Con Garibaldi alle porte di Roma : (1867) Ricordi e note

By Anton Giulio Barrili

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Title: Con Garibaldi alle porte di Roma
        (1867) Ricordi e note

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: March 17, 2025 [eBook #75645]

Language: Italian

Original publication: Milano: Treves, 1895

Credits: Barbara Magni (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CON GARIBALDI ALLE PORTE DI ROMA ***


                Per il XXV anniversario di Roma capitale
                                 (1895)


                             Con Garibaldi
                           ALLE PORTE DI ROMA
                                (1867).


                             RICORDI E NOTE

                                   DI
                          Anton Giulio Barrili



                                 Milano
                        FRATELLI TREVES, EDITORI




                         PROPRIETÀ LETTERARIA.

                       Riservati tutti i diritti.

                     Milano. Tip. Fratelli Treves.




_Con Garibaldi! Ma sai che i posteri c’invidieranno? a taluno di più
fine sentimento (spero ben non ne sarà perduta la semenza) si vorrà
augurare d’esser morto sepolto da un secolo, o da due, pur d’essere
vissuto dieci anni nella luce eroica di quell’uomo grande e forte,
semplice e buono, che in sè aveva raccolte le virtù civili di Fabrizio
e le militari di Cesare._

_Frattanto, come so e posso, io pago un tributo d’onore ai morti e
ai superstiti delle memorabili geste, da Nerola a Monterotondo, e
da Casal de’ Pazzi a Mentana: lo pago, ricorrendo il XX Settembre,
che è da un quarto di secolo il giorno felice della restituzione di
Roma all’Italia; ond’io collego i casi dell’avversa con quelli della
prospera fortuna, non ignorando che i primi han preparati i secondi, e
sapendo bene che dove il voto di tutti è compiuto, i lagni antichi non
valgono e il dimenticare è virtù. Lo aveva cantato anche il “Romancero
del Cid„, e in tempi assai meno graziosi dei nostri:_

    _Porquè donde presiede amor_
    _Se olvidan muchos agravios._

_E tu, caro Stefano, ama sempre il tuo_

  _Genova, settembre 1895._

                                                ANTON GIULIO BARRILI.




  _Al generale Stefano Canzio._


_Questi ricordi giovanili vengono a te, compagno di adolescenza, amico
di tutta la vita: vengono a te, ti parlano di giorni cari, sebbene
non così fortunati come altri ed altri ond’erano stati preceduti.
Ma li faceva lieti di austera grandezza il Tevere largo, scorrente
tra le ripe sabine ed etrusche, con la sua Roma assisa là in fondo;
tanto bella a vedere dalla vasta campagna, ove il deserto medita e par
sempre che aspetti; tanto bella a’ miei occhi, tanto desiderata e da
lontano allegrante i cuori, che questo libro, in cui ella è veduta in
tal forma, io lo avrei voluto intitolare “Scampagnata epica„; e solo
me ne trattenne il pensiero dei mille fratelli d’arme, al cui occhio,
cercante Roma, i bei giorni della magnifica impresa furono anche gli
ultimi della vita._

_Tu ami lo spazio libero, le vie larghe davanti a te, dove fretta di
contemporanei non faccia di gomito e non incalzi alle spalle, avida
di scavalcare, impaziente di giungere. Laggiù eravamo assai meno a
correre; e nessuno, o mio Stefano, ti contendeva il posto d’onore.
Quello era il buono; tutto l’altro, e l’istessa vita, quanto è lunga,
non vale, il bel sogno che possiamo evocare, a ristoro dell’anima. Ed
io ti evoco qui, non una storia di fatti, che troppo sarebbe per me,
ma una serie di grate sensazioni, con la visione assidua del divino
Garibaldi e il calor vivo della sua benevolenza paterna._




CON GARIBALDI

ALLE PORTE DI ROMA




I.

Come si esce da Genova. Gerolamo Costa e Giovan Battista Parodi. Dalla
“bella Ninin„.


Queste sono note di viaggio, non vogliono essere altro che note,
tirate giù alla buona, frettolosamente, finchè la memoria aiuta, per
non perdere il filo delle cose vedute, per aggiungere qualche ricordo
personale, col suggello del vero, a più nobili e più ordinati racconti.

Si va a Roma, lettori, o si tenta di andarci. Il viaggio, come sapete,
prima del Settanta era piuttosto difficile. C’erano troppi, e potenti,
che non volevano andar essi, e lo proibivano con tutte le forze loro a
chi ne aveva voglia; donde stiracchiamenti, urti, malumori, guerre in
famiglia; insomma, una vita da cani. Rallegriamoci che le cose si siano
un bel giorno mutate, o non ci fermiamo a ragionarne di più.

Per le necessità del racconto vi dirò solamente che nella estate del
’67, tra coloro che non volevano lasciarmi partire da Genova per andare
a Roma, c’era il conte Nomis di Cossilla, prefetto, e il cavalier
Verga, questore; due ottime persone, ma cocciute a quel modo. Sui primi
giorni dell’ottobre, quando in me si era fatta più forte la voglia, il
cavalier Verga, incontrato in una casa di amici, mi aveva detto col suo
solito garbo signorile, ma con altrettanta sicurezza di accento:

— Lei non andrà, e i suoi amici nemmeno. Del resto, che cosa andrebbero
a fare, senza Garibaldi? —

Infatti, la prospettiva non era punto allegra. Il Generale, arrestato
a Sinalunga, portato di là in Alessandria, era stato ricondotto nella
sua Caprera, dove il governo lo custodiva con due navi da guerra.
Intanto, di là dal confine Umbro, su quella terra che san Pietro non
sognò mai di possedere (egli a mala pena padrone di una paranzella sul
lago di Galilea) erano incominciate le busse. Ma i nostri volontarii, i
così detti insorti dell’Agro romano, erano pochi, assai pochi, male in
armi e peggio in arnese. Non c’era modo di andare in grossi drappelli
ad aiutare quei pochi, che avevano passato il confine quando era meno
diligente la guardia, e lo stato della insurrezione poteva compendiarsi
in questa frase, che le bande stancavano il nemico, ma più ancora
sè stesse. La prodezza e la costanza erano ammirabili; ma pur troppo
quelle due belle virtù non potevano tener luogo di scarpe, di coperte
di lana, di cartucce e di pane; quattro cose altrettanto necessarie al
soldato.

“Roma o morte„ si gridava frattanto, nelle dimostrazioni quotidiane,
per tutte le città maggiori del regno. Bisognava andare in aiuto
ai compagni, per tener vivo il fuoco. Garibaldi sarebbe un giorno o
l’altro venuto in campo, a rinnovare i suoi prodigi; Stefano Canzio, la
cui rara energia di propositi doveva meritargli l’appellativo di “noto„
nei carteggi governativi, si adoperava intorno a un disegno di fuga,
con affetto di congiunto, con devozione di soldato, e nessuno dubitava
che l’impresa, quantunque difficile, avesse a sortire buon esito.
Bisognava andare, andar subito; ma come?

Alla spicciolata, sicuramente. Ma anche alla spicciolata, bisognava
indovinare la strada buona. Per Alessandria e Bologna si andava
speditissimi, aiutando il vapore: ma alla stazione di Genova vigilavano
guardie e carabinieri; le facce garibaldine erano presto riconosciute
e cacciate indietro senza misericordia. “Lei non andrà, e i suoi amici
nemmeno„; lo aveva detto il cavalier Verga, e manteneva la parola.
Quanto alla via di mare, le stesse difficoltà; ogni visita a bordo
dei vapori in partenza per Livorno e per Napoli, rimetteva a terra i
viaggiatori sospetti. Per uscire da Genova restava la via più lunga,
quella di Chiavari, dove non si andava ancora in istrada ferrata. Ma le
diligenze avevano l’ufficio e lo scalo in piazza San Domenico: ad ogni
partenza la questura visitava il registro dei viaggiatori, assisteva
all’imbarco, fiutava la sua gente, e non c’era verso d’ingannarla con
barbe finte, con parrucche gialle, con occhiali verdi, o con altre
invenzioni dell’antico repertorio.

Pure l’amico mio Antonio Burlando, con cui avevo fatto conto di
partire, non disperò di trovare una gretola. — Vedrai che si va, — mi
disse, — e per la via di Chiavari, in barba al signor Verga. Lascia
fare a me; ho il mio piano in testa.

Il piano del mio maggiore non istette molto a venir fuori. La mattina
del 12 ottobre, due amici suoi, saviamente scelti con due cognomi
dei più comuni a Genova, un Costa e un Parodi, andavano ad iscriversi
per due posti di _coupé_ nella diligenza di Chiavari. All’ora della
partenza, sotto gli occhi dei vigili, capitavano con le loro valigie,
che erano poi le nostre, e le facevano caricare sull’imperiale.
Noi, proprio allora, passeggiavamo in piazza San Domenico, per dare
un’occhiata al giuoco, ma non senza riceverne un’altra, abbastanza
canzonatoria, da un delegato di pubblica sicurezza, che aveva l’aria di
dirci: “passeggiate, voi altri; da Genova non si esce.„

E noi passeggiavamo, chetamente muovendo per via Carlo Felice
fino alla piazza delle Fontane Morose. Ma là, presa una vettura da
nolo, ordinavamo al cocchiere di condurci per Santa Caterina agli
archi dell’Acquasola, in via Serra, in via Galata, a porta Romana,
all’inferno, purchè si facesse alla svelta.

Gerolamo Costa e Giovan Battista Parodi, i due amici del _coupé_,
dovevano trovarci in Bisagno, al ponte della Pila, o più lontano,
secondo i casi; al colmo della salita di San Martino, a Sturla, o più
in là, pronti a prendere i loro posti in diligenza. Si adattavano anche
a fare un viaggio più lungo; per render servizio a noi sarebbero andati
magari a Nervi, a Recco, a Rapallo; fino a tanto non ci vedessero in
mezzo alla strada provinciale, avrebbero continuato, anche col rischio
di giungere a Chiavari. Gran rischio, finalmente! La città era così
bella, e si stava così bene all’albergo della Fenice!

A noi parve che Sturla, col suo ponte sul fiumicello omonimo, nè
troppo vicino nè troppo lontano da Genova, fosse il luogo più adatto
per aspettare la diligenza e darle l’assalto. Perciò, avevamo detto
al vetturino di condurci fin là, ma al galoppo, senza perdere un
minuto. La diligenza, tardigrada di sua natura, non poteva averci
preceduto; a San Martino si seppe che non era ancora passata; ma noi
volevamo giungere molto prima di lei al punto indicato, per aver tempo
ad assumere un’aria di gente quieta, e sopra tutto non farci vedere
discesi da un cocchio, per salire in un altro. I cospiratori, si sa,
sono un po’ tutti così. E correvamo, a gran forza di frustate, per la
via polverosa, col massimo desiderio di allontanarci presto, di fuggire
da Genova, da quella Genova per la quale più tardi si ha da patire il
mal del paese; cosa che a me accade di sicuro dopo quindici giorni di
assenza.

Certe nuvole vagabonde, di cui non è mai penuria in autunno e in
vicinanza del mare, s’erano addensate sul nostro capo, spremendo
un’acquerugiola che prometteva di mutarsi poco stante in acquazzone;
ed io stavo pensando tra me dove avremmo potuto metterci al riparo,
se in una botteguccia di tabaccaio che ricordavo esser là, passato
il ponte, o sotto un arco del viadotto della strada ferrata, allora
in costruzione. Pioggia o non pioggia, del resto, il luogo mi pareva
di buon augurio, sotto la collina di San Giacomo, dove un anno prima,
finita la campagna del Trentino, ero stato in felicissima villeggiatura
tre mesi. Già la carrozza era entrata sul ponte; ma eccoti, mentre io
dico al vetturino di fermarsi, l’altro tira via di galoppo, rispondendo
a bassa voce e quasi senza voltarsi: non vedono?

Guardammo infatti, e vedemmo. Due guardie di questura, della più bella
specie, fiorivano come due bei tulipani neri in capo al ponte, presso
l’angolo di quella medesima casa dov’era l’appalto.

La vista dei due bravi di Don Rodrigo, nemici dell’ordine pubblico,
non fu ragione, io credo, di tanto turbamento al povero Don Abbondio
nella viottola campestre, quanto a me la vista di quei due custodi
dell’ordine sullodato. Mi posi io l’indice e il medio nel colletto
della camicia, tanto per darmi l’aria dell’uomo tranquillo, _integer
vitæ scelerisque purus_? Non ricordo; ma se non l’ho fatto, mettete che
sia stato un miracolo.

Si andò dunque avanti, seguendo il buon impulso del vetturino. Costui
ci aveva fiutati; e gli pareva che non dovessimo essere in troppo
buon odore presso il questore di Genova, nè presso i suoi delegati
suburbani. Ottimo vetturino!

Giunti a Pietra Roggia, ci fermammo finalmente. Non c’erano guardie,
laggiù; c’era invece un’osteria, la quale ci offriva un riparo, e al
bisogno un pretesto di scampagnata.

Quell’osteria, per chi la vede di fuori, ha l’aria di una casupola
che stia lì per fare ad ogni momento un tonfo nell’acqua: ma a chi la
guarda dentro, apparisce solidissima. Ai tempi andati dovette essere
una casamatta, e gli stretti spiragli, che la pretendono a finestra
dalla parte del mare, furono strombature di feritoie per allogarvi la
canna delle colubrine. Al tempo di cui racconto, non c’erano più arnesi
con cui rispondere alle ostilità di un naviglio nemico; c’era invece
un’ostessa, la “bella Ninin„, famosa per i suoi ottimi taglierini
e per il suo stufatino al dente. Era un’ora, bruciata, quella in
cui smontavamo: niente taglierini, adunque, e niente stufatino. Ci
contentammo di due gallette, che inzuppammo in un bicchiere di vin
bianco.

Era il tocco dopo il meriggio, e si doveva aspettare un bel pezzo.
Finito il nostro spuntino, ce ne andammo su d’un terrazzo, di fianco
alla casa, guadagnato a colpì di piccone sulla falda dello scoglio.

— È un ottimo osservatorio; — dissi all’amico. — _Hic manebimus
optime_; non ti pare?

— Sì, — mi rispose egli, — ma a patto che tu non incominci a parlar
latino.

— Lingua del Lazio, perbacco! e noi si va a Roma.

— Per intanto siamo ancora a Quarto.

— _Ad quartum lapidem_, — fui per soggiungere; ma mi trattenni in
tempo. Amavo il mio maggiore, e mi appigliai al partito di guardarmi
dattorno.

La riva di Quarto ha fama di aridità, e fama meritata; anzi, può dirsi
che sia tanto celebre per questo, come per la epica spedizione dei
Mille. Nè solo è arido il lido scoglioso; arida, o quasi, è la lista
di campicelli che corre tra la via provinciale e i monti vicini; i
quali, poi, per non dar ombra al Fasce, loro primogenito, si serbano
modestamente ignudi, non portando ombrello di pini, nè d’altra ragione
di piante.

Pure, al tempo degli Scienziati, e del loro famoso congresso in Genova,
la nudità di quelle montagne aveva impietosita un’intiera sezione
di dotti. La pietà, in un congresso, finì con un ordine del giorno;
l’ordine del giorno portò che quelle balze, di monte Fasce, di monte
Moro e dei loro compagni minori, ricevessero una larga seminagione di
pinocchi. Niente d’ambizioso, niente di esotico nella famiglia delle
conifere: pini, pini domestici a tutto spiano. Per quella seminagione
abbondante, e convenientissima al terreno, tutta quell’arida costiera
doveva inverdirsi in pochi anni, e quella sassaia diventar più folta
d’alberatura, che non fosse la selva incantata, donde il pio Goffredo
pensava cavar tante legna per uso di messer Guglielmo Embriaco, gran
costruttore di torri mobili nell’esercito crociato.

Si era nel ’46. I seminatori si misero all’opera: per una ventina di
giorni quei greppi furono corsi e ricorsi, sterrata ogni grillaia,
piantati da per tutto i bei pinòli dal guscio rossastro. Già si vedono,
cogli occhi della mente, sbucar da terra i preziosi germogli; la
fantasia salta a bisdosso del suo ippogrifo,

    E dell’ombra ventura in cor s’allegra.

Ma ohimè, passano i giorni, passano i mesi, passano gli anni, e
arrivederci coi pini. Fu detto allora dai savi del vicinato che quelli
non erano luoghi da alberi; che la natura li aveva fatti calvi, e che i
dottori di Genova ci avrebbero perso l’unguento. La ragione fu accolta
da principio per buona; che cosa non fu detto dei signori scienziati?
che erano capi scarichi, sognatori, buoni a imbrattar carte colle loro
teoriche, ma poi, venuti alla pratica.... Già, s’intende, la pratica
è il cavallo di battaglia di quanti sono che non sanno leggere nè
scrivere. Noi in italia abbiamo diciassette milioni di uomini pratici.

