione dal potere legislativo.

Come ai giorni nostri si sospendono le assemblee legislative, le
sole che potrebbero agitarsi contro l’applicazione della misura,
come quelle che possono in certo modo accogliere rappresentanti di
interessi affatto opposti a quegli altri, in omaggio dei quali la
misura è stata applicata, così, in Roma, il senato, col vincolare alla
tutela della patria i capi del potere esecutivo, e questi, a lor volta,
con l’imporre il silenzio ai tribuni, investiti dell’_ius agendi cum
populo_, aggiornavano indefinitamente i comizi elettorali e legislativi
e strozzavano la voce dei _populares_.

Un disordine peggiore imperava nella procedura criminale, non regolata
dalle norme ordinarie, nè da straordinarie, sì da potersi avere
pressochè altrettanti tipi di processi per ogni _s. c. u._

A tale condizione di cose, più che a liberalità alcuna, deve,
secondo me, ascriversi quel carattere, che noi abbiamo notato nei
medesimi, la limitazione della procedura straordinaria ai fatti, che
aveano provocato il _s. c. u._ Il che però non valse, neanco allora,
ad evitare la conseguente illogica applicazione di pene ad atti
precedentemente non incriminati.

Di autorizzazioni a procedere contro i magistrati non ne occorrevano,
stante le norme del dritto pubblico, che stabiliva per essi una
procedura identica a quella pei privati[238], ma, e qui fu il torto,
non se ne richiesero nemmeno contro gli inviolabili tribuni[239]. Le
modalità infine della purgazione delle sentenze contumaciali rimasero,
come per noi, sino a poco tempo addietro, questione completamente
trascurata.

Ma, se, per questo rispetto, i Romani concepivano il compito loro
peggio di quello che non facciamo noi moderni, non così accadeva
quanto all’indirizzo, che il _s. c. u._ veniva ad imporre alla politica
contemporanea.

Con scrupolo costante, i Romani, dal fatto delle sommosse e
delle transitorie agitazioni, distinsero recisamente la questione
dell’inviolabilità delle loro libertà elementari.

Un solo _s. c. u._, il più liberale, quello del 52, vide, sotto il
suo impero, la votazione di due leggi, che gli avrebbero dovuto
sopravvivere, ma non si trattava se non di norme innocentissime,
l’una vietante le candidature, poste durante l’assenza del candidato,
l’altra, infrangente l’onnipotenza della censura[240].

Non scioglimento d’associazioni sovversive, come se ne erano viste in
tempi normali[241], non strascico di leggi eccezionali, non prossimi e
duraturi provvedimenti restrittivi.




CAPITOLO IV.

L’INCOSTITUZIONALITÀ DEL _s. c. u._


I.

Si può dire non essersi data in Roma votazione di _s. c. u._, a cui
non sia seguita una reazione dei partiti democratici, i quali, non che
levare platoniche proteste, mirarono a colpire, colla legge alla mano,
gli esecutori del medesimo.

La prima accusa di illegalità è anteriore a votazione alcuna. Il
console Muzio Scevola, a cui il senato intimava di servirsi dei
pieni poteri, che gli avrebbe conferiti contro la vita di Tiberio
Gracco e dei seguaci del medesimo, rispose che non avrebbe mai ucciso
alcun cittadino, che non fosse stato prima condannato con regolare
giudizio[242].

Peggio toccò a Popilio, che, nella qualità di console avea dovuto
partecipare all’opera dei tribunali eccezionali del 31, il quale fu
fatto esiliare da Caio Gracco perchè avea condannato dei cittadini,
senza che vi precedesse un regolare giudizio[243].

Dopo l’uccisione di Caio, il console Opimio corse il rischio di una
sorte eguale. Sostenne l’accusa presso i comizi, ma invano, il tribuno
Q. Decio[244].

Seguì la strage di Glaucia e di Saturnino, e, trentasette anni dopo,
Caio Rabirio, presunto uccisore di quest’ultimo, fu accusato come
reo _perduellionis_, dal tribuno T. Labieno. Condannato dai _duoviri
perduellionis_, Q. Cesare e C. Cesare, si appellò al popolo; ma, mentre
questo stava per ratificare la condanna, il pretore Q. Metello, fece sì
che i comizi si sciogliessero e C. Rabirio fosse salvo[245].

Suo difensore era stato M. Tullio Cicerone, il quale, l’anno stesso, in
qualità di console, ordinava la morte dei Catilinari.

Ed ecco, a repressione finita, i tribuni Metello Nepote e Calpurnio
Bestia, insieme con Cesare, designato pretore, il quale, nella
discussione in senato, avea messo in rilievo l’incostituzionalità
della condanna, inaugurare una tattica ostruzionista, coll’impedire
a Cicerone di parlare in pubblico, salvo che per dichiararsi pronto a
deporre la carica.

Minacciarono altresì di far richiamare Pompeo dal campo e Cicerone fu
ridotto a non potere intervenire in senato, nei comizi o in giudizio
alcuno, senza sentirsi risonare alle orecchie l’accusa di assassino di
Lentulo e di Catilina[246].

Ma il colpo più grave contro il senato e Cicerone fu portato il 58
dalla legge Clodia, la quale puniva con l’esilio il magistrato, che
condannasse o avesse condannato a morte un cittadino senza il voto
preventivo dei comizi[247].

Il valore retroattivo della medesima veniva a colpire Cicerone,
il quale, la notte precedente al giorno fissato per la votazione,
abbandonò Roma. Immediatamente dopo, Clodio presentò al popolo e fece
approvare la sua _lex de exilio Ciceronis_[248], per cui questi veniva
confinato in perpetuo a quattrocento miglia da Roma, con la minaccia
della morte, in caso di trasgressione; e l’esilio, la confisca dei beni
e peggio a chi avesse ardito ricoverarlo.

Una clausola vietava l’abrogazione della legge, mentre, come reo
_perduellionis_, Cicerone subiva altresì la confisca dei beni.

Ma, se fino ad ora la legalità delle procedure straordinarie era stata
contestata solo dai _populares_, così non avvenne al 52, quando per
bocca di Ortensio, fu formulata l’opinione del senato che i fatti da
giudicare lo fossero alla stregua delle leggi esistenti[249]; ed i
tribuni, partigiani di Milone, ebbero a sostenere, dinnanzi al popolo,
che i tribunali eccezionali, proposti da Pompeo, venivano a costituire
un _privilegium_, miravano cioè a colpire un solo cittadino[250].

Così arriviamo ai «_Comentarii de bello civili_» di C. Cesare, nei
quali l’A., che aveva notato le violazioni della logica, se non della
costituzione, nelle pompeiane leggi eccezionali del 52, tesse una nuova
e più grave critica degli atti seguiti al _s. c. u._ del 49[251].


II.

Tutte queste accuse di illegalità si possono riassumere nelle seguenti:

1. Principale e costante si è quella contro le condanne a morte di
cittadini romani prive della concessione dell’appello al popolo[252],
violazioni, come abbiamo accennato, delle leggi _de provocatione_
e delle Porciae[253], nonchè di quella «_de capite civium_» di C. Gracco,
del 123[254].

2. Segue l’altra contro le condanne di cittadini, non tradotti in
giudizio, «_indemnati_»[255].

3. Terza è quella che ritiene i tribunali straordinari un
_privilegium_, tutto a danno dei presunti colpevoli.

4. Finchè Cesare non ne farà notare una accessoria, quella cioè di
permettere il conferimento delle province consolari o pretorie a dei
privati[256].

Ma tutte le precedenti, benchè, come vedremo, inconfutabili, salvo la
terza, la quale non teneva conto del diritto del potere legislativo
di istituire tribunali di privilegio, non sono che una parte minima di
quelle, a cui dava luogo il _s. c. u._

In tutti i suoi effetti, esso segna un costante strappo alla
costituzione.


III.

1. Ogni decisione senatoria non avea per se stessa alcun valore
imperativo sui capi del potere esecutivo[257]. Or bene, l’abbiamo
notato, tutta la serie dei _s. c. u.ª_ sta a provarcele come fornite di
tale prerogativa.

2. Ma, se ciò costituiva indubbiamente un’illegalità, essa appariva
molto più enorme, quando il senato giungeva fino a permettere che si
facesse a meno del potere esecutivo per l’attuazione delle misure, che
il _s. c. u._ portava seco. Così avvenne al 43, quando il senato ardì
trasmettere i suoi ordini alle milizie della capitale; così tutte le
volte che le sue convocazioni furono promosse ed indette non già dai
magistrati investiti dell’_ius agendi cum patribus_, ma da persone
estranee al collegio dei medesimi[258].

3. Il _s. c. u._ escludeva _a priori_ il dritto di _intercessio_, senza
la quale non si potevano dare _s. c.ª_[259].

4. Come il senato esorbitava dai suoi poteri di consesso consultivo,
così facea esorbitare quelli dei magistrati, a cui commetteva la difesa
della republica. Questa fu affidata talvolta ai tribuni[260], venendosi
con ciò ad imporre loro tutti quegli atti, che noi abbiamo passato in
rassegna, perfettamente estranei ai poteri dei medesimi[261]. Ma, se
ciò è spiegabile, se non giustificabile, trattandosi di magistrati,
o quasi, di cui è nota la potenza, che vennero via via acquistando
negli ultimi anni della republica, riesce un’aperta violazione
della legge ogni qualvolta codesto affidamento viene a cadere in
persona degli _interreges_, le cui attribuzioni, dal giorno, in cui
i tribuni ottennero l’_ius agendi cum patribus_ insieme col dritto
di amministrare lo stato nella vacanza del potere esecutivo, furono
limitate alla convocazione dei comizi centuriati consolari[262].

4. Tutti i magistrati dell’età republicana erano eletti nei comizi del
popolo[263] e occupavano magistrature collegiali[264].

Or bene, dopo il _s. c. u._, il senato si arrogava il diritto di
conferire esso medesimo dei proconsolati illegali[265] o dei consolati
non collegiali, lasciando libero il nuovo magistrato di scegliersi o
meno un collega. Così avvenne per Pompeo al 52.

5. I magistrati incaricati della difesa della republica potevano
esentarsi o esentare dagli effetti delle leggi o disposizioni emanate
chi più loro talentasse. Così, al 52, Pompeo, il quale nei processi,
avea vietato le _laudationes_, fu il primo a indirizzarne ai giudici
una per Planco, imputato _de vi_[266]. Non ostante un _s. c._, che
consentiva il proconsolato solo dopo cinque anni dall’esercizio della
magistratura, egli accettò subito il governo quinquennale della Spagna;
e, contro una sua legge elettorale, promosse un _s. c._, per cui
gli assenti avrebbero potuto domandar cariche, purchè nominalmente e
formalmente autorizzati[267].

6. Su quali prerogative si fondava il senato per giudicare un cittadino
_hostis publicus_, e poscia muovergli guerra, sia pure dietro le
ipocrite apparenze di un decreto di _tumultus_[268]? Dichiarare
un cittadino _hostis_ importava: 1) averlo privato dei suoi dritti
di cittadinanza, per i quali, qualunque atto politico egli avesse
compiuto, ve ne aveva il dritto, in qualità di comproprietario dello
stato, 2) avergli mosso dichiarazione di guerra. Ma ambedue erano
diritti peculiari del popolo[269], non già del senato.

7. Non potendo questo fare dei cittadini _hostes publici_, agiva
altresì illegalmente, quando negava loro l’_ius provocationis_[270],
o lo concedeva dinnanzi ad assemblee popolari, che non vi avevano
competenza alcuna[271].

E ciò, (il che era una doppia incostituzionalità), non solo per quelli,
che, a dritto o a torto, aveva dichiarato _hostes_, ma per molti altri,
che tali non avea fatto.

8. Nè l’_ius provocationis_ chiudeva la serie delle garanzie cittadine
abrogate. Pei colpiti dal _s. c. u._, si potea fare a meno del giudizio
preventivo alla condanna.

9. Ma, se talvolta tutto poteva spiegarsi con l’esistenza di un grave
capo d’accusa, non così poteva darsi per la uccisione o la confisca dei
beni o la privazione dei dritti civili nella persona dei congiunti dei
condannati, solo perchè tali.

10. Illegale era nel maggior numero dei casi l’istituzione dei
tribunali eccezionali. Una legge avea creato gli ordinari, e solo una
nuova legge poteva sospenderli e accompagnarvene dei nuovi[272].

Così è che, se noi possiamo ritenere legali i pompeiani tribunali del
52, istituiti dopo il voto dei comizi, non altrettanto potrà dirsi, ad
esempio, di quello per la congiura Catilinaria, costituito dall’intero
corpo senatorio e dal console che lo presiedette.

Nè ad esso, nè ai consoli nei secoli, in cui riscontriamo l’uso della
nostra misura, spettava competenza alcuna nei processi penali. La
pratica straordinaria contraddisse in tutti questi casi alle leggi
fondamentali dello Stato.

11. Non meno illegali erano per alcuni cittadini le forme del giudizio
dei medesimi, escludendovisi il discarico e la difesa.

12. Il senato decretava il proconsolato a dei privati contro altre
disposizioni di leggi esistenti[273].

13. Destituiva i magistrati in carica, invadendo al tempo stesso i
poteri dei comizi e dei magistrati superiori; dappoichè questi soltanto
potevano sospendere gli inferiori[274], come toccava solo ai comizi
ritogliere i diritti, di cui erano capaci, ai magistrati, che essi
avevano eletto[275].

Gli aristocratici, che tanto perseguitarono Tiberio Gracco per la
deposizione del collega Ottavio, fatta precedere dal voto popolare,
avrebbero dovuto essere più scrupolosi sul proprio conto.

14. Ma, appunto per questa sua incompetenza a destituire i magistrati,
il senato non isfugge neanche all’accusa di illegalità, per le
condanne, che egli infliggeva ai medesimi. Eletti dal popolo, i
magistrati ne partecipavano alla _maiestas_; violarla, era cadere in un
reato _minutae maiestatis_[276].

15. Peggio ancora, quando i colpiti erano dei tribuni, il cui massacro
fu, più volte, oltre che dal senato e dai capi del potere esecutivo,
compiuto da semplici privati.

Non ostante l’incertezza, attraverso la quale ci è stato tramandato
il vero carattere legale dell’inviolabilità tribunicia (_sacrosanta
potestas_), per cui si è dubitato se sia stata realmente sancita dal
concorso dei feciali in un patto tra il patriziato e la plebe o da
qualche legge centuriata[277], troppe volte essa era stata riconosciuta
di fatto, e ritenute legali le condanne nei processi che ne seguirono,
perchè, all’ultimo momento, le si debba negare ogni dritto, allo scopo
di giustificare una misura, che in tutti i suoi atti porta l’impronta
della incostituzionalità[278].

16. Finalmente, il senato non avea il dritto di sostituirsi ai poteri
legislativi ed elettorali dei comizi.


IV.

A queste incostituzionalità principali seguono le accessorie.

1. Nessun _s. c._ poteva divenire esecutorio, se non dopo il suo
deposito all’_aerarium Saturni_[279]; il _s. c. u._ invece lo diveniva
sin dall’istante della sua votazione.

2. Nella discussione in Senato sulle condanne da applicare, cosa non
mai usata, era ammessa la replica[280] e concessa la parola persino
al magistrato presidente[281], il che falsava l’indole del consesso,
la cui azione non doveva consistere se non in una serie di semplici ed
oggettivi consigli da richiedersi dal relatore.

3. Nessun arrolamento legale poteva darsi senza le norme richieste
dal _dilectus_[282], delle quali faceva a meno il _tumultus_ o
l’_evocatio_.


V.[283]

Quali erano le giustificazioni di tante illegalità?

Se non la più ovvia, certo la più infelice è una calunnia: colpevoli
di aspirare alla tirannide,[284] i presunti rei possono soggiacere a
qualsiasi condanna.

Che cosa i Romani intendessero per aspirazione alla tirannide, non è
ben chiaro. Se la violazione delle elementari libertà civili, conferite
dalla costituzione, il rimedio adottato dal Senato non se ne rendeva
meno colpevole; se il ripristinamento della monarchia, coloro che
accusavano o erano degli illusi in buona fede, o mentivano, sapendo di
mentire. In ambedue i casi, nessuna legge contro codesto attentato alle
istituzioni republicane giustificava quelle tali pene o procedure, di
cui dietro il _s. c. u._, usava o faceva usare il Senato.

Le altre giustificazioni ci vengono a tutt’andare ripetute,
specialmente da Cicerone, l’avvocato di ufficio della reazione, dal
«_Pro Rabirio reo perduellionis_» alle Catilinarie, dalle Catilinarie
alla Miloniana, dalle orazioni ai libri retorici.

Ma esse, più che serie giustificazioni giuridiche, non sono se non
deboli, volgari argomentazioni, incastonate entro una sentimentale
difesa del _s. c. u._, che piglia le mosse dagli effetti immaginari
dell’opera degli avversari del senato,[285] (criterio, del resto,
al quale non iscampa la succennata), e tutte s’infrangono contro la
constatazione dell’incostituzionalità di tale misura, che noi abbiamo
premesso.

1. Per opera di chiunque, privato, senatore o magistrato, è lecito
«_sceleratos viri interfici_»[286];

2. tanto più, se questi siano da lui ritenuti nemici della republica.

Ma in ogni stato, retto, come tale, da leggi costituite, codesta
indagazione della scelleratezza dei suoi componenti, come della loro
ostilità al medesimo, è sottratta all’arbitrio individuale ed affidata
a qualcuno dei suoi poteri dirigenti. E così accadeva in Roma, dove
i delinquenti venivano rimandati ai tribunali criminali ordinari, ed
i nemici di Roma venivano dichiarati tali nei comizi del popolo. Il
che è confermato da Cicerone medesimo, il quale, se, nella discussione
sulla pena da applicare ai Catilinari, avea sostenuto la legalità della
uccisione dei cittadini romani, dappoichè «_qui... reipublicae sit
hostis, eum civem nullo modo esse potest_»[287], sentenzierà nel Pro
Sestio «_non posse quemquam de civitate tolli sine iudicio, ne iudicari
quidem posse nisi comitiis centuriatis_»[288].

