La vita nell'esercito : Novelle militari

By Arturo Olivieri Sangiacomo

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Title: La vita nell'esercito
        Novelle militari

Author: Arturo Olivieri Sangiacomo

Release date: May 31, 2025 [eBook #76199]

Language: Italian

Original publication: Milano: Aliprandi, 1895

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VITA NELL'ESERCITO ***


                     Tenente A. OLIVIERI SANGIACOMO


                         LA VITA NELL’ESERCITO

                            Novelle Militari



                                 MILANO
                        CARLO ALIPRANDI, EDITORE
                        _Via Stella, Num. 9 10_.




          _Proprietà letteraria dell’Editore_ CARLO ALIPRANDI

   Milano — Stab. Tip. dell’Edit. CARLO ALIPRANDI, Via Stella, 9-10.




   [Illustrazione: Tenente A. OLIVIERI SANGIACOMO.]




STORIA DI UNA SCIABOLA


Nacqui a Toledo in una di quelle storiche fucine che hanno fornito di
solide lame tutto il mondo; un fabbro catalano mi martellò, un artefice
italiano rabescò la mia lama di fregi bizzarri; rammento ancora la
strana sensazione di freddo che mi corse tutta, quando mi gettarono
rovente ancora in una tinozza d’acqua gelata. Ho avuto due impugnature;
la prima assai semplice in pelle di pescecane e acciaio brunito con tre
else; con quella impugnatura mi portò attaccata ad un rozzo cinturone
di cuoio di Cordova, il signor di Perédas nella storica guerra di
successione del 1808 intorno a Saragozza.

Terribile e gloriosa e patriottica guerra quella, combattuta
accanitamente su pe’ selvaggi monti delle Asturie, sulle aspre pendici
dei Pirenei, sullo floride pianure del Tago. Molte cose vidi e molte
volte scintillai al bel sole di Spagna, incitatrice alle pugne,
roteando in fendenti tremendi sugli enormi schakò napoleonici. Ma un
giorno il signore di Perédas mi seppellì sotto un mucchio di cadaveri
tutta rossa di sangue rappreso.

Di notte alla luce rossiccia delle torce, tra i lamenti dei feriti
e dei moribondi e il vociare delle ambulanze, fui raccolta da un
contadino e gettata insieme ad altre armi ed indumenti guerreschi in un
carretto sgangherato le cui ruote mettevano un sinistro cigolio.

Che notte eterna fu quella! Priva della mia morbida guaina di cuoio,
sentivo la fredda rugiada posarsi su di me e agghiacciarmi le fibre;
viaggiando, al rude contatto di schioppi arrugginiti e di umili daghe
di gregario, pensavo al mio forte signore e mi pareva di sentire ancora
la stretta della sua mano robusta. Viveva egli ancora? certo che no;
soltanto la morte poteva strapparmi da quel pugno d’acciaio.

Allora qual sorte m’era riserbata?

Viaggiai tutta la notte alla luce chiara, fredda degli astri; tutta la
notte giunsero fino a me i fiochi lamenti dei moribondi, il gracchiare
de’ corvi famelici; a tratti per la vasta campagna apparivano, in
distanza, orrendi bagliori d’incendio, allegri fuochi di bivacco.
Di chi era la vittoria? Lo ignoravo, ma qualche cosa mi diceva che
doveva essere degli intrepidi difensori della Spagna e questa idea mi
consolava della mia inazione, della mia presente miseria. All’alba,
il carretto si fermò dinnanzi ad un’umile casa di campagna; due
donne giovani e belle, della maschia bellezza catalana, accorsero
sul limitare, molti fanciulli circondarono il carretto schiamazzando:
due uomini alti e barbuti ci tolsero dal carro, ci trasportarono in
una buia soffitta, ci gettarono a rifascio in un angolo. Lunghi anni
passarono in quel silenzio non interrotto che dalla gazzarra allegra
degli uccelli e dal tubare delle tortore nidificanti sugli embrici. Io
invecchiavo; uno strato di ruggine mi copriva tutta come una lebbra,
mi rodeva le molecole come una vegetazione parassitaria: la polvere
s’agglomerava sull’impugnatura rendendola irriconoscibile, i ragni, tra
le else, intessevano le loro trame sottili. Gli anni passavano....

                                   *
                                  * *

Un giorno la porta stridette sai cardini rugginosi e una larga e
luminosa zona di sole penetrò allegramente nella buia soffitta mettendo
in fuga una pacifica tribù di topi, assoluti padroni del luogo.

— Debbono essere laggiù in quell’angolo, disse una voce maschia.

Un uomo si diresse alla nostra volta, ci sollevò tutte in un fascio,
discese le scale traballando sotto il peso e ci depose sopra il gran
tavolo della cucina: dal mucchio delle armi saliva un vecchio tanfo di
muffa.

— Eccole qui tutte, disse la voce nota.

Molti uomini ci furono attorno, ci presero, ci spolverarono, ci
esaminarono curiosamente. Quello che mi impugnò pel primo era un
vecchio signore alto e magro dalle fedine brizzolate, dagli occhiali
cerchiati in oro: mi osservò a lungo, cercando di scorgere traverso
alla ruggine il disegno dei miei rabeschi, cercando un nome, una data,
una marca di fabbrica. Io in quell’aria, in quella luce, mi sentivo
rinascere; il buon sole di primavera mi scuoteva di dosso l’umidità e
l’uggia di quella lunga prigionia; i movimenti che la mano del vecchio,
mi imprimeva, mi rendevano l’antica elasticità, il vigore antico,
dandomi sussulti di gioia.

— Buona lama, buona lama!... diceva il vecchio soddisfatto.

— È di Toledo, della celebre fabbrica di Manuel Paëz; ha combattuto
sotto Saragozza nel 1808 in mano a quel prode signor di Perédas, che
morì poi sulle mura della città, disse l’uomo che mi aveva tolto dal
mio cantuccio buio, con un’inflessione d’orgoglio nella voce.

— Quanto chiedete? domandò il vecchio.

— Non ha prezzo signore; la raccolse mio padre sul campo di battaglia
ed io la conservavo come una reliquia di famiglia. Ma siamo poveri,
il pane è caro, mia moglie è malata.... Fate voi, signore, io non
discuterò.

Il vecchio gettò sulla tavola dieci fiammanti pesos di Spagna, il
cui suono argentino dovette gradevolmente solleticare l’orecchio del
campagnuolo andaluso.

— Va bene?

— Grazie a Vossignoria: l’arma è vostra, disse il contadino intascando
prestamente le belle monete.

Il vecchio signore mi avvolse accuratamente in una fascia di tela e mi
portò via.

Così mi separai dalla mie compagne di prigionia....

                                   *
                                  * *

In Italia subii una magnifica trasformazione: un armaiolo di Milano
mi si mise d’attorno a ripulirmi, a levarmi la ruggine con una cura
amorosa: fui temprata nuovamente; per la seconda volta sentii il bacio
ardente del fuoco, il freddo bacio dell’acqua, poi mi si adattò una
nuova impugnatura d’avorio colle else in metallo dorato, martellata da
una mano maestra. Ero più bella di prima, più lucente, più fiammante;
la mia lama s’era assottigliata, la mia punta pareva quella di un’ago.

Un giorno mentre l’armaiolo mi dava l’ultimo colpo di brunitoio, entrò
nella bottega una fanciulla, uno splendore di fanciulla, pallida e
bruna come la fata di una leggenda moresca. Mi guardò a lungo, mi prese
nelle sue manine delicate e bianche, poi mi posò sul banco dicendo
all’artefice:

— Inciderete il mio nome sulla lama da questa parte; dall’altra parte
il motto: «Per la patria e per la dama»

— Sarà fatto, disse l’armaiuolo inchinandosi.

Provai così anche il morso roditore dell’acido; ma per guarire fui
messa in una guaina di bulgaro morbida ed odorosa come un guanto e
adagiata mollemente in un lungo astuccio di velluto. Come si stava bene
lì dentro!...

Così trasformata, rinnovata, ringiovanita tornai alla casa del vecchio
signore che mi aveva acquistata in Ispagna, anelante a nuove pugne su
nuovi campi di battaglia, avida di scintillare al sole italiano, di
combattere per una causa nobile e grande. Mi avrebbero forse lasciata
poltrire nel mio morbido astuccio?

Una notte fui portata nel salotto; un salotto principesco e sontuoso,
dove tutto fiammeggiava alla luce dei lampadari di Murano. C’erano
tre persone intorno a me; il vecchio signore dalle fedine brizzolate,
la bellissima creatura di cui portavo il nome inciso sulla lama, e un
giovane biondo, dall’occhio azzurro e dolce, vestito della splendida
uniforme degli Usseri di Piacenza; parlavano sottovoce, commossi,
pallidi come alla vigilia di un grande avvenimento: la fanciulla era
triste, ma gli sguardi del giovane e del vecchio lucevano di una fiamma
baldanzosa.

— Quando parti? domandò Bianca.

— Fra poche ore, all’alba: gli Austriaci sono padroni della linea del
Mincio e circondano Peschiera, bisogna affrettarsi....

— Ritornerai non è vero?

— Se Dio m’assiste!...

— Porterai questa spada, per mio ricordo.

E mi trasse dall’astuccio.

— Grazie, cara.

Il giovane la baciò in fronte, poi mi sguainò, mi fece scintillare
alla luce dei doppieri, lesse la scritta e pose le labbra sulla lama
al posto dov’era inciso il nome di lei. (Un brivido mi corse tutta a
quel contatto) poi disse attaccandomi ai pendagli del suo cinturone di
bulgaro.

— Questa spada sarà il mio talismano.

— Iddio t’ascolti!

— Figli miei, seguitemi, disse il vecchio signore con voce grave,
velata da una dolce emozione.

Assistei allora ad una scena commovente e solenne. La piccola cappella
del palazzo era tutta illuminata di ceri; all’altare sontuoso un prete
celebrava la messa. Era un venerando sacerdote, una di quelle maestose
figure di vegliardo su cui si legge, come su di uno specchio, tutta
la storia di una vita incontaminata; celebrava il sacrifizio divino
serenamente, sorridendo ai due fidanzati che si inginocchiavano dinanzi
alla balaustra ricoperta di fiori.

Bianca pregava fervorosamente il Signore che le risparmiasse lo sposo,
che glie lo facesse ritornare illeso e vittorioso; egli, il giovine
ufficiale degli usseri, la divorava collo sguardo pregustando tutta
la felicità di quella notte divina, la prima e forse l’ultima, del suo
matrimonio.

Sui gradini dell’altare il sacerdote parlò rivolto agli sposi colla
sua voce tremula e dolce; parlò di amore e di patria, di speranza e di
fede, di onore e di dovere: poi alzò la bianca mano benedicente e il
vecchio signore baciò sulla fronte la figlia e lo sposo....

In quella notte dalla poltrona dove fui gettata, assistei al più dolce,
al più bello, al più divino degli idillii umani e ne fremo ancora al
ricordo....

                                   *
                                  * *

Per tutto il giorno avevo battuto sui fianchi di un cavallo generoso
che ci portava via in corsa sfrenata; sentivo dietro di me il sonoro
galoppo di tutti i cavalli dello squadrone e la polvere di una strada
lunghissima stendentesi a perdita di vista, si posava sulla mia
impugnatura damascata. Quali pensieri turbinavano nell’animo del mio
nuovo padrone? Ancora ebbro di ricordi d’amore egli si eccitava alla
corsa, e pungeva i fianchi del suo sauro focoso. Io pensavo che sarebbe
triste di morire così, giovane, bello e amato da un angelo; ma più
pensavo alle lacrime di lei in quell’ora che vedeva dileguare la sua
felicità al galoppo rapido di _Mallecho_. Povera Bianca! A lungo aveva
sventolato il fazzoletto in segno d’addio, in quell’alba luminosa di
giugno, dal suo balcone; a lungo aveva seguito collo sguardo il rapido
dileguarsi del suo cavaliero gentile che andava alla battaglia. Poi
quando l’aveva perduto di vista, aveva dovuto scoppiare in singhiozzi
tra le braccia di suo padre, il vecchio gentiluomo milanese....

Ad un tratto mi sentii stringere all’impugnatura da una mano nervosa ed
estrarre dalla guaina, violentemente. Cominciava dunque la pugna?

Eravamo a Monzambano: grandi masse di fanteria austriaca si vedevano
azzurreggiare in distanza; nell’aria era un continuo scintillare di
lance, di baionette, di spade; era un crepitar lontano di moschetti,
un rombo fiero di cannoni; grosse nubi di fumo bianco salivano nella
serenità trasparente del cielo.

— Ci siamo! pensai.

Lo squadrone dietro a me, (la sua mano mi agitava in aria in segno di
comando), aumentava la celerità dell’andatura, allungava il galoppo, si
metteva in linea. Si vedevano distintamente i quadrati della fanteria
nemica irti di baionette, passavano di tanto in tanto sul nostro capo
le granate fischiando come bolidi incandescenti.

— Avanti!... tuonò la sua voce.

La lunga linea di uomini e cavalli pareva una legione di angeli
sterminatori.

— _Caricat!_...

— _Savoja!_...

Non rammento più nulla: una grandine di piombo cadde su noi senza
arrestare la nostra corsa precipitosa, poi un’altra più fitta, più
micidiale; i cavalli eccitati, spaventati, le nari fumanti e l’occhio
feroce volavano calpestando tutto come gl’ippocrifi di una truce
visione Dantesca. E sempre il glorioso grido incitatore ne incalzava
alle spalle:

— Savoia!...

Poi una granata ci scoppiò proprio dinnanzi con orrendo fragore e
sentii che una parte della mia lama volava via trasportata da una
scheggia. _Mallecho_ stramazzò a terra fulminato, io sentii che la mano
del mio giovin signore m’abbandonava, ma rimasi attaccata al suo polso
per la dragona. Tutto lo squadrone in corsa sfrenata volò sopra di
noi, tornò indietro, rivolò quattro volte all’assalto fino a che rimase
vincitore....

Alla sera si seppellirono i cadaveri si raccolsero i feriti; i
medici, gl’infermieri e le suore di carità giravano sul campo della
carneficina. Un gruppo d’uomini mi circondava.

— È morto? domandò una voce a me nota, la voce del vecchio gentiluomo
milanese.

— Sì, disse il medico addolorato: una scheggia di granata gli ha
squarciato il petto.

La granata austriaca aveva spezzato tre esistenze: la mia, la sua e
quella di Bianca....

Ora colla lama rotta a metà e coll’impugnatura rossa di sangue e nera
di polvere, sono ritornata nell’astuccio di velluto, e sto nella vedova
camera nuziale di Bianca come una reliquia preziosa.




CAMERE MOBILIATE

                                                    A MAURIZIO BASSO.


Al momento di dare un’eterno addio alla mia vita di scapolo, posso
dire che la storia dei miei dieci anni di spalline si riassume tutta in
queste due parole: _Camere mobiliate_.

Hai mai pensato, amico mio, quale portentosa influenza può esercitare
una camera mobiliata sull’intero corso della nostra vita?

La camera mobiliata fa parte dell’esistenza dell’ufficiale, la
modifica o la determina secondo i casi, la regola sempre. In certe
camere, per esempio, io ero di una saggezza esemplare, in certo altre
invece.... Dio mio!... Basta, io modificherei il vecchio proverbio
così: «Dimmi la camera che hai e ti dirò chi sei». No?... In dieci anni
di vagabondaggio traverso all’Italia, io ho provato tutte le specie
possibili e immaginabili di camere ammobiliate, dalla volgare cameretta
d’albergo a 1,50 per notte, all’elegante _garçonnière_ in corso Umberto
a Torino; dalla camera dell’ufficiale a _disposizione_ in quartiere,
alla cameretta civettuola, allo studietto intellettuale ed allegro
di Corso Palestro, dove ho scarabocchiato tanta carta e condotto
parallelamente le fila di tanti dolci idillii....

Nelle stanze _a disposizione_ però, (mi affretto a dirlo ad onor del
vero), non ci sono stato che per forza, quando ero agli arresti in
quartiere, per motivi quasi sempre indipendenti dalla mia volontà.
Oh lunghe, tristissime ore di arresti nel cupo quartiere dei _Quattro
Venti_ a Palermo, in quella celletta da cenobita, così malinconicamente
deserta di mobili, così fiocamente illuminata dalla luce scialba del
cortile!

Io rammento: un lettuccio di ferro da collegiale ornato di una
zanzariera a baldacchino; un vecchio _comò_ zoppicante, colle serrature
arrugginite ed inservibili; un tavolinuccio ricoperto da un cencio
di tappeto rosso, pieno di macchie d’inchiostro, e quattro sedie
che si tenevano ritte per virtù d’equilibrio. Di nuovo, in quella
cameretta, non c’erano che i miei oggetti di divisa di sottotenente
appena promosso; anzi i galloni della giubba e del berretto appesi
all’attaccapanni, mettevano in quel grigiore scialbo uno scintillamento
di chincaglieria che faceva pensare ad una bottega di rigattiere in cui
fosse per caso capitato uno stok di roba nuova. Di mio, di veramente
mio, non c’erano che alcuni ritratti di famiglia attaccati al muro, e
un quadretto rappresentante la Madonna della Seggiola appeso a capo del
letto.

Il quadretto lo scopersi il giorno che vuotai il baule per dar la
consegna di tutti i miei indumenti al mio primo attendente, il soldato
Serra.

Era accuratamente ravvolto in una copertina di giornale, e portava sul
tergo alcune parole scritte colla calligrafia tremolante della mamma:
«Che la Madonna ti accompagni sempre e vegli sui tuoi sogni e sui tuoi
pensieri!»

Nel coperchio del baule, dalla parte interna, c’era pure, attaccata
colla gomma, una piccola immagine in litografia rappresentante la
Madonna del Rosario colle braccia distese quasi ad accogliervi tutta
l’umanità sofferente, e lo sguardo dolcemente rivolto ai peccatori
della terra, come un’invito.

Nella piccola cornice bianca era scritto un solo nome: «Clelia».
Rammento che ne rimasi assai commosso: la mamma e la sorella, senza
saperlo forse, avevano avuto per me lo stesso affettuoso pensiero,
quello di mettermi sotto la salvaguardia della Madonna.

Ora il vecchio baule non c’è più, il piccolo letticciuolo da collegiale
è rimasto a Palermo; ma la Madonna della Seggiola guarda ancora
dal coperchio della cassa, i miei indumenti di vecchio tenente e di
cittadino rimesso a nuovo.

Eppure fu in quella cameretta così poveramente mobiliata che io, appena
diciannovenne, sognai i miei sogni più belli e insensati d’amore, di
grandezza e di gloria. Oh lunghe, febbrili insonnie nell’afa meridiana
d’Agosto, nello scirocco caldo e soffocante di sabbia e di profumi di
zagara! Oh deliziose insonnie notturne, carezzate dalla brezza marina,
oh incomposto tumultuar di desiderii ignoti, di vaghe speranze, di
progetti confusi!... Oh vigoroso galoppar di vita per i muscoli e di
giovinezza per le vene!... Oh, vent’anni! oh, vent’anni!...

                                   *
                                  * *

Poi, ti ricordi? Le due gaie camerette della _Gran Brettagna_ in Via
Bandiera, colla porta che serviva da finestra e viceversa ed il salotto
comune dell’Albergo, dove capitavano i più bei tipi di questo mondo:
e la saletta da pranzo, quella specie di _table d’hôte_ presieduta
da quel buon diavolo di vecchio _troupier_ del cavalier Sebasti,
tenente anziano reduce dalla Crimea e possessore di giubbe o pantaloni
inverosimili, ti ricordi?

Oh! i pranzetti allegri, le allegre partite a scopone con quei due cari
mattacchioni di Ballerini e di Rosati, le belle risate alimentate da
quel celebre vino siciliano nero, e denso come il sangue di qualche
favoloso leone!... Oh! le belle e gioconde risate colla _Contessa_,
con la maestra di francese e col signore tedesco che le faceva gli
occhi di triglia, le magnifiche serate passato col bicchiere in mano
come Goliardi del vecchio stampo, a dar la stura al nostro inesauribile
buon umore, all’effervescenza della nostra giovinezza che ci fuggiva da
tutti i pori come la schiuma del generoso _Champagne_!

Le magnifiche serate al Politeama in seconda cavea, vestiti in borghese
come tre manigoldi, te le ricordi?

Io ho sempre presente la figura del nostro degno bersagliere, con
quella cappellata bassa da _mosciarellaro_ e quei pantaloni a campana
da calzolaio _indomenicato_ che ci guardava tutti e due coll’aria di
pietoso disdegno con cui Don Marino Torlonia guarderebbe un commesso di
negozio.

E solamente il ricordo di quei beati tempi, a dieci anni di distanza,
mi rasserena il viso come per incanto, mi mette sulle labbra il
prurito di ridere ancora di quel bel riso spensierato e squillante che
rallegrava il cuore....

                                   *
                                  * *

Ma ritorniamo alle camere mobiliate. Quanto ne ho cambiate in dieci
anni? Chi se ne ricorda? Rammento quelle dove ho abitato più a lungo,
quelle in cui si è compiuto qualche atto importante della mia esistenza
di scapolo un po’ scapato. Tutte eguali però, dal più al meno, tutte
colla fisonoinia volgare di camera d’affitto, cogli identici mobili,
e i soliti fiori artificiali sotto le campane di vetro e le oleografie
identiche su cornici da rigattiere. E come le camere, così le padrone.
Dalla Conca d’Oro all’estremo paesello delle Alpi; tutte le stesse,
con gli stessi vizii e le stesse virtù, pronte a chiudere un’occhio o
a scandolezzarsi secondo le puntualità del pagamento, curiose come....
padrone di casa e pettegole come lavandaie.

Ricordi la baronessa che ti veniva a spiare dalle stecche delle
persiane? Ricordi la magnifica lezione che le desti una bella sera in
cui la sua curiosità ti aveva seccato?

                                   *
                                  * *

Quella delle padrone di casa è una classe di persone su cui, noi
ufficiali, potremmo fare degli studii profondi. Dall’affittacamere
di professione alla contessa autentica, ma decaduta che affitta per
bisogno, che varietà infinita di tipi, che sbalorditoia gamma di toni e
semitoni!... Ma più ricca ancora di sfumatura, di toni e di colori è la
classe delle padroncine di casa che comincia dalla sartina e passando
per la maestra, che è il tipo più comune, finisce colle signorine per
bene.

Se le padrone di casa che si lasciano corteggiare dal loro inquilino
appartengono al genere più pericoloso, le padroncine di casa sono
pericolose sempre specialmente per i sottotenenti giovani e non
abbastanza agguerriti e corazzati contro le lusinghe dell’eterno
femminino.

Molti matrimonii legali od illegali, (ma il più delle volte illegali)
hanno avuto origine da un semplice «buon giorno» scambiato per le
scale tra la padroncina di casa e il suo inquilino reduce dalla piazza
d’armi o dalla tattica; molti _collages_, molti disgraziati legami,
sono dovuti all’impossibilità di liberarsi da una padrona di casa che
_ha dei diritti_; molte seccature non sono che il prodotto di piccole
vendette di padrona di casa lasciate in asso. Le padroncine di casa
arrivano al loro scopo in vari modi e con vari procedimenti adatti
per lo più all’indole dell’inquilino; tutte le armi sono buone, da una
sapiente modestia a un’audacia sapiente, dal sagace temporeggiamento
alla dedizione improvvisa, dalla ritirata prudente all’accorta _entrata
in tempo_.

Quando ci sono le padroncine, le mamme agiscono di seconda mano e
rappresentano il rinforzo che giunge sempre in tempo nei momenti più
difficili, come una riserva napoleonica usa a manovrare per linee
interne.

Nessuna madre nobile di _ruolo_ saprà mai riprodurre al vero la
matronale aria di dignità che assumono in certe circostanze codeste
agenti di matrimoni al minuto; nessun psicologo le supera nell’arte di
giudicare a prima vista l’_uomo_ della situazione.

In questa bisogna, esse posseggono un odorato infallibile; quando la
faccia del nuovo inquilino non presenta i requisiti voluti, il loro
contegno verso di lui diviene di una rigidezza eccezionale e la loro
sorveglianza sulle figliuole di una feroce acutezza.

Non serve che la camera del pigionale sia perfettamente libera ed
abbia la porta sulle scale; non serve che tornando dal teatro _lui_ e
l’_altra_ entrino in casa colla massima precauzione, che l’_altra_ esca
di casa sul far del giorno, quando tutti dormono ancora.

La terribile padrona di casa sente i rumori più impercettibili;
indovina da quelli tutti i movimenti, nulla le sfugge, nè il minuto
preciso dell’entrata, nè il minuto secondo dell’uscita.

E allora, quando ella ha di già in vista _l’uomo_, un bel giorno vi
fa chiamare dalla sua domestica e vi dice con l’aria di una regina
offesa che quella non è la maniera di regolarsi in casa di gente per
bene, dove ci sono delle fanciulle oneste e timorate di Dio, e che si
meraviglia.

Voi, naturalmente, vi meravigliate più di lei di essere stato oggetto
di un così odioso spionaggio e protestate. Ella ribatte e vi dice di
cercarvi un altro alloggio. Voi cercate e trovate.

Alle volte può accadervi, come è accaduto a me a Parma, di capitare in
casa di gente allegra. La padrona di casa ancora giovane, belloccia,
senza tanti scrupoli, che vi offre gentilmente la camera e la sua
compagnia; un’adorabile cameriera al piano di sotto, una modista sullo
stesso pianerottolo, tre cucitrici di bianco al terzo piano, pronte ad
invadere la vostra stanza al primo cenno d’invito, al primo pizzicar di
chitarra.

E può accadervi, come a me, di tenere la porta spalancata tutto il
giorno e buona parte della notte, di far molta musica e di farsi
_suonare_ maledettamente agli esami.

Può accadervi di andare ad abitare a un primo piano, sopra la bottega
di un barbiere, che si crede in dovere di venirvi ad offrire i proprii
servizii nonchè di darvi parecchi non richiesti consigli sulla scelta
delle relazioni da farsi nel casamento, e particolari preziosi sulle
abitudini di tutti i pigionanti.

Vi può capitare anche una padrona di casa vedova sì, ma romantica
che svaligerà la vostra biblioteca e la vostra toeletta e si metterà
in vedetta dietro le stecche delle persiane per sapere chi viene
a trovarvi; oppure un’onesta madre di nove marmocchi che non vi
lasceranno dormire un’ora del giorno, che spieranno sulle scale un
vostro sorriso o una vostra innocente carezza per invadervi la camera,
attaccarsi alla vostra sciabola, portarvi via la dragona, manomettervi
tutto. O il martirio chinese di un dilettante di piano o di violino,
o il prospetto di una famiglia sistema _Vergini_ di Praga, che vi
inviterà immancabilmente ai suoi giovedì musico-danzanti.

Ovunque voi andiate è un’insidia tesa e più o meno abilmente celata.
Se la casa ha un portiere avete un nemico naturale, se non l’ha ne
avete tanti quanti sono gli inquilini. Se oltre alla camera accettate
di stare in pensione dalla vostra padrona di casa, siete un uomo
perfettamente rovinato.

                                   *
                                  * *

Barcamenarsi saggiamente per dieci anni da una camera all’altra in
tutte le città d’Italia, sfuggire per dieci anni di seguito a tutte le
insidie, rompere tutte le ragnatele, eludere i trabocchetti, sfatare
l’incanto di tanti sorrisi, non è cosa da tutti. Molti cadono nella
pania delle prime lusinghe, molti ci cascano improvvisamente quando già
cominciavano ad agguerrirsi, pochi resistono sino alla fine.

In certe camere che sembrano predestinate, rimangono molti lembi di
cuore e molti lembi di portafoglio; certune hanno visto cadere molti
ideali e assistito alla morte di molte libertà di scapoli: chi sa
quante hanno il diritto di chiamarsi _storiche_ per il succedersi degli
stessi fenomeni nei medesimi punti, nelle ore medesime! Ci pensi tu?...
È spaventevole!...

Perchè, cambiano i reggimenti di guarnigione, cambiano i distaccamenti,
ma le camere mobiliate rimangono sempre le stesse e nulla in esse
si rinnova mai, nemmeno il copriletto di _satin_ giallo ricoperto
di _crochet_, nemmeno le tendine confezionate in casa, nemmeno il
tappetino su cui tante generazioni di stivali si sono posate.

Certi casamenti che l’abitudine ha omai consacrati, acquistano una
specialissima fisonomia di quartieri in festa, cogli attendenti che
vanno e vengono, colle giubbe e i pantaloni dalle fodere e dalle bande
rosse, gialle, cremisi o bianche, sciorinate al sole sui terrazzini
del cortile. In quegli alveari umani le bambine crescono liberamente,
abituandosi, familiarizzandosi all’idea che un giorno avranno anche
loro il proprio ufficiale, non importa come, non importa quando.

E i frutti che un Reggimento ha lasciato acerbi l’altro Reggimento
trova maturi e pronti a lasciarsi cogliere da una mano avida: quello
che la fanteria ha preparato la cavalleria raccoglie, lasciando
l’eredità ai bersaglieri; le lacrime spremute dall’artiglieria sono
asciugate dal genio. Oh, invidiabile cameratismo! Che ne dici? Se tutti
cercassero la camera colla pregiudiziale di questo idee, molte lacrime
si asciugherebbero da sè per mancanza di pietosi fazzoletti disposti a
tergerle.

Ma c’è un Dio anche per le padrone di casa giovani, per le padrone
di casa vedove, per le padrone di casa romantico-sentimentali. C’è un
Dio anche per le padroncine bellocce senz’altra dote che la voglia di
maritarsi, per le maestre elementari, per le piccole _bas-bleu_, per
le strimpellatrici di piano-forti e per le fanciulle militaromani.
C’è la buaggine umana confederata ai vent’anni dei sottotenenti,
all’inesperienza dei collegiali, alla potenza assassina degli occhi
neri e degli occhi celesti. C’è la vanità umana infinita come la
misericordia di Dio, per la quale ogni giovano ufficiale si crede
irresistibile in virtù della sua giovinezza e dei suoi galloni; c’è....
c’è....

Ma è il caso di lasciarla lì. Bene o male eh, vecchio mio? siamo giunti
sulla trentina sani e salvi ed ora un magnifico scetticismo figlio
dell’esperienza ci guida nel mare magno della vita coll’occhio cauto
del vecchio pilota avvezzo alle tenebro ed alle nebbie dell’Oceano.
Oramai lo _scacco barbiere_ non ce lo danno più, vero? E si comincia a
pensare e a desiderare con una certa tenerezza, con uno struggimento
grande, ad una camera _propria_ con mobili _proprii_, senza fiori
artificiali sotto le campane di vetro, senza copriletti a _crochet_,
senza il servizio da caffè colle tazze scompagnate sul _comò_. Si
comincia a pensare ad una padrona di casa che non si somigli per
nulla alle solite, che non nasconda insidie nei begli occhi e secondi
fini nel sorriso, che non frughi tra le vostre carte, che non legga
le vostre lettere, che non adoperi i vostri fazzoletti. Una bella
padroncina di casa che sia anche la padrona del vostro cuore e vi
liberi per tutta la vita dal martirio delle camere mobiliate.

Non è vero che ci pensi anche tu, birbone? O confessalo via!...

Ma se si trattasse di tornare a vent’anni, nelle nostre camerette della
_Gran Brettagna_ dove io scrivevo — Dio ce ne liberi! — i miei primi
versi e tu buttavi giù pupazzetti e novelle veriste da Verga della
seconda maniera, ci ritorneresti tu? Eh!... chi lo sa!?...




IL GRAN RAPPORTO DI CAPO D’ANNO


Nella sala di Convegno di uno qualunque dei 96 reggimenti di Fanteria,
gli ufficiali in gran tenuta aspettano l’ora del Gran rapporto. La
stufa, troppo piccola per la sala troppo grande e troppo vuota, manda
un calore problematico che obbliga i più lontani a ravvoltolarsi
nella mantellina ed a pestare i piedi in terra. Grillo e Sanguinetti
giuocano a scacchi in un angolo, tenendo la scacchiera sulle ginocchia,
circondati da un discreto numero di spettatori che si credono in
obbligo di suggerire le _mosse_ più contradditorie e di darsi dello
_schiappino_ con una liberalità perfettamente giustificata del resto.
Pivetti si preoccupa del colletto che gli sembra troppo alto e studia
allo specchio l’atteggiamento che prenderà davanti al Colonnello, per
farlo sembrare di giuste dimensioni. Lombardi toglie gli elastici dai
pantaloni troppo attillati, mentre Cerruti è in pensiero per la sua
giubba numero uno che, secondo il _Giornale Militare_ numero tale,
parte I anno 1890, è troppo corta ed ha la bottoniera di cavalleria.
Qualcuno — cosa strana! — legge con interesse un giornale; otto o dieci
circondano il Furier maggiore che distribuisce le lettere e chiamano
gli ufficiali per nome ad alta voce.

— Ferraris!

— Presente!...

Ferraris corre nel gruppo che circonda il porta lettere, gli occhietti
lucidi, la sigaretta spenta tra le labbra.

Il Furier maggiore gli consegna tre letterine col francobollo da un
soldo.

Si alza un clamore di tossi, di starnuti, di esclamazioni, cui fanno
eco tutti senza sapere di che si tratti.

— Cristo! a tre alla volta, gli dice Gobbi battendogli una mano sulla
spalla.

Ferraris piglia le tre lettere e va a leggerle vicino alla finestra,
discretamente seccato; quella che aspettava, la _raccomandata_, non
è giunta. Apre la prima: è un biglietto d’augurio con due colombe
che si baciano, un’_augurio_ da quattro soldi; dietro al medesimo è
scritto a caratteri di scatola nonchè di lavandaia: _Al suo charo Gulio
l’affezionata Charolina_.

Accidenti! È la serva della padrona di casa....

E per rifarsi apre le altre due.

— Guglielmotti....i....i...! si urla dal gruppo. Guglielmotti che stava
insegnando una figura dei lanceri a due sottotenenti nuovi promossi, si
avanza.

Il portalettere gli consegna due lettere grandi, rettangolari, colla
busta gialla.

— Crediti!... — dice Moglia ridendo.

— Iettatura! — esclama De-Abate facendo l’atto caratteristico dello
scongiuro.

Tutti ridono. Guglielmotti non si scompone; mette in tasca le due
lettere malaugurate, fermamente risoluto a non aprirle nemmeno, fà
un’alzatina di spalle e domanda tranquillamente:

— C’è altro?....

— Non ti bastano? — dice Moglia, la gran linguaccia del Reggimento.

Guglielmotti ritorna ai suoi due sottotenenti e riprende la figura
interrotta fischiando il motivo dei Lancieri.

— _Balancez! Tour des mains!_ Bravi! così va bene!

Il gruppo seguita l’appello a voce alta: Ruggeri, tre giornali e la
nota del sarto. Sommaruga, una lettera e cinque biglietti da visita;
caspita!... Di Giorgio, una cartolina della Cooperativa: conte
Lanciotti, detto il _Feudatario_, due raccomandate. Dominici una
circolare di Bevilacqua La Masa.

I non chiamati si affollano ora intorno al Furiere domandando con
ansia, volendo vedere:

— Furiere, c’è niente?

— Prosperi nulla?

— Gambardini nulla?

Il Furiere a mani vuote si _squaglia_; i fortunati leggono le lettere
delle mamme, delle sorelle, delle amorose, delli amici lontani,
Guglielmotti invece seguita la lezione, spiega la _grand chaine_
praticamente, dando certi strapponi ai suoi allievi che pare il castigo
di Dio; Lanciotti, il _feudatario_ riempie il portafogli di biglietti
rossi, con un’aria soddisfatta, sorridendo, badando a metterli bene in
mostra, carezzandoli colle manine morbide adorno di brillanti. Ruggieri
stropiccia nervosamente i giornali e rabbiosamente la nota del sarto.
Grillo che prevede prossimo lo scacco matto, cerca tutte le maniere
per mandare a monte la partita; Oliva e Bartoli discorrono in un angolo
accendendosi reciprocamente il mezzo toscano.

— È venuta?

— Sì....

— Racconta, racconta....

— Una serata splendida....

— E.... (gesto espressivo della mano).

— Che domande! Si sa! (Sorriso analogo) però mi toccherà a scontarla
cara, credo di essere _sotto chiave_....

— Perchè?

— Perchè ho mancato alla ritirata; capirai, come dovevo fare? Se me
la lasciavo scappare ieri sera ero suonato. D’altronde il capitano
d’ispezione che non si era fatto vedere in tutta la settimana, capita
in quartiere proprio ieri sera.... Se ti dico ho una fortuna!...

Il piantone spalanca la porta e dice:

— Gran rapporto!...

Gran rapporto! Tutti si alzano, depongono le mantelline sulle sedie,
sul divano, agli attaccapanni ed escono tumultuosamente per la porta
spalancata. Nella sala del Gran rapporto si dispongono in circolo,
per battaglioni, i capitani in prima linea, i subalterni dietro al
rispettivo capitano, terminando di calzare i guanti in fretta, tutti
serii, assumendo l’aria delle grandi circostanze, respirando con
voluttà l’aria calda dell’ambiente, sgranchiendo le membra gelate in
quella ghiacciaia della Sala di Convegno. I comandanti di battaglione
fanno l’appello:

— Prima compagnia?

— Tutti presenti.

Pivetti che è alto come un palo telegrafico, invidia gli ufficiali
della 12ª che hanno un capitano più alto di lui, _il più gran capitano
dell’epoca_, come lo chiama Moglia. Fortunati! Almeno se hanno un
colletto troppo alto o la giubba troppo corta si possono nascondere.

— Seconda compagnia? — seguita il maggiore.

— Tutti presenti. Rondelli è di guardia al Palazzo Reale.

— Bene, Terza compagnia?

— Manca il capitano.

— Dov’è?

— Mah! non so, discorreva col furiere....

— Cristo! manca sempre qualcuno; quarta compagnia?

— Tutti presenti.

Compare il capitano della 3ª tutto trafelato, col kepy sulle
ventiquattro, con un guanto infilato e l’altro no.

Il tenente gli dà le novità della compagnia in cui, viceversa non vi
sono novità.

Mancano ancora i contabili. Il medico dov’è? Ah! il medico c’è.

Quei benedetti contabili!... Bisogna sempre farli chiamare almeno tre o
quattro volte.

Compare la pancia immensa del capitano direttore dei conti — un
vero magazzino di viveri di riserva — il nemico acerrimo di tutti
gli ufficiali per l’incredibile grettezza con cui amministra gli
stipendi, come se spendesse del suo: compare l’anima lunga di Borich
— l’ufficiale pagatore — stecchito e magro come un’asceta, con un viso
meravigliato di sè stesso e degli altri che fa ridere; e dietro a lui
l’ufficiale di magazzino, una bella testa di frate gaudente, il petto
coperto di due decorazioni vere, e di molte altre fatte artificialmente
col grasso, i pantaloni d’ordinanza tagliati senza nessun riguardo
all’economia e al risparmio.

— Ci siamo tutti?

— Tutti.

— Attenti!...

Entra il signor colonnello colla mano alla visiera del berretto, con
una faccia scura, più scura del consueto, e va a mettersi davanti al
tavolo ricoperto di panno bleu:

— Stiano comodi!...

Nessuno si muove: quello _stiano comodi_ è detto con un tuono di voce
che minaccia tempesta.

Il tenente colonnello si avanza, saluta e dice a voce alta:

— I signori ufficiali per bocca mia, le esprimono i più sinceri voti
di felicità per l’anno nuovo, ed io mi ritengo ben lieto ed onorato di
farmi loro interprete presso di lei e....

E qui gli manca la parola.

Dietro la linea immobile dei capitani accadono impercettibili ma
eloquentissimi movimenti nei subalterni; tutti provano il bisogno di
comunicarsi i loro pensieri e non potendo parlare si toccano.

Quelli di dietro toccano quelli davanti, i vicini si danno nel gomito,
qualcuno si morde le labbra, altri alzano gli occhi al cielo per
chiamarlo in testimonio della loro innocenza in quella manifesta bugia
dell’augurio; i più anziani, che ne hanno viste di peggio, sorridono
lievemente, scuotono impercettibilmente la testa come a dire: Questione
di prammatica, che ci volete fare?...

— Presso di lei e.... ripiglia il tenente colonnello che ha ritrovato
il filo....

— Grazie, interrompe bruscamente il colonnello, — ma prima di parlare
di augurii, occupiamoci del servizio. È già la terza volta, signori,
che arrivano lettere dalla Divisione circa la trasgressione fatta alla
tenuta dai signori ufficiali, ed io intendo _as-so-lu-tamente_ che
questo sconcio — mi lascino dir così — abbia a cessare. Anche ieri sera
al Teatro ed al ballo del Circolo Militare, furono osservati parecchi
tenenti e sottotenenti con dei colletti impossibili e con delle giubbe
troppo corte....

— Ci siamo! — pensa Pivetti, che non ha mai tanto maledetto la sua
statura di granatiere come in questo momento....

— _Siam suonati o regina!_ mormora a denti stretti Cerruti tirandosi la
giubba a più non posso.

— ... Non volevo far nomi, ma poichè i colletti alti e le giubbe
corte compariscono anche al Gran rapporto (terribile e minaccioso
ingrossamento della voce), mi vedo obbligato a mettere agli arresti il
signor Pivetti che ha un colletto inverosimile, sì inverosimile, ed il
signor Cerruti che ha una giubba che non arriva a coprirgli la vita.
Crede lei signor Cerruti di star bene con quel giubbettino?

Cerruti non risponde ma pensa, con una tal quale giustezza, che se
credesse di star male, molto probabilmente non la porterebbe: se non
sta bene, certo però non sta nemmeno male come il suo vicino Lantecchi
che la porta di perfetta ordinanza....

— E per oggi — seguita il colonnello, mi limito a questi due: ma metto
in guardia i signori comandanti di compagnia e di battaglione che d’ora
in poi li terrò responsabili della tenuta dei loro subalterni. Vadano
pure!

Il Gran rapporto è finito: ma ora è la volta dei rapporti parziali,
il rapporto dei comandanti di battaglione e quello dei comandanti
di compagnia. Subito si formano i gruppi dei tre battaglioni negli
uffici appositi, intorno al tavolo del maggiore. I due maggiori ed il
tenente colonnello che erano entrati in quartiere tutti e tre allegri
nella speranza di cominciar bene l’anno, dopo la ramanzina solenne del
_papà_, escono dall’ufficio tutti rabbuiati in volto, seccatissimi di
quella paternale sulla tenuta, frequente ed inutile come le _grida_
contro i bravi di manzoniana memoria. E la paternale incomincia
per ogni battaglione, riveduta, corretta e con parecchie aggiunte
intercalate nel testo.

— Non è la prima volta ecc. ecc. Si vede proprio che con lor signori
le parole non valgono (sguardo severo alle due file dei subalterni),
e bisognerà per forza adoperare dei mezzi persuasivi.... Dunque siamo
intesi; uomo avvisato, mezzo salvato. Ci pensino i signori comandanti
di compagnia che io tengo responsabili verso di me. Sono in libertà. Si
esce dalla stanza del Battaglione e si ritorna in sala di convegno; i
gruppi di tre diventan dodici:

Terzo, ultimo e non meno affliggente rapporto dei Comandanti di
compagnia:

— Io sono responsabile e sta bene; ma la prima volta che mi vengano
davanti con qualche oggetto fuori di prescrizione, sia detto una volta
per sempre, li _sgnacco_ agli arresti senza misericordia (esaminandoli
collo sguardo) lei signor Bartoli, se non fosse di già agli arresti per
aver mancato ieri sera alla ritirata, meriterebbe di andarci adesso per
questo kepy troppo piccolo....

— Piccolo? che cosa vuole signor capitano, il kepy è vecchio e bisogna
dire che la mia testa sia cresciuta... — arrischia il povero diavolo.

— Non faccia lo spiritoso e veda di provvedersene un altro piuttosto.

— Sissignore, — risponde Bartoli, e aggiunge mentalmente: — alla prima
eredità che mi capita!...

Anche il terzo rapporto è finito; gli ufficiali escono dal quartiere a
frotte con un prurito di correre nelle gambe a stento rattenuto.

Ah finalmente!

Dialogo colto a volo per le scale:

— Sai perchè nel 66 abbiamo perduto la battaglia navale di Lissa?

— ?....

— Diamine! perchè gli ufficiali di fanteria portavano il colletto
troppo alto....

Cerruti e Pivetti si accostano e si stringono la mano.

— Bel Capo d’anno eh?

— Sì, si incomincia bene, non c’è che dire....

— E io che ero invitato a pranzo dalla mia fidanzata!

— E io che era aspettato da mia cugina!

— Mah!

— Ci vuol pazienza!

E tirano un grosso sospiro per uno.

Sulla porta del quartiere urtano contro la pancia enorme del capitano
Direttore dei conti che li ferma con un gesto della mano:

— A proposito signori, li prevengo che ho fatto far loro una ritenuta
sullo stipendio....