Ma ci fu uno che non si contentò della spiegazione degli uomini
pratici. Era un Garibaldi, medico condotto di Quinto. Volle andare
al fondo delle cose, saper tutto, vederne l’acqua chiara. Parlò coi
seminatori, giunse ai compratori dei pinòli, e seppe.... che quei semi
preziosi erano stati comperati dal droghiere. I pinòli, innanzi di
passar nelle mani dei seminatori, erano stati nel forno.

Ed ecco perchè, ad onta dei dotti congressisti e del loro pietoso
ordine del giorno, le nostre balze da Sturla a Sant’Ilario, da
Sant’Ilario a Bogliasco, a Sori, sono rimaste calve come il monte
Fasce a cui fanno da sproni, aride come la scogliera sulla quale me
ne stavo io con l’amico, ad aspettare l’arrivo della nostra diligenza
tardigrada.

Era una veduta malinconica, e mi svegliò nell’anima i più malinconici
pensieri. Il cielo, quantunque fosse spiovuto da un bel poco, si
manteneva rannuvolato. Tutt’intorno, il terreno appariva vestito di
colori smorti, come è naturale in luoghi rocciosi, dove non provano
che gramigne, cardi selvatici, con rari ciuffi di tamerici che pendono
polverose qua e là dai ciglioni sulla strada maestra. La scena non
era muta, per altro; aveva pure una voce, ed era quella del mare, che
mandava i suoi cavalloni ad infrangersi, con monotono fragore e larghi
sprazzi di schiuma, contro il macigno calcareo della riva scoscesa.

Genova era nascosta ai nostri occhi dai due promontorii di Sturla e di
Albaro; ma, come avviene qualche volta per effetto di allucinazione,
a me pareva di vederla. Le colline sparivano di mezzo; le mura si
facevano diafane; vedevo le strade, i vicoli, perfino le note facce dei
cittadini, i peripatetici di via Carlo Felice, gli stoici di piazza
Banchi, i cinici del Gran Corso, i socratici della Concordia, gli
aristofaneschi della libreria Grondona, e quelle altre creature che
non sopportano appellativi antichi ed antipatici, poichè il loro nome è
gioventù e bellezza; voglio dire le nobili e contegnose visitatrici di
botteghe eleganti, da Luccoli a Soziglia, dalle Vigne a San Siro.

Addio, Genova, addio bella, che amo con tutte le forze dell’anima.
Bella, sì, bella, più ancora che superba; bella di una certa bellezza
il cui tipo si va perdendo oramai, insieme col vecchio costume; non
madonna bisantina, impacciata nel manto grave d’ori e di gemme; non
civettuola sgallettante sul marciapiede, con un occhio ai suoi fronzoli
parigini e l’altro al colto pubblico, senza pregiudizio dell’inclita
guarnigione; giovane madre, piuttosto, sempre giovane madre, sorridente
e serena, il cui fascino costante, più che nello sguardo assassino,
si dimostra in una gaia corona di bambinelli ricciuti. Addio Genova,
addio città dove ho riso e pianto, dove ho amato e sofferto, dove mi
sento stretto da tutti i vincoli più sacri, sian dolci od amari, delle
rimembranze giovanili. Se io..... il che finalmente non sarà grave
danno, nè per me, nè per altri.... se io....

— Signori! — gridò la “bella Ninin„, affacciandosi all’uscio del
terrazzo, — la diligenza è lassù alla svolta. —

L’amico si mosse; io lasciai a mezzo un saluto che minacciava di
volgere al patetico, e lo seguii sulla strada.

Il maestoso carrozzone che doveva portarci a Chiavari e da Chiavari
alla Spezia, si fermò cortesemente davanti all’osteria: Gerolamo Costa
e Giovan Battista Parodi scesero prontamente, ci strinsero la mano,
augurandoci tante belle cose; noi saltammo dentro, a prendere i due
posti abbandonati; e fu un batter d’occhio.




II.


Da Quarto a Firenze. L’entrata alla Tappa. Nella Galleria degli Uffizî.


— Ci siamo, finalmente! — dirà consolato il lettore.

E non dubiti, dicemmo la stessa cosa anche noi, aggiungendovi un
lungo, largo e profondo respiro. Oramai non ci mettevano più le unghie
addosso; a Firenze, dove si sarebbe giunti la mattina seguente, avremmo
avuto il piacere di ritrovarci nel più stretto incognito.

Quanto a ciò, eravamo in errore. A Firenze non dovevamo far passo senza
imbatterci in persone conosciute, e non dimenticherò mai più che in
Piazza della Signoria ci vedemmo squadrati lungamente da due guardie,
che pochi giorni innanzi ci avevano pedinato per le vie di Genova, fino
alla porta dei Vacca, sull’uscio di un circolo di amici, dove forse
credevano che fosse un comitato di arruolamento.

Ma non precorriamo gli eventi. Per ora siamo in diligenza, dove il
nostro primo pensiero è di accomodarci per benino, il secondo di
render grazie a quell’arca ospitale che ci porta via, il terzo di far
conoscenza con un compagno di viaggio, che è l’incaricato del servizio
postale, il signor Bolentini, di Borghetto Vara, ottimo giovane, a noi
largo di attenzioni d’ogni maniera. Con me, curiosissimo animale, egli
fu paziente cicerone per quanto fu lunga la strada: giunti a Spezia,
non volle mica andare a dormire; ci accompagnò cortesemente allo scalo
della strada ferrata, che era piuttosto lontano; e laggiù stette con
noi, amorevole compagno d’insonnia, fino alle quattro del mattino.
Ma eccomi da capo a precorrer gli eventi; tanta è la mia fretta di
giungere!

Per farvela breve, vi dirò che ci fermammo pochi minuti a Recco, luogo
a me caro, come Nervi e Quinto, per allora recenti testimonianze di
affetto, le quali io ricorderò sempre con animo grato, sebbene non
portassero, e chi sa? forse più ancora perchè non portarono frutto;
che di là si salì in Ruta (notarile italianizzamento di Rua, che fu
corruzione dialettale di un’antichissima _ruga_ latina), in Ruta,
famosa stazione per le allegre scampagnate che solevano farci i
genovesi del vecchio stampo negli ozi della domenica, e donde io potei
dare l’ultimo sguardo alla bella Genova, illuminata dai gloriosi lumi
del tramonto; che sotto la galleria di Ruta vidi il crinolino più
rigonfio che mai fosse portato da una impettita Venere campagnuola; che
scendemmo a Rapallo, nel golfo Tigullio, stupenda veduta di anfiteatro
villereccio e di mare azzurrino; che finalmente caddero le ombre della
sera, e non vedemmo più nulla.

Perciò, non mi venne fatto di appagare il desiderio che sempre avevo
avuto fortissimo di vedere la “fiumana bella„ che

    Intra Siestri e Chiavari s’adima;

vederla, s’intende, al naturale, che dipinta l’ho in pratica assai,
grazie al mio amico Tamar Luxoro, che pare ne sia innamorato cotto, e
vi ha già intinto non so quante volte i suoi valorosi pennelli. Neanche
potei salutare il Chiappaione, quella famosa cava di lavagna, dove il
mio venerato Giuseppe Revere scrisse le più belle pagine e le più gravi
d’insegnamenti delle sue _Marine e Paesi_, dopo avere udito i discorsi
del fiero conte di Lavagna, di Andrea Doria, di Cristoforo Colombo e di
tanti altri valentuomini della età dei giganti.

Ma se tante altre cose non vedemmo, ci fu dato almeno di abbracciare
il nostro amico Prandina, valente chirurgo, già soldato della Legione
Lombarda, con essa sbalestrato nel 1849 a Chiavari, e colà trattenuto
dall’affetto per tutto il resto della sua vita; salvo, s’intende, le
volate epiche di quattro campagne garibaldine. Egli era in quei giorni
sulle mosse per fare il nostro medesimo viaggio; e là, nei pochi
momenti della nostra fermata, ci fu pronto ed amorevole dispensatore
di due cose che lo stomaco cominciava a sentir necessarie: una
fetta di arrosto e una bottiglia di vino. Condonatemi questi ricordi
gastronomici. Anche gli eroi d’Omero mangiavano come Turchi e bevevano
come Cristiani, quantunque fossero la più parte di sangue immortale,
e al babbo e alla mamma avessero potuto chiedere un assaggio di più
poetiche imbandigioni; l’ambrosia, per esempio, od il nèttare.

Non tutti i ricordi della fermata a Chiavari son lieti come questo.
Ci fu anzi un momento, che, per dirla col poeta, mi si drizzaron “le
chiome sul crin„. La diligenza, entrata in città, si era appena fermata
davanti all’ufficio dei biglietti, che due persone si affacciarono allo
sportello del _coupé_, domandando:

— Son qui i signori Costa e Parodi?

— Ahi! — diss’io dentro di me. — Notizie della questura. —

E cercai nell’ombra il viso dell’amico Burlando; il quale, mosso
certamente dallo stesso pensiero, mormorò tra i denti:

— Ci mancava anche questa! —

Ero il più vicino ai due sconosciuti; perciò

    mi rivolsi loro e parlai io.

— Che cosa chiedono? Costa e Parodi siamo noi per l’appunto.

— Abbiamo — risposero — due telegrammi da Genova.

— Assassini! — borbottai dentro di me. — Basta, qui bisogna far grinta
dura;

    Ogni viltà convien che qui sia morta.

Così dicendo, o pensando, stesi la mano per prendere i due telegrammi
che quei signori ci offrivano.

— Lo fanno almeno con garbo; — soggiunsi, parlando sottovoce
all’amico. — Vedi? ci mostrano anche gli ordini superiori che
hanno ricevuto. —

Ma i due telegrammi erano chiusi tuttavia; non si trattava dunque di
ordini superiori. Il signor Bolentini, posto mano ai fiammiferi, aveva
cortesemente acceso un torchietto, alla cui luce potemmo aprire le
buste e leggere i due telegrammi. Essi dicevano con poche varianti la
medesima cosa; si trattava di una notizia particolare, giunta a Genova
dopo la nostra partenza, ed era un amico che ce la mandava in due
edizioni, una a Gerolamo Costa e l’altra a Giovan Battista Parodi, ai
viaggiatori nel _coupé_ della diligenza di Chiavari.

Ne uscivamo con la paura: ma vi so dir io che per la mia parte ne ebbi
moltissima. Animo! esclamai. Questo è di buon augurio; se alla stazione
di Firenze le guardie daziarie non ci rovistano troppo le valigie,
trovando le nostre rivoltine, si giunge in porto senz’altre avarie.

Alle due dopo la mezzanotte eravamo alla Spezia; alle quattro, in
istrada ferrata. L’aurora con le rosee dita ci dipinse vagamente la
campagna circostante, da Arcola fino alla Magra. Toccavamo le soglie
dell’Etruria; andando oltre salutammo Carrara e Massa, nascoste
lontano dietro il rialto delle verdi campagne, ma indicate abbastanza
dalle creste dell’Alpi Apuane e dalle arsicce costiere ferrigne, le
quali per larghi solchi biancastri lasciano indovinare i marmi che
portano nel fianco. Quanti numi sono usciti di là! quanti eroi! quanti
grand’uomini! E quanti ce ne sono ancora rinchiusi, pigiati in quelle
vene profonde, i quali non domandano altro che di poter uscire alla
luce del sole! State cheti, o grand’uomini futuri. A farsi corbellare
c’è sempre tempo. Dormite nel limbo delle montagne natie, dove non è
beffardo sogghigno di contemporanei, nè beata indifferenza di posteri.

A Pisa, dove ci fermammo mezz’ora, mi piacque il campanile del Duomo
e una bistecca; quello divorato cogli occhi passando; questa coi denti
al caffè della stazione. Qui, tra un boccone e l’altro, feci conoscenza
con un vicino di tavola, il quale venne poi nello stesso compartimento
con noi, e diventammo amici, come uomini che si conoscessero da
quarant’anni e contassero di vedersi per altri quaranta.

Graziosi embrioni d’amicizia, larve a cui non manca che un po’ di
tepori primaverili per mutarsi in crisalidi, vedute di cielo sereno
fra due lembi di nuvole, per voi l’anima esce un istante dal covo e
si rallegra all’aperto. Durate un baleno, ma la ricordanza rimane; e
questa, che è gaia, aggiunge un fil di seta alla trama della vita, che
è troppo spesso di canapa, e mal pettinata per giunta.

Noi non chiedemmo il suo nome al nostro gentile compagno. Il più
bel nome che un uomo possa portare egli lo aveva scritto nel viso:
gentiluomo. Gentiluomo! ahimè, parola abusata, tirata malamente ad
esprimere uno stato sociale, e non più una felice concordanza di tutti
i pregi della mente e del cuore!

Egli era di Signa, e ritornava allora dalla Esposizione di Parigi,
che fu il tema dei nostri discorsi lungo il viaggio, salvo parecchie
digressioni intorno ai luoghi per cui passava il convoglio, agli uomini
insigni che li avevano illustrati nascendoci, ai possessori felici
di quelle ville fastose, di quei castelli principeschi che sorgevano
tutt’intorno a specchio dell’Arno, del nobile, regale, glorioso, ma
non limpido fiume. Ogni bel giuoco dura poco, e “l’ore del piacer
son le più corte„. Perdemmo alla stazione di Signa il nostro gentil
cicerone, e non potemmo levarci la più piccola curiosità intorno a
tutto quel resto di paese che avevamo da percorrere. Fortunatamente
non era più molto: ben presto, al dilatarsi e al pianeggiar della
valle, al moltiplicarsi dei villini, dei parchi, dei ceppi di case,
si sentiva Firenze: ancora qualche minuto di corsa, e ci apparve sul
fondo verde grigio della prospettiva una gloria architettonica di
torri, di campanili, di cupole, ed io riconobbi facilmente tutto ciò
che da bambino avevo veduto in molte stampe, e da giovane in moltissime
fotografie. Niente di nuovo sotto il sole, dicevano gli antichi; ora il
proverbio dovrebbe mutarsi così: niente di nuovo, per grazia del sole.

A proposito di novità, non ne aspettate da me, intorno a Firenze. Tanto
ne è stato scritto da cinquecent’anni a questa parte! Il mio viaggio,
del resto, non ha per sua meta l’Etruria; a Firenze non debbo fermarmi
neanche due giorni intieri; del viaggio racconterò a mala pena il poco
che vidi, e il niente che feci, o poco meno di niente. Nella mezza
giornata del 13 di ottobre e nella mezza del 14 che passai sulle rive
dell’Arno, alloggiando alla Locanda della Luna, desinando da Barile
e bevendo qualche fiaschette di Pomino da Castelmuro, vidi molto
Firenze politica, fastidiosa a quel modo, pochissimo Firenze artistica
e storica. Perciò, lettori, non v’aspettate un quadro, e nemmeno un
bozzetto.

Entrando, vidi un bel cielo, un cielo sereno, che mi parve quello di
Genova. La città era allegra nell’aspetto: a me la rendevano solenne le
grandi memorie che mi si affollarono alla mente, guardando le alture
di San Miniato e le bastite di Michelangelo. Suonava il mezzodì,
e non era certamente ora di fantasmi; ma io vedevo il Buonarroti,
Francesco Carducci, Dante da Castiglione e tutte le colossali figure
dell’_Assedio_, scomodarsi per la mia giovane persona e cortesemente
servirmi da introduttori nella bella città.

Vedete potenza d’immaginazione! E non avevamo ad introduttore che
un vecchio fiaccheraio, vera figura di Stenterello, il quale voleva
insegnare il passo di corsa ad un cavallaccio sparuto, più vecchio di
lui, a forza di frustate e di giuraddio. Il cavallo, che probabilmente
non aveva ancora mangiato in quel giorno, non voleva saperne a nessun
patto; e fu bene per me, che approfittai del suo passo ordinario per
ammirare il grazioso ricamo architettonico di Santa Maria Novella;
bellissima cosa e bellissimo nome.

Andavamo, come ho già detto, ad alloggiare alla locanda della Luna. A
me parve di esserci già, nella luna, quando la carrozza entrò nella
piazza della Signoria. Maraviglia delle maraviglie! L’albergo, dove
giunsi dopo una svolta, lo vidi appena, tanto che non ne ho conservato
memoria; rammento che mi risciacquai il viso in fretta, e più in
fretta spolverata la giacca e il pioppino, scappai subito fuori per
ritornare in piazza della Signoria, a guardare la severa mole di
palazzo Vecchio, con quella sua gran torre a sbalzo sull’orlo della
merlata, poi la loggia dei Lanzi, mirabile da lontano per l’eleganza
delle forme, più mirabile da vicino per ricchezza di marmi e di bronzi
stupendi, che uno solo basterebbe ad illustrare un’età. Non parlo del
gruppo moderno, _Pirro e Polissena_, del Fedi, buona scultura che si
reputò degna di aver posto colà, dopo averla ammirata da sola nello
studio dell’artefice, mentre laggiù, tra le grandi cose, è piccina, e
par più leccata che graziosa al confronto di tanta larghezza di fare
a cui s’improntano le statue vicine. Grandeggia là dentro l’arte di
Gian Bologna col suo _Ratto delle Sabine_, miracolo di torsi e di
gambe intrecciate senza ombra di sforzo; grandeggia il Cellini col
suo _Perseo_, che è di bronzo, ma vola. Ma sopra tutti, di fianco
all’ingresso di palazzo Vecchio, torreggia il Buonarroti col _David_,
colosso di marmo, che pare una creatura viva, un adolescente vero,
tanta è la felicità dell’espressione e la più felice sproporzione di
alcune parti, che indica maravigliosamente l’uomo non ancora formato
nella giusta pienezza virile di tutte le membra. Tutto era bello, tutto
stupendo, ovunque io volgessi lo sguardo. Che più? perfino il Biancone
di piazza (così chiamano a Firenze il gigantesco Nettuno della fontana,
opera dell’Ammannati) m’andò maledettamente a genio, sebbene ricordassi
il sarcastico motto imprestato a Michelangelo, intorno allo spreco di
un così bel pezzo di marmo.