Oltre a ciò, la seconda parte della giustificazione è manchevole, in
quanto — l’abbiamo notato — gli autori e gli esecutori del _s. c. u._
non avevano in ogni caso avuto la precauzione di far precedere ai loro
atti codesta, comunque si fosse, qualifica di _hostes r. p._ addosso ai
loro avversari.

3. L’uccisione è maggiormente lecita, continuava Cicerone, qualora gli
esecutori vi siano autorizzati dal senato[289]: «_Senatui parendum de
salute reipublicae fuit... utendum igitur consilio senatus_»[290].

Quest’onnipotenza dell’autorizzazione senatoria era probabilmente una
sincera illusione dell’oratore, pervenutagli dalla reale strapotenza
di quel consesso e dal suo difetto di precisione nel cogliere ogni
idea astratta, che gli impediva di formarsi, pur essendo un causidico,
uno scrupoloso senso della legge. Infatti, nel suo «_De legibus_»,
improntato all’ordinamento legislativo romano, egli stabiliva che,
«_quaecunque senatus creverit populusve iussit, tot sunto_»[291].

Ma ciò accadeva nell’ideale republica ciceroniana. Nella romana —
l’abbiamo visto — l’autorizzazione del senato non bastava a legalizzare
tutti gli atti, che seguivano al _s. c. u._

Così se l’autore del «_De domo_», o Cicerone stesso che fosse, in
un’occasione, nella quale gli tornava comodo, avea fatto dipendere
dal senato il giudizio sulla vita delle persone,[292] ne era stato
rimbeccato dall’A. del «_Pro Sestio_», secondo cui tale diritto
competeva solo ai comizi centuriati[293].

4. Sentendo troppo debole l’appello alle leggi esistenti, Cicerone
ricorreva ad una giustificazione, che poteva essere più seria al _mos
maiorum_[294]. Poichè la misura datava da tempo remoto e le precedenti
generazioni ne aveano usato più volte nell’esercizio del governo
della republica, doveva essere concesso, giusta il dritto publico
romano, continuare ad usarne pel presente e per l’avvenire. Cicerone
si appellava così, per dirla in termini giuridici, a quell’altra
importantissima fonte di dritto costituzionale: la _consuetudine_.
Se non che codesta giustificazione à il torto originario di
non giustificare quei casi, da cui appunto si era originata la
consuetudine. Ma, come se questo non bastasse, essa non riesce valida
per una seconda ragione. Il diritto consuetudinario è fondato sulla
_voluntas populi_, sul _tacitus consensus omnium_[295]. E questo non
parrebbe davvero il caso del _s. c. u._

Tutto ciò, senza tornare alla _vexata quaestio_, se nel diritto romano
la consuetudine avesse o no forza di abrogare la legge[296].

5. «_Salus populi suprema lex esto_»[297], concludeva l’Arpinate.
Vedremo più innanzi quanta ipocrisia si nasconda dietro questa
sedicente invocazione della difesa del popolo, che si sarebbe
assunta uno solo dei poteri dello stato, quello appunto a cui essa
non competeva. Per ora terminiamo col notare come codesta ideale
_lex_ della republica ciceroniana, per mala ventura dei ciceroniani
conservatori di Roma, non si era mai votata, proprio nei comizi del
popolo.


VI.

Rimane una questione. I _populares_ nelle loro proteste e nei processi
intentati, dopo un _s. c. u._, non attaccarono che i magistrati, i
quali aveano ordinato la repressione, o i cittadini che l’avevano
eseguita. Perchè non porre piuttosto in istato d’accusa il senato?

Francamente, la ragione non è evidente, tanto più, quando si pensa che
la cosa non subì nè eccezioni, nè discussione.

Se ragione legale ci fu, certo però sarà stata quella additataci dal
Willems[298]. Per loro, il senato non poteva considerarsi che «come
corpo consultivo, come consiglio dei magistrati». «La responsabilità
dell’esecuzione incombeva sui magistrati, che l’aveano ordinata, o sui
cittadini che vi aveano partecipato».

Ma era appunto in ciò che essi avevano torto, come centomila ragioni
ebbero gli accusati nel difendersi, rovesciando sul senato la
responsabilità dei propri atti[299]. La strage di Tiberio e dei suoi
seguaci, perpetrata contro la volontà stessa del console, additava a
chiare note i veri responsabili della reazione.


VII.

A tutti gli argomenti dei _populares_ qualche moderno potrebbe però
contrapporre un’interrogazione.

Accusando d’illegalità l’agire, in qualsiasi caso, al di fuori della
costituzione, non si veniva a ribadire il più cupo conservatorismo, e
a volere canonizzata, come rispondente a tutti i bisogni sociali ed a
tutti i tempi, una costituzione, che in realtà, non rispondeva, se non
a quelli di un’età trapassata? Ed i sostenitori di una simile teoria,
anzichè dei radicali, non dovrebbero in tale caso considerarsi come dei
puri reazionari?

L’ipotetica interrogazione non l’avrebbero certo mossa i conservatori
di Roma, i quali mostravano di ritenere tanto sacre le loro
istituzioni, da considerare come un attentato alle medesime, non dirò
l’opera dei Catilinari, ma persino quella tanto più blanda di Tiberio
Gracco.

Ma, a chi ben guardi, non può nemmeno proporsela un moderno.

La costituzione deve bensì essere un organismo tanto liberale, da
permettere la revisione di se medesima, senza consacrare, come, stando
alla lettera degli statuti, avviene nella maggior parte dei regimi
costituzionali odierni, la tirannia della propria inviolabilità; ma
codesta revisione non può non essere compito del potere legislativo; e
questo, in Roma, si considerava capace di radicali emendamenti.

Il torto quindi dei republicani del tempo consistette nell’avere
strappato codesto dritto a chi esso realmente competeva, concedendolo,
come vedremo, negli interessi di una sola classe, ai soli
rappresentanti della medesima.




CAPITOLO V.

DAL _senatus-consultum_ AL _senatus-consultum ultimum_.


I.

Il _s. c. u._ segna il momento più importante della conquista
dell’amministrazione interna di Roma da parte del consiglio senatorio.

Si è notato come la storia di quest’ultimo possa definirsi una
costante, accelerata invasione nel campo del potere esecutivo. Or bene,
noi ci proponiamo di studiare in questo capitolo per quali vie esso,
dalle competenze, che gli assegnava la costituzione, passò a invadere
l’ambito di poteri non suoi, pervenendo al _s. c. u._


II.

Il _s. c. u._ fornisce di un valore imperativo le decisioni del
senato. E su questa via non erano trascurabili i progressi compiuti dal
medesimo.

Rispetto al potere esecutivo, rappresentato dai magistrati, il senato
non aveva per legge che un potere consultivo, per cui quelli doveano
sottoporgli l’esecuzione degli atti più importanti del governo[300].

Ma, dopo la legge Publilia del 339 e la Menenia del 338, tale
procedura divenne obligatoria per le _rogationes_, che il magistrato
si apparecchiava a presentare al popolo allo scopo di convertirle in
legge[301]. Ciò parve un’innovazione liberale, in quanto toglieva al
senato il diritto alla convalidazione delle decisioni dei comizi, sia
nel campo legislativo, come nell’elettorale; ma non lo fu con certezza
rispetto alla magistratura. Era ben più agevole, osserva il Willems,
impedire preventivamente a un magistrato la presentazione di una
proposta di legge o rifiutare una candidatura, che annullare una legge
già votata od una elezione[302].

Il dritto pubblico non imponeva altrettanto per i rimanenti atti
magistratizi. Tuttavia, il senato avea, poco a poco, conquistato
dei mezzi diretti e indiretti, capaci di forzare i magistrati a
consultarlo:

1. Poteva invocare i tribuni della plebe perchè glielo facessero
imporre da un plebiscito, o sottomettessero essi stessi la questione al
senato.

2. Poteva — come avvenne pel richiamo di Cicerone — minacciare il
rigetto di tutte le _relationes_ magistratizie, finchè una data
questione non gli si fosse sottoposta.

Tutto questo riesciva però di un valore pratico meschinissimo. Se il
magistrato, pur sottoponendo al senato la sua _relatio_, si trovava a
vedere scartato il proprio avviso, poteva intercedere alla _sententia_
senatoria, annullandone ogni valore.

Ma, in realtà, il senato aveva in tal caso a sua disposizione un nuovo
mezzo: poteva invitare un tribuno, contro cui nè consoli, nè pretori
aveano dritto all’_intercessio_, a dare con un plebiscito forza di
legge alla sua _sententia_.

Nell’ipotesi più favorevole, in cui cioè il _s. c._ non avesse patito
_intercessio_, i magistrati non erano tenuti ad eseguirlo. Or bene, il
senato era giunto ad imporre anche allora la propria volontà.

Bisogna per ciò distinguere i _s. c.ª_ ordinari dagli altri, votati su
questioni speciali, la cui decisione era stata, per legge, delegata al
senato.

In questo secondo caso, il _s. c._ avea valore esecutivo, e, contro
di esso, era preventivamente vietata ogni _intercessio_[303]. Quanto
ai primi, fa d’uopo distinguere i magistrati, investiti dell’_ius
referendi_, dai minori e dai promagistrati.

Rispetto a quelli, il senato non disponeva che della propria autorità.
I magistrati erano temporanei, il senato vitalizio. A lui solo
competeva il decreto e la proroga delle province, come l’approvazione o
meno delle varie candidature e lo stanziamento dei fondi pei pretori e
pei consoli assenti dalla capitale. Aggiungi la tradizionale influenza
morale; ed ecco dei mezzi di coazione abbastanza energici.

Ai magistrati minori, invece, sprovvisti dell’_ius referendi_, il
senato trasmetteva le sue decisioni per mezzo dei capi del potere
esecutivo. In tale caso, pur facendoli obbedire soltanto ai loro
superiori[304], esso veniva di fatto a costringerli al proprio impero.

I promagistrati erano, anche entro l’ambito del loro dominio, al di
sotto dei magistrati corrispondenti, e solo una legge o un _s. c._
poteva eguagliarveli[305]. Anche a questi il senato trasmetteva le sue
decisioni per mezzo dei capi del potere esecutivo residenti in Roma. Se
non che, venendo le loro funzioni delegate per _s. c._ previsto dalla
legge, e, potendo per _s. c._ essere ritolte,[306] tanto più forte era
l’obbligazione morale, che verso di esso ne seguiva[307].

Ma il consiglio senatorio non era semplicemente arrivato a costringere
la volontà e l’opera di ogni ordine di magistrati. Nel caso che costoro
si fossero dimostrati o si prevedessero inflessibili, anche dopo le
leggi Publilia e Menenia, esso non avea perduto la voglia di ricorrere
all’annullamento delle elezioni.

A tale scopo, consultati gli auguri, emanava un _s. c._, pel quale,
constatando nell’elezione un vizio di procedura, invitava il magistrato
a dimettersi[308].

Ma si fosse arrestato agli inviti!

Quando tale necessità sopraggiunse durante la gestione magistratizia,
il senato ardì ricorrere a una cruda e semplice destituzione. Così
avvenne all’87 per Cinna[309], e al 62 per Cesare[310].

Ma ciò, che avea dato origine a tanta potenza, non era questa o quella
via palese d’influenza sul potere esecutivo; era invece la tradizionale
consuetudine di quest’ultimo di interrogare il senato in ogni affare
di governo, la quale avea creato una serie innumerevole di atti, per
cui il chiedere consiglio era divenuto obbligatorio, come, sempre per
tradizione, obbligatorio l’obbedire.

Quando si pensa che a rigore poteva dirsi non esistere atto dei
funzionari del dipartimento delle finanze, della guerra e degli affari
esteri, che non presupponesse un _s. c._, e, quando si considera
l’importanza dei medesimi negli ultimi anni della republica, non si può
non prevedere un’invasione dell’autorità del senato in dipartimenti,
che esso avea altresì curato di non lasciare inviolati.

Un consiglio, che s’ingeriva nella discussione di tanti affari,
non poteva, a nessun patto, sottostare alla contraddizione interna
della propria situazione, per cui esso poteva vantare ogni dritto a
interloquire su tutto, e nessuno ad imporre l’esecuzione dei proprii
consigli. Un giorno o l’altro avrebbe dovuto scegliere tra le due vie,
che gli rimanevano: o rinunziare a tutti i suoi poteri consultivi
o assurgere ad assemblea dirigente. Si aggiungeva a favorirlo
l’indeterminatezza, in cui la legge lasciava i magistrati sul loro
obbligo di consultarlo e il senato sul dritto di richiedere la domanda
del proprio consiglio. Su tale sdrucciolo, questo scelse la via, che
gli si parava più conveniente: dal _s. c._ si avviò al _s. c. u._


III.

Ma se il senato, come abbiamo visto, possedeva già i mezzi per
sbarazzarsi dei magistrati, ostili o disobbedienti, poco meno fortunata
posizione esso avea conquistata rispetto ai tribuni.

Anche l’_intercessio_ tribunizia destituiva il _s. c._ d’ogni effetto
legale. Ma, oltre ai casi previsti dalla legge, pei quali era vietata
ogni _intercessio_, anche se tribunizia[311], il senato possedeva il
«_s. c. contra rempublicam factum videri_», valido contro magistrati e
tribuni, per cui si minacciava agli avversari lo stigma di nemici delle
istituzioni, quasi come preludio a un _s. c. u._, e s’invitavano i
consoli a riferire al senato sull’_intercessio_[312].

Quest’espediente era usato, non solo contro atti passati, ma eziandio
contro atti futuri, che o magistrati o tribuni avessero avuto voglia
di compiere[313], venendo così a ledere i loro dritti, non solo di
cittadini, ma di rappresentanti del popolo.

Quando poi questi ultimi non sembravano, per ciò soltanto, intenzionati
a cedere, il senato, con un atto, che richiama il dominio del _s. c.
u._, o ne impediva con la forza l’intervento alle proprie assemblee,
indispensabile alla validità dell’_intercessio_[314], o ne reprimeva
l’agitazione iniziata, ordinandone sia l’arresto[315], che la
destituzione[316].

Ma, se tutto ciò non fosse bastato, rimaneva al senato l’espediente
della dittatura[317].

Non è ben certo se la sua autorizzazione alla creazione di tale
magistrato fosse contemplata da legge alcuna. Certo esso non se
ne lasciò mai sfuggire la prerogativa, la quale, anzi, si era così
strettamente legata alle sue peculiari competenze, che Cicerone, nel
«_De legibus_», avea sottoposta la nomina del dittatore alla diretta
giurisdizione senatoria[318]. Sembra anzi che la conseguente decisione
fosse ritenuta coercitiva rispetto al magistrato, che l’avrebbe
eseguita.

La minaccia d’imprigionamento, da parte dei tribuni, contro i consoli
del 431[319], se questi non avessero obbedito al _s. c._, ingiungente
la nomina di un dittatore, non può poggiare su altro fondamento.

Tale _s. c._ esclude altresì l’_intercessio_ dei tribuni o dei colleghi
contro il magistrato incaricato della nomina, il quale, d’ordinario,
subisce la designazione del senato, o gli sottopone la propria
proposta.

Accanto al dittatore, i magistrati più elevati, i consoli, rimangono in
posizione subordinata, destituiti del dritto del veto, di cui godevano
rispetto ai colleghi di pari autorità.

Lo stesso è a dirsi dei tribuni.

Il senato quindi, con una indovinata designazione dittatoria, poteva
talvolta vantarsi di aver fatto il migliore dei propri interessi
possibili, se non vi fosse occorso qualche relativo svantaggio, che
avremo occasione di notare in seguito.


IV.

Nessun _s. c. u._ ci à dato luogo a dubitare dell’affidamento a privati
della suprema eccezionale tutela della repubblica.

La cosa procedette alquanto diversamente rispetto alle misure ad esso
concomitanti. Al 49, l’abbiamo notato, furono affidate a dei privati
quattro province, due pretorie, e due consolari, senza che il loro
_imperium_ forse riconfermato da una deliberazione popolare[320].

Or bene, anche questo caso vantava i suoi precedenti.

Il senato, nell’assenza dei titolari, si era a più riprese permesso
di colmare dei comandi militari vacanti con dei privati, invitando
i magistrati _cum imperio_, capi del potere esecutivo, a mandare
provvisoriamente, _cum imperio_, quei cittadini, che avessero creduto.
Ed esso poteva concedere ad un generale, incaricato della direzione di
due eserciti in regioni differenti, il permesso di affidare uno dei
medesimi a un suo delegato. Ma i succitati sono da considerarsi come
incarichi trasmessi dai magistrati competenti, caso previsto dalla
costituzione.

Al 212 il senato fece un passo innanzi: accordò a un centurione
primipilare un corpo di 8000 soldati col dritto di arrolarne dei nuovi.

Al 211, con Annibale alle porte di Roma, decretò che tutti gli
ex-dittatori, consoli e censori si ritenessero in pieno possesso
dell’_imperium_ finchè il nemico non si fosse ritirato dalle mura. Al
173 inviò _cum imperio_ in Puglia un _praetor designatus_[321], all’82
Cn. Pompeo, un privato cavaliere romano, in Sicilia e indi in Africa,
propretore contro i partigiani di Mario[322], al 77 il medesimo,
proconsole contro Sertorio,[323] e, insieme con Catulo, generale
supremo nella campagna contro Lepido[324].

Più in là non si poteva andare.


V.