— Perchè?

— Per le cucine degli ufficiali _degradate_ (sic!) in distaccamento.

Ma Cerrutti e Pivetti hanno preso la fuga. Al diavolo lui e le sue
ritenute! Anche questa bella notizia ci mancava per cominciare bene
l’anno....

— Figurati, dice Pivetti, che ho preso lo stipendio ieri e son
rimasto....

— Con quanto?

— Con dieci lire.

Cerruti gli salta al collo:

— Oh! mortale fortunatissimo! con dieci lire? me ne presti cinque a me
e restiamo pari.

— Come pari?

— Già, con cinque lire per uno, perchè, vedi, a me dello stipendio non
è rimasto che questo....

Ed estrae di saccoccia una lettera colla busta gialla dov’è la nota del
calzolaio lunga come l’infinita misericordia....




PER UN GIORNO DI CONSEGNA


Già da un’ora Nennella, inquieta, era alla finestra ad aspettarlo, ma
Bista non veniva. Passavano per lo stradone provinciale i soldati a
frotte, allegri, puliti, colla trecciuola sul kepy e i guanti della
domenica; passavano a frotte i coscritti coi grandi berretti calati
sulle orecchie, con quello faccie imberbi di contadini stupefatti,
colle membra rigide, col passo stecchito ed impacciato, non sapendo
che farsi delle mani infilate in quegli enormi guantoni a calza che
parevano manopole da scherma.

Passavano tutti e Bista non passava.

— Cosa gli sarà successo, Madonna mia? — pensava Nennella spaventata.

Cominciava ad imbrunire; in quella magnificenza di tramonto invernale
le cose intorno pigliavano tutte una molle tinta di viola e veniva dal
mare una brezzolina fresca piena di profumi d’alghe e di catrame.

Nennella discese in bottega dove la vecchia madre dormiva accoccolata
sopra una sedia; i canestri, di fuori, erano quasi vuoti, levò dai
sacchi le noci, le castagne secche e riempì i canestri.

Frattanto guardava fuori in direzione del quartiere, fissamente,
cercando di penetrare collo sguardo traverso alle finestre di quel
grande edifizio cupo, le cui linee severe sembravano ingigantire
sfumate dal tramonto. Un soldato si fermò per comperare un soldo di
noci.

— Addio Nenne’.... — disse tentando di pizzicarle una guancia.

Ma Nennella di cattivo umore, alzò impazientemente le spalle; poi gli
guardò la nappina del kepy e riabbassò subito lo sguardo, desolata;
il soldato era della 2ª compagnia, Bista della 9ª, non si potevano
conoscere.

Il soldato prese le noci, guardandole ad una ad una, pesandole sul
palmo della mano per scegliere le migliori, mentre Nennella rimaneva
lì appoggiata allo stipite, nella posa rassegnata di chi aspetta, collo
sguardo fisso sullo stradone provinciale che si faceva deserto.

Oramai era notte, Napoli si illuminava; milioni di fiamme nella
città, nel mare, nelle colline si accendevano, e saliva il grande e
caratteristico frastuono della vita notturna napoletana. Si avvicinò a
passi affrettati caporale Lo Cicero dalla parte del vicolo della Morte,
e chiamò:

— Nennèe!...

Nennella si volse di scatto e riconobbe l’amico di Bista. Impallidì.

— Che nuove ci portate, Lo Cicero?

— Brutte nuove, Nennè, Carmelo è consegnato.

— E cosa ha fatto? Perchè?

— Non mi ricordo bene; ma mi ha detto di salutarvi e di dirvi che a
mezzanotte l’aspettate.

Nennella disse stupefatta:

— A mezzanotte? Ma lo fanno escì a quell’ora?

— Non lo fanno uscire, Nennè, _salta la barra_.

E Lo Cicero fece l’atto di chi salta un muro.

— Madonna santa! s’avessero da scoprí li superiori! — disse Nennella
impaurita.

Lo Cicero alzò le spalle per rassicurarla. L’aveva saltata tante volte
lui!... E mentre le spiegava il modo di _farla franca_, Nennella lo
interruppe.

— Lo Cicero, che giorno è oggi?...

— Sabato — rispose Lo Cicero alquanto meravigliato, e seguitò il
discorso.

Sabato: Nennella si sentiva rassicurata: sempre il sabato a notte suo
marito pescava a Mergellina e non tornava che alla domenica dopo la
vendita in mercato; meno male, meno male. Ma le era rimasto nell’anima
un fondo di paura, un presentimento di cattivo augurio.

— Lo Cicero, ditegli che non venga....

— È inutile — rispose lui alzando le spalle — Bista è più testardo di
un mulo: ha detto di venire, verrà! — E se ne andò.

Ad un tratto Nennella si vide innanzi Cicillo, il garzoncello di suo
marito, quello storto malizioso che le era sempre tra i piedi colla sua
aria di bertuccia malvagia.

— Cosa vuoi Ciccillo? — disse Nennella quasi spaventata dalla subita
apparizione.

— Mi manda don Nicola per le lenze piccole; questa notte stiamo fuori.

Sgattaiolò su per le scale con un sorriso malvagio sulle labbra
bianche, dondolando le anche deformi, e ricomparve poco dopo tenendo in
mano le lenze ed una torcia da pompiere.

— Volete niente per vostro marito?

— Tanti saluti e buona fortuna! — fece Nennella offrendogli un pugno di
noci.

Lo storto prese le noci e se ne cacciò subito in bocca una, scappando
senza ringraziare: quando fu arrivato alla barca dove don Nicola
l’aspettava, depose le lenze e la torcia e cominciò a vogare al largo.
Vogando sorrideva di quel suo sorriso sinistro che portava sempre
disgrazia.

— _Don Nicò, ve volete senti ’nu fattarello?_...

— _Conta, conta, Ciccillo_ — rispose don Nicola a prua, accendendo la
pipa.

— C’era una volta un pescatore ammogliato....

E lo storto maligno rideva, rideva....

                                   *
                                  * *

La vecchia in bottega, rannicchiata sopra una seggiola, russava
allegramente. Nennella aveva le lacrime agli occhi: quello storto
maligno portava la jettatura, doveva succedere qualche disgrazia,
doveva succedere.

Adagio, adagio, prese il sacco delle castagne e cominciò a tagliarne
la scorza con un coltellino che le pendeva dal grembiale, poi accese
il fuoco e le mise ad arrostire sulla padella bucherellata: lo stradone
s’era fatto buio, solo lunghe file di carri carichi di vino, passavano
lasciando nell’aria rumori di sonagliere e schiocchi di fruste.

Cuocendo le castagne Nennella pensava a lui. Perchè glie lo avevano
consegnato? Che cosa aveva fatto?...

E le pareva di vederlo a mezzanotte arrampicarsi furtivamente sul muro
di cinta e spiccare un salto. Dio! Dio! quell’idea la faceva fremere.
Quel maledetto muro era tanto alto!...

Intanto qualche soldato rientrava in quartiere, l’ora della ritirata
si avvicinava e lo stradone si andava rianimando. Carmela la Rossa
riapriva il balcone per vedere se Gigli, il caporal maggiore della 6ª,
rientrando in quartiere guardava Nennella: tutte le comari escivano
sulla strada chiacchierando e i monelli correvano incontro alla fanfara
che si avvicinava.

Anche Nennella sulla porta della bottega aspettava Lo Cicero: voleva
pregarlo di decidere Bista a rinunziare al suo progetto; aveva paura
che gli succedesse qualche cosa; ma non gli riuscì di vederlo in
quella confusione di gente che marciava compatta dietro le trombe
squillanti. Due o tre coscritti si fermarono a comperare delle castagne
poi passarono in frotta molti sott’ufficiali e al passo di corsa i
ritardatarii, poi più nulla.

Nennella chiuse la bottega, mise a letto la vecchia madre addormentata
sulla sedia e aspettò.

Sulla porta del quartiere Bista fermò Lo Cicero.

— Hai fatto?

— Ho fatto.

— Che disse?

— Hai paura che ti scoprano: bada a te!...

E si separarono.

                                   *
                                  * *

Battista Carmelo era un bravissimo giovane. Non aveva che un difetto:
era caparbio come un mulo: quando si metteva in testa qualche cosa
aveva da essere quella ad ogni costo. Invano gli amici e i superiori
l’avevano avvertito più volte che quel difetto poteva portargli
conseguenze assai gravi: Bista non voleva correggersi.

Quel giorno il tenente osservò che il caporale Carmelo non prestava
la solita attenzione all’istruzione delle reclute e lavorava di
malavoglia; dopo averlo più volte ammonito, visto che le parole
tornavono inutili, lo consegnò.

Quella prima punizione fece a Carmelo l’effetto di una coltellata.
Appunto quella sera aveva bisogno d’esser libero, e Nennella lo
aspettava per un certo progetto.... No, no; era impossibile, lui in
quartiere non ci voleva stare; sarebbe uscito lo stesso malgrado la
consegna; ma.... e poi?...

Uscire non era possibile; alla porta c’era d’ispezione il sergente
della sua compagnia che lo avrebbe fermato senz’altro, e poi lo avrebbe
dato mancante alla chiamata dei consegnati. Allora pensò di _saltare la
barra_ e pregò Lo Cicero di avvisare Nennella.

Saltare la barra era presto detto; il muro di cinta era alto, le
finestre della camerata altissime; inoltre il muro di cinta era
guarnito da una quantità di vetri rotti acuminati e taglienti che
dovevano rendere poco agevole la scalata. Così pensando girava per il
cortile come belva in gabbia, cercando di orientarsi, di trovare una
soluzione al problema. E si domandava come avevano fatto certuni che
si vantavano di aver saltato la barra tante volte; allora si ricordò
di Gamberini della 7ª l’amante di Rosa Catena, che assicurava di aver
seguitato un mese a star fuori tutte le notti, e cominciò a cercarlo
dappertutto.

Finalmente lo trovò: lo invitò a bere in cantina, e lo pregò a volergli
insegnare il modo di _farla franca_. Gamberini diede le indicazioni
necessarie, e promise che a mezzanotte in punto si sarebbe trovato sul
posto per aiutarlo.

In quelle tre lunghissime ore, dal secondo segnale del silenzio alla
mezzanotte, Bista soffrì le pene dell’inferno; qualcosa dentro gli
diceva che avrebbe fatto meglio a dormire, che qualche disgrazia gli
poteva capitare, ma egli chiudeva l’orecchio alla voce della prudenza,
e si incaponiva sempre più; gli pareva che il suo proposito dovesse
essere irrevocabile ora che Nennella lo aspettava.

E frattanto tutti dormivano e il tempo non passava mai.

Alle undici, dopo essersi voltato e rivoltato da tutte le parti senza
poter trovare una posizione comoda, si alzò, si vestì pian piano,
traversò la camerata in punta dei piedi e scese in cortile. Quasi a
farglielo per dispetto, il cortile era magnificamente illuminato da una
luna splendida; passeggiare non si poteva, c’era da essere scoperti.
Ritornò in camerata e si gittò sul letto ad aspettare, febbricitante
d’impazienza, non avendo un muscolo che tenesse fermo: quell’ora non
passava dunque mai?

Quando la mezzanotte gli parve vicina, sorse con precauzione dal letto
ed uscì dal camerone che gli pareva di soffocare; in cortile respirò,
non c’era nessuno. Si avanzò fino al luogo del convegno trepidante e
commosso; Gamberini non c’era ancora, bisognava aspettarlo. Suonarono
le undici e tre quarti all’orologio del quartiere, poi suonò la
mezzanotte, e Gamberini non si vedeva. Come fare? per scalare ci voleva
un aiuto, una mano, una corda, qualcosa insomma, e a quell’ora come
trovare quegli oggetti? Finalmente gli balenò un’idea; le scrostature
del muro gli fecero pensare che altri dovevano esservicisi arrampicati
appoggiandosi agli spigoli dei mattoni. Se altri erano riusciti perchè
non sarebbe riuscito lui?

Volle provare; agile e destro come era, in un istante fu a cavalcioni
del muro; aveva indovinato il punto buono; dalla parte opposta c’era
un salice enorme che gli tendeva i rami come un invito. Si aggrappò ad
un ramo e si lasciò scivolare giù sino al tronco robusto, poi spiccò il
salto e si trovò in campagna.

Appena raggiunta la strada provinciale vide in distanza una finestra
illuminata, quella di Nennella; evidentemente la povera donna lo
aspettava; procedè avanti quasi di corsa col cuore gonfio di gioia. A
venti passi dalla casa fece il solito fischio e Nennella spalancò la
finestra e disse:

— Vengo!

Ma nello stesso momento una mano poderosa lo afferrò alla nuca, ed
egli sentì penetrarsi tra le costole la lama diaccia d’un coltello.
Fu un istante. Carmelo cadde bocconi senza dir parola, e mentre Don
Nicola si dileguava a gran passi per il vicolo della Morte rimettendo
in saccoccia il coltello insanguinato, Ciccillo, il malefico aborto,
bussava alla porta di Nennella, gridando a perdifiato:

— Donna Filomè!... donna Filomè!... mi manda vostro marito a dire che
ringraziate la Madonna, chè la pesca è stata buona stanotte!...




AL DISTRETTO


I.

Scendendo dal treno dopo avere per un buon tratto di strada ricostrutto
colla fantasia tutti i capitoli della famosa _Disfida_, mi figuravo
Barletta una grande città e quasi quasi pretendevo di trovarvi
gli abitanti vestiti coi costumi di quell’epoca, maglie, brache e
giustacuore. Era una giornata di novembre splendidissima ed il _verde
malvagio Adriatico_ come per dare una smentita a Gabriele D’Annunzio,
era invece calmo come un olio e azzurro come gli occhi della mia Ninì.

Uscii dalla stazione e mi internai nella città storica.

Potenzinterra!... Di veramente medio-evale non scopersi che il Castello
e il sudiciume addensato nelle vie e sulle facciate delle case. Anzi,
ma che medio-evale! Il sudiciume doveva risalire senz’altro all’epoca
della fondazione della città e rimaneva là trionfalmente a dimostrare
non tanto la mancanza di scope, quanto l’olimpica.... come dire?
indifferenza degli abitanti.

Ma forse il Municipio lo lascia lì apposta per far vedere ai
forestieri.... il _colore locale_.

Domandai quale fosse l’albergo meno.... più.... insomma l’albergo
migliore e mi diressi a quello indicatomi; _La stella_, naturalmente
_d’Italia_, dove mi fu assegnata una camera sul genere famoso di quella
che toccò al Berni

    Udite Fracastoro un caso strano....

Ma lasciamo andare. Causa la presentazione dei coscritti al Distretto,
Barletta era animatissima; frotte di contadini affluivano da tutte le
strade di campagna, famiglie intere con gli asini, i muli, le vacche ed
ogni ben di Dio. Accampavano dappertutto come le tribù degli zingari;
sulla riva del mare era tutto un brulicame nero di gente, che mangiava,
beveva, dormiva tranquillamente come se niente fosse; la banchina era
presa di assalto, le osterie rigurgitavano, le scalinate delle chiese
ne erano gremite, la piazza del Castello addirittura invasa. Per le vie
non si camminava se non a furia di spinte, di calci, di gomitate, di
maledizioni.

Come Dio volle arrivai al Distretto; gli ufficiali degli altri
reggimenti aspettavano già di essere ricevuti. Il colonnello ci accolse
affabilmente, ci disse che il giorno seguente ci fossimo trovati tutti
alle otto del mattino e ci mise in libertà.

Un giorno intero di libertà. Oh la divina parola!...


II.

Trascrivo queste linee da un taccuino di note prese così _en amateur_.
La stanza grande del rapporto è riscaldata a 22 centigradi. Si soffoca.
Il colonnello è seduto ad un tavolo separato ed ha alla sinistra il
maggiore. Il capitano medico (bell’uomo, ancora giovine, baffi biondi
e spiccata pronunzia toscana) è in piedi vicino al pantometro; noi
tutti siamo seduti in circolo; sulla porta il piantone introduce gli
inscritti che il maggiore chiama.

— Passalacqua!...

L’infelice entra nudo come la mamma lo ha fatto; ho osservato che
entrano tutti col capo basso, vergognosi, nella pudica posiziono
della Venere dei Medici. Tutti gli occhi si fissano sul povero diavolo
avidamente, esaminandolo, pesandolo, analizzandolo, squartandolo quasi
per veder come è fatto; l’ufficiale dei bersaglieri gli misura a vista
il torace, quello di cavalleria gli esamina le coscie e l’inforcatura,
quello d’artiglieria il sistema muscolare delle braccia e delle gambe;
quelli di fanteria invece lo guardano coll’indifferenza di coloro che,
belli o brutti, sono obbligati a prendere quelli che loro si danno.

Passalacqua, nella pudica posizione sopra descritta, si ferma peritoso
sulla porta.

— Venite avanti, giovanotto, venite avanti!

Il povero diavolo si avanza tremando; ha il viso, il collo e le mani
color di certe terrecotte antiche, i piedi assolutamente neri e di una
grandezza inverosimile, il corpo bianco.

— Ti raccomando quelle _basi granitiche_, — mi dice Rosati indicandomi
i piedi di Passalacqua.

— Vi chiamate Passalacqua?

— Sissignore.

— Che mestiere?

— Contadino.

— Sapete leggere e scrivere?

— Nossignore.

Il capitano medico lo fa mettere sul pantometro e il sergente lo misura.

— Uno e cinquantasette.

— È piccolino!...

Il capitano gli misura il torace.

— Ottantuno.

Gli ufficiali di cavalleria, di artiglieria, dei bersaglieri, non lo
guardano nemmeno più, non è roba per loro.

Il medico lo dichiara _abile_.

— Mi pare che sarebbe il caso di metterlo in fanteria... — dice il
colonnello.

— Direi anch’io.... — risponde il capitano.

— Bè! qual’è il reggimento più anziano?

Io mi alzo.

— Questo giovanotto è suo.... — e sorride malignamente.

— Tante grazie!

Mi seggo e segno Passalacqua sul mio taccuino non senza fargli il
relativo pupazzetto. Gli altri amici, di nascosto, mi danno la baia.

— Bel pezzo di giovine, per Dio!

— Peccato che abbia le gambe storte!

— Se sei buono a trovargli un paio di scarpe che gli vadano bene, ti
pago un pranzo!

— Aspettate, aspettate, rispondo io, ce ne sarà per tutti!

                                   *
                                  * *

— Kyrieleyson!

Tra le risate generali suscitate dalla bizzaria del nome, entra un
pezzo d’accidente che sembra l’Ercole Farnese senza la clava.

— Cristo, che muscoli! E quello se ti tira un pugno sai dove ti manda?
dice Rosati. Tutti ammiriamo quelle forme atletiche, tanto più che il
nome di sacrestia faceva invece prevedere un.... sacrestano.

Mori, il tenente dell’artiglieria da montagna, si alza in piedi e lo
degna di un serio esame.

Il medico lo misura. Altezza 1,85, torace un metro.

— Questo lo piglierei io, — dice Mori.

Nessuno pensa a contestarglielo; non c’è che dire, Kyrieleyson è fatto
apposta per portare un cannone sulle spalle.

— Va bene. Artiglieria da montagna. Andate pure.

                                   *
                                  * *

Il colosso scappa tutto allegro battendo le mani.

Accadono delle scenette curiose; quando si alza Robecchi di
Genova-Cavalleria il povero diavolo che è sotto l’antropometro si mette
a piangere.

— Cosa c’è da piangere? — gli fa il capitano pigliandogli il ganascino.

— _Signor Capitane i’ nun ce voglio ij in cavalleria...._

— E perchè?

— _Perchè so’ cinc’anne..._

— Ci vuol pazienza, figlio mio.

— _Signor Colonnello per l’amor de Dio!_ — e volge intorno a tutti noi
uno sguardo disperato, invocando il nostro soccorso.

Ma Robecchi lo ha notato sul taccuino e cerca di consolarlo....

                                   *
                                  * *

Chi ha assistito una mattinata intera all’_assegnazione_, esce di
lì con molte convinzioni profondamente scosse, la prima tra le quali
quella che l’uomo sia il più bello degli animali: che sia un animale
sta bene, ma il più bello poi!...

Perchè bisogna pure ammettere che un uomo brutto è sempre inferiore ad
un animale bello, sopratutto quando l’intelligenza si pareggia. Basta,
ho assistito allo sfilare di una nudità maschile che non era in verità
tutta composta di Antinoi, anzi!...

Quanto avrei pagato ad essere in quel momento l’illustre Mantegazza!...

Quello che è positivo è che ci hanno tenuto lì quattro ore senza
rivolgerci una parola a noi di fanteria, e alla fine il colonnello,
che è senza dubbio una persona intelligente, ci ha dispensato
dall’assistere per l’avvenire a quella cerimonia soffocante e poco
profumata.

— Tanto per quello che ci fanno qui, lor signori!... — ha detto
sorridendo.

— Sicuro, ha ragione, per quello che ci facciamo!... Siam come il due
di briscola!

                                   *
                                  * *

Mentre queste scene accadono nella sala dell’_assegnazione_, nella
saletta attigua quelli già visitati si rivestono dei loro panni,
allegri o tristi secondo le diverse sorti e scendono in cortile
lasciando il posto agli altri. Davanti alla porta del Distretto la
folla è enorme; la sentinella, gli uomini di guardia non sanno come
fare a tener sgombro il passaggio, a far stare indietro tutta quella
gente. Le prime file sono tutte formate di donne, le mamme, le sorelle,
le mogli dei coscritti, che aspettano di vedere i loro cari, di udire
la loro sentenza. Ogni momento sono addosso alla sentinella che ha la
consegna di non lasciar passare nessuno.

— State indietro, buone donne, state indietro....

— Ma non vedete che spingono?...

— State indietro vi dico; cosa volete vedere qui davanti?... Tanto non
vedete nulla.

Ma sì, è lo stesso che parlare al muro; tutte vogliono vedere, tutte
hanno qualcosa da domandare al caporale ed ai soldati di guardia.

— Fatemi il piacere — dice una vecchia piangendo — chiamatemi un
momento Giovanni Piscitiello.

— Non si può.

— Un momento solo per sapere dove l’hanno messo.

— Ora lo saprete, a momenti scendono — dice il caporale.

La folla si acqueta, ascolta i rumori che vengono dall’interno del
quartiere. Scendono! Scendono! si sente lo scalpiccìo di molti piedi
per le scale; le donne si raccomandano a tutti i santi.

— Largo, largo!

Passa un drappello di coscritti che vanno al Castello accompagnati da
un sergente e da due caporali.

La folla si divide; è un vociferare altissimo, un chiamare e
rispondere affrettato, un agitar di mani, di braccia, di fazzoletti;
nella confusione si distinguono le parole di _abile_, _rivedibile_,
_fanteria_, _bersaglieri_ che sono su tutte le bocche. Le mamme si
gettano arditamente tra le file del drappello e riempiono di pane, di
fichi secchi, di forme di cacio le tasche dei figli, come se andassero
in Siberia. Il sergente si fa in quattro per riordinarli, per metterli
a posto, per mandarli avanti.

— Che reggimento? Che reggimento?

— 5º fanteria.

Il drappello è uscito dalla piazza.

Ad uno ad uno escono tutti e dieci, accolti dallo stesso schiamazzo di
voci assordanti e la piazza si comincia a spopolare; tutti i parenti
dei coscritti seguono i drappelli al Castello confusamente.

L’ultimo a uscire è il drappello accompagnato dal sergente di
cavalleria, che solleva un uragano di pianti, di imprecazioni, di
interiezioni, di bestemmie.

— Cinque anni! poveretti! cinque anni!

E il numero fatale è ripetuto tra i singhiozzi, dal gruppo delle mamme
e delle comari.


III.

Siamo nel magazzino del Distretto; una vecchia chiesa ridotta a
quell’uso, dove è un potentissimo tanfo di rinchiuso, un forte odor di
pepe, di olio rancido, di cuoiame.

I drappelli degli inscritti sono allineati contro al muro e hanno
dinnanzi a loro il rispettivo ufficiale e i graduati, i piantoni vanno
e vengono carichi di scarpe, di biancheria, di cappotti, di zaini,
di kepy; i furieri scrivono, il maggiore passeggia, gli ufficiali
contabili sorvegliano le distribuzioni. Ogni dieci minuti la voce del
maggiore echeggia sotto la volta altissima.

— Silenzio per Dio! facciano far silenzio!

C’è una stanzetta apposta per la distribuzione delle scarpe; i
drappelli entrano uno per volta, si mettono contro il muro; i coscritti
si tolgono le scarpe e mettono i piedi nel pedometro di legno; certi
piedi e certe calze!... Il sergente dice i numeri: due paia del 27 due
del 28, quattro del 29, tre del 30 e uno del 31.

Il piantone porta le scarpe e le distribuisce, i coscritti le misurano;
subito comincia la litania delle lamentazioni.

— Sor tenente mi vanno larghe....

— Sor tenente mi vanno strette....

— Cambiatele tra voi due, vediamo.

— Sor tenente mi fanno male.

— Dove? Cambiatele anche voi con queste qui.

— Sor tenente son troppo grandi....

— Sor tenente son troppo piccole....

— Eh! andate al diavolo! Un momento, un po’ di pazienza sacr...! Con
quella zampa lì ci vuol altro che il 27! Caporale, dategliene un paio
del 30.

Dopo un’altra mezz’ora di cambiamenti nessuno reclama più, le
scarpe finiscono per andar bene e si ritorna nel gran magazzino dove
distribuiscono il resto.

Ricominciano le misurazioni degli oggetti di panno; una scena comica;
a certuni piccoli son capitati dei cappotti che toccano in terra,
che li fanno parere impiegati delle pompe funebri; a quelli alti dei
cappottini che fanno ridere, colle maniche che arrivano al gomito.
Non parliamo dei pantaloni di panno e di tela, veri abissi di roba nei
quali, a cascarci dentro, non c’è più da cavarci i piedi. Le litanie
continuano. Il tenente, il sergente, i caporali, tutti intorno a questi
poveri diavoli a spogliarli, a rivestirli cento volte in un minuto,
abbottonando e sbottonando giubbe e cappotti, voltandoli e rivoltandoli
e tirandoli in tutti i sensi.

— State dritto per Dio! Cosa guardate? lasciate guardare a me! Se non
vi sapete vestire sfido!... tirate su quei pantaloni.... più su.... già
sono un po’ lunghi.... levatevi quel cappotto....

Finalmente ci siamo: si passa alla distribuzione della roba minuta,
il sacchetto degli oggetti fuori d’uso, il sottogola, la nappina, il
ginocchiello. Ad ogni oggetto nuovo che si distribuisce, i coscritti
cascano dalle nuvole, si guardano in faccia meravigliati, ci ficcano
dentro le dita, lo voltano in tutti i sensi. I caporali, gli appuntati
danno le spiegazioni sorridendo.

— Questi sono i sacchetti per il sale, questi sono i sacchetti per le
gallette....

— Cosa sono le gallette?

— Lo vedrete al Reggimento che cosa sono!

La distribuzione è finita; i coscritti mettono tutto nel telo da tenda,
fanno un gran fagotto, se lo buttano sulle spalle e via al Castello....

E così tutti i giorni....


IV.

La partenza da Barletta ed il viaggio da Barletta a Palermo non sarò
capace di dimenticarli campassi cento anni.

Dopo un mese di dirozzamento, di marcie e contromarcie dal Castello al
Distretto e viceversa, di _istruzione individuale_ sulla piazza del
Molo, i soldati s’erano un po’ svegliati, marciavano di già quasi al
passo per due e per quattro; molti anzi portavano già l’uniforme con
qualche spigliatezza, inclinavano il berretto a destra come i soldati
anziani, stringevano a più non posso la martingala del cappotto.
Il giorno della partenza li misi in rango al Castello, li passai
in rivista, feci un mondo di raccomandazioni sul modo di contenersi
durante la lunghissima marcia e via....

Alla stazione bisognò farsi largo con i pugni, con i gomiti, con
gli urli, colle minaccie, per potere entrare sul piazzale; le donne
si gettavano tra le file, costernate, piangendo, portando ai figli
dei sacchi pieni di pane e di vivande; tutti entravano nei ranghi,
fratelli, sorelle, compaesani. Una disperazione.

— In rango per Cristo!... — urlavo io.

Il sergente, i caporali, gli appuntati, persino il mio attendente
percorrevano di corsa tutta la colonna per rimettere a posto gli
sbandati, per cacciare dai ranghi gli intrusi.

Finalmente si riuscì a penetrare nella stazione, a mettersi in ordine
sotto la tettoia aspettando il treno: molti coscritti piangevano.

La folla rimasta di fuori si addensava contro lo steccato urtandosi
come le onde di un mare in burrasca; le mamme in prima linea si
aggrappavano alle aste, chiamando i figli a voce alta, pregando,
supplicando di lasciarli loro vedere ancora un minnto, per un bacio
solo....

Il treno stava per arrivare.

Ad un tratto sotto lo sforzo enorme della folla una parte dello
steccato si ruppe; subito un fiotto umano si riversò sulla banchina
dilagando come un torrente che straripi; nessuna forza avrebbe
potuto respingere quella folla quasi tutta composta di donne. Bisognò
rassegnarsi a lasciarla entrare, limitarsi a serrar di più le file coi
graduati. Io ero all’estrema destra; la folla mi stringeva da tutte
le parti, tutti mi supplicavano piangendo, ringraziando, benedicendo:
arrivavano sempre donne cariche di vettovaglie, di maccheroni, di
bottiglie di vino, di sigari.

— Sor tenente mio, vi raccomando mio figlio....

— Sta bene, non abbiate paura.

— Sor tenente mandatelo in licenza per Pasqua...

— Sì, sì, li manderemo tutti....

Finalmente arrivò il treno; un treno lungo e nero come un serpe.
Quando dopo un buon quarto d’ora di fatica, i coscritti furono tutti
dentro, il popolo diede l’assalto al treno; le predelline erano zeppe
di gente; dagli sportellini continuavano a passare vettovaglie, pane,
vino, sigari, continuava lo scambio dei saluti a voce alta, i pianti
delle mamme. Invano la cornetta squillava, invano il conduttore badava
a gridare: Partenza!... Nessuno si muoveva. Finalmente un po’ colla
persuasione, un po’ colla forza si riuscì a far discendere tutta quella
povera gente dalle predelline.

Ispezionando i vagoni occupati dai miei coscritti e ripetendo le
esortazioni già fatte di non scendere a nessuna stazione, vidi un piede
umano uscente di sotto a una panchina.

— Cosa diavolo c’è? — dico.

Afferro il piede e tiro.

Un coscritto pallido come un cencio, si alza in piedi.

— Signor tenente è mia madre.

— Vostra madre?

La povera vecchia era uscita fuori dall’incomodo nascondiglio tutta
spaventata, colle lagrime agli occhi.

— Per l’amor di Dio, sor tenente, non ci dite niente a mio figlio. La
colpa non è sua; sono stata io... per accompagnarlo fino a Bisceglie.

— Scendete, buona donna, scendete!...

— Mi lasciate dare un altro bacio a Pietruccio mio?

— Sì, ma fate presto, che si parte....

La vecchia baciò ripetutamente Pietruccio raccomandandogli di star
buono, di voler bene al signor tenente....

— Presto sacr...! — gridava il capo stazione.

La presi per la vita e la deposi a terra; mentre scappavo per
raggiungere il mio scompartimento, ella mi corse dietro, mi afferrò
una mano, me la baciò e poi mi infilò nel braccio una corona di fichi
secchi.

— Prendete _signori_’ — non ci ho altro....

L’ultimo fischio e subito la locomotiva si mise in moto; i soldati
cantavano, quelli ai finestrini sventolavano i fazzoletti: dalla
banchina, dalla strada, dalle siepi fiancheggianti, un urlo immenso
rispose, un grido d’addio, di angoscia straziante.

Quel treno lungo e nero come un serpe strisciava sulle rotaie
metalliche mettendo un fischio continuo, acuto, come il dolore di tutte
le madri che egli si lasciava dietro piangenti....

I soldati cantavano....




CAMBIO DI GUARNIGIONE


Nessuno, nemmeno i vecchi del paese, si rammentava di aver visto tanta
gente sulla Piazza del Duomo come in quella domenica che la musica del
Reggimento suonava per l’ultima volta. Nella cittaduzza era fin dal
mattino un’agitazione vivissima; la piazza era imbandierata, il Caffè
del _Centro_ e quello della _Prefettura_ erano a sera sfarzosamente
illuminati in onore del Reggimento partente.

Dalle otto finestre del Circolo Sociale che gettavano sulla folla
sottostante otto grandi zone luminose, partiva il rumore confuso ed
allegro di un banchetto.

Erano i notabili del paese che avevano offerto un pranzo d’addio agli
ufficiali, pranzo che doveva terminare in una gran festa da ballo.

Le vie tutte della città formicolavano di soldati, il colonnello aveva
fissato la ritirata alle dieci e concesso un’amnistia generale ai
consegnati e ai prigionieri. E nelle strade era un viavai, un chiamarsi
e un rispondersi, un aprire e un serrare di usci, un vocìo animato,
un pispillorìo allegro, un tintinnìo di bicchieri uscente dalle porte
aperte delle osterie. Sulla piazza la musica suonava assai bene la
_Sinfonia del Barbiere_, ma nessuno vi badava, assorto nella grande
preoccupazione del domani, dominato suo malgrado da un’emozione dolce
di cui non sapeva spiegarsi la causa.

Sotto il portico militari e borghesi passeggiavano a gruppetti di
tre, di quattro, a braccetto, parlando vivacemente, intorno al palco
della musica altri capannelli si formavano tra i soldati e le duecento
ragazze della filanda, quasi tutte malinconiche, quasi tutte pallide
del pallore smorto di chi vive in un ambiente viziato; ma tutte vestite
con cura speciale, con una pretensione di eleganza. I fazzoletti rossi
del collo e i garofani fra le treccie, alla luce raddoppiata del gas e
dei lampioncini alla veneziana, gittavano sul quadro tinte vivaci.

Su, nel gran salone del Circolo, il frastuono cresceva ed usciva a
ondate, insieme ad una nebbiolina luminosa, dai grandi finestroni
spalancati. Era l’ora dei brindisi. Squarci di frasi sonore passavano
di tanto in tanto sul capo della folla accalcata sotto al circolo
bianco della luce elettrica uscente dall’ampio portone medioevale;
la folla avida tendeva l’orecchio, si rizzava sulla punta dei piedi,
elettrizzata da certi applausi lunghi, da certi battimani fragorosi che
echeggiavano sulla piazza.

Di fronte, sulle pareti nude di vecchio convento del Palazzo della
Prefettura, in uno dei grandi scacchi di luce proiettati dalle
finestre del Circolo, si disegnavano, straordinariamente ingrandite,
le ombre dei brindatori. Ad un certo punto la folla riconobbe un’ombra
voluminosa dalla testa caratteristica, con lunghi baffi appuntiti.

— Il colonnello!... parla il colonnello!...

Sul muro l’ombra faceva gesti vivaci con un braccio levato in alto
che teneva il calice dello _Champagne_ e l’altro che si agitava in
una mimica eloquente. Poi, tra un uragano d’applausi, l’ombra sparì
ed un’altra più snella, più esile, apparve nel quadrato del muro,
timidamente.

— Il tenente Polvani!

Era lui, il soldato-poeta, il brindatore immancabile, l’artista gentile
per cui le signore e le signorine della piccola città avevano sempre
avuto un debole. Parlando, la sua ombra si agitava, le sue braccia
avevano larghi gesti drammatici. La musica taceva, tutti tacevano; di
tratto in tratto una strofa alata gittava su quella folla ascoltante un
soffio di poesia, una vampata di entusiasmo.

Polvani improvvisava; c’erano nella sua voce dolce, inflessioni
carezzevoli, slanci lirici di tenore.

Le sue ultime parole furono coperte da applausi furiosi.

Il pranzo era finito. Nella zona bianchissima della lampada elettrica
la sfilata dei banchettanti incominciò mentre la musica attaccava
un valtzer allegro; la folla fece largo. Passarono sorridenti il
Sottoprofetto, il Sindaco, il Colonnello, gli ufficiali superiori:
ancora applaudito, ancora festeggiato, Polvani scendeva attorniato dai
giovanotti del paese, dai suoi compagni; e il rumore argentino delle
sciabole battenti sul lastrico copriva il trillo vellutato dei flauti,
gli squilli olimpici delle trombe. In un momento il _Gran Caffè del
Centro_ rutilante di luce, fu invaso dai banchettanti, le signore in
giro per la piazza accorsero a sedersi intorno ai tavolini di ferro
sotto al padiglione chinese illuminato a lampioncini multicolori.

La musica suonava....

                                   *
                                  * *

Ma nelle altre straducole della città, nel buio misterioso dei viali
di circonvallazione, sotto i grandi platani di porta S. Giorgio, altre
scene sentimentali, altre cose succedevano. Si vedevano porticine e
finestre schiudersi misteriosamente e confuse _silhouettes_ di militari
uscire ed entrare; di tanto in tanto, sotto la luce rossigna di un
fanale a petrolio, una coppia passava rapidamente, un’altra si fermava.

Era l’ora suprema degli addii, l’ora degli ultimi baci, delle ultime
promesse. Quanti drammi d’amore in uno spazio così piccolo, quanta
tenerezza in quella semi oscurità misteriosa e discreta!...

Nel portoncino buio Nennella e Giuseppe Lo Cicero si tenevano
abbracciati strettamente.

Nennella piangeva: un affanno grande le opprimeva il petto come un peso
enorme e l’afferrava alla gola. Il triste momento della separazione era
venuto: non si poteva far nulla per differirlo, nulla per scongiurarlo.
E Peppino badava a consolarla carezzandola amorosamente sulle guancie
umide di lacrime.

— Giurami che ritornerai, giurami che non amerai mai altre che me! —
diceva Nennella singhiozzando.

Peppino si metteva una mano sul cuore. In buona fede egli giurava: e
poi perchè negare a Nennella quest’ultima soddisfazione?

In fondo era commosso anche lui: quella buona fanciulla gli aveva
voluto un gran bene; era lei che lo aveva salvato tante volte dalla
consegna rammendandogli i pantaloni di tela e la biancheria, cucendogli
i bottoni del cappotto, lei che quando egli era di guardia gli portava
di soppiatto i sigari e le castagne arrosto; lei che gli scriveva le
lettere per la mamma lontana, certe lettere piene di sentimento e di
amabili sgrammaticature. Povera Nennella!

E le accarezzava il mento pienotto.

In distanza le trombe squillavano le note di un’arietta popolare ben
conosciuta:

    Addio, mia bella, addio....

e la fanfara si avvicinava, seguita dalla musica, ripetendo il
ritornello birichino della canzone, mentre una gran folla di soldati
e di popolo traeva dietro al passo, in una pittoresca confusione di
colori.

— La ritirata! — disse Peppino Lo Cicero, baciando sui capelli Nennella
— bisogna che torni in quartiere....

Nennella scoppiò in singhiozzi gittandogli le braccia al collo: quella
brutta parola «Addio!» non la voleva pronunciare: era possibile che il
loro amore dovesse finire così?

E frattanto il ritornello della fanfara le ronzava nelle orecchie
vieppiù distinto con un tono canzonatorio che la indispettiva:

    Addio, mia bella addio
      l’armata se ne va....

Si scambiarono così gli ultimi baci disperati nell’oscurità umida
di quel portoncino: pareva che non si sapessero distaccare l’uno
dall’altra.

Venti volte Lo Cicero uscì sulla strada risoluto ad andarsene e venti
volte ritornò indietro per un’altra stretta di mano, per un altro
bacio.

— Tornerai davvero, Peppino?

— Sì, Nennella, in parola d’onore.

— Ricordati!

La ritirata e la musica erano di già lontane: bisognava spicciarsi per
non ritardare.

Lo Cicero prese una risoluzione eroica: strinse per l’ultima volta
Nennella piangente, disperata e le disse:

— Vieni alla stazione domattina alle quattro, hai capito?

E fuggì.

Dalle viuzze laterali, dai viali ombrosi, dalla campagna, altri
soldati, altri fantasmi scuri si avviavano frettolosamente verso il
quartiere; erano dieci, erano cento, erano duecento; sbucavano dalle
case e dalle osterie, da certe porticine nere dove una forma indecisa
rimaneva nel vano dell’apertura.

E camminavano a testa bassa, commossi, pallidi, come spinti da una
forza maggiore, verso la gran massa bruna del quartiere che spiccava
severamente nella chiara serenità della notte.

La cornetta del sergente Ruggeri, in mezzo all’accompagnamento dei
bassi, squillava altissima le note beffarde della canzone:

    Addio, mia bella, addio...

                                   *
                                  * *

Era ancora buio quando la stazione fu invasa dalla folla: la
stazione era piccola e soltanto pochi privilegiati avevano l’onore
di passeggiare sulla spianata, di girare per le sale d’aspetto. La
gente stava tutta di fuori, sul piazzale, sotto i viali delle acacie;
una folla variopinta in cui l’elemento femminile predominava. Faccie
annoiate, faccie insonnolite, faccie abbattute da una veglia allegra
o penosa: occhi rossi di pianto e occhi gonfi di sonno. In mezzo
alla piazza un crocchio immenso: gli ufficiali in tenuta di marcia
colla sciarpa azzurra, colla borsa a tracolla, facevano gli ultimi
saluti ai signori del paese, alle autorità, alla _fine fleur_ del bel
sesso, delle arti, delle lettere. C’erano i professori del liceo,
gli studenti, molti avvocati; tra il Sottoprefetto e il Sindaco la
faccia risoluta del colonnello aveva un tono cerimonioso e leggermente
seccato.

E i capannelli si formavano e si disfacevano incessantemente come i
circoli nell’acqua di un lago turbata dai sassi, mentre la macchina
nera russava potentemente spalancando le due immani pupille rosse nella
nebbia caliginosa.

— Si ricordino di noi!

— Li aspettiamo.

— Ci rivedremo a Roma, non è vero?

— E non si dimentichi di scrivere.

— Prenda un cognac!...

— Capitano, posso offrirle un caffè?

— Non si disturbi, grazie!

Le signore ancora in abito da ballo facevano circolo attorno alla
moglie del tenente colonnello che viaggiava col reggimento.

Nel recinto della stazione i soldati su quattro righe cogli zaini a
terra scambiavano cenni e saluti colla folla che si assiepava allo
steccato.

La campanella suonò. In un baleno ufficiali e soldati erano a posto:
al segnale _avanti!_ dato dalla tromba il lungo convoglio nero fu preso
d’assalto.

La gente, commossa, guardava....

Due minuti dopo il mostro metallico lanciò il suo fischio potente:
la musica suonò ancora una marcia, l’ultima. Dagli sportelli e dai
finestrini, gli ufficiali e i soldati sventolavano i fazzoletti
cercando avidamente nella folla una persona cara: mille braccia si
tesero in segno di saluto, mille nomi, mille addii furono pronunciati.
Il treno si mosse lentamente; la folla commossa salutava ancora quelle
mille giovanezze fiorenti che partivano per sempre lasciandosi dietro
tanti ricordi, tanti affetti.

Le fanciulle piangevano.

Pallida, scarmigliata, Nennella traversò la folla come un razzo e si
gettò sullo steccato. Il treno era ancor vicino: Peppino Lo Cicero
aveva sventolato il fazzoletto. Voleva salutarlo ancora, voleva correre
a stringergli la mano, ma era tardi.

Il lungo convoglio nero filò via sbuffando mentre salivano nell’aria,
insieme alle note della musica, le canzoni melanconiche dei soldati e
la stridula, infernale cornetta del sergente Ruggeri copriva tutto come
una risata squillante:

    Addio, mia bella addio....




IL SEGRETO DI ROSARIO


Il corpo di guardia del piccolo e vecchio forte di _Serre la Garde_ che
sorge sui fianchi dirupati del contrafforte d’Ambin, è una stanzetta
rettangolare malamente illuminata da tre finestre a feritoia e contiene
appena le quattro brande per i soldati, un tavolo, due panche e una
stufa di ghisa messa in un angolo che serve anche da unico fornello per
la cucina. Un corpo di guardia come tanti altri, colle pareti sudicie
e coperte di iscrizioni e di figurine tutt’altro che ortodosse, con
una fumosa lucerna a olio, una pala e una scopa in un angolo e la
tabella della consegna appesa al muro. La guardia si compone di un
caporale e tre soldati e da una sola sentinella di giorno sullo spalto
per sorvegliare la batteria ed impedire che estranei si avvicinino
a prender piani, disegni e rilievi. Il piccolo forte, assai antico,
è facilmente aggirabile in cresta e non ha altra missione che quella
di fiancheggiare la fortezza di Exilles che sbarra più sotto la valle
della Dora. La guardia, a causa della strada assai malagevole, parte da
Exilles fornita di viveri per quattro giorni e si rifornisce per altri
quattro giorni a mezzo di uomini di _corvée_ a cui viene consegnata
anche la posta.