La mia artistica curiosità, così potentemente risvegliata da tante
bellissime cose, non sentiva più freno, nè di stanchezza nè di fame.
Volli entrar subito in palazzo Vecchio, e, senza badar più che tanto al
bellissimo atrio, volai alla sala dei Cinquecento; non già per vedere
gli scanni, caldi ancora della sapienza di quattrocentocinquanta e
più legislatori moderni, bensì per ammirare una _Virtù che trionfa del
Vizio_, opera di Gian Bologna, della quale avevo letto mirabilia magna.

Il dottor Giovannetti, di Monte Fiore nelle Marche, mio carissimo
collega nel culto delle Muse e di Bellona, che avevo allora allora
incontrato ed abbracciato in piazza, mi fu introduttore e cerimoniere
presso quella divina, ch’egli si ostinava a chiamare la _Voluttà_.
E non mi parve che ragionasse male. L’arte dei nostri padri riusciva
eccellente in questi controsensi. Badavano anzi tutto a fare una bella
donna, rivaleggiando, direi quasi, con Domineddio; poi ci mettevano
un emblema, un segno allegorico, e il colpo era fatto. Per tal modo
l’Urbinate soleva dar vita eterna alle sue innamorate, mettendo loro
un bambolo in collo, e facendole passare per altrettante Madonne. Non
dissimilmente da Raffaello, il valoroso Gian Bologna condusse in marmo
una splendida bellezza, a cui pose il nome di Virtù, e tra’ piedi,
in atteggiamento arditissimo, le scolpì, ma che dico scolpì? fece
respirare e muoversi un uomo, a cui pose il nome di Vizio. Chi non
vorrebbe essere il Vizio, con una virtù così fatta?

La bellissima statua era nell’aula parlamentare, alla destra del trono.
Io, salvo il rispetto dovuto alla Corona e ai diritti della casa di
Savoia, che felicemente ci regge, l’avrei messa in trono addirittura,
in barba alla legge salica e all’articolo secondo dello Statuto. Restai
mezz’ora ad ammirarla per tutti i versi, e la sensazione che n’ebbi fu
molto ma molto più forte di quella che mi diede un’ora più tardi, nella
vicina Galleria degli Uffici, la decantata Venere dei Medici.

A proposito, e chi ha consigliata la figlia di Cleomene a tenersi
tante rivali in quella camera, dove essa dovrebbe regnare da sola? È
nel mezzo, sta bene, e proprio di rincontro all’uscio; ma il vicinato
di tante altre bellissime creature, che fanno tanto maggiore effetto
quanto è minore l’aspettazione dei visitatori, le riesce proprio
fatale. C’è tra l’altre quella Venere del Tiziano! La divina creatura
se ne sta mollemente adagiata sulla tela, e non ha nessuna voglia di
balzarne fuori. Fa bene, perbacco, che altrimenti i signori uomini, con
la loro molesta assiduità, non le lascerebbero un minuto di pace.

Seduta su d’una scranna, quasi nel mezzo della sala, per modo da poter
guardare la statua e il dipinto, la Venere greca e la Venere italica,
stava una giovine signora, che alla serena libertà degli atti, alla
capricciosa foggia delle vesti, si riconosceva facilmente per una
figlia d’Albione. Bianca nel viso come alabastro; lunghe le ciglia,
che velavano a mezzo i grandi occhi d’indaco; corallo tenero le labbra;
ala di corvo i capelli.... Dio! stavo per fare un ritratto di maniera,
e quel che è peggio, senza rassomiglianza, poichè io non ho posto due
volte gli occhi sull’originale.

Ce li aveva posti bensì, e non li aveva più tolti di là, il mio amico
Giovannetti.

— Vedi le tre Grazie? — diss’egli a me e al marchese di Pietramellara,
un altro amico e compagno d’armi combinato in piazza quel giorno.

— Dove, le tre Grazie?

— Qui dentro; la statua, il quadro, e la signora inglese.

— Ah, vorrai dire le tre dee del monte Ida; — rispose il Pietramellara,

— A quale daresti il pomo, Ludovico? — chiesi io.

— Alla viva, che diamine, alla viva; — replicò il Pietramellara. — E tu?

La figlia d’Albione capiva benissimo l’italiano. Me ne avvidi al color
delle fragole che le tinse i miti alabastri. La bella accostò con atto
impacciato l’occhialino alle lunghe ciglia, per guardare non so bene
se il quadro o la statua: stette ancora pochi secondi seduta, non so
se per aspettare la mia risposta, o per dar tempo al suo rossore di
dileguarsi; quindi si alzò, e, senza voltarsi neanche di profilo dalla
parte nostra, se ne andò verso il fondo della sala, a raggiungere la
sua comitiva.

Brava inglesina, così va fatto. Un’altra donna, poniamo una....
parigina, si sarebbe voltata un pochino, tanto per gradire: ma lei
dura! e se il demonietto della vanità che alberga nel cuore di tutte le
figlie d’Eva, ha dato un sobbalzo di contentezza nel suo, gli sguardi
profani non ne hanno avuto da vedere un bel nulla.




III.

Ludovico di Pietramellara. Si rimonta ai Vespri Siciliani. Calessata
musicale.


Mi sono fermato un tratto a ragionarvi di donne, perchè le immagini
di questa bella metà del genere umano fanno nel racconto quel che la
luce in un quadro. Senza queste due o tre donne di marmo, di carminio
e di biacca, e senza la fuggevole apparizione d’una bella inglesina,
le immagini femminili mancherebbero affatto al mio quadro fiorentino.
Concittadine di Beatrice, io non ne vidi quella volta pur una. Giornata
cattiva, era quella, come se ne danno in ogni città. Neanche alle
Cascine, che io percorsi in lungo e in largo, scorrazzando in compagnia
del Pietramellara, mi fu dato di vederne uno scampolo. È vero, per
altro, che quando andammo alle Cascine erano appena le quattro dopo
il mezzogiorno, e non c’era altri che il sole, al cui raggio benefico
stavano scaldandosi gli elefanti e le scimmie del giardino zoologico.

Ed ora, lasciando in disparte il bel sesso, osserviamo il mio compagno
di passeggiata, che merita veramente di esser conosciuto da voi. I
carabinieri genovesi del ’67 hanno con lui un debito di gratitudine
che io non posso dimenticare: del resto, un cercatore di bei caratteri
non può lasciar passare senza due tratti di penna questo bel tipo di
gentiluomo italiano del vecchio stampo.

Il marchese Ludovico di Pietramellara nasceva bolognese, ed il nome
della sua famiglia era da parecchi secoli collegato a tutte le più
nobili tradizioni della vita italiana. Si parlava bensì di un’origine
francese della famiglia; ma quella era una storia d’antica data, e gli
antenati del mio amico si sentivano già italiani fin dai tempi di Carlo
II d’Angiò. Essi, almeno, pronunziavano “ciceri„ come io e voi.

Questo vi sembrerà un indovinello: ma eccomi a spiegarvelo subito.

È noto come i francesi, calati in Sicilia sotto il regno di Carlo I
d’Angiò, fossero diventati parte della popolazione, e come si fossero
mescolati con essa, per alleanze, interessi e via discorrendo, in modo
da non poterli a tutta prima sceverare da quella. Ora, a quest’opera
di selezione intendevano per l’appunto i congiurati di Giovanni da
Procida, che meditavano il Vespro famoso. Ma la faccenda era molto
difficile.

Ai tempi di Mosè, Dio stesso aveva ordinato di segnare con una ditata
di sangue le case degli Ebrei, per distinguerle da quelle degli
Egiziani, e agevolare in tal guisa il lavoro alla morte sterminatrice.
Ma a Palermo non si poteva far capitale sopra una intromissione divina
di quella fatta, gli Angioini essendo ben voluti dal Papa. Che fare
adunque? A quali espedienti por mano?

Dopo molto almanaccare, parve a qualcheduno di aver trovata l’astuzia,
che tenesse luogo dell’aiuto celeste. E fu questa, che i Siciliani
autentici dovessero chiedere per via, a quanti trovassero, di
pronunziar la parola “ciceri„.

— Se sono italiani, — si argomentò — diranno un bel “ciceri„ chiaro
e tondo; se sono francesi, saranno costretti a sibilare un forestiero
“sisserì„ che darà modo di conoscerli ad occhi chiusi. —

Lo spediente era adamitico; ma che volete? pare che i Francesi ci
cascassero quasi tutti. Dicevano “sisseri„ ed erano spacciati senza
misericordia. Così la leggenda. Ma non tutti, come ho detto, non
tutti. Ci fu tra gli altri un certo Vassé, che rispose un “ciceri„
largo tanto. Ed egli seppe solamente più tardi come la flessibilità
accidentale della sua lingua gli avesse salvata la pelle.

Ora, fu proprio questo Vassé l’antenato storico del mio amico. Venuti
poco dopo in terraferma, i Vassé ebbero il feudo di Pietramellara,
presso Caserta, e ne tolsero il nome, che fu degnamente portato. Nel
1849, per non dirvene altro, un Pietramellara, discendente dagli
antichi Vassé, moriva gloriosamente a Roma, combattendo contro i
Francesi puntellatori del poter temporale dei Papi; e questi era il
fratello maggiore del mio Ludovico, soldato anch’egli di tutte le
patrie guerre dal ’48 al ’67, e soldato valente.

Nel ’66 lo avevo conosciuto capitano, e non ho più dimenticata la
bellissima notte tirolese, al cui dolce chiarore abbiamo saldati
i vincoli della più schietta amicizia, tra uno scambio affettuoso
di ricordi personali, una infilzata di duetti della _Norma_, e la
preparazione di un’arringa al tribunale militare di Storo.

Vi racconto anche questa? Sergente da principio nei Carabinieri
Genovesi, ero passato sottotenente a mezzo luglio nell’ottavo
reggimento, comandato dal colonnello brigadiere Carbonelli. La seconda
tregua cogli Austriaci era cominciata; nè si poteva intendere ancora
se fossimo a guerra finita, o se dovessimo proseguire le ostilità.
Intanto, lasciate le teste di colonna sotto Lardaro da una parte
e sotto Riva di Trento dall’altra, ci eravamo tolti dallo stare
all’aperto, andando a cercare quello che in linguaggio militare si
chiama l’accantonamento. Parte dei volontarii lo aveva sul territorio
conquistato; il rimanente s’era allogato nei paeselli della Val Sabbia,
da ponte Idro fino a Salò.

A noi dell’ottavo reggimento era toccata una mezza fortuna, quella di
esser mandati a San Pietro, in Liano, bella eminenza alle spalle di
Salò, che chiude da tramontana gli sbocchi della Val Sabbia, e vede da
mezzogiorno e sopraggiudica le acque del Garda.

È lassù una bellissima chiesina, un po’ disadorna dentro, ma ornata
di fuori d’un vaghissimo loggiato, di due pietre sepolcrali con
bassorilievi dei primi secoli dell’êra cristiana, e sopra tutto di
una veduta stupenda. Per giunta, c’era allora un arciprete, fior di
galantuomo, con cui si stava volentieri a discorrere.

Dei molti luoghi che ho veduti nelle mie corse strambe, questo solo
ha lasciato in me una profonda memoria e il desiderio di rivederlo.
Dappertutto mi ha perseguitato il dolce pensiero di Genova: San Pietro
in Liano, colla sua veduta del Garda, che mi raffigurava un lembo di
mare, mi accarezzò per tre giorni le reminiscenze ligustiche; e mi
pareva che là, in quella solitudine elevata, se ci avessi avuto chi so
dir io, ci sarei vissuto contento mill’anni. Vedete che sono discreto.

Innanzi di proseguire il racconto, ricorderò il vicino paesello di
Gazzane, dove mi capitò di vedere una vecchia casa nello stile del
Cinquecento, scialba e malinconica, sulla cui facciata, all’altezza
del primo piano, era murata una lista di marmo, sulla quale si
leggeva incisa a grossi caratteri questa dolente apostrofe della Sacra
Scrittura: “_O vos qui transitis per hanc viam sistite et videte si est
dolor sicut dolor meus._„

Che cosa significavano quelle parole di colore oscuro? Ne chiesi al
mio arciprete; ma egli non seppe dirmene nulla. Un dubbio mi venne alla
mente, pensando che in quei luoghi doveva esser nato un gran letterato
umanista del secolo XVI, morto a Genova di mala morte, il Bonfadio.
Sarebbe questa la sua casa? È un padre desolato, od un figlio, l’autore
della iscrizione? Nè allora ebbi tempo, nè ora, che mi ricordo, ho modo
di sincerare la cosa.

Ma ritorniamo ai fatti nostri. Il terzo giorno del nostro
accantonamento (che ne durò sei, come la tregua, mutata poi in
armistizio) lo stato maggiore mi chiamava a Storo, per difendere
davanti al tribunal militare tre buone lane di soldati, uno dei quali
aveva rubata una camicia, l’altro una borsa da tabacco, e il terzo
aveva fatto qualche cosa di peggio. Da San Pietro in Liano a Storo
il cammino era lungo; non mi piaceva di rifare tutta la val Sabbia a
cavallo, volendo dare un onesto riposo al mio Beppo, ottimo stallone
pugliese, il quale da tanti giorni non aveva fatto che correre dalla
mattina alla sera, e per troppo grami sentieri. Carrozze non ce
n’erano, e il mandarne a cercar una a Salò poteva costarmi troppo
salato. Alla cavalcatura di san Francesco ripugnavano i miei poveri
piedi, memori ancora di venti giorni passati nel battaglione dei
Carabinieri genovesi. Che fare? E qui, naturalmente, mi beccavo il
cervello.

In questi frangenti venne a me il Belladonna, vero angelo portatore
di una lieta novella. Costui era il mio buon padrone, poichè, sotto
il pretesto di servirmi in qualità di attendente, inforcava il mio
cavallo, quando io, per non istancarlo troppo, scendevo a piedi;
metteva i miei guanti quando io li trovavo ancora puliti abbastanza,
e si pigliava l’incarico di carezzar le guance alle donne di casa,
dovunque io andassi ad alloggio; ma era poi un buon diavolaccio, che
per farmi servizio si sarebbe buttato nel fuoco, e mi chiedeva tutte
le mattine il permesso di offrirmi una tazza di caffè, che egli aveva
l’ingegno di scovare non so dove, nè in che modo, quando eravamo
accampati su per i greppi delle Giudicarie.

Ora, il mio buon padrone, saputo l’impegno in cui mi trovavo, era
andato a frugare per le case e le fattorie dei dintorni. In un cortile
aveva veduto un calessino sgangherato, da poterci star due persone, e
attaccato al trespolo il cavallo dell’Apocalisse. Trespolo e cavallo
erano del fornaio di Cazzane, e pronti per la partenza. Che si voleva
di più? Al mio attendente pareva la man di Dio.

Era egli stato sollecito per me, o per sè, contando di esser chiamato
all’ufficio di auriga? Non aveva egli lasciato a Storo qualche ricordo
che gli premesse assai più delle mie tre fatiche ciceroniane al
tribunal militare? Non ne so nulla: ricordo bensì che venne con aria di
molta compiacenza a dirmi: vedrà, tenente, ci staremo benissimo.

— Andate, illustre amico, — gli dissi, — e fissate il calessino per me.

— L’ho tentato, — rispose, — ma il fornaio non ha voluto darmelo a
nessun prezzo.

— Allora, requisitelo.

— L’ho requisito, infatti.

— Come! — esclamai. — Siete già andato dal sindaco?

— Sicuro; e mi ha fatto l’ordine per il fornaio, e gli ha messo il
sequestro sul calesse.

— Belladonna! — gridai allora. — Voi portate un bel nome, e fate delle
cose ugualmente adorabili. —

Il mio padrone s’inchinò pudibondo, e le bianche ali d’una mia coperta
di berretto scesero a sfiorargli un mio fazzoletto di seta azzurra, che
portava mollemente annodato al collo, secondo l’usanza garibaldina.