Dietro un _s. c. u._, il senato eleggeva i consoli senza deferenza alla
volontà popolare.

Tale atto, benchè nuovo nella sua forma specifica, non manca di
preparazione, e si ricollega strettamente alla nomina dei dittatori,
proposta ed imposta dal consesso senatorio. Appiano lo dichiara senza
reticenze[325]. L’uno e l’altro espediente infatti non mirava che ad
evitare gl’impicci, che la collegialità avrebbe arrecato a un regime
deliberatamente autocratico.


VI.

Della dichiarazione d’_hostis p._ abbiamo parlato. Essa coesisteva,
senza dipenderne, al _s. c. u._

Quanto alla guerra, più volte mossa, contro magistrati e promagistrati
per decisione definitiva del senato, è a notare come, anche in ogni
altro caso, stabilirne l’opportunità era stata una prerogativa, dal
medesimo gelosamente assunta e custodita. E, nel caso di una guerra
intestina, nel caso cioè, in cui erano impegnati gl’interessi di una
sola delle classi sociali, era ben naturale che quello dei poteri
politici, che la rappresentava, riserbasse come esclusivo per sè quel
diritto, che negli affari esteri, d’interesse comune, aveva partecipato
coi rimanenti.


VII.

La violazione, da parte del senato o dei capi del potere esecutivo,
del dritto di _provocatio_, ricorda i tempi d’oro dei primi secoli
dell’oligarchia repubblicana di Roma, quando era di pertinenza del
dittatore, già proposto dal senato, sottrarre le condanne capitali al
voto definitivo dei comizi.

Ma non soltanto quei tempi. Negli ultimi due secoli della repubblica
abbiamo più di un esempio di tribunali eccezionali, prescritti, e,
spesso costituiti dai comizi, pel giudizio di fatti particolari.

Del secondo a. C. se ne contano uno del 113, uno del 110[326] e due
del 172 e 141[327], nei quali ultimi la nomina delle commissioni
giudicanti fu riserbata al senato, e riescirono eletti un pretore
ed un console[328]. I loro giudizi, come quelli di ogni _quaestio
extraordinaria_[329], facevano a meno della _provocatio_. Tali
consuetudini solleticavano le voglie autocratiche del senato e dei capi
del potere esecutivo. Al 271 la ribelle legione campana, costituita di
cittadini romani, fu rinviata a Roma pel giudizio, e i colpevoli, o per
ordine diretto del senato, o per ingiunzione di qualche magistrato _cum
imperio_ vennero battuti a verghe ed uccisi[330]. Con tali procedimenti
si vennero a violare la legge _Porcia_ e le altre _de provocatione_.

Ma ci si fosse fermati ai tribunali eccezionali per dei cittadini sotto
le armi! Al 132, il tribunale nominato per giudicare la ribellione dei
seguaci di T. Gracco, oltre a non tenere conto delle forme normali del
giudizio, concedenti il discarico e la difesa, terminò coll’emanare
sentenze di morte inappellabili[331].


VIII.

Questo per l’emancipazione della _provocatio_. Quanto alla costituzione
dei tribunali eccezionali, durante l’impero del _s. c. u._, essa conta
anzitutto i suoi precedenti in simili _quaestiones extraordinariae_,
volute a più riprese dal popolo, e il più delle volte costituite di
qualche senatore e dai capi del potere esecutivo. Ma il senato, che per
legge fissava e spostava ai pretori i dipartimenti giudiziari,[332]
avea più volte, e di sua iniziativa, delegato altresì a consoli e
pretori, che faceva assistere da commissioni senatoriali, dei processi
delicatissimi, i quali erano andati a terminare con pene capitali od
esecuzioni, seguite a condanne pronunciate fuori Roma o contro delle
donne[333]. Così avvenne al 204, al 186, al 180[334].

Le _quaestiones perpetuae_ erano del resto costituite esclusivamente
da senatori[335], consuetudine interrotta più tardi, ma solo per breve
periodo di tempo[336]; e, come puro e semplice corpo senatorio, questo
aveva altre volte giudicato prigionieri romani, deditizi ed anche
tribuni, ordinando, pei primi, l’esecuzione capitale[337], e, pei
secondi, l’esilio[338]. Gli accennati processi del 132 contro i seguaci
di Tiberio Gracco segnarono il punto culminante di tale parabola. Per
essi il tribunale giudicante figurò nominato dal senato e costituito
dalle persone dei due consoli, ai quali si aggiunse C. Lelio[339], un
semplice privato, e P. Cornelio Nasica, _princeps senatus_[340].


IX.

Non meno invadente fu l’azione del senato circa le attribuzioni, che
rimanevano ai comizi.

Il potere legislativo, le cui deliberazioni erano obligatorie per
tutto il popolo romano, spettava, nei primi secoli della republica, ai
comizi curiati e centuriati, (le decisioni dei _concilia plebis_ non
obligavano che i plebei), e, fino al 339, il senato sanzionava con la
_patrum auctoritas_ le leggi e le elezioni.

Ma, dopo il 339 e 338, la sua decisione ebbe la precedenza. Tale
innovazione, che, secondo avemmo a notare, fu nociva all’indipendenza
della magistratura, non riescì diversa, rispetto ai comizi.

Essendo, per essa, più facile castrare quelle proposte di legge
o rifiutare quelle candidature, che al senato non facevan comodo,
riesciva agevole interdire in eterno ogni conquista civile e politica
delle classi estranee a quella rappresentata dal senato. E pare che a
tale inconveniente abbia cercato di ovviare la legge Hortensia del 286,
per cui le _rogationes_ potevano presentarsi ai _concilia plebis_ senza
autorizzazione preventiva del senato, pur assumendo, se approvate,
valore di legge[341].

Ma, al 100, il senato annullava le leggi fatte votare dal tribuno
Apuleio[342], al 99 una di Tizio[343], al 91 una di Livio Druso[344],
al 66 una del tribuno Manilio[345]; finchè al 67, quando il tribuno
Cornelio emise un progetto di legge, per cui le _solutiones legibus_
(_dispense da leggi_) dovevano accordarsi solo dietro decisione
popolare, il senato vi suscitò tale opposizione, che il tribuno fu
costretto a modificare la sua proposta nel senso, che esse sarebbero
state accordate dal popolo, ma su iniziativa del senato impassibile
d’_intercessio_[346], disposizione, che formava il coronamento della
pratica dei tempi andati[347].


X.

Non rimaneva che crearsi il precedente specifico della misura
eccezionale e fu quello che il senato fece al 132. Proprio allora, non
ostante l’opposizione del console, esso con a capo il suo _princeps_
marciò addosso a coloro, che presumeva ribelli, e ne fece impune
massacro.

Appare quindi chiaro come il senato non sia pervenuto d’un tratto al
_s. c. u._

Esso, che se l’era preparato da secoli con una costante ininterrotta
invasione legale e illegale nell’ambito degli altri poteri dello stato,
se ne servì il giorno, in cui, ingaggiata la lotta, si vide costretto a
dubitare della sorte futura alla propria supremazia.

Ma quali interessi, in antagonismo con altri, avesse rappresentato,
durante codesto suo imperterrito lavorio, lo vedremo nel capitolo
seguente.




CAPITOLO VI.

RAGIONI DELL’ORIGINE, DELLA DURATA E DELLA FINE DEL _s. c. u._[348]


I.

Dei quattordici _s. c. u.ª_ meno dubbi della storia di Roma, uno solo
fu votato in occasione di guerre estere[349]; tutti gli altri per
questioni intestine, e, di essi, salvo uno, di cui non conosciamo
gli antecedenti, tutti segnano il momento culminante di una lotta di
classe. I dodici adunque, che ci rimangono, sia per il loro numero,
come per la loro importanza, ci dànno il carattere della misura, la
quale, lo ripetiamo,[350] originata forse da bisogni di difesa contro
nemici esterni, divenne mezzo di vittoria di uno dei poteri politici,
e, quindi, di una delle classi sociali su le avversarie.


II.

Nei secoli più fecondi di _s. c. u.ª_, la lotta tra patrizi e plebei
era già esaurita.

Alla metà del sec. IVº, tutte le magistrature patrizie erano state
aperte ai plebei: al 494 l’edilità, al 447 la questura, al 367 il
consolato, al 366 la dittatura, al 351 la censura, al 337 la pretura.
I _concilia plebis_ eleggevano gli altri magistrati minori ordinari e
straordinari[351].

E, se così i plebei avevano conquistato ogni diritto alle venture
conquiste politiche, essi ne avevano altresì raggiunto la pratica
possibilità con le nuove disposizioni sui comizi elettorali e
legislativi.

Non è ben certo se, anche durante la repubblica, il dritto di voto nei
comizi curiati sia rimasto prerogativa patrizia[352]. Ma, se così fosse
stato, la cosa avrebbe per noi poco o punto valore, tenuto conto della
sempre più ristretta importanza, che ad essi toccò nell’età più vicina
ai tempi, di cui ci occupiamo.

Non così accadde pei comizi centuriati, nei quali, dopo il 312, tutti
i cittadini ebbero diritto al voto, purchè in possesso d’una fortuna
determinata[353].

Nel senato, il quale, sin da ora, comincia ad assurgere ad onnipotente
consiglio direttivo, i patrizi avevano accolto plebei sin dagli inizi
dell’età republicana[354].

Al 367, si era aperto loro il collegio sacerdotale dei _X viri sacris
faciundis_, e, con una legge Ogulnia del 300, i collegi dei pontefici e
degli auguri[355].

Dal tempo delle leggi _de provocatione_ (509, 449, 300 etc.), della
Alternia Tarpeia (454) e della legislazione decemvirale, la competenza
nei _iudicia publica_, relativi ai cittadini, già passata ai comizi
centuriati, era toccata anche ai plebei. Nè l’istituzione delle
_quaestiones perpetuae_ menomò tale diritto, come quella che richiedeva
giurati scelti fra i senatori[356]. Pei _iudicia privata_, i tribunali
dei _centumviri_ e dei _recuperatores_ erano costituiti da cittadini,
scelti dal pretore; l’altro dei _X viri litibus iudicandis_ veniva
eletto nei comizi tributi[357].

E, se queste erano state le conquiste dei plebei nel campo civile e
politico, poco prima, nell’economico, essi, con le leggi Cassia (466)
e Metilia (416), si erano assicurato il diritto alle _occupationes_ e
alle _assignationes_ dell’_ager publicus_, e, con le Licinie del 377,
la pratica possibilità dell’attuazione del medesimo[358].


III.

La vittoria dei plebei poteva sembrare completa. Ma, allora stesso,
per un processo già preparato, che si elaborava in quella parte
dell’economia romana, che ne avea formato e ne formava la base
principale, (l’agricoltura), e veniva mostruosamente affrettato dalla
politica estera dello stato, si apriva il campo ad una nuova lotta di
carattere più spiccatamente economico.

Quale sia stato codesto processo noi l’abbiamo visto, studiando
le cause, che avevano, sin dai Gracchi, promosso in Roma una più
intensa agitazione agraria Ma ciò che allora non dicemmo, ed è adesso
indispensabile aggiungere, si è che la politica estera dei Romani,
come avea promosso la catastrofe dell’agricoltura, avea del pari
snaturato il carattere originario dell’economia nazionale. Le nuove
conquiste e le immense ricchezze, che ne provenivano, crearono capitali
indipendenti dai redditi della terra, come non era mai avvenuto per il
passato, e aprirono innumerevoli e svariate fonti di speculazioni[359].

In questo nuovo campo di sfruttamento i più fortunati furono
naturalmente i trionfatori della pressochè contemporanea crisi
agraria[360], e, con essi, quelli, cui l’amministrazione romana poneva
più agevolmente a contatto delle nuove fonti dell’oro.

Se non che, l’origine stessa del recente indirizzo economico era tale
da non renderlo in nulla paragonabile, nella sua natura e nei suoi
effetti, alla grande industria e al libero scambio della nostra età.

Sviluppatosi sovra un terreno di conquiste militari, esso non diede
che un’economia di saccheggio e di bottino, una cuccagna per gli
avventurieri dell’istante, senza che di tutto ciò potessero risentire
beneficio alcuno gli strati inferiori della società[361].

I nuovi rapporti, che per tali processi dell’economia nazionale si
venivano a stabilire fra suolo o proprietari e lavoratori, fra capitale
o capitalisti e nullatenenti, determinarono le nuove classi sociali.

Da un lato i detentori della proprietà terriera, tutti latifondisti,
insieme coi grossi speculatori (gli _optimates_); dall’altro, i
proletari urbani e rurali (i _populares_) con[362] i popoli sottomessi
a Roma, carichi di quasi tutti gli oneri e sforniti di quasi tutti i
dritti dei veri cittadini, (i _peregrini_).

Le nuove classi mettevano capo, una o più di esse, a uno o più dei
poteri costituiti.

Cominciamo dal senato.

Benchè, almeno sotto la republica, non occorresse, per legge un censo
prestabilito, pure i senatori erano di regola scelti tra i cittadini,
possidenti almeno il censo equestre del tempo: 400000 sesterzi[363].

Ne erano formalmente esclusi: 1) i _libertini_ e i loro figli[364],
disposizione, che, tenuto conto del numero e della sorte dei debitori
insolvibili, di cui abbiamo discorso, veniva ad eccettuare una
porzione non dispregiabile della cittadinanza; 2) i _municipes sine
suffragio_[365], costituiti dagli abitanti delle città latine o di
altri comuni italici, a cui Roma avea concesso una cittadinanza
incompleta; 3) gli _infames_[366], i colpevoli cioè di atti o
professioni, ritenute disonoranti, e i condannati per determinati
reati, civili o penali, privati o pubblici[367], od anche politici,
tutte condizioni molto più facili a riscontrarsi fra le classi sociali
meno abbienti; 4) i capitalisti speculatori, componenti l’altra
frazione della classe dominante, che s’aggiungeva ai grossi proprietari
di latifondi[368].

Il senato era quindi il rappresentante più schietto della più turchina
aristocrazia del suolo, e, nei suoi atti, non avrebbe potuto se non
difendere e sostenere gl’interessi della medesima.

I comizi centuriati, campo d’elezione dei magistrati maggiori,
ordinari e straordinari, comprendevano diciotto centurie di _equites_
con un censo massimo, e ottanta, costituenti la prima classe della
cittadinanza, con 100000 assi. Altre quattro classi, in 90 centurie,
comprendevano i cittadini, possidenti da 75000 a 12500 assi di censo.
Una sola centuria, non catalogata fra le classi comprendeva l’enorme
moltitudine dei _capite censi_, di quelli cioè tra i proletari, i
quali, tutt’altro che nulla-tenenti, possedevano un censo inferiore
a 12500 assi, insieme coi _libertini_, gli artigiani (_opifices_ e
_sellularii_); due, i fabbri in legno e in bronzo, votanti con la
seconda classe; due, i _tubicines_ e i _cornicines_, votanti con la
quarta[369].

La votazione, facendosi per centurie, gli è evidente come fossero le
due prime classi quelle, che, in ogni caso, decidevano del risultato.
E, quasi si volesse scongiurare la protesta delle possibili votazioni
in contrario della minoranza, si procedeva gerarchicamente dagli
_equites_ alle classi inferiori, sì che il voto si arrestava, appena
le prime 97 centurie si fossero trovate d’accordo, numero, per cui
bastavano gli _equites_ e le centurie della prima classe[370].

Al 241, la costituzione dei comizi centuriati subì una riforma, nella
quale, benchè in gran parte, non siamo ridotti che a delle congetture,
pare non venissero gran fatto modificate le condizioni dei cittadini
meno abbienti.

Le cinque classi furono ripartite, ciascuna in 70 centurie, accanto
alle quali persistettero immutate le 18 centurie dei cavalieri
e l’unica dei _capite censi_. Il dritto del primo voto passò dai
cavalieri ad una centuria, tratta a sorte fra i componenti della prima
classe, dopo la quale avrebbero votato i cavalieri, e via di seguito,
sì da aversi la maggioranza, appena arrivati alla terza classe, ai
possessori, cioè, di 50000 assi, dopo i quali la votazione si sarebbe
arrestata[371].

Ne segue che, non ostante le apparenze più liberali e democratiche, le
decisioni dei comizi centuriati rappresentavano sempre la volontà e gli
interessi di quelle classi, che avevano accesso al senato.

I comizi curiati avevano allora perduto ogni importanza politica[372].

Più degni di considerazione, sia per la maggiore indipendenza
legislativa, sia per la democratica costituzione, erano i _comitia
tributa_, campo d’elezione dei magistrati minori e dei _tribuni
plebis_.

Essi erano costituiti dalle 35 tribù, formate, a lor volta, dai
cittadini domiciliati nel territorio della tribù, e votavano
_tributim_[373].

Ho detto «_cittadini_» per avere agio a notare come, anche in
questa, che era la più democratica delle istituzioni dello stato, non
trovavano rappresentanza gli interessi di una grandissima parte della
popolazione, cui il governo non si facea scrupolo di addossare oneri in
beneficio dei privilegiati.

Ne erano infatti esclusi, il che accadeva a maggior ragione pei
comizi centuriati, i figli, anche maggiorenni, offerti dal padre in
_mancipium_ per estinguere un debito o riparare un dato suo atto,
gli _addicti_ e i _nexi_, (prigionieri per debiti), i _municipes
sine suffragio_, gli _infames_ e i colpiti di _nota censoria_[374].
Irrisorio era l’_ius suffragii_, riserbato ai _libertini_,
senza parlare degli esuli, dei deportati, e dei numerosissimi
_peregrini_[375].

Ma inconveniente più grave era nei comizi tributi la sproporzione tra
la popolazione della campagna e quella della città.

Le quattro tribù urbane votavano per le prime, le tribù rustiche,
inscritte le ultime, raramente[376].