Il 29 di ottobre, mentre la neve cadeva giù a falde larghissime,
avvenne il cambio della guardia: Rosario Esposito che faceva il
numero uno, indossò il cappotto e andò a rilevare sullo spalto il suo
camerata Chiodini che batteva i piedi gelati sulla neve camminando a
_bracc’arm_.

— Finalmente! — disse Chiodini, con un sospiro di sollievo come vide la
_muta_. E andò a collocarsi vicino alla garetta.

Si scambiarono la consegna a _presentat’arm_ mentre i due caporali
discorrevano tra di loro a bassa voce: poi Chiodini levò la baionetta
tutta bagnata, l’asciugò col fazzoletto e tutta la muta se ne tornò
frettolosamente nel corpo di guardia. Rosario Esposito rimase solo.

Mentre la neve cadeva fittissima dal cielo in fiocchi assai larghi, dal
fondo della valle saliva la nebbia: una nebbia densa di un grigiore
plumbeo che copriva il paesaggio intorno come una cortina. Rosario
entrò nella garetta, si strinse ben bene nell’ampio cappotto da scolta
sentendosi gelare il sudore addosso e correre per le vene un maligno
brivido di febbre. Tra la nebbia vide ancora la guardia smontante
che prendeva le armi e indossava lo zaino; udì qualche esclamazione,
qualche raccomandazione dei rimasti ai partenti.

— Buon viaggio!

— Pigliate la scorciatoia!...

— Grazie, va bene!...

Poi riconobbe la voce forte di Pippo Mauri che gridava prima di
richiudere la porta.

— _Salutateme ’a fornarella!..._

La porta del corpo di guardia si chiuse e dal tubo che sporgeva
dall’ultima feritoia, incominciò a sprigionarsi un fumo nero ed acre
che il vento cacciava sotto al naso a Rosario, facendolo tossire.

La notte scendeva rapidamente, un mare d’ombra era davanti a lui, un
vento freddo agghiacciava la neve appena caduta.

Rosario Esposito pensò con spavento alle due ore che avrebbe dovuto
passare così nel buio, tremante di freddo, raggomitolato in fondo alla
garetta, schiaffeggiato dal vento che fischiava per i finestrini senza
vetri; e per consolarsi cominciò a pensare al calduccio del corpo
di guardia dove la stufa russava, dove nel padellotto il lardo del
_ragôut_ canticchiava dolcemente. Col caldo, con una bella fetta di
carne e una buona razione di pasta ben condita, con un buon sonnellino
il suo malessere sarebbe passato. Era un po’ di freddo, niente altro;
non bisognava mica spaventarsi per così poco, diamine! Ci sarebbe
mancato altro che ammalarsi ora che il capitano gli aveva promesso la
licenza per Natale!

Il pensiero della licenza lo scuoteva, gli faceva rizzare il capo come
ai cavalli l’odor della stalla vicina. Faceva mentalmente i calcoli;
quattro giorni di viaggio per arrivare, due giorni per passare il
Natale a casa colla sua buona vecchiarella facevano sei: due per andare
alla macchia della Ferrata a pigliare _quella cosa_ che sapeva lui
solo, otto. Poi bisognava far finta di partire per andare a Mezzobosco
di nascosto a trovare Carmenella che l’aspettava col bambino. Ah! non
gliela volevano dare Carmenella, la sua sorella di latte, perchè egli
era figlio di un villano? Ebbene egli se l’era presa proprio il giorno
prima di presentarsi al Distretto, ed ora il fratello parroco doveva
venire alle buone, ora che c’era di mezzo il bambino. Ma intanto egli
non aveva capito bene che cosa fosse andata a fare Carmenella dalla
zia a Mezzobosco. Avrebbe voluto rileggere la lettera giuntagli quella
stessa mattina, dove si parlava di un sotterfugio, di preparativi, di
una chiesetta lontana dove un prete li avrebbe sposati di nascosto. Che
bisogno c’era di tuttociò?

Non sarebbe bastato che egli si fosse presentato al fratello Don
Fulgenzio col gruzzolo in mano e gli avesse detto:

— _Don Fulgè embè mo’ è fatta, dateci à benedizione e buona notte?!..._

Ma ora che ci pensava, come spiegare la presenza di quella grossa
somma nelle sue mani? Rivelare la cosa voleva dire essere obbligato
a dividere coi fratelli, mentre a lui conveniva tenersi tutto e far
credere a una fortuna insperata cascatagli dal cielo, un terno al
lotto, una vincita straordinaria.... Poi la somma era tutta in grossi
ducati napoletani di Francesco II. Come cambiarli quei ducati senza
destare sospetti? A Mezzobosco non ci sono cambiavalute e a Lauricella
nemmeno. Bisognava andare a Napoli o tornare indietro fino a Roma,
per convertirli a pochi per volta, dall’uno e dall’altro, in tanti
biglietti di banca nuovi fiammanti: ci occorrevano troppi giorni,
la piccola licenza non bastava. Allora? Rosario perplesso ritornava
daccapo alle suo congetture e non avvertiva nei polsi e nelle tempia un
calore insolito, un battito più accelerato, non avvertiva una grande
debolezza alle giunture delle braccia o delle gambe, una stanchezza
strana per tutte le membra.

Nella neve i piedi gli scottavano e le mani non sentivano più il freddo
della canna del suo fucile: il cappuccio lo soffocava e lo abbassò:
slacciò anche il cappotto da scolta esponendosi al freddo tagliente di
quella serataccia da lupi.

— Queste due ore non passano mai? — pensò.

Gli pareva di trovarsi sospeso sopra un abisso in quel nebbione
fitto che l’avvolgeva e gli toglieva quasi il sentimento delle cose:
e fissava tenacemente le tre feritoie del corpo di guardia da cui
una debole luce usciva, come se quei tre punti luminosi lo tenessero
ancora attaccato alla terra. Aveva nelle orecchie un ronzìo fastidioso
ed incessante, e la vista gli si appannava. Ricominciò a pensare, a
far dei calcoli mentali: mille ducati a quanto potevano equivalere
in lire italiane? Non lo sapeva bene ma sentiva che erano una piccola
fortuna. E se poi non li avesse trovati nella macchia? Se qualcheduno
scavando li avesse scoperti? Impossibile, si sarebbe saputo subito
nel paese, sua madre glielo avrebbe scritto. Poi non ci poteva essere
che lui che sapeva il segreto, ora che il suo povero babbo era morto
nella vigna all’improvviso, fulminato da un colpo apoplettico. Il
segreto gli apparteneva, dunque anche il gruzzolo, secondo la sua
logica di contadino. Finito il suo tempo avrebbe ingrandito la piccola
terra, avrebbe preso con sè sua madre e Carmenella, avrebbero fatto i
signori.... Ah! Ah! e Carmenella, la signorina Carmenella, la sorella
del curato che era rimasta contadina nell’anima sotto la vernice
dell’educazione che le avevano fatto dare a suo marcio dispetto,
sarebbe stata sua moglie in faccia a tutto il paese, e i galantuomini
di Lauricella si dovevano mordere le mani, si dovevano....

A questo punto parendogli che qualcheduno camminasse sulla neve uscì
dalla garetta: un chiarore fioco si avanzava terra terra.

— È il caporale, — pensò con un sorriso di soddisfazione.

— Esposito! — chiamò la voce.

— Presente! — rispose Rosario.

— Venite, il rancio è pronto!

Rosario si gittò il fucile dietro le spalle e seguì il caporale
barcollando come un ubbriaco.

                                   *
                                  * *

Nel corpo di guardia ci si stava d’incanto: la stufa era incandescente;
un buon odore di _ragôut_ solleticava lo stomaco e le nari. Il caporale
e i due soldati avevano disfatto le brande, le avevano collocate vicino
al tavolo dove ardeva un piccolo e sudicio lume a olio e mangiavano,
chi seduto e chi sdraiato, la loro porzione di umido colle patate nel
coperchio della gavetta.

Come Rosario comparve e depose il fucile alla rastrelliera Pippo Mauri
e Gennaro Lo Fascio lo accolsero con delle esclamazioni allegre.

— _Rosà, te si arriscallato?_

— _Tieni fame Rosà?_

— _Hai fatto l’ammore a lu frische?_

Ma caporal Catapano si alzò premurosamente prese una gavetta sulla
stufa e la porse a Rosario che si avvicinava.

— Mettetevi questo in corpo, vi riscalderà subito!

— _È meglio de lu foche_ — aggiunse Mauri.

— _L’aggio fatt’io...._ — disse con gravità Gennaro Lo Fascio.

Rosario Esposito si mise a cavallo della panca, trasse dal tascapane il
cucchiaio di stagno e cominciò a mangiare lentamente provando fin dalle
prime cucchiaiate un senso di sollievo; però nella pasta ci sentiva un
sapore curioso, un po’ amaro. Anche il _ragôut_ aveva lo stesso sapore.

— _Neh, Lofà? Tu che erba ci hai messo cca’ rinte? Tene ’nu sapore
amare...._

— _È la nebbia che te si’ magnate_ — rispose Lo Fascio ridendo.

Tutti risero e anche Rosario rise: ma non potè finir di mangiare e
corse a gettarsi sulla branda sbottonandosi tutto, quasi soffocato.

— Che avete Esposito? — chiese il caporale avvicinandosi.

— _Me sento male capurà...._

Allora anche gli altri scesero dalla branda e vennero intorno a Rosario
che smaniava all’irrompere subitaneo della febbre.

— _Che te senti, Rosà?_

Pippo Mauri gli mise una mano sulla fronte che scottava e disse
gravemente:

— _Tene a’ frebbe._

— Mettiamolo a letto — ordinò il caporale.

Tutti e tre si misero a spogliarlo delicatamente guardandosi in viso
un po’ spaventati; le carni del poveraccio scottavano come carboni
ardenti, i tendini guizzavano nell’imperversare della febbre.

Come l’ebbero messo sotto le lenzuola, il malato balbettò appena
intelligibilmente.

— _Tengo sete!..._

— Dategli da bere, — disse Catapane a Pippo Mauri.

Acqua non ce n’era più: Pippo Mauri andò a riempire di neve la sua
tazza di latta e la mise sulla stufa perchè si squagliasse. Poi come
l’ammalato si chetò e parve dormisse, caporal Catapane disse a Lo
Fascio:

— Voi domattina andrete a chiamare il medico ad Exilles.

— _Va bene capurà...._

Fuori il vento era cessato ma la neve continuava a cadere fitta fitta,
ce n’era di già uno strato di venti centimetri. Caporal Catapane
mise la sua accanto alla branda di Rosario e vi si sdraiò sopra tutto
vestito. Mauro e Lo Fascio si misero a cavallo alla panca vicino alla
stufa, accesero la pipa e cominciarono a tagliare con un coltello
certe castagne che mettevano poi a cuocere sul coperchio di ghisa
arroventato, parlando a bassa voce, interrompendosi per mangiare quelle
già abbrustolite.

— _Sta male assai lu piccirillo?_

— _Tene ’a frebbe forte...._

— _È state lu fridde...._

Tacquero e deposero la pipa per mangiare silenziosamente le castagne.
Erano due pastori di Massinico venuti su insieme, rotti alle fatiche
della vita randagia, ma pigri come tutti i pastori.

— _De che paese è Rosario?_ — domandò Pippo Mauri.

— _De Lauricella, addò cce fanno a’ festa pe’ S. Agata._

Come le castagne furono finite si alzarono pieni di sonno e vennero
alla branda di caporale Catapane che vegliava.

— _Capurà, jammo a dòrmere?_

— Andate.

— _Rosario comme sta?_

— Dorme.

— _Sperammoddio che se guarisce!...._

— Speriamo, domattina a chi tocca la muta?

— _Tocca a me_, — disse Pippo Mauri.

— Va bene, buona notte!

— _Bona notte capurà...._

Due minuti dopo Mauri e Lo Fascio dormivano saporitamente.

Caporal Catapano si alzò, aggiunse altra legna nella stufa, uscì a
prendere un’altra tazza di neve che fece squagliare e collocò sul
tavolo vicino al malato. Poi abbassò il lucignolo del lume e si
addormentò anch’egli vinto dalla fatica.

Sul piccolo forte perduto la neve cadeva silenziosamente.

                                   *
                                  * *

Alle sette della mattina Pippo Mauri svegliò Lo Fascio: una
sottilissima striscia di luce grigia penetrava a stento nel corpo di
guardia: l’atmosfera era irrespirabile.

Vedendo che Lo Fascio seguitava a russare, Pippo Mauri si vestì adagio
adagio e riaccese la stufa; poi andò alla porta per uscire, ma non gli
venne fatto di aprirla per quanto spingesse. Aprì invece le imposte
delle finestrine e vide la neve all’altezza della sua persona.

— Siamo in gabbia! — pensò. E svegliò il caporale e Lo Fascio. Unendo
i loro sforzi riuscirono ad aprire uno spiraglio per il quale uscirono
Pippo Mauri colla pala e Lo Fascio colla scopa, sulla piazzuola della
batteria c’era più di un metro di neve e nevicava ancora fitto fitto
come la sera prima.

Subito caporal Catapane volle che si sgomberasse dalla neve la
batteria, come era scritto sulla tabella della consegna, e si mise
all’opera anche lui armandosi di un badile. Lavoravano tutti e tre
di buona lena facendo a chi mandava la neve più lontana dallo spalto
per riscaldarsi. Pippo Mauri sgomberava dalla neve la garetta e la
piazzuola del cannone da 12, in barbetta.

— _Capurà, oggi nun se monta la sentinella?_

— E perchè?

— _Co’ stu tiempo chi ha da venì? Li lupi?_

— Non importa, è prescritto, — rispondeva Catapane inflessibile in
fatto di servizio.

— _Col capural La Pietra quann’è stu tiempo nun se monta...._

— E con me si monta invece.

Pippo Mauri abbassò la testa e continuò a lavorare. Ma Gennaro Lo
Fascio sospese a mezzo la sbracciata per dire:

— _E io aggi’ annà a Exilles a chiamà lu dottore? Co’ ssa neve nun
s’azzecca chiù à strada...._

Catapane rimase pensieroso e contrariato: la nevicata non accennava a
diminuire.

— Finiamo di sgomberare la piazzuola, poi vedremo.

Come la piazzuola fu sgombra Pippo Mauri montò in fazione e Lo Fascio
e Catapane andarono intorno alla branda di Rosario Esposito che aveva
aperto gli occhi e teneva la bocca spalancata per l’arsura delle fauci.
Era irriconoscibile, tutto il volto ed il collo macchiato di piccole
chiazze violacee, striate di sottilissime vene sanguigne.

— _Come stai Rosà?_

Rosario scuoteva la testa disperatamente, compassionevole a vedersi,
con le labbra gonfie e quasi tumefatte.

— _Vôi bbeve?_ — Domandò Lo Fascio.

Rosario accennò di sì colla testa. Dopo che gli ebbero dato da bere, Lo
Fascio chiamò in disparte Catapane e gli disse:

— _Mamma mia! E chillo se more!_

— Bisogna chiamare il medico subito, subito!

— _E come se fa?_ — rispose Lo Fascio accennando con un gesto largo la
vallata dove la neve continuava a cadere.

— Bisogna provare, Lo Fascio; volete lasciar morire così un povero
cristiano, un vostro compagno?

— _Va bbene, io ce prove!..._

Si legò le racchette alle scarpe, prese un bastone, il cappuccio e
partì....

Caporale Catapane ritornò vicino all’ammalato che spasimava ora
nell’atroce martirio di una sete inestinguibile ed emetteva un lamento
infantile, continuato, doloroso, inframmezzato di tanto in tanto da
qualche invocazione alla santa protettrice di Lauricella.

— _Sant’Agata mia, aiutateme! Sant’Agata mia si me guarisce t’accènno
vinte cannele ’e quattro libbre! Mamma mia, me moro!_

Caporale Catapane non sapeva come venirgli in aiuto; di già sentiva
di aver commesso un’imprudenza a lasciar partire solo Lo Fascio con
quel tempo orribile: avrebbe trovato la strada praticabile fino a
Exilles, o avrebbe dovuto tornare indietro? Eppoi se anche fosse
giunto a Exilles (e non vi poteva giungere prima di sera) il medico si
sarebbe arrischiato per quella strada pericolosa sempre, inaccessibile
addirittura ora con tutta quella neve? C’era da dubitarne.

Tuttavia sperava che almeno Lo Fascio giungesse ad Exilles per
testimoniare, se non altro, che il suo dovere di caporale e di buon
cristiano l’aveva fatto.

Intanto ebbe un’idea. Calmare la febbre di Rosario mettendogli della
neve sulla testa. I dottori all’ospedale non adoperavano le vesciche
piene di ghiaccio?

Dunque?.... Prese un asciugatoio e andò a riempirlo di neve che ebbe
cura di premere colle mani perchè pigliasse una certa consistenza:
poi annodando le cocche ne fece come una specie di guanciale su cui
posò delicatamente la testa del malato; la neve si liquefaceva subito,
correva per la branda a rigagnoli, bagnando le membra di Rosario che
scottavano.

— Ti senti meglio?

— _Nu’ poche_. Grazie!

Quando l’azione frigida della neve ebbe calmato alquanto la violenza
della febbre, Rosario si sollevò sopra un gomito e sbarrò gli occhi in
faccia a Catapane.

— _Capurà io saccio che moro prima de notte...._

— Ma no. Che idee! Stai tranquillo, dormi, — rispondeva caporal
Catapane tentando di sorridere, ma sentendo che qualcosa di tragico si
avvicinava.

Allora Rosario Esposito, a parole interrotte gli disse tutto il suo
breve romanzo con Carmenella, la sorella del curato del suo paese, e
gli raccomandò il suo bambino che era insieme colla madre a Mezzobosco.
E poi si fece giurare il più grande segreto su quanto stava per dire e
gli domandò se voleva incaricarsi di eseguire il suo testamento.

— Il tuo testamento? — domandò Catapane meravigliato.

— Sì, una cassetta con mille ducati d’argento, che si trova sotterrata
alla profondità di due metri dal suolo alla macchia della Ferrata,
nella spianata centrale, sotto la terza quercia a sinistra segnata da
una croce e da una cifra: _D_. Per mio figlio! — disse con voce fioca.

Catapane pensava che delirasse: ma Rosario aveva lo sguardo limpido e
fermo, la voce debole ma sicura.

— Ce l’aveva nascosto mio padre quando era al servizio della
baronessa Di Castro: per la paura del brigantaggio tutti sotterravano
e nascondevano i loro averi: la baronessa li aveva divisi in varie
cassette di ferro e li fece nascondere un po’ dappertutto.

«Ma ella era vecchia e sola: durante la rivoluzione la trovarono
scannata nel suo castello e mio padre rimase possessore del segreto che
rivelò soltanto a me come al maggiore della famiglia....

Aveva parlato molto e la fatica lo aveva prostrato: cadde in una specie
di letargo.

Era mezzogiorno: dalla piazzuola della batteria Pippo Mauri chiamava il
caporale.

Catapane si ricordò che non aveva il diritto di tenerlo tutto il giorno
in sentinella e che nessuno aveva preparato il rancio. E andò a levarlo
di fazione.

— Come sta? — disse Pippo Mauri entrando, accennando al malato il cui
volto diventava sempre più nero.

— Sta male, molto male!

— _Povero Rosario! se more?_

— Ho paura che non arrivi a sta sera....

— _Che male sarà?_

— Temo che sia tifo.

— _Mamma mia!..._

E corse a riscaldarsi alla stufa sbocconcellando avidamente un quarto
di pane. A un tratto domandò:

— _E Gennaro Lo Fascio?_

— È andato a Exilles per il medico.

— _Se fosse perduta la strada?_

— Speriamo di no.

— _Embè, ma nun se magna, oggi?_

— Fate il rancio voi, io non mangio per adesso.

Pippo Mauri mise sul fuoco una gavetta piena d’acqua con un pezzo di
carne cruda e un pizzico di sale e si sdraiò sulla panca aspettando che
l’acqua bollisse.

— _Capurà, nevica sempre?_

— Sì.

— _Mannaggia l’arema ’e San Gennaro! E quando fernisce?_

— Chi lo sa? — Rispose Catapane pensando a Gennaro Lo Fascio. Poi come
il rancio fu fatto, si decise anch’egli per qualche cucchiaiata di
brodo bollente e sbocconcellarono insieme la razione di carne guardando
di sottecchi il malato che non si muoveva.

La giornata passò tristamente così, accanto al letto del moribondo.
Catapane non poteva chiuder occhio, angosciato da cento timori.

Verso sera, mentre Pippo Mauri russava tutto vestito, Rosario Esposito
si rizzò per l’ultima volta a sedere sul letto, occhi schizzanti
dall’orbita, la faccia carbonizzata. Accennava coll’indice della destra
ad un punto lontano e disse a voce quasi inintelligibile:

— Nella macchia della Ferrata.... sotto la terza quercia a sinistra
segnata da una croce.... Per mio figlio!

E ricadde sul guanciale stecchito.

Catapane prese dal tavolo la lucernetta fumosa e l’avvicinò al viso di
Rosario: il viso era perfettamente nero, orribile a vedersi, e su quel
nero il bianco delle orbite si dilatava spaventosamente.

— Mauri! Mauri! — chiamò Catapane con un singhiozzo nella voce.

Mauri balzò in piedi di scatto.

— _Che c’è, capurà?!..._

— Rosario Esposito è morto!

— È morto?!...

Gli coprirono il viso col lenzuolo e si fecero il segno della croce.
Poi il caporale si mise in ginocchio vicino alla branda e disse:

— Preghiamo per l’anima sua!...

Pippo Mauri s’inginocchiò colpito da un terrore superstizioso. Fuori,
la raffica della neve si scatenava sul piccolo forte abbandonato e
il vento passava giù nella valle con ululati sinistri. Il chiarore
rossiccio della stufa illuminava di scorcio il triste gruppo,
tragicamente.




CAMPO IN MONTAGNA


  _Amica mia,_

L’altra sera alle 10 e mezza il trombettiere di guardia ha suonato la
sveglia.

A proposito: non ti ho ancora detto che ho lasciato la mia camera di
Bousson per la tenda del campo. Che smemorato, mio Dio! Basta, ora
lo sai; il mio battaglione è tutto accampato in collina, vicino ad
un’umile cappella di montagna che si chiama la cappella Cuognetto.

Dunque, come ti dicevo, l’altro ieri sera alle dieci e mezza il
trombettiere di guardia ha suonato la sveglia perchè alle undici si
doveva partire per l’esercitazione notturna di combattimento al colle
di Bousson.

Il maggiore ed i quattro capitani che erano andati a buttarsi sul
pagliericcio alle otto e mezza, dormivano saporitamente; i subalterni
invece giuocavano a scopa nella cappella che da ventidue giorni,
ahimè! non echeggia più di sante preci, non odora più d’incenso per la
semplice ragione che gli ufficiali vi hanno stabilita la loro mensa. Ti
immagini la stranezza del contrasto, non è vero?

Figurati una tavola lunga e stretta che va dalla porta all’altare,
intorno alla quale, due volte al giorno, sedici ufficiali, tutti
giovani, pieni di vita, provvisti di un appetito formidabile, si
seggono a mangiare.

Immaginati disposta in bell’ordine sull’altare, vicino ai candellieri
di legno inargentato, a destra ed a sinistra del crocefisso, una fila
di bottiglie di liquori, una piramide di tazze da caffè, una colonna
di piatti e di piattini, un trofeo di posate rilucenti; immagina
ancora, sempre sull’altare, disposti in un magnifico disordine,
un vasetto di Liebig, due zuccheriere, tre o quattro bicchierini
da cognac, una scatola d’aragoste in conserva, una bottiglia di
ciliege sotto spirito, una pepaiola di legno, una pipa dimenticata.
E poi, lungo i muri, un’infinità di quadri grandi e piccini, vecchie
litografie e cromolitografie, infantili abbozzi di pittura, acqueforti
del 700, incisioni in legno della vecchia scuola, abitini, ex
voti, dagherotipi, cuori d’argento, e appesi agli stessi chiodi un
impenetrabile, un mantello, una borsa-zaino, quattro o cinque salami.
Vicino all’acquasantiera tra S. Girolamo e S. Filomena, pende un
magnifico prosciutto e — cosa strana — i due santi hanno l’aria di
volerne assaggiare, tanto lo guardano con aria ghiotta; quattro fucili
in un angolo, casse, cassette e cassoni lungo il muro, un barile di
vino ed una damigiana in fondo. Ci sei? ne vuoi ancora? Aspetta: una
bandiera sventola fuori sull’angolo del tetto vicino alla croce di
ferro; sulla destra della chiesetta fumano i fornelli di una cucina
improvvisata, ricoperta di una intelaiatura di frasche; sul sagrato i
soldati puliscono le marmitte e le stoviglie chiaccherando: e _Tom_, il
magnifico _setter_ del capitano Gola, schiaccia un sonnellino al sole.

Dalle 4 del mattino alle 10 di sera, la cappella è sempre aperta:
all’alba gli ufficiali scendono a prendere il caffè uscendo dalla
loro tenda, mentre le compagnie passano in rango per l’esercitazione;
due soldati riempiono silenziosamente le tazze che gli ufficiali
sorbono silenziosamente, ancora un po’ addormentati ed a quell’ora
immancabilmente di cattivo umore; la luce rossastra di due candele
steariche lotta colla luce bianchiccia dell’alba che entra per la porta
spalancata mettendo sul muro delle ombre stranissime.

Più tardi, quando i soldati e gli ufficiali si arrampicano allegramente
pei boschi di pini e per le roccie di Punta Rascià o di M. Sises, per
la piccola porta aperta entrano trionfalmente nella cappella il sole e
le mosche come padroni assoluti. Il sole mette dei bagliori dappertutto
con una munificenza di gran signore, accende scintille luminose sulle
dorature dell’altare, sui candelabri, sul crocifisso d’argento; la
lampadina pompeiana che pende dalla volta, luccica come se fosse
d’oro; i cristalli delle bottiglie, dei bicchieri, hanno riflessi che
abbarbagliano; nel pulviscolo biondo è una danza di insetti minuscoli,
un rimescolio vertiginoso di piccolissime cose impalpabili, la polvere
animata delle cose inanimate che il sole colora. Dalla porta spalancata
entrano nell’umile chiesetta il sano profumo dei prati, il pispillorio
allegro degli uccelli, il fruscio argentino della Ripa, tutte le voci
confuse della montagna fresca e verde che sorride, che canta nel sole.
Allora la cappella montanina, così trasformata, assume un’aria di
festa colle sue bizzarre mescolanze di sacro e di profano; sembra una
di quelle chiesuole descritte da Walter Scott, che i templari ed i
frati guerrieri del ’300 costruivano qua e là nelle loro peregrinazioni
avventurose per il mondo; par di essere ancora nei monti delle Calabrie
ai tempi in cui le chiese godevano del diritto d’asilo. Anche i quadri
sembrano meno orribili e le immagini dei santi in cromolitografia meno
brutte! anzi c’è una testa di santa, uno studietto ad olio abbastanza
riuscito, che in quella luce gaia assume una grande espressione di
soavità.

In quell’ora e sotto la sorveglianza del grande Meano — il direttore
nato di tutte le mense — i nostri quattro armigeri lavorano ad
allestire la tavola, ed il cuoco, intorno ai suoi fornelli, escogita
qualche nuovo intingolo infernale per farsi maledire. È l’ora più
tranquilla della chiesetta, abituata da gran tempo ai lunghi silenzi
invernali, alle lunghe sieste estive.

Ma a mezzogiorno, appena si odono in distanza le trombe del battaglione
che rientra al campo, la chiesetta è ripresa da una gran febbre di
movimento di cui stupiscono assai i poveri santi così atrocemente
calunniati ne’ quadri che pendono alle pareti.

Dalle vicine marmitte esala un caldo vapore succolento che penetra
vivamente dappertutto; sulla tovaglia bianchissima si allineano i
tre piatti dell’antipasto, dove i pomidori mettono la nota allegra
e i peperoni la nota cupa del loro verde oscuro; nelle bottiglie di
cristallo scintilla il vino rosso del Monferrato; le porcellane di
Ginori, aristocraticamente filettate di azzurro, percosse dal sole,
hanno una dolce trasparenza d’alabastro.

Il battaglione arriva preceduto dalla fanfara, il maggiore alla testa
sempre fresco come se il calore di questo sole e l’affannoso salire
di queste erte scoscese, non giungessero a strappargli dalla fronte
una goccia di sudore; l’aiutante maggiore, rosso, sbuffante, acceso,
appoggiato all’_alpen-stock_ che lo fa sembrare (meno la barba) uno di
quei voluminosi pellegrini che dall’occidente si recavano in Italia
per prendere parte alle crociate, nella speranza di dimagrire e di
salvare il Santo Sepolcro. Seguono le compagnie in colonna di file
per quattro, i soldati grondanti di sudore, leggermente curvi sotto
lo zaino pesante, l’occhio acceso nella certezza del rancio e del
riposo. E gli ufficiali si fermano sul sagrato, si tolgono il kepì e
la sciarpa, si asciugano il sudore, danno uno sguardo soddisfatto alla
tavola apparecchiata, scoperchiano le marmitte in cucina, si preparano
l’antipasto di pomidori in insalata, si seggono al loro posto sulle
panche consunte dove un giorno sedevano — e dove sederanno appena
ribenedetta la chiesa — i fedeli montanari. Allora sembra di assistere
ad uno di quei pantagruelici banchetti in cui, dal più al meno tutti
fanno la parte di Gargantua. Nel primo quarto d’ora non si sente che
l’acciottolio dei piatti e il tintinnar dei bicchieri e il diluviare
delle mascelle che divorano a quattro palmenti: scodelle enormi di
minestra spariscono come per incanto nei potenti ventricoli giovanili,
bistecche e costolette inverosimili sfilano in un baleno; il direttore
di mensa si guarda d’attorno spaventato. Poi, calmato il primo impeto
della fame, gli scilinguagnoli si sciolgono eccitati dal vinetto
razzente del Monferrato, ed i discorsi volgono tutti sulle peripezie
della manovra mattutina, sulle erte salite, sulle discese a rompicollo,
sui celeri aggiramenti che hanno deciso delle sorti della giornata.

Si discute sulle manovre che rimangono ancora a farsi, sulla festa del
campo, sull’agognato ritorno alla guarnigione dove ognuno ha lasciato
un’attrattiva segreta, un sogno inconfessato, una speranza che potrebbe
divenire realtà. Alle frutta i discorsi cadono; le palpebre si fanno
grevi; ognuno cerca mentalmente un angolo ombroso dove riposarsi:
la tenda è un forno crematorio, la collina, tutta a grano, non ha
un albero: ma qualcuno ha scoperto accanto alla Ripa un boschetto
delizioso dove è dolce sognare cullati dal rumore dell’acque che si
rifrangono sul macigni; qualcun’altro pensa al fresco sacro della
cappella, all’ombra protettrice dei santi.... Dopo un’ora la chiesetta
alpestre è diventata un dormitorio; dalla porta il sole non irrompe
più, le mosche, nel buio ronzano allegramente e seccano i dormenti. Pei
campi, dappertutto dove è un filo d’ombra, si veggono soldati sdraiati
che dormono.

È l’ora della canicola.

                                   *
                                  * *

Ma io al solito divago; perdonami; ti dicevo dunque che l’altro ieri a
sera il trombettiere ha suonato la sveglia alle 10 e mezza.

Era una di quelle settentrionali serate di novilunio in cui le stelle
nell’azzurro profondo hanno un raddoppiato scintillio che mette nel
cielo come una diffusa luce opalina, impotente però a dissipare le
tenebre che avvolgono la terra; una di quelle notti in cui pare di
camminare col capo nella luce e coi piedi nel buio.

Allo squillo della tromba subito le tende si accesero; il campo, visto
dal sagrato della chiesa, aveva un fantastico aspetto; sembrava un
paesaggio intravisto in sogno, illuminato qua e là da interrotte luci
trasparenti. Si udiva il vociare confuso dei soldati, si udivano i vari
rumori di un campo che si ridesta; nella perlata serenità del cielo
i monti parevano d’inchiostro e segnavano una linea di demarcazione
brusca e dura. Gli ufficiali presero il caffè e raggiunsero le
compagnie che si mettevano in marcia per il viottolo angusto e sassoso
che conduce a Bousson.

Ad un tratto, appena dato l’ordine di accendere le lanterne da campo,
parve che una processione misteriosa e solenne passasse davanti alla
cappella spalancata; dai prati un venticello assai fresco levava il
profumo del timo; sotto i piedi dei soldati frusciava una piccola vena
d’acqua corrente.

Si andava così, tastando il terreno colla punta del bastone,
inciampando di tanto in tanto nei ciottoli del sentiero alpestre. A
Bousson la processione delle lanterne divenne più lunga, smisurata,
come un serpe.

Su, su in silenzio per la strada di Bonne Maison tra la macchia
nera di Cima Corbioun da una parte e i prati collinosi di Chalpes
dall’altra; la strada si svolgeva in piccole giravolte, erta e sassosa,
come il letto di un torrente, fiancheggiata dal rio Servierèttes che
scintillava a tratti nell’ombra.

L’ascensione è durata due ore; tutti camminavano in silenzio come
proseguendo ad occhi aperti un sogno incominciato; i congedandi
di Teramo, di Orvieto e di Potenza pensavano certo alle loro notti
meridionali di plenilunio, tutte scintillanti di astri e odoranti
di fieni maturi, in cui è così dolce cantare gli stornelli paesani
sull’aia e in mezzo alle vigne, e i richiamati di Pinerolo e di
Vercelli sognavano certo la moglie e i bimbi lontani, aspettanti
sulla soglia del casolare. Io, si capisce, pensavo a te e ai lunghi
viali torinesi profumati di acacia, ai tortuosi viali del Valentino
cosparsi di sabbia finissima, circondati di aiuole fiorite; pensavo al
minuscolo e selvaggio giardino in cui le rose a spalliera, a fasci, a
tralci, mettono come un’inebbriante inondazione di profumi che soffoca
e assorbe gli altri profumi più modesti dei lillas, della verbena,
dei gelsomini. E cercando di afferrare le inosservabili e cangianti
sfumature del paesaggio notturno, involontariamente pensavo alle
sfumature inafferrabili del tuo carattere e della tua bellezza strana;
soltanto in certi occhi femminei la natura si compiace di riprodurre
la tavolozza onde fa pompa colle cose del creato, soltanto in certe
pupille di donna si trovano riprodotte le gradazioni di tinte onde ci
appaiono così belli il cielo ed il mare. Ma tu, lo sento, mi accusi di
lirismo, ed io smetto.

All’una antimeridiana eravamo alle Grangia delle Servierettes, vicino
al lago Nero: un laghetto non più grande di una vasca, le cui acque
contengono trote deliziose ed hanno di giorno uno strano colore di
acciaio temprato al violetto. Ma in quella oscurità il lago non si
vedeva ed in compenso il freddo ci serpeva per le ossa. Mi invidii eh!
Nè ti riesce facile l’immaginare coi tuoi trentaquattro gradi torinesi,
che al 6 di luglio si possa tremare dal freddo?

Pure è così, soldati e ufficiali si erano ravvoltolati nelle loro
coperte, imbacuccati nei mantelli, avevano acceso dei fuochi qua e
là preparandosi al bivacco; io anzi m’ero già addormentato col capo
appoggiato ad uno zaino e mi ero incamminato per una serie di sogni
bizzarri, fortunatamente interrotti dalla voce del maggiore che ci
chiamava a rapporto.

La manovra incominciava; te ne dico il concetto in linee generali per
non seccarti oltre misura.

Il nostro reggimento rappresentava il partito invasore scendente dai
colli alpini e dirigentesi su Cesana per la valle di Servierèttes.
Marciava in due colonne con una riserva di un battaglione per
assicurarsi il possesso del monte Curbion dal quale poteva proteggere
l’avanzarsi di grosse colonne sulla strada di Bousson. Il mio
battaglione prese dunque tra i boschi a risalire il contrafforte che
costeggia la riva sinistra del rio dello Servierèttes; per precauzione
le lanterne erano spente, i soldati obbligati al più rigoroso silenzio.
Non ti dico nulla di questa strana marcia di fantasmi nel buio, fra
gli abeti ed i pini, per un sentiero sconosciuto; però verso le tre
il cielo ad oriente si tinse di una pallida luce crepuscolare che ci
guidava, e di minuto in minuto la luce facevasi più diafana e diffusa
annunziando l’alba. Ad un tratto sulla nostra destra si udirono le
prime fucilate; come per incanto il sonno e la stanchezza sparirono;
eravamo in presenza del nemico. La marcia sul contrafforte durò ancora
lunga e penosa; erano oscuri valloni da valicare e scoscese pendici
da risalire tra i cespugli densi di rododendri fioriti, stillanti di
rugiada, ma il crepitare dei moschetti alla nostra destra cresceva di
intensità e da lontano tuonava il cannone.

    Di minuto in minuto ammonitore.

Ad un tratto, giunti sopra un ripiano tondeggiante, la tromba
del comando tuonò l’_alt_ e tutte le trombe risposero. Erano le
5 antimeridiane: in un’apoteosi di nuvole dorate il sole sorgeva
illuminando le nevi del Chaberton, del Pelvo, della Rognosa e di
Fournières; tutto ritornava alla vita: nel venticello fresco i grandi
pini svettavano frusciando, e i fiori rialzavano nel sole le loro coppe
profumate, avide di un bacio caldo. Tu che prolunghi pigramente i tuoi
sonni di fanciulla sognatrice, fino alle ore tarde del mattino, non
saprai mai che cosa splendidamente luminosa sia una levata di sole
a 2000 metri di altezza, su queste montagne verdeggianti e fiorite.
Basta, non insisto su ciò anche perchè mi riconosco colpevole di aver
dormito di fronte alla sublime poesia di tale spettacolo.

Salto quindi di piè pari la descrizione del bivacco: alle sei e mezza
eravamo di nuovo in marcia sentendo il contatto del nemico senza
vederlo. Finalmente dalle alture che dominano le Grangie di Chalpes,
la prima compagnia aperse un fuoco di fila sui kepy bianchi ammassati
nella valle. Si iniziò quasi spontaneamente da tutti, per una di quelle
rapide e felici intuizioni di cui ogni uomo sentesi capace in certi
momenti della vita, un movimento aggirante verso sinistra che ci portò
ad un tratto sul fianco del nemico. Le nostre truppe erano schierate
sopra un anfiteatro di alture nel cui fondo verdeggiavano le umili
case di Chalpes occupate dai battaglioni del partito bianco; un fuoco
di fila ben nutrito che durò parecchi minuti decise l’avversario a
ripiegare.

Allora una tromba lontana squillò: _Avanti!_

D’un balzo la lunga linea che coronava le alture si precipitò al
basso saltando siepi, fossati, precipizii, fermandosi sopra un altro
altipiano a 200 metri dal nemico, aprendo un micidialissimo fuoco a
ripetizione.

La tromba squillò ancora:

_Attenti per l’assalto!_

Una voce stentorea urlò la parola che strappa il glorioso grido di:
_Savoja!_ ai soldati, che li lancia ad occhi chiusi contro i cannoni e
contro le bocche dei fucili.

_Alla bajonetta!!..._

Fu un urlo immenso che tutte le valli ripercossero a lungo, poi
la densa linea si precipitò dalle alture come un torrente umano,
sfrenatamente. Nessuno vedeva più nulla, nessuno sentiva più nulla
all’infuori di un gran bisogno di correre, di gridare.

_Alt!_ squillarono le trombe.

ALT! gridarono gli ufficiali.

_Zaini a terra!_

La battaglia era finita: il sole saliva trionfalmente sulla cima del
Chaberton in tutto il suo splendore.

  _Bousson, 8 luglio 189..._




PRIMA GUARDIA

(RICORDI DI UN VOLONTARIO).


Montai la prima guardia con un entusiasmo grande; a diciassette anni,
anche essendo soldati, si è ancora ragazzi; ogni più semplice atto
della vita acquista un’importanza enorme: l’esistenza ha ancora tanti
misteri a diciassette anni! Avevo perduto mezz’ora a lustrare la
giberna, i bottoni di stagno del cappotto avevano bagliori d’argento;
la stella del kepy scintillava al sole come un disco luminoso; se
avessi dovuto correre dall’Elvira non avrei curato maggiormente la mia
tenuta.

Ero inappuntabile.

In camerata, dopo il secondo rancio, lucidando coll’osso il cinturino
bianchissimo, riandavo colla mente i varii paragrafi del servizio
territoriale circa i doveri della sentinella.

Sono tanti, mio Dio, quei benedetti doveri!...

Catapano, vicino a me, disse togliendo il fucile dalla rastrelliera:

— Stassera c’è la guardia al morto.

— Che morto?

— Come che morto? Se tutto il quartiere lo sa a quest’ora!?

Io lo guardava meravigliato; non sapevo nulla io.

Allora Catapane mi raccontò che al mattino, mentre la truppa era in
piazza d’armi, il furiere maggiore Giacometti si era ucciso con un
colpo di carabina al cuore.

— Giacometti! Quel bel giovane alto dai baffi biondi promosso alla fine
del mese?

— Precisamente. Figurati io era di ramazza e scopavo le scale della
maggiorità; ad un tratto dal corridoio piccolo, che è a destra del
Comando, parte un colpo di fucile. Cosa è? Cosa non è? In un momento
il corridoio è pieno di gente; scritturali, piantoni, furieri, persino
l’Aiutante maggiore in prima, si precipitano nel corridoio; non c’era
nulla; soltanto mentre tutte le altre porte erano spalancate, quella
di Giacometti era chiusa per di dentro. Il colpo era partito di là.
Violini, il furiere maggiore del 3º battaglione, si precipita sulla
porta chiamando angosciosamente:

— Giacometti!... Giacometti!... Giulio!...

Ma la porta era chiusa a chiave e Giacometti non rispondeva; soltanto
mettendo l’orecchio al buco della serratura si sentiva un rantolare
confuso, un balbettìo inintelligibile, poi più nulla.

L’aiutante maggioro mi disse:

— Andate a chiamare l’armaiuolo. — Piantai la scopa in un angolo e
feci gli scalini a quattro per volta: in cortile trovai l’ufficiale di
picchetto sbalordito che non sapeva dove andare, impressionato di quel
colpo di cui ignorava la causa.

— È sopra.... alla Maggiorità — gli dissi — il furier maggiore si è
_sparato_.

E scappai dall’armaiuolo.

Quando tornammo su, non si aveva più bisogno di lui; la porta era
stata aperta non so come, e la camera del povero Giacometti era piena
di gente. Lui giaceva sul letto pallidissimo, coi grandi occhi celesti
spalancati che pareva guardassero verso la porta; gli avevano levata
la giubba di tela e il corpetto di lana; sul petto bianchissimo, in
vicinanza del cuore, un buco nero, largo così e qualche gocciola di
sangue nerastro; io lo vidi appena un momento e scappai subito; mi fece
un’impressione così forte che non potei più parlare.

Sulle scale, mentre riprendevo la scopa, vidi il capitano medico che
saliva affannosamente trascinando la sua pancia enorme.

— Dov’è? — mi disse.

— È là — e gli insegnai la strada.

Naturalmente il dottore arrivò tardi, il povero Giacometti era proprio
morto; il cuore e il polso non battevano più; vicino al letto, in un
angolo, c’era il fucile di cui si era servito, il fucile di Rodelli,
l’appuntato del colonnello; lo aveva caricato, se l’era puntato al
cuore, e aveva tirato il grilletto col pollice del piede destro,
appositamente scalzato.

— Ma.... e il motivo? — domandai io vivamente impressionato.

— Hum!... chi ne sa niente?!... Naturalmente, dopo entrato il medico, mi
hanno chiuso bravamente la porta sul muso e buona notte ai suonatori.
Questo però ti dico: che questa notte bisognerà montargli la guardia.
Hai paura tu?

— Paura? — E lo guardai negli occhi ferocemente: quello sguardo voleva
dire: son volontario e tanto basta!

Catapane riprese, caricando tranquillamente la pipa:

— Tant’è preferirei vegliare un vivo e magari due; alle volte.... non
si sa mai.... se ne raccontano tante!....

                                   *
                                  * *

Appena montai la guardia fui messo di sentinella alla porta del
quartiere; quelle due ore passarono in un momento; erano le migliori
del resto. I soldati uscivano a frotte, passando davanti all’ufficiale
di picchetto che li guardava da capo a piedi col suo sorriso
maliziosamente bonario; uscivano i coscritti, con i grandi berretti
calati sulle orecchie, infagottati nel cappotto enorme, nei pantaloni
lunghissimi, ricadenti in brutte pieghe sulle uose di tela crude.
Tramezzo a loro, per deludere la vigilanza dell’ufficiale, gli anziani
col kepy sulle ventiquattro e le scarpe a punta, sporgenti dalla larga
campana dei pantaloni _arrangiati_, sgattaiolavano lesti lesti, facendo
dei saluti straordinarii che tradivano la grande paura di essere
rimandati indietro.