— Andiamo dunque a vedere questo calesse; — conchiusi. — Ho fretta di
partire. —

E s’andò difilati. Ma, giunto sulla faccia del luogo, trovai il fornaio
che strepitava come un ossesso; il calesse esser suo e a lui necessario
per le sue faccende quotidiane; noi non avere il diritto di requisirlo,
e tanto meno allora, che era stato preso a nolo da un capitano, il
quale gli dava venticinque lire, per una scampagnata che voleva fare
appunto quella notte.

Io gli risposi che non mi seccasse l’anima; che le venticinque lire
gliele avrei date io, se col suo rifiuto non mi avesse costretto a
venire con un ordine del sindaco; che viaggiavo per servizio, e che
il servizio di un sottotenente andava innanzi al passatempo di un
capitano.

Ma il fornaio la tirava in lungo, e non senza un perchè. Il capitano
doveva giungere tra pochi minuti a pigliarsi il calesse. Venendo
lui, maggiore di grado, mi avrebbe conciato a quel dio. Questo non lo
diceva, il caro fornaio; ma gli si leggeva negli occhi, che brillarono
di contentezza all’arrivo del capitano.

Io mi sentii rimescolare il sangue. Per me stava il diritto; ma pensavo
che il superiore ha sempre ragione, anche quando ha torto, e che, se
il capitano voleva pigliarsi il calessino, non aveva da far altro che
mandarmi su due piedi agli arresti.

Il fornaio mi guardava con tanto d’occhi, per vedere come avrei saputo
cavarmela.

Ci voleva giudizio. Misi mano agli artifizi oratorii, e incominciai:

— Capitano, io sono il tal di tale, e, come ho l’onore di dirle,
sono chiamato in servizio a Storo, dove bisogna ch’io mi trovi
infallantemente...

— Per domattina alle dieci; — aggiunse il capitano, compiendo la frase
che mi aveva interrotta. — Lo so; anch’io vado a Storo per servizio,
essendoci chiamato come giudice al tribunale militare.

— Ed io come avvocato; — replicai. — Debbono i miei clienti restare
senza difesa?

— Tolga il cielo che io voglia condannarli, senza che possano far
valere per bocca sua le loro ragioni. Vuol farmi una grazia? Salga
con me sul calessino, che questo amicone mi fa costare un occhio del
capo. —

Il cuore mi si allargò a quell’offerta, e fui pronto ad inchinarmi.

— A proposito d’occhi, — soggiunse il capitano, — io son miope. Se la
porterò in un fosso, non vorrà mica farmene colpa? Del resto, se vorrà
guidar lei....

— Capitano, — risposi, mettendomi volentieri sul suo tono, — io di
notte non vedo un albero alla distanza di cinque metri. Quanto al
guidare, non ho provato che una volta, e per quella volta sola ho
già sulla coscienza due distorsioni, tre ammaccature e non so quante
lacerazioni.

— Benissimo! — gridò il capitano. — Vedo che sarà necessario affidarci
al senno di questo provetto animale. _In manus tuas, Domine!_ Ora a
noi; vuole che partiamo subito, o più tardi?

— Subito, se non le dispiace. Andremo a desinare a Vestone.

— Ottimamente! _Ascendamus igitur o.... fovette cocher!_ —

Immaginate come fossi contento. Andavo a Storo, per fare il mio dovere,
e m’imbattevo in un garbato gentiluomo, il quale, per fortuna mia,
innestava allegramente nel suo discorso i testi latini e i francesi,
fors’anche quelli di altre lingue parecchie; proprio come facevo io,
senza saperne nessuna.

— _Adelante, Pedro, sin juicio!_ — sclamai, montando nel calessino,
dopa aver data una stretta di mano al mio gentilissimo superiore.

— La variante è buona; — diss’egli, rispondendo alla mia citazione poco
manzoniana. — Avanti dunque, e il giudizio lasciamolo qui, al primo
corpo di guardia; lo ripiglieremo al ritorno, _si fata dabunt_.

Quell’improvviso aggiustamento non entrava in testa al Belladonna.

— Ed io, _sor marcheis_? — chiese egli, che nella sua qualità di
bolognese conosceva benissimo il Pietramellara.

— Tu, se mi è lecito darti un consiglio, starai qui a custodire il
cavallo del tuo padrone; lo striglierai, gli porgerai le profumate
avene, le dolci biade e i limpidi cristalli dell’Ippocrene locale; il
che vuol dire in povera prosa....

— _A i’ ho capè, sor marcheis;_ — borbottò il Belladonna. — E lei,
signor tenente, non mi comanda nulla?

— Appoggio la raccomandazione del capitano; — risposi.

Così andai col capitano, e così fu fatta, insieme con la prima
conoscenza, la più schietta amicizia tra noi. Smarriti in un reggimento
che non finiva più (quattromila uomini a dir poco), egli comandante
della ventiquattresima compagnia, io addetto allo stato maggiore e
ufficiale d’ordinanza del colonnello brigadiere, era già molto che
ci conoscessimo di nome. Ma quella sera e quel viaggio sul calessino
sgangherato, con quel cavallo sparuto, fecero quel che non portano di
sovente anni ed anni di vicinanza, ed io terrò sempre quel viaggio come
una delle più care memorie della mia vita militare.

Di alto sentire, di modi eletti, ricco d’ingegno, festevole o
severo secondo il bisogno, e non mai oltre il bisogno, Ludovico di
Pietramellara era un felicissimo impasto di tutti quei pregi che
formano il vero gentiluomo.

Ed io gli ho voluto un gran bene, a quell’omettino svelto, dalle spalle
quadre e dal largo torace, bianco pallido in viso, colle guance un
po’ sfatte, i lineamenti regolari e finamente modellati, gli occhi
azzurrognoli, con un lieve accenno di borse, appiattati dietro le
lenti del _pince—nez_, radi i capelli sulla fronte alta, i baffi ancora
discretamente biondi e leggermente arruffati, la berretta piantata alla
brava fin sulla nuca, il sorrisetto costante sulle labbra carnose e
bellissime, che davano una singolare impronta di soavità, insieme cogli
orecchi piccini e il puro ovale del mento, ad una faccia alquanto più
lunga che larga.

Da San Pietro a Storo, con le debite fermate, ci fu tempo a ragionare
di mille cose. Poi venne in campo la musica, e ognuno sa che due
italiani, quando vien fuori la divina arte dei suoni, hanno il tema per
un mondo di chiacchiere. E noi non chiacchierammo soltanto; cantammo,
e il nostro spartito fu la _Norma_, quella sublime _Norma_ che “vivrà
quanto il mondo lontana„. Specie quel tratto che corre da Vestone
ad Indro, e che noi facemmo di notte, con un magnifico cielo azzurro
stellato, ha udito tutte le cavatine, arie, duetti, terzetti, andanti,
allegri e via discorrendo, del capolavoro di Vincenzo Bellini. Noi
eravamo promiscuamente Norma, Adalgisa, Pollione, Oroveso, Flavio,
Clotilde; il fiume Chiese, rumoreggiando lì presso, faceva la parte del
coro.

E adesso, lettori miei, non istate a credere che io voglia condurvi
di questo passo fino a Storo, per farvi assistere ai miei trionfi
oratorii, che furono del resto tre fiaschi, poichè non salvarono
nessuno dei miei clienti dal carcere. Mi è piaciuto di narrarvi questo
episodio, per mostrarvi in che modo io stringessi amicizia con Ludovico
di Pietramellara. Dopo di che, rifaccio speditamente la strada, e vi
riconduco a Firenze, donde eravamo già sulle mosse per andarcene a
Roma. Se non ci siamo arrivati, sapete bene che non fu nostra la colpa.




IV.

Da Firenze a Terni. Formiche ed uomini. Cose antiche e moderne.


A Firenze, nelle trentadue ore che ci passai, vidi senza volerlo tutta
la coorte degli uomini di stato, in fiore, in erba o in embrione che
fossero; e il concetto che potei farmi di tutti i loro concetti fu
questo, che nessuno sapeva un’acca di quel che avvenisse, o che dovesse
ragionevolmente avvenire. I se, i ma, tutte l’altre particelle e tutti
gli altri avverbi dubitativi fiorivano le conversazioni universali.
Faranno la rivoluzione a Roma? si debbono aiutare gl’insorti? il
governo si muoverà? farebbe bene a muoversi? che cosa consiglia agli
italiani la dignità nazionale? Queste erano domande; ma di risposte,
nessuna.

Poveri uomini di stato! povero paese! Tutti quei valentuomini,
archimandriti del senno pratico, balenavano tra il sì e il no,
aspettavano una grossa notizia per voltarsi più da un lato che
dall’altro, per lodare o biasimare, per isconfessare le pazzie dei
rompicolli o per dire coraggiosamente: _me, me, adsum qui feci_.

Ma non balenavano, non pendevano incerti da un annunzio di giornale,
da un indizio di eventi futuri, i giovani convenuti in Firenze da
ogni parte d’Italia. Pareva che là si fossero data la posta tutti i
volenterosi di Milano, di Venezia, di Torino, di Bologna, di Genova,
di Parma, di Modena. Ad ogni svolta di strada ne compariva uno; e lì
un abbracciarsi, un chiedersi novelle, non già della preziosa salute,
ma degli amici comuni e del desiderio che potevano avere di giungere a
lor volta in ballo; e sopra tutto un domandar da che parte fosse meglio
passare, per andar a raggiungere i primi combattenti.

Non erano solamente i volontarii che si riscaldassero in questo modo
l’un l’altro. L’esercito era composto di tutte le classi sociali;
ognuno ci aveva amici, antichi compagni d’arme, congiunti di sangue. E
il congiunto, il compagno d’arme, vi chiedeva: andate? — Sì. — Bene,
noi verremo dopo di voi, a dar l’ultimo colpo. Vengano, francesi
e spagnuoli, austriaci e turchi; quando tutto un paese è fermo nel
volere una cosa, non c’è forza che tenga, e si vedrà, giurabacco, si
vedrà! —

Ahimè, che cosa dovevano fare di tanto entusiasmo i nostri reggitori
d’allora? Reggitori, così per dire; che in verità non reggevano niente.
Innanzi di partire da Genova, avevo veduto una larva di governo, che
voleva impedire ad ogni costo, e magari faceva gli occhiacci, per
ispaventare i bimbi d’Italia. A Firenze, quando io vi giunsi, non vidi
neanche la larva; c’era un ministero che affogava, e si vedevano le
mani agitarsi in aria, i piedi pestar l’acqua, le bocche spumeggiare,
gorgogliando parole interrotte. La marea nazionale pareva aver
sopraffatto quel ministero, e i suoi fidi galeotti non si scomodavano
neanche a porgergli un remo a cui potesse aggrapparsi; anzi, dirò
di più, lo incoraggiavano a stare in acqua, dov’essi lo avrebbero
seguitato. Alcuni facevano l’atto di levarsi la giacca, per esser più
liberi al nuoto. Qualche articolo dell’_Opinione_ lasciava trapelare
perfino che il suo direttore non sarebbe stato degli ultimi.

Chi procedeva lemme lemme in mezzo a quel tramestio di voleri e
d’idee, era il comitato per l’insurrezione. Non ne farò colpa agli
egregi cittadini che ci avevano mano. Forse a ciò li costringeva il
difetto di quattrini; forse il tentennare del governo, e il suo mutare
indirizzo tre volte in un giorno. L’uffizio del comitato, in via degli
Archibugieri, si vedeva da mattina a sera assediato; l’anticamera, le
scale, il portone, gli approcci, erano un viavai, un brulichio di gente
che chiedeva, chiedeva, e non otteneva mai niente.

Intendiamoci bene, io non sostengo le ragioni di quella moltitudine.
A far le schioppettate si va come si può, e quando non c’è modo di
giungerci con le proprie forze, credo sia buon partito restarsene a
casa. Noto il fatto, nient’altro; e lo noto per venire a raccontare
che noi al comitato non andavamo per chieder quattrini, ma solamente
consigli intorno alla via più spedita da tenere, per dove fosse
maggiore il bisogno, e, caso mai il confine fosse troppo gelosamente
custodito dal nostro governo, avere ricapiti di gente amica che ci
aiutasse a sconfinare.

Volete credere? Non ci fu verso, neanche dando i nostri nomi, di
penetrare nell’adito sacro. Evidentemente, era quello un giorno in cui
la Pizia non aveva nulla da dire, impacciata la sua parte anche lei.
A me non dolse tanto di ciò, quanto di vedere tra quei cerimonieri
dell’anticamera un tale che pochi giorni prima avevo aiutato a partire
da Genova, e che laggiù a Firenze mi faceva l’uomo dei misteri, il
segretario di stato. Gratitudine umana, io ti conosco da un pezzo. Ma
ohimè, conosco anche la sciocchezza umana; e la pratico religiosamente,
continuando a fidarmi.

Rimasti così in balìa di noi medesimi, ci raccogliemmo a consulta, il
maggiore Burlando, il Pietramellara, io e parecchi altri colleghi, il
nostro ragionamento fu questo: Garibaldi verrà fuori della Caprera;
l’amico Canzio lavora intorno a questo negozio difficile, e ne
verrà certamente a capo. Ora, se il Generale giunge ad afferrare la
terraferma, da che parte andrà egli? Probabilmente dov’è Menotti,
proprio alle spalle di Roma, l’unico punto donde si possa tentare, per
la linea d’operazione più breve, un colpo efficace. Andiamo dunque,
poichè la scelta sta in noi, a raggiunger Menotti, e incominciamo
a metterci in istrada ferrata per Terni. Giunti colà, studieremo il
terreno; tre o quattro persone passano facilmente dovunque vogliano,
solo che usino un po’ di prudenza.

Notate che noi non sapevamo nulla di comitati che fossero a Terni, o in
altro luogo di confine: andavamo proprio a tentoni. Neanche sapevamo
di trecento genovesi che dovessero venirci compagni, e senza troppa
difficoltà, tre giorni più tardi. Eravamo da principio due soli; a
Firenze ci eravamo fatti manipolo, per cinque o sei che erano giunti
di qua o di là; altri due o tre c’erano già prima di noi, e tutti
contavamo di andare alla libera, per metterci poi dove meglio ci fosse
tornato.

Al deputato Carbonelli, mio colonnello dei ’66, allora a Firenze e
desideroso di partecipare a quell’altra levata d’insegne, era parso
buono il nostro divisamento; ed egli e tutti noi ce ne partivamo
da Firenze la sera del 14 ottobre, come altrettanti giramondi che
volessero andare a Terni per ammirarvi la cascata delle Marmore, unica
per bellezza stupenda in Italia.

Del nostro piccolo tragitto non dirò nulla, perchè non voglio menare
il can per l’aia, e poi perchè nel fatto non ho niente da dire. Si
faceva buio, quando giungemmo in riva al Trasimeno, e non si vide
neanche l’ombra di Annibale. Giungemmo a Terni, nella mattina del 15,
dopo molti ritardi patiti dal convoglio, che, tra l’altre fortune sue,
dovette rimanere un’ora inchiodato sotto una galleria, poichè le ruote
giravano senza far presa, e ci bisognò mandare a Foligno pel soccorso
d’un’altra macchina, che non c’era.

Terni, con tutte le sue grandi memorie, non mi fece a prima giunta un
gran senso. È una città di pianura, anzi di vallata, i cui edifizi
si levano troppo poco da terra, e le vie non offrono alcuna veduta
pittoresca. Incominciando dalla stazione, che è quindici minuti lontana
dalle porte della città, vidi moltissima gente. Le vie erano affollate
di giovanotti d’ogni parte d’Italia. Non un berretto rosso, non una
camicia garibaldina; tuttavia, era facile indovinare, anche senza
por mente alle discordanze allegre dei dialetti, che quella non era
popolazione del luogo, ma uccelli di passo, futuro contingente della
insurrezione romana.

— Qual è il migliore albergo? — avevamo chiesto al vetturino che
conduceva le nostre membra lasse in paese.

— L’_Hotel d’Angleterre_, padroni belli; c’è poi la locanda d’Europa, e
quella....

— Vada per l’Inghilterra; noi ci fidiamo alle tue preferenze, o nobile
auriga; — interruppe il Pietramellara.

Così andammo all’albergo d’Inghilterra, o della regina d’Inghilterra,
o delle armi d’Inghilterra, che bene non ricordo queste minuzie. Ma
ohimè, quante volte il mio Ludovico non ebbe a pentirsi della sua
precipitazione! Che vino, per gli Dei infernali! In quell’albergo
esso era peggiore a gran pezza della sua acqua, che era pessima.
Mi dicono che non sia più così; e ne godo per il prossimo mio della
nuova generazione. Del resto, buona gente, i padroni d’allora: e non
ci avevano che un difetto; quello di albergare tutti gli inglesi che
passavano di là, e di prender tutti i loro avventori per inglesi.

— Sono inglesi? — chiedevo io un giorno al cuoco, accennandogli due
polli che aveva sulle ginocchia.

— Perchè mi dite questo?

— Oh, per nessun secondo fine; perchè vedo che li pelate.