Il plebeo della campagna per recarsi al Foro dovea percorrere un
cammino lungo e faticoso. Nei dintorni di Roma, si stendeva una vasta
e sterile pianura, dove sorgevano le ville dei senatori, ma donde era
scomparsa la popolazione agricola, che era andata ad abitare lungo il
Liri, sui monti Volsci, a Fregelle etc., a una distanza di 30 leghe
circa dalla capitale. Tale svantaggio era stato aggravato dalla legge
Fufia del 136, dopo la quale gli abitatori della campagna non poterono
più valersi della fortunata coincidenza dei giorni di mercato coi
giorni comiziali.

Ma se contro tutto ciò poteva valere il compenso del numero maggiore
delle tribù rustiche, la popolazione urbana riesciva di fatto
ad ottenere un’enorme preponderanza, potendo, a preferenza della
rimanente, agire ed imporsi in tutte quelle manifestazioni della vita
pubblica, che preparano, e talvolta decisamente, il risultato delle
votazioni. Senza occupazione, numerosa, e spesso selvaggia per miseria,
essa si aggirava a squadre per la città, protestava nelle pubbliche
riunioni, impediva l’accesso al luogo dei comizi, violentava i votanti,
falsava i resultati delle urne. Per colmo di sventura, la plebe
rustica, dalla quale si cavava il maggior contingente per l’esercito,
decimata dalle guerre incessanti, avea cominciato a scemare sin dal
giorno, in cui avea cessato di accrescersi. Gelosa dei conquistati
diritti di cittadinanza, si era sempre negata a dare accesso a nuove
popolazioni, lasciando che la direzione della politica della capitale
restasse in mano dei residenti nella medesima[377].

Quasi tutte codeste restrizioni pesavano altresì sull’_ius honorum_,
sul diritto cioè di aspirare alle pubbliche cariche col soprammercato
dell’esclusione degli _opifices_, dei _sellularii_, dei _proletarii_,
dei _capite censi_ e dei figli dei _libertini_[378], una bagattella,
come è palese.

La nomina dei titolari dei collegi sacerdotali spettava ai membri del
collegio[379], e chi pensa come la lotta per l’ammissione dei plebei ai
medesimi non era stata di tutta la plebe contro i patrizi, ma solo dei
più ricchi[380], e come la vita pubblica romana non contasse atto, nel
quale la religione non venisse a portare una nota decisiva, intenderà
come tali disposizioni sarebbero in avvenire venute a nuocere agli
interessi delle classi sociali meno abbienti.

La giurisdizione civile e la criminale per reati privati era, in
massima parte, in mano di tribunali costituiti dal pretore, e, in
minima[381], dei _X viri_, eletti dai comizi tributi; la giurisdizione
penale pei reati d’azione pubblica, in mano dell’ordine senatorio.

Chi rammenti adesso le competenze dei pubblici poteri, la cui
costituzione noi abbiamo esposto, potrà prevederne lo svolgimento e le
vicende.

Il senato non permetterà mai candidature o votazione di leggi, ledenti
per poco gl’interessi dell’aristocrazia. I comizi centuriati metteranno
in scacco le prime e respingeranno le seconde; nessuno dei magistrati
maggiori presenterà di simili _rogationes_; gli auguri saranno sempre
pronti ad interrompere le adunanze, sia elettorali che legislative,
o a cassarne per vizio di forma le decisioni, nè mai i _populares_
otterranno giustizia dai giudici di una classe sociale con interessi
opposti alla loro, in tutti quei casi, nei quali in ballo ci sarebbero
stati per l’appunto codesti interessi medesimi.

La loro causa sarebbe apparsa disperata se le trascorse conquiste
dei plebei non avessero inconsapevolmente, coi comizi tributi
e col tribunato della plebe, preparato l’arme migliore ai danni
dell’oligarchia dominante.

Così il conflitto tra le varie classi sociali si palesa nella vita
politica segnatamente come conflitto fra il senato e il tribunato del
popolo in alleanza coi comizi tributi.


IV.

E la lotta s’ingaggia su tutte le quistioni, cui dava adito il problema
sociale del tempo. Cominciamo dall’economica.

Al 133, Tiberio Gracco propone e fa approvare dai comizi tributi
una legge agraria. Il senato rifiuta lo stipendio ai triumviri
incaricati dell’esecuzione, e, più tardi, col farli menomare del potere
giudiziario, indispensabile all’opera loro, li costringe all’inazione.

Al 124, C. Gracco ripresenta la legge, ed il senato vi scatena contro
la concorrenza demagogica di Livio Druso; il console Opimio è pronto
a dare ascolto agli auguri, che giudicano la divinità contraria
all’istituzione della principale colonia transmarina, Cartagine, ed
entrambi, benchè approvata, non dànno esecuzione della legge.

Al 104, Lucio Marcio Filippo è costretto a ritirare la sua _rogatio_
agraria.

Al 100 Saturnino, contro la volontà del senato, fa votare una legge
_frumentaria_ e una _coloniaria_, e questo le abroga l’una dopo
l’altra.

Uguale sorte tocca alle leggi Tizia (99) e Livia (91).

Il console Cicerone, con la piena adesione del senato, mette in iscacco
la nuova legge agraria di P. Servilio Rullo (64), costringendo il
proponente a ritirarla, sorte uguale a quella che consoli, senato e
aristocratici faranno toccare alla _Flavia_ del 60, finchè un’identica
proposta non metterà Cesare in rottura col senato (59).

Di leggi agrarie, non contraddette nè abrogate dall’aristocrazia, non
conosciamo se non quelle, che, a loro volta, annullavano qualcuna delle
già votate negli interessi del popolo minuto: una del 121, la Thoria
del 118 o 109, la Bebia del 111[382].

Non diversamente accade nel campo politico.

Tiberio Gracco si presenta al suo secondo tribunato, annunziando quel
corpo di leggi, che condurrà in porto il fratello Caio, ed il senato si
affretta a toglierlo di mezzo.

Caio ottiene l’abbreviamento del servizio militare, il divieto
d’arrolamento dei cittadini inferiori a diciassette anni, l’indennità
per le forniture militari, tutte riforme in pro dei _populares_.
Rimaneggia sostanzialmente l’ordine della votazione nei comizi
centuriati, togliendone, per quanto era possibile, l’originario
spirito timocratico; fa stabilire per plebiscito che le riscossioni
dei numerosi tributi asiatici si appaltassero in Roma, il che avrebbe
fatto la fortuna degli speculatori della capitale, avversi all’ordine
senatorio, ed il solito Opimio ne annulla durante la sua assenza le
leggi. Propone la cittadinanza romana pei Latini, insieme con la latina
per gli Italici, e l’aristocrazia, per bocca del console Caio Fannio
e del tribuno Livio Druso, gliel’avversa dinnanzi ai comizi tributi, i
quali, poichè adesso si trattava di gente che non vi era rappresentata,
la respingono sdegnosamente, mal sopportando di dovere far parte anche
ad altri dei propri dritti di cittadini. Senato e consoli terminano
coll’assassinare il tribuno e sterminare con le armi ed i processi i
componenti delle classi sociali, che quegli avea rappresentato[383].

M. Livio Druso il giovane ripropone al 91 la legge relativa alla
cittadinanza dei confederati italici, e gli si oppone il console
Filippo, feroce partigiano della supremazia dell’ordine equestre, che
quegli è costretto ad imprigionare.

Il senato la permette, solo perchè con essa si accompagnava l’esca
lusinghiera della restituzione del diritto di giudicare nei _iudicia
publica_, già da Caio Gracco trasmesso ai cavalieri. Ciò non per tanto,
fattasi tosto palese l’astuzia della concessione, il senato medesimo
annullava la legge e Druso periva assassinato[384].

Tre anni dopo, Sulpicio Rufo propone che i nuovi cittadini,
(gl’Italici, fedeli durante le ribellioni del 91 e dell’88, e quegli
altri, che si erano allora sottomessi), fossero ripartiti in tutte
le 35 tribù, anzichè in otto soltanto, come, sotto la minaccia del
pericolo imminente, aveano stabilito le leggi Iulia del 90 e la Plautia
Papiria dell’89, condizione necessaria per non rendere irrisoria la
concessione; ed il senato induce i consoli a sospendere i comizi.
Silla, uno dei medesimi, schiaccia con l’esercito l’agitazione,
assassina Sulpicio, costringe Mario, uno dei più cospicui tra i
democratici, a scampare dalla morte colla fuga, e condanna alla pena
capitale dodici dei più noti loro amici politici, vietandone l’appello
al popolo[385].

Silla stesso, all’88 e all’83[386], compieva nella costituzione
repubblicana una riforma, ch’era agli antipodi di quella di Caio
Gracco. Restituiva di bel nuovo in vigore l’ordine di votazione e
l’assetto serviano dei comizi centuriati; stabiliva un censo per
l’elezione dei consoli, pretori e censori, e vietava ai tribuni di
convocare i comizi tributi, e di presentarvi proposte, che non avessero
riscosso l’approvazione del senato[387].

L’iniziativa in materia di legge tornò così ai comizi centuriati,
mentre, tra l’altro, s’elevavano i poteri del senato, ritogliendosi al
popolo il diritto di prorogare annualmente l’_imperium_ dei governatori
di province, i quali sarebbero rimasti in carica finchè il senato non
ne avesse designato i successori, e sopprimendo il potere regolatore
dei censori sul medesimo. Oltre alle proscrizioni, con cui il
reazionario generale li aveva perseguitati, l’ultimo tracollo al ceto
dei cavalieri fu offerto dalla soppressione degli appalti dei tributi
asiatici[388].

La restaurazione sillana, come in parte l’esito delle precedenti
agitazioni legali, riescirono di tremenda lezione alla democrazia, la
quale, sin d’allora, cominciò a sperare soltanto nell’azione energica
di un generale a capo d’esercito, speranza che avea concepita sin dai
tempi di Mario, e che fu coronata dall’opera di Cesare.

La loro lotta politica smesse quindi l’antica tattica, e da agitazione
legalitaria, assurse a rivoluzione extralegale.

Aprono il fuoco Sertorio in Spagna, Lepido in Etruria, ed il senato
si libera dell’uno con l’invio di Pompeo (77-2)[389]; dell’altro, con
quello di Pompeo medesimo e Q. Catulo[390]. (77)

Segue al 71-0 la coalizione dei generali, Pompeo e Crasso, con la
democrazia, per mezzo dei quali s’impone al senato il silenzio e si
abroga la costituzione Sillana[391].

Indi è la volta dei Catilinari in Etruria (63), dei quali il senato si
sbarazza con l’invio di M. Antonio[392], e finalmente quella di Cesare,
che, reduce dai trionfi gallici, la spunta coll’oligarchia republicana
e inaugura la monarchia militare[393].

Poco meno accanita è la lotta nel campo giudiziario, nel quale i capi
della democrazia ereditano dai Gracchi la tattica di insinuare la
discordia tra i due ordini dell’aristocrazia: latifondisti (senatori) e
capitalisti (cavalieri).

Caio Gracco conferisce al popolo il dritto di giudicare e condannare
i magistrati, che avessero colpito qualche cittadino, non osservando
le garanzie statutarie; impone per le condanne a morte l’obligatoria
ratificazione dei comizi, e, nei tribunali penali per reati d’azione
pubblica, sostituisce ai senatori i cavalieri[394] (123).

Una _rogatio_ Servilia del console Cepione ridona ai senatori
l’esclusivo privilegio dei giudizi (106).

C. Servilio Glaucia ritorna all’ordinamento gracchiano (100-104). La
legge _Plautia_, dell’89 permette a ciascuna tribù di eleggere nel
proprio seno 15 giurati. Silla, all’81, per la legge Cornelia, abolisce
di nuovo i tribunali dei cavalieri e ripristina i senatorii. Una legge
Aurelia del 70, del periodo cioè della reazione democratica contro la
restaurazione sillana, ripartisce l’amministrazione della giustizia
penale tra senatori, cavalieri e _tribuni aerarii_, cittadini con un
censo inferiore all’equestre, probabilmente di 300000 sesterzi[395];
finchè, al 58, Clodio fa votare un plebiscito, riproducente quello
di Caio Gracco, per cui si autorizzava il popolo ad esiliare quei
magistrati, che avessero condannato a morte dei cittadini senza aver
provocato l’assenso dei comizi[396].

Così nel campo sacerdotale. Al 145, il tribuno Caio Licinio Crasso avea
presentato un progetto di legge, tendente a sostituire alla cooptazione
il suffragio dei comizi tributi nell’elezione dei titolari dei collegi
sacerdotali. Combattuta dall’aristocrazia, la proposta abortì[397].
Al 104, il tribuno Domizio Enobarbo ne ripiglia il tentativo, che, non
ostante le antiche ostilità, riesce a condurre in porto[398]. La legge
Domizia viene abrogata da Silla[399], finchè al 63, con l’aiuto di
Cesare, il tribuno T. Azio Labieno la rimette in vigore[400].

Le elezioni consolari, come del resto le tribunizie e le pretorie,
sono, ogni anno, teatro di lotte accanite.

Scegliendo, per esempio, il decennio 65-53, troviamo al 64 Catilina
e Antonio contro Cicerone, candidato dell’aristocrazia; al 63,
Catilina stesso contro Silano e Murena, noti conservatori; al 61 e 60,
Pupio Pisone e L. Afranio, imposti da Pompeo, allora rappresentante
della democrazia, non ostante la viva opposizione del senato; al
59, G. Cesare con L. Lucceo contro il candidato dell’aristocrazia,
L. Calpurnio Bibulo; al 58, A. Gabinio e C. Pisone Cesonino, l’uno
ufficiale di Pompeo, l’altro, suocero di Cesare, imposti dai triumviri,
Crasso, Cesare e Pompeo; al 55, Crasso stesso e Pompeo contro il nobile
Domizio Enobarbo; al 54, Domizio Enobardo medesimo, vittorioso contro
gli sforzi della coalizione democratico militare, capitanata da Crasso
e Pompeo; al 53, Planco Ipseo con Metello Pio Scipione contro il feroce
reazionario Milone.

E la classe dominante, per mezzo dei poteri, a cui metteva capo, non
solo rivolgeva i suoi colpi contro i candidati dei _populares_, ma ne
attaccava le associazioni politiche.

Rispetto alle medesime grava presso gli storici il tradizionale
pregiudizio di considerarle quale covo impuro di raggiri elettorali,
mentre un’interpetrazione più positiva della loro funzione politica e
sociale, insieme con l’esame degli attacchi, a cui esse furono segno,
basterebbe per riabilitarle.

Infatti al 68 o 64, un _s. c,_ sopprimeva le nuove associazioni di
proletari, _che fossero ritenute contra rempublicam_.[401] Al 58,
Clodio richiamava in vita le antiche, inaugurandone delle nuove[402];
ma, immediatamente dopo, un nuovo s. c. tornava a scioglierle (56),
minacciandone i membri della pena _de vi_[403]. Non era dunque la
corruzione elettorale, come gli storici han sempre mostrato di credere,
ma l’organizzazione democratica, che il senato mirava ad infrangere,
ed è un ben curioso, ma eloquente contrasto quello, che gli ultimi 150
anni della republica romana ci offrono tra i _s. c.ª de sodaliciis_,
tendenti a prevenire le insurrezioni e le organizzazioni politiche,
promossi tutti dagli _optimates_[404], e le leggi de _ambitu_, tendenti
a reprimere il broglio elettorale, partite tutte dai _populares_[405].

Era ben prevedibile che la classe sociale, la quale godeva da parecchi
secoli il privilegio, il potere e l’agiatezza, ed ora si ritrovava
minacciata da avversari, che le davano battaglia sul terreno stesso
della costituzione, escogitasse pel principale dei suoi organi
politici, il senato, qualche nuovo mezzo di difesa e di offesa, qualche
ripiego, per cui, in date circostanze, potesse fare a meno delle leggi.

Di antichi, non poteva rammentarne che uno solo, straordinario sì, ma
non extra-legale: la dittatura _seditionis sedandae causa_. Salvochè
quest’arme, spesso pericolosa, perchè a doppio taglio, avea finito con
ispuntarsi.


V.

La nomina del dittatore[406] era infatti riescita, sotto molti aspetti,
svantaggiosa al senato sin dal tempo, in cui codesta magistratura
resisteva ancora all’azione dei partiti democratici.

Il dittatore, rispetto al senato, possiede un’indipendenza maggiore,
che non i consoli. Non ostante la testimonianza di Zonara, tutto ci
induce a credere che esso, per quanto concerneva il pubblico tesoro,
fosse dispensato dall’autorizzazione senatoria[407].

Ma, se in ciò i suoi dritti non superavano gran fatto quelli dei
consoli, residenti nella capitale, riescivano tali, quanto alla
dispensa da ogni rendimento di conti al termine della gestione, grave
lesione della strapotenza del senato nel dipartimento delle finanze.

D’altro canto, mentre il console in guerra non poteva, di regola,
arrolare più di quattro legioni, il dittatore non conosceva limiti
a tale suo diritto, come iniziata la campagna, i legati del senato
venivano meno frequentemente ed intensamente a circoscriverne
l’indipendenza[408].

Il posto più elevato, che al dittatore competeva, rispetto ai capi
del potere esecutivo, avea gradatamente reso i consoli meno proclivi
a tale nomina, che loro competeva di dritto[409]. E, se talvolta vi
erano stati coattati dalle minacce dei tribuni, tal’altra aveano scelto
contrariamente ai voleri del senato[410].

Questo secondo caso, che poteva ripetersi con esito peggiore,
ogni qualvolta tra senato e consoli fosse esistita collisione
di intendimenti rendeva, per quest’ultimo, parecchio pericoloso
l’espediente della dittatura.