Una volta sulla strada respiravano tutti a pieni polmoni come liberati
da un incubo e inchinavano di più il kepy allungando il passo, colla
sinistra fieramente posata sulla impugnatura della sciabola. Al
passaggio le comari sulle porte delle botteghe sorridevano; tutta
quella gioventù era come un’ondata di vita che si riversava nelle
strade del paese, nelle osterie, nei caffè, nelle piazze, spandendo
dovunque un giocondo rumore di risa, un fremito allegro di giovinezza.
Dalla piazza del mercato la fiumana si rompeva in cento rigagnoli; si
divideva in cento piccoli gruppi; i coscritti però si fermavano sempre
dinnanzi ai baracconi dei saltimbanchi e rimanevano lì per delle ore a
bocca spalancata dinanzi ai cartelloni, coll’aria stupefatta e mansueta
di bestie buone: di tratto in tratto qualcuno avventurava due soldi ed
entrava dentro.

Io li vedevo uscire col berretto indietro e l’aria trionfante, e vedevo
sul balcone a sinistra i due eleganti profili delle signorine Galli,
le figlie del tenente colonnello che mi perseguitavano nei sogni,
quantunque in realtà non sapessero nemmeno che esistessi. Appoggiato
al fucile, colla sciabola-baionetta innestata che luccicava al bel
sole morente, non avrei dato la mia garetta per tutto l’oro del mondo.
Sentivo di essere qualche cosa, come se la fiducia di tutto l’Esercito
riposasse sopra di me, come se la responsabilità di tutto il quartiere
gravasse sulle mie spalle.

Quelle due ore passarono in un lampo; poi mi dettero il cambio e
mi misero in rango per la ritirata. Dopo la _disunione,_ mentre mi
riscaldavo intorno alla stufa, Processi entrò nel corpo di guardia
bestemmiando, mise il fucile sulla rastrelliera e si venne a cacciare
in mezzo a noi, ancora pallido, borbottando:

— Io la guardia al morto non la monto più!...

— Toh! e perchè? — gli dissi io....

Ma Processi si rinchiuse in un mutismo feroce; era ancora livido e
aveva lo sguardo spaventato.... e gli altri gli davano la baia con una
preoccupazione segreta, cercando di indovinare ciò che aveva veduto.

A mezzanotte toccò a me; salimmo col caporale le scale quasi buie della
Maggiorità coll’armi al braccio e infilammo il corridoio; la stanza di
Giacometti era aperta e gettava sulla parete di fronte un rettangolo
di luce di un rosso smorto: un altro lumicino ardeva sulla parete del
Comando, allungando smisuratamente le ombre: regnava un silenzio di
tomba. Il caporale mi piantò sull’attenti vicino a Pieroni che smontava
e mi ripetè la consegna; poi se ne andarono tutti e due mentre un’eco
sonora e lugubre accompagnava i loro passi.

Io rimasi solo.

Quello che provai non lo so descrivere. Sulle prime mi appoggiai al
muro e non ebbi il coraggio di guardare nella camera: il rettangolo
di luce rossiccia era interrotto da un’ombra confusa, il cui contorno
non si capiva bene; ma ogni tanto nel tremolare della fiammella, delle
ombre nuove si allungavano minacciosamente, si confondevano alla mia
come se la volessero abbracciare.

Pure, malgrado il malessere, una curiosità intensa mi tentava;
cominciai a voltare la testa timidamente, a fissare i cavalletti del
letto, l’angolo illuminato della camera.

A poco a poco il coraggio mi tornava, la curiosità incalzava. Come
un senso grande di pietà mi prendeva per quel bel giovane morto, per
quel vinto dell’esistenza che giaceva lì vicino a me, mentre il giorno
avanti era pieno di vita, pieno di vigore. E lo guardai.

Aveva ancora il petto scoperto, ed un buco rotondo vicino al cuore,
che faceva spiccare la candidezza immacolata della pelle; ma i grandi
occhi celesti erano chiusi per sempre e il capo biondo si sprofondava
sul guanciale colla pesantezza inanimata del sonno eterno. Povero
giovane!... Povero giovane!...

Avevo già mosso un passo nella stanza; la morte ha un terribile
fascino; io mi sentivo invincibilmente attirato verso il letto; non mi
pareva possibile che fosse morto; forse dormiva. Certi rapidi passaggi
d’ombre davano di tanto in tanto al suo viso pallido un’espressione di
vita che mi faceva impallidire; pure mi avanzai ancora, furtivamente,
come un ladro, spinto dalla curiosità morbosa del fanciullo che vuol
tutto vedere, che vuol tutto sapere.

Smoccolai la lucerna che faceva il fungo e subitamente una luce più
chiara illuminò il pallore marmoreo di quel volto dalle linee pure.
Pensavo alla sua povera mamma, alle sue povere sorelle; nella parete di
destra, in una cornice di legno dorato, c’era una fotografia grande,
un gruppo di famiglia dove campeggiava la sua figura. Povero giovane,
povero giovane!...

Perchè si era dunque ucciso?... Io vedeva la disperazione grande
di quella povera vecchietta, che somigliava tanto a mia madre, e un
singhiozzo mi montava alla gola dolorosamente: mi pareva che tutti quei
ritratti mi guardassero, mi parlassero sommessamente con delle lagrime
negli occhi, con delle lagrime nella voce. Era come un coro di voci
lontane terminante in una domanda triste:

— Perchè? perchè?...

Non un indizio, non una traccia. Giacometti era un bravo giovane,
regolato nei suoi affari, stimato ed amato da tutti; nella cameretta
modesta regnava un’aura di pace, un ordine di giovanotto beneducato,
dalle abitudini tranquille. Il segreto era là, in quella testa
marmorea, dal profilo di cammeo antico, in quelle labbra scolorite
atteggiate ad un triste sorriso. Nell’anulare della mano sinistra
gli luccicava un piccolo cerchietto d’oro; un ricordo di sua madre
forse.... Allora si era ucciso per amore, uno di quelli amori giganti,
impossibili, che spezzano un’esistenza. Qual’era la Dea?... Non un
ritratto di donna appeso al muro, non una lettera nello scrittoio.
Io mi perdeva in congetture e fissavo intensamonte il povero Giulio
interrogandolo collo sguardo. Però ad un tratto vidi qualche cosa
di oscuro che spiccava fra il bianco del capezzale e il bianco del
lenzuolo; una sottile striscia nera filettata d’oro. Guardai meglio;
era un ritratto di grande formato, uscente di sotto il guanciale.

L’enimma era lì.

Io non seppi vincere la curiosità; quel segreto non mi apparteneva; il
povero morto avrebbe voluto portarlo seco, seppellirlo nella tomba: ma
anche il pensiero mi venne che all’indomani quella fotografia sarebbe
caduta in mano di tutti, e pensai di far bene a sottrarla agli sguardi
curiosi degli indifferenti. La presi e la guardai...; il sangue mi
diede un tuffo, il cuore ebbe un balzo violento e il ritratto fu lì
per cadermi di mano. Era lei, la bellissima Maria Galli; la figlia del
tenente colonnello colla sua testina greca, col suo sorriso divino....

Dei passi si avvicinarono alle scale; mi misi in tasca il ritratto e
baciai il morto sulla fronte pallida.

— Va povero Giulio; hai amato come un poeta, e nessuno ti seppe
comprendere!... Mi parve che dalle sue labbra uscisse un soffio, che il
morto mi mormorasse all’orecchio con un fil di voce:

— Grazie fratello!




FISIOLOGIA DELL’ATTENDENTE

(CONFERENZA).


Avete mai pensato, o signori, allo straordinario sviluppo che avrebbe
la letteratura militare amena, se tutti gli attendenti fossero al
caso di scrivere abbastanza correntemente le memorie dei loro due
anni e mezzo di servizio?... Avete mai pensato, lettori amatissimi,
che ricchezza di materiale novellistico e romantico salterebbe fuori
a risanguare il romanzo e la novella italiana morenti d’anemia tra i
robbivecchi del passato e i robbivecchi del presente?

Dio de’ Dei! io fremo al pensare a tutte le scenette umoristiche,
serie, semiserie, drammatiche, melodrammatiche e anche tragiche che
salterebbero fuori da tutte quelle memorie autobiografiche. Le segrete
debolezze del sesso forte (tanto più forte poi perchè è armato), le
ignorate energie del sesso debole, tutto ciò che non si osa dire nè
scrivere in pubblico, anche nei romanzi più veristi, apparirebbe alla
luce del sole, svelato da questi fedeli e discreti rappresentanti della
servitù militare. Altro che le _Militaresse_ della signora Giannini!...
Altro che le _Miserie de Monsù Travet_!... Altro che i _Nostri
intimi_!...

Da tutto questo materiale organico di documenti umani, un attendente
di genio, uno Zola in cappotto e kepy, tirerebbe fuori, ne son certo,
un altro ciclo di romanzi scientifico-sociali, appetto ai quali quelli
dello Zola autentico potrebbero andarsi a nascondere.

A proposito; una cosa che mi stupisce: Zola che ha ormai toccato tutti
i soggetti che possono dar materia di romanzi, Zola che ha studiato
tutti gli ambienti, vivendoci dentro, constatando de visu, raccogliendo
sul luogo i documenti umani, non ha ancora pensato di riprodurre
l’ambiente della caserma. Quando ci si volesse decidere e desiderasse
di _provare_, gli offro io un posto di attendente a rischio di essere
tramandato ai posteri nella poco piacevole compagnia di Lantier, di
Coupeau o di Jésus Christ.

Ma riprendo il filo dell’argomentazione.

Gli attendenti, ecco i novellieri, i romanzieri, gli artisti
dell’avvenire!... Ecco perchè io grido ai legislatori con tutta la
forza dei miei polmoni: Istruite gli attendenti, o signori! Insegnate
loro a leggere e a scrivere, avvegnachè essi sono i veri depositari dei
migliori documenti umani, essi che hanno viste tante cose e che hanno
saputo non vederne tante altre, essi che colla loro inconscia e rozza
filosofia hanno immagazzinato tesori di osservazione sapiente; essi che
hanno saputo accoppiare al nobile mestiere delle armi, quelli non meno
nobili di lavapiatti, lustrascarpe, galoppino, bambinaio, ccc., essi
che tornano nelle loro campagne la mente piena di utili cognizioni e
che potranno insegnare ai loro compaesani ignoranti a che cosa serve la
senapa nelle bistecche, le nova sbattute nel caffè prese al mattino, e
il modo infallibile di liberarsi dei creditori!... Essi che....

Ma a questo punto mi coglie la saggia riflessione, che se gli
attendenti fossero istruiti sarebbero subito presi dalla malsana
ambizione di essere caporali e sciuperebbero inutilmente il tempo sui
tavoli della Maggiorità o su quelli di una fureria qualsivoglia.

Dunque, aspettando che uno di essi scriva la _Fisiologia
dell’Ufficiale_, io mi provo a scrivere la _Fisiologia
dell’Attendente_. Degnatemi, o signori, d’una benigna attenzione.

                                   *
                                  * *

Che l’attendente sia un personaggio ormai consegnato alla storia, non
c’è nemmeno da metterlo in dubbio. Anche l’arte si è impadronita di lui
e lo ha fissato nelle sue pagine immortali. L’_Ordinanza_ di De-Amicis,
che gira per le mani di cinquecento e più mila lettori, e l’Ordinanza
di Testoni che gira trionfalmente su tutti i palcoscenici d’Italia,
informino. Non parlo delle farse, prima fra tutte _La Consegna è di
russare_, in cui l’attendente è un personaggio di primaria importanza.
Epperò, potrebbe reputarsi inconsulta vanità, quella di parlare
dell’attendente, ordinanza, trabante o confidente che dir si voglia,
dopo quanto ne ha scritto l’illustre De-Amicis che è il fondatore della
letteratura militare amena in Italia. Se non che io mi propongo di
fare in via più generale, quello che egli ha fatto per un attendente
solo, io mi propongo uno studio sistematico e non già un bozzetto
sentimentale! Chiedo dunque venia ai cortesi uditori ed incomincio.

Attendente viene da attendere; ordinanza viene da ordine; confidente
viene da confidenza; trabante viene.... francamente io non so da che
cosa venga; certo viene da.... soldato semplice.

Di questi quattro appellativi il primo è, a parere mio, il più giusto;
se non esistesse bisognerebbe crearlo apposta. Difatti la più grande
delle sue attribuzioni è quella di attendere, di aspettare: io non ho
mai conosciuto al mondo un uomo che aspetti di più dell’attendente:
egli aspetta sempre; aspetta che il padrone si svegli, che la padrona
si alzi, che i bambini mangino il caffè e latte prima di accompagnarli
a scuola; aspetta il padrone un po’ dappertutto; al caffè per dargli
la chiave di casa, in quartiere per dargli il berretto o per tenergli
il cavallo; per la strada o sulla porta del teatro per dargli
l’impermeabile se piove; egli è una specie di Padre Eterno, che deve
trovarsi in cielo, in terra ed in ogni luogo.... Gli altri appellativi
non mi sembrano del pari appropriati. Lasciando andare il _trabante_
che è voce dialettale, originata da chi sa quale orribile barbarismo,
le altre due _ordinanza_ e _confidente_, offrono il fianco, anzi tutti
e due i fianchi alla critica. Difatti _ordinanza_ vuol dire uomo
d’ordine; ora, domando io, come si fa a chiamare uomo d’ordine uno
sciagurato che vi mette il formaggio grattato vicino al lucido delle
scarpe, e le ciabatte sulle camicie stirate?

Dunque _ordinanza_ no; _confidente_ nemmeno; la parola ha un
significato troppo assoluto; che egli conosca a perfezione gli affari,
i gusti, le abitudini del proprio padrone, sta bene, ma che ne sia
proprio il confidente.... eh via! mi pare un po’ troppo.... Come si fa
per esempio a dirgli:

— Di’ Bastiano! ho un lontano sospetto che mia moglie.... col tenente
tale.... mi faccia.... hai capito? Cosa ne dici?

Oppure:

— Testadura, mi è venuta un’idea....

— Quale signor capitano?

— Se mi giuocassi al _nove i fondi di Compagnia?_

Vi pare?

Dunque non ci sono più dubbi; la parola vera è attendente; e chiarito
questo primo punto andiamo avanti.

Gli attendenti si dividono nello stesso numero di categorie
degli ufficiali. Ci sono perciò gli attendenti-subalterni,
gli attendenti-capitani, gli attendenti-superiori e gli
attendenti-generali.

Questi ultimi essendo personaggi di così alta importanza, che
sfuggono alla mia giurisdizione, limiterò il mio studio fino agli
attendenti-superiori che sono appunto gli attendenti reggimentali.

Per chi non lo sapesse il reclutamento degli attendenti si fa in questa
maniera:

Appena arrivati i _coscritti_ al Reggimento, la Maggiorità fa lo
spoglio delle professioni; la maggioranza è costituita dai contadini,
che dopo tutto, sono sempre i migliori soldati; nella minoranza si
trovano invece calzolai, sarti, fabbri-ferrai, falegnami, barbieri,
panettieri, cuochi, sguatteri, musicanti, ecc. ecc.

Il colonnello, che è ammogliato ed ha appunto bisogno d’un cuoco, si
rivolge all’aiutante maggiore in 1ª.

— Dica, capitano, non ci sarebbe, per caso, un cuoco per me?

— Sissignore; quest’anno ne abbiamo avuti cinque.

— Sta bene; mi tenga d’occhio il migliore che lo prenderò appena abbia
ultimato l’istruzione delle reclute.

Vengono chiamati i cinque cuochi all’ufficio Maggiorità al _redde
rationem._

— Voi dove facevate il cuoco?

— A Roma, al _Caffè del Parlamento._

— Ah! ma.... eravate proprio cuoco o sguattero?

— Cuoco, signor capitano — risponde l’altro con un tono di dignità
offesa....

— Benone; fate allora un passo a destra. Voi?

— Cuoco, signor capitano.

— Dove? in che paese? in che albergo?

— A Frosinone, all’osteria dei _Tre Re_.

— Ho capito; un passo a destra. E voi?

— Io, _signure capitane facive lu coche a Potenze_.

— Basta, non ne parliamo più; un passo a destra. E voi?

— _Er coco!_ — risponde con una faccia granitica l’interrogato.

— Che cosa sapete fare?

— _So’ fa’ n po’ de’ tutto; le frittelle e li bignè pe’ S. Giuseppe, li
polli a la cacciatora, li carciofoli alla giudia_.

— Bravo, per Dio! un passo a destra.

Rimane l’ultimo; un povero diavolo stremenzito, affogato nel cappotto,
sepolto nel berretto, con una vocina da donna.

— Di che paese siete?

— _Mi sun de Milaan...._

— Sapete fare il risotto?

Di sotto l’enorme visiera del berretto si indovina un sorriso.

— _Alter chè!..._

— E le costolette?

— _Alter chè!..._

— Dove servivate?

— _Mi s’eri al Cova...._

— Bene, voi e quello lì (indicando il primo di destra) verrete
quest’oggi a casa mia a fare un esperimento delle vostre abilità
culinarie; voi mi farete il risotto; (l’uomo della visiera sorride) e
voi?

Il cuoco del _Caffè del Parlamento_ si avanza con un’aria di
maggiordomo e dice pacatamente:

— Bisognerà vedere che cosa ci sarà di disponibile in cucina.

L’aiutante maggiore rimane soggiogato da tanto buon senso.

— Sicuro, non ci avevo pensato. Allora vi dò carta bianca; andate in
mercato, comperate, cucinate e poi mi darete la nota. Avete capito?

— Sissignore.

I cinque cuochi sono congedati.

Alla sera verso le sette, l’aiutante maggiore torna a casa,
seccatissimo di avere dovuto lavorare tutto il giorno come un’anima
dannata per il progetto di mobilitazione, dimentico dei cuochi, del
risotto, del _Caffè del Parlamento_, preoccupato del suo cavallo
_Martino_, che ha preso il ticchio. Appena entrato trova la cucina
piena di gente, di soldati in grembiale; un calore ardente lo assale
alla faccia, un potente profumo di tartufi gli monta alle nari.

— Cosa diavolo c’è?

D’improvviso gli tornano in mente gli ordini dati così alla leggiera al
cuoco del _Caffè del Parlamento._

— Sono rovinato! — esclama, mettendosi le mani nei capelli. Tuttavia
va avanti, entra in camera sua, butta il berretto e la mantellina sul
letto. Un gran chiarore esce dalla stanza aperta del salottino.

— Diamine! che ci sia gente? Martino! Martino!

Si presenta il cuoco del _Caffè del Parlamento_, colla giubba
abbagliante di bianchezza, il grembiale più bianco della giubba, il
berretto di tela più bianco del grembiale.

— Il signore è servito!...

E accenna colla mano la porta del salotto....

Il capitano si passa una mano sugli occhi credendo di sognare; entra
nel salotto sfarzosamente illuminato da quattro doppieri e vede una
tavola sontuosamente preparata come per la cena d’un principe del
sangue; un mazzo di fiori è nel mezzo; dai lati trionfi di frutta, pere
enormi, uva, pesche di una grossezza inverosimile, ananassi, datteri,
fragole....

— Oh! povero me! — esclama il povero capitano, che tra le altre qualità
ha anche quella invidiabile dell’economia....

E si lascia cadere di peso sulla poltrona. Il cuoco è sparito.

Dinanzi a lui, appoggiato a una bottiglia pompeggia a caratteri d’oro
il _menù_; l’infelice capitano vi getta sopra lo sguardo e non può
trattenere un grido di spavento:

— Sono assassinato! — urla.

E legge: _Potage à la Reine — Risotto alla Milanese — Filet de
Boef à la Financière — Artichauts Suisses à la Bernoise — Saumon
à la majonnaise — Perdrix aux Truffes — Pâtè d’oie de Strasbourg —
Salade-Russe Punch à la Romaine. — Dessert_.

_VINI. Moscato di Canelli — Pomino vecchio — Chateau-Laffitte del 1830
— Vieux-Perigordin — Champagne Veuve Cliquot 1845 — Cafè — Cognac —
Chartreuse._

Il malcapitato è di un balzo in cucina col _menù_ alla mano:

— Chi è quell’assassino — grida. — Chi è quell’assassino che ha
confezionato un _menù_ di questa sorte? Martino, dov’è Martino?
(Martino era il suo attendente). Come mai, pezzo d’asino, lasci che
questo somaro venga in casa mia a far dei pranzi di questo genere?

— Ma.... signor capitano.... mi hanno detto che è ordine suo....

— Ma signor capitano, lei aveva ordinato....

— _Scior capitani, l’aveva minga ordinàa?..._ — rispondono tutti in una
volta i tre armigeri meravigliati....

— Ordinato, ordinato un accidente! bestie antidiluviane che non siete
altro!... Ma poi capisce che in fin dei conti il torto è tutto suo e
torna nel salottino dinanzi alla tavola scintillante....

Dopo pranzo il capitano chiama i cuochi, al gran rapporto.

— Chi ha fatto tutta questa roba?

— Io — risponde facendo un passo avanti il _Caffè del Parlamento._

— _L’era bon el risott?_ — dice una vocina in falsetto uscente da un
cappotto.

— Quanto avete speso?

L’uomo del _menù_ presenta freddamente la nota: Settantasette lire e
cinquanta centesimi.

— Sta bene: voi sarete attendente del colonnello; ma mi raccomando veh!
bisogna dargli da mangiare meglio a lui!...

— Non dubiti signor capitano.

E i due cuochi sono licenziati.

Il capitano pensa che l’esperimento gli costa un po’ caro, ma si frega
malignamente le mani....

                                   *
                                  * *

Il capitano passa in rivista le sue reclute guardandole bene in faccia;
al primo viso su cui baleni un barlume d’intelligenza si ferma.

— Come vi chiamate?

— Mangì.

— Come?

— Mangì....

Il tenente suggerisce: Mancini.

— Mancino o Mancini?

— Mangì.... — risponde imperturbabilmente il soldato, incrollabile
nella sua pronunzia meridionale.

— Ho capito. Sapete leggere e scrivere?

— Nossignore.

Il capitano si allontana disilluso. E dire che quella gli pareva una
faccia intelligente!

La rivista continua; finalmente ha trovato una faccia che gli va a
genio.

— Come vi chiamate?

— Chiodini.

— Che cosa facevate a casa?

— Combattevo colli bovi....

— Eh?

Il tenente gli va in soccorso spiegando che in dialetto vuol dire:
guardian di buoi.

— Ah! e sapreste combattere con i cavalli?

— Sissignore.

— Sapete leggere e scrivere?

— So fà la firma....

— Basta, ne sai anche troppo, valoroso guerriero. Sarai mio attendente.

Un lampo di gioia balena negli occhi del _toreador_.

                                   *
                                  * *

Finalmente è la volta di scegliere dei signori subalterni. Essi si
rivolgono al furiere:

— Dica, furiere; se ci fosse per caso un soldato pulito che potesse
fare da attendente....

— Ci sarebbe Porcu.

— Niente, il nome è di cattivo augurio....

— Allora, Pizzagrillo.

— Di che Distretto?

— Orvieto.

— Me lo faccia chiamare.

Compare Pizzagrillo, un ragazzotto svelto, tarchiato, con due occhi
intelligenti....

— Ti chiami Pizzagrillo?

— Sissignore.

— Vuoi fare l’attendente?

— Magari!... — risponde Pizzagrillo con un sorriso di beatitudine....

— Cosa sai fare?

— Niente!

— Bravo! Sei quello che ci vuole. Vieni a casa mia stassera.

                                   *
                                  * *

Gli attendenti _cappelloni_ fanno il noviziato sotto l’alta direzione
di quelli anziani, ed ascoltano i loro insegnamenti a bocca aperta.

Un giorno Sassara si rimorchia Paglialunga per le vie di Torino, affine
di dargli le istruzioni necessarie.

In via Po numero tale, si ferma:

— Vedi? qui al terzo piano ci sta l’amorosa del tenente, ti ci manderà
spesso a portare dei biglietti, dei mazzi di fiori.... Ricordati
l’indirizzo.

— _Non dubbità_.

In via S. Massimo, Sassara si ferma un’altra volta.

— Vedi, lì, al primo piano, ci sta un’altra amorosa del Tenente. È
bionda, ricordati!

— Va bene.

In piazza S. Carlo Sassara si ferma per la terza volta.

— Guarda bene. Vedi quella finestrina al quarto piano? Bè, c’è un altra
amorosa del tenente.... È bruna.

— Cristo! Ma quante ce n’ha il tenente?

— Io non conosco che queste tre, ma è certo che devono essere di più....

— Salute.... e figli maschi!...

E proseguono la strada.

                                   *
                                  * *

L’_apprentissage_ dura un paio di mesi: quando l’attendente anziano va
in congedo, il cappellone è già istruito.

Il giorno del congedamento accade una scena commovente.

L’attendente anziano ha già fatto la sua valigia e inalberato
trionfalmente il berretto fuori d’ordinanza. Egli vi gira intorno
tutto il santo giorno e vorrebbe dirvi tante cose che non sa di dove
cominciare. Voi però lo capite benissimo, ma viceversa siete un po’
commosso e preferite tacere. Mentre siete al tavolino, occupatissimo
a scrivere, ma pensando che vi dispiace immensamente di separarvi da
quel buon diavolo che vi vuol bene ed al quale volete bene, egli si
presenta, salutando.

— Dunque, signor tenente io vado....

E gli trema la voce.

Voi vi alzate in piedi commosso, gli stringete la mano rozza che vi ha
fatto il letto, lustrato le scarpe, levato gli stivali per due anni e
mezzo.

— Dunque addio; e ricordati del tuo tenente che ti voleva bene, benchè
si arrabbiasse qualche volta, e della tua compagnia, dove ti sei fatto
amare da tutti....

— Scusa, signor tenente, se ti ho fatto qualche mancanza.... —
interrompe il povero diavolo colle lacrime agli occhi trattenute a
stento....

— Niente; ma che mancanze! sei stato sempre un buon soldato: ora va,
stai allegro e scrivimi....

— Sissignore!

— Ciao.

— Arrivederlo!

L’attendente va adagio; voi vi sentite un groppo alla gola. Appena
uscito dalla porta lo richiamate.

— Sassara!

— Comandi!

— Hai dato tutte le istruzioni necessarie a Paglialunga?

— Sissignore, gli ho fatto vedere tutto....

— Bene! allora addio.

E gli date un bel bacione, anzi due bei bacioni sonori sulle guancie,
due baci che vi sollevano il cuore da quel peso d’amarezza che ve lo
schiacciava....

Il _cappellone_ vi guarda fare, commosso, a bocca aperta.

                                   *
                                  * *

Appena partito l’_anziano_, il _cappellone_ tira un respiro lunghissimo
di soddisfazione pensando che adesso egli si trova in casa _sua_;
ripassa subito l’inventario della roba _nostra_ (così almeno la chiama
lui) e alla più piccola mancanza fa il suo bravo rapporto con aria
trionfale.

— Tenente, mancano cinque colletti.

— Non importa, li ho regalati io a Sassara....

— Mancano pure due paia di polsini....

— Va bene, ho regalati anche quelli....

Andate in quartiere alla istruzione interna, poi al caffè a fare una
partita a carambola.... alle quattro e mezzo ritornate a casa. Dio
che spettacolo! Tutta la stanza è in aria; vicino alla stufa da una
cordicella tesa, pendono duri, stecchiti, scheletriti, otto paia di
guanti _glacès_, che il miserabile ha lavato coll’acqua e sapone; tutti
i mobili sono coperti dai vostri indumenti, la mantellina, il cappotto,
l’impermeabile distesi ad asciugare, tutte le casse sono vuote e la
roba un po’ dappertutto sulle sedie, sul letto, per terra, vittima
della verifica spietata della consegna; la batteria di cucina allineata
in bell’ordine lungo il muro....

Il manigoldo ritorna coll’aria trionfante di chi è preparato a ricevere
un elogio. Egli ha lavorato tutto il giorno, l’infelice!

Allora comincia l’istruzione.

— Ma no, caro mio, i guanti _glacés_ si lavano colla benzina....

                                   *
                                  * *

Il giorno susseguente alla partenza dell’_anziano_, è un giorno nefasto
per voi. Quel giorno, non c’è santi che tengano, voi andate agli
arresti.

Gli avete detto di svegliarvi alle cinque del mattino. Alle quattro
e tre quarti l’armigero fedele entra in punta dei piedi, piglia gli
stivali e incomincia a lustrare. Alle cinque vi sveglia.

— Sor tenente....

— Hum!... — fate voi pieno di sonno.

— Sono le cinque.

— Va bene! — e naturalmente vi riaddormentate.

Dopo un certo tempo vi destate spaventato, di soprassalto.

— Paglialunga?

— Comandi!

— Che ora è?

— Sono le otto.

— Le otto!... E cosa fai tu lì?

— Aspettavo che lei si alzasse...

                                   *
                                  * *

Il giorno dopo:

— Sor tenente sono le cinque.

— Va bene apri la finestra.

Il giannizzero eseguisce.

— Ma se è buio!

— È buio, ma sono le cinque....

Memore della lezione del giorno prima, vi buttate giù dal letto, vi
vestite in fretta, correte in quartiere, la porta è chiusa.

— Che diamine? Che sia accaduta qualche disgrazia?

Bussate, entrate, guardate l’orologio.

— Maledetto cretino! Manca un quarto alle quattro!...

E andate a schiacciare un altro sonnellino nella stanza dell’ufficiale
di Picchetto.

                                   *
                                  * *

Dopo queste ed altre inevitabili traversie l’attendente si _fa_,
comincia a capirvi, a indovinare i vostri gusti, le vostre idee, a
conoscere le vostre abitudini, qualche volta si permette di darvi
amorevolmente qualche consiglio.

Una volta, alla Scuola di Parma, vedendo che io mi occupavo troppo di
chitarre e delle vicine di casa, l’attendente mi disse serio serio.

— Tenente suona, suona.... ma poi ti boccieranno all’esame....

Io gli diedi del somaro, ma all’esame i professori lo diedero a me del
somaro. E mi bocciarono di santa ragione.

Dico una cosa che può parere strana, ma che non è meno vera.
L’attendente dopo un po’ di tempo finisce per rassomigliare al padrone;
egli ne acquista le mosse, i gesti, l’andatura, la voce i vizii e le
virtù.

— _Talis padronis...._ — direbbe un amico mio che sa il latino — _talis
attendentibus...._ Se il padrone è ambizioso, l’attendente porta
i polsini e i pantaloni arrangiati, se il padrone è amico di Bacco
egli ne diventa addirittura il fratello e si ubbriaca regolarmente
tutte le domeniche e le altre feste comandate; se il padrone ama le
belle signore, l’attendente, per l’onore del grado, ama le rispettive
cameriere.

Tra l’infinita varietà di attendenti ci sono anche quelli che vi
fanno la _réclame_ nel vicinato ed in tutti i negozi della città; la
_réclame_ però è quasi sempre favorevole. Si stupisce di essere così
conosciuti quando lo si desidera così poco.... Un mio antico soldato,
un siciliano, si serviva della _réclame_ per farsi dar da bere.
Una volta lo mandai da una signora con un mazzo di fiori per il suo
onomastico. Riferisco il dialogo testualmente.

— Mi manda il tenente con questo mazzo e tanti augurii.

— Grazie tante.

— Cosa gli devo dire?

— Ditegli che è stato tanto buono a ricordarsi di me....

— Oh! per buono è buono davvero!

— Sì? vi tratta bene?...

L’assassino comincia a sfoderare la litania delle lodi. La signora lo
ascolta contenta e gli fa portare da bere, un bicchiere, due bicchieri,
tre bicchieri. Quel birbante non la finiva mai; a momenti le vuotava la
cantina....

                                   *
                                  * *

Bastano due mesi di soggiorno al Reggimento per conoscere tutti gli
attendenti; quelli del colonnello si conoscono dalla faccia, quelli dei
maggiori dai pantaloni a campana e dal berretto coi pizzi in dentro,
quelli dei capitani dai capelli lunghi, quelli dei subalterni dal
cinturino nero, perchè non hanno mai il tempo di dargli il bianco. Gli
attendenti degli ufficiali superiori e anche quelli dei capitani sono
vere autorità, non solo per i loro compagni, ma anche per tutti gli
ufficiali.

Possono fare quello che vogliono, nessuno osa toccarli, circa alla
tenuta hanno sempre la scusa della scuderia. Quelli dei subalterni....
è un altro paio di maniche....

Comunque sia però, bello o brutto, cretino o intelligente, tutti gli
ufficiali amano il loro soldato e ne sono gelosi; guai a chi li tocca!
E hanno ragione; l’attendente, meno casi straordinarii, dovrebbe essere
dichiarato inviolabile, inquantochè esso rappresenta ancora la razza
antica e nobile dei servitori fedeli, devoti sino alla morte, che
all’infuori dell’esercito, non esistono più che nei vecchi romanzi e
nelle vecchie commedie. L’attendente è l’altra metà dell’ufficiale,
la metà più umile, più modesta, quella che non si vede, è la sua
Provvidenza, la sua suora di carità, il suo _souffre-douleurs_, il suo
angelo custode. E ci sono dei sottotenentini appena promossi che nel
primo divampare del loro fuoco sacro li mettono in prigione.... (quelli
degli altri però!) Infelici!...

Io chiuderò questa lunga conferenza facendo a me ed a loro questo
augurio sincero:

— Possa ognuno di noi trovare nella vita una moglie che possegga le
qualità morali del proprio attendente!...




COMPAGNI DI SVENTURA


Quando Beppino Lo-Cicero si affacciò per l’ultima volta sulla porta
della cantina, Marietta gli si fece incontro sorridendo, colle mani
pienotte sul grembiale di bucato e gli disse:

— È pronto!...

Beppino Lo-Cicero partì come un razzo; sulle scale incontrò Mariani, il
caporal maggiore della 5.ª

— Dove vai?

Mariani scosse le spalle; dove voleva che andasse? Era consegnato
e il Natale doveva passarselo in quartiere mentre gli amici se la
divertivano fuori, dalla bionda dell’_Aquila d’Oro._

— Allora vieni con me — fece Lo-Cicero guardando con compiacenza i suoi
galloni nuovi di caporal maggiore, — devo farti una improvvisata.

Mariani lo seguì. Percorsero così cinque o sei camerate sepolte nella
semi-oscurità del crepuscolo, ingombre di tavole e di panche sulle
quali i soldati avevano fino allora festeggiato il Natale.

Finito il giro Peppino contò le sue reclute; nessuna mancava e tutti lo
guardavano con un’aria meravigliata quasi per domandargli: Che cosa c’è
di nuovo? Dove ci conduci?

Lo-Cicero che pregustava il trionfo rispose semplicemente:

— Venite con me.

E si avviarono alla cantina.

                                   *
                                  * *

Nell’ampio camerone d’entrata, c’era una confusione indescrivibile;
un fumo denso di tabacco acre e cattivo misto ad un potente odore di
cavoli, ammorbava l’atmosfera. Dietro il banco, lunghissimo e difeso da
un reticolato di fil di ferro, Teresa, la bella moglie del cantiniere,
imperava come una regina, colle maniche rimboccate fino al gomito, che
lasciavano scoperte due braccia stupendamente modellate; la lanterna a
petrolio che pendeva dal soffitto annerita dal tempo e dalla fuliggine,
gettava sul suo viso, sulle sue braccia, dei lampi rossigni e delle
ombre opache, come in certi quadri di scuola fiamminga. Imperava, è
la vera parola; poichè al suo terribile occhio nero, continuamente
in moto, nulla sfuggiva; pur non cessando di servire al banco ella
teneva d’occhio il vecchio cuoco intento alle sue casseruole, Gianni
il guercio che serviva i soldati e la vispa Marietta che si aggirava
qua e là, imperturbabile contro le paroline dolci e i pizzicotti che le
piovevano sulle anche robuste.

Il marito di Teresa stava al banco contando avidamente i denari nel
cassetto e seguiva i movimenti della moglie con gli occhietti grigi
dove la malizia lottava coll’istupimento alcoolico.

Ma Teresa fremeva; essa aveva veduto col suo occhio di lince il
sergente Sironi piegarsi all’orecchio di Marietta e sussurrarle
una parola nel collo; aveva veduto Marietta sorridere e piegare la
testolina intelligente in segno di assentimento.

Decisamente quei due se la intendevano da un pezzo e un singhiozzo di
rabbia l’afferrava alla gola mentre la destra affettava rabbiosamente
un salame; quei due se la intendevano; finalmente l’aveva veduto coi
proprii occhi l’aristocratico Sironi, l’incorreggibile fumatore di
sigarette, il sentimentale marchesino a far la corte ad una serva.
Lo aveva veduto, anzi lo vedeva ancora laggiù in fondo al camerone,
traverso alla folla dei coscritti; ma in quel momento non poteva far
nulla; non poteva dir nulla; le conveniva aspettare e tacere. La sua
vendetta sarebbe venuta più tardi, sarebbe venuta!...

                                   *
                                  * *

Ad un tratto Marietta si staccò dal sergente Sironi e mosse incontro a
Lo-Cicero che si presentava trionfalmente in cantina seguito dai suoi
cinque compagni.

— Per di qua, signori, per di qua!...

E li precedette voltando a sinistra per un corridoio oscuro che menava
ad una camera appartata. Lo-Cicero, per non far torto al suo carattere
intraprendente, si affrettò a cingerle con un braccio la vita ed a
stamparle un silenzioso bacio sulla nuca.

Ma Marietta gli era sgusciata di mano come un’anguilla, col suo riso
squillante e provocante di biricchina maliziosa ed esperta. Gli altri
seguivano Lo-Cicero ancora meravigliati ma sorridenti nell’aspettativa
di qualche cosa di piacevole. Marietta aprì la porta della stanza dove
cinque candele ardevano sulla tavola sontuosamente apparecchiata.

Fu un «oh!» di stupore ed i cinque convitati guardarono dubitosamente
Lo-Cicero per domandargli se veramente quel lusso sibaritico fosse
proprio per loro.

Lo-Cicero disse con un mal simulato sorriso di vanità soddisfatta:

— Amici miei, non ci è nulla da meravigliarsi; vi ho invitato a
festeggiare meco due cose; il Natale e la mia promozione a caporal
maggiore. Non vorrete voi bere una bottiglia alla mia salute?

Cinque destre gli si offersero simultaneamente riconoscenti, un sorriso
di soddisfazione illuminò il volto di tutti. Caporal Stoppini, il più
burlone della compagnia gli disse a mezza voce:

— Ma, dimmi la verità hai svaligiato qualcheduno?

— A tavola, a tavola! — disse Marietta dileguandosi rapidamente
nell’oscurità del corridoio.

Lo-Cicero fu messo a capo tavola per voto unanime: gli altri si
accomodarono alla rinfusa, senza distinzione di grado, affratellati
tutti dalla vista della tavola piena di ogni grazia di Dio.

— A tavola siamo tutti uguali — diceva Mariani offrendo la sedia
a Lorenzetti il volontario della 2.ª E Lorenzetti si accomodò,
ringraziandolo collo sguardo; ma era vivamente contrariato; gli
sedeva di fronte l’antipatica figura del caporal maggiore Girelli,
il suo incubo, quello che gli aveva ritardato, di tre mesi almeno,
la promozione a caporale. Alla destra di Lo-Cicero, Di Gennaro, il
caporale di contabilità si baloccava intorno ad una scatola di sardine
che non riusciva ad aprire; Stoppini sedeva in faccia all’anfitrione,
col berretto sulle ventiquattro e il musetto appuntato di faina in
agguato.

L’antipasto sparì in un batter d’occhio fra gli applausi dei convitati.
Decisamente Lo-Cicero faceva le cose alla grande, e non stava a
lesinare sul centesimo. Peppino, rosso dalla gioia si schermiva
debolmente.

— Oh! ma vi pare!... Bevete piuttosto!...

— Alla salute del nostro caporal maggiore! — fece Lorenzetti alzando il
bicchiere.

Ma in quella Marietta comparve sulla soglia dell’uscio sorridente, con
un gran piatto di maccheroni fumanti tra le mani.

— Alla baionetta! — urlò Stoppini brandendo la forchetta
minacciosamente.

Fu un assalto in piena regola. Lo-Cicero volle servirsi l’ultimo
anche per aver tempo di sciorinare la sua brava dichiarazione alla
servotta dalle anche procaci. E mentre gli altri tuffavano il naso nel
vapore pregno d’aromi esalante dai piatti ricolmi, egli riannodava una
conversazione forse interotta fin dal giorno prima, coll’adorabile ma
superba cameriera.

— Dunque non ne vuoi proprio sapere?

— Lo-Cicero voi scherzate.

— Te lo dico sul serio, pure lo sai che ti amo!

— Queste cose dovete dirle a quella scimmia dell’_Aquila d’Oro_, dovete
dirle, non a me che vi conosco da un pezzo.

E così dicendo Marietta, colla scusa di ritirargli il piatto dinanzi,
gli sfiorava i capelli colla mano pienotta.

Mariani però — benchè intento ad ingollare delle prodigiose forchette
di maccheroni — stava colle orecchie tese e non aveva perduto una
parola del dialogo.

Anche lui poteva vantare delle pretensioni all’amore della bionda
Marietta, tanto è vero che una volta le aveva persin regalato un
fazzoletto di seta a scacchi rossi e neri.

Dunque Lo-Cicero era evidentemente un intruso; dunque colla scusa della
cena egli cercava di rubargli l’amorosa. Questo pensiero gli mandava
per traverso i maccheroni ingollati colla sua insaziabile voracità.

— Ah! ah! era dunque una sfida quella? Ebbene si sarebbe veduto alla
chiusa dei conti, si sarebbe veduto.

Allora il duello incominciò, sordo dapprima, poi a poco a poco più
palese per disputarsi le grazie della bionda tiranna: naturalmente
tutti se ne accorsero e si formarono due partiti.

Anche Marietta se ne accorse e colla tattica prudente che adoperano le
donne in simili casi, dispensava sguardi e sorrisi ai due combattenti
con lodevole imparzialità.

Mariani però perdeva terreno: che cosa era mai un fazzoletto di seta di
fronte all’anello d’oro che Lo-Cicero faceva scintillare dinanzi agli
sguardi cupidi della robusta servotta?

Perdeva terreno e si sfogava a bere e a fare dello spirito agro-dolce
che non riusciva a strappare l’ombra di un sorriso nemmeno ai
commensali del suo partito. La cena volgeva al suo termine, si era
alle frutta e Peppino, a cui premeva di concludere qualche cosa, aveva
ordinato due bottiglie di _Barbera_.

— E due per conto mio — urlò Mariani, già mezzo in _cimbalis_.

Si impegnò una discussione vivace. Lo-Cicero protestava altamente: era
o non era lui che aveva invitato?

Dunque le spese e gli onori della serata doveva farli lui.

Mariani non volle saperne; il diapason della discussione si innalzò
rapidamente malgrado gli sforzi di Lorenzetti che cercava di condurla
sopra un terreno più ragionevole.

In breve anzi essa cangiò natura: non si trattava più di sapere chi dei
due doveva pagar le bottiglie, ma l’astio invidioso di Mariani aveva
tratto in ballo alcuni vecchi rancori da lungo tempo sopiti. E come il
vino e l’amore lavoravano non poco in quei cervelli esaltati, non ci
volle molto a passare dalle ingiurie alle minaccie e da queste alle vie
di fatto.

In un batter d’occhio la tavola fu sparecchiata; piatti, bottiglie,
bicchieri, volarono per l’aria e si ruppero sui muri con un fracasso
assordante; all’improvviso la camera fu piena di gente, e i litiganti
separati da un’ondata di soldati, sentirono la voce nasale del furiere
portalettere che dava l’_attenti_ e quella ben nota del tenente Rinaldi
che diceva pacatamente al sergente di ispezione:

— Mi metta bravamente in prigione questi due belligeranti e mi faccia
sgombrar la cantina....

                                   *
                                  * *

Nella prigione di rigore Lo-Cicero e Mariani rimasero soli con un
freddo che tagliava le orecchie senza nemmeno potersi vedere in quel
buio fitto. Ad un tratto trasalirono; avevano udito nel corridoio il
bisbigliare sommesso di due persone. Mariani corse a metter l’orecchio
al buco della serratura e Lo-Cicero si arrampicò nell’inferriata
spingendo lo sguardo nella semioscurità del corridoio. Due ombre nere
si avanzavano, una alta e lunga, l’altra piccola e rotonda. Mariani non
vedeva nulla, ma aveva riconosciuto il passo di Marietta, le ombre si
avvicinavano sul muro dirimpetto.

— Fai piano per carità!... — disse una voce femminile che fece
sussultare i due rivali prigionieri.

— Sì amor mio, — rispose una voce maschile dalla spiccata inflessione
sarda.

Successe un momento di silenzio, poi le due ombre passarono
silenziosamente abbracciate nel corridoio sotto gli occhi stupefatti di
Lo-Cicero e si dileguarono.

Lo-Cicero scese dall’inferriata ed accese un fiammifero.