— Voi volete scherzare; — mi rispose egli; e continuò tranquillamente a
pelare.

L’albergatore aveva un grande albo, nel salotto della sua locanda; e
in quell’albo c’erano scritti, dal 1850 in poi, nomi d’ogni razza e
d’ogni paese, inglesi, russi, americani, francesi, italiani, tedeschi;
tutte persone che si lodavano grandemente della stanza, del letto,
della tavola, dei camerieri, ed anche del vino, _Horribile visu!_ Ma
non avevano dunque vino in casa loro, o non avevano palato, tutti quei
bravi signori?

Sulle prime, scartabellando quell’albo, mi venne un sospetto atroce:
che quei forestieri avessero ricevuta una mancia, o una larga riduzione
sul conto, per iscrivere quelle lodi smaccate. Ma guardai in viso il
padrone, e il candore che gli si dipingeva negli occhi, mi fece pentire
del dubbio. No, è impossibile, dissi allora tra me; quest’uomo è
innocente.

Pensai in quella vece che le lodi muovessero da un’altra ragione.
Tutti quei nomi erano accompagnati da un titolo, di duca, di marchese,
di conte, di barone, di baronetto, di cavaliere e via discorrendo.
Che siano proprio tutti gente titolata? Ahi, ahi! questo signore,
verbigrazia, il cui nome mi casca sott’occhio, lo conosco benissimo;
egli è conte, come io son lui. Quest’altro ha scritto marchese con la
zeta: E qui un mondo di considerazioni, il cui resultato fu questo, che
molti scrivessero sull’albo per sciorinare _urbi et orbi_ i loro titoli
autentici, molti altri per far credere ai loro titoli pigliati per
l’occasione ad imprestito.

Com’ebbi fatta quella conclusione, respirai più liberamente; e resi
tutta la mia stima all’ostiere.

Egli, del resto, se ce lo fece pagar salato, ci diede il meglio che
aveva; un quartierino di due camere e di un salotto, l’unico salotto
della locanda, col suo bravo tappeto verde sul pavimento, con uno
specchio di Venezia sul camino, due canapè, tre finestre, le quali
mettevano ad un terrazzino sulla via principale di Terni. I tre giorni
che si stette colà, li passai quasi intieri su quel terrazzino, intento
a guardare, a guardare attraverso le nuvole di fumo che mi uscivano
dalle labbra, una povera tribù di formiche, le quali salivano per
una certa screpolatura tra il muro maestro e la intelaiatura della
finestra; nè so con quale intento, perchè andavano e venivano a fauci
vuote.

Ottime bestioline! La necessità, dura insegnatrice, le costringeva a
lavorare, ma senza frutto, senza buscarsi una briciola di pane, un
chicco di biada od altra semente portata dall’aria sul loro gramo
sentiero.

E l’uomo? che altro fa egli, il più delle volte? La sua fatica è vana,
ma la necessità lo trascina. Ed egli s’inoltra, o diritto, o curvo, o
carponi, per la sua strada; suda, stenta e muore sotto il peso di un
fardello, ch’egli chiama orgogliosamente un mandato, una missione; e
perchè? A sentirlo lui, si tratta di un grande concetto; e gli sembra
operare col suo libero arbitrio, perchè il colore del suo fardello
è diverso da quello di un altro; e gli sembra di operare utilmente,
perchè il fardello pesa, e a portarlo innanzi tre miglia, o sei, si
consola la sua vanità di atleta. E sia, non voglio già leticare coi
miei compagni di galera. Ma intanto, chi sa? noi vanitosi, noi superbi
dell’opera nostra, forse, veduti da lontano, avremo apparenza di
formiche.

Così pensando, mi pareva di veder correre su per quelle screpolature il
mio prossimo. E posi qua e là qualche briciola di pane, perchè quella
carovana di bestiuole sparute, inoltrandosi nel suo deserto, trovasse
un’oasi e benedicesse il Signore.

Le formiche vennero, fiutarono, e stettero dubitose. Forse temevano
anch’esse di dover pagare lo scotto? Non ne so niente. Del resto,
io non avevo da studiar sempre usi e costumi di formiche. Ben altre
scoperte ho fatte, rimanendo colà inoperoso: ho indovinato ad esempio
il segreto dello stile di Cornelio Tacito, e perchè quello storico sia
stato così aspro con gli uomini e le cose del tempo suo. Sfido io! era
di Terni; avrà dunque bevuto dello stesso vino che davano a me.

Questo ricordo di antichità mi chiama a dirvi qualche cosa del luogo
ove siamo in attesa. Terni è l’antica Interamna, così detta perchè
_inter amnes_, tra due fiumi, cioè presso il confluente della Nera e
del Velino. Ha mura antichissime e di pietra riquadrata, restaurate nei
bassi tempi, con forse trenta torri e cinque porte, una delle quali è
chiamata “dei tre monumenti„. Qui infatti erano tre sepolcri: l’uno di
Cornelio Tacito, accennato dianzi; gli altri, di due discendenti suoi,
imperatori romani, Tacito e Floriano.

Interamna aveva templi a josa; e Terni non ne patisce penuria. Un
tempio di Giove è disceso al grado di chiesa di San Lorenzo; uno di
Marte è salito agli onori di cattedrale, intitolata all’Assunta; un
altro di Cibele è passato in governo d’uno sconosciutissimo Sant’Alò;
un altro del Sole si chiama San Salvatore; un altro di Mercurio si è
raccomandato a San Nicolò. Questi templi, com’è facile immaginare, non
serbano più traccia della loro antichità; son rifatti, ripicchiati,
ringiovaniti dall’arte del Bramante, del Sangallo, del Bernini, del
Vici. Ma l’antica Interamna fa ancora nobil mostra di sè negli avanzi
d’un anfiteatro che era capace di oltre diecimila spettatori, d’un
teatro edificato da Caio Dessio Massimo, edile della città, di terme
pubbliche e di un arco di trionfo, rizzato in onore di Domiziano,
buon’anima sua.

Insomma, c’è un visibilio di cose da vedere; e quindicimila abitanti
rallegrano il luogo; ottima popolazione, e molto operosa. Le industrie
che più fioriscono a Terni sono quelle della concia dei cuoi, della
soda dei panni, e della lavorazione del ferro. Gualchiere e magone son
messe in moto dalle acque del Velino.

Poichè sono a parlar di metalli, vi dirò che nei pressi della città si
è trovata, oltre la miniera di ferro di Monte Leone, qualche traccia
d’oro e d’argento. Di questo, anzi, nel 1762, fu coniata una medaglia,
_ad æternam rei memoriam_. Non mancano i marmi, tra i quali è notevole
il travertino bianco giallastro con vene rosse, le terre colorate, le
piriti, il gesso, la pozzolana, il carbon fossile; insomma una vera
grazia di Dio, che vorrebbe esser meglio sfruttata; nè mancano le
acque minerali, come quelle della Nera, che contengono carbonato di
calce, magnesia e solfo, e sono perciò adoperate da una casa di bagni;
quelle di Acquasparta, che contengono gas acido carbonico; quelle
d’Acquavogliosa, termali e sulfuree; finalmente l’Acqua dell’Oro, così
detta dal prezioso metallo che essa trasporta (in minuscola quantità,
si capisce) dalle radici di Monte Rotondo, che non so per quali
proprietà si raccomandi all’umanità sofferente.

Vi dirò poi le bellezze della vallata, quando andremo alle Mannore, e
potremo contemplarla da un’altezza conveniente: sappiate intanto che
vi abbondano i pascoli ubertosi, rendendo prezioso per isquisitissime
carni il povero bestiame da macello; che c’è selvaggina da contentare
i più avidi cacciatori, pesci di straordinaria grossezza, frutte ed
ortaglie d’ogni genere, e tutte di gratissimo sapore.

Parlo, già si capisce, sulla fede di un gentile Ternano, che mi fu
cicerone. Non vorrei lasciar credere che io lavorassi d’invenzione. Il
cortese amico mi disse che di tutto questo ben di Dio la sua patria
va debitrice, non pure ai due fiumi che la bagnano, ma ancora a Caio
Dessio Massimo, edile d’Interamna, il quale a’ suoi tempi divise
le acque della Nera in tre conche e in una moltitudine di canali
irrigatorii, che incominciarono a fecondare i campi ternani, prima di
mettere in moto i molti e svariati opificii del paese.

Fortunato uomo, quel Caio Dessio Massimo! Chi ricorda gli edili,
i sindaci, gli assessori comunali di due anni fa? E lui, morto da
duemila, è sempre vivo nella memoria dei luoghi per cui spese utilmente
la vita.

Ora, non mi chiedete niente della storia di Terni, perchè, quantunque
tra due fiumi, mi ritrovo all’asciutto. Ci prosperarono gli Umbri;
fu saccheggiata da Totila, il goto, e da Astolfo, il longobardo.
Io dovrei, per parlarvene, saccheggiar l’Angeloni e il Gaudio, che
scrissero le storie della lor terra, l’uno nel Seicento e l’altro nel
Settecento. Terni ha oggi una bella popolazione, specie in materia di
donne, le cui facce serene arieggiano quelle delle nostre genovesi.
Belle e savie donnine di Terni, così onestamente cortesi, voi ci
avete fatto sentire ancora una volta che l’Italia è una, dall’Alpi al
Lilibeo.




V.

Trecento uomini sulle braccia. La cascata delle Marmore. Poesia d’un
viaggiatore e prosa d’un cicerone.


Mentre io spendevo il mio tempo in queste note statistiche, storiche e
demografiche, il mio amico Burlando s’industriava più utilmente intorno
al modo di partire da Terni. Il modo era trovato; ma bisognava aspettar
due amici, Elia Schiaffino e Liberio Rombo, che, partiti dopo di noi da
Genova, erano certamente in cammino per venirci a raggiungere.

— A domani, dunque; — disse il maggiore; — intanto che li aspettiamo,
prenderemo lingua, vedremo da che parte sono andati gli altri genovesi,
arrivati a Terni prima di noi.

Questi amici erano il maggior Mosto, i capitani Uziel, Cattaneo,
Adamini, ed altri parecchi. Giunti a Terni due giorni prima, erano
partiti da ventiquattr’ore per Rieti, conducendo un centinaio
d’uomini, che il comitato di Terni aveva armati con vecchi fucili della
benemerita guardia nazionale; fortuna questa che non potevamo sperare
per noi, essendo il comitato rimasto all’asciutto.

La stessa mattina che noi eravamo scesi a Terni, altri drappelli di
gente ragunaticcia partivano, sulle orme del drappello di Antonio
Mosto, e noi avevamo ancora potuto vederli; male in arnese, senz’armi,
senza un segno militare, nè berretto, nè camicia rossa, e quel che è
peggio, senza conoscersi l’un l’altro, ufficiali e soldati. Questo è
doloroso a raccontare: ma è storia, e non si muta. Giungeva a Terni un
capitano, un maggiore, un colonnello? Qualche ufficiale trovato colà,
o condotto in sua compagnia, gli veniva in taglio per dire: lo stato
maggiore della colonna è composto, i quadri ci sono, non mancano più
che i soldati. E i soldati giungevano; giungevano a centinaia da tutte
le città dell’Umbria, delle Marche, della Toscana; gente d’ogni ceto,
nuovi alla vita militare, la maggior parte tirati assai più da vaghezza
di novità, che da un concetto profondo e dalla coscienza del dovere.
Costoro, non scelti, non bene assortiti da esperti concittadini,
non guidati da uomini di casa loro, che li conoscessero o potessero
comandarli utilmente, calavano a Terni, dove anche prima di uscire
dalla stazione trovavano il rappresentante del capitano X, del maggiore
Y, del colonnello Z, che si affrettava a scriverli nel suo taccuino,
— Ragazzi, volete venire? — Si parte subito? — Sì, questa sera si va a
Rieti, a Scandriglia, al confine. — Andiamo; chi ci comanda? — Il
tal di tale. — Benissimo, evviva il comandante. —

In questo modo si componevano le falangi, che dovevano andare a
Roma. Io non accuso nessuno, perchè nessuno ne ha colpa. I comitati
locali credevano che al confine ci fossero uomini, i quali sapessero
scegliere, ordinare, condurre: i capitani che erano al confine
credevano che i comitati avessero spediti i migliori. In tutti era
una gran voglia di far presto, di partire, di giungere al fuoco. E
si faceva presto, si partiva, si giungeva: ma come, Dio santo, e con
che gente? Chiunque è stato a Terni in quei giorni, ed ha passato il
confine, risponda per me.

Queste cose io vidi fin dal primo giorno, e dissi agli amici: non è
così che si potrà andare a Roma. Avevo torto e ragione ad un tempo;
torto, perchè tra i seimila che varcarono il confine c’erano duemila
valorosi, degni soldati di Garibaldi; ragione, perchè i quattromila
grami, cianciatori superbi dopo la vittoria di Monterotondo, lasciarono
sempre soli alle busse i duemila, e parte al ritorno da Casal de’
Pazzi, parte a Mentana, fecero quello che io forse racconterò,
arrossendo, più tardi.

Parecchi ufficiali, nostri antichi commilitoni delle guerre passate, ci
chiedevano: e voi? non fate un battaglione?

— No, — rispondeva il maggiore, — noi ce ne andiamo per nostro conto.
Sciolti d’ogni vincolo, d’ogni malleveria, passeremo più facilmente e
più allegramente il confine. —

Facevamo i conti senza l’oste, come ora si vedrà. Intanto, la partenza
degli altri, mentre noi aspettavamo i due amici da Genova, ci serviva
di lume, di guida, per la partenza nostra. I drappelli si avviavano
a Rieti; prima di giungerci prendevano una scorciatoia, quella di
Condigliano, che li conduceva a San Giovanni Reatino, donde muovevano
per Torricella in Sabina; e di là, scesi nella vallata, risaliti i
monti, ridiscesi da capo, sempre per orride strade, toccavano la meta
desiderata, il confine pontificio.

Di quelle strade io ne conobbi parecchie, ardue, mal note, tali da
farmi intendere come si potesse facilmente ingannare la vigilanza più
assidua, più diligente, più accorta. Un reggimento di truppa regolare,
comunque abilmente diviso, non può fermare lassù una banda d’uomini,
la quale non oltrepassi i cent’uomini, ed abbia guide volenterose a
condurla.

Ma perchè, dimanderete, perchè si partiva così alla lesta, senza
ordinamento, per calare al confine senz’armi, o quasi? La ragione
c’era, e calzante. Le notizie dei combattenti, sebbene gloriose,
non erano allegre. Menotti, da molti giorni, teneva onoratamente al
campo; ma perchè egli era più sotto al nemico di tutte le altre bande
entrate sul territorio pontificio dai confini toscani e napoletani,
era anche più facilmente assalito da uomini freschi e quotidianamente
vettovagliati. Ciò lo costringeva a continue marce e contromarce,
a frequenti scaramucce, che consumavano le sue scarse munizioni; e
l’intemperie, il difetto di equipaggiamento, l’assoluta mancanza di
giberne, da riporvi e da conservar le cartucce in buono stato, facevano
il resto. Oltre di che, il dormire all’aperto, colle brine costanti,
colla pioggia che spesso cadeva a catinelle, il mangiar malissimo
e non tutti i giorni, l’aver male coperte le membra, e quasi nudi i
piedi, riducevano quei primi drappelli in una tristissima condizione.
Occorreva andarli a raggiungere, a rafforzare, e sopra tutto a prendere
il posto dei caduti. Armi ne avevano poche, ma sicuramente più di noi,
che non avremmo trovato un fucile, pagandolo a peso d’oro. Perciò, con
quelle poche munizioni che il comitato di Terni era andato razzolando
presso i comuni del vicinato, e con qualche fucile rugginoso delle
loro guardie nazionali, i nuovi drappelli s’incamminavano, cantando
l’“Addio, mia bella, addio„ alla volta dei monti di Toffia.

Monti di Toffia, vi ho in pratica. Dodici ore di marcia, e quasi tutta
notturna, su per le vostre forre, in mezzo alle vostre nebbie, con
un piede su sdruccioli sassi e l’altro nel vuoto delle vostre frane,
mi faranno ricordare di voi fino a tanto ch’io viva. E non senza
allegrezza, perbacco! L’uomo è fatto così: soffre e maledice; poi gode
al ricordo di ciò che ha sofferto e maledetto. Del resto, una metà
della vita non è forse tessuta di ricordanze? L’altra metà, come tutti
sanno, è tessuta di desiderii.

Torniamo al racconto. Aspettavamo i due amici da Genova. Gli amici
giunsero infatti, trentasei ore dopo di noi. Ma credete che si potesse
partire? Niente affatto. Insieme con la lor grata presenza, gli amici
recavano l’annunzio che a Genova si era messo insieme un drappello di
circa trecento; che quel giorno medesimo doveva essere in viaggio,
e che gli amici di Genova raccomandavano a noi quella spedizione
d’uomini, affinchè trovasse modo di passare il confine.