Peggio accadde, quando l’azione incessante dei partiti democratici
fece sì che il popolo intervenisse più seriamente e più consuetamente
a limitare, giusta gli obblighi della costituzione, i poteri
dittatoriali. Già, al 356, i plebei avevano conquistato codesta
magistratura; e, benchè le nuove lotte non si sarebbero più combattute
fra patrizi e plebei, ma fra _optimates_ e _populares_, tornava
pericoloso agli interessi dei primi l’affidarsi ad un magistrato,
che, pur ieri, avea figurato tra le file del partito più liberale e
democratico. Sembra che sia stato proprio quest’inconsapevole istinto
di difesa a dirigere l’opposizione del senato contro gli atti del primo
dittatore plebeo, C. Marcio Rutilo[411].

Ad una data non ben definibile, la dittatura, in origine esente dalla
_provocatio_, terminò per esserne dichiarata passibile[412]. Lo stesso
è a dirsi dell’_intercessio_ tribunizia[413]; e così la dittatura fu
vista in seguito, nelle lotte che ebbe a sostenere contro i tribuni,
vacillare e piegarvisi[414].

Già dispensato da ogni rendimento di conti, il dittatore fu ridotto a
dover rispondere dei propri atti e a sottostare alle pene adeguate al
pari di qualsiasi magistrato[415].

Peggio ancora gli toccò, quando, per plebiscito, i suoi poteri
furono equiparati a quelli del _magister equitum_[416], il che era un
insinuare il principio e le garanzie della collegialità, che destituiva
la dittatura della sua ragion d’essere.

I comizi, che prima non partecipavano alla _dictio_ di codesto
magistrato, v’intervennero di fatto più tardi, e si vide persino un
dittatore, nominato per designazione dei _concilia plebis_[417],
i quali, per colmo di misura, dietro la legge Hortensia del 286,
acquistarono il diritto di legiferare indipendentemente dalla volontà e
dai divieti dittatorii[418].

Così il magistrato in discorso, scelto tra i più cospicui cittadini,
in un momento di crisi sociale, nè facea decadere le guarentigie
costituzionali, nè escludeva una conciliazione delle lotte intestine
col sottostare alla legge.

L’arme a due tagli si era spuntata; urgeva buttarla nel dimenticatoio.
Ed ecco la mirabile coincidenza delle date.

Non si è sicuri nè della legge, nè dell’anno, in cui la dittatura
fu sottoposta alla _provocatio_. Livio ce la fa sospettare tale
al 439, 385, 363, 325, 314. Sembra però più ragionevole riportare
l’innovazione alla terza legge Valeria de _provocatione_, la quale
data dal 300[419]. Al 353, o, più sicuramente, al 209, essa comincia
a sottostare all’_intercessio_[420]. Al 286 s’inaugura l’indipendenza
e l’onnipotenza dei _concilia-plebis_; al 217 i poteri del _magister
equitum_ sono equiparati a quelli del dittatore[421]; al 210 i
_concilia plebis_ designano il primo dittatore[422]; e l’ultimo,
nominato _seditionis sedandae causa_, non oltrepassa i primi del IIIº
secolo a. Cristo[423].


VI.

Alla classe dominante occorreva dunque una nuova e più efficace misura,
ed ecco, il senato, interpetre di tale necessità, ricorrere al _s. c.
u._

Esso lo tenta al 133 contro i seguaci di Tiberio Gracco, lo vota al
121 contro Caio, al 100 contro Glaucia e Saturnino, forse al 77 contro
Lepido, al 63 contro i Catilinari, al 62 contro il tribuno Nepote, al
52 contro il pretore Celio Rufo, al 47 contro il tribuno Dolabella,
e al 43 contro due eredi della politica di G. Cesare, in altrettanti
palesi conflitti fra _optimates_ e _populares_.

Nè nei due casi, che rimangono, il _s. c. u._ à perduto la sua
fisonomia caratteristica.

Dell’ultimo del 40, contro Salvidieno Rufo, non si conoscono gli
antecedenti; e quello dell’89, sotto le pressioni di un governo
radicale, che si servì delle stesse armi dei propri avversari, fu
votato contro un nobile da parte di un senato, colpito di terrore
pei propri amoreggiamenti e le proprie timidezze verso i nemici del
medesimo.

Oltre il 40, nessun _s. c. u._ E non poteva darsi altrimenti.

La nuova riforma della costituzione romana, la quale, in fatto, se
non in dritto, s’inaugura, da Cesare, pur non risolvendo le antitesi
di classe esistenti, avea soppresso la possibilità di quei conflitti
politici, che avevano agitato gli ultimi due secoli della repubblica.


VII.

Cesare incarnava quell’ideale di democratico in armi da generale,
cui l’esperienza di circa un secolo avea fatto intravedere ai partiti
popolari come unico strumento di salvezza e di vittoria, e che essi da
Mario a Sertorio, da Sertorio a Lepido, da Lepido a Catilina, aveano
indarno inseguito[424].

Ma, pur troppo, nè il male era così rimediabile, come ai tempi di Caio
Gracco, nè Cesare, preoccupato dei suoi sogni ambiziosi, tentò tutte le
vie adatte e possibili di riforma.

La legge agraria del 59 è estranea alla sua dittatura _reipublicae
constituendae_, durante la quale, il problema agrario non fu certo
primo tra i suoi pensieri. Egli, del resto, trovava il demanio
pressocchè esaurito, dopo che Silla ne avea dispensato la maggior parte
fra i veterani, i quali, costretti al celibato[425], non aveano, alla
loro morte, potuto impedire l’alienazione della propria _possessio_,
e quindi la ricostituzione dei latifondi. Non avendo, anzi, avuto il
coraggio di violare le proprietà, formatesi dopo tali ripartizioni, ne
ripetè il metodo, e la sua legge riescì quasi del tutto a favore dei
veterani dell’esercito suo e di Pompeo[426].

Se Cesare, da questo lato, contaminò la quistione economica con
interessi d’ambizione personale, non estirpò dall’altro, e forse non lo
poteva, la concorrenza, che gli schiavi facevano al lavoro libero.

Senza una simile misura non si sarebbe mai potuto procedere a risultati
fruttuosi. I piccoli proprietari non avrebbero potuto reggere alla
concorrenza dei latifondisti; nè, falliti, avrebbero trovato lavoro.

Rimaneva a Cesare il compito di far fiorire le industrie, inaugurare
il sistema rappresentativo e romperla, una volta per sempre, con la
funesta politica militarista[427]; ma era impresa troppo ardua per
le sue forze: Cesare e i Cesari furono costretti a lasciare che il
problema economico sociale di Roma venisse risolto dalle elemosine
delle _frumentationes_ imperiali, dalle leggi restrittive e dalle
invasioni barbariche[428].

La riforma Cesariana, eliminatrice dei conflitti politici, si esplica
invece nel campo politico.

La nuova creazione è la monarchia militare[429].

Al di sopra del senato e dei magistrati, si inaugura una nuova
magistratura: la magistratura imperiale. Il suo potere deriva dai
comizi del popolo e dall’approvazione del senato, ma essa compendia in
sè i dritti costituzionali dell’uno e dell’altro.

L’_imperator_ è pontefice massimo, tribuno, console, censore,
proconsole, e, dal senato come dal popolo, à avuto trasmesso il diritto
di decidere della pace e della guerra, di disporre degli eserciti,
del pubblico tesoro, di nominare i proconsoli, parte degli impiegati
municipali di Roma etc.

Se così i comizi, e quindi le classi meno elevate della cittadinanza,
per avere trasmesso troppe delle loro competenze, cessano di
partecipare direttamente alla vita pubblica, peggio accade, sotto
Cesare, al senato, che cominciò allora a scontare i suoi torti,
ridotto, quale dovea essere, a consiglio di stato.

Entro tali termini, codesto potere, il quale, sovrattutto,
rappresentava gli interessi delle classi elevate, si trovò incapace
d’inaugurare resistenza alcuna, venendo anzi assorbito dall’altro,
sempre più invadente, della magistratura imperiale.


VIII.

La costituzione concepita da Cesare non fu, in tutti i suoi punti,
patrimonio dell’impero.

Tuttavia le sue modificazioni non riescirono tali da permettere la
risurrezione di quel conflitto di poteri, che avea dato luogo al _s. c.
u._

Dopo Tiberio, il potere elettorale, giudiziario e legislativo fu
trasferito al senato[430]; ma l’opera degli imperatori non consistè che
nel defraudare delle proprie competenze i comizi in pro del senato, per
defraudarne poi questo in pro di sè medesimi.

L’imperatore riassunse in sè tutte le cariche civili, militari e
religiose. I suoi editti ebbero valore di leggi[431]; e Augusto
compiè ciò che G. Cesare aveva appena concepito: l’imperiale tribunale
d’appello, come completazione dell’imperiale giudizio in prima istanza,
inaugurato dal padre[432].

Così à fine il _s. c. u._

Non lo sospende un principio astratto di equità o di giustizia, non una
visione della realtà storica, la quale constati, come ogni profonda
agitazione sociale, pericolosa alle vigenti istituzioni, non può mai
essere effetto di delinquenza o di degenerazione, fenomeni puramente
individuali, ma indice imperioso di nuove condizioni sviluppate sotto
il vecchio regime.

Nemmeno Roma comprese, che, se in tali casi, una politica conservatrice
è assurda, lo dovrà esser con più ragione una reazionaria, e che in
essi, specialmente, occorre agire entro quelle garanzie costituzionali,
vane del resto nei giorni lieti, ma necessarie nei tristi a
salvaguardare la soluzione di tutti i possibili problemi sociali. Ed
anche in Roma — vecchia istoria — si corse a rintracciare una misura
eccezionale; che trovò la sua fine prima ancora che fossero risolti
quei problemi, i quali l’avevano indirettamente provocata.




NOTE:


[1] Lehrbuch der historichen Methode — Cfr. p. 13-32. — Leipzig. 1894.

[2] Int. _senatus-consulta ultima_.

[3] Queste, come le successive datazioni, saranno tutte _a. C. n._

[4] Ab urbe condita libri III, 4 — erklärt von W. Weissenborn. Fünfte
Auflage, besorgt von H. I. Müller — 1886 — Berlin.

[5] Dionisi — Antiquit. rom. IX, 63, ed Kiessling e Prou — Parigi.

[6] I Romani distinguevano una dictatura _rei gerundae causa_ (per
pericoli militari esterni) e una _seditionis causa_.

[7] Hist. rom. II, p. 135. 1830. Parigi.

[8] Les instit. politiques des R. I, p. 28 — 1882.

[9] Handbuch der röm. Alterthümer — 2, 1. pag. 135. 1843 — 67. Leipzig.

[10] Le droit public rom. VI. p, 1. p, 73 e segg. trad. par Girard —
1889 — Paris.

[11] Le Senat de la rep. romaine — I, p. 15 — 1883 — Bonn.

[12] Sull’origine e la condizione degli _aerarii_ cfr. Becker — Op.
cit. II, 1 p. 188-93 — Lange — Römische Alterthümer. I, 406-7, 439-40
— 1863. Pardon. De aerariis — 1853. Willems — Droit p. r. 93-5 — 1872.
Mommsen — D. p. r. IV, 71, e n. 2 e 3, p. 72 e n. 1.

[13] Mommsen — D. p. r. VI, p. 257.

[14] Id. IV, p. 73.

[15] D. p. r. VI, p. 1, p. 257.

[16] Mommsen — L’organisation financière chez les Romains, p. 115-7 —
Trad. par. A. Vigie — 1888 — Paris.

[17] Niebuhr — Op. cit. IV, p. 174.

[18] De Ruggiero — «Agrariae leges» (in «Encicl. giuridica» § 2 e
segg.).

[19] Troplong — De la contrainte par corps — Prèface — X — 1848.
Bruxelles.

[20] Niebuhur — Op. cit. IV, p. 369 e segg. Voigt — Die XII Taffeln II,
§ 122 e I, § 63 e 65 — 1883. Padelletti — Storia del dritto romano — §
XXI, p. 162 — 31; XXVI, p. 194, e XXVII, n. 2 — 1878. Troplong — Op.
cit. «Préface» — Id. — St. del prestito a interesse — 1845 — Modena.
Huschke — Das Recht des Nexum und das altrömische Schuldrecht. Leipzig.
1846. Savigny — Über des altrömische Schuldrecht. Abhandl. der Berl.
Akad. von I. 1833.

[21] Liv. VI, 11 20.

[22] VI, 11 — Niebuhur. Op. cit. IV, p. 385.

[23] Appiano — De rebus italicis — IX — ed. Didot. 1840 — Parigi.

[24] «thesauros gallici auri occultari a patribus... nec iam
possidendis publicis agris contentos esse, nisi pecuniam quoque
publicam avertant» [Liv. VI, 14].

[25] Op. cit. I, p. 184.

[26] D. p. r. II, p. 373, n. 1.

[27] Le sénat etc. II, p. 248, n. 2.

[28] VI, 18.

[29] VI, 20.

[30] Mommsen. D. p. r. III, 183.

[31] Cfr. Zonara [Annali, VII, 34], che in codesto passo ha presenti
Livio e Dione.

[32] VI, 6.

[33] Camillo. XXXIX.

[34] Plut. Ibid. XXXVII. Il racconto di Plutarco è però erroneo perchè
troppo sommario. Egli addebita a Quinzio Capitolino il primo arresto di
Manlio, ma il trasporto dell’assemblea giudiziaria a Camillo, di cui
non menziona la carica. Camillo era allora, secondo Livio (VI, 18),
_trib. milit. c. p._ L’intervallo di tempo tra i due fatti oltrepassa
la durata consueta della carica dittatoriale, come possiamo scorgere da
Livio; onde, se potè forse un dittatore imporre l’arresto di Manlio,
non potè più il medesimo presiederne l’ultimo processo. Allora era
_trib. c. p._ M. Furio Camillo, ed è ben strano, che, con un tal uomo,
si fosse pensato a un dittatore (Cfr. Liv. VI, 6.).

[35] Vite — Camillo — XXXVI.

[36] Zonara — l. c. e Dio. LXIII LXIV [Framm. I I-XXXVI].

[37] Bibliothecae historicae quae supersunt — XV, 35, 3 — 1898.
Parisiis.

[38] Excerpta — XIV, 4 ed. Kissling e Prou — Parigi.

[39] Hist. rom. II, p. 64.

[40] Op. cit. II, p. 588, n. 629. Cfr. anche Ihne — Römische Geschichte
I, 256-7 — Leipzig — 1868. Peter — Geschichte Roms — I, 206 — Halle
1871. Zumpt — Das Criminalrecht der röm. Rep. I, 2, 379-86 — 1875.

[41] Ibid. p. 409.

[42] Lo Zumpt infatti, (Das Criminalrecht der römischen Republik.
I, 2 p. 401) non tiene in alcun conto gli scrupoli succitati contro
l’autenticità dei prec. _s. c. uª_.

[43] Plut. Vite. «Tiberio Gracco». Appiano — Guerra civile. I, VI-XVII.
Liv. Epit. Dec. VI, lib. VIII. Dureau de la Malle — Les lois agraires
— [in Mémoires de l’Académie des inscriptions et belles lettres. 29
febbraio 1828]. Giraud — Recherches sur le droit de propriété chez les
Romains — 1838. Laboulaye — Histoire du droit de propriété foncière en
Occident, p. 804. 1839 — Laboulaye — Des lois agraires chez les Romains
— Revue de législation II, 3. Paris. 1846. Macé — Des lois agraires
chez les Romains — 1846. De Ruggiero — l. c. § 22-9. Dureau de la Malle
— Économie politique des Romains — II, Cap. XXI-XXIII — 1840. Humbert
— Sur la condition des ouvriers libres chez les Romains. [in Recueil
de l’Académie de legislation de Toulouse. 1868]. Wallon — Histoire de
l’ésclavage dans l’antiquité V. 2º p. 280-301; 337-66. Paris. 1879.
Mommsen — Storia romana — II, 189-91; trad. it. del Sandrini — 1865.
Ihne — Römische Geschichte — V. 24-55 — 1879. Leipzig. Lange — Römische
Alterthümer — III, 1-16. Peter. G. R. III, 7-18 — Sörgel — De Tiberio
et C. Gracchis commentatio I, II, III — 1860 — 66. Gerlach — Tiberius
und C. Gracchus — 1843 — in Historische Studien — II, p. 89 e segg.
1847. Lau — Die Gracchen und ihre Zeit. Hamburg — 1854. Klimke —
Beiträge zur Geschichte der Gracchen — Sagau — 1892.

[44] Ihne — R. G. V, p. 11-20.

[45] Marquardt — L’organisation militaire chez les Romains — trad. par
Brissaud. p. 9. 1891.

[46] De officiis. II, 23, 71.

[47] Per gli schiavi infatti non occorrevano tutti quei riguardi, dalla
legge richiesti pei liberi.

[48] Ciccotti — Il tramonto della schiavitù, p. 167 — 9, 170 — 4, 181 —
2. 1899.

[49] Id. 174-8.

[50] Cfr. De Ruggiero — Op. cit. 800-1.

[51] Il Mommsen [D. p. r. II, p. 373] qualifica d’incostituzionale
codesta ripresentazione di candidatura tribunizia. Ma egli è
costretto a confessare frequentissime le iterazioni di tale carica.
Gli storici più autorevoli dell’antichità lo accusano infatti
soltanto di «_pessimum exemplum_» [Liv. III, 35]. Le magistrature
inferiori patrizie, come tutte le plebee, per l’appunto inferiori, le
ammettevano; e il tribunato, se mai, rientrerebbe tra quest’ultime.
[Mommsen. D. p. r. II, 175 e 177]. Ma era esso davvero una
magistratura?