I due rivali si guardarono in faccia.

— Hai visto?

— No, ma ho sentito.

— Il sergente Sironi!...

— Con Marietta!...

— Siam suonati per benino!...

— Chi l’avrebbe detto: eh! Quella.... casta Susanna!...

E i due compagni di sventura si strinsero sorridendo la mano e si
sdraiarono sul tavolaccio mettendo in comune la sconfitta toccata e le
proprie coperte.




PICCHETTO ARMATO

(IMPRESSIONI DEL PRIMO MAGGIO).


I miei 40 uomini sono pronti: metto il kepì colla copertina bianca,
sguaino la sciabola, mi aggancio la mantellina.

_ — Fianco-destr-march!_

Usciamo dai quartiere a passo rapido e cadenzato: i soldati sono quasi
allegri; hanno il portamento fiero delle grandi circostanze; io invece
sono di un umore perfido, non ho chiuso occhio durante la notte, e il
caffettiere vicino mi ha avvelenato con una tazza di cicoria. È una
splendida domenica di maggio, il cielo è tutto roseo, il Po ha una
delicata tinta carnicina a riflessi di argento; certe piccole nubi,
migranti per l’aria, sembrano batuffoli di bambagia; come un gran riso
di letizia scende dal cilestrino chiaro dell’alba, sale dal verde dei
giardini e della collina.

Non mi pare possibile che una giornata così bella debba essere
funestata da disordini.

Traversiamo il Valentino; nelle aiuole fiorite scintillano le perle
della rugiada, dalli alberi fioriti sale come l’inno profumato di
maggio, tutto freme, tutto vive, tutto canta; la sabbia stride sotto i
nostri passi.

Camminando, penso agli strani e dolci occhi della signora D.... che ho
accompagnato a casa un’ora fa; mi ritorna alla mente la meravigliosa
somiglianza di lei e della figlia; gli stessi occhi d’un bigio
azzurrino quasi metallico, la stessa taglia slanciata ed elegante, il
medesimo profilo fine, marcatamente aristocratico; sotto le palpebre
sonnolenti, si disegna la splendida immagine della signorina Maria X,
una testina meravigliosa sopra un corpo sottile d’adolescente. Nelle
orecchie mi ronza tuttora il trillo acuto dei mandolini, la cadenza
birichina dell’ultima polka....

                                                            _Ore 5¾._

Siamo all’ergastolo. Mettiamo le armi al fascio nel cortile, poi i
soldati si sbandano; il capo guardiano mi fa preparare una camera.

— La prigione delle donne, — mi dice la moglie del portinaio.

— Ah! E quante ce ne sono?

— Trecento.

— Capperi!...

Passeggio un po’ per i cortili cercando di vedere traverso le persiane
verdi e le inferriate massiccie. Ma non vedo nulla e un sonno pesante
mi chiude le palpebre. La mia camera è preparata. Vado a buttarmi sul
letto.

                                                        _Ore 10 ant._

L’arrivo del tenente colonnello ha interrotto il mio sonno pesante;
ho messo in rango i soldati, ho dato le novità coll’aria perfettamente
stupida di chi è destato di soprassalto nel primo sonno, poi il tenente
colonnello se n’è andato; mentre si chiudeva dietro di me il pesante
portone di ferro, il cappellano, un ometto piccolo dalla fisonomia
intelligente, mi ha detto premurosamente:

— Tenente, lei ha l’aria molto stanca, ritorni a riposare.

— Grazie, da giovedì che siamo tornati non ho certamente dormito otto
ore a causa di questi torbidi operai....

E aggiungo mentalmente una filza di imprecazioni a denti stretti.

— Poveri giovani!...

Passeggiamo insieme nel cortile tutto ombreggiato di grandi alberi
verdeggianti; egli ha sotto il braccio un enorme registro e fiuta
di tanto in tanto una presa di tabacco da una vecchia tabacchiera di
legno. Qualche suora grigia e qualche guardiana traversano rapidamente
il cortile pieno di sole e di frescura. Regna una pace grande di
chiostro.

— ... Ne abbiamo trecento — disse il buon pretuncolo annasando la
sua ventesima presa di tabacco, — e sono divise in varie categorie:
quelle condannate a tempo, le recluse e le carcerate. Quindici suore di
carità, quattro o cinque guardiane, tengono a posto meravigliosamente
bene queste trecento reiette della società; è stupendo il servizio
che fanno le suore e sono magnifici i risultati che ottengono: esse
regnano colla dolcezza, colla persuasione, colla carità cristiana;
provvedono alle scuole, alla chiesa, ai laboratori, ai lavori
femminili; i migliori corredi da nozze e da battesimo che si vendono
sotto i portici di Piazza Castello, sono opera delle condannate, le
quali percepiscono una piccola mercede per ogni lira di guadagno fatta
dall’amministrazione sulle vendite. Abbiamo qui delle delinquenti
famose e tutti i delitti vi sono rappresentati ed hanno il loro colore
speciale; predominano l’infanticidio e l’omicidio; le donne che hanno
sulla coscienza dei delitti di sangue sono vestite di rosso; le ladre,
le falsarie, vestono di grigio, le donne di mala fama in color caffè
scuro.

Le varie categorie non possono mai comunicare fra di loro; ognuna ha il
suo cortile di ricreazione e la sua cappella in chiesa e le sue suore
speciali.

In fondo non stanno male però, hanno due buoni ranci al giorno, del
pane bianco di seconda qualità e tutte le domeniche la pietanza.
Lavorano otto ore al giorno: assistono tutti i giorni alle funzioni
religiose, imparano a leggere e scrivere e si perfezionano in qualche
mestiere.

Molte, quasi tutte anzi, escono da questo ambiente moralmente
rigenerate; quelle poverette che non escono ci muoiono tranquillamente
e forse vanno in Paradiso, perchè Iddio terrà loro conto della
espiazione.

— Povere donne!... — dissi.

— Oggi appunto — continuò il cappellano — c’è ufficio funebre per una
povera reclusa morta improvvisamente questa notte per un’aneurisma;
aveva da scontare diciotto anni di reclusione e ne aveva di già passati
diciassette qui dentro. Era una bella donna sulla quarantina, di
condotta esemplare, condannata per omicidio; il portinaio ch’è nella
casa da oltre vent’anni, ricorda di averla veduta entrare. Una vera
bellezza, uno splendido campione della razza abruzzese; anche ora, dopo
diciassette anni di prigionia, conservava le sue fattezze regolari e la
freschezza della carnagione; portava il numero 312.

— Come si chiamava?

— L’ho detto: 312. Le donne, entrando qui dentro perdono nome e
personalità; diventano numeri, come gli uomini al bagno penale,
precisamente. I loro nomi sono sul registro della Direzione e quasi
nessuno li sa: alle volte esse stesse finiscono per dimenticarlo.

Una guardiana venne in quel punto a sollecitare il cappellano per le
esequie: una immensa curiosità si era impadronita di me.

Certo il buon prete dovette leggerla nei miei occhi, perchè mi disse
bonariamente:

— Se le fa piacere può assistervi anche lei.

— Grazie — e lo seguii....

                                   *
                                  * *

Il corteo funebre si avanzava verso la chiesa. Quattro donne portavano
una bara lunga e stretta ricoperta da una coltre nera frangiata di
giallo; alla coltre un numero di panno rosso: 312.

Il cappellano indossò in fretta la cotta e la stola, prese
l’aspersorio, si mise in testa al mesto corteo ed intuonò il più bello
dei canti liturgici cristiani:

— _Miserere mei Deus secundum magnam misericordiam tuam_.

Subito per l’atrio della chiesa si levò un coro di voci femminee di
una straziante malinconia, le donne seguivano il feretro allineate, gli
occhi bassi, le mani giunte sul petto e cantavano:

— _Et secundum multitudinem miserationem tuarum dele iniquitatem meam_.

La frase liturgica, si svolgeva lentamente in un pieno accordo di
toni, invadeva il cortile verdeggiante, saliva al cielo nell’aria
profumata di maggio; dalli alberi rispondeva il gorgheggio degli
uccelli, lo stormire lento delle fronde. Una zona bionda di sole feriva
tragicamente il gruppo.

— _Amplius lava me ab iniquitate mea et a peccato meo munda me_.

Entrammo in chiesa. La chiesa ha una navata centrale con un unico
altare altissimo a cui si accede per mezzo di due gradinate; è divisa
in due piani e in tante cappelle separate, quante sono le suddivisioni
delle povere prigioniere. Le cappelle sono divise dalla navata
centrale da pesanti inferriate. Tutte le cappelle erano occupate dalle
recluse che pregavano in ginocchio; nella luce chiara della chiesa i
colori spiccavano; dominava il rosso, un rosso scuro di sangue umano
coagulato, luccicavano i bianchissimi scapolari delle monache, il
grigio serviva di fondo.

Ora cantavano tutti i meravigliosi versetti del _Miserere_; nel coro
si distinguevano le voci giovanili fresche e squillanti, le voci
senili più basse, più fioche, quasi velate; pure era una bella fusione
armonica di toni vocali, era come una sinfonia di anime preganti la
pace eterna all’estinta. Appoggiato ad una delle colonne d’ingresso col
kepì tra le mani, io fissavo il feretro dove il numero 312 campeggiava
sinistramente sulla coltre nera, e pensavo. Traverso la coltre funebre
e le tavole d’abete della cassa mortuaria, io vedevo la morta. Era
vestita di bianco, aveva le mani incrociate sul petto le palpebre
chiuse nella pesantezza del sonno eterno; il volto ed il collo di
una bianchezza cerea conservavano ancora una calda tinta vitale. E la
immaginavo a vent’anni, le nerissime chiome scendenti sulli omeri, le
labbra rosse aperte al sorriso sulla chiostra luminosa dei denti, il
giovane seno rigoglioso e fremente, le anche procaci. Per una specie
di divinazione, ricostruivo la storia della sua vita travagliata,
rievocavo l’immagine delle fanciulle abbruzzesi, delle belle
stornellatrici di D’Annunzio, ritte, coll’arco lunato della falce, tra
il fieno alto e odorante. Ecco, lontano splende in lamine d’oro il

    ... flagrante verde adriatico

sul cielo di berillo splende il sole feroce di mezzogiorno, in fondo
nereggia di abeti la Maiella, sul greto mormora strani accenti la
Pescara.

Anche lei canta con le compagne i dolci stornelli paesani e la sua voce
sale acutissima nel cielo, scende dolcissima nel cuore di un uomo che
la ascolta nascosto tra i giuncheti della riva, pazzo di desiderio. Poi
cade la sera; cielo, mare, monti, giuncheti, tutto annega dolcemente in
un color violetto tenero, ricco di sfumature; più acuto sale il profumo
del fieno tagliato, più acute salgono le voci delle cose, indistinte.

È l’ora dell’amore.

Tra i giuncheti ella trova l’amatore aspettante: ella ha ancora del
sole negli occhi, nei capelli, nel sangue: un languor dolce è per
tutto; i pioppi della riva hanno accenni di assentimento, le erbe
accasciate della canicola si rilevano alla brezza, frementi; le acque
della Pescara narrano una pietosa storia d’amore.

Egli la prende alla vita, gli occhi ardenti di desiderio, le labbra
ardenti di desiderio, tutte le membra frementi di conquista....

Il cielo, il mare, i monti applaudono; i pioppi della riva salutano.

Quell’uomo la porta via in paesi lontani, nei paesi freddi del Nord
dell’Italia; ella lo ama furiosamente, ne è furiosamente gelosa, ma
egli non le bada più; una notte l’abbandona furtivamente nella soffitta
senza un soldo, senza un tozzo di pane, dopo averle impegnato i larghi
cerchi d’oro che ella portava alle orecchie. Al mattino ella balza
in piedi come una pantera ferita e si precipita fuori della soffitta
stringendo nervosamente sotto il grembiale un affilato coltello a
serramanico. Traverso ai vetri dell’osteria lo vede accanto ad un’altra
donna, colle palpebre dipinte di nero, le guancie spalmate di carminio;
bevono ambedue allegramente guardandosi negli occhi, sorridendosi.

D’un balzo ella gli è sopra, gli immerge il pugnale nel petto e
ferisce replicatamente la rivale, poi il lungo coltello a serramanico
le cade di mano, una fitta nebbia di sangue le cala sugli occhi e la
instupidisce.

In prigione, non parla più, lavora in silenzio assorta sempre nella
visione di lui, intenta a sentire quello che di lui le dicono le cose
ed il suo cuore.

E vive diciasett’anni così, collo spasimo di quell’amore fitto
nell’anima come un chiodo sempre rovente, colla continua visione del
suo morto che le turba e le consola i sonni. Una notte di maggio tutta
scintillante di astri ella si rivede con lui tra i giuncheti come la
prima volta, quando tutte le cose annegavano nella luce violetta del
cielo, quando per la prima volta i suoi sensi e l’anima sua annegavano
nella voluttà. L’impressione è troppo forte, ella si desta di
soprassalto pallidissima, tutto il sangue le è rifluito al cuore e il
cuore troppo gonfio si spezza.

Ella è morta così.

— _Et lux perpetua luceat ei._

— _Requiescat in pace_ — intuona il cappellano.

— _Amen!..._ — rispondono le trecento voci mestamente.

_Amen!..._ — aggiungo io sottovoce; le donne in lungo ordine portano
via il feretro, le quattro che lo sorreggono sono vestite di lana rossa
come era vestita lei, perchè aveva versato del sangue; le monache
seguono, li occhi dolcemente rivolti al cielo mormorando l’ultima
preghiera, le mani giunte sul petto. È finita; ella non è più nemmeno
un numero, non è più nemmeno una cosa, domani ella dormirà nel campo
santo torinese, lontana dal suo mare, dai suoi monti, dalla sua
Pescara, dai suoi campi gialli di sole, dove ha amato la prima volta,
dove ha gettato nell’aria vespertina le cadenze blande degli stornelli
meridionali.

— _Requiescat in pace!_ — dice per l’ultima volta il prete.

Sì, pace a questa povera martire del più forte tra i sentimenti umani,
a questa vinta dell’esistenza!

_Amen!_

                                                        _Ore 10 pom._

Giunge l’ordine di rientrare in quartiere; i disordini sono finiti.

Ripassiamo per il Valentino illuminato da una luna magnifica; molta
gente vi passeggia, signore, signorine, fanciulle. Di tanto in tanto si
incontrano gruppi di operai che ci guardano biechi, gruppi di soldati a
cavallo che scortano prigionieri. Anche questi sono i vinti dell’oggi,
gli sconfitti nella lotta rude dell’esistenza. Povera gente!

La luna alta sorride a tutti, si specchia con civetteria nelle acque
del Po, si posa sui balconi marmorei dei ricchi, sulle guglie delle
chiese con lattei languori, indifferente a tutte le nostre miserie. Un
gruppo di monache grigie traversa in fretta un viale dirigendosi ad
una chiesa aperta; le buone donne vanno a pregare per tutti, ricchi
e poveri, fortunati ed infelici, vincitori e vinti, oppressi ed
oppressori. Benedette!...

— _Compagnia alt!_

Siamo in quartiere.




PASQUA IN FORTEZZA


                                                  _Exilles.... 1893._

Amica mia, questa mattina, quando il soldato è entrato nella stanza ed
ha aperto le imposte, una bella striscia luminosa di sole è entrata
improvvisamente, balzando sul letto, rifrangendosi sulla parete
dirimpetto.

E il soldato, il buon Cornacchia, te lo rammenti? mi ha detto con una
grande allegria nella voce:

— Signor tenente, oggi è Pasqua.

— Va bene, dammi il caffè.

Nel dormiveglia tentavo di continuare il sogno interrotto bruscamente.
In verità non potrei dire che fosse un sogno; era più che altro un
lavoro della memoria che ricostruiva, minuto per minuto, una mezza
giornata della mia esistenza. Sorbendo il caffè caldo, pensavo
all’ultima domenica che avevamo passato insieme a Torino, rammenti?
alla nostra passeggiata triste su quel lunghissimo viale Margherita,
dagli alberi tutti brulli, illuminati da un sole pallido. Io ero in
borghese e ti davo il braccio, tossendo a piccoli colpi secchi ogni
minuto, e ti narravo tutta l’odissea delle mie disgrazie, non tacendo
nulla, nemmeno i miei torti, come ad un fratello, come ad un amico.
Era una giornataccia: nel cielo larghi fiocchi di nuvole bigie si
inseguivano, passando dinnanzi al sole pallido, stendendo come una
cortina di piombo; qualche sprazzo d’azzurro qua e là che lasciava
passare un fascio di raggi bianchi, e una striscia di nuvole nere in
fondo che serrava l’orizzonte come una coltre funebre.

Gli operai vestiti a festa ci guardavano curiosamente al passaggio;
tutta graziosa tu, colla giacchetta di velluto marrone a galloni
d’oro, colla veste azzurra, di un azzurro opaco indovinatissimo; tutto
frettoloso io col bavero dell’_ulster_ alzato e il _foulard_ fino
alle orecchie. Traversammo Porta Milano, ci internammo nella galleria
nuova, dove la musica suonava; si pareva uccelli dispersi noi due tra
quel popolino indomenicato (la parola è brutta, ma è italiana) che si
divertiva. Entrammo in una birreria, domandammo qualche cosa;... tu
mi facevi coraggio, mi dicevi di sperare e avevi invece nella voce la
disperazione e un gran dolore nel cuore che traspariva dagli occhi....

— Sor tenente, sono le nove, — mormora Cornacchia.

— Sta bene: dammi i vestiti.

La zona di sole ha invaso trionfalmente la stanza, si è impadronita del
letto e della parete di fronte mettendo dei lucciori dappertutto; dalla
finestra aperta entra un’arietta fresca, refrigerante, profumata di
ginepro; un gran pigolìo di passeri è nell’aria.

Mi vesto, scendo in cortile a far la passeggiata mattutina, mentre
Cornacchia mi fa il letto e mi prepara la colazione.

Il cantiniere mi dà la buona Pasqua.

Grazie, e sorrido. Dio mio, no, non deve essere stato un sorriso molto
allegro quello, e nemmeno molto triste: oramai credo di aver persino
dimenticato le dolci consuetudini di certe solennità famigliari.
Pasqua? Natale? Capo d’anno? Giorni un po’ più tristi degli altri per
il cumulo delle dolci memorie che risvegliano: ecco tutto.

Camminando adagio, adagio, respirando a pieni polmoni, giungo alla
batteria da 15, che ha i pezzi in barbetta sul fianco sinistro del
forte. Tutto il forte, nero, ferito dal sole, sembra meno tetro, sembra
ringiovanito. Sotto passa la Dora, stretta tra le ripe di macigno come
un cane al guinzaglio, urlando. A destra, sul contrafforte, ancora qua
e là bianco di neve, si erge minaccioso nell’ombra il fortino di Serre
la Garde; ma tutta la vallata a monte si perde in sfumature di verde
tenero e di viola pallido, maculate di larghe striscie bianche, e per
gli alberi scarni corrono i primi brividi della vita, e dalla terra
smossa sale il potente odore dei primi germogli.

È Pasqua, è Pasqua; ecco, da un piccolo tuffo d’erbe ho colto questa
viola piccola, non ancora dischiusa, la prima viola di questi monti,
forse, e te la mando. Nota la coincidenza curiosa: è nata proprio a due
palmi di distanza dalla gola nera di un enorme cannone da 15....

I soldati sono fuori tutti, per il paese; anche i consegnati; nel
cortile però un coscritto seduto al sole sta facendo asciugare un paio
di uose.

— E voi perchè non siete uscito? — gli domando.

Il coscritto si alza, diventa rosso, abbassa la testa.

— Sor tenente, non tengo soldi....

La ragione è indiscutibile; mi frugo in tasca, gli metto in mano
qualche lira.

— Tieni, vai a spasso; bevine un bicchiere alla mia salute.

— Sor tenente!...

— Silenzio! non si rifiuta mai: prendete!

Il buon diavolo intasca i danari, mi fa un saluto di perfetta ordinanza
e se ne va in camerata colle sue uose non completamente asciutte:
più tardi mi ripassa davanti in gran tenuta, i guanti bianchi, la
trecciuola sul kepy, sorridendo come un uomo felice.

Due lire fanno felice un uomo, e anche meno talvolta....

                                   *
                                  * *

Quasi in compenso della mia buona azione la posta mi ha recato una
lettera tua e un letterone da casa: tutta la famiglia che mi scrive.
Nel leggerle e nel rileggerle ho passato due ore di una tristezza
deliziosa. Come sei stata buona a ricordarti di me, a farmi coraggio!
Subito ho pensato ai nostri progetti di quella domenica, che tu non hai
nella lettera voluto rammentare, pensando che ciò avrebbe aumentato
la mia tristezza. Povera amica!... Ma io ci ho pensato e ho scosso
il capo, ricordando quante volte il destino aveva traversato i nostri
progetti così bene architettati, e mi è venuta l’idea di non farne mai
più, di lasciarmi vivere così, in balìa del caso, senza illusioni,
senza speranze, senza desiderii. Poi ho sorriso di me stesso e di
questa idea. Che sciocco! spero di rivederti; come farei se mi mancasse
questa speranza; come farei?

La lettera di mamma è corta e dice un mondo di cose buone e commoventi.
Senti, cosa mi dice la mamma: «Perchè tu dovevi venire, Roma, la tua
eterna amante, si parava de’ suoi colori più belli sotto la carezza
del suo splendido sole; il Pincio, la tua passeggiata prediletta,
è tutta una fioritura lussureggiante; i pioppi della Villa Borghese
rinverditi, stormiscono ed hanno quel fruscìo particolare di seriche
vesti femminili, che a te piace tanto; la via Nazionale è un’apoteosi
di luce, il laghetto di Villa Pamphili è azzurro come una turchese e
trasparente come il cristallo.... Ma tu non vieni e allora nel cielo
della nostra Pasqua famigliare passa la brutta nuvola della tua assenza
e Roma non mi piace più». Povera e santa donna, quanto affetto in
quelle poche righe, quanto dolore in quelle poche parole!... Ecco, ora
ridivengo triste, di una tristezza cupa, fatta tutta di ricordanze e di
rimpianti.

Saranno fanciullaggini, ma certi ricordi dell’adolescenza, quando mi
assalgono all’improvviso, mi mettono subito nella gola un nodo doloroso
di pianto e lo stimolo delle lagrime negli occhi. Ahimè! soltanto lo
stimolo, che è come uno spasimo acuto che non trova sfogo mai nelle
lacrime.

Quello che rende la mia memoria più terribile è la visione _fisica_
perfettissima delle cose e degli uomini: io non so; pare quasi che i
fantasmi evocati dalla memoria si coloriscano nella retina dell’occhio
di tutti i loro colori reali. Ora per tutta la giornata e per molti
giorni ancora io non saprò togliermi dall’anima la visione del Pincio
tutto fresco e odorante come un mazzo enorme di fiori, la visione di
Via Nazionale e del laghetto di Villa Pamphili, il fruscìo femminile
dei pioppi di Villa Borghese che stormiscono, che accennano coi vertici
acuminati al perpetuo dubbio della vita....

                                   *
                                  * *

Che ti parli di me? Sarò noioso, amica mia; la mia vita anche quando
è allegra, è triste come un ideale mancato; ora poi non può essere
allegra, figurati!...

Dopo il _fatto_, lo sai, stetti alcuni giorni in quartiere agli arresti
di rigore, aspettando.

Tre giorni fa, mercoledì mi pare, arrivò l’annunzio: due mesi di
fortezza ad Exilles.

La notizia lì per lì non mi fece nè caldo nè freddo: anzi mi
meravigliai che non me ne avessero dati tre, come prevedevo.

Chiusi i bauli, sbrigai alcuni affarucci e partii. Ricordo che ordinai
al cocchiere di passare sotto le tue finestre; c’era il sole, speravo
di vederti perchè so che ami tanto il primo buon sole di primavera.
Le finestre erano aperte, anzi sull’ultima di destra era disteso il
tuo abito azzurro di quella domenica, orlato da una sottile striscia
di sole, ma tu non c’eri. Alla stazione comperai molti giornali e
non ne lessi nemmeno uno: era quasi solo nello scompartimento e col
viso al finestrino fumavo, fumavo.... Le ore son passate così in una
perfetta assenza di pensiero. È la prima volta che ciò mi accade e
darei qualunque cosa perchè mi accadesse un’altra volta, perchè è una
cosa deliziosa che ora non mi so più spiegare: una specie di catalessia
mentale; si vede tutto, si capisce tutto e non si pensa a niente, il
cervello in perfetto riposo.

Che cosa strana!...

Scesi a Chiomonte, il grazioso paesetto dei villeggianti, e fino ad
Exilles mi feci la strada a piedi. La strada mi era nota: l’aveva
percorsa tante volte nell’autunno in buona compagnia, e nell’inverno
sulla slitta tutto ravvoltolato nella mantellina; una strada assai
pittoresca, che costeggia la Dora spumeggiante da una parte e rode i
fianchi aspri del contrafforte del Gran Seren dall’altra, con voltate
brusche e frequenti; su tutti i declivi era ancora la neve alta.

Quando vidi il forte, il pensiero della prigionia mi strinse subito
il cuore come una morsa; il forte nero, visto dalla strada su quella
specie di masso morenico sovrastante alla Dora, ha un aspetto sinistro;
pare il castello dell’innominato, pare un covo di banditi appostati
sull’altura per sbarrare la strada.

Poi cominciò la dolorosa _Via Crucis_ della salita, una salita
eterna tra i campi a destra e i castagneti a sinistra, che mostrano
qualche strappo di verde tra il bianco uniforme della neve. E su, su,
faticosamente, per la Rampa Reale acciottolata, senza aver nell’anima
l’ideale ed il grido del pellegrino di Longfellow; anzi!...

Arrivai su che imbruniva: mi fu assegnata una delle stanze prospicienti
al cortile, e mi si disse che al mattino seguente il signor comandante
del forte mi attendeva per la visita di dovere.

Mi buttai sul letto tutto vestito e mi addormentai di un sonno di
piombo.

                                   *
                                  * *

Il comandante — un maggiore d’artiglieria — fu assai gentile; mi
assegnò tre ore al giorno di passeggio nel forte, e si fece dare la
parola d’onore che non sarei uscito: insieme alla parola gli diedi
anche la sciabola, che egli chiuse in un armadio.

Non mi vergogno a dirlo: distaccandomi dalla mia sciabola, fui preso da
quel nodo doloroso alla gola e da quello spasimo acuto negli occhi, che
sono il mio pianto, un orribile pianto angoscioso.

Più tardi, aiutato da Cornacchia, disfeci le casse; sai ho portato
tutto; i miei libri, i miei giornali, la tavolozza, i colori, il
mandolino....

Subito alla testa del letto, dove mia madre ci vorrebbe sempre vedere
la Madonna della Seggiola, ho fatto un trofeo di ritratti; tutti i
ritratti di famiglia; in mezzo vi campeggia quello grande di papà,
quell’augusta figura di vecchio dalla fronte serena, che mi ricorda i
bei versi di Luigi Giulio Mambrini:

    E conscio omai d’essere al duolo offerto,
    al duolo attinge sopra uman coraggio,
    indi sereno gli permane un raggio,
    il glauco raggio del grande occhio aperto.

Tra quello delle mie due sorelle ho messo la tua fotografia, quella di
profilo, un po’ malinconica, ma tanto bella; sei contenta?...

Più in là ho fatto un altro trofeo: quello degli amici e.... tanto lo
sai, delle amiche: ed ho tirato fuori tutta la mia biblioteca e tutti i
miei scartafacci nell’intento di studiare molto, di lavorare molto. Ci
riuscirò?

Dietro il paravento, Cornacchia mi prepara il pranzo pasquale. Che Dio
me la mandi buona!

                                   *
                                  * *

Da tre giorni faccio questa vita; mi alzo verso le nove, lavoro dalle
nove alle undici, dalle due alle sei e dalle otto a mezzanotte: ho
molta carne al fuoco e molti progetti per la testa....

Figurati, sto pensando ad un romanzo di cui tu sarai l’eroina.... Ti
piace l’idea?...

Al momento di chiudere la lettera mi si presenta Cornacchia, con una
di quelle sbornie classiche che fanno epoca; è accompagnato da un
_patriotto_ che lo sorregge per le ascelle. Viene a domandarmi se ho
bisogno di niente.

— Se ho bisogno di niente? — grido io arrabbiato — Sei tu, pezzo
d’asino, che avresti bisogno di qualche cosa.... lo so io di che
cosa.... Vai a letto subito piuttosto.... animale!...

Il _patriotto_, accompagnandolo fuori della porta, alquanto male in
gambe anche lui, mi dice con uno sguardo che intercede la grazia:

— Sor tenente.... è Pasqua....

Già — penso io — è Pasqua oggi: almeno gli altri lo dicono!...

Ma non mi lamento però, sai? la mia Pasqua l’ho passata con te.... in
ispirito, pur troppo!




LETTERA DI NATALE


                             _Dai ricoveri del M. Genevris 24-12-91._

  Mia buona mamma,

Sono le dieci del mattino e nei ricoveri è buio pesto; ti scrivo al
lume rossiccio della stufa che russa come un cosacco, ed a quello
problematico di una candela di sego che caporal Vernucchio ha avuto la
buona idea di portare con sè. I soldati preparano il rancio dietro le
indicazioni gastronomiche del caporal maggiore Lampertico, e Sassara,
il mio attendente, mi prepara un brodino succolento con delle scatole
di carne in conserva.

Così passo il mio Natale a 2531 metri sul livello del mare e penso
a voi tutti, e ti scrivo perchè tu sappia che, almeno in ispirito,
io sono sempre in mezzo a voi. Ma non ti ho ancora detto come mai il
giorno di Natale, io mi trovi sepolto nella neve, nei ricoveri del
monte Genevris, con 14 gradi sotto zero di freddo, e con due soldati
che giacciono sofferenti per congelazione degli arti inferiori. O senti
dunque.

L’altro ieri (era l’antivigilia di Natale) arriva per la posta l’ordine
della Divisione di mandare un drappello di soldati ed un ufficiale al
monte Génevris, per fare un’inventario degli oggetti in caricamento ai
ricoveri. Toccava a me, naturalmente, e, naturalmente, nevicava.

Il maggiore mi disse:

— Se la sente?

— Per me.... si figuri!... Sarà un po’ dura per i soldati....

— Basta.... si provi!...

Siamo partiti alle otto del mattino; i miei quindici uomini erano
allegri; tutti avevano il cappuccio di lana, i grossi guanti di lana,
le racchette appese al gancio della sciabola-baionetta, il fucile a
tracolla; due portavano il badile e due la gravina sulle spalle; dalle
tasche di dietro dei cappotti spuntavano le cannuccie delle pipe, i
tascapani erano rigonfi della grossa pagnotta di munizione. Sassara,
era bellissimo col suo musetto di faina col suo cappuccio di lana
marrone e l’_alpenstock_ fieramente impugnato.

— Siamo pronti? — domandai a Lampertico.

— Pronti, signor tenente.

— Allora, _fianco-destr.... march!_

Nevicava a larghissime falde e il paesaggio intorno scompariva nel
biancore della neve caduta: appena fuori del paese, sulla scorciatoia
di San Marco, si affondava nella neve sino al collo del piede, e
si sdrucciolava a quando a quando sugli strati di ghiaccio qua e là
scoperti.

Ad ogni caduta un clamore di risa si levava, un vivace scoppiettìo di
frizzi, di barzellette, di epigrammi in tutti i dialetti. Il caduto
si rialzava un po’ contrariato, un po’ sorridente, masticando una
giaculatoria, scuotendo la neve di cui si era riempito i guanti e le
maniche, riaccendendo la pipa.

Quando fu la volta di Di Giorgi, il povero seminarista che studiava
nelle ore libere per prendere gli ordini minori, quel mattacchione di
Rocco Saltara disse forte:

— Sia per l’anime del Purgatorio!

E Sassara, tra le risate di tutti, rispose con voce nasale da
sagrestano:

— _Amen!..._

Di Giorgi si rialzò e si rimise a camminare colla sua solita aria
rassegnata e sofferente.

Si traversò il paesucolo di San Marco senza vedere un’anima; la fontana
della piazza era tutto un ricamo di ghiacciuoli; immensi lastroni di
ghiaccio sporco comparivano qua e là sul bianco.

All’ultima casa una vecchia contadina si affacciò sulla porta della
stalla e ci guardò a sfilare, attonita. I soldati la salutarono.

— Dove andate? — domandò la vecchia.

— Al Génevris — rispose Rocco Saltara.

— Mamma mia!...

E giunse le mani in croce, volgendo gli occhi al cielo e crollando la
testa in segno di dubbio.

Lasciammo San Marco e pigliammo la strada maestra. Più si saliva, più
si sentiva la raffica gelata; tuttavia si camminava di buon passo e
di buon umore; i soldati cantarellavano allegramente, o fumavano, o
sbocconcellavano il pane. Sanpietro e Pigliapoco, i due anziani della
_classe di ferro_, parlavano del futuro Natale che avrebbero passato
alle loro case, alzando la voce per suscitare l’invidia degli altri.

— Qualcuno non la mangia più la gavetta del Governo, quest’altro
anno!... — diceva Pigliapoco, con quell’accento di superiorità che fa
tanta impressione sui coscritti.

Appunto anch’io pensavo che, dal giorno che partii soldato, ti ricordi?
cioè da dodici anni a questa parte, non ero mai riuscito a passare con
voi la dolce festa familiare. E mi venivano alla mente un’infinità di
piccole memorie, una folla di piccoli ricordi. Povera mamma, quanta
pazienza devi aver avuta con noi quando eravamo tutti piccini e
volevamo fare il presepio sull’armadio della saletta d’entrata, e ti
mettevamo in croce perchè tu ci comprassi i _pastorelli_, quelli fini
da tre soldi l’uno, che si vendevano in piazza Navona!

E io mi ricordo benissimo che ero il più accanito, il più insistente,
il più noioso, io che piagnucolavo quando tu mi compravi quelli da un
soldo, così grossi, così tozzi, tutti d’un pezzo, colle gambe unite,
con quell’aria così goffa, che faceva pietà! Gli è che fino da allora,
vedi mamma, io avevo di già anche troppo sviluppato il gusto delle
cose belle e dei piaceri estetici, che ora mi inchioda per delle ore
dinnanzi ad un quadro od una statua; che mi rende infelice quando la
mano o l’ingegno sentono la loro impotenza nella riproduzione, dirò
così, materiale della immagine che mi si disegna nel cervello con tanta
chiarezza. Gli è che.... Ma io, come al solito, divago. Pensando al
presepio, pensavo dunque a voi tutti: rivedevo la faccia serena del
babbo con i suoi bei _palmerston_ d’argento, che gli dànno l’aria di
un diplomatico, e i tre bei visini delle sorelle, così differenti e
pur così identici nell’espressione della bontà, il volto più grave di
Edoardo, il musetto biricchino di Antonio.

E pensavo al vostro bel pranzetto di Natale, ai cappelletti alla
bolognese, nuotanti nel brodo di cappone dai grandi occhi d’oro; allo
zampone di Modena di un bel rosso cupo sul giallo crema della _purèe_
di patate; all’enorme _pan dolce_ di Genova, caldo e rigonfio e pieno
di zibibbo e di pistacchio; al bruno _pan forte_ di Siena, tutto
nero punteggiato qua e là dal bianco delle mandorle; ai mandarini di
Palermo, di un bel giallo d’oro di Napoli.

Vedevo a tavola il mio posto vuoto colla mia fotografia sul piatto,
delicatissimo pensiero di mamma affettuosa, e mi pareva di sentire la
voce tenorile di Edoardo, che declamava i martelliani del brindisi. Bei
tempi quelli, eh mamma?

Basta: assorto in questi dolci ricordi io camminavo rapidamente e
macchinalmente, senza sentire il freddo nè la fatica dell’ascensione,
nè la neve gelata che mi schiaffeggiava il volto, spinta da un vento
rabbioso.

Ad un tratto mi vidi dinanzi i muri a secco neri e screpolati delle
casupole di Sauze d’Oulx, l’ultimo paesetto dopo il quale bisognava
affrontare risolutamente la montagna, senza aver più la speranza di
un asilo. Mi accorsi allora che camminavamo da due ore e mezzo sotto
quella raffica di neve, che avevo le mani e i piedi perfettamente
gelati, che il mio stomaco vuoto gridava vendetta al cospetto della
colazione, la quale dormiva inoperosa nel tascapane di Sassara, e
decisi di fare alt.

A Sauze d’Oulx c’è un tabaccaio che fa, viceversa, anche l’oste e
l’ufficiale di posta. Entrammo nella sua retrobottega dove russava una
enorme stufa di ghisa; ordinai due litri d’acquavite per i soldati e
un vino caldo per me, e attaccai energicamente la bistecca che Sassara
aveva gelosamente riposta tra le due metà di un bel pane.

I soldati facevano ressa intorno alla stufa, che mandava un delizioso
calore.

— Ah! come si sta bene qui!...

Il tabaccaio e sua moglie, servendo l’acquavite domandavano
meravigliati:

— Ma dove andate?

— Al monte Génevris.

— Con questo tempo?

— Con questo tempo.

— Non arriverete; c’è la tormenta.

— Bisogna arrivarci — risposi io, per troncare la discussione poco
incoraggiante — abbiamo ordine d’arrivare!

Pure più mi conquistava il benessere del cibo e del calore di quella
stanzetta, più mi mancava il coraggio di proseguire; rimaneva da farsi
il più difficile; attaccare risolutamente la montagna, camminando alla
cieca nella neve sino al ginocchio, con quella tormenta orribile che
accecava e levava il respiro.

Sarei riuscito a portar lassù sani e salvi i miei quindici uomini? E
avrei potuto tornar indietro prima che si facesse notte? Ma quel «se
la sente?» del maggiore mi ritornò all’orecchio come una amara ironia,
e mi punse come un colpo di sperone. E subito mi levai in piedi, mi
rimisi i guanti ed il cappuccio, accesi il sigaro, e pagato il conto
diedi il segnale della marcia.

Sulla porta della bottega il tabaccaio mi diede l’ultimo ammonimento.

— Signor tenente, torni indietro; lassù non ci si arriva!

E additava, col braccio e coll’indice distesi, i contorni appena
visibili della montagna.

L’ammonimento disinteressato ottenne l’effetto contrario: mi spronò a
proseguire.

Appena fuori del paese ogni traccia di sentiero scomparve; dinanzi a
noi era l’immensità bianca di un candore scintillante che offendeva
la vista: il nereggiare di un bosco d’abeti rompeva solo quella triste
uniformità di bianco.

Ci dirigemmo al bosco, camminando sulle orme di Sassara e di
Pigliapoco, che andavano _di punta_, colle racchette legate alle
scarpe; malgrado ciò si affondava fino al ginocchio nella neve molle
che cedeva ad ogni passo, rendendo assai faticosa la marcia. Sotto il
cappuccio, lungo il collo, lungo la schiena, grosse gocciole di sudore
colavano, che il freddissimo vento ghiacciava. La neve ora seguiva le
folate del vento vorticosamente polverizzata e indurita, percuotendoci
il volto con mille punture dolorose, penetrando dappertutto,
imbiancando baffi e capelli e sopracciglia.

Camminavano in fila uno dietro all’altro nel medesimo solco, come una
sinistra processione di spettri, nel silenzio desolato della montagna.

Come Dio volle, giungemmo al bosco degli abeti, dove Sassara e
Pigliapoco accesero un magnifico falò di rami secchi. Ci scaldammo ben
bene, bevemmo un altro sorso d’acquavite, e via....

Io non rammento bene quanto tempo abbia camminato; ricordo che quando
partimmo dal bosco era mezzogiorno preciso; ricordo anche che prima di
giungere alla vetta, dove c’è il segnale trigonometrico, Di Giorgio e
Lapertuso mi dissero con voce spenta:

— Tenente, non ne posso più!

Io feci unire insieme con un nodo le due funicelle da zappatore,
e prima di affrontar l’ultima china, la più pericolosa, ci legammo
tutti, io in testa, il caporal maggiore Lampertico alla coda. Ma da
quel momento io non ricordo altro, se non che avevo un gran bisogno
di correre, di correre all’impazzata, per sottrarmi al gelo che mi
pervadeva tutto, che penetrava per tutti i pori, che mi gelava il
sangue nelle vene: il bisogno di sottrarmi al martirio di quelle
mille trafitture, al martirio di quella tormenta che mi toglieva il
respiro. Non so quante volte sia caduto, quante volte mi sia rialzato:
ogni tanto sentivo dietro di me un tonfo sordo e uno strappo doloroso
della corda al braccio destro; ma non capivo: avevo nelle orecchie un
sinistro ronzio e camminavo come spinto da una forza soprannaturale.
I ricoveri! i ricoveri! Oramai i ricoveri non erano più soltanto il
_dovere_, erano la salvezza: bisognava arrivare ai ricoveri subito per
non cadere nella neve estenuati, per non morire. Qualche cosa di nero
mi si rizzò dinanzi: era il palo, il segnale trigonometrico. Trovai
ancora la forza di gridare:

— Avanti! siamo ai ricoveri!...

Ma appena giunti sulla cresta (una cresta a lama di coltello) ci fu
forza camminare quasi carponi per non essere rovesciati nel baratro che
ci si apriva sotto, il baratro pauroso del Chisone. Il cielo era nero,
il vento soffiava con una indicibile violenza; non si vedeva più nulla,
non si sentiva più nulla.

— I ricoveri! i ricoveri! — urlò Sassara, che per il primo aveva
scoperto i tetti scuri tra la neve.

Cominciò allora la discesa precipitosa nel versante del Chisone; sentii
allentarsi la corda e un galoppo furioso dietro di me; mi passarono
dinnanzi come ombre gigantesche i quattro soldati delle gravine e dei
badili, e tutti raccoglievano le ultime loro forze per giungere più
presto a riscaldarsi.

I ricoveri erano sepolti nella neve; bisognava sbarazzare la porta a
furia di pale e di gravine; fu un lavoro febbrile di mezz’ora, mezz’ora
che parve un secolo di spasimi, le mani irrigidite e le punte delle
dita in fiamme, i piedi diventati blocchi di ghiaccio.

Come la porta fu sgombra, nessuno aveva la forza di aprirla; la chiave
pareva scottasse fra le mani, un’impazienza feroce teneva tutti.

Finalmente la porta cedette agli sforzi. Entrammo. I ricoveri erano
gelidi, pieni di neve; ci volle un’altra mezz’ora per accendere il
fuoco; poi, come la legna cominciò ad ardere, tutti fecero ressa
attorno alla stufa, e allora soltanto potei contarli.

Erano tredici; ne mancavano due. Di Giorgio e Larpertuso!

Quello che provai in quel momento, mamma, è difficile che tu possa
immaginarlo; fu come se mi avessero piantato nel cuore una lama diaccia
e sentii i capelli drizzarmisi sulla testa, rigidi come serpenti.
Pure indugiai prima di prendere una risoluzione; ero sfinito di forze
e avevo troppo freddo; nemmeno mi sentivo il coraggio di comandare
quattro o cinque uomini per andare alla ricerca dei caduti: quei
giovanotti di vent’anni che si disputavano a spinte un posticino vicino
alla stufa, lividi, paonazzi, assiderati, mi facevano pietà.

Non ti dirò come facemmo per ritrovarli; erano caduti prima di giungere
al palo, sfiniti dalla stanchezza e assiderati; dovemmo portarli a
braccia nei ricoveri dove la stufa mandava ora un delizioso tepore.
Erano vivi per fortuna, ma entrambi hanno le gambe assiderate e
soffrono, poveretti! incapaci del più piccolo movimento.

Il resto lo indovini, non è vero? Per fortuna questi ricoveri sono
pieni di ogni grazia di Dio: legna, coperte, acquavite, galletta,
carne in conserva, zucchero, pasta, lardo, tutto l’occorrente insomma
per fare il rancio e per dormire. Naturalmente non c’era da pensare a
tornare indietro.

Sassara mi ha preparato un bel letto con dodici coperte, abbiamo
caricato di legna la stufa e ci siamo addormentati in un sonno di
piombo.

                                   *
                                  * *

Ora siamo prigionieri della neve e passiamo il Natale quassù a 2531
metri di altitudine, in mezzo alla tormenta. Un Natale un po’ più
triste del vostro, cara mamma, un Natale doloroso per quei due poveri
diavoli a cui nessuna energica frizione di neve ha potuto restituire
l’uso delle gambe, doloroso per me che soffro di vederli soffrire e su
cui incombe una grave responsabilità, doloroso per il maggiore e per
gli ufficiali del distaccamento che da due giorni mancano di nostro
notizie. Ma, santo Dio! di chi la colpa? Come si fa ad ordinare certe
escursioni ai 23 di dicembre sulle Alpi?