La nostra maraviglia.... dico male, il nostro stupore fu grande,
all’udire quella novità. O come, chiesi io, trecento volontarii
possono esser partiti da Genova, da quella Genova dove cinque giorni
fa si spiavano i passi d’ognuno di noi, si tenevano d’occhio le
strade ferrate, si frugavano i vapori, perchè nessuno riuscisse a
sgattoiarsela per Firenze?

Pure, la cosa era così, come i due nuovi venuti annunziavano. E dopo di
loro giungeva una lettera di Genova, che per l’appunto ci dava notizie
della spedizione. Sapemmo allora che un giorno dopo la nostra partenza,
per l’incalzar degli eventi era cresciuto a dismisura l’entusiasmo
dei cittadini; si voleva da tutti che il governo smettesse di fare il
gendarme, si voltasse in quella vece a più virili propositi, e intanto
lasciasse andare chi voleva andare. Per mandare i fatti compagni alle
parole, gli amici nostri avevano cominciato ad inscrivere tutti coloro
che desideravano di correre al confine. Via Luccoli, dove aveva sede
il comitato, era gremita di gente; al prefetto, nella confusione, erano
caduti gli occhiali, e il degno gentiluomo non aveva veduto più nulla.
Questo era su per giù quanto i cittadini volevano da lui; chiudesse un
occhio, anzi, per colmo di cortesia, tutt’e due.

Queste ci parevano liete notizie per il paese; non già per noi, che
dovevamo restarcene ancora due o tre giorni nell’ansia dell’attendere
e nella difficoltà dell’ordinare tanti nuovi compagni. E inermi, poi!
Basta, si sarebbe fatto come gli ultimi drappelli, andati sulle orme
del Mosto; senz’armi, e ricevendo la promessa dal comitato di Terni,
che ce le avrebbe mandate, come a quelli altri, a mala pena ne avesse.

Or dunque, addio libertà di correre all’impazzata, secondo il nostro
talento! addio sognato viaggio notturno di re Manfredi alla volta di
Lucera, col gaudio delle cose nuove che ci aspettavano, col rammarico
delle dolci cose che avevamo lasciate, mistura di lieti e tristi
pensieri, dond’esce e si spande una così larga vena di poesia! Armi,
cartucce, vettovaglie, rattoppature di scarpe, ruolini di compagnia,
situazioni giornaliere, questa sarebbe stata dunque la nostra poesia
dei giorni seguenti!

Accenno qui il mio primo e involontario movimento di dispetto: ma mi
piace di soggiungere che il giorno dopo, quando i nostri concittadini
arrivarono, ebbi gran gioia di vederli, anzi di rivederli, perchè la
più parte erano noti e cari commilitoni d’altre campagne. Più tardi,
quando li vidi all’opera, e ne udii le lodi dalle labbra del più
grande capitano d’Italia, su quel colmo di collina verdeggiante che
corre dall’osteria della Cecchina al Casale de’ Pazzi (così ha nome
il Monte Sacro nella topografia moderna) mentre le palle fischiavano e
miagolavano spesse intorno a Lui sorridente bersaglio alle carabine dei
mercenarii d’Antibo, mi tenni superbo di appartenere a quella eletta e
popolana schiera genovese.

— Verranno dunque domani; — diss’io. — Ogni pensiero si rimetta a
domani.

— _Cras ingens iterabintus æquor;_ — soggiunse il Pietramellara, che
non dimenticava in nessuna occasione le sentenze di Orazio.

— E allora, — ripigliai, — _nunc vino pellite curas_. Ma non
dovrebb’esser vino del nostro albergatore. —

Questo dialoghetto erudito finì col proposito deliberato di andarcene a
pranzo.

La mattina vegnente (perchè io non istarò a raccontarvi minutamente
tutti i nonnulla di una sera passata a zonzo per le strade di Terni)
prendemmo una vettura da nolo, capace di sei persone, senza contare una
settima che poteva stare a cassetta col vetturino, e ce ne andammo a
visitare la cascata delle Marmore, una delle sette meraviglie d’Europa.

Era il 17 di ottobre; giornata bellissima; cielo limpido, di zaffiro;
aria tiepida, come di primavera. La via, piana per un bel tratto fuori
delle mura, dove passa il fiume Nera, s’innalza a gradi, s’inerpica
sul fianco di una montagna, di cui non rammento il nome, ma che
somiglia moltissimo alla pinifera costiera per cui, nella mia Liguria,
i cittadini di Cogoleto non possono vedere quei d’Arenzano. Sotto di
noi, ad una certa distanza, rumoreggia la Nera, già maritata al Velino,
che le si precipita in grembo dall’alto delle Marmore; tra la fiumana e
noi, seduto sulla cima d’un poggio, sta un gaio paesello che porta il
nome di Papigno, famoso per la bellezza e il sapore delle sue pesche.
A mano a mano che si sale, la vallata di Terni apparisce ciò che è
veramente, e che, standole in grembo, non si può vedere nè godere;
voglio dire un maraviglioso sfondo di prospettiva, con uno di quegli
orizzonti vaporosi e caldi che sono una bellezza particolare della
campagna romana.

Adesso, lettori umanissimi, eccoci arrivati. La via si fa piana, e ci
si para davanti agli occhi una casina bianca, che porta sul suo lato
più appariscente una scritta. Leggiamo e intendiamo che ivi abita il
personaggio più importante dei luoghi; nientemeno che il cicerone della
cascata. Smontiamo, ci mettiamo nelle sue mani, e fatti pochi passi nei
vigneti incominciamo a sentire un rumore d’inferno. Il cicerone sorride
al nostro stupore, e con un bel gesto classico c’invita a proseguire la
via.

— Venite, — diss’egli, — venite, signorini, e _vederete se
cos’è_. —

Di ciglione in ciglione, per sentieruoli campestri, si scende fino ad
una balza, che è un vero posto avanzato sull’abisso. C’è un rustico
edifizio quadrato, abbastanza somigliante a quelle tali cappelle
svizzere che portano il nome di Guglielmo Tell e si vedono spesso
riprodotte sui paraventi dei caminetti o sul fondo dei vassoi; quattro
pilastri di mattoni, un murello intorno coi suoi sedili di pietra,
un tetto a quattro acque, e nient’altro. Corriamo là dentro, mettiamo
fuori la faccia; che strana veduta, da mettere i brividi!

“Frastuono d’acque! dalla balza scoscesa il Velino attraversa il
precipizio scavato dall’onde. Caduta d’acque! rapida come la luce, la
massa zampillante spumeggia, crollando l’abisso. Inferno d’acque! dove
esse urlano, fischiano, ribolliscono in eterno tormento, mentre il
sudore della loro grande agonia, spremuto da questo lor Flegetonte, si
rigira intorno alle negre roccie lucenti che fiancheggiano il gorgo,
immobili nella spietata orridezza;

“E sale in ispuma al cielo, donde ancora ricade in continuo nembo,
che scorre dalla sua nuvola inesausta di amica pioggia; eterno aprile
al terreno, che si fa tutto uno smeraldo. Come profondo il vortice! e
come l’elemento gigante balza di roccia in roccia con salti forsennati,
scuotendo i massi, che già rotti e travolti dai suoi passi feroci danno
per le lor fenditure un pauroso varco

“Alla vasta colonna che sopra vi scorre, più somigliante alle
scaturigini di un Oceano fanciullo, prorompente dal grembo delle
montagne in doglia per un nuovo mondo, anzi che ad un padre di fiumi
che gorgogliando scorra co’ suoi serpeggiamenti attraverso la valle.
Volgetevi a guardare; ecco, essa viene come una eternità che ogni cosa
abbatte nel suo corso, affascinando di paura lo sguardo; cateratta
senza pari,

“Orribilmente bella! Ma sull’orlo dell’abisso, dall’uno all’altro lato,
sotto il limpido mattino, siede un’Iride in mezzo al vortice infernale,
pari alla speranza su d’un letto di morte, e, non scemate mai le ferme
tinte, mentre tutto all’intorno è lacerato dalle acque sconvolte, serba
serena i suoi brillanti colori con tutte le loro non ricise strisce;
rassomigliando, in mezzo alla tormentosa scena, Amore vigilante la
Follia con immutabile aspetto„.

Questa è povera prosa, che rende male quattro novene maravigliosamente
descrittive del _Childe Harold_. Ma il precipizio in cui si slancia
il Velino non è tutto scavato dalle acque, come potrebbe far credere
a prima giunta il _wave—worn_ del testo inglese. La cascata è
artificiale; il suo taglio è ardimento romano; e la storia tramanda
che fu operato dal censore M. Curio Dentato, nell’anno 481 _ab Urbe
condita_, per asciugar le paludi dell’agro di Rieti; il quale era
appunto (com’è tuttavia, vi prego di crederlo) più alto della vallata
di Terni, e il Velino, stagnando lassù, gli era proprio d’impaccio.
L’opera del bravo censore sanò la campagna reatina per modo che questa
divenne in breve saluberrima, e meritò d’esser chiamata la Tempe
d’Italia.

Tempe, chi nol sapesse, era una bellissima valle della Tessaglia, tra
i monti Olimpo ed Ossa, presso la foce del fiume Penèo che le scorreva
nel mezzo, come appunto il Velino nella valle di Rieti. Antiche
tradizioni recavano che la gran pianura della Tessaglia fosse un tempo
tutta allagata, e che finalmente le acque si scaricassero di colà per
la via di Tempe, aperta con un colpo di tridente da Nettuno. Altri
dicono da Ercole, con un colpo di clava: ad ogni modo il mito raffigura
un gran cataclisma geologico avvenuto in Tessaglia; laddove a Rieti
fu opera di quei grandi Romani, che, quando volevano far miracoli, non
avevano bisogno di far capo agli Dei.

Tempe italiana! il nome le è derivato da un cenno di Cicerone; il
quale, scrivendo all’amico Pomponio Attico d’un suo viaggio colà,
dice chiaramente: “Reatini me ad sua Tempe duxerunt„. Ma ritorniamo
alla nostra cascata, cagione di tanta felicità per l’agro reatino
e di tante, digressioni per me. Impedito più volte nel corso dei
secoli questo sbocco del vorticoso Velino, fu più volte restaurato,
e da ultimo sotto il papa Clemente VIII, nel 1598. Ora la mano
dell’uomo non si ravvisa punto in quello scoscendimento, coperto
com’è d’incrostazioni calcari, che arieggiano i più sottili ricami,
molle di muschio, stretto intorno da piante ed erbe rigogliose
che sembrano deliziarsi nei continui spruzzi di quella fiumana
scintillante d’argento, che si versa in maestoso volume dall’altezza di
trecentosettantacinque metri. Caviamoci il cappello!

Un po’ più lontano da quella gran massa lucente, si scorge seguire
la medesima strada un solitario fil d’acqua. E dico filo, a cagione
della sua smisurata vicina, che lo fa parer tale. Chi lo ha persuaso
a far cammino da sè? Io lo scambiai per un amante malinconico, a
cui facesse dolore la vacillante maestà della donna amata; Cosìcchè
egli protestasse in certo qual modo, non volendo starle vicino, e
non osando ad un tempo andarsene troppo lontano. Povero innamorato,
consòlati! Il destino, più forte di te, di lei, delle vostre gelosie,
vi ricongiungerà in fondo all’abisso, dove esulterete confusi ambedue,
risospinti in aria dal cozzo, e mutati, non so se in larga spruzzaglia
o colonna di fumo, che l’una cosa e l’altra mi parve ad un tempo;
e l’iride, segno di pace, distenderà pietosa sul vostro amplesso
forsennato l’arco sublime dei suoi sette colori.

Questo arcobaleno perpetuo, ch’è una delle grandi bellezze della
cascata, non è stato ricordato soltanto da lord Byron; in tempi per noi
antichissimi fu ammirato da Plinio, il naturalista, che scrive nella
grande sua opera, al capitolo LXII del secondo libro, ove tocca delle
particolarità del cielo nei varii luoghi della terra: “_et in lacu
Velino nullo non die apparere arcus._„ Che bella cosa, alla distanza
di quasi duemill’anni, aver tutti contemplato il medesimo spettacolo!
Noi passiamo, noi che siamo fatti di carne, d’ossa e di colpe; ma
l’arcobaleno della cascata di Terni, lieve, impalpabile, frutto degli
amori del sole con le gocce d’acqua, rimane, e rimarrà finchè durino
l’acqua ed il sole.

Se io vi stèssi a sciorinare tutte le fantasie che mi passarono per la
mente laggiù, non la finirei tanto presto. Andate voi, con le vostre
gambe, a vedere coi vostri occhi, a fantasticare colla vostra mente,
che io qui faccio punto. Ma prima di tutto, quando sarete alle Marmore,
pregate il signor Giuseppe Conti “guida della cascata„ a liberarvi da
quella turba di ragazzi, che col loro serrarvisi ai panni, con le loro
grida importune, vi guasterebbero il piacere di quella scena stupenda.

Con essi non giova aver soldi in tasca; più ne date, più ne domandano.
Noi li avemmo tutti alle costole; e tra essi più molesta una ragazzina
tredicenne, chiamata Barbara. È il nome di molte donne, laggiù; non
ho avuto il tempo di sincerarmi se siano tali anche di fatto. Quella
Barbara era belloccia, ed uno della brigata la battezzò per la ninfa
delle Marmore; ma si fece brutta seccandoci col suo voler sempre
denari. Ninfa venale! L’amico l’aveva chiamata “bella, ma sudicia„;
e lei subito era corsa a lavarsi il viso e le mani in un rigagnolo,
per ritornare ora con un pezzo di stalattite, ora con un mazzetto di
fiorellini selvatici; cose tutte che dimandavano soldi, e poi sempre
soldi.

E il peggio era questo, che ad ogni soldo dato a lei per levarcela dai
fianchi, saltavano su tutti gli altri marmocchi, gridando:

— E a me, signorino, _non me date più gnente_? Barbara ha avuto sette
soldi; io ne tengo appena cinque, ne tengo.

— Che il cielo vi benedica, graziosi ragazzi! levatevi una volta
da romper le tasche; — rispondevamo noi. Il cicerone, più latino di
lingua, soggiungeva:

— _E annate ’na vorta, che possiate morì’ d’accidente!_ —

Ma l’aiuto del cicerone non andava più in là d’un semplice augurio.




VI.

Da Terni a Rieti, e da Rieti a Condigliano. L’_eureka_ dello stomaco.
Le spose Sabine.


I cittadini di Terni non si lagnano della loro cascata, che chiama nel
loro paese tanti illustri e non illustri curiosi. Ma ben si lagnarono
i loro padri, gl’Interamnensi, quando il famoso taglio di M. Curio
Dentato mandò loro quella grazia di Dio, facendo straripare nei loro
campi la Nera.

Si richiamarono un giorno a Roma, e _Roma locuta est_. Il Senato
mandò loro una commissione, cioè, scusate, un console e dieci legati,
perchè sentenziassero. I Reatini, che conoscevano a quanto pare le
commissioni giudicanti, e non volevano saperne di ripigliarsi il
Velino a far palude sul loro altipiano, cercarono un bravo avvocato,
e posero a dirittura la mano sul miglior che ci fosse, Marco Tullio
Cicerone; il quale, non pure li difese strenuamente, ma vinse la lite.
La rinfrescarono gl’Interamnensi sotto Tiberio, facendo credere al
buon popolo Romano che le inondazioni del Tevere venissero nientemeno
che dal Velino, il più turgido, il più peccaminoso de’ suoi affluenti.
Non so che avvocato scegliessero questa volta i Reatini: so invece
dagli Annali di Tacito che il Senato votò l’ordine puro e semplice
del collega Pisone. E so, finalmente che è tempo di lasciar la cascata
delle Marmore, e Terni con lei.

I nostri genovesi erano arrivati in due spedizioni, il giorno 17 e il
18 di ottobre. Niente più ci tratteneva a Terni, neppure il negozio
delle armi, che il Comitato non aveva, che altri non poteva darci, e
che noi, non potevamo aspettarci da Genova.

Questo, intanto, bisognava dire ai nuovi venuti. “Ragazzi, noi non
possiamo armarvi, per le trentasei ragioni d’Arlecchino. Non armandovi,
non possiamo neppure arrogarci il diritto di comandarvi. Noi andiamo
per nostro conto, ed inermi, ai confine pontificio. Volete venire?
Faremo il possibile per condurvi sani e salvi fin là, al mercato delle
busse; quanto al resto, che sarà certamente il meno, spartiremo con
voi.„

Parlare in tal guisa a genovesi (lo dico con legittimo orgoglio di
campanile) è un invitarli a nozze. Tutti applaudirono, e la mattina
del 19, armati di buona volontà fino ai denti, e di duecento razioni di
pan bigio che il Comitato ci aveva regalate, si prese la via di Rieti.
Cinque o sei di noi altri si precedeva la marcia, per andare a vedere
lassù in Rieti che aria tirasse, e se fosse prudente consiglio che gli
uomini nostri entrassero in città.