[52] Valerio Massimo, [III, 2, § 17] segna a questo momento la
votazione di un _s. c. u._ È desso uno dei più dubbi. Anzitutto per
alcune considerazioni dialettiche: 1) è presumibile che i senatori
avessero votato il conferimento dei poteri eccezionali ad un console
(Muzio Scevola), punto intenzionato ad usarne, come già essi sapevano
[Plut. Vite — T. G. XVIII], e come realmente avvenne? 2) Dopo il
rifiuto del medesimo, come spiegare l’astensione dei senatori dal
conferire l’incarico al collega o ai pretori? 3) Se _s. c. u._ ci
fu, perchè si attesero i consoli dell’anno seguente per l’inizio dei
processi a carico degli imputati, [Val. Max. — IV, 7 § 1]?

Alle dialettiche sono da aggiungere le ragioni storiche. Valerio
Massimo — tra gli svariati storici di codesto avvenimento — è il solo
a farci menzione di tale _s. c. u._, e, non in una narrazione redatta
ordinariamente, ma, così, di sbieco, in una raccolta di sentenze
morali. Plutarco distinguerà una doppia petizione al console, perchè,
dietro un _s. c. u._, volesse assumere il comando della repressione,
dopo l’insuccesso della quale, senza votazione alcuna, P. Scipione
Nasica invitò i colleghi a seguirlo.

Plutarco è molto più attendibile di Massimo, ne è posteriore, scrive
di storia _ex professo_, e mostra di non avere ricevuto alcuna notizia
della votazione di codesto _s. c. u._

Dal confronto dei passi dei due A. si deduce quindi che il romano,
riferendo sommariamente, abbia confuso l’intenzione colla votazione di
un _s. c. u._

[53] Le elezioni tribunizie, nel VII sec., aveano, di regola, luogo nel
luglio. [Mommsen — D. p. r. II, p. 250].

[54] Val. Max. IV, 7, 1 ed. Kemf. 1888. Cicerone — De amicitia. II, 36.
Löscher 1894. Sall. Iug. XXXI, 7.

[55] Plut. — Vite. C. Gracco. App. B. C. I, 21-7. Liv. Epit. Dec. VI,
lib. X; Dec. VII, lib. Iº. De Ruggiero — Op. cit. II, 30-3. Mommsen
— St. rom. II, p. 92-115. Ihne — R. G. V, 77-107. Macé — Op. cit. p.
346-54. Lange — Op. cit. III, 29-45. Peter. G. R. III, 29-41.

[56] V.i Cap. VI, § 3 del pres. lav.

[57] Sallustio — De rep. ordin. II, 8. [in «Opera» ed. Bournouf. 1827].

[58] Cic. Phil. VIII, 4, 14; Cat. I, 2, 4. Plut. C. G. XVII, 2.

[59] Cic. — De domo sua. XXXVIII, 102. App. B. C. I, XXVII.

[60] Plut. C. G. XVII.

[61] App. l. c. Sall. Iug. XXXI, 7.

[62] Liv. Epit. Dec. VII, Lib. IX. De viris illustribus. 73, 1. App. B.
C. I, 28-33. Val. Max. — III, II, § 18 — Plut. — C. Mario — XXIX-XXX.
Florus — Epitome rer. roman. III, 16, § 6. Orosio — Histor. adversus
Paganos — V, 17, 1889. De Ruggiero — Op. cit. § 41-44. Mommsen — St.
rom. II. 183-91. Ihne — R. G. V, 219-41. Macé — Op. cit., p. 365. Peter
— G. R. III, 29-41.

[63] La prima volta era stata al 103.

[64] De Ruggiero — Op. cit., p. 832.

[65] Momms. — St. rom. II, 177 e segg.

[66] Il De Ruggiero, [Op. cit., § 43], ritiene che alcune delle
clausole dell’ultima legge costituivano quasi un’introduzione a qualche
proposta di conferimento di cittadinanza ai _socii italici_.

[67] Val. Max. III, 2, 18. Cic. p. Rab. perd. VII, § 20; Cat. I, § 4;
Phil. VIII, § 15.

[68] Il luglio era il mese destinato alle elezioni dei magistrati
patrizi [Mommsen, D. p. r. II, 249 e n. 3], e Glaucia avea testè
concorso al consolato.

[69] Cic. p. Rab. perd. l. c.

[70] Ibid. — Plut. C. Mario XXX. App. B. C. I, 32.

[71] Val. Max. VI, 3, 1.

[72] Il Wilems, [Le Sénat, etc. II, 250, n. 5], ritiene che durante
le guerre civili tra Mario e Silla dell’88, il _s. c. u._ sia stato
votato per ben due volte. Il tribuno Sulplicio aveva allora proposto
alcune leggi ostili agli interessi e alla politica della nobiltà.
Erano consoli Silla e Q. Pompeo. Per impedirne la votazione bandirono
delle feste, colle quali si sospendevano tutti gli affari in corso,
privati e pubblici, il che, secondo il W., costituiva un’ordinanza
di _iustitium_. Sulplicio rispose con una rivolta popolare; Q. Pompeo
fu ucciso: Silla trovò scampo nella fuga. Ma, tornato con l’esercito,
confiscatene le sostanze, fece dal Senato dichiarare _hostes publici_,
dodici fra gli avversari, e quindi condannarli alla pena capitale.
[Plut. — Silla VIII-X, C. Mario XXXV. Liv. Epit. Dec. VIII, lib.
VII. Sallustio — Op. p. 507-8]. Il W. ritiene che l’ordinanza del
_iustitium_, come la dichiarazione di _hostes publici_, presuppongano
rispettivamente un decreto di _tumultus_, e questo, la votazione di un
_s. c. u._, teoria inaccettabile per le ragioni che svolgeremo nel Cap.
III, § 2. del pres. lavoro.

[73] C. Sallustii — Opera I. p. 511 «Iulii Exuperantii — Opusculum de
Marii, Lepidi ac Sertorii bellis civilibus» ed. Bournouf. 1827.

[74] Plut. — Silla 27-8. Liv. — Epit. Dec. IX, L. IV. — App. B. C.
82-6. C. Sallustii — Op. l. c. — Mommsen — St. rom. II, 230-5 — Ihne —
R. G. V, 374-7.

[75] C. Sallustii — Op. l. c.

[76] App. — B. C. I, 86.

[77] Le Senat etc. II, 251.

[78] Liv. — Epit. Dec. IX, lib. X. App. B. C. I, 107, Sallustii —
Historiarum reliquiae — Fasc. II, p. 36 — ed. Maurenbrecher. Lipsiae
— 1893. Florus — III, XXIII. Granii Liciniani — Annales — p. 23 ed.
Pertz. Mommsen — St. rom. III, 25-8. Ihne — R. G. VI, 7-13.

[79] Sallustii — l. c.

[80] Plut. — Pomp. XVI.

[81] Florus — III, XXIII, § 6-7.

[82] Cat. II, 18-23.

[83] Sall. — Cat. XX. Loescher, 1885.

[84] Senza che il debito per _nexum_ potesse dirsi teoricamente
o praticamente eliminato, rimanevano invariate le condizioni
dell’_addictio_ (V.i p. 4-5 del pres, lav.), toltane forse l’esecuzione
e la vendita del debitore. [Troplong — Sur la contrainte etc. Pref. p.
XXXVI e segg.]. La legge _Poetelia_, non si sa bene se del 355 o del
323, non avea punto estirpato la consuetudine del pegno del proprio
corpo (Ibid. p. XX e segg.) o di quello dei figli, come garanzia del
saldo del debito (Ibid. XXV e segg.).

[85] Benchè la legge le avesse mitigate, vigeva la contraddizione più
stridente fra il diritto e la consuetudine. Un pretore, Asellio, era
stato assassinato per aver fatto giustizia ai debitori taglieggiati
dalle usure, e, al 51, un _s. c. u._ terminerà per stabilirvi come
minimum il 12%! [Troplong — St. del prestito a interesse — p. 41-2,
trad. it. 1845. Modena].

[86] Sall. — Cat. XX e XXXIII.

[87] Cfr. Cap. II, § 1, del pres. lav.

[88] Sall. Cat. XXXIII.

[89] Ibid. — LVIII.

[90] Ibid. Sallustio non solo tace sulle relazioni di Catilina col
partito democratico, capitanato da Cesare, ma vuole additarci la
congiura come un monumento d’infamia per l’aristocrazia. Se fosse
stato meno retore ed ipocrita, dall’orazione, che mette in bocca a
Catilina in quella prima riunione elettorale, da lui scambiata per un
conciliabolo sedizioso, avremmo potuto conoscere il programma politico,
con cui il suo protagonista si presentava.

Tuttavia le relazioni del medesimo coi democratici debbono ritenersi
come un fatto storicamente provato. Cfr. Mommsen — St. R. III, p. 158
e segg.; Wirz — Catilinas und Ciceros Bewerbung um dem Consulat für
das Iahr 63, p. 21, n. 4, 1884. Tarantino — la Congiura Catilinaria p.
34-8, 44-5. È noto altresì come, pei moderni, Catilina non soggiaccia
alla fama esecranda che presso gli antichi. Cfr. oltre ai citati:
Hagen — Untersuchungen üb. röm. Geschichte. Par. Iª «Catilina» 1854:
e Backmund — Catilina und Parteikämpfe d. Iahres 63. Progr. von
Munnerstad. 1869-70. Würburg, 1870.

[91] Cic. — Pro Murena, 51.

[92] Non segno la data del giorno della votazione perchè nulla ce ne
garentisce la sicurezza. Per fissarla definitivamente occorrerebbe
stabilire la cronologia della prima catilinaria e l’intervallo decorso
dal _s. c. u._ alla medesima, di _venti_ giorni, secondo Cicerone
[Cat. I, 84] e di _diciotto_, secondo Asconio, [In Pisonianam p. 6 (in
Cic. Op. V, p. 2ª, ed. Orelli e Banter)], rettifica, non superiore ad
ogni sospetto, dovendosi dubitarla creata allo scopo di far coincidere
la data della votazione del _s. c. u._ col 21 ottobre, giorno in cui
Cicerone ricorda di aver svelate le trame di Catilina (Cat. I, 7-8).
Cfr. sulla questione: Hachtmann. Programma del ginnasio di Seehausen,
Stendal 1877. Ogóreck. Programma del ginnasio di Rudolfswerth. 1877-8.
Hermes, I, fasc. III, 1866 — Madvig. Opuscula Academica, p. 194 e segg.
Hauniae 1834. Halm. Introd. alle Oraz. scelte di Cic., ed XI, collez.
Weidmann, n. 51. Drumann — Geschichte Roms. V, 456. Iahrbüsher für
class. Phil. 1876. Lilie. — De coniuratione catilinaria, p. 8-9. Peter
— St. rom. II, 198 — Halle 1891. Pasdera — Introd. alle Catilinarie §
14, Appendice I, p. 119 e segg. — 1885 e «Sull’attentato alla vita del
console Cicerone» [in «Riviste di filologia classica» 1884, ann. XIII
— 1]. Hageh. Untersuchungen üb. r. Ges. Par. 1, p. 219 e segg. 1854.
Ihne — R. G. VI, 256-7. Dione — ed Gros. III. Eclaircissements p. 486.
Tarantino, La congiura catilinaria. App. I e II. 1898. Se ricorriamo
alle altre fonti, le incertezze si moltiplicano. Sallustio, [Cat.
XXIX], pone il _s. c. u._ come posteriore a un’adunanza in casa di M.
Leca, che tutt’al più precede di 24 ore la prima Catilinaria (Cic. Cat.
I, 8); Plutarco [Cicerone, § XV], come anteriore.

[93] Cic. — Cat. I, 3.

[94] Sall. Cat. XXX; App. B. C. II, 3; Cic. — Cat. I, § 1, Cat. II, §
26. Dione [XXXVII, 31] lo fa precedere al _s. c. u._

[95] Cic. — Cat. II, 1 e Dio XXXVII, 33.

[96] Sall. — Cat. XXXVI.

[97] Sall.-Cat. XXXVI.

[98] Cic. — Cat. III, 14-15.

[99] Plut. Cic. XXII.

[100] Sall. Cat. LIX-LX.

[101] Dio — XXXVII, 36. Mommsen — St. rom. III, 182-4.

[102] Dio — XXXVII. 41-2.

[103] Dio — XXXVII, 42.

[104] Dio — XL. 49-50. App. B. C. II, XX-XXI, Liv. Epit. Dec. XI,
L. VII. Asconio. «Argumentum» dell’orazione «pro Milone» di Cic., p.
37-42. Meneghini — Introd. alla Miloniana di Cic. XVIII-XXIII. Löscher
1889. Mommsen — St. rom. III, 308-10. Ihne. R. G. VI, 452-5.

[105] Dio — XL, 49. Asconio l. c. p. 35. Cic., Pro Mil. § 70. Il
Gros, editore di Dione Cassio, interpreta il passo in discorso come
se i pieni poteri fossero stati conferiti a Milone, e ciò, sia per
una poco precisa designazione pronominale dello scrittore (ἔχεννον
per un τὸνδε o τοῦτον), come per non aver notato che tutto il passo è
chiuso fra parentesi, nè può quindi connettersi con la proposizione,
che lo precede. Se poi queste ragioni linguistiche non bastassero, si
potrebbero osservare: 1) come codesto sia l’unico caso di affidamento
di pieni poteri ad un privato; 2) come l’essere stato Milone, in
forza della sua nomina, creato collega di Pompeo per poi terminare
coll’esserne processato, è un caso tanto strano da recar meraviglia
come nessuna fonte l’abbia fatto risaltare; 3) come infine il confronto
della testimonianza di Dione con l’elenco dei plenipotenziari, datoci
da Asconio, non dà certo ragione all’interpretazione del traduttore.

[106] Clodio fu ucciso il 20 gennaio (Asc. Op. cit., p. 32). La dimane
il suo cadavere fu portato nel foro, e di là nella curia del senato.
Nove giorni dopo era decretato il _s. c. u._ (Dio XL, 49). Calcolando,
se ne ricava la data del 30 gennaio.

[107] Dio l. c. e Cic. Pro Mil. § 61 e 70.

[108] C. Giulio Ces. I Comentari _de bello civili_. I, 1-6. Plut.
Pomp. LVIII-LXI; C. Giulio Ces. XXX-XXXII. Antonio, V. Dio — XLI, 1-3.
Liv. Epit. XI, IX. App. B. C. II, 30-4. Svetonio — Op. V. I. C. Giulio
Cesare 29-31. 1823 ed. Baumgarten. Mommsen. St. rom. III, 335-613.
Ihne. R. G. VI, 530-561.

[109] Mommsen. Rechtsfrage zwischen Caesar und dem Senat — 1857.
Hoffmann. De origine belli civilis Caesariani — Berlin. 1857. Drumann.
Geschichte Roms in seinem Ubergange von der rep. zur. Monarch.
Verfassung — III, pp. 240, 283, 374, 390. Könisberg 1837. P. Guirand.
Le différend entre César et le Sénat — Paris 1878, Iournal des Savants
a. 1879, p. 438-9 [Fustel de Coulanges. La question de droit entre
César et le Sénat]. Séances de l’Académie de sciences mor. et pol.
Nouv. Série. Febbraio-marzo 1880. [Duruy — Le différend entre César et
le Sénat — p. 185-216 e 457-98] Rivista storica it. Fasc. III, 1885.
[Gentile «Il conflitto fra Cesare e il Senato»].

[110] Plut. — Ces. § 31.

[111] III, 164.

[112] De Ruggiero — Op. cit. § 56.

[113] Caes. B. C. I, 2.

[114] Dio — XLI, 3. Plut. Caes. XXX, Pomp. LIX.

[115] Caes. B. C. I, 5. Cic., Ad fam. XVI, 11; Pro rege Deiotaro, § 11.
Liv. Epit. l. c. e Dio, XLI, 3.

[116] Dio — XLI, 3 — Plut. Caes. XXX; Pomp. LXI.

[117] Caes. l. c.

[118] R. G. VII, 27 e segg.

[119] Dio — XLII, 22-5. Vell. Pat. II, 68. Caes. B. C. III, 20-1. Liv.
Dec. XII, L. 1. Mommsen. St. Rom. III, 439-40. Ihne. R. G. l. c.

[120] Dio — XLII, 25.

[121] Dio — XLII, 29-33. Liv. Epit. Dec. XII, L. III. Plut. Ant. IX.
Mommsen. St. rom. III, 440. Ihne, R. G. VII, 119-21.

[122] Dio — XLII, 29 cfr. XLVI, 16.

[123] App. B. C. III, 1-63. Dio — XLIV-23. XLVI-31. Liv. Ep., Dec. XII,
L. VII-IX. Plut. Ant. XVI-XVII. Ihne. R. G. VII, Kap. I-IV. Schiller —
Geschichte der römischen Kaiserzeit — I, 1, p. 7-37. [in Handbuch der
alten Geschichte III, 1883].

[124] Sui centurioni cfr. Marquardt. L’organisation militaire des
Romains, (in Mommsen. D. p. r. XI, p. 36).

[125] Cic. Phil. 1, VIII-IX.

[126] Cic. Phil. VI, III.

[127] App. B. C. III, 61 e Dio — XLVI, 29.

[128] Erano i membri della commissione già incaricata per l’esenzione
della succitata legge agraria.

[129] Monumentum Ancyrarum — I. 1 § 5-6 (in Mommsen — Res gestae Divi
Augusti — p. LXXX. 1883). Cic. Phil. XI, § 20 — Svet. Aug. 10. Vell.
Pat. II, 61.

[130] Certo dopo il 7 gennaio perchè Ottaviano compare già rivestito
dell’_imperium_, (Mon. Anc. l. c.), che solo in tal giorno gli era
stato concesso. (Orelli — Inscriptionum Latinarum collectio — III, 5359
ed. Henzen 1861).