Scusami lo sfogo, sai. D’altronde il Natale volevo passarlo almeno
con te in ispirito: mangiando la mia zuppa di pan da munizione, mi
vien fatto di ripensare ai tuoi famosi cappelletti nuotanti nel brodo
di cappone dai grandi occhi d’oro; bevendo l’acquavite allungata
coll’acqua, sospiro quel magnifico Chianti stravecchio che il vinaio
ci regala ogni anno per Natale. E dopo tutto, veh! anche il ricordare
volti e persone e cose care, a quest’altezza, in mezzo a poveri
contadini ignoranti che mi vogliono bene, ha pure il suo lato poetico.
La vita è fatta di contrasti, no?...




LA CACCIA ALLA VOLPE


Ma la burla più bella, la burla piramidale — saltò su a dire caporal
Cipolla richiamato del ’69, alzandosi sulla panca per conciliarsi
l’attenzione di tutti e forbendosi la bocca colla manica del cappotto,
— la burla più indovinata l’abbiamo inventata noi al campo di *** in
Lombardia. Tutte le vostre gherminelle riunite insieme non valgono la
nostra _caccia alla volpe_ improvvisata in una bella notte di luna....

— La caccia alla volpe? — domandarono in coro gli altri richiamati,
solleticati dalla curiosità, disponendosi ad ascoltare, i gomiti sul
tavolo e il volto nelle mani.

— Sicuro, una caccia alla volpe magnificamente preparata, stupendamente
condotta, meravigliosamente riuscita; tanto è vero che la volpe non si
trovò e la carne.... nemmeno. Abbiate pazienza, vi racconterò tutto per
filo e per segno e poi giudicherete....

Si empì fino all’orlo un bicchiere di _San Giovese_, un vinettino
razzente che a detta di Meucci (un altro dei richiamati) scioglieva
lo scilinguagnolo e rinfrescava la memoria; lo bevve tutto d’un fiato,
il capo arrovesciato all’indietro e gli occhi socchiusi dal piacere, e
cominciò:

— Quel giorno dunque ci avevano fatto accampare sul Ticino, nel luogo
stesso ove finì la manovra: in quel punto il fiume corre incassato
tra due ripe a picco, ma la magra delle acque lasciava scoperti,
specialmente sulla riva sinistra, alcuni grandi tratti di letto
sabbioso e sassoso sul più esteso dei quali l’aiutante maggiore aveva
pensato bene di stabilire le cucine da campo. Detto fatto: e mentre una
parte degli zappatori scavava le buche circolari, il rimanente, sotto
gli ordini del sergente Tirinnanzi, costruiva una rampa d’accesso per
le comunicazioni colla piattaforma superiore su cui il Reggimento era
attendato. Insisto su questi particolari descrittivi per non essere
obbligato a tornarci su, durante la narrazione.

— Tira via, tira via.... — dissero i più impazienti....

— Un momento! Bisogna sapere che il sergente fisso per le cucine era il
non mai abbastanza famigerato Ciceri che pareva nato apposta per quella
missione: or bene, il bravo Ciceri era appunto nativo del paesello
nei cui dintorni avevamo messo il campo. Epperò, appena distribuito il
rancio di pasta delle quattro pomeridiane, chiamò al _gran rapporto_ i
dodici caporali di cucina, diede gli ordini per il rancio di carne che
si doveva distribuire alla sveglia e concluse:

— Questa notte io me la batto e vo a passar qualche ora coi miei
vecchi: vediamo di far le cose con giudizio ed in maniera che nessuno
abbia ad accorgersi della mia assenza: e se sarò contento di voi vi
farò assaggiare al mio ritorno qualche fiasco di quello vecchio: siamo
intesi?

Caporal Lupini, come più anziano, rispose a nome di tutti:

— Vada tranquillo signor sergente e lasci fare a noi.

Ciceri prese la rampa e scomparve. Allora caporal Lupini ci trattenne
col gesto.

— Amici, ho un’idea — disse.

— Fuori l’idea!

— Non so se siate del mio parere; ma da quando è incominciato questo
maledetto campo mobile, non siamo riusciti a mangiare un rancio di
carne da cristiani.

— È vero, è vero! — risposero in coro gli altri undici caporali di
cucina.

— Coll’aggravante — seguitò Lupini — che se si mangia male, in compenso
si lavora il doppio e si sta in piedi dalla sveglia alla.... sveglia
del giorno dopo. Dico bene?

— Benone, per Dio!

— Ma tutte le cose debbono avere un limite, e questa sera mi sembra
giunto il momento di fare una clamorosa vendetta dei semi digiuni
dei giorni scorsi. State bene attenti; il sergente Ciceri non c’è.
Come dice il proverbio? «Quando manca la gatta i sorci ballano» non è
vero? Dunque eccovi qua la mia pensata. Siamo trentasei tra caporali
e soldati di cucina; con cinque soldi a testa si compra un magnifico
caratello di vino da 50 litri; verso le undici colla scusa di accendere
i fuochi per il caffè e per il rancio, si confeziona in una marmitta a
parte un eccellente ragù, una ventina di chili di carne scelta, e si fa
una cena squisita.

— Va bene, ma poi? — domandammo tutti curiosamente.

— Poi...: dovete sapere che alla manovra di questa mattina il 3º
battaglione ha stanato due volpi che erano una magnificenza. Le volpi
sono ladre per istinto; non ci sarebbe dunque nulla di strano che,
attirate dall’odore, una mezza dozzina di esse si fossero precipitate
a saccheggiare la tenda-ripostiglio che è laggiù, mentre tutti noi
eravamo occupati ad accendere i fuochi. Vi torna?...

— Eh! l’idea non è cattiva!...

— È tutta questione di preparar bene il colpo. Alle undici dal
colonnello all’ultimo soldato, dormiranno tutti profondamente. Quello è
il momento di cenare; a mezzanotte comincieremo la caccia per il campo,
sveglieremo l’ufficiale di guardia, la guardia alle armi, tutto il
mondo se occorre. Spargeremo qua e là qualche brandello di carne cruda,
faremo un bravo buco nella tenda ripostiglio, urleremo come dannati
finchè non sarà entrata in tutti la convinzione che effettivamente le
volpi hanno rubato la carne....

— Ma.... e i soldati? — domandò Meucci vinto da un ultimo scrupolo —
rimarranno senza rancio domattina?

— Come sei ingenuo!... Siccome non c’è tempo nè modo di provvedere
altra carne fresca, il colonnello darà l’ordine di consumare per domani
una delle due scatole di carne in conserva che i soldati portano nello
zaino....

— È vero!...

— È giusto!...

— Il che — continuò Lupini trionfante, farà loro più piacere che il
brodo caldo alle tre e mezzo del mattino, no? D’altronde lasciate fare
a me e accontentatevi di assecondarmi; a cena, con un bravo barile
dinanzi combineremo il nostro piano con tutti i suoi particolari.
Frattanto cominciate a tirar fuori i cinque soldi per il vino: io metto
subito i miei, ecco qua.

Prese cinque soldi, li mise nel berretto e cominciò a fare il giro;
i soldi vi piovvero dentro con un allegro rumore. Meucci, che si era
offerto di trovare il vino, li mise in un fazzoletto e scomparve.

— Per ora — conchiuse Lupini — potete _rompere le righe_, ma acqua in
bocca veh! e alle dieci di questa sera riunione intorno ai fornelli. Lo
giurate voi?

I trentaquattro rancieri stesero la mano destra e misero la sinistra
sul camiciotto all’altezza del cuore esclamando a bassa voce come un
branco di congiurati:

— Lo giuriamooo!...

E ognuno si recò al Ticino a lavare le marmitte da campo della propria
compagnia.

                                   *
                                  * *

Alle dieci precise nessuno mancava all’appello.

Caporal Lupini fece la chiamata e impartì tutti gli ordini opportuni:
la carne debitamente lardellata e preparata nel padellotto più grande,
non aspettava che di essere messa al fuoco. Fu acceso un focherello
discreto nell’ultimo fornello di sinistra e si stabilì un oculato
servizio di vigilanza, una specie di _fermata protetta_, per garantirsi
da ogni sorpresa per parte dell’ufficiale di guardia. Meucci comparve
curvo sotto il peso del suo barile che fu rizzato su due cavalletti
improvvisati e il solo Lupini rimase intorno al padellotto in cui il
lardo cominciava a canticchiare dolcemente.

Le cinque vedette ogni quarto d’ora si davano regolarmente la muta e
venivano a portare le novità a caporal Lupini:

— Niente di nuovo. Gli ufficiali sono sotto le tende, il cantiniere ha
spento i lumi.

— Va bene.

— Come va il ragù?

— Benone, è quasi cotto: preparate i coperchi delle gavette.

Alle undici in punto sul campo regnava una calma sovrana sotto l’alta
luna vigilante e il ragù era cotto. Caporal Lupini fece le razioni,
certe razioni di mezzo chilo l’una e distribuì il sugo nei coperchi
delle gavette che si tendevano a lui. Meucci si mise accanto al barile
per regolare la distribuzione del vino nelle tazze di latta.

— Che ragù, eh, ragazzi?...

— Stupendo!

— Eccellente!

— Un ragù fuori d’ordinanza!

— Finalmente si mangia da cristiani!

— Ce lo siamo meritati però!

— Basta che non ci vada per traverso! — arrischiò Guttaperca che aveva
ancora qualche rimorso.

Ma Nonmipeschi che era stato l’ultimo a smontar di vedetta, disse
coll’accento della maggior sicurezza:

— L’ufficiale di guardia dorme: ho visto che smorzava la candela.

Tutti mangiarono, dopo questa notizia, più liberamente: e a misura
che il pezzo di carne diminuiva nelle loro mani, il vino gorgogliava
dal barile nelle tazze di latta e scendeva a innaffiar le ugole e a
ricreare gli spiriti.

— Questo è il vinetto del curato! — diceva Meucci.

E raccontava di averlo avuto proprio dalla cantina del curato a così
basso prezzo perchè aveva saputo intenerire il cuore della Perpetua.

— Era giovane almeno?

— Non lo so; l’ho vista al buio; del resto che importa? il vino è buono
e costa poco....

— Già.... Perpetua vecchia.... fa buon brodo.

E tutti a ridere di cuore chè il vino era buono davvero e ristorava lo
stomaco.

Caporal Lupini per frenare quell’allegria che minacciava di diventar
compromettente, diede le sue istruzioni:

— Anzitutto ognuno laverà il suo coperchio di gavetta e la tazza di
latta; Meucci nasconderà il barile vuoto e Guttaperca farà scomparire
tutte le tracce del nostro pasto frugale. Poi accenderemo i fuochi e
subito dopo, ad un mio cenno, armati di tizzi accesi, di forchettoni
di tutto ciò che capiterà alle mani, ci precipiteremo su per la rampa
gridando come anime dannate:

— Dài! pigliala! ammazzala!

— Lascia fare a noi!...

— La tenda-ripostiglio sarà chiusa, ma sforacchiata da una parte;
qualche pezzo di carne cruda sarà gettata sui solchi al principio della
rampa. Io mi incaricherò di svegliare l’ufficiale di guardia.

— E il povero Ciceri? — chiese ancora Guttaperca che non era del tutto
tranquillo.

— Diremo che ha preso il fucile e che è corso dietro alle volpi. Tutti
sanno che è un cacciatore terribile.

— Verissimo! Ben trovata per Dio!

Il barile non conteneva più un gocciolo di vino e ai colpi delle nocche
suonava fesso. Mentre i cucinieri cominciavano ad accender la legna nei
loro fornelli, Meucci se lo mise in ispalla e si perdette per l’alveo
del fiume in cerca di un nascondiglio sicuro.

Come i fuochi furono accesi bene, caporal Lupini diede il segnale,
impugnando un grosso tizzo ardente.

— A noi!

Me ne ricordo come se fosse ora e non mi posso tener dal ridere a
ripensarci. Quella corsa notturna di indemoniati traverso al campo
con quelle fiaccole improvvisate, quegli urli, quelle grida, quello
sfrenato galoppo di mattacchioni in camiciotto da ranciere, non li
dimentico più campassi mill’anni.

Io brandivo un forchettone e urlavo peggio degli altri, come un dannato:

— Dagli! dagli! ammazzala!

Figuratevi! tutto il campo si destò di soprassalto a quel casa del
diavolo; la guardia corse alle armi, i soldati misero la testa fuori
dello tende, spaventati, credendo ad un attacco notturno di selvaggi.

— Che c’è? che c’è?

— Le volpi! le volpi! Pigliale! Dài! Hanno rubato la carne!...

Balzarono fuori tutti soldati e ufficiali colle sciabole e le baionette
sguainate, portando via alle compagnie le lanterne da campo, correndo
all’impazzata, ridendo, bestemmiando.

Io e Meucci che ci trovavamo in testa, guidavamo la caccia fantastica
mezzo soffocati dal ridere, e frattanto caporal Lupini, con una faccia
tosta incredibile, faceva il suo bravo rapporto all’ufficiale di
guardia e al colonnello che era sopraggiunto a quel putiferio:

— Stavamo accendendo i fuochi per far bollire le marmitte quando
sentimmo un po’ di rumore dalla parte della tenda-ripostiglio. Corro
a vedere con due soldati e in quel mentre un branco di volpi, saranno
state certamente una dozzina, sbucano fuori colla carne in bocca e via
per la rampa!...

— Ma il sergente di cucina? — domandò il colonnello un po’ imbronciato
per il suo sonno così bruscamente interrotto.

— Era con noi, signor colonnello, e appena vide le volpi afferrò il suo
fucile, un pacco di cartucce e corse loro dietro. A quest’ora chissà
dov’è!...

Il colonnello che conosceva l’abilità venatoria di Ciceri, si volse
all’aiutante maggiore e all’ufficiale di guardia dicendo loro in
piemontese:

— _S’a j’è Ciceri à na pija quaicuna sicurament!..._

E concluse:

— Il rancio non si può più fare?

— È impossibile, signor colonnello.

— Allora, capitano, dia ordine che domattina la truppa consumi una
razione di carne in conserva!

E se ne ritornò sotto la tenda, mentre i trentasei rancieri dopo
aver sguinzagliato gli altri alla caccia delle volpi ipotetiche, si
disperdevano qua e là per il campo, evitando di incontrarsi per non
ridersi sul muso.

E la tromba di guardia suonò per la seconda volta il silenzio.

Era l’una antimeridiana. Il sergente Ciceri rientrava in quel momento
al campo, ma in quale stato, mio Dio! Se non aveva preso la volpe,
aveva preso certamente una famosa.... pelliccia!




L’UOMO VOLANTE

DALLE MEMORIE DI UN VOLONTARIO.


                             . . . . . . .

Il secondo segnale del silenzio era suonato da più di un’ora senza che
io avessi potuto chiudere un occhio e trovare una posizione comoda in
quel letto di Procuste che è il tavolaccio di una prigione. Ogni rumore
nel quartiere era cessato, tutti dormivano: la vita pareva sospesa in
quel silenzio.

— Avessi almeno un compagno con cui scambiar quattro parole! — pensavo.

La solitudine è sempre una dura cosa; è durissima poi a diciotto anni,
quando il cuore è naturalmente espansivo e l’anima non peranco avvezza
a bastare a sè stessa.

Ad un tratto, quasi il cielo avesse voluto esaudire il mio desiderio,
alcuni passi si udirono nel corridoio, un bagliore di luce penetrò
nella prigione per il piccolo finestrino. La chiave girò nella toppa,
il chiavistello stridette negli anelli rugginosi, e la porta si aprì
dando il passo al nuovo venuto.

Alla luce rossiccia del _Marzocchi_ che un soldato di guardia teneva in
mano, riconobbi il mio ex-istruttore, il caporal maggiore Saporetti.
Balzai dal tavolaccio, gli corsi incontro a mano tesa, il volto
atteggiato alla più grande delle meraviglie.

— Come? — esclamai — _tu quoque?_

E riflettendo che egli non era obbligato a capire il latino,
volgarizzai subito la domanda:

— Anche tu?...

Saporetti mi rispose con un cenno del capo: era ancora in _tenuta
d’uscita_, pallidissimo, lo sguardo smarrito, le mani che gli tremavano
nel consegnare al soldato il cinturino e il kepy.

Lo liberai dalla coperta che distesi sul tavolino vicino alla
mia, mentre il caporal di guardia ne chiudeva dentro a due mandate
augurandoci la buona notte.

Rimanemmo in un buio perfetto e mentre mi stendevo sul tavolaccio
poggiando il capo sul cappotto ripiegato, non seppi resistere alla
curiosità e gli domandai ancora:

— Ma che diamine hai fatto?

— Ho tardato alla ritirata, sono rientrato in quartiere adesso.

— Tu??!

— Già!

— Qualche avventura amorosa eh? fortunato briccone?!..

Non mi rispose: sentii che si ravvoltolava nella coperta e mi volgeva
le spalle, poi dopo qualche minuto mi disse con una voce che non mi
parve la sua:

— Buona notte, Lamberti!

— Buona notte!

Mi voltai anch’io sul fianco sinistro e cominciai e pensare.

Saporetti in prigione? Se non lo avessi avuto lì sotto gli occhi,
non ci avrei creduto. Saporetti era la perla dei caporali maggiori
del Reggimento, uno di quei graduati come se ne trovano pochi; in
venticinque mesi di servizio non un giorno di consegna; attento,
energico, rispettoso, autorevole, superiori ed inferiori lo stimavano
tutti e gli volevano un gran bene, benchè fosse di carattere assai
riservato e fuggisse tutte le occasioni di trovarsi in compagnia.
Noi volontari poi, che eravamo stati suoi allievi, lo amavamo e lo
rispettavamo come un fratello maggiore, subivamo l’ascendente del suo
carattere serio e un tantino misterioso, della sua equità inflessibile,
della bontà del suo cuore. Benchè egli non si fosse confidato con
nessuno, si buccinava che volesse contrarre la firma e passar sergente;
difatti usciva di rado, lo si vedeva sovente in camerata o in cortile
con dei libri in mano leggendo o studiando. Nessuno gli conosceva
un’innamorata vicina o lontana, non scriveva lettere, non ne riceveva
mai.

Come dunque spiegare la sua prima mancanza? Che cosa poteva aver egli
fatto fuori di quartiere fino a quell’ora? Perchè era rientrato così
agitato, così sconvolto, con lo sguardo smarrito e le mani tremanti?...

Quella angosciosa emozione non poteva ragionevolmente attribuirsi al
dolore della prima punizione, poichè la mancanza non era grave e il
colonnello che gli voleva bene, non gli avrebbe inflitto più di tre
giorni di prigione semplice. O allora?...

Tra questi pensieri e con questa curiosità nell’anima mi addormentai.

                                   *
                                  * *

Un furioso dimenar di gambe sul tavolaccio, un rantolo selvaggio come
di bestia soffocata, mi destarono di soprassalto. E subito sentii nel
ginocchio un dolore vivo: uno dei piedi di Saporetti mi aveva colpito
con forza.

— Saporetti, per Dio! diventi matto? — gridai spaventato liberandomi
dalla coperta.

Il rantolo continuò più soffocato, più straziante: poi sentii le membra
dell’infelice dibattersi disperatamente come se fosse in preda ad un
insulto epilettico.

Ebbi paura: balzai a sedere sul tavolaccio, cercai sotto il traversino
di legno un moccolo di candela che mi serviva per leggere nelle ore di
insonnia, e l’accesi.

Alla livida luce del fiammifero ebbi una di quelle raccapriccianti
visioni che fanno drizzare i capelli sulla testa.

Saporetti tentava di strangolarsi colla cinghia dei pantaloni; se l’era
messa intorno al collo a guisa di nodo scorsoio e tirava rabbiosamente
con tutte e due le mani, già paonazzo nel volto, la bocca orribilmente
spalancata, gli occhi schizzanti dalle orbite.

Buttai il fiammifero e gli fui sopra. Accadde nel buio una tragica
lotta che mi parve durasse un secolo. L’infelice voleva morire a tutti
i costi e tirava con furore il pezzo di cinghia che gli era rimasta tra
le mani; io riuscii ad afferrare quelle sue mani callose che parevano
d’acciaio, a strappargli violentemente la cinghia tenendolo sotto di me
colle ginocchia sul petto.

— Lasciami morire! lasciami morire! — supplicava egli colla voce
strozzata.

E mentre io, padrone omai della cinghia, spalancavo con un pugno il
finestrino e gli sbottonavo il cappotto e la camicia perchè respirasse
con maggior libertà, egli ruppe in un pianto disperato supplicandomi
ancora tra i singhiozzi.

— Lasciami morire, per carità, lasciami morire!...

Piangeva, dunque era salvo. Che fare? Chiamare il caporal di guardia
perchè mi portasse un lume, perchè mi aiutasse a persuader l’infelice
di star tranquillo e calmarsi? A quale scopo? L’indomani tutto il
quartiere avrebbe saputo il tentativo di suicidio, si sarebbero
volute scoprirne le cagioni, ne sarebbero derivate al povero Saporetti
un’infinità di seccature e di fastidii.

Ma.... e se avesse ritentato?

A buon conto avevo gettato la cinghia dal finestrino e mi proponevo di
vegliare tutta la notte. Accesi dunque il mio pezzetto di candela e mi
avvicinai a lui, gli presi le mani tra le mie.

Saporetti ora, spossato dallo sforzo e dalla lotta, giaceva supino
sul tavolaccio le braccia distese, il collo gonfio, il volto livido,
l’occhio dilatato. Respirava a fatica. Fortunatamente dal finestrino
spalancato penetrava nella piccola prigione un’ondata di aria
freschissima che allargava i polmoni: a poco a poco la sua respirazione
si fece più regolare, le guance, le labbra ripresero il loro colorito
un po’ acceso, gli occhi, la cui fissità mi aveva spaventato, si
riempirono di lacrime.

E le lacrime cominciarono a scendergli per le gote, silenziosamente,
come due rivoletti che pareva non dovessero disseccarsi più mai;
scendevano, scendevano senza che un singhiozzo sollevasse il suo petto,
scendevano continuamente, disperatamente, senza posa. Quel dolore muto
straziava l’anima.

Io lo lasciai piangere senza dir parola: quel pianto rappresentava
senza dubbio la crisi benefica dopo la quale i suoi nervi pacificati
si sarebbero distesi nel sonno. E intanto pensavo, le membra corse
da un brivido d’orrore: mio Dio! E se non mi fossi svegliato? e se mi
fossi svegliato troppo tardi? Avrei giaciuto tutta la notte vicino ad
un cadavere!... Che cosa avrebbero detto l’indomani? E se avessero
accusato me della morte? Fremevo a quell’idea, pur nondimeno chi
avrebbe potuto provare che non fossi io l’assassino? Sudavo freddo.

Ad un tratto mi sentii stringer la mano e udii la voce fioca di
Saporetti, una voce d’oltre tomba, che mi diceva:

— Perchè.... perchè non mi hai lasciato morire?...

— Morire! Povero Saporetti! Si muore forse alla tua età?...

— Si muore a tutte le età quando si è infelici, quando si è
maledetti....

— Ma, disgraziato, non hai dunque un padre, una madre? Non hai nessuno
cui la tua esistenza sia cara, nessuno che la tua morte avrebbe gittato
nella disperazione?

Saporetti si mise a sedere sul tavolaccio e appoggiò la schiena al
muro; asciugandosi le lacrime disse a bassa voce come parlando a se
stesso:

«Nessuno! Sono un povero diavolo io.... chi vuoi che si curi di me?
chi vuoi che pianga per me? Un padre? una madre? Certo li ho avuti, ma
non ne conservo che una rimembranza lontana e confusa. Avevo sei anni
quando mi trovai solo, sull’imbrunire, in mezzo ad una strada. Fu caso?
fu colpa? Chi lo sa?... Passò di là il pagliaccio di una compagnia di
saltimbanchi, mi regalò una ciambella, mi prese per la mano e mi portò
via.

«Da quel giorno invece che carezze non ebbi che frustate e fui tirato
su a calci e a pezzi di pan nero; da quel giorno e fino al momento
di venire sotto le armi feci il saltimbanco. Vedi? non ho più un
membro che non sia slogato, un osso che non sia rotto. Oh! è una
storia allegra la mia, caro Lamberti! Tutto quello che era fattibile
io l’ho fatto: il clown, il pagliaccio, il ginnasta, l’uomo-serpente,
l’uomo-salamandra, l’uomo-volante.

«E ognuno di questi mestieri mi è costato qualche cosa: a Barcellona
caddi da cavallo e mi lussai una spalla, a Lione per fare il triplo
salto mortale mi rovinai un ginocchio, a Berlino poco mancò non mi
rompessi il collo nel salto del _plongeur_, e finalmente a Trieste,
saranno due anni, facevo l’uomo volante; una sera dopo i soliti
esercizii sui due trapezi mi buttai nella rete: il salto fu così
violento che la rete mi sbalzò fuori e mi ruppi due costole contro il
parapetto del circo, hai capito?»

Io stavo ad ascoltarlo a bocca aperta: nella semioscurità
della prigione egli parlava ora con una voce cupa che mi faceva
raccapricciare, con un’ironia tagliente, con un disperato sarcasmo che
mi facevano paura.

«Dopo l’ultima disgrazia che mi inchiodò per sessantacinque giorni in
un letto d’ospedale, il Direttore della Compagnia vedendo che di me non
poteva omai far più nulla, mi mise in mano il provento di una colletta
fatta tra gli artisti e mi mandò con Dio.

«Mio primo pensiero fa quello di tornare a Torino dove era un tempo la
mia famiglia: mi presentai da uno zio che tien bottega di pizzicheria
in via S. Massimo e fui duramente respinto:

« — Chi siete? Chi volete?

« — Son vostro nipote, Giorgio Saporetti, il figlio di Vincenzo vostro
fratello.

« — Mio fratello è morto e quanto a Giorgio credo sia morto anche lui
all’età di sei anni....

« — Vi dico che Giorgio son io, che a sei anni appunto fui preso dai
saltimbanchi....

« — Animo, meno chiacchere: a me non si raccontan frottole: ho altro da
fare io che perder tempo con uno straccione come voi....

« — Ditemi almeno dove sta mia madre, vostra sorella.

« — Non lo so: è partita da Torino che saranno cinque o sei anni....

«E mi sbattè l’uscio sul muso.

«Tutte le ricerche per trovare mia madre riuscirono vane; mi rivolsi
senza frutto al Municipio ed agli antichi vicini di casa; soltanto il
vecchio portinaio mi disse che cinque anni prima mio padre era stato
assassinato in borgo Vanchiglia e l’assassino rimase ignoto come ignota
fu la cagione del misfatto. Dopo la morte del babbo la mamma e mia
sorella lasciarono la casa e nessuno ne aveva avuto più notizie.»

— E allora? — domandai io vivamente interessato.

« — Allora venni via da Torino e mi presentai al Distretto colla mia
classe. Ci venivo volentieri sotto le armi, non avevo una casa, non un
parente che si interessasse di me e mi volesse bene non avevo nemmeno
un mestiere, io che ne avevo fatti tanti e pensavo che, dopo tutto,
avrei potuto farmi nell’Esercito il mio piccolo posticino.

«Al Distretto non mi volevano ricevere perchè il mio nome non figurava
nelle liste; scrissero però al Municipio di Torino e di laggiù
risposero che Giorgio Saporetti era morto, anzi mandarono anche una
copia dell’atto di morte. Capisci? ero morto io.... Qualcuno doveva
aver avuto un grande interesse a farmi scomparire dalla scena del
mondo!... Basta: ci volle del bello e del buono per far constatare la
mia identità: finalmente fui incorporato in questo Reggimento dove
vivevo da quasi due anni se non felice almeno tranquillo e un po’
riconciliato colla società».

— E allora perchè volevi morire?

«Aspetta, non ho finito; l’_orribile_ cosa viene ora».

Una nuova e dolorosa crisi di pianto lo interruppe.

Aspettai che si calmasse, in silenzio.

                                   *
                                  * *

— Una peggiore sciagura — continuò — una peggior vergogna mi erano
riserbate. Quello che sono per dirti esige però da te la promessa di
una segretezza assoluta.

Gli serrai fortemente la mano.

— Puoi fidarti di un amico sincero, — dissi.

«Ascolta dunque e giudica tu se non avevo ragione di voler morire.

«Saranno cinque o sei giorni, mi trovavo a passeggio nel giardino di
Piazza Vittorio. C’era molta gente; operai, soldati, balie, cameriere,
donnine allegre, tutto il pubblico solito di Piazza Vittorio insomma.
Ad un tratto mi si accostò una ragazza in capelli, piuttosto belloccia,
bionda, con un’aria un po’ sfrontata: e nel passarmi accanto mi guardò
arditamente negli occhi e mi disse sottovoce in dialetto piemontese:

« — _Ciao bel gougnin!_

«Lì per lì non ci feci caso e tirai diritto; evidentemente era una di
quelle povere diavole che vivono alla giornata sui capricci erotici
di questo e di quello; però prima di tornare in quartiere la incontrai
ancora tre volte e tre volte ella mi sorrise invitandomi collo sguardo.
Quella fisonomia non mi riusciva nuova: dove diamine l’avevo altra
volta veduta?

«Tornando in quartiere pensavo a tutti i tipi di ragazze che avevo
incontrato qua e là nella mia vita vagabonda, ma nessuna mi rammentava
i lineamenti di quella lì, che nonpertanto avrei giurato di aver
conosciuto in altri tempi. Ci pensai tutta la notte inutilmente e
il giorno dopo tornai al giardino di piazza Vittorio. La vidi, ma
non era sola: discorreva in un angolo con un giovanotto imberbe e
malvestito, un operaio forse, e poco dopo si allontanarono insieme
lungo la via Buonarroti. Li seguii alla lontana per mera curiosità,
non senza un secreto dispetto però, e li vidi entrare in un portoncino
basso che portava il numero 14. Aspettai un pezzo e, come la coppia
non ricompariva, me ne tornai in quartiere sopra pensieri. Omai
l’immagine di quella disgraziata si era impadronita del mio cervello
e mi compariva dinanzi ad ogni momento. Sorprendendomi a pensarci mi
indispettivo; nella mia povera vita di funambolo vagabondo, ero stato
troppo sovente a contatto del vizio, perchè ogni forma di esso non
dovesse suscitare nell’animo mio il più profondo disgusto. Ma che cosa
legava dunque il mio pensiero all’immagine di quella povera creatura
abbietta?

«Trascorsero tre giorni durante i quali non mi fu più possibile
vederla; pensavo con un’inquietudine di cui non mi sapevo spiegar la
causa, che ella fosse malata e ne soffrivo. Anche, la sua assenza,
eccitava in me il desiderio malsano di possederla.

«Questa sera, verso le otto, l’ho ritrovata pei viali del giardino.
Era sola e mi fece collo sguardo e colla mano un cenno di invito. Io la
seguii.

«Non saprò mai descrivere che cosa abbia provato nel breve tragitto
dal giardino alla via Buonarroti. Sul portoncino ebbi l’ispirazione di
tornare indietro; mi pareva che qualcheduno mi spingesse violentemente
sulla strada; il ribrezzo mi saliva alla gola come un’ondata di nausea:
tuttavia entrai e la seguii su per la lurida scaletta.

«Era una delle solite volgarissime stanze d’affitto a una lira per
notte, dove quelle sciagurate esercitano il loro triste mestiere; una
camera squallida, sporca, in cui il vizio trasudava dai mobili e dalle
pareti; il letto era basso, duro, con una gran coperta rossa piena di
macchie.

«Arrossii di me stesso ma mi mancò la forza di fuggire.

«Nella sua impudicizia serena e abituale, ella si spogliò in un attimo,
decisa a spicciarsi, poichè anche per quelle sciagurate il tempo è
moneta, e mi si avvicinò sorridendo del suo solito sorriso.

«Io la guardai a lungo. Era assai bella: il collo delicato e bianco
pareva uno stelo, le spalle d’avorio scendevano con una curva molle
piena di grazia, le braccia ed il seno erano squisitamente modellati.

«Dimenticai tutto, vinsi il disgusto.... e cedetti.

                                   *
                                  * *

«Suonava la ritirata quando mi accingevo ad andarmene. Ella era stata
assai gentile con me, mi aveva dimostrato una sincera simpatia, aveva
saputo dominare la sua impazienza; inoltre aveva avuto l’intelligenza
di capire che io non amavo i discorsi inutili e me li aveva
risparmiati.

«Mentre io deponevo _la mercede_ sul tavolino da notte, ella girandosi
sulla testa lo scialle e disponendosi ad uscire per proseguire la
notturna _caccia all’uomo_, mi disse:

« — Tornerai cit?

Risposi evasivamente.

«Eccoti il mio biglietto di visita per ogni caso.

E mi mise in mano un piccolo cartoncino a stampa su cui gittai uno
sguardo distratto. Il cartoncino in piccoli caratteri portava scritto
un nome che mi colmò di meraviglia: «Maria Saporetti».

«Rimasi perplesso con un dubbio angoscioso nell’animo, con la paura che
il dubbio diventasse da un momento all’altro un’orribile realtà.

« — Maria Saporetti? di Torino?

« — No, di Cuorgnè.

« — Di Cuorgnè? tuo padre come si chiamava?

« — Vincenzo, perchè?

« — E tua madre?

« — Giovanna: ma perchè mi fai queste domande? Sei il delegato tu?

«Io sudavo freddo, rifiutavo di credere; domandai ancora:

« — Non hai uno zio che si chiama Pietro?

« — Sì.

« — Che tien bottega di pizzicagnolo in Via S. Massimo?

« — Sì, sì.

« — E tuo padre non faceva il calzolaio a Torino?

« — Appunto!...

« — Non fu ucciso cinque anni fa in borgo Vanchiglia?

« — Purtroppo! Ma tu chi sei?

« — Rispondi ancora. Non avevi un fratellino che si chiamava Giorgio?

« — Sì, — disse Maria guardandomi trasognata.

« — Che ne è stato? È vivo? È morto?

« — Hanno detto che è morto: io non me ne ricordo, ero tanto piccina!...

« — Un’altra domanda. Di tua madre che ne è stato?

« — Non lo so: dopo la morte del babbo ha sposato un mercante
d’ombrelli ed io sono fuggita di casa per non star col patrigno; dopo —
aggiunse con una grande indifferenza — non ne ho saputo più nulla. C’è
chi dice che sia andata in America....

« — Ascolta, le dissi fuori di me, stringendole i polsi, fissandola
intensamente negli occhi; — da quanto tempo fai questo mestiere?

« — Perchè vuoi saperlo? Chi sei tu?

« — Rispondi, per l’anima di tuo padre!

« — Da quattro anni.

« — Chi è stato il tuo primo amante?

« — Un sergente di cavalleria, — balbettò spaventata.

«Ricaddi su quel letto d’infamia come fulminato; tutto il sangue mi era
affluito al cervello, vedevo tutto rosso, sentivo un sinistro ronzio
nelle orecchie, il rossore della vergogna mi bruciava le guancie. E mi
nascosi il volto tra le mani scoppiando in singhiozzi.

« — Ma che hai? Chi sei dunque? Chi sei? — gridò Maria spaventata
avvicinandosi alla porta, pronta a chiamar gente o a fuggire.

« — Chi sono? Chi sono? Ah, disgraziata!

«Ma un lampo attraversò il mio cervello; perchè rivelarmi? Mi affibbiai
il cinturino, mi gittai in capo il kepy e fuggii come un pazzo sentendo
di non poter padroneggiare il desiderio, il bisogno di baciarla e di
strangolarla. Mia sorella! mia sorella! Quella disgraziata, quella
prostituta, quella donna che si vendeva al primo venuto, che si era
venduta a me, era _mia sorella!..._

«Dove andai, che cosa feci io non lo so: fuggivo come un pazzo
per le vie di Roma e mi pareva che tutti sapessero la miseria mia,
che tutti leggessero il mio nome a caratteri di fuoco in una gran
macchia di fango. Vedi Lamberti, io sono un povero figliuolo senza
istruzione, senza coltura, cresciuto in un ambiente tutt’altro che
virtuoso; pure ho anch’io delle idee sull’onore, ho anch’io un onore
personale, intimo, che ho sempre tenuto alto in tutte le circostanze e
quest’ultimo colpo che me lo rapisce è troppo forte, è troppo atroce.
Ma che ho dunque fatto perchè la maledizione del cielo mi perseguiti
così? Ritrovare una sorella amata, desiderata, vagheggiata nei sogni
della fantasia, ritrovarla in una casa infame, l’aria sfrontata, le
guancie coperte di belletto!!... Ritrovarla dopo essere stato il suo
amante di un’ora, dopo averle pagato il piacere di un’ora!... Ma di’ tu
dunque, dimmi, non avevo ragione di voler morire?»

E il disgraziato scoppiò per la terza volta in uno scoppio
irrefrenabile di singhiozzi; tra i singhiozzi si faceva strada
ostinatamente una domanda angosciosa:

— Perchè.... perchè.... non mi hai lasciato morire?

Io tacevo, annichilito.




IRENE


Andò così.

Verso le dieci di sera, mentre leggevo con grande interesse, sdraiato
sulla poltrona a dondolo, un libro del Taine, la porta a vetri che
mette sul ballatoio si spalancò e Alfredo entrò sorridendo del suo
sorriso infantile, tenendo a braccetto una donna.

Io mi alzai meravigliato.

— Madamigella Irene! — disse Alfredo facendo la presentazione con aria
comicamente cerimoniosa. E accennandomi a lei, soggiunse mentre io mi
inchinavo:

— Il tenente Roberto, mio carissimo amico, e per conseguenza tuo.

— Già.... gli amici dei nostri amici.... Ma si accomodi prego....

E chiusi il libro mentre Alfredo toltasi la sciabola frugava, da
padrone, nella dispensa.

Madamigella Irene si accomodò vicino a me; era una ragazza sulla
ventina, non bellissima, ma piacente per una certa dolcezza che aveva
nello sguardo e nel sorriso. Vestiva poveramente ma con una tal qual
pretesa di eleganza; nell’accento si accusava lombarda.

— Eh? che belle figliuole so scovare io? — diceva Alfredo distendendo
sul tavolo, che aveva sgomberato di tutti i libri, la tovaglia e i
tovaglioli. — In compenso tu ci darai da cena, vero? Lascia fare, me
ne incarico io; nella tua dispensa, a cercar bene, c’è da trovar sempre
qualche cosa. Vado in cucina ad accendere il fuoco e ti lascio in buona
compagnia.

— Fai! fai!... — risposi io tra contrariato e lieto di quella
diversione al metodismo delle mie abitudini.

— Siamo venuti a disturbarlo, non è vero? — cominciò la ragazza un po’
imbarazzata....

— Ma niente, carina!... Anzi! Figurati, leggevo, e finito il capitolo,
mi disponevo ad andarmene a letto come un provinciale qualunque. Perchè
non ti togli il cappello?

Notai che il tono confidenziale con cui la trattavo, le fece corrugare
impercettibilmente le sopraciglia; però i suoi sguardi, che avevano
avuto un fuggevolissimo lampo di sdegno, ripresero subito quella
tristezza rassegnata che dava alla sua fisonomia, un po’ irregolare,
una specie di fascino doloroso.

Ella si alzò, si tolse lentamente il cappello mentre io la guardavo.
Colle braccia sollevate dietro la nuca, la linea del suo corpo appariva
perfetta ed elegante, la vita sottile come un giunco, il seno e le
anche, pronunciati, le davano l’aspetto di una di quelle anfore greche
od etrusche di inimitabile purezza. Poi, come ebbe deposto il cappello
sul letto, cominciò a togliersi silenziosamente i guanti (certi guanti
di un giallo assai dubbio, ad un solo bottone) scoprendo i polsi
rotondi e due manine belle forse in origine, ma sciupacchiate, col
pollice e l’indice anneriti dalle sforacchiature dell’ago.

Faceva tutto ciò macchinalmente, lasciando errare sulle labbra pallide
un sorriso vago, guardandosi dattorno con un’indifferenza grande, come
se nulla potesse omai, nella vita, interessarla più.

Io mi avvicinai, le presi una mano che ella mi abbandonò senza
resistenza e l’accostai alla lampada.

— Facevi la modista?

— No, la sarta.

— Dove?

— A Milano.

— E.... ora?...

— Ora....

Un improvviso rossore le aveva coperto le guancie, le aveva imporporato
il collo e le orecchie. Mi fissò in volto quelle sue nere pupille così
dolci e così tristi e le abbassò subito, concludendo con un sorriso
forzato:

— Ora.... viaggio!

— Ah!...

Tacemmo entrambi: io pensai di essermi imbattuto in una di quelle che
hanno l’umore sentimentale e non ci feci caso. Accesi una sigaretta e
le offersi l’astuccio.

— Fumi?

— Grazie, no; non ho _ancora_ imparato.

La tristezza, una tristezza invincibile, oltrechè nello sguardo e nel
sorriso, era anche nella voce; una strana voce di contralto in cui le
note basse parevano fatte di singhiozzi e quelle acute di lacrime.

— Ed è molto tempo che.... viaggi?

— Tre settimane; son fuggita di casa il 20 di aprile.

— Coll’amante, naturalmente....

— No, sola.

— Perchè?

— Non ne parliamo, è una storia lunga.... Vuole che cambiamo discorso,
eh?

In quel momento Alfredo entrava trionfante con un piatto in mano.

— A tavola! a tavola! Vi ho fatto una _omelette aux truffes_ da far
risuscitare un intero camposanto: sentite che odore!...

Dal piatto fumante il possente odore dei tartufi si levava solleticando
acutamente le nari.

— Bravo Alfredo, per Dio! Meriti un posto nelle cucine reali — dissi
attaccando vivamente la frittata tentatrice.

— Hai appetito, piccina? — domandò Alfredo ad Irene stringendole una
delle magre guancie tra l’indice e il medio.

Nello sguardo della fanciulla, sorpresi un fugacissimo lampo di
cupidigia subito velato dall’abbassarsi delle palpebre.

— Ha fame! — pensai mettendole nel piatto una fetta enorme di
frittata....

                                   *
                                  * *

Dopo la seconda bottiglia di _Barbera_, Alfredo si addormentò sulla
seggiola, la testa tra le mani, i gomiti poggiati alla tavola, la pipa
tra i denti.

Mezzanotte suonava all’orologio della piazza. Nella mia piccola
cameretta ci si stava d’incanto; nell’aria era quella nebbiolina
mista di fumo e di vapore, greve di odori gastronomici, traverso
alla quale, nel lavorìo benefico della digestione, uomini e cose si
intravvedono come tra le nebbie del sogno senza contorni precisi e
senza proporzioni.

Sdraiato sulla poltrona, poggiato un braccio sulle ginocchia di Irene,
io traevo grandi boccate di fumo dalla sigaretta e il mio pensiero
seguiva le spire bianchiccie che si elevavano lentamente, perdendosi
in circoli larghi e sottili contro il soffitto e nei cortinaggi della
finestra.

Eravamo stati allegri a quella cena improvvisata: i tartufi, il barbera
generoso, il buon umore di Alfredo ci avevano conquistato.

Anche Irene aveva lo sguardo brillante, le guancie colorite, il sorriso
meno triste; il benessere fisico emanante dallo stomaco rifocillato,
cancellava poco a poco da quel volto emaciato le tracce dei patimenti
recenti, ridonava alla sua pelle di venti anni, morbida e bianca,
quella freschezza vellutata di pesca matura che invita dolcemente a
mordere ed a baciare. Veduta così, alla luce discreta della lampada,
colla massa dei capelli bruni pettinati alla greca che le ombreggiava
la fronte di un cespuglio di riccioli ribelli, colla chiostra
candidissima dei denti che si mostrava tra l’arco roseo delle labbra
semichiuse, ella mi parve bella e desiderabile.

— Ti chiami Irene?

— Sì.

— Nome di guerra, certo!...

— No, è il mio nome.

— Ah! — dissi con un tono di incredulità bonaria che dovette ferirla
profondamente.

— Non ci crede?

— Sì, ci credo, e poi....

— Tanto fa un nome come un altro, — concluse ella col suo sorriso
triste: — qui non mi conosce nessuno.

— Quanti anni hai?

— Diciotto.

— Solamente?

— Dimostro di più, non è vero? Gli è che la vita non è sempre allegra,
signore.

— Hai dunque sofferto molto?

— Molto!

Subitamente il suo sguardo e tutto il volto ripresero quell’espressione
di desolata mestizia che mi aveva colpito prima di cena.

— Vuoi raccontarmi qualche cosa?

— No, a che serve?

— Hai ragione: stai con lui questa notte? — e indicai Alfredo.

— Non lo so: egli mi ha condotta qui.... preferirei rimaner qui.

— Davvero? e perchè?

— Quel signore è troppo allegro....

Alfredo si era messo a russare della grossa: ora aveva incrociato le
braccia sulla tavola e volgeva verso di noi il suo volto di paggio
biondo su cui la tenue barbetta metteva dei riflessi di oro pallido.

Io lo destai dolcemente:

— Alfredo! Alfredo!...

— Hum! — grugnì egli, senza muoversi.

— Svegliati, è tardi; domattina c’è piazza d’armi alle cinque.