Da Terni a Rieti una vettura da nolo vi porta per otto lire, se non
forse per meno, come mi affermarono parecchi Reatini. Noi, per due
vetture spendemmo sessantacinque lire; e fecero grazia a portarci.
Questo mi fa ricordare delle quaranta lire che spese un mio illustre
amico per farsi condurre da Genova allo scoglio di Quarto, la famosa
sera del 5 maggio 1860. E notate bontà di cuore: dopo simili prove, noi
stiamo ancora per l’abolizione della pena di morte.

I nostri uomini dovevano fermarsi a mezza strada, presso una
scorciatoia che mette a Condigliano. Fu una buona ispirazione, la
nostra, poichè a Rieti un egregio cittadino, il conte Vicentini,
ci disse per l’appunto di dover trattenere la gente laggiù, e di
farla proseguire per la scorciatoia in discorso, evitando di entrare
in Rieti, dov’erano molti soldati, e sospettosissime le autorità
governative. Dalla scorciatoia di Condigliano assai più brevemente ci
saremmo condotti, per San Giovanni Reatino e per Torricella in Sabina,
al paese di Scandriglia, che era la meta del nostro viaggio.

Il mio buon Ludovico di Pietramellara si sacrificò allora per tutta
la tribù, ritornando indietro dai nostri, per indicar loro la via
che dovevano tenere all’alba del giorno seguente, e per abboccarsi
in Condigliano con un altro buon cittadino, il quale dovesse mandarci
sulla scorciatoia una guida. La gita di Ludovico essendo fissata per la
notte, le ore che ci avanzavano del giorno furono consacrate al pranzo
e ad una passeggiata per le vie di Rieti, città che merita veramente di
esser veduta.

A me piacque moltissimo. Quando c’entrammo, era gaia per un bel raggio
di sole, per un grande viavai di cittadini, per un discreto numero di
testoline bionde e brune che si sporgevano dalle finestre. Aggiungete
che noi pure eravamo lieti, quel giorno. Io, poi, avevo fatto il
viaggio in compagnia dei buoni amici che oramai conoscete, e ad essi ne
avevo aggiunto un altro, raccapezzato da un libraio di Terni; voglio
dire un Orazio, che andammo leggendo e commentando, con Ludovico di
Pietramellara, per quanto fu lunga la strada.

Rieti è città di vecchio stampo italico: le vie non diritte, nè
piane, ma ben selciate e pulite; incomincia dal basso, e va salendo
dolcemente, fino alla cima di un colle, dov’è una gran piazza, anzi
due, con chiese, palazzi, ed insegne di molta antichità. Mi parve
insomma di essere a Genova; di Genova mi parlava la forma delle case,
di Genova il cielo sereno, di Genova quelle brune e bionde testoline
che v’ho già accennate, e che, indovinando dai nostri aspetti e
dalla piccolezza delle nostre valigie lo scopo del nostro viaggio,
ci sorridevano cortesemente dai veroni, o dai margini della strada.
Graziose donne di Rieti! Indossavano quasi tutte dei corsaletti
vermigli. Qui proprio eravamo nel nostro regno. Al vedere come le dame
portassero i nostri colori, intendemmo la gioia delle castellane del
Medio Evo, quando vedevano i loro colori portati dai cavalieri fedeli.

Bella Rieti! e bravo oste di Piazza, che bestemmiavi ad ogni momento,
per ogni più piccola cosa, come un antico suddito del papa, ma che
ci hai fatto desinare, e lautamente, a diciotto baiocchi per testa!
belle per ampiezza e vetustà le camere della locanda, colle loro travi
intagliate, coi letti alti due metri da terra, veri talami classici, ai
quali bisognava dar la scalata! bella infine la giovinetta che vidi dal
mio balcone, e non si spaurì punto della mia presenza, anzi mi volse la
parola con atto onestamente cortese!

— Andate con Garibaldi? — mi chiese ella con voce argentina, mentre io
stavo presso la finestra cavando dalla mia valigetta una rivoltella,
per metterla in ordine.

— Sì, bella bambina: avete qualche commissione da darmi per il vostro
innamorato?

— Non ho innamorato; — rispose; — ho un cugino con Menotti.

Così dicendo, s’era fatta rossa come una brace.

— Ditemi il suo nome, e lo saluterò per voi. E poi, quando saremo
a Roma, — aggiunsi ridendo, — vi manderemo le dispense pel
matrimonio. Penso infatti che si possa esser cugini e innamorati ad un
tempo. —

Questi sono i pochi ricordi che io serbo della mezza giornata trascorsa
a Rieti. Antichità non ho potuto studiarne; d’una statua mozza che
chiamano Il Bamboccio, e che mi colpì veduta di sera, non so dirvi
nulla. So che la città contiene forse diecimila abitanti, sebbene
mostri d’essere stata fatta per molti di più; che _in illo tempore_
si chiamava Reate ed era una delle più ragguardevoli città dei Sabini,
insieme con Amiterno, Testrina, Cure, Nursia, Ereto, Trebula, Suffena,
Mutusca e Nomento. Gran gente, i Sabini! Le loro figliuole hanno fatto
Roma. Popolo singolare! La semplicità del costume di quei montanari
dell’Appennino centrale, diffusi dalle sorgenti del Pescara alle valli
della Nera, dell’Aniene e del Tevere, l’austerità del carattere, ed
ogni maniera di domestiche virtù, li resero mirabilmente adatti a
quel lavoro di tanta mole che fu il _Romanam condere gentem_. Non mi
si venga a dire che Roma, la gran Roma, nascesse da un covo di ladri,
discendenti di Enea. Remolo e Remo saranno benissimo quel che la storia
e la favola vuole; ma chi li allattò fu una lupa, la forte Sabina;
fatti sua mercè grandicelli, a lei chiesero e tolsero quelle donne,
onde aveva a nascere la più forte schiatta del mondo.

Rieti fu dei Romani trecent’anni innanzi l’êra volgare: Annibale passò
sotto le sue mura: diede ella molti volontarii a Scipione Africano, il
Garibaldi di quei tempi; sotto i Longobardi fu aggregata al ducato di
Spoleto; fu corsa dai Saraceni e poi quasi distrutta da Ruggero, re di
Sicilia; resistè a Federigo II; Carlo II d’Angiò vi fu incoronato re
delle due Sicilie da papa Niccolò IV, i cui successori amavano molto
questa città. A modo loro, s’intende; donde avviene che sia molto
più lieta di appartenere al regno d’Italia, ad onta dei suoi mediocri
legislatori e del suo non mediocre sistema di tasse.

Per ultimo ricordo storico vi dirò che Rieti fu l’ultima città veduta
dal vostro umilissimo servo, nella sua gita al confine pontificio. Dove
sono andate tutte quelle belle e cospicue città dei Sabini? Mutusca è
diventata un paesello, Rocca Sinibalda; anzi c’è chi pretende che non
si debba neanche riscontrare colà, ma più sotto, dov’è la solitaria
Osteria nuova. Cure è diventata Corese, una cosa da nulla. Ereto,
distrutta, si mutò in monte Eretino, poscia Monterotondo. Nomento, poi,
s’è rimpiccolito in Mentana. Questi cangiamenti di fortuna s’intendono
facilmente, anche senza andare a scomodare i Goti, i Vandali, ed
altri popoli guastatori. I Sabini erano possenti, ma prima di Romolo;
la prevalenza di Roma doveva soggiogarli o assorbirli; l’una cosa e
l’altra seguirono infatti. Ora, quanto più vi accostate a Roma, le
città degli antichi popoli vanno scemando d’importanza, fino a tanto
che trovate la nuda e insalubre campagna.

Ed ora, addio bella! È l’alba del 20, e dobbiamo rifare un tratto della
via già percorsa, volendo ricondurci all’incontro della scorciatoia
di Condigliano. Due dei nostri amici, il dottor Pastore e Gnecco[1],
coi quali siamo giunti insieme fino a Rieti, tirano innanzi in
carrozza per la strada maestra fino a Scandriglia. Noi, avendo cura
d’anime, li raggiungeremo domani “col grosso dell’esercito„ se i fati
permetteranno.

Carina, quella scorciatoia di Condigliano! D’ora innanzi, in materia di
strade, quando vorrò far presto, mi atterrò alle più lunghe.

Alte otto del mattino eravamo colla nostra gente, che aveva ottimamente
dormito, parte in certi fienili, parte nelle case dei contadini del
luogo. E qui, sebbene piovesse fitto, deliberammo di metterci subito in
marcia per Condigliano, che era, dicevano, distante da noi un’oretta di
strada.

Il Pietramellara, con due compagni, s’era preso l’incarico di fare una
corsa a Terni, per vedere se da Genova fossero venuti altri amici, e
sopra tutto se fossero giunte armi; per le quali, fin dal primo giorno
del nostro arrivo sulle sponde della Nera, avevamo scritto lettere
esortative, supplicative, agli amici di Genova. Una delle due vetture
che ci avevano condotti a Rieti, era ancora laggiù: Ludovico partì con
quella per Terni. Noi a piedi per Condigliano, e i nostri trecento con
noi, allegri come pasque, ad onta della pioggia che li flagellava, ad
onta del fango che li inzaccherava e li faceva dar negli sdruccioli.

Qui proprio incominciò la vita soldatesca. Addio bei letti dai morbidi
guanciali e dalle lenzuola di bucato: addio osti col vino cattivo,
ma vino; addio vetture, fatte per derubarci, ma per liberarci altresì
dalle molestie del camminare. Dopo tutto, che sincera allegria! Come
tutto era dolce, in compagnia di vecchi e provati compagni! come si
andava spediti, colla speranza in avanguardia! e come già si cominciava
a conoscere il pregio d’una fiaschettina d’acquavite che tratto tratto
andavamo sorseggiando, per rifarci dell’acqua piovana!

Giungemmo poco prima delle undici in Condigliano, bel paesello ai
piedi d’una montagna. Pioveva ancora, e i nostri trecento furono lesti
a scantonare di qua e di là, in cerca di “alloggio, buon vino e buon
ristoro„. Quantunque in nessun luogo si vedesse la scritta menzognera,
non dubitate, trovarono tutti da allogarsi. Alcuni contadini,
probabilmente edotti dalla esperienza dei giorni precedenti (poichè
altri drappelli avevano fatta quella medesima strada) si erano elevati
a dignità di ostieri, senza pigliar patente dal governo, e imbandivano
ova al tegame, con cipolle, pan bigio e vinello scellerato, sul far di
quello che io avevo bevuto a Terni, e che doveva perseguitarci per ogni
paese, per ogni casolare, fino a Monterotondo, ove passò la misura.

Quando noi ci affacciammo all’uscio d’una di quelle osterie
improvvisate, tutti i deschi, le panche, gli sgabelli, erano già
occupati. Ce ne rallegrammo, perchè ciò agevolava il nostro ufficio
di vettovagliare trecento uomini in un così piccolo paese e punto
preparato ad accoglierci. L’amico del luogo, a cui recavamo una
commendatizia di Rieti, fu del resto sollecito a mandar pane, vino e
formaggio per quanti ne avessero bisogno. E tutti ne ebbero la parte
loro: noi soli restammo a becco asciutto.

Ma il Bernardini vegliava. Era questi un buon giovinotto di Ravenna, di
quelli che rispondevano “presente„, a tutti gli appelli della patria.
Egli era stato col maggiore Burlando nella guerra del ’66, ed aveva
voluto seguire il suo comandante in quest’altra levata d’insegne.

Ora il Bernardini, stando al seguito del maggiore Burlando, faceva
tutto, pensava a tutto, per modo che non c’era più da far niente, da
pensare a niente. Occorreva il cannocchiale da campo, per ispecolare il
terreno? Si chiamava il Bernardini. C’era da riscontrare una posizione
sulle carte di stato maggiore che avevamo con noi? Il Bernardini le
teneva sempre addosso, ed aveva pronta alle mani quella del luogo
in cui marciavamo. Si chiedeva un tozzo di pan bigio, per chetare i
rimorsi dello stomaco? Il Bernardini ne aveva sempre qualcheduno in
fondo alle tasche del pastrano, e qualche mela per giunta. Mancava un
pizzico di foglia da caricar la pipa ungherese del maggiore, pipa che
correva in giro tra noi come la tazza ospitale d’un vecchio castellano?
Il Bernardini sapeva sempre dove pescare quel pizzico di foglia. I
cavalli, quando incominciammo a possederne, li aveva egli in custodia,
ed egli ce li faceva trovare insellati quando bisognasse. Insomma, era
la provvidenza di noi due, ed anche un pochino di tutti gli altri che
si accostavano a noi.

Anche a Condigliano il Bernardini vegliava. Fu lui che ci guidò verso
una casupola fuori mano, la cui rustica apparenza non era stata tale da
chiamar gente. Lasciatici al basso, salì una scala esterna di pietra,
infilò un uscio affumicato e stette forse due minuti a parlamento;
quindi uscì fuori sul pianerottolo, per gridarci con accento festevole:
vengano, vengano, ho trovato.

Il suo _eureka_ fu più gradito di quello d’Archimede, e fummo in un
batter d’occhio lassù, dove ci accolsero con lieti ed onesti modi due
giovani contadine.

— Non c’è niente; — disse il Berbardini; — ma c’è una cucina, un
paiuolo, delle cazzaruole, dei polli, delle cipolle, del pane...

— Ah! e voi dite che non c’è niente? Mi pare che con tutti questi
ingredienti ci sia da pranzare _in Apolline_.

— Sì, ma il vino?... dei sedani per l’insalata?... Basta, troverò io
tutto quello che manca, se queste due sposine mi aiutano. —

Le sposine non se lo fecero dire due volte. Col denaro —che mettemmo
fuori, andarono a trovar vino, uova e formaggio. Il Bernardini,
frattanto, aveva messo mano ai polli. Un’ora dopo, ci sedevamo in
cinque o sei ad una tavola zoppa, ma colla sua tovaglia pulita, di
ruvida tela di canapa, su cui era imbandito un pranzetto giocondato
dall’amicizia e fatto più gustoso dalla salsa spartana che tutti
conoscono, e che si chiama appetito.

Ricorderò sempre con affetto le due contadine di Condigliano. I lor
volti, non molto belli, abbrustolati dal sole, risplendono ancora ai
miei occhi per un’aria di soave bontà che teneva luogo di bellezza.
Erano poi di così gaio umore! I nostri quieti diportamenti in casa loro
fecero si che esse sciogliessero la lingua ad un cinguettìo, il quale
non ebbe fine che colla nostra partenza.

La più giovane di esse aveva nome Barbara. Vi ho già detto che son
tutte barbare, queste Sabine. Era sposa da un anno, e portava ancora
la sua collana d’oro a cinque o sei file, orecchini, anelli ed altri
gingilli.

Mentre eravamo a tavola, giunsero i mariti, due robusti contadini, che
tornavano dai campi col loro sargone addosso. Il sargone è una camicia
di ruvida tela, che scende fino al ginocchio. I campagnuoli di laggiù
la portano sulle altre vesti, non so se per ammorzare il caldo dei
raggi solari, o per non insudiciarsi la giacca e il panciotto.

Quei due bravi Sabini, dopo essersi fatti pregare e ripregare,
sedettero con noi e assaggiarono del nostro desinare, anzi dei rilievi,
poichè noi già eravamo alle frutte. Così giunsero le due dopo il
meriggio, e bisognò pensare alla partenza.

— Dove andate? — ci chiese Barbara.

— A prendere la benedizione del Papa; — risposi io.

— No, — ribattè ella, ridendo, — tu vai a prendergli Roma.

— E te ne spiacerebbe, se così fosse?

— A me? perchè dovrebbe spiacermi? Saremmo tutti uniti.

— Barbara, bocca d’oro! — gridò il Bernardini, che da due giorni
sperava di far tutta d’un fiato la strada del Campidoglio.

— Che vi credevate? — saltò su a dire il marito. — Che Barbara non
fosse italiana? Qui siamo tutti per Garibaldi.

— Ottimamente, se è così, — ripresi io, — perchè allora tu
c’impresterai i due cavalli che ho veduto giù nella stalla. Ci
serviranno per andare fino a Torricella. — Perchè no? Ma chi me li
rimanda a casa? — domandò egli, con un astuto sorriso che preparava un
rifiuto.

— Bravo! tu stesso, che verrai ad accompagnarci; e noi ti caricheremo
d’oro. —

La frase era degna dell’Achillini; ma io, che avevo adocchiate le
due rozze e che amavo di viaggiar meno male che potessi, intendevo di
fargli capire che non si sarebbe lesinato sul prezzo.

Egli stette un momento sovra pensiero; guardò noi, quasi per leggerci
negli occhi se eravamo o no galantuomini; poi guardò Barbara, che meno
dubitosa di lui (già le donne valgono assai più degli uomini) gli disse
con accento sicuro:

— Va; questi figliuoli son buoni. —

Mezz’ora dopo eravamo in marcia alla volta di Torricella, per quella
orrida e pantanosa scorciatoia che v’ho detto, nella quale molti dei
nostri amici lasciarono a dirittura le loro cittadinesche calzature. Il
maggiore e io eravamo a cavallo; ma da buoni amici scendemmo più volte
di sella, per mandar su qualche inzaccherato collega.