[131] Cic. Phil. VIII, § 2. Dione, (XLVI, 29), pone erroneamente il
_tumultus_ come anteriore alla risposta di Antonio, il che è negato
dalla testimonianza di Cic. (l. c.). Codesto passo di Dione è altresì
inesatto, quando fa menzione di un ordine del senato ingiungente a
Lepido e Munazio Planco di aiutare i consoli contro Antonio, che è
invece posteriore alla prima battaglia. (App. B. C. III, 74).

[132] App. B. C. III, 50-1.

[133] Dio — XLVI, 41. Liv. Epit. Dec. XII, L. IX.

[134] Dio — XLVI, 39. Liv. l. c.

[135] App. B. C. III, 74; 80-91. Dio — XLI, 39-44. Svet. Aug. 26. Ihne
— R. G. VII, Kap. V. Schiller — Op. cit. I, 1 p. 48-57.

[136] Cic. Ad fam. X, 23.

[137] Dio — XLVI, 44 e App. B. C. III, 91.

[138] Dio — l. c.

[139] Siccome, quando Ottaviano entrerà in Roma, il suo arrivo
coinciderà con le elezioni consolari (App. B. C. III, 94), che ebbero
luogo il 19 agosto (Dio — LVI, 30), così il _s. c. u._ in discorso
deve allogarsi tra il 29 maggio, data del raccozzamento di Antonio con
Lepido e il 19 agosto 43. Se, come opinano l’Ihne (R. G. VIII, 453)
e lo Schiller (Op. cit. I, 1, p. 56), l’epistola X del L. 24 delle
«_Ad Familiares_» di Cicerone, in data del 25 luglio, nella quale si
accenna alle pretese di Augusto al consolato, potesse segnare la data
dell’ambasceria militare al senato, il nostro _s. c. u._ potrebbe
fissarsi fra la seconda metà del luglio e la prima dell’agosto
susseguente.

Il Willems ravvisa entro lo stesso anno un nuovo _s. c. u._ nel «_farsi
affidare la custodia della città_» di cui ci parla Dione (XLVI, 47). Ma
ciò è sicuramente escluso dal contesto del racconto, dove non esiste
che un’enumerazione degli onori, di cui fu insignito Ottaviano dopo
l’elezione al consolato, tra cui si nota l’affidamento della custodia
della città ὥστε πὰνθ’δσα βούλοιτο χαὶ ἐχ τῶν νόμων ποιεἶν ἔχειν,
una frase generica, con cui si indica uno dei tanti affidamenti di
poteri, che in realtà corrispondevano ad una vera e propria _dictatura
reipublicae costituendae_.

[140] Dio — XLVIII, 33. Liv. Epit. Dec. XIII, VII. Vell. Pat. II, 76.

[141] Dio — l. c.

[142] Dio — l. c. e Liv. l. c.

[143] D. p. r. II, 374, n. 2.

[144] Dio — LIV, 10. Un semplice φρούραν bisognerebbe mutarlo in un
[τὴν] φ [τῆς πόλεως] (Cfr. ed. Gros e Boissée. l. c., n. 8).

[145] Il pres. capitolo presuppone in ogni suo punto i due precedenti
dei cui passi — in generale — ci risparmieremo la citazione.

[146] Caes. — B. C. I, 5. Cic. Cat. I, 4.

[147] Willems — Le sénat etc. II, 204-23.

[148] Id. — Op. cit. II, 204.

[149] Willems — Op. cit. II, 204.

[150] Quali P. Scipione Nasica (Plut. T. G. 13), Cornelio Lentulo
(Val. Max. III, 2 e Cic. Phil. VIII, 14) e M. Emilio Scauro. (De viris
illustribus — 72. Cic. pro Rab. perd. VII, 21).

[151] Willems — Op. cit. II, 147-8.

[152] Dio — XLII, 23.

[153] Così avvenne al 52 [Dio — XL, 49], così dovette avvenire pel
_s. c. u._ contro Catilina (Cfr. Madvig — Opuscula accademica. I, 195.
1834), e, secondo Dionigi (IX, 63), per quello del 464.

[154] Tralascio le formule meno fedeli, che gli storici greci ci dànno,
rifacendo o traducendo le latine.

[155] XXXVII, 31; XLVI, 31.

[156] Poichè siamo negli ultimi secoli della repubblica, è agevole
capire come non si tratti più di un _magister_ equitum aggregato
all’antico dittatore rei _gerundae_ o _seditionis sedandae causa_,
sibbene ai più tardi dittatori _imminuto iure_, tra i quali rientra G.
Cesare, investito di tale carica dal 48 al 44.

[157] Dio — XL, 49.

[158] Il conferimento dei pieni poteri era egualmente valido nel caso
di assenza o di morte di uno dei consoli. Queste anzi sono le costanti
ragioni, per cui spesso il _s. c. u._ ci apparisce intestato solo ad
uno dei medesimi. [Zumpt — Das Criminalrecht der röm. Rep. I, 2, 402].

[159] Cic. — p. Rab. perd. § 20.

[160] Dio — XL, 51.

[161] Willems — Le sénat etc. II, 223 e segg.

[162] V.i Cap. II, § II, del pres. lav.

[163] V.i Cap. II, § VI. del pres. lavoro.

[164] Cic. ad Fam. XII, 10.

[165] App. B. C. III, 61. Dio — XLI, 3; XLI, 29.

[166] Cic. Phil. XI, 29.

[167] Le Sénat etc. II, p. 250, n. 5 e p. 753. Noterò _en passant_, che
il W. cade in una lieve contraddizione, quando, a p. 253, n. 1, ammette
che il senato procede alla dichiarazione di _h. p. solo_ nel caso che
il cittadino ribelle, si trovi alla testa di un esercito.

[168] Dio — XLVI, 51. Cic. Ad fam. XII, X, 1.

[169] App. B. C. III, 61; IV, 58; Cic. Phil. XI, 29.

[170] Come accadde per Cesare al 49 e per gli eserciti di Lepido e di
Ottaviano al 43.

[171] App. B. C. III, 95, 96. Dio — XLVI, 52.

[172] Willems — Op. cit. II, 246, n. 1.

[173] Ibid. p. 249 e 250, n. 5.

[174] Vell. Pat. II, 16, § 4. Orosio. Op. cit. V, 18.

[175] Dio — XLVI, 29.

[176] Dio — XXXVII, 31.

[177] Plut. C. Mario. XXX.

[178] Bouché-Leclerq. Manuél des institutions romaines p. 272. Paris
1886.

[179] Bouché-Leclerq — l. c.

[180] Mommsen — D. p. r. II, 379-80, 379, n. 2 e 380, n. 1.

[181] È questa la definizione, che ne dà il Willems (Op. cit. II, 244),
ma è ben difficile enunciarne alcuna sicura. Il Nissen, [Das Iustitium,
p. 98 e segg. Leipzig. 1877], lo interpetra come una sospensione del
_ius_ e la proclamazione del potere assoluto dei magistrati; il Mommsen
[D. p. r. I, 296-9] crede che esso possa mirare ad altri scopi estranei
alla facilitazione dell’arrolamento; che siano _iustitia_ anche i
divieti tribunizi, per cui si sospende ogni affare fino al giorno
della votazione di una data legge, o le indizioni di feste mobili
(_conceptivae_) o straordinarie (_imperativae_), per cui i magistrati,
insieme con i pontefici, potevano rendere _nefasti_ i giorni feriali
(Cfr. Willems — Droit public romain. 304-5. Louvain. 1872), e che,
fin’anco ai tempi dell’impero, se ne siano decretati per imporre il
lutto alla cittadinanza.

[182] Dionigi — IX, 63. Cic. (Phil. VIII, 2-6) esclude che per il
decreto di bellum occorra la dichiarazione _hostis publicus_, ritenuta
necessaria dal Willems (Le sénat etc. II, 253).

[183] Dio — XLI, 3.

[184] Tali sono le note caratteristiche, che nei loro effetti possono
presentare codesti provvedimenti particolari. Trattandosi però di
misure eccezionali, è bene confessare come non si possa stabilirle con
precisione, e che talvolta agli effetti del _s. c. u._ si è pervenuto
con il decreto di _tumultus_, di _iustitium_, la _declaratio_ d’_hostis
publicus_, e così reciprocamente.

[185] Dio — XXXVII, 43. XLI, 3. Plut. Pomp. LIX. Caes. XXX.

[186] Dionigi — IX, 63.

[187] Willems — Le Sénat. etc. II, 585 e n.e 3, 4.

[188] Sall. Cat. 30. App. B. C. III, 74, 76, 80. Dio — XLVI, 40.

[189] Cic. Phil. X, 25-6; XI, 30. App. B. C. III, 63, IV, 58.

[190] Caes. B. C. I, 6.

[191] Dio — XLVI, 44.

[192] Cic. Phil. X, § 25-6; XI, 30. App. — B. C. III, 63.

[193] Vell. Pat. II, 63. Plut. Mario — XXX.

[194] Era codesta la formula tanto del _tumultus_ come dell’_evocatio_
(Mommsen — D. p. r. II, 380, n. 1).

[195] Dio — XL, 40.

[196] Plut. C. G. XVII.

[197] App. B. C. I, 32.

[198] Val. Max. VI, 3, 1.

[199] Cic. p. Rab. perd. XI.

[200] Liv. VI, 19-20.

[201] _Prodicere diem_ equivaleva a dilazionare il processo.

[202] Cicerone — De domo sua, ed. Orelli, § 101-2.

[203] Tutto ciò, seguendo la narrazione di Livio, ricorretta in quei
punti in cui è possibile correggerla. Se poi Manlio fu giudicato dai
_duoviri_ con o senza _provocatio_, o se, come insinuano Dione (Fr.
LXIII) e Gellio (Noctes Atticae — XVII, 21, 24 ed. Hertz. Lipsia 1886),
gli fu anche negata quest’ultima via di salvezza, la procedura dovette
senza dubbio riescire ben differente.

[204] Ascon. — In Milon. Argum. 37-42. Zumpt. Das römische
Criminalrecht. II, 2, cap. 13, 14, 15, 16. Menghini — Introduz.
all’Oraz. «Pro Milone» di Cic., p. 21 e segg. Gentile — Clodio e
Cicerone. Cap. XII e XIII. 1876.

[205] Cic. Pro Mil. § 14.

[206] Laboulaye — Essais sur les lois criminelles des Romains — L. II,
Sect. II, Cap. XX. 1845.

[207] Padelletti — Manuale di storia del diritto romano, p. 295, n. 3.

[208] Laboulaye — Op. cit. L. II, Sect. IIª, Cap. XIX.

[209] Plut. Cic. XIX e Dio XXXVII, 34.

[210] Rivestendo questo, anzi tutto e sovra tutto, un carattere
politico, è naturale come la sua serie di atti d’ordine giudiziario
non possa perciò rimanere vergine di altri, che più strettamente
si connettono allo spirito del consesso. Così avviene, per esempio
nella dispensa dei premi agli schiavi delatori, pei quali era ammessa
l’emancipazione, e nella destituzione dei magistrati sotto giudizio.

[211] Sall. Cat. XXIII, XLI, XLVIII. Plut. Cic. XV.

[212] Cic. Cat. III, § 8.

[213] Cic. Cat. III, § 5 e Sall. Cat. XLV.

[214] Sall. Cat. XLVI, XLVII, XLVIII.

[215] Sall. Cat. XLVIII. L’unica infirmata di falso, durante il
processo di Catilina, comprometteva M. Crasso.

[216] Cic. Cat. IV, 5 e Sall. Cat. XLVII.

[217] Cic. Cat. III, 14-15. Dio — XXXVII, 36.

[218] Plut. Cat. min. XXIII. Cic. Pro Sulla — XLI.

[219] Plut. Cic. XX e Willems — Op. cit. II, p. 180-1.

[220] Sall. Cat. LI e LII.

[221] Cesare stesso, proponendo la reclusione a vita dei Catilinari,
presupponeva codesto diritto interdetto anche per l’avvenire.

[222] Sall. Cat. XXXI e Scol. Bobb. in Vatinium p. 320 (ed. Orelli).

[223] La procedura del giudizio senatorio, seguita contro Salvidieno
Rufo, accusato, a quanto pare, di congiura, è da Dione, (XLVIII,
33) riferita così sommariamente da non potersene cavare alcuna norma
attendibile.

[224] Cic. Pro Mil. § 14. Asconio — p. 29. Menghini — Op. cit. p.
XXXVI-XXXVII e p. XXXVII, n. 1. Il senato era propenso a decidere:
1. Che i fatti in questione fossero dichiarati _contra rempublicam_;
2. Che fossero giudicati con le leggi esistenti, salvo a concedervi
la precedenza sui giudizi pendenti. Ma Q. Fufio Caleno, indetto dal
tribuno Munazio Planco, chiese ed ottenne una votazione distinta per
ciascuna delle due parti della proposta; i tribuni Planco e Sallustio
posero il veto alla seconda, e la procedura del giudizio restò così in
facoltà del console, che la sottrasse alle norme ordinarie.

[225] Caes. B. C. I, 2.

[226] App. B. C. III, 50-1.

[227] Plut. Cic. XXI.

[228] Lo Zumpt [Op. cit. I, 2, 404] ritiene che i tribuni del popolo
non vengano dal _s. c. u._ minimamente lesi nei loro diritti; e ciò,
fondandosi sul precedente del 381, come su quegli altri, in cui la
difesa della republica fu affidata anche ai tribuni. Ma tali esempi,
oltre a costituire una stonatura così grave alla pratica ordinaria da
indurre per ciò stesso il Mommsen a negare, come vedemmo, ogni fede al
_s. c. u._ del 381, ci mostrano d’altro canto i tribuni del popolo in
una costante e umiliante dipendenza rispetto al senato.

[229] Non ostante Dione (XXXVII, 29), che pone i comizi prima del _s.
c. u._, e l’Iohn, [Annali di filologia classica — Suppl. VIII. 1886,
p. 777], il quale ne condivide l’opinione, essi dovettero tenersi
dopo il 21 ottobre, e probabilmente anche dopo il 28 dello stesso
mese, [Mommsen, in Hermes I, 434], mentre il _s. c. u._ può, benchè
difficilmente, essere solo di un giorno posteriore alla prima di
codeste date.

[230] Così al 52, Q. Scipione, che Pompeo si era scelto a collega nel
consolato, avea abrogato la legge di Clodio sui censori, a cui questi
avea restituito l’antico diritto di espellere dall’ordine equestre e
senatorio i membri che se ne fossero resi indegni, senza la garenzia di
un pubblico giudizio.

[231] Dio — XXXVII, 41.

[232] Dio — XXXVII, 41.

[233] Dio — XXXVII, 42.

[234] In data di codesto mese, Catilina fu sbaragliato presso Pistoia
(Dio — XXXVII, 39. Pasdera — Introd. alle Catil. p. XLI, 1885). Alla
ricezione della notizia, il senato decretò la cessazione dello stato di
guerra, deponendo il _sagum_ (Dio — XXXVII, 40).

[235] Il 31 marzo Cesare arrivava in Roma [Ramorino — Introd. al
«_De bello civili_», p. XVI, ed. cit.], ove, dalle casse dello stato,
spillava i fondi per proseguire la guerra contro Pompeo (Mommsen — St.
rom. III, 359-60).

[236] Appena appresa la notizia della sconfitta di Antonio [27 aprile
(Bonino — Introd. alla IIª Filippica di Cic. p. XXXVII)], il senato
avea ripreso le vesti dei tempi normali (Dio — XLVI, 39).

[237] Plut. C. G. XVII.

[238] Menn — De accusatione magistratuum romanorum — p. 2 1795.

[239] V.i Cap. seg., § III.

[240] Cfr. Cap. II, § IX del pres. lav.

[241] V.i ultimo Cap., § IV, del pres. lav.

[242] Plut. T. G. XIX.

[243] Plut. C. G. IV.

[244] Liv. Epit. Dec. VII, lib. 1. Cic. Pro Sest. 140. Brutus §, 128 e
p. 296 e 351, Löscher. 1891.

[245] Dio — XXXVII, 26-8. Cic. p. Rab. perd. Svet. Caes. 12. Drumann —
Op. cit. III, 159-64.

[246] Plut. Cic. XXIII-IV.

[247] Dio — XXXVIII, 14. Vell. Pat. II, 41. Gentile — Clodio e
Cicerone. Cap. VI, 140 e segg.

[248] Cic. De dom. XVIII, 47 e Scol. bobb. p. 309 (ed. Orelli). Plut.
Cic. XXXII. Cfr. Zumpt. Das Criminalrecht d. r. R. I, 2, p. 427 e segg.

[249] Cic. Pro Mil. § 14.

[250] Ascon. p. 37.

[251] I, 5-7.

[252] Cic. p. Rab. perd. § 12. Scol. Gronov. (in Cic. Op. ed. Orelli,
p. 412-3). Dio — XXXVII, 42. Sall. Cat. LI.

[253] Pseud. Sallustii. In M. Tullium Ciceronem declamatio, § 5. Sulle
medesime Cfr. Zumpt. Das Criminalrecht etc. I, 2, 48-69 e Lange — De
legibus Porciis libertatis civium vindicibus. 1862-3.

[254] Willems — D. p. r. 171-2.

[255] Liv. Epit. VII, lib. I. Plut. — C. G. IV.

[256] B. C. I, 5.

[257] Willems — D. p. r. II, lib. II, Cap. I, § 1 e lib. III, Cap. V, §
5.

[258] Cfr. Cap. III, § 1, del pres. lavoro.

[259] Willems — Le sénat etc. II, p. 199 e segg.

[260] Dio — XL, 49. Ascon. p. 35.

[261] Mommsen — D. p. r. III, 313-82.

[262] Willems — Op. cit. II, 30-31.

[263] Willems — D. p. r. p. 166.

[264] Mommsen — D. p. r. I, 71-75.