Alfredo si levò da sedere cogli occhi chiusi come un sonnambulo,
immemore di tutto; e sempre ad occhi chiusi cinse la sciabola e si
calcò in testa il berretto con una manata.

— Addio! — disse avvicinandosi alla porta, un po’ barcollante.

— Addio. E l’Irene?

— Ho troppo sonno, te la lascio; verrò a riprendermela domani.

Infilò la porta ed uscì.

Quando ebbi chiuso l’uscio e rientrai in camera Irene era in piedi e
teneva in mano il cappello e i guanti.

— Vuole che me ne vada? mi domandò umilmente.

La pendola del caminetto segnava l’una dopo la mezzanotte e fuori
pioveva.

— Rimani! — le dissi.

                                   *
                                  * *

Veramente la sua voce di contralto sembrava fatta di singhiozzi e di
lacrime.

Nel buio, fumando la mia sigaretta, ascoltavo pensoso quella voce
dolente che mi narrava una storia tanto diversa da quella di tutte
le donne cadute. E come ella, conscia per dolorosa esperienza della
repulsione fisica che ispirano all’uomo certi corpi di femmina dopo
il piacere goduto, si teneva lontana, all’altra estremità del letto
grandissimo, la sua voce pareva giungermi affievolita dalla distanza,
più desolata che mai, quasi tragica a volte.

Diceva ella col suo spiccato accento lombardo, con una grande
precisione di parole e di idee:

— No, la vita non è sempre, nè per tutti, allegra; per certuni anzi non
è che un continuo succedersi di dolori. A volte la sventura si abbatte
sopra una famiglia e la perseguita nel suo capo ed in tutti i suoi
membri per anni ed anni e per intere generazioni. Così è accaduto a me.
Facevo la sarta per necessità, ma non ero di condizione volgare ed ho
il diploma di maestra. Mio padre era redattore della _Perseveranza_,
mia madre era figlia di un impiegato di prefettura. Eravamo tre
sorelle, differentissime di indole, di tendenze, di abitudini e nostra
madre (mi vergogno a confessarlo) non era tale da guidarci sulla via
della virtù. Ella aveva un amante ricco, noi tutte lo sapevamo e il
babbo che lo sospettava e che voleva averne la certezza assoluta, era
di un umore chiuso e intrattabile. La casa era un inferno: molte volte
dovemmo assistere a delle scene di orribile cinismo da parte della
mamma, di perdonabile brutalità da parte del babbo. La sua professione
di giornalista tenendolo occupato buona parte della notte, l’amante
della mamma veniva di sera facendosi precedere da un domestico carico
di ogni ben di Dio. Allora cominciava l’orgia alla quale anche noi
dovevamo partecipare; si mangiava, si beveva e la mamma e il suo ganzo
si divertivano a vederci brille e si baciavano in faccia a noi senza
vergogna, senza vergogna si chiudevano nella camera nuziale, mentre
noi guardavamo dal buco della serratura colla malsana curiosità delle
ragazzine maliziose e viziate. Oh! la nostra innocenza infantile non
è durata molto tempo ed io a dodici anni sapevo già che cosa pensare
della vita!... Capivo tutto e soffrivo, ma non osavo aprir bocca per
paura della mamma e dell’Ambrosina che teneva le sue parti ed era per
conseguenza la sua beniamina. La tresca vergognosa durò a lungo senza
che il babbo se ne accorgesse, ma finalmente una sera egli capitò in
casa all’improvviso, vide sulla tavola i resti dell’orgia, capì a volo,
sfondò con un calcio la porta, e si precipitò nella stanza coniugale
col revolver in pugno. Ah! campassi mill’anni non dimenticherò quella
scena!... Dalla porta semiaperta vedemmo la mamma e il ganzo seminudi,
in ginocchio dinanzi a mio padre che li teneva ambedue immobili e
terrorizzati sotto la canna del suo revolver. Chiudemmo gli occhi
aspettando la tragedia. Ma che cosa passò nel cervello di mio padre in
quel momento? Chi potrebbe dirlo? Sollevò l’uomo ghermendolo al collo
colla mano sinistra, lo trascinò alla porta di casa, lo spinse fuori,
così seminudo, con un calcio nella schiena, come un cane lebbroso. Poi
tornò in camera, pallido d’ira, gli occhi iniettati di sangue, afferrò
la mamma pei capelli, trascinò anche lei alla porta coprendola di
vituperii, la spinse fuori seminuda, a calci, come l’amante:

— Fuori di casa mia, sgualdrina! Fuori, prostituta!...

Chiuse la porta di casa a doppia mandata, mise il catenaccio e
volgendosi a noi con un piglio terribile, additandoci la nostra stanza
colla mano imperiosamente tesa:

— E voialtre a letto subito! _Marche!_

E cadde sul divano della saletta da pranzo la testa tra le mani, a
piangere come un fanciullo!...

Da quella notte e mentre il processo di separazione faceva il suo
corso, il povero babbo prostrato dal colpo terribile cadde in una
malattia di languore che lo obbligò a lasciare gli uffici della
_Perseveranza_. Fu allora che mia sorella maggiore Ambrosina entrò
in qualità di cameriera ai servizii di un vecchio e ricco banchiere
e che io mi collocai in un negozio a far la sarta. Jole, la più
piccola, rimase in casa ad accudire il babbo e a badare alle faccende
domestiche.

Così passò un anno; in quel frattempo avvenne la separazione legale
tra il babbo e la mamma. Il povero babbo, invecchiato di vent’anni in
_quella notte_, non lavorava quasi più, scriveva appena un articolo
alla settimana, incurante della miseria in cui eravamo tutti piombati,
inguaribilmente ferito al cuore dal tradimento infame della mamma.
Tuttavia tra i suoi scarsi guadagni, i miei, e i pochi soldi che ci
dava l’Ambrosina, si tirava ancora avanti.

Ma la sventura non era ancora stanca di perseguitarci.

Un giorno il vecchio banchiere sorprese l’Ambrosina colle mani nello
scrigno, colle tasche piene di biglietti di banca trafugati. Senz’altro
chiuse la ladra a chiave in uno stanzino, la mise sotto buona guardia
e corse a cercarmi. Già fin da quando l’Ambrosina era entrata in casa
sua, il vecchio banchiere mi aveva messo gli occhi addosso e non di
rado mi seguiva alla lontana quando mi recavo al negozio o tornavo a
casa.

Quella sera mi fermò risolutamente e mi raccontò senza ambagi la
disonesta azione commessa da mia sorella e la sua ferma intenzione
di consegnarla nelle mani della giustizia, a meno che.... mi capisce
signore?

Anch’io capii di volo l’orribile proposta e il primo impulso fu quello
di schiaffeggiare il vecchio libertino in mezzo alla via: credo anzi
di avergli in sulle prime risposto assai sdegnosamente; ma non tardai a
comprendere che ogni resistenza era inutile perchè egli aveva in pugno
l’onore di tutta la famiglia e quel che era peggio la vita di mio padre
che non avrebbe certamente sopravvissuto a quest’ultimo colpo.

Domandai che mi lasciasse la notte intera per riflettere, dissi che
avrei risposto all’indomani andando al negozio.

Egli accondiscese, sicuro della vittoria.

Appunto quella sera trovai il babbo più accasciato, più malandato
del solito; egli si doleva sopratutto della sua incapacità al lavoro
quasichè la sventura coniugale, oltrechè nell’onore, lo avesse colpito
nel cervello inaridendogli ogni sorgente di ispirazione; e sempre egli
portava quelle sue mani scarne alla nuca, come ad impedir la fuga delle
idee, la miseranda dispersione di tutta la materia cerebrale altra
volta così rigogliosa e feconda.

Alla notte non chiusi occhio: dovevo prendere una risoluzione che
avrebbe deciso della vita di mio padre e del mio avvenire.

Certamente la nuova vergogna sarebbe stata per il babbo il colpo
mortale, ma per stornare il nuovo disonore dal suo capo, era necessario
che io mi sacrificassi, che io cedessi alle voglie brutali di quel
vecchio. Che fare?

Io pensai che al babbo non molto tempo restava da vivere: forse non
sarebbe giunto in tempo a conoscere la triste verità: forse col prezzo
del mio sacrifizio avrei potuto addolcire i suoi ultimi giorni.

La mattina seguente.... non andai al negozio: per molto tempo anzi
non ci andai più, Ambrosina fu mandata a servire in un’altra casa
ed io divenni la ganza del banchiere.... Quello che ho sofferto
in quell’epoca, lo schifo, la nausea di quelle carezze (le prime)
l’avversione insormontabile che mi ispirava quell’uomo, io non voglio
dirle. Forse lei non ci crederebbe; ma il buon Dio che legge in tutti
i cuori, avrà letto anche nel mio e forse mi avrà perdonato e benedetto
quando gli uomini mi disprezzavano....

Basta, dopo sei mesi il povero babbo morì, si spense quasi
tranquillamente, ignaro di tutto, benedicendoci, perdonando anche
alla mamma. Egli non si accorse mai che io era incinta, non sospettò
nemmeno che dopo tre mesi sarei stata quasi agonizzante in un letto
d’ospedale....

Dopo il parto.... lasciai la creatura ai trovatelli, abbandonai
l’Ospedale e Milano sperando di trovar lavoro altrove.

Andai a Vigevano, a Novara, ad Alessandria; ero sola, ancora
debolissima, priva di mezzi.... nessuno volle aiutarmi. Allora.... non
ebbi il coraggio di morire e continuai a discendere la china fatale....

Lei non ci crederà, ma questa sera quando venni qui col suo amico....
avevo fame!

— È vero! — pensai.

                                   *
                                  * *

L’alba ne sorprese insonni entrambi: ella piangendo silenziosamente,
io silenziosamente fumando. Mano a mano che Irene proseguiva, tra i
singhiozzi, la sua storia dolorosa, il mio temperamento d’artista
si ridestava, la mia fantasia ricostruiva il duplice dramma, lo
carezzava, lo lumeggiava, lo coloriva. Qual meravigliosa novella se ne
sarebbe potuto cavare, raddolcendo le tinte, modificando il finale,
dando all’eroina l’aureola del sacrifizio e quel coraggio di morire
che all’Irene era mancato, sopprimendo quella brutta appendice di
vagabondaggio vergognoso che la offendeva, che ne sciupava la bellezza
morale, che la diminuiva di valore ai miei occhi!...

E dinanzi a quel pianto muto, sconsolato, continuo, la mia diffidenza
cadeva, si scoloriva il mio scetticismo galante; non io mi trovavo in
faccia ad una donnina dall’umor sentimentale, sibbene in faccia alla
sventura vivente, in faccia ad una creatura derelitta che scendeva,
riluttante, la sdrucciolevole china del vizio, spinta dalla necessità,
alla necessità repugnante invano.

Il caso nuovo mi interessava: la fanciulla mi pareva degna di
un benevolo esame: forse parlandole di onestà, di lavoro, di
riabilitazione, le mie parole non sarebbero cadute su sterile terreno.
Ma anche pensai che non avendo io nè i mezzi, nè la possibilità di
aiutarla a risalire l’abisso in cui era caduta, fosse più che mai
crudele l’indugiarsi a dipingerle tutta l’ideale bellezza della
rigenerazione morale. Poichè quando in certe sciagurate condizioni
dell’esistenza non si ha il coraggio di morire, non si ha nemmeno la
forza di ribellarci al proprio destino e lo si segue piangenti, ma
rassegnati.

— Ed ora che farai? — le chiesi.

— Non lo so.

— Non hai per l’avvenire un progetto, una speranza?

— Progetti no; speranze una sola: quella di imbattermi in un uomo che
non mi tratti male, che mi accarezzi senza disgusto, che mi tenga
con sè e mi ami un pochino. Io sarei la sua schiava affezionata e
fedele, mi contenterei delle briciole del suo pane, delle briciole del
suo amore, di tutto, purchè mi togliesse dall’infamia di questa vita
girovaga che mi abbrutisce. Gli uomini non sono cattivi in fondo, ma
difficilmente credono all’amore ed alle oneste intenzioni di una donna
caduta; godono, vi pagano, e vi gittano via come un limone spremuto,
come un giocattolo spezzato. È triste a pensarlo, ma hanno ragione: ci
son tante donne che amano questo orribile mestiere, che speculano sulla
loro vergogna ridendo, che non hanno cuore nè sensi e non adorano che
il danaro! Ma io non ci son nata, io non riuscirò a nulla di quello
a cui le altre riescono, fuorchè a morire all’ospedale; io rifiuto la
mercede quando mi viene da un bravo giovane che mi ha ascoltata, che
mi ha compatita, che ha avuto per me delle buone parole offrendomi
l’ospitalità in casa sua....

La mia abituale diffidenza, un momento sopita, si ridestò a queste
parole: il mio orrore per ogni legame, per ogni forma di _collage_,
irrigidì l’anima mia contro l’assalto della pietà. Risposi
evasivamente, sviando a bella posta il discorso:

— Povera Irene! — e dove andrai dopo di qui?

— Non lo so: io vorrei poter metter da parte un gruzzoletto, ritornare
a Milano, aprire una botteguccia da sarta o da rammendatrice, o una
scuola privata per bambini; ma è un sogno che non raggiungerò mai
per quanto mi privi di tutto il superfluo e qualche volta anche del
necessario. Non lo raggiungerò anche perchè sento che questa vitaccia
di strapazzi, di viaggi, di notti perdute, questi alti e bassi di orgia
e di fame, mi distruggono. Chi mi ha conosciuta a Milano, un anno fa,
prima della mia entrata in casa del banchiere, non mi riconoscerebbe
più certamente.... Pazienza! sarà quel che Dio vorrà!

Io sentivo talmente la verità nelle sue parole, e di quella verità
ero tanto penetrato, che non trovavo nemmeno la più piccola pietosa
menzogna per consolarla; non sapevo che compiangerla:

— Povera Irene! povera Irene!...

                             . . . . . . .

La sveglia si mise a suonare col suo terribile suono argentino; erano
lo quattro e mezzo.

— Si alza?

— Sì, vado in Piazza d’armi.

— Senza aver chiuso occhio?

— Oh! non è già la prima volta; poi a venticinque anni non ci si bada.

— Mi alzo anch’io, allora?

— Perchè? Dove vuoi andare alla quattro e mezzo del mattino? Rimani e
dormi finchè io torni, farai colazione con me.

— Grazie signore! Lei è molto buono!...

Mi vestii in fretta mentre l’acqua bolliva sulla macchinetta del caffè;
poi quando fui pronto la baciai sulla fronte come una buona amica,
richiuse le imposte.

— Addio piccina mia, dormi bene; caccia via i cattivi pensieri.

Ed uscii.

Sulla piazza trovai Alfredo che s’avviava frettolosamente al quartiere
rabbrividendo dal freddo, le mani in tasca e il sigaro fra i denti.

— Buon giorno, Alfredo.

— Oh! ciao Roberto! Bella notte eh?

— Non tanto....

— Perchè? la piccina non ti piaceva?

— Sì ma è funebre come un cippo sepolcrale: figurati che non ha fatto
che piangere tutta la notte.

— Mamma mia!...

— E mi ha raccontato la sua storia; una storia straordinariamente
drammatica e che ritengo vera.

— Eh via!

— Non ridere mio caro; la vita non è sempre nè per tutti allegra.
Senti....

                                   *
                                  * *

Alle dieci facemmo colazione insieme; ella era triste, io, cascavo
dal sonno e provavo irresistibile il bisogno di esser solo. Parlavo
breve, a monosillabi, le palpebre grevi di stanchezza, cullandomi nella
poltrona a dondolo.

— Lei deve aver molto sonno, signore....

— Molto, carina....

— Ora me ne vado e lo lascerò dormire....

— Oh! puoi rimanere; dormirò lo stesso....

Ma dissi quel _puoi rimanere_, così languidamente, così di mala voglia,
che ella si alzò senz’altro da tavola e andò a mettersi il cappellino
dinanzi allo specchio.

— Dove vai quest’oggi?

— Non so, anderò all’Albergo.

— E questa sera?

— Al teatro: ci anderà lei?

— Non credo.

— Non ci vediamo più, allora?

— Perchè? la mia casa è sempre aperta per te....

Era il momento critico di ogni avventura d’amore venale. Dovevo
pagarla? Non l’avrei profondamente ferita mettendole in mano un
biglietto di banca? Ma poichè era così povera, così bisognosa!... Dove
avrebbe pranzato? Chi le avrebbe pagato il teatro?...

Estrassi il portafogli con un’aria paterna: ella mi guardava fare,
calzando quei vecchi guanti gialli ad un solo bottone che accusavano la
sua miseria....

— Sono un povero ufficiale, non posso darti che questo, — dissi,
porgendole un biglietto da dieci lire.

La mia voce aveva un tremito nel profferire quelle parole.

Irene respinse il denaro colla sinistra e portò colla destra il
fazzoletto alla faccia scoppiando in singhiozzi, disperatamente....

— No.... no.... signore!

E fuggì ad un tratto per la porta semiaperta.

Io rimasi solo a pensare.

                                   *
                                  * *

                               _Dal mio giornale, giovedì 22 giugno_.

... Non vedevo l’Irene da due giorni; questa mattina mentre mi alzavo
bussò alla mia porta il cameriere dell’_Albergo dei Buoi Rossi_ con una
lettera di Irene diretta a me. La lettera diceva:

      «Roberto,

  «Quello che provo nello scriverti io stessa non saprei dire: tu mi
  conosci da poco, è vero, ma abbastanza per capire quanto devo aver
  sofferto prima di prendere questa risoluzione.

  «Non mi sono mai trovata in un caso simile ed è tanta la vergogna e
  lo spavento che io ne provo, che questa notte non ho chiuso occhio
  e ho pensato al suicidio.

  «Senti; mi mancano 15 lire per pagare il conto dell’Albergo; me lo
  diedero ieri sera e quando dovetti dire che non avevo abbastanza
  denaro, mi risposero: _che avrei dovuto avere un amico a cui
  scrivere_; e ieri sera non mi lasciarono più uscire....

  «Smetto perchè non ne posso più: puoi immaginarti come mi trovo....
  mi raccomando a te!

  «Il latore del biglietto è il fattorino dell’Albergo. Addio....

                                                     la tua IRENE».

Io congedai il fattorino, mandandole in una busta le 15 lire.
Poveretta! Le risparmiavo una nuova umiliazione da parte del padrone
dell’Albergo, e compivo un mio dovere: _la pagavo!_

La triste parola! eppure nessuna lezione di alta morale poteva avere
per lei in quel momento la efficacia di quei tre biglietti da cinque
lire!

Alle dieci venne in casa mia con le sue poche robe: per poco, spero.

Oggi è uscita; forse ha _fatto affari_ se ha trovato modo di comperarsi
il biglietto per il teatro e di pagarsi il pranzo.

Questa sera è tornata da me; voleva rimanere, ma io le ho detto:

— Bambina mia, _è necessario_ che tu vada al teatro, lo desidero. Vedi?
Ammesso che tu sia ancora suscettibile di qualche onesto sentimento,
noi non possiamo darci il lusso di amarci; bisognerebbe che io fossi
un signore, mentre non sono che un povero ufficiale che vive del
suo stipendio. Va, bambina mia, va: dappoichè non posso risparmiarti
l’umiliazione della _caccia all’uomo_, metti il cuore in pace e scivola
per la china sino alla fine....

Le ho regalato un paio di guanti, un fazzoletto, le ho prestato il
binoccolo e l’ho mandata al teatro.

È uscita gettandomi uno di quei suoi sguardi tristi e rassegnati di
cane fedele che mi commuovono sempre profondamente....

                                                        _Venerdì 23._

Poteva esser l’una dopo la mezzanotte quando mi svegliai al contatto
delle sue morbide braccia.

— Sei tu? che fai?

— Perdonami, volevo star con te un’ultima volta....

— Sei stata al teatro?

— Sì.

— E poi?...

— E poi....

Non voleva confessarmelo; ma io che le sentivo nella pelle fina un
forte odore di maschio, insistei duramente:

— E poi? Voglio saperlo!

— Dal capitano Di Marco, — balbettò ella supplichevole.

— Ah!...

Fui brutale, non seppi nasconderle la invincibile ripugnanza che ella
mi ispirava in quel momento. Appunto il capitano Di Marco era l’unico
ufficiale del Reggimento che io odiavo per la sua straordinaria
volgarità che traspariva da tutto il suo corpo tozzo e obeso di vecchio
satiro. La donna che egli aveva posseduto mi faceva ribrezzo. Le voltai
bruscamente le spalle mettendo tra me lei quanta distanza potevo,
dicendole imperiosamente:

— Lasciami stare!

Ella pianse a lungo sommessamente.

Al mattino non scambiammo una parola: Irene mi guardava pietosamente e
non osava aprir bocca.

Io andai in quartiere e la lasciai a letto.

Ritornai a casa verso mezzogiorno; ella non c’era; c’era invece sul
tavolo una sua lettera che io trascrivo testualmente:

      «Roberto,

  «Stamattina, appena il soldato se ne fu andato, commisi
  un’imprudenza. Lo so, ho fatto male, ma ne ho avuto il castigo.

  «Se ben ti ricordi, l’altro giorno mi hai detto che nel tuo
  giornale parlavi di me; il tuo contegno di questa notte, quello di
  stamattina, non me li potevo spiegare.... Ieri sera avevo veduto il
  tuo libro sul tavolo ed ero certa che ci avevi scritto qualcosa a
  mio riguardo. Non seppi resistere alla tentazione, ho fatto male,
  lo so, perdonami se vuoi: ho letto.

  «Roberto, dalla mia più tenera infanzia non rammento di aver
  provato una gioia vera, neppure quella che a nessun bambino è
  negata; il casto bacio della mamma sua. Ti ho raccontato qualche
  cosa della mia vita, ma i patimenti passati sono un nulla al
  confronto di quello che ho sofferto oggi.

  «Non so che cosa accada dentro di me, ma ho paura; ieri sera e
  questa mattina ho pianto e sai il perchè. Credevo che ti fosse
  cara la mia compagnia; era una gioia nuova per me; fino ad ora non
  avevo trovato che persone che si ridevano di me, avevo sofferto
  di vedermi trattata così, avevo pianto al pensiero di doverti
  dimenticare, ma mi rimaneva l’illusione che tu fossi il solo a non
  disprezzarmi.

  «Ieri soffrivo di più, è vero, ma in fondo al cuore ero felice. Che
  cosa provai nel leggere quello che tu stesso hai scritto di me, sul
  tuo giornale, non lo saprai mai.

  «Ah! l’avessi saputo ieri, di qual disgusto ti avrei liberato!

  «So quello che si prova nel trovarsi vicino ad un essere
  ripugnante, perchè anch’io l’ho molte volte provato. Roberto,
  il mio castigo l’ho bell’e avuto: non riescirò mai a dimenticare
  il ribrezzo che ti devo aver fatto questa notte. Non ti domando
  perdono perchè so benissimo che non lo avrò mai.

  «L’unica cosa di cui ti prego, se pure una mia preghiera può
  trovar grazia presso di te, è questa: Se un giorno la mia immagine
  si presentasse alla tua mente, se un giorno tu ti ricordassi di
  me, non odiarmi; è l’unica speranza che mi resta. In quanto a
  me, se Dio non pensa a farla finita, io non ho più il coraggio
  di continuare a vivere così.... La vita per me adesso non è più
  solamente odiosa, è insopportabile.

  «Finisco con un augurio ardentissimo: Che tu non possa mai provare
  l’infima parte di quel dolore che le tue parole hanno fatto provare
  a me.

  «Dicono che c’è un giorno in cui la verità risplenderà di
  luce meridiana. In quel giorno forse ti dorrà di avermi così
  ingiustamente punita. Addio!

                                                            IRENE».

Povera fanciulla! Quanto cuore, quanto sentimento in quelle due
paginette! Io l’avevo crudelmente offesa senza comprendere nulla di
quanto si svolgeva in quell’anima sventurata, io ero stato brutale
con lei ed avevo sdegnato la sua umile sottomissione, il suo umile
amore!...

Io non avevo capito che anche tante sciagurate che la società gitta nel
fango della via, hanno un cuore buono, un’anima nobile che si ribellano
agli insulti quotidiani della vergogna.

Il poeta ha ragione

              . . . . nel turbato
    animo d’una donna si compendia
    l’agitarsi del mondo.

                                   *
                                  * *

Molti mesi passarono senza che io dell’Irene potessi aver più notizia,
ma un giorno dall’Ospedale principale di Milano mi giunse il suo
appello ultimo e disperato.

Era un vecchio biglietto da visita a stampa, ingiallito dal tempo e
portava sul dosso poche righe vergate da una mano tremante. Diceva:

      «Roberto mio,

  «Quando ti dissi che la mia breve tragedia avrebbe avuto il suo
  epilogo all’Ospedale non mi ingannavo. Ci sono infatti da due mesi
  e in quel fatale reparto (tubercolotiche) dal quale non si esce
  che tra le quattro assi di una bara, dopo una breve permanenza
  sul tavolo anatomico. Non ho nessuno accanto a me, nè la mamma, nè
  le sorelle, ma questa notte ho sognato che prima di morire vedrò
  ancora una volta l’unica persona che io abbia veramente amato.

  «Sotto l’impulso di questa suggestione ti scrivo. Verrai?

                                                        tua IRENE».

Chiesi cinque giorni di licenza e partii subito per Milano; l’appello
di un morente è cosa sacra, tanto più sacra in quanto toccava a me il
darle la consolazione estrema, a me che ella aveva amato e da cui era
stata crudelmente offesa.

La stagione era rigida; neve dappertutto, sui monti e sul piano: i
ruscelli erano gelati, dai rami degli alberi, scheletriti e contorti,
pendevano ghiaccioli multiformi.

Cinque ore di strada ferrata in quella candida desolazione, sotto quel
cielo di piombo, in quell’aria di gelo. Il pensiero, assiduo tarlo, mi
tormentava: la troverò ancora viva? potrò io chiuderle gli occhi? potrò
darle la consolazione sognata, di una buona parola, di una carezza
estrema? Lo speravo. Ma perchè aveva amato me che non avevo fatto nulla
per farmi amare? Perchè, al momento di entrare nell’eternità, chiamava
me al suo letto di dolore con tutte le forze del suo desiderio, mentre
lamentava appena l’assenza della madre, l’assenza delle sorelle?
Misteri dell’anima femminile! Era l’eterno dramma di Margherita
Duplessis che si svolge ogni giorno nella vita sotto forme diverse in
diversissimi ambienti, ma identico nella sostanza.

Mi tornavano alla mente le sue semplici e desolate parole: _la vita
non è sempre nè per tutti allegra_, pensavo al suo semplice ed eroico
sacrifizio, alla sua infanzia, contristata dall’infamia materna, alla
sua vita randagia e miserabile degli ultimi mesi. Povera Irene! Ed ora
forse invocava la morte come una liberazione, dopo aver tanto sofferto,
dopo aver tanto sognato, dopo aver tanto ed invano inseguito il
fantasma dell’amore traverso alle sozzure dell’esistenza....

Quelle cinque ore di corsa affannosa traverso alle sterminate pianure
lombarde, coperte di neve, furono eterne; ma finalmente passarono.

Alla stazione mi gettai in un _brougham_, divorato da una mortale
impazienza.

— All’Ospedale principale, di galoppo! Una lira di mancia.

Ma c’era un nebbione fitto e denso che avvolgeva le strade in una
tenebrìa paurosa e bisognò contentarsi di andare al piccolo trotto.

All’ospedale per giungere al reparto delle tubercolotiche mi si
affacciarono molte difficoltà; ma un giovane medico che mi conosceva mi
guidò alla corsia dov’era l’Irene.

— Come sta?

— È agli estremi: ha già ricevuto i Sacramenti.

Giungemmo al letto dove pregava una suora di carità giovanissima: Irene
vi giaceva immobile, coperta sino al mento, più bianca di un giglio:
aveva gli occhi semichiusi, già velati dalle nebbie della morte.

Io passai sulla sinistra del letto, mi chinai sul capezzale, la chiamai
all’orecchio dolcemente:

— Irene! Irene!

Fu l’ultimo guizzo della fiammella: spalancò i grandissimi occhi neri,
mi riconobbe, sorrise, tentò rizzarsi a sedere sul letto e ricadde col
capo sui cuscini. Morta.

Il dottore constatò il decesso mentre io, ritornato credente in faccia
al pauroso mistero, pregavo fervidamente. La suora di carità aveva
messo un crocifisso tra le mani di Irene conserte sul petto e si era
messa a piangere dirottamente. Poi si alzò, asciugò le lacrimo, si fece
il segno della croce e mi disse, mentre io la guardavo colpito dalla
sua rassomiglianza colla morta:

— Siete voi il tenente Roberto?

— Sono io, sorella!...

— La poveretta vi aspettava da molto tempo: diceva sempre che voi le
avreste chiuso gli occhi. Adempite adunque il suo ultimo desiderio e
lasciatela in pace. Ho ottenuto di farla seppellire intatta, accanto
a suo padre, nel cimitero monumentale. Se volete portarle dei fiori
andateci domani sera verso le cinque. Ed ora lasciateci.

Baciai la morta sulla fronte gelida e seguii il dottore mentre la suora
tirava le cortine del letto e si rimetteva a pregare.

— Che pensi? — mi domandò il dottore come fummo fuori.

— Alla povera morta e alla strana somiglianza di lei con la suora di
carità che l’assisteva.

— Non c’è da meravigliarsi. Suor Ambrosina e l’Irene erano sorelle.

— Ah!...

Ed uscii dall’Ospedale commosso, pensando che la vita presenta più
anomalie ed inverosimiglianze del più arrischiato romanzo fantastico.




PICCOLA LICENZA


Dirimpetto all’osteria con stallaggio di padron Nicola, sulla piazza
grande, dove la diligenza era solita a fermarsi, un capannello di
contadini maschi e femmine, circondava Bista tutto attillato e lindo
nella sua bella uniforme di bersagliere.

Bista era commosso e la sua commozione gli si leggeva sul viso malgrado
gli sforzi erculei che faceva per parere disinvolto, malgrado i buffi
di fumo bianco che gli uscivano di bocca affrettatamente, malgrado
l’aria d’importanza con cui teneva fra i denti il prelibato _minghetti_
regalatogli dal curato.

Era commosso e si appoggiava sulla spalla del vecchio padre e
sul braccio di quella vecchietta di donna Veronica sua madre,
che lo guardavano cogli occhi imbambolati pieni di lagrime, pieni
d’ammirazione.

Suo cognato uscì dall’osteria di padron Nicola con un vassoio pieno di
bicchieri e con un grande boccale di vino.

— L’ultimo bicchiere alla salute di Bista — disse.

E mentre Teresa gli teneva il vassoio, cominciò a riempire tutti i
bicchieri fino all’orlo di quel bel vino biondo-dorato che non si trova
che nei castelli romani.

— È di Marino puro sangue — seguitava il cognato invitando collo
sguardo gli astanti, un vinetto che farebbe risuscitare un morto.

Teresa portò in giro il vassoio e ne offrì a tutti; ma Bista non aveva
sete; un nodo doloroso lo stringeva alla gola come una morsa; voleva
rifiutare.

— Grazie, Teresa, mi farebbe male.

— Bevi, che ti fa bene.

Dal crocchio si levava un coro di voci affettuose; tutti volevano che
Bista bevesse; avrebbero voluto coprirlo d’oro, se avessero potuto,
quei buoni contadini. Anche donna Veronica gli porse il bicchiere
supplicandolo collo sguardo.

— Bevi, figlio mio.

Bista cedette: sollevò il bicchiere ricolmo contro il sole come se
avesse voluto leggervi dentro il suo destino: poi lo avvicinò alle
labbra e lo tracannò tutto d’un fiato.

Don Fulgenzio, il parroco, dalla porta della chiesa si godeva lo
spettacolo colle mani grasse e pelose sul ventre prominente, col suo
solito sorriso confidente e bonario.

Appena lo videro lo chiamarono subito rispettosamente, togliendosi il
cappello, da gente bene educata.

— Don Fulgè! Bevete un bicchierotto con noi; è di quello vecchio,
proprio di Marino sapete?...

Don Fulgenzio si avvicinò al crocchio e la bella sorella di Bista
gli porse il vassoio dove c’erano ancora due bicchieri ricolmi fino
all’orlo. Il buon prete cominciò a centellinare sibariticamente il
vecchio Marino.

— Siamo di partenza eh! Bista?

— Pur troppo, signor curato! Dieci giorni volati via come razzi!... Già
quando si sta bene!...

La conversazione divenne generale; parlavano tutti insieme a voce alta
circondando Don Fulgenzio che troneggiava in mezzo al crocchio colla
sua alta statura di gigante, col suo ventre enorme; il vice brigadiere
dei carabinieri e quello delle finanze arrivarono giusto in tempo
per stringere la mano a Bista e per tracannarsi un bicchiere del vino
asciutto di padron Nicola.

Ma la diligenza non arrivava ancora. Bista era preoccupato; fra tutta
quella gente che lo circondava, ci mancava ancora una persona che
avrebbe dovuto venire.

Perchè Graziella non era là? Ora una grande inquietudine lo teneva; la
diligenza poteva arrivare da un momento all’altro, e lui non l’avrebbe
potuta salutare un’ultima volta. Si piegò all’orecchio di Teresa che
raccoglieva nel vassoio i bicchieri vuoti.

— Teresa, dov’è Graziella?

Teresa si guardò attorno e poi rispose con un sorriso maliziosetto:

— Non c’è, ma verrà.

In distanza si sentivano gli schiocchi della frusta e le sonagliere
dei cavalli; la corriera si avanzava al gran trotto nel bianco stradone
polveroso.

— Don Fulgè, Treviso è lontano?

— Eh!... — fece don Fulgenzio trinciando l’aria d’alto in basso colla
sua manaccia pelosa, come per indicare una distanza enorme.

Ora che il trotto dei cavalli si sentiva distinto, donna Veronica
piangeva dirottamente. Non ne poteva più: si era contenuta anche troppo
per rispetto alla gente.

E una tenerezza grande invase tutti gli spettatori di quella scena
commovente: Pierina, la sorella più piccola, si era stretta alle
braccia di donna Veronica e piangeva anche lei. In breve, Bista, il
vecchio padre, Teresa e gli altri formarono un gruppo solo, stretti
assieme dalla commozione grande dell’addio.

Don Fulgenzio, intenerito anche lui, voleva parlare, voleva consolare i
due poveri vecchi.

— Andiamo via!... Alla fin dei conti son sette mesi, non è vero, Bista?

Bista fece segno di sì col capo: ma non poteva rispondere; se avesse
parlato avrebbe rotto anche lui in uno scoppio irrefrenabile di pianto;
epperò si irrigidiva contro l’emozione, martoriato da un’altra puntura,
addolorato profondamente dalla mancanza di Graziella.

— Non piangere, mamma, fra sette mesi ritorno.

— E se ti rimandano in Africa? — domandò la povera donna afferrandolo
per la manica in un nuovo schianto di singhiozzi.

— Non c’è pericolo, mamma, non c’è pericolo.

La diligenza si fermò e nessuno discese; il vetturale si fece dare
un mezzo litro da padron Nicola e lo bevve a cassetta, mentre Bista
montava. La diligenza era quasi vuota: lì sullo sportello si fecero
gli ultimi addii, si scambiarono gli ultimi baci e le ultime strette di
mano.

— Addio, Bista!

— Addio, Teresa!

— A rivederci a settembre.

— Va bene. Salutatemi don Antonio.

— Addio! Buon viaggio!

— Buon viaggio!...

E la pesante vettura traversò il piazzale e disparve al trotto in un
nuvolone di polvere densa. Ad un tratto dietro alla larga fratta delle
more partì un grido:

— Bista!...

Bista si svoltò di scatto e s’affacciò allo sportello. Nella macchia
scura della fratta una forma umana agitava nell’aria un fazzoletto
rosso in segno di saluto.

Bista sventolò dal finestrino il suo moccichino bianco delle feste e
gridò con quanto fiato aveva in gola:

— Addio, Graziella!...

Poi tutto scomparve nel turbinìo polveroso sollevato dalla diligenza....

                                   *
                                  * *

Col capo appoggiato sulle mani, Bista pensava.

Quei dieci giorni trascorsi a casa dopo due anni di assenza, erano
stati dieci giorni di paradiso; se li vedeva sfilare dinnanzi alla
memoria ad uno ad uno con una meravigliosa limpidezza e non gli pareva
nemmeno vero di trovarsi lì sul sedile della diligenza che traballava
con scricchiolii di vecchia carcassa sui sassi della strada. Che
giorni! Che stupende serate in casa di don Antonio, che delizia di
balli al suono dell’organino!...

Era lì che aveva ritrovato Graziella in tutto il rigoglio possente
della sua giovinezza gagliarda. Quando l’aveva lasciata due anni fa,
era una bambina esile, palliduccia, dai capelli nerissimi, sempre
arruffati, che stava tutto il giorno nei campi al solleone d’agosto.
Ora non la si riconosceva, era cresciuta di molto e le sue forme di
adolescente stecchite e rigide, si erano fatte graziose e tondeggianti
nello sviluppo della pubertà; i capelli nerissimi e ravviati avevano
ora una lucentezza morbida che indicava la carezza del pettine;
gli occhi stupendi avevano un’espressione nuova di pudore, di
sentimentalità intensa e profonda.

Il solleone d’agosto non aveva potuto abbronzare quella pelle
bianchissima su cui l’incarnato delle guancie si diffondeva in una
gentile sfumatura color rosa-pallido. Si erano sentiti attratti
l’uno verso l’altra senza saper come, invincibilmente; nel calore
del ballo poi lui aveva sentito palpitare sul suo largo torace il suo
bianchissimo petto di vergine, aveva respirato il profumo campestre dei
suoi capelli.

Nessuno sapeva ballare il valzer meglio di lui; nessun’altra ballava
come lei, e la gente si fermava ad ammirarli battendo le mani.

Un giorno l’aveva trovata in campagna intenta a rastrellare; una
giornata stupenda di primavera con un’arietta profumata di timo che
allargava i polmoni.

Era sola; si sedettero sull’erba tutti e due confusi, tutti e due
commossi. Che cosa si erano detti? Lo ignorava; si ricordava solamente
di una gran sensazione di dolcezza provata, di qualche cosa di
infinitamente bello; ma era tornato a casa con un grande sbalordimento
nel cervello, col cuore che pareva gli si dovesse spezzare. Poi quelle
visite si ripeterono ancora; stavano delle ore muti, guardandosi negli
occhi, tenendosi per le mani sotto la carezza tiepida del sole.

A volte lui le parlava dell’Africa, di quel paese lontano e
meraviglioso dove tanti fratelli hanno trovato una morte gloriosa; ed
ella lo ascoltava attentamente ansiosa di sapere, felice di sentirlo
parlare.

Poi si alzavano gravemente e si davano l’addio con uno sguardo lungo,
insistente che diceva mille cose, che pareva una carezza infinita....

                                   *
                                  * *

— Tu ritorni a Treviso e ti dimentichi di me — gli disse Graziella
gettandogli le braccia al collo in un delizioso abbandono.

— Impossibile, Graziella dovrei dimenticarmi di mia madre prima.

E la baciava sulle labbra rosse.

Quei baci Bista non li poteva dimenticare, gli erano entrati nel sangue
come un veleno dolce e non lo lasciavano più in pace; li sentiva ancora
sulle labbra riarse, scottanti come il fuoco.

L’ultima volta che si videro fu in casa di don Antonio. Dopo il valzer
finale, ballato con tutto il sentimento della prossima separazione,
Graziella lo aveva preso per una mano e lo aveva condotto per la
scaletta buia dell’anticamera.

— Quando parti?

— Domattina colla diligenza delle dieci.

— Ti accompagno.

— Dove?

— Fino ad Anguillara, poi ti lascio.

— Ma è impossibile!

— Voglio così!

— Fa quel che Dio ti ispira!...

— Dammi un bacio....

Non uno, cento baci appassionati, disperati, si scambiarono così
nell’oscurità della scaletta; cento baci e cento promesse di fedeltà.
Alla fine dovettero separarsi.

— Verrai?

— Verrò.

E non era venuta; e si era limitata a salutarlo dietro la fratta delle
more. Perchè?

Bista ci perdeva la testa; forse si era vergognata di salutarlo in
faccia a sua madre, in faccia a tanta gente; forse....

                                   *
                                  * *

— Anguillara! gridò il postiglione fermando i cavalli.

Bista si destò di soprassalto: aveva fatta tutta la strada assorto
così in quella fantasticheria dolce, in quell’evocazione di ricordi
dolcissimi.

Si alzò, prese la piccola valigia e discese. D’un tratto si riscosse;
aveva sentito una voce fievole pronunciare il suo nome.

Si volse, ebbe appena il tempo di mandare un’esclamazione. Graziella
gli si precipitò tra le braccia affannata da una corsa di due ore
attraverso ai campi, ai cespugli, ai corsi d’acqua per tener dietro
alla diligenza.

La povera fanciulla era agli estremi di tutte le forze; si abbandonò su
lui strangolata dall’affanno, col petto gonfio, colle labbra violacee.

Bista la sostenne amorosamente, le asciugò il sudore colla sua pezzuola
bianca delle feste.

— Che cosa hai fatto, Graziella?

La fanciulla ebbe un sorriso divino.

— Te l’avevo promesso — disse.

E svenne.




ZULÙ

(MEMORIE AUTOBIOGRAFICHE DI UN CANE).


Dall’atto del mio arruolamento nel 98º Reggimento fanteria può dirsi
incominci la storia della mia vita.

Non so perchè, ma sino dall’infanzia ebbi sempre una spiccata
predilezione per i militari. Mi ricordo benissimo che le mie prime
corse, i miei primi salti di allegrezza li ho fatti in piazza d’armi,
tra le zampe dei cavalli, tra le file dei soldati; e siccome ho sempre
visto che la simpatia è reciproca, così i cavalli mi rispettavano ed i
soldati mi volevano bene.

D’altronde il mio padrone (uno spregevole ciabattino che io consacro al
disprezzo dei posteri) mi allungava più calci che pezzi di pane e mia
madre, appena fui divezzato, mi trascurava per abbandonarsi a colpevoli
amori con gli altri cani del quartiere.

La piazza d’armi dunque era il mio rifugio; oltre al pane quotidiano
ci trovavo qualche volta dello stupendo companatico, come buccie di
formaggio e rimasugli di carne che i soldati lasciavano cadere; passavo
così delle mattinate magnifiche accovacciato al sole con qualche osso
tra le zampe e colla mente assorta in un’idea fissa.

Diventavo grandicello ed anche abbastanza brutto (questo almeno mi
dicevano i cani degli ufficiali che subodoravano in me un futuro
rivale); si trattava di farsi una posizione onorevole nel mondo, di
assicurarsi un pane per la vecchiaia; quello del ciabattino oltre
all’essere nero e di cattiva qualità, era troppo spesso accompagnato
da un detestabile companatico di legnate, perchè io non pensassi a
cambiarlo.

— Se diventassi il cane del Reggimento! — pensai tra me.

Questa idea orgogliosa mi faceva sorridere, ma mi perseguitava di
giorno e di notte, nei miei sogni come nelle mie matte scorribande.

A forza di pensarci, finii per trovarla ragionevole e per cercare i
mezzi di metterla in esecuzione.

Per i soldati sarebbe stato il meno; la nostra reciproca amicizia
datava da un pezzo; il difficile stava nel cattivarsi la simpatia degli
ufficiali e specialmente quella del Colonnello, la cui faccia burbera
mi impensieriva non poco.

Allora come un innamorato sapiente, cominciai a far la mia corte al
Reggimento armandomi di pazienza e di amabilità.

Al mattino, all’ora della sveglia, ero già sulla porta del quartiere.
Bisogna dire, però, che le prime accoglienze non furono le migliori;
la prima volta che mi appostai in faccia al portone della caserma,
ignorando ancora il Regolamento di servizio territoriale, andai a
scodinzolare intorno alla sentinella per darle il buon giorno ed ahi!
una terribile calciata di fucile nel.... treno posteriore, mi insegnò
che in servizio non c’è amicizia che tenga.

Ma non mi sgomentai per così poco; tornavo tutte le mattine al solito
posto e stavo per delle lunghe ore dinanzi alla porta facendo un
attento studio delle varie fisonomie per sapere se dovevo aspettarmi un
calcio o una carezza.

Al sopraggiungere di qualche ufficiale mi alzavo rispettosamente e lo
salutavo a modo mio, accompagnandolo per cinque o sei passi.

Dopo un mese li conoscevo tutti e cominciavo a sperare che il mio sogno
si sarebbe realizzato.

Allora cambiai tattica: ogni volta che il Reggimento usciva dal
quartiere, io lo precedevo e galoppavo dinanzi ai trombettieri colla
coda alzata e le orecchie all’aria abbaiando di contentezza, poi fuori
della città mi mescolavo tra le file.

I soldati mi chiamavano per ischerno Zulù, e il brutto nomignolo
diventò ben presto il mio nome abituale.