Come a Dio piacque, si uscì da quella gora fangosa: ma sulla via
provinciale ci aspettava una pioggia fitta fitta, che ci accompagnò
fino a San Giovanni Reatino. Colà fu necessario far sosta, poichè il
cielo si metteva a burrasca, e la gente non si poteva più reggere in
piedi, inzuppata com’era e flagellata da un vero diluvio.




VII.

La bella gigantessa. Fermate ed ansie di Torricella. Giungono i fucili
e passa Garibaldi.


I terrazzani di San Giovanni Reatino stavano al riparo sotto le basse
volte dei rustici portoni, o nel vano delle finestre, a guardare con
aria tra curiosa e pietosa la nostra marcia, o, per dir meglio, la
nostra navigazione.

Noi, sulle prime, non pensavamo affatto a fermarci. La guida di
Condigliano ci aveva detto che a Torricella si poteva giungere quella
medesima sera; e noi, anche a risico d’immollarci fino al midollo delle
ossa, volevamo guadagnar terreno. Non erano della stessa opinione i
cavalli; i quali, tra per l’acquazzone che li colpiva di fronte e per
aver fiutato il soave odor di fieno, s’impuntavano in mezzo alla strada
e sparavano calci ad ogni stratta, ad ogni colpo di tacchi, che noi
davamo con molta costanza nei fianchi a quei ribelli cornipedi.

Povere bestie, dopo tutto! parevano dirci con quella mimica: “Per chi
ci avete voi presi? Sta bene a voi di andare in perdizione, se vi pare;
ma alle bestie non si deve chiedere più di quello che possono dare. Ed
anche a voi, per l’anima di Chirone, uomo e cavallo, dovrebbe piacere
una bracciata di fieno nella mangiatoia e un po’ di paglia per riposare
al coperto. Fermiamoci, via, non sarà poi un gran male.„

Intendemmo il ragionamento dei due cavalli; udimmo le voci dei
terrazzani, che ci gridavano d’ogni banda: “fermatevi qui, giovinotti„
e deliberammo di contentar gli uni e gli altri, non senza aver chiesto
da prima se in quel paesello ci fosse un luogo da ricoverare i nostri
compagni. — Sì, c’è il luogo, e paglia in abbondanza; — risposero.

— Bene, pernotteremo a San Giovanni Reatino; venga il sindaco,
o l’assessore anziano, e provveda a queste poche cose che ci
bisognano. —

Il ragguardevole personaggio che noi chiedevamo fu pronto a capitare,
ed allogò la nostra gente in una chiesuola, con quanta paglia
occorreva. Ma già s’indovina che pochi rimanessero colà. Dieci minuti
dopo aver posto il piede nell’alloggiamento comune, la più parte
se n’erano trovato un altro alla spartita, nelle case di quei buoni
contadini; e la stipa crepitava in tutti i focolari, sotto a tutti
i paiuoli, a tutte le padelle, a tutte le cazzaruole di San Giovanni
Reatino.

Quanto a noi, finito di pensare agli altri, ce n’eravamo andati in una
osteria che il Bernardini aveva adocchiata fin da principio, e dove
già stava preparando la cena. Quell’osteria mi è rimasta in mente a
cagione della fantesca, stupenda per bellezza colossale di forme, che
la facevano parere una statua, anzi che una donna di carne e d’ossa.

Costei se ne stava ritta sull’uscio, appoggiata allo stipite, cogli
occhi volti all’orizzonte; e pareva non voler dare ascolto alle cose
gentili che le andava bisbigliando all’altezza dell’omero un cosettino
tant’alto, mingherlino e scialbo, vera figura di Momo accanto a
Giunone.

Seppi più tardi da Barbara (si chiamava Barbara anche lei) che quello
era il suo damo, o, per dir più esatto, il pretendente alla sua mano. E
mi parve uomo di buon gusto, quel cosettino tant’alto; ma pensando ora
al caso suo, non posso lodare egualmente il suo senno. Barbara era una
gigantessa, al paragone di lui: s’egli ha ottenuta la sua mano, badi
a non sentirsela addosso. Guai al poveraccio, se Barbara un giorno va
in collera! guai se lo ama troppo fortemente! perchè in ognuno dei due
casi, egli è un uomo spacciato. Nel primo, me ne fa una frittata; nel
secondo, un lucignolo.

Dopo tutto, auguro alla coppia diseguale ogni bene: desidero che pel
miglioramento della specie in San Giovanni Reatino, i figli di questo
imeneo riescano una spanna più alti del padre, una spanna più bassi
della madre.

Questa coppia d’innamorati e una coppia di bottiglie che ci mandò il
parroco del luogo, cortese antidoto all’orribil mistura che ci voleva
far trangugiare l’ostessa, sono i ricordi più notevoli della nostra
fermata a San Giovanni. A noi premeva di andarcene; e poichè nella
notte il cielo s’era fatto sereno, deliberammo di rimetterci in cammino
per tempo.

Non tutti ci seguirono. I nostri compagni, non essendo ancora
militarmente ordinati, amavano far le cose a bell’agio. La mattina del
21, alla levata del sole, dormivano ancora della grossa. Tanto meglio;
avremmo potuto giunger primi a Torricella, per preparar loro alloggi e
panatiche.

La strada che conduce da San Giovanni Reatino a Torricella è la più
solitaria, la più triste che io abbia veduta mai. Si passa in mezzo a
un doppio ordine di colline senz’alberi, lungo il letto di un torrente,
del quale non ricordo più il nome. Non una casa, non un tugurio, nè
da vicino nè da lontano; solo qua e là, tra i giuncheti del rigagnolo
asciutto, si scorge un branco di pecore che va pascolando, o uno
smilzo puledro che trascina malinconicamente la sua cavezza di poggio
in poggio, e addenta svogliatamente di tratto in tratto qualche fil
d’erba, forse pensando con desiderio giovanile alla biada, che gli fa
vedere troppo di rado il rustico padrone.

Poco prima di Torricella vedemmo finalmente un po’ di alberatura, che
ci rallegrò lo sguardo come una non più sperata novità. Qui, preso
lingua dal primo contadino in cui ci fossimo imbattuti dopo tanto
camminar nel deserto, lasciammo la strada maestra, salendo per una
viottola a diritta; e dietro una bella collina, il cui dorso ce l’aveva
fino a quel punto nascosta, salutammo la meta del nostro viaggio di
quel giorno, Torricella in Sabina.

Torricella _in Sabin_a! Questa giunta al nome serve a distinguere il
paesello da cinque altre Torricelle sparse nell’alta e nella bassa
Italia; gli abitanti, del resto, non tralasciano mai di ricordarla,
tenendosi molto, e giustamente, della loro stirpe sabina.

Sono ottima gente, cortesi senza fronzoli e ospitali con tanto di
cuore, come i loro antichissimi padri. Ricorderò sempre con gratitudine
il sindaco e il segretario comunale, che erano due fratelli, Enrico
e Domenico Pitorri. Si ricorderanno essi, con pari tenerezza, di noi?
Se debbo dir tutto, mi pare che quei due ragguardevoli cittadini non
vedessero di buon occhio il nostro viaggio e l’avessero anzi per una
mattìa da rompicolli. I nostri ospiti (poichè in casa loro ebbi la più
lieta accoglienza) non potevano capacitarsi del come noi si sperasse
di far opera gagliarda senza l’aiuto del governo. Inutile riferir
qui le risposte nostre e le repliche loro. Essi liberali temperati,
noi avanzati, rappresentavamo due forze allora necessarie; e guai se
una fosse mancata, guai se l’una o l’altra avesse soverchiato; addio
equilibrio che ci ha tenuti in piedi; addio cospirazione di venti, e di
eventi, che ci ha condotti in porto. Le ragioni che potevamo scambiarci
allora, tre anni prima del 1870, che effetto farebbero ora? Io qui
scrivo ricordi, del resto, e non fo smercio di alta politica.

Torricella è un gaio paese, fatto d’una strada sola come tutti i
piccoli paesi, bello o brutto secondo i gusti e gli umori, con antichi
edifizi anneriti dal tempo e ridotti ad apparenza di catapecchie,
con catapecchie moderne che in grazia dell’intonaco la pretendono a
palazzine; pittoresco, insomma, come tutto ciò che è svariato di forme
e ben temperato di tinte.

Mi duole di non sapervi raccontare la sua storia, non avendo avuto
tempo a chiederne, e non possedendo libri che ne parlino: me ne duole,
ripeto, perchè a Torricella ho notato un antico castello, severamente
murato verso il basso della borgata, quasi a custodia della strada
contro la gente che veniva dalla parte di Roma; il quale ha certamente
veduto assai cose. Ed io non l’ho interrogato, non mi son fatto dir
nulla.

Che volete? Avevo tanti altri pensieri m mente, e tutti più urgenti.
Eravamo finalmente vicini a quel sospirato confine. In una sola marcia
potevamo giungere a Scandriglia: ancora quattro passi di là, e si era
sul territorio a noi conteso dalle pretensioni temporali di san Pietro,
o dei suoi successori. Sul primo lembo di quel territorio avremmo
ritrovato Menotti Garibaldi colla sua prima colonna di animosi giovani,
e il Mosto, e l’Uziel, ed altri amici partiti da Genova due giorni
prima di noi.

Questa era la bella apparenza delle cose: ma la sostanza?... Come
saremmo arrivati? Eravamo noi certi della via? e potevamo noi cercarla
a tentoni, con trecento uomini disarmati sulla coscienza? Notate che
degli insorti e dei fatti loro non avevamo da tre giorni alcuna notizia
sicura; che le scarse ed incerte voci da noi raccolte lungo la strada
recavano essersi Menotti allontanato da Montelibretti per andare alla
volta di Percile. Quella marcia, se pure doveva credersi vera, che cosa
significava? a che cosa accennava? allo scopo di avvicinarsi alle bande
che dovevano giungere dagli Abruzzi, o ad uno stratagemma per ingannare
il nemico? E che cosa dovevamo noi fare? in che modo diportarci, per
raggiungere il giovane e valoroso generale? Così senz’armi, non c’era
che un modo; non oltrepassare, ma rasentare il confine, da Scandriglia
a Canemorto (un nome — — — — — cambiato poi in quello di Orvinio)
e così, errando per monti e per valli, indovinare il luogo e il momento
opportuno per farci innanzi.

Ora, se questo era l’unico disegno a cui si potesse metter mano,
immagini il lettore come fossero lieti i nostri pensieri. Intanto i
nostri compagni chiedevano armi; le chiedevano ogni momento a noi,
quasi che noi potessimo cavarcele dalla testa come Giove si cavò
Minerva coll’asta in pugno e lo scudo imbracciato, o dal nulla con un
_fiat_, come Domineddio il cielo e la terra.

I buoni abitanti di Torricella, mossi a pietà del nostro stato, si
auguravano di aver armi quante ne occorrevano per noi; frattanto, a
testimonianza di buona volontà, ci offrivano quattordici fucili, cinque
dei quali erano stati caricati due o tre anni innanzi, ma non avevano
più i cappellozzi. Comunque fosse, accettammo il presente, che in
quelle circostanze ci parve la man di Dio; ma non ardivamo farne parola
ai nostri uomini, temendo che si mettessero a ridere di quella miseria.

Si sperava ancora che il Pietramellara giungesse da Terni, con armi e
munizioni. Ma quali armi, e quali munizioni? Non ne sapevamo niente, ma
speravamo; speravamo come il naufrago nell’isola deserta, che attende
un naviglio, il quale lo scorga lui da lontano, proprio lui, e si
accosti alla riva per prenderlo a bordo; come un povero diavolo che
per pagare una cambiale vicina alla scadenza, aspetta le centomila lire
della lotteria di Milano.

Questa volta la speranza mostrò di non meritare gli epiteti poco
amorevoli onde l’ha gratificata l’illustre autore dell’_Assedio
di Firenze_. Infatti, nella medesima sera, e in quella che stavamo
seduti a tavolino, colla carta del confine spiegata davanti a noi,
e mestamente sorseggiando una tazza di caffè, parecchi dei nostri
salirono affannati le scale, gridando: “le armi! son giunte le armi.„

Il grido “terra, terra„ levato dalla gabbia dell’albero di maestra
della _Pinta_, non fece, io penso, tanto piacere a Cristoforo Colombo,
quanto a noi quello dei nostri compagni: “le armi! son giunte le armi.„

Scendemmo a precipizio in istrada e trovammo per l’appunto due carri
che si fermavano allora davanti all’uscio, accompagnati da cinque o sei
dei nostri amici, da noi lasciati in vedetta a Terni, perchè nessuno
avesse a beccarsi il sospirato soccorso, caso mai ci fosse stato
spedito da Genova. Ludovico di Pietramellara era il duce; con lui era
un nuovo venuto, genovese, Lorenzo Manari.

Dati pochissimi istanti agli abbracci e alle strette di mano, chiedemmo
che cosa ci fosse nei carri.

— Trecento fucili; — risposero gli amici; — un po’ di cartucce, qualche
coperta di lana e alcune paia di scarpe. —

Come aveva potuto venire quella grazia di Dio? come piovere a noi
quella manna dal cielo? Le nostre prime lettere agli amici di Genova
non erano state scritte invano. Giovanni Fontana, Alessandro Piatti e
gli altri egregi colleghi del comitato genovese si erano affrettati
a comprare quanti fucili avevano potuto trovare in città, e ce li
avevano spediti, incaricando dell’accompagnamento il capitano Manari,
che veniva egli pure al confine. Giunto a Terni colla preziosissima
merce, Lorenzo Manari aveva trovato il vigile Pietramellara; ambedue
capitavano il giorno appresso a Torricella, non senza aver prima
ottenuto dal comitato di Terni le munizioni occorrenti e quel po’ di
roba che c’era nei magazzini.

Il Manari portava inoltre una lettera, da Firenze, che lo nominava
intendente dei volontari per tutta la riva sinistra del Tevere.

Pensate la nostra allegrezza. Oramai si poteva metter mano a formare
un battaglione e allestirci per l’andata al confine. Tosto si deliberò
che la mattina vegnente si spartissero gli uomini in tre compagnie:
frattanto, poichè si diceva in paese essere il confine gelosamente
custodito da forte nerbo di soldati, il Pietramellara sarebbe andato
nella notte a Scandriglia, per pigliar lingua, e ritornar sollecito a
noi con le notizie opportune.

L’amico accettò volentieri l’incarico e partì. Noi, chiuse le armi e
le munizioni in casa, e poste le sentinelle a custodia, ce ne andammo
a letto. Era l’ultima notte che dovevamo dormire tra le lenzuola, e
bisognava approfittarne.

Ma ohimè! era scritto lassù che quelle poche ore di quiete ci fossero
turbate, amareggiate da una triste notizia. Morfeo scuoteva ancora
mollemente sulle nostre fronti i papaveri del primo sonno, allorquando
verso le due dopo la mezzanotte, una delle nostre sentinelle venne a
destarci, conducendo nella camera un contadino arrivato da Scandriglia
con un biglietto per noi.

Lo leggemmo alla fioca luce d’una candela di sego, coi gomiti appuntati
ai guanciali. Era il Pietramellara che ci mandava pochi versi a matita,
mezz’ora dopo esser giunto a Scandriglia.

— Perdio! — esclamò il maggiore Burlando, dopo che ebbe guardato lo
scritto, e nell’atto di passarlo a me.

Lessi anch’io, ma mi parve di aver letto male. Mi stropicciai gli occhi
e lessi da capo, quindi tornai a leggere ancora. Erano cattive notizie.
Gl’insorti, per difetto di munizioni e di viveri, non potevano tener
la campagna. Però, sperando di rifornirsi, erano venuti al confine; ma
non potendo raccogliersi dentro Scandriglia, dov’era già a quartiere
un buon numero di soldati regolari, avevano dovuto sparpagliarsi in
piccoli drappelli nelle vicinanze del paese; non così lontani tuttavia
gli uni dagli altri, che non si potesse in breve ora adunarli.

L’annunzio ci riuscì doloroso oltre ogni credere. Ecco, dicevamo tra
noi, ora che abbiamo le armi, non possiamo andare più avanti. Arrivati
a stento fin qua, dovremo starcene con le mani in mano?

Per quella notte non fu più il caso di dormire, Ludovico prometteva
di essere il giorno appresso da noi: intanto ci mandava l’ordine di
Menotti, che era quello di rimanere a Torricella, paese fuori mano, in
attesa di nuove istruzioni.

La mattina del 23 fu malinconica assai; tanto più malinconica perchè
dovevamo sforzarci di nascondere la nostra tristezza ai compagni e dar
buone parole a quanti ci domandavano l’ora della partenza. Per tenerli
a bada, cadeva in taglio la formazione delle compagnie. Il maggiore