[265] Come avvenne al 49, ledendo la _lex pompeia de provinciis
ordinandis_, che prescriveva pel governo delle province i consoli e i
pretori di cinque anni prima coll’obbligo che i comizi riconfermassero
loro l’_imperium_ (Willems — Le sénat etc. II, 589-90).

[266] Dio — XL, 55.

[267] Dio — XL, 56.

[268] Cic. Phil. VIII, § 2-6.

[269] Mommsen — D. p. r. VI, 156 e 374, n. 1, 2, 3. Willems — Le sénat
etc. II, 366-7.

[270] Willems — D. p. r. p. 170 e segg.

[271] Liv. VI, 20.

[272] Willems — Le sénat etc. II, 116 e 119. D. p. r. p. 306 e segg. e
p. 170 e segg.

[273] Willems — Le sénat II, Cap. VI, § 1, art. 6 e Caes. B. C. I, 5-7.

[274] Mommsen — D. p. r. I, 294.

[275] Così avevano implicitamente riconosciuto la legge Sempronia del
124 (V. p. 19 del pres. lav.) e la legge Cassia del 104. («quem populo
damnasset, _cuive imperium abrogasset_, in senatu non esset» Asc. p.
78).

[276] Willems — D. p. r. p. 209.

[277] Cfr. Bouché Leclerq — Op. cit. 68, n. 1 e Mommsen — D. p. r. III,
347-352.

[278] «Credo di poter concludere», scrive un critico recente, «che le
_leges sacratae_ fossero plebisciti riconosciuti dallo stato patrizio
e dal senato, probabilmente, o forse anche per mezzo di un’apposita
legge centuriata, _sacrata_, ma, tranne della parte riguardante
l’inviolabilità, che _certo_ ebbe riconoscimento e conferma piena ed
intera... nel 305» (449 a. C.). [Garofalo — Le _leges sacratae_ dal 260
U. C. p. 37-1891].

[279] Willems — Le Sénat etc., II, p. 217.

[280] Plut. Cic. XX-XXI e Willems, Op. cit. II, p. 180.

[281] L’_ius sententiae dicendae_ era tassativamente vietato ai
magistrati in funzione (Mommsen, O. p. r. II, 239).

[282] Bouché Leclerq — Manuél des institutions rom., p. 271-2.

[283] Il Nissen, nel suo «Das Iustitium», fa precedere alla trattazione
speciale dell’argomento alcune sue teorie sulle competenze del Senato.
Crede, per esempio, che, oltre al _consultum_, esso abbia diritto
al _decretum_, il quale, rispetto ai magistrati, doveva possedere un
valore coercitivo (§. 2); che possa dichiarare _hostis p._ qualsiasi
cittadino romano ne creda degno (§. 3); che, nei momenti difficili,
in grazia dell’alta sorveglianza, che il Senato esercita sullo stato,
possa concedere ai magistrati poteri illimitati (§. 3), e via di
seguito, sino a sospendere l’_ius_ per mezzo del _iustitium_ (§.
7). Tali conclusioni presupporrebbero uno studio coscienzioso sulle
competenze del Senato, che il Nissen non può vantare. Ma poichè il
Willems, il quale si trova per l’appunto in tali fortunate condizioni,
ne à fatto il giudizio, che meritavano, (Cfr. Le Sénat etc., II, 244,
n. 4; 257, n. 4; 216, n. 2) il lettore non si aspetti da me una seconda
confutazione.

[284] Vell. Pat. — Op. cit., II, 4.

[285] Cat. IV, 24. Di uguale tenore è la requisitoria Catoniana contro
i Catilinari, riferitaci da Sallustio (Cat. LII).

[286] Cic. Pro Mil., § 8.

[287] Cat. IV, § 10.

[288] § 73.

[289] De oratore II, 106, 130, 165. In Pison. 14. De Partitione
oratoria, 106.

[290] De or. § 165.

[291] III, 38.

[292] § 33.

[293] § 73.

[294] Cic. Cat. I, § 3-4. Pro Rab. perd. § 20-1. Pro Mil. § 83.

[295] Karlowa — Römische Rechtsgeschichte, p. 448 5.

[296] Cfr. Arch. giuridico XXIV, p. 420 e segg. 1880 e citazioni ibid.

[297] De legibus, § 8. De oratore II, 106, curato dal Cima. Löscher,
1886.

[298] Le Sénat etc., II, 256.

[299] Cic. — In Pis. 14; Phil. II, § 18; p. Rab. r. perd., VII e segg.,
etc.

[300] Willems — Le sénat etc. II, p. 225.

[301] Op. cit. II, 69.

[302] Op. cit. II, 74-5.

[303] Ascon. p. 58 — «_Neve quis, cum solutus esset_ (ex s. c.),
_intercederet, quum de ea re ad populum ferretur_».

[304] Mommsen — D. p. r. II, 313 e n. 1; I, 28 e n. 3.

[305] E ciò in grazia della _coercitio_ (Mommsen — D. p. r, I, 161-2).

[306] Willems — Le sénat etc. II, L. III, Cap. VI.

[307] Op. cit. II, L. III, Cap. 1, § 5.

[308] Op. cit. II, L. II, Cap. 2.

[309] App. B. C. I, 65. Vell. Pat. II, 20 § 3.

[310] Svet. Caes. 16.

[311] Willems — Le sénat, L. III, Cap. VI, § 4.

[312] Id. II, 229.

[313] Willems — Op. cit. II, 258-9.

[314] Id. II, 230, 202, e n. 2. App. B. C. II, 35. Caes. B. C. I, 5.

[315] Dio — XL, 45.

[316] Svet. Caes. 16.

[317] Mommsen — D. p. r. III, 161 e segg. Willems — Op. cit. II, 240 e
segg.

[318] III, 3, § 9 — «_si senatus creverit_».

[319] Liv. IV, 26.

[320] Caes. B. C. I, 6.

[321] Liv. — XXVI, 10; XLII, 10. Cfr. Willems — Op. cit. II, 557-9.

[322] Liv. Epit. Dec. IX, L. IX. Plut. — Pomp. XI. Zonara — X, 1-2.

[323] Liv. Epit. Dec. X, L. I. App. B. C. I, 105. Cic. Phil. XI, 18.
Cfr. Willems — II, 584.

[324] Cfr. p. 28-29 del pres. lav.

[325] App. B. C. II, 23.

[326] Mommsen — D. p. r. IV, 381-2. Ascon. p. 46 e Sall. Iug. XL.

[327] Liv. — XLII, 21-2. Cic. de fin. II, § 54. Ascon. p. 24. Cfr.
Mommsen — D. p. r. III, 126.

[328] Due notevoli delegazioni dei propri poteri giudiziari da parte
dei comizi centuriati erano state quella del 317 nel processo contro
i Satricani (Liv. XXVI, 33. Cfr. Liv. IX, 12, 16) e l’altra del 210
contro i Campani, al pari dei primi in istato di ribellione, (Liv.
XXVI, 33), per le quali due _rogationes_ tribunicie fecero i senatori
giudici dei reati di quei due popoli, già partecipi della cittadinanza
romana. Se non che, trattandosi di genti, rese tali solo in età tarda,
i comizi sentivano punto o poco l’enormità dell’atto che compievano,
strappandole ai loro giudici naturali.

[329] Willems — D. p. r. 175.

[330] Polibio — Historia, I, 7. Lipsiae. 1866. Dionigi. XX, 4-5 Val.
Max. II, 7, § 15.

[331] Il Willems [Le sénat etc. II, 286, n. 2] giustifica il fatto
col ritenere i ribelli già _capites deminuti_, il che è arbitrario,
perchè estraneo al dritto pubblico romano, che fornì allora stesso a un
tribuno del popolo gli elementi per una protesta.

[332] Willems — Le sénat etc. II, 296-7.

[333] Queste non erano salvoguardate dall’_ius provocationis_. [Willems
— Op. cit. II, 287].

[334] Willems — Op. cit. II, 283-5 e segg.

[335] Mommsen — III, 263.

[336] Willems — D. p. r. p. 308-9.

[337] Willems Le sénat. II, 286-7, n. 2.

[338] Ibid. II, p. 731.

[339] Val. Max. IV, 7. 1, Cic. De amicitia, § 36.

[340] Plut. T. G. XX.

[341] Willems — Le sénat etc. II, p. 74 e segg.

[342] Cic. De leg. II, 14.

[343] Ibid. — 14, 31.

[344] Ibid. — 14.

[345] Dio — XXXVI, 42.

[346] Willems — Le sénat etc. II, 117-8.

[347] Cic. ad Att. V, 21, § 12; VI, 2, § 7. Circa la concessione di
deroghe da leggi cfr. Willems — Op. cit. II, 19-20.

[348] Oltre alle opere che via via citeremo, ci sono state necessarie
per lo svolgimento del presente capitolo: Naudet — De la noblesse et
des récompenses d’honneur chez les Romains. 1863. Marquardt — Historiae
equitum romanorum. 1840. Schvarcz. Die Demokratie, II, 1, 2. 1891.
Dureau de la Malle. Économie politique des Romains. V.i 2. 1840. Mayr —
Lehrbuch der Handelsgeschichte. Kap. III, § 14-15. Wien. 1894.

[349] Cap. I, § 1, del pres. lav.

[350] Cap. I, § 4, del pres. lav.

[351] Willems — D. p. r. L. II. sect. III, Cap. II.

[352] Mommsen — D. p. r. VI, 1, 101 e segg. Herzog [in Philologus —
XXIV, 306-10].

[353] Mommsen — D. p. r. VI, P. Iª, p. 305.

[354] Willems — Le sénat etc. I. p. 49 e segg.

[355] Willems — D. p. r., p. 267.

[356] Willems — D. p. r. 306-8.

[357] Id. 819-20.

[358] De Ruggiero. «Agrariae leges» [in Op. cit.] Cap. Iº e IIº.

[359] Ciccotti — Il processo di Verre, p. 33-7. Milano. 1895.

[360] Ai tempi di Cicerone, le grandi operazioni commerciali, non
ostante il divieto della legge Claudia del 219 o 220, erano, in realtà,
divenute tutt’altro che incompatibili con la dignità senatoria dei
grandi latifondisti. (Willems — Le sénat etc. I, 200-2).

[361] F. Mengotti — Del Commercio de’ Romani dalla prima guerra punica
a Costantino, (in Economisti classici italiani. V.e 36 — 1804), p.
12-3.

[362] Cic. Pro Sestio, § 96 e segg.

[363] Willems — Le sénat etc. I, p. 189 e segg.

[364] Willems — Le sénat etc. I, 182 e segg.

[365] Willems — Op. cit. I, 175 e segg.

[366] Willems — D. p. r. p. 184.

[367] Come l’_iniuria_, la _calumnia_ e la _praevaricatio_, o
quell’_infamia_, nella quale s’incorreva nei casi previsti dalla _lex
Cassia_ del 104, citata a p. 89, n. 1 del pres. lavoro.

[368] Willems — Le sénat etc. I, 201 e segg.

[369] Willems — D. p. r. 51-8. Seguo le indicazioni di Dionigi, in
questo luogo più attendibili di quelle di Livio.

[370] Willems — D. p. r. 159.

[371] Willems — D. p. r. 160-2.

[372] Willems — D. p. r., p. 154-6.

[373] Willems — D. p. r. p. 50 e 165.

[374] Willems — D. p. r. 87-96. Quest’ultima, motivata da ragioni
indiscutibili e inappellabili, implicava la rimozione da tutte le
tribù.

[375] Willems — D. p. r. 98-9; 109-10, 123.

[376] Bélot — Histoire des chevaliers. I, 88 e 91. 1866.

[377] Bélot — Op. cit. I, 89-93.

[378] Willems — II, 88-92, 93-6, 99.

[379] Willems — D. p. r. 268-9.

[380] Gentile — Le elezioni e il broglio nella republica romana, p. 67.
Milano, 1879.

[381] Willems — D. p. r. 319-20.

[382] De Ruggiero — Op. cit. Cap. III e segg. Non sappiamo nulla della
sorte della _Plotia_ del 70.

[383] V.i Cap. II, § 2-3 del pres. lav.

[384] Mommsen — St. romana II, 195-200. Ihne — R. G. V, 242-52. Bélot —
Histoire des chevaliers romains. II, 254 e segg.

[385] Mommsen — Op. cit. II, 230-37. Ihne. R. G. — V, 242-52.

[386] Mommsen — Op. cit. II, 237-40 e L. IV, Cap. X. Ihne — R. G. — V,
405-30.

[387] Willems — D. p. r. 253-4. Lo Zumpt ritiene altresì che, sotto
Silla, i _comitia tributa_ siano stati soppressi. [Das Criminalrecht —
II, 1, 433. n. 150].

[388] Déloume — Les manieurs d’argent à Rome — p. 328-9. Paris. 1890.

[389] Mommsen — Op. cit. III, p. 20 e segg. Ihne — R. G. VI, 48-55.

[390] V.i Cap. IIº, § VI del pres. lav.

[391] Mommsen — Op. cit. III, 93-7. Ihne — R. G. VI, Cap. 7.

[392] V.i Cap. II, § VII del pres. lav.

[393] Mommsen — Op. cit. III, L. V, Cap. X-XI.

[394] Zumpt — Das Criminalrecht etc. II, 1, 57-89. Laboulaye — Essais
sur les lois criminelles des Romains — p. 216-27. 1845. Bélot. Histoire
des chevaliers romains — II, 231-4. 1866.

[395] Willems — D. p. r. 309. Zumpt — Op. cit. II, 1, 188-96; 264 e
segg.; II, 2, 179 e segg. Laboulaye — Op. cit. p. 231 e segg. Bélot —
Op. cit. II, 267-72; 276-93.

[396] Gentile — Cicerone e Clodio, p. 126 e segg.

[397] Bouché-Leclerq — Les Pontifes de l’ancienne Rome, p. 327-8, 1871.

[398] Ibid. p. 329-30.

[399] Ibid. p. 331.

[400] Ibid. p. 334-5.

[401] Daremberg e Saglio — Dictionnaire des antiquités grecques et
romaines. Fasc. 16, p. 1296. Liebenam — Zur Geschichte und Organisation
des römischen Vereinswesens. p. 20-4, 1890.

[402] Liebenam — Op. cit. p. 24-5 e Gentile — Clodio e Cicerone, p.
118-9.

[403] Liebenam — Op. cit. 25-6.

[404] La legge _Licinia de sodaliciis_, presentata al 55 dal
console Crasso, un democratico, è legge de _ambitu_, e non _de vi_.
[Laboulaye — Op. cit. p. 293-4].

[405] Gentile — Le elezioni e il broglio etc. 221-304. Laboulaye — Op.
cit. lib. II, sect. IIª, cap. XIX. La legge Calpurnia, d’iniziativa del
senato, à la sua spiegazione in una nuova concorrenza demagogica, che
esso volle tentare contro la legge _de ambitu_ del tribuno Calpurnio
(Laboulaye — Op. cit. p. 287); il _s. c._, che precesse e preparò
l’analoga _lex Tullia_, fu votato sotto il terrore delle candidature
di Antonio e di Catilina, e, (vedi irrisione!), contemplava reati _de
vi_ (Laboulaye — Op. cit. p. 289); la legge Aufidia, infine, del 71,
caldeggiata dal senato, era diretta contro Pompeo, allora coalizzato
coi democratici. (Laboulaye — Op. cit. p. 290).

[406] Servais — La dictacture. Paris. Dupond — De dictatura et
magisteriis equitum — 1875. Mommsen — D. p. r. III, 161-97.

[407] Mommsen — D. p. r. III, 191 e Willems — Le sénat etc. II, 336-7.

[408] Mommsen — l. c.

[409] Liv. IV, 26.

[410] Liv. VIII, 22; XXIII, 12.

[411] Liv. VII, 17.

[412] Mommsen — D. p. r. III, 187-9. Servais — Op. cit. 21-32.

[413] Mommsen — D. p. r. III, 189.

[414] Servais — Op. cit. 18-21.

[415] Servais — Op. cit. 32-33.

[416] Mommsen — D. p. r. III, 169.

[417] Mommsen — D. p. r. III, 171.

[418] Willems — Le sénat etc. II, 79-86.

[419] Mommsen — D. p. r. III, 188-9.

[420] Id. — D. p. r. III, 189, n. 4.

[421] Id. — D. p. r. III, 169.

[422] Mommsen — D. p. r. III, 171.

[423] Willems — Le sénat etc. II, 242. Quanto alla dictatura _rei
gerundae causa_, di natura affatto diversa, le ragioni della sua fine
si debbono ricercare nelle necessità stesse della tattica militare,
richiesta dalle nuove grandiose guerre estere degli ultimi secoli della
republica. (Cfr. Mommsen — D. p. r. III, 193).

[424] Mommsen — St. rom. III, 188.

[425] Dureau de la Malle — Économie politique etc. II, 252-3.

[426] De Ruggiero — Op. cit. § 58-62.

[427] Ferrero — Il Militarismo, p. 174 e segg. Milano 1898. Bélot — Op.
cit. II, p. 419-25. Dureau de la Malle — Économie politique des Romains
— II, Cap. XXII, XXV, p. 495-6. — Montesquieu — Grandeur et décadence
des Romains, p. 62 e 65. Paris, 1842.

[428] Papencordt — Geschichte der Vandalischen Herrschaft in Afrika. L.
III. Berlino. 1837.

[429] Mommsen — St. rom. III, 430-532.

[430] Bouché-Leclerq — Manuél des instit. rom. 142-4.

[431] Ibid. 147-150. Mommsen — D. p. r. V.

[432] Mommsen — St. rom. III, 462-3.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UNA MISURA ECCEZIONALE DEI ROMANI - IL SENATUS-CONSULTUM ULTIMUM ***


    

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