È curiosa! Sono ormai dieci anni che ci vado almanaccando su, e non
riesco ancora a sapere che cosa significano quelle quattro lettere
messe in fila.

Ma torniamo a bomba.

I primordi della mia vita militare furono duri anzichenò; mi toccava a
fare delle marcie lunghissime in quella terribile campagna siciliana,
col muso nella polvere, o colle quattro zampe nel fango, secondo la
stagione; non si arrivava mai, e certe volte prima di partire non avevo
nemmeno mangiato.

Ma ci si abitua a tutto ed io mi abituai anche a quello, tanto più
volentieri in quanto vedevo rapidamente avvicinarsi il momento che
doveva decidere del mio avvenire.

E questo momento fu affrettato dalla benefica protezione di due
ufficiali. Uno di questi era un capitano alto, magro, con una faccia
di pensatore, sulla quale splendevano due occhi pieni di intelligenza
e di bontà; non appena lo vidi mi andò subito a sangue e cominciai a
seguirlo da lontano.

Tutti i giorni alle quattro usciva dal quartiere e se ne andava in
campagna, ciò che eccitava al più alto grado la mia curiosità. Diavolo!
che cosa ci poteva essere di interessante in campagna all’infuori della
polvere e del fango?

Volli vedere a che punto finivano le sue gite e cominciai a seguirlo
prima alla lontana e poi avvicinandomi sempre più e cercando di
attirare su di me la sua attenzione.

Un giorno lo vidi chinarsi e raccogliere un sasso. Io, naturalmente, me
la diedi a gambe, sicurissimo che me l’avrebbe lanciato sul groppone,
ma con gran mia sorpresa, quando mi fermai, lo vidi ancora lì nella
stessa posizione guardando il sasso con aria soddisfatta; poi se lo
mise in tasca e continuò il suo cammino. Io lo seguii pensieroso: che
cosa poteva esserci di così interessante in quel sasso? Perchè era
proprio un sasso, lo avevo veduto io con i miei occhi, un sasso come
tutti gli altri, senza nessuna particolarità. Allora perchè se l’era
messo in tasca?

Mentre facevo queste riflessioni il capitano si fermò e ne raccolse
un altro; tirò fuori di tasca quello di prima e li confrontò tutti e
due guardandoli contro luce. In verità io non ci capivo nulla; andai
di corsa sul posto, guardai, annusai quel mucchio di sassi, ma non mi
venne fatto di scoprirvi nulla di straordinario.

E il più curioso si è che questo strano incidente si ripeteva tutti
i giorni. Dove portava il capitano tutte quelle pietre? Voleva forse
costruirsi un palazzo? Non ho mai potuto saperlo con certezza ed ho
finito per concludere che gli uomini sono una manica di originali.
Il fatto sta che la mia compagnia cominciò a piacere al capitano;
mi chiamava, mi accarezzava sulla testa, mi chiamava _bitonto_ (uno
strano epiteto che è rimasto sempre un enigma per me) e alle volte
lo sorprendevo a guardarmi fisamente con un interesse speciale, con
un’aria soddisfatta, come quando guardava i sassi che raccoglieva per
la strada.

Una volta mi disse staccando una pietruccia da un muro:

— Povero bitonto! tu non ne capisci nulla di _geologia_, eh?

Io rimasi a bocca aperta; alla sera corsi da un mio vecchio amico,
un cane di Terranova che passava per un mostro di erudizione, per
chiedergli la spiegazione di quelle enigmatiche parole.

Ma il vecchio si strinse sdegnosamente nelle spalle e mi rispose
alzando la gamba contro un paracarro:

— Cosa vuoi che ne sappia io!

E se ne andò lasciandomi con un palmo di naso.

Malgrado queste stranezze il capitano ed io diventammo inseparabili.
Una volta mi portò a casa sua, mi fece un mondo di complimenti, ordinò
al soldato che mi preparasse una zuppa, e mi fece entrare nella sua
stanza. Quale non fu la mia meraviglia quando vidi sopra un mobile,
perfettamente allineati, tutti i sassi che gli avevo veduto raccogliere
da un anno a questa parte!... Naturalmente non fui tanto indiscreto
da fargli delle domande, mi contentai della zuppa e mi sdraiai in un
cantuccio....

                                   *
                                  * *

L’altro mio protettore era un sottotenente (ora è capitano, beato lui!)
piccoletto, tarchiato, con un paio di baffi _alla chinese_, con un’aria
insolente che era un piacere a vederlo. Si chiamava, mi pare, Giuliani.

Giuliani dunque mi introdusse in società e mi fece fare le più
strane conoscenze; di giorno non lo vedevo mai, ma di sera gli
tenevo compagnia fino a tarda ora per tutte le strade più buie e meno
frequentate di Palermo. Anzi posso dire che il Palermo vero, il Palermo
dei sobborghi, dove non mi sarei arrischiato di entrare, me lo ha fatto
conoscere lui.

Però il suo campo di battaglia era la piazza dell’Ucciardone; quante
passeggiate in lungo e in largo per quella piazza benedetta!... Alle
volte mi seccavo discretamente, ma la pazienza è sempre stata il mio
forte.

Finalmente verso mezzanotte Giuliani infilava la porta di casa (ma
allora non era più solo) e io dietro. Le prime volte mi lasciava nel
corridoio, fuori dell’uscio, ma una sera che faceva molto freddo preso
dalla compassione mi disse, aprendo la porta:

— Povero diavolo, entra anche tu!

Ed io entrai.

Da quel giorno, anzi da quella notte, la mia posizione nel Reggimento
fu fatta.

Protetto dal capitano e da Giuliani, le vagheggiate porte del quartiere
e quelle anche più vagheggiate della mensa ufficiali, si spalancarono
dinanzi a me. Allora incominciai a provare tutte le voluttà del
lusso: d’estate dormivo in giardino al fresco, d’inverno nella camera
dell’ufficiale di picchetto accanto alla stufa; il pane dei soldati che
mi era sembrato per l’addietro tanto buono, non solleticava più il mio
palato che si andava abituando a ben altre ghiottonerie. I miei gusti
si affinavano nella compagnia degli ufficiali, il mio pelo sotto lo
strofinìo del sapone e della spazzola, diventava lucido e brillante;
smisi le mie abitudini girovaghe per contrarne di più signorili e
casalinghe, diventai insomma aristocratico e guardavo dall’alto in
basso quegli altri poveri diavoli di cani randagi che mi rammentavano
l’umiltà della mia origine. Per questo fatto anzi il tenente Mario
Sferra, l’unico ufficiale a cui non andassi troppo a genio, mi
chiamava, e non so perchè, _Rabagas_ e gli altri ridevano mentre io
mugolavo dalla rabbia e di nascosto gli mostravo i denti.

Allora, nella prima ebbrezza della popolarità conquistata, nella folle
certezza che il favore dei potenti sarebbe eternamente durato, io non
capivo quanto la mia superbia mi alienasse l’animo dei poveri soldati
che erano quelli che mi avevano aiutato a salire, e odiavo il tenente
Sferra che non mancava di chiamarmi coll’odioso nome di _Rabagas_, ogni
volta che mi incontrava per i corridoi, o per le scale del quartiere.
Lo odiavo cordialmente e meditavo già di fargli un brutto tiro, quando
improvvisamente la mia felicità crollò come un castello di carte.

Se volete saperlo è andata così.

Un giorno il Colonnello annunziò sull’_ordine del giorno_ che il nuovo
generale di Divisione avrebbe passato in rivista il Reggimento nelle
rispettive camerate.

Io dall’insolito affaccendarsi dei soldati a lustrar bottoni e giberne,
dalla frequenza delle riviste preparatorie, mi accorsi subito di ciò
che c’era di nuovo, ma non me ne diedi per inteso. Ne avevamo passate
tante riviste di generali!...

Cosicchè al mattino quando la tromba di guardia suonò il duplice
_attenti_, il Colonnello, gli ufficiali superiori ed io, corremmo
incontro al generale nell’atrio del quartiere. Io gli feci anzi una
quantità di finezze strofinandogli il muso contro i pantaloni, tanto
che mi guadagnai subito una famosa pedata.

Quel generale che (lo seppi dopo) aveva dei cani una paura
irragionevole ed assurda, dopo avermi gratificato di quel calcio
tutt’altro che gentile, si volse al Colonnello con un’aria corrucciata
e spaventata e domandò:

— Ma di chi è questo _cagnaccio_?

Io, fermo a rispettosa distanza, mi aspettavo naturalmente che il
Colonnello avrebbe preso le mie difese dichiarando che io ero _il cane
del Reggimento_; ma la domanda del generale e quella parola _cagnaccio_
erano state pronunciate con un tono di voce così poco incoraggiante,
che il Colonnello, capita l’antifona, rispose con voce strozzata:

— Ma.... non so.... sarà entrato per caso....

E rivoltosi al maggiore più giovane gli disse seriamente:

— Maggiore, lo faccia cacciar via!

— Cani in quartiere — disse il generale rasserenandosi, mentre io mi
allontanavo — non ce ne vorrei vedere....

— Non dubiti! — rispose il Colonnello salutando.

Fui cacciato via.... come un cane. E come se la pedata del generale e
lo schiaffo morale subìto, non fossero stati sufficienti, il caporal
di guardia mi scaraventò sul groppone la sua gavetta che io avevo
sdegnosamente rifiutato poche ore prima e la sentinella mi ficcò due
centimetri di baionetta nel sedere.

Allora ricominciarono le dolenti note: la persecuzione veniva
dall’alto, di là dove mi erano piovuti i favori, e incrudeliva in basso
presso coloro che io avevo sfuggito nei momenti della buona fortuna.
Ahimè! la camera dell’ufficiale di picchetto, la bella sala della
mensa, furono per sempre chiuse per me. L’ordine era perentorio: cani
in quartiere non ce ne dovevano entrare ed io mi trovai in mezzo alla
strada, morente di fame, guardando supplichevolmente ed invano tutti
gli ufficiali che entravano ed uscivano.

Una mattina (anche la vergogna ultima mi era riserbata!) il terribile
laccio dell’accalappiacani mi sorprese nel mio malinconico via vai
dinanzi alle porte del quartiere.

— È finita! — pensai rassegnato, mentre due mani d’acciaio mi
chiudevano sul capo il pesante sportello del carro.

E mi rincantucciai in un angolo stoicamente, preparandomi alla morte.

La salvezza, la vita, la libertà dovevano venirmi dall’uomo che
io odiavo di più, da colui che mi chiamava col nome schernitore di
_Rabagas_, dal tenente Mario Sferra.

Appena conobbe la mia sciagura egli corse al Municipio, pagò la tassa,
mi fece uscire dalla prigione.

— Povero _Rabagas_! — mi disse accarezzandomi la testa — anche tu hai
provato l’instabilità della fortuna e del favore dei grandi. Vieni
con me; ti odiavo quando godevi di tutti i privilegi, ora che tutti ti
abbandonano io ti offro un ricovero e un pezzo di pane. Vieni!...

Io lo ringraziai piangendo: tutto il mio odio era svanito dinanzi alla
generosità di quell’azione. Che animo grande! che nobile cuore!...
Anche all’inferno lo avrei seguito se me lo avesse comandato.

E diventai il suo amico fedele.

                                   *
                                  * *

Ora ho due palle di _revolver_ nelle costole che mi fanno soffrire
come un dannato e il veterinario dice che non c’è più speranza, che è
questione di giorni. Pazienza! muoio contento perchè a mia volta ho
salvato la vita al mio generoso benefattore; non dico con questo di
essermi del tutto sdebitato, ma insomma ho fatto del mio meglio per
dimostrargli la mia riconoscenza, no?...

Fu l’altra sera: una serataccia da lupi. Si andava al solito posto,
una casettina in campagna dove c’era una signora bionda bella come un
angelo e una stupenda levriera che mi faceva l’occhietto. Io facevo
la guardia pur non mostrandomi sordo agli inviti civettuoli della
simpatica levriera.

Ad un tratto un uomo armato balza nell’anticamera e vuol precipitarsi
alla porta affidata alla mia custodia. Naturalmente io lo afferro ai
polpacci per impedirgli il passaggio ed egli urlando come un dannato
pin! pan! mi scarica due colpi a bruciapelo. Io ho visto le stelle, ma
ho tenuto duro e ho morso bene; l’importante fu che il mio tenente e
la signora ebbero tempo di salvarsi dal furore di quell’indemoniato.
Sarà l’unica cosa buona che abbia fatto nella mia vita, e se morirò
pazienza! Saranno in due a compiangermi, a esclamare sulla mia tomba:

— Povero Zulù! Che brava bestia!...




DURA LEX....


La cittaduzza dormiva in quel pomeriggio torrido e afoso di agosto,
tutta inondata di sole; non una bava d’aria, non la più piccola nube
in quel cielo che era tutto uno sbarbaglio di fuoco; dormivano i
grandi platani del viale e i pioppi della Dora; lo stradone bianco,
diritto, interminabile si stendeva a perdita di vista fra il giallo
dei campi mietuti. Di tanto in tanto il trotterello secco di un asino,
il tintinnìo delle sonagliere di qualche mulo, lo schiocco di qualche
frusta rompevano il silenzio tropicale: tra i pioppi la Dora fuggente
aveva un lieve fruscìo argentino.

— Grossa manovra oggi — disse Pasquale Cifariello l’attendente
affacciandosi al balcone, facendo solecchio colla mano per vedere più
lungi sulla strada.

— Poveretti! — esclamò la signora Giulia sospirando mentre
apparecchiava la piccola tavola rotonda.

— Le tre — mormorò Pasquale guardando la pendola — saranno andati molto
lontano?...

E strofinava rabbiosamente i bicchieri spiando di sottecchi i moti
della padrona che diventavano nervosi man mano che l’inquietudine
cresceva.

— Le tre! — Il Reggimento era dunque fuori da otto ore: otto ore di
quella canicola, di quella interminabile fiamma, sul greto ardente
della Dora, tra le stoppie bruciate, sulle strade polverose, dovevano
parere ben lunghe a quei poveri soldati se parevano tanto lunghe a lei!

Chi sa in quale stato sarebbero venuti a casa!

Le pareva già di vedere il volto abbronzato di Gustavo reso
irriconoscibile dalla polvere e dal sudore.

— Pasquale, hai preparato l’acqua per il tenente?

— Sissignora!

— Guarda un po’ se arrivano.

Pasquale si piantò sul terrazzo coi gomiti sulla ringhiera,
interrogando l’orizzonte col suo sguardo acuto di contadino. Veniva
dalla piccola cucinetta un sano e appetitoso odor di vivande; sul
fornello la pentola aveva un borbottìo carezzevole.

Tutto era pronto, non si aspettava che lui: ad un tratto Pasquale disse
a voce alta allegramente:

— Eccoli, signora, eccoli!...

Subito Giulia corse al balcone sfidando la ferocia del sole
pomeridiano, aguzzando la vista.

— Dove? dove?

— Laggiù sullo stradone, dove c’è quella nuvola di polvere bianca,
vedete signora?

— Vedo, vedo.... — ella rispose, allegra.

Era una figurina esile e bionda di un biondo caldo pieno di riflessi.
In tutte le linee del volto e del corpo aveva quella mirabile
proporzione che è la miglior caratteristica della bellezza: un visino
di Madonna illuminato da due grandi occhi di un azzurro carico, da
una boccuccia rosea quasi sempre aperta al sorriso su due spalliere
di dentini candidi. La giovinezza vibrava in ogni menomo atto di
lei, si sprigionava dagli occhi, dalla freschezza lattea delle carni,
dalla vivacità delle mosse. Poggiati i gomiti alla ringhiera (i suoi
capelli pareva circondassero la fronte di un’aureola d’oro) ella
guardava con intenso sguardo avvicinarsi la densa nube polverosa sullo
stradone: tra la polvere qualcosa luccicava, si vedeva or sì, or no, il
biancheggiamento dei kepy.

Ad un tratto le note allegre della fanfara risvegliarono gli echi
addormentati della campagna giungendole all’orecchio come un saluto
amico; e più il suono si faceva distinto più il nuvolo polveroso
diventava denso e fitto come un gran velo: ora si sentiva la cornetta
del sergente Del Vecchio che punteggiava di trilli e di variazioni un
ritornello popolare.

Subito la cittaduzza addormentata si destò di soprassalto; una turba
di monelli cenciosi sbucò sulla via, corse incontro al Reggimento
schiamazzando; le botteghe si aprirono, uomini e donne uscirono sulle
soglie sorridendo, accompagnando colla voce e col gesto il ritornello
della fanfara che lanciava al passaggio un’ondata di allegria sonora e
chiassosa.

Allora Giulia si ritirò dal balcone e si nascose dietro la tendina di
cui teneva sollevato un lembo. Sempre lo sfilare del Reggimento era
uno spettacolo nuovo per lei quantunque conoscesse di vista tutti dal
colonnello al mulattiere che conduceva la carretta da battaglione;
dal passo degli zappatori e dei trombettieri avrebbe potuto dire con
precisione quanti chilometri di strada avevano fatto i soldati. E un
senso misto di compassione e di ammirazione la prendeva per quei poveri
figliuoli che rientrando in città al suono della fanfara raddrizzavano
il busto curvo sotto il peso dello zaino, irrigidivano il portamento,
neri di sudore e di polvere, bruciati dal solleone d’agosto.

Eccoli, passavano. Il colonnello tutto grigio colla sua bella barba
a due punte, fieramente piantato sul magnifico morello che nitriva
sentendo nell’aria l’odore acuto del fieno, l’aiutante maggiore
in 1ª giovane, bruno, che guardava sempre la sua finestra con
un’insistenza che le dava ai nervi incutendole come un vago spavento:
poi il maggiore del 1º battaglione, aristocratico fino alla punta
dei capelli, che faceva caracollare la sua cavallina saura dalla
magnifica criniera spiovente e Guido Ranucci, l’aiutante maggiore
in seconda appena ventiduenne e già padre di un tesoruccio biondo
di diciotto mesi, e gli altri, e gli altri: il piccolo capitano
della 2ª coi suoi ufficiali piccoli come lui, il capitano della
3ª colla sua pancia enorme e il sorriso bonario, quello della
5ª indimenticabile figura donchisciottesca vicino a cui Balzelli
della 6ª montato sopra un ronzino di 300 lire pareva il fido Sancho
Pancha e tutti e due richiamavano alla mente le meravigliose visioni
dell’immortale satira di Cervantes; poi il gruppo dei _bagnati_ del 3º
battaglione, i capitani De Regni e Boccadoro, il tenente Mauro Sacchi
coll’inseparabile caramella incastrata nell’occhiaia, Don Ciccillo
Spada, elegantissimo nella sua pinguedine incipiente, coi suoi guanti
_glacés_ a tre bottoni.

Sfilavano: Ferruccio Costa colla sua barbetta appuntita, tutta
bianca di polvere, Rimoldi con la sua solita aria annoiata di tutto
e di tutti, Annibale Catalogna, il tenentino minuscolo, l’ufficiale
_tascabile_, fierissimo de’ suoi baffi spettinati alla parigina e delle
sue quindicimila lire di rendita, e finalmente accanto al capitano
della 12ª, _lui_, suo marito, Gustavo Torre che la cercava furtivamente
cogli occhi dietro la tendina bianca, sorridendo. Passò ancora il
tenente medico dietro alla carretta da battaglione dove giaceva un
soldato colpito da insolazione.

Le comari si affollarono curiosamente intorno alla carretta da
battaglione per veder l’ammalato, per domandar notizie.

— Chi è? chi è?

— È il caporal Vernucchio della 4ª — rispose il mulattiere.

Marietta, la stiratrice, uscì sulla porta della bottega pallida come
un cencio: aveva sentito che Vernucchio, il suo amante, stava male che
lo riportavano in quartiere sulla carretta. Dio, che schianto! Avrebbe
voluto salire anche lei su quella carretta fatale, consolarlo, guarirlo
a furia di baci; ma la vecchia madre la chiamava con voce rabbiosa, le
comari la guardavano ammiccando e Rosa Catena, la sua rivale, la sua
nemica, rideva forte fissandola, di un riso che era un atroce insulto.

— Marietta, vuoi entrare, brutta pettegola?... — urlò la madre colla
sua voce bestialmente rauca.

— Vengo, mammà, vengo!...

E rientrò in bottega: ma sulla porta si volse e le due rivali si
scambiarono uno sguardo di sfida.

Rosa Catena rideva sempre del suo riso sguaiato di donnaccia volgare,
coi gomiti sulle anche, in una posa da lottatrice che si prepara;
Marietta la guardava con quella mossa di profondo disgusto che hanno
le donne oneste per quelle che.... non lo sono più; poi sputò in terra
e girò sui tacchi mormorando tra i denti una parola che parve uno
schiaffo.

Dietro la tenda, terminato lo sfilare del reggimento, Giulia si godeva
la scena: da un pezzo assisteva alla lotta di quelle due donne, lotta
sorda, implacabile, che minacciava uno scioglimento tragico.

Tutte le sere caporal Vernucchio, un bellissimo giovanotto siciliano,
veniva nella bottega sottostante e stava a guardare Marietta che
stirava le cravatte dei soldati e i polsini dei sott’ufficiali: qualche
volta pigliava la chitarra di Pinotto, il barbiere, e si accompagnava
certi stornelli _di laggiù_ belli e melanconici nella loro cadenza
in minore. E allora mentre la giovane stiratrice dimenticava il ferro
sui carboni e si fermava a sentirlo palpitante come una colomba, Rosa
Catena, verde di bile, spalancava la finestre di faccia e si mostrava
semidiscinta, facendo pompa delle sue belle braccia bianche e sode,
cantando a voce spiegata una di quelle volgari canzonacce da trivio che
avrebbero fatto arrossire un carrettiere. Marietta sentiva l’insulto
e correva a chiudere la porta in faccia a Rosa fulminandola con uno
sguardo d’odio feroce, poi diceva a Vernucchio:

— Senti, non suonar più, raccontami qualche cosa....

Il suono cessava.

Ma Rosa Catena non si scoraggiava, si vestiva col suo bell’abito
cittadino di un rosso fiammeggiante, si tingeva le gote e le labbra
di carminio smorzando le tinte troppo accese con una cipria da due
soldi al pacco, e andava a mettersi in sentinella sulla piazzetta dove
le trombe alla sera suonavano la ritirata, aspettando pazientemente.
Giulia e Gustavo, dalla terrazza, seguivano con interesse lo svolgersi
di quel romanzetto popolare che minacciava di finire drammaticamente.
Chi avrebbe vinto delle due? La buona e onesta Marietta, oppure Rosa,
la sciagurata ragazza che non aveva più nulla da perdere?...

Giulia in cuor suo augurava la vittoria alla bella stiratrice, ma
Gustavo scuoteva il capo malinconicamente, poco fiducioso della
resistenza di caporal Vernucchio alle seduzioni del vizio.

Una sera mentre le trombe suonavano una mazurka dovuta alla
inesauribile vena del sergente Del Vecchio, mentre Gustavo si metteva
la sciabola disponendosi ad andare alla ritirata (vigeva allora il
vecchio regolamento di Servizio Interno) Giulia vide uscire Vernucchio
dalla bottega di Marietta e infilare a passo concitato il gran viale
dei platani. Dove andava? Aguzzò lo sguardo e le parve di vedere dietro
al tronco di un platano un lembo di veste svolazzare.

— È lei — pensò tristamente.

Poco dopo mentre le trombe rientravano in quartiere, caporal Vernucchio
ripassò di corsa sotto la sua finestra e le parve turbato; cinque
minuti più tardi Rosa Catena dalla sua finestra spalancata cantava
trionfalmente uno stornello beffardo colla sua voce di contralto un po’
arrochita:

                           Fiorin fiorello
    ogni cinque galline basta un gallo,
    ma il gallo è tutto mio, core mio bello.

                                   *
                                  * *

Lo squillo del campanello la richiamò improvvisamente al pensiero
di Gustavo. Svelta come una gazzella corse alla porta per tender le
braccia all’amato.

— Buon giorno, Gustavo, buon giorno! — disse saltandogli al collo.

— Buon giorno, cara! — rispose Gustavo ricambiandole il bacio con molta
effusione; — come stai? ti sei annoiata eh?

— Tanto; ma mi impazientavo perchè non tornavi mai. Chi sa come sarai
stanco! Dammi la sciabola. La roba per cambiarti è tutta pronta sul
letto. Dio! quanta polvere!... Hai fame, caro?...

— Una fame da lupi, — disse lui ridendo, avviandosi alla camera
nuziale, buttando il kepy e la sciarpa a Pasquale — una fame che non ci
vedo.... Hai preparato qualche cosa di buono, almeno?

— Vedrai, vedrai: spogliati intanto; io vado in cucina a levar la
pentola.

In pochi minuti Gustavo si cambiò, si lavò, riprese la sua bella
fisonomia abituale.

Per casa portava una camicia col largo colletto arrovesciato che
metteva in maggior evidenza la bellezza del suo collo muscoloso, che
dava un’aria artisticamente bizzarra al suo collo dai lineamenti puri,
alla sua fronte vasta e intelligente, alla sua bella testa ricciuta.
Portava pure una giacchetta nera da borghese, un paio di pantaloni
larghi di traliccio cadenti su due pantofole nere ricamate in oro,
regalo di Giulia nei tempi del loro fidanzamento.

La tavola era apparecchiata in una camera vastissima che serviva anche
da salotto, da studio e da stanzetta di lavoro. Non erano ricchi
i due sposini: vivevano modestamente in quella casetta appartata,
coi magri proventi dello stipendio di tenente e colla rendita della
piccola dote di Giulia: modestamente ma assai felici del loro amore
tranquillo e intenso che durava da cinque anni, in una serenità non
turbata mai da alcuna nube, che pareva dover essere invincibile come
il destino ed eterna come il tempo. Erano sposi da un anno, ma per
giungere alla presente e pur tanto precaria felicità, molti e grandi
ostacoli aveva dovuto vincere il loro amore; ostacoli, difficoltà,
contrattempi d’ogni natura, lunghe separazioni, lunghi silenzi, repulse
che parevano irremovibili, resistenze che non dovevano cadere che
dinanzi al loro amore ostinato e ribelle a tutte le considerazioni
finanziarie e sociali. Di fronte a quel loro amore onnipotente,
la legge della dote militare pareva una mostruosa ingiustizia, una
inqualificabile tirannia. Ebbene, si sarebbero assoggettati a delle
privazioni, avrebbero disciplinato i loro bisogni, si sarebbero
accontentati di un’esistenza modesta tutta casa e lavoro, lontana dalla
società, lontana dai rumori del mondo, solitaria e raccolta. Il cuore
parlava alto, debellando vittoriosamente tutte le giuste obbiezioni
sollevate dalla logica dei vecchi genitori; li aiutarono nella lotta le
generose illusioni dei vent’anni; e quel tanto di romanticismo che ogni
innamorato ha a sua disposizione per persuadere e commuovere gli altri.
Il matrimonio religioso, se non in faccia agli uomini, era valevole in
faccia a Dio e dinanzi alle proprie coscienze; poi un giorno sarebbe
venuta provvidamente un’amnistia, un condono generale a tutti gli
spostati, a tutte le spostate della grande società militare; forse in
avvenire la dura legge sarebbe stata modificata, abolita anche, chi
poteva sapere?...

A vent’anni il futuro è così pieno di promesse, è così grande la
fiducia nelle proprie forze! Il loro amore aveva vinto dopo quattro
anni di lotta accanita, aveva superato tutti gli ostacoli, abbattute
tutte le resistenze. I vecchi genitori di Giulia per non vedersela
morire tra le braccia, commossi dalla costanza dei due giovani,
impietositi dalle loro sofferenze, avevano finito per cedere benchè
a malincuore. Fu preparato in fretta il corredo della sposa, furono
ritirato dalla Banca quelle poche migliaia di lire che formavano tutta
la dote di Giulia e fu fissato il giorno delle nozze, il giorno divino
atteso dai fidanzati con tanta intensità di desiderio.

Pure quel giorno Gustavo fu, durante le modeste cerimonie religiose e
familiari, dominato da uno strano malessere; c’era in quel mistero,
del quale era giuocoforza circondarsi, un non so che di umiliante e
di offensivo che lo pungeva, irritandolo. Chino dinanzi all’altare
egli sentiva di commettere una cattiva azione, di condannare sè e
la donna che amava ad una esistenza impossibile, falsa, illegale. La
chiesa era buia, il cielo era buio: alla cerimonia assistevano soltanto
i vecchi genitori di lei e quattro testimoni indifferenti. La sua
vecchia madre che lo aveva assistito nei momenti più solenni della sua
vita, che lo aveva accompagnato all’altare per la prima comunione e,
adolescente, alla scuola di Modena, che gli aveva baciato e benedetto
le fiammeggianti spalline di sottotenente, la sua vecchia e cara mamma
che era pur stata la sua confidente, la sua dolce amica, non era là
ad assisterlo in quel momento, non era là a piangere di commozione, a
baciare sulla fronte la sposa di suo figlio. E suo padre mancava, suo
padre, il venerando magistrato che gli aveva negato il consenso per non
smentire con una colpevole annuenza l’intemerata illibatezza di tutta
la sua vita trascorsa nell’ossequio alle leggi; mancavano le sue dolci
sorelle a quella festa del cuore, le sue sorelle buone il cui sorriso
aveva tante volte disarmato le sue collere di adolescente, dissipato
tante volte le tristezze e gli sconforti, illuminato tante volte la
vita. E poi ci mancava quello che è l’orgoglio di tutti i fidanzati, la
_consacrazione ufficiale_, che dà il diritto di gridare ad alta voce ed
a fronte scoperta: «Questa donna è mia!» Mancava la sanzione civile che
definisce invariabilmente i doveri di ognuno, che stabilisce legalmente
la qualità maritale.

Aveva creduto di poter passar sopra a tutte le convenienze, di
sfidare l’apparente tirannia delle leggi, aveva pensato che l’amore
trionferebbe di tutti i pregiudizi, colmerebbe tutti i vuoti,
sanerebbe tutte le ferite, lo difenderebbe contro l’assalto di tutte
le miserie morali e ora appunto, nel momento supremo in cui i suoi
voti più ardenti stavano per essere appagati, in cui il gran sogno
della giovinezza diventava realtà, i vecchi pregiudizi, tante volte
sdegnosamente respinti tornavano ad assalirlo colla segreta forza
delle convinzioni succhiate col latte materno; ora appunto sorgevano
a tormentarlo tutti i dubbi che aveva da gran tempo dileguato e
le apprensioni che credeva distrutte e le fredde argomentazioni
della logica che aveva così vittoriosamente debellate colle sublimi
incoerenze della passione.

Il prete dai gradini dell’altare alzava la bianca mano benedicente; ma
quell’uomo che compiva un rito era prezzolato, come il chierico che
serviva la messa, come il cocchiere che li attendeva sul sacrato: ma
le commoventi parole che il sacerdote aveva loro rivolte, centinaia di
sposi da quello stesso inginocchiatoio le avevano ascoltate, centinaia
di sposi le avrebbero ascoltate ancora. E poi la sua annuenza ad
accettare la funzione religiosa era ancora per lui, non più credente,
un sacrifizio fatto all’amore: il matrimonio dunque non aveva altro
vincolo morale che quello della sua coscienza d’uomo d’onore, altra
garanzia che il suo amore infinito. Questo poteva bastare per lui; ma
per gli altri?

Come avesse indovinato la tempesta di pensieri che gli imperversava
nel cuore e nel cervello, Giulia gli prese la mano, gliela strinse
forte. Voleva dire quella stretta appassionata: «Non ti addolorare per
me; io sono l’amore, sono il sacrifizio. Se tu mi ami che mi importa
del mondo? Se tu mi fai tua che mi importa della legge? Il tuo cuore
onesto, il tuo amore immenso sono il mio mondo, la mia legge, la più
sicura garanzia della mia felicità. Io saprò darti tutto quello che
ti manca, tutto quello di cui l’anima tua irrequieta va in traccia: la
forza, la fiducia, la calma, perchè ti amo tanto Gustavo!...»

Mai, mai da quel giorno benedetto i molesti pensieri erano tornati,
maligne nubi a turbare la serenità del loro cielo azzurro. Vivevano
in quella modesta casetta sentendosi così moralmente vicini, così
compenetrati e spiritualmente fusi che ognuno di loro sentiva nelle
proprie vene placidamente fluire la vita dell’altro, nel proprio cuore
palpitare l’altro cuore, nella propria volontà la forza dell’altra,
volontà. Gustavo dava a lei tutte le ore della giornata non reclamate
dal servizio: erano confidenze intime, sfoghi affettuosi, letture fatte
insieme ad alta voce, progetti d’avvenire; in quelle due camerette che
erano tutto il loro mondo, la vita scorreva in una intimità deliziosa,
tutta fatta di mille piccoli delicati riguardi, di mille gentilezze
squisite, da cui l’amore usciva rafforzato, più spirituale e più casto.

Qualche volta Gustavo dipingeva mentre ella lo guardava fare lavorando
all’uncinetto o rammendando la biancheria. Passavano sulla tela le
fantasie bizzarre di lui, i suoi desiderii, i suoi ideali in tenere,
delicatissime sfumature di colori. Nei giorni lieti, quando l’amore gli
rideva nell’anima e nei profondi occhi sereni, erano paesaggi idilliaci
con certi cieli di madreperla, con certi alberi di un verde allegro
tenerissimo, con certe acque di una trasparenza luminosa. Allora egli
era contento di sè e dell’opera sua e il gran fantasma dell’arte lo
occupava tutto, gli gonfiava l’anima del piacere divino della creazione
intellettuale. Passava la giornata intera al cavalletto sentendo la
vicinanza dell’amata, provando un inesprimibile piacere a illuminare
coll’immagine di lei tutte le ridenti fantasie che gli passavano nel
cervello e che si fissavano sulla tela. Dimenticava tutte le piccole e
le grandi noie della sua vita militare, i pettegolezzi del quartiere,
i rabbuffi del suo capitano, le fatiche delle istruzioni, il tedio
delle istruzioni interne, le piccole miserie dell’economia domestica.
Lavorando febbrilmente amava sentirsi passare sui riccioli biondi la
mano di lei morbida e bianca e provava una indistinta e squisitissima
sensazione voluttuosa come se la carezza, spiritualizzandosi, gli
passasse sui nervi del cervello, discendesse alle fibre del cuore.

Quelle ore e quelle carezze gli lasciavano nell’anima una grande
allegrezza che lo rendeva indulgente, gli mettevano nel sangue il
vigore di una nuova giovinezza. Non era adunque quella la felicità?...

                                   *
                                  * *

Pasquale Cifariello portò in tavola la terrina fumante e Giulia si
sedette a tavola di fronte a Gustavo guardandolo mangiare col suo forte
appetito di camminatore robusto.

La strada era ricaduta nella sua pigra sonnolenza pomeridiana: non
una voce giungeva fino a loro, non il più lieve rumore nell’atmosfera
pesante, all’infuori del monotono ronzìo delle mosche.

Nella stanza si diffondeva il vapor gastronomico della minestra.

— Ancora, Gustavo, prendine ancora....

— Grazie, Giulietta, basta, fa sudare.

— È vero, è molto caldo: siete andati lontano?

— Più in giù di Montelupo: una marcia lunghissima, una manovra che
pareva non dovesse finir mai, con un sole.... un sole che spaccava le
pietre.

— Poveretti! — disse lei pietosamente.

— È venuto anche il Generale. Ti puoi figurare che razza di idrofobia
ha sviluppato la sua presenza; non se ne imbroccava più una giusta:
fioccavano rimproveri e _cicchetti_ che era una delizia. Il tenente
colonnello era addirittura arrabbiato come un cane e galoppava avanti
e indietro dando ordini e contr’ordini con la sua voce di botolo
ringhioso, pigliandosela più specialmente coi capitani. I capitani,
naturalmente se la pigliavano con noi e con i soldati.

— _Avanti! Sotto quella catena!_

— _Quel sostegno che cosa fa laggiù, per Dio! Tenente porti avanti quel
sostegno!_

— _La catena perchè non fa fuoco?_

— Signor capitano, non si vede niente.

— _Non importa, fuoco lo stesso!_

Insomma la confusione, le marce o le contromarce, gli ordini ed i
contrordini sono durati più di tre ore; della manovra nessuno ha capito
nulla, cominciando dai pezzi grossi che, nell’orgasmo, avevano perduta
la testa, e il generale, sopra un’altura, si godeva la scena sorridendo
mefistofelicamente, come è suo costume, e preparandosi mentalmente
una di quelle sue critiche tutto miele nella forma a tutto pepe
nella sostanza. La critica infatti è venuta subito dopo la manovra,
arguta, fine e tagliente come la lama di un rasojo. Francamente non
avrei voluto esser nei panni dei due comandanti di partito. Ad ogni
osservazione indovinata, ad ogni rimprovero velato, ad ogni appunto
ragionevole, noi ci toccavamo nel gomito sorridendo di una piccola
gioia maligna, consolandoci che qualcuno facesse le vendette di quella
violenta raffica di rimproveri immeritati durata per tre lunghissime
ore. Io intanto pensavo a te, a questa camera così fresca, a questa
minestra così saporita, al nostro lettuccio morbido dove anderò a
schiacciare un sonnellino tra poco, se tu lo permetterai. Sempre
l’idea che tu lavori per me e che mi aspetti, mi fa parer più bella e
desiderabile, questa nostra casettina appartata.

— Come sei buono!... Ma anch’io ho pensato a te tutto il giorno, sai? E
non vedevo l’ora che tu venissi anche perchè....

— Perchè?

— Perchè volevo che tu sapessi subito la grande novità....

— Che novità?... — disse Gustavo lasciando la forchetta sul piatto e
sbarrando i grandi occhi curiosi in faccia a Giulia.

Giulia, soffusa in volto di un vivissimo incarnato, si alzò, corse ad
abbracciare Gustavo e gli susurrò nell’orecchio una parola dolcissima
che lo fece trasalire....

— Davvero, Giulia? Davvero? — esclamò felicissimo, facendosela sedere
sulle ginocchia, baciandola appassionatamente sui capelli, sugli occhi,
sulla bocca; — se tu sapessi come sono felice!... Ma ne sei proprio
sicura? E come te ne sei accorta?

Il dialogo continuò a voce bassissima, interrotto da esclamazioni, da
sorrisi, da strette di mano. Sedevano ora vicinissimi e si parlavano
nel viso, quasi bevendosi l’uno le parole dell’altro insieme all’alito.

Pasquale Cifariello, impassibile, sparecchiava e metteva in tavola il
tabacco e la pipa del tenente.

— Sicuro — diceva Giulia concitata, gli occhi scintillanti di una
gioia divina. — Mi sono svegliata due ore dopo la tua partenza con un
gran dolore alle reni, un peso ai fianchi, un malessere generale che
mi teneva in uno stato di torpore. Allora ho pensato: Se fosse lui
che viene? Ho mandato a chiamare la levatrice e ho chiuso gli occhi
aspettando la sua venuta. Tu non saprai mai quello che è passato nella
mia testa e nel mio cuore in quella eterna mezz’ora di attesa e nemmeno
potrai immaginare la divina ondata di felicità che è passata su di me
quando donna Costanza mi ha detto le due sole parole: È vero!... Ah!
ci son delle cose, vedi, che voialtri uomini non le capite per quanto
siate buoni, per quanto siate affettuosi e fini!... Io mi disperavo
già, io sentivo che tu mi amavi di meno....

— Oh! Giulia!...

— Lasciami dire.... Mi rimproveravo di averti tolto la tua libertà
di scapolo, di aver sacrificato la tua fiorente e altera giovinezza.
Non dicevo nulla ma lo pensavo e me ne dolevo: alla sera quando ti
vedevo presso di me immerso nella lettura, di giorno quando seguivo
coll’occhio le bizzarrie del tuo pennello, sentivo che qualche cosa di
te mi sfuggiva, che io non bastavo completamente alla tua vita, che io
non entravo per nulla nel tuo mondo intellettuale; sentivo che c’era
nel tuo cervello e nel tuo cuore un angolo riposto dove l’immagine
mia non entrava, un piccolo eppure immenso mondo di idee di cui tu mi
vietavi la soglia.

Lo sentivo per quella specie di divinazione che nelle donne che amano
tiene luogo del genio; ma ora non più: ora c’è qualcosa di vivente, di
palpabile, di mio e di tuo che avvince assieme le nostre due esistenze,
non è vero? Ora c’è tra noi due l’invincibile legame di una creaturina,
di un piccolino biondo, di un angioletto che ci somiglierà, a cui
splenderà negli occhi celesti il tuo ingegno....

— E sui riccioli biondi l’oro dei tuoi riccioli fini — disse Gustavo
abbracciandola commosso da quella eloquenza materna, affettuosa e
profonda.

Sì, Giulia aveva indovinato. Molte volte nella vita del suo pensiero
egli non aveva accomunato l’immagine di lei ai suoi purissimi ideali
d’arte e di gloria; molte volte non le aveva comunicato la tristezza
dell’anima sua nelle ore in cui si metteva audacemente di fronte
all’oscuro problema dell’avvenire.

Assai bene aveva fatto Giulia in poche parole la sintesi psicologica
del loro amore e aveva capito che a quel loro amore uniforme e
tranquillo, perchè non più in lotta con nessuno, mancava il possente
cemento della paternità, di quell’affetto sovraumano che solleva
a smisurate altezze l’orgoglio dell’uomo, che circonda la donna di
un’aureola di santità augusta, che ve la fa parere più desiderabile.
Ma appunto per la colpa originale del loro amore, sbocciato, maturato
e consacrato nel mistero, l’annunzio della paternità imminente gli
ridestava nell’anima tutti i dubbii, tutti i sospetti, tutte le
apprensioni, tutti i rimorsi che lo avevano assalito un anno prima
dinanzi all’altare, mentre il prete alzava sul loro capo la mano
benedicente.

Sempre lo spauracchio della legge che aveva avvelenato le purissime
gioie degli sponsali, riappariva minacciosa nei momenti più solenni
della sua vita; la legge che egli aveva deluso una volta lo colpiva
ora implacabilmente nel capo di suo figlio, dei suoi figli venturi.
Il piccolino veniva alla luce nel mistero senza gioia di canti,
furtivamente come un intruso, senza nome nel mezzo agli altri uomini;
già sulla piccola testa ricciuta pendeva la spada di Damocle della
legge militare: e forse il piccino avrebbe avuto altri fratelli, altre
sorelle. Da lui, spostato, una famiglia di spostati sarebbe venuta al
mondo, anelante alla sua parte di luce e di sole. Come impedirlo?

— Non mi dici nulla? non sei contento? — disse Giulia cercandogli la
risposta negli occhi, ansiosamente.

— Sì, cara, sono felice, felice!...

E se la prese tra le braccia soffocando l’amarezza dei suoi pensieri
nella violenza delle carezze, in una fittissima pioggia di piccoli baci
sul capo dell’amata, mentre come una luce improvvisa, un proponimento
fortissimo gli si affermava nell’anima, mentre dinanzi agli occhi
passava la visione luminosa di un avvenire lontano, più bello e più
ridente. Il pensiero dell’arte che dà il pane dell’anima e quello del
corpo, gli splendeva dinanzi fulgente e consolatore.

— Lavorerò! — si disse.




INDICE


  _Storia di una sciabola_           Pag. 9
  _Camere mobiliate_                  »  17
  _Il gran rapporto di capo d’anno_   »  27
  _Per un giorno di consegna_         »  37
  _Al distretto_                      »  45
  _Cambio di guarnigione_             »  57
  _Il segreto di Rosario_             »  65
  _Campo in montagna_                 »  79
  _Prima guardia_                     »  89
  _Fisiologia dell’attendente_        »  97
  _Compagni di sventura_              » 113
  _Picchetto armato_                  » 121
  _Pasqua in fortezza_                » 131
  _Lettera di Natale_                 » 139
  _La caccia alla volpe_              » 149
  _L’uomo volante_                    » 157
  _Irene_                             » 171
  _Piccola licenza_                   » 193
  _Zulù_                              » 201
  _Dura lex...._                      » 211




DELLO STESSO AUTORE:


=_CAPORAL BERRETTA_=, (esaurito).

=_STORIE DI CASERMA_=, (Novelle militari). VIII edizione, con
illustrazioni di V. CORTE e M. BASSO. — Milano, A. Vallardi, editore.
Cent. 50.

=_FANTI E CUORI_=, (Novelle militari) con illustrazioni originali di M.
BASSO. — Milano, A. Vallardi edit. Cent. 50.

_=IL ROMANZO DI GUIDO FORTI=_, III ediz. — Roma, E. Voghera editore.
Cent. 60.

_=ALLA PROVA DEL FUOCO=_, (Romanzo). — Roma, E. Voghera editore. Cent.
60.

  =D’imminente pubblicazione:=

IL ROMANZO DI MARIA, (Novelle mondane). — Roma, E. Voghera editore.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA VITA NELL'ESERCITO ***


    

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1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
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remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
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providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

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including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
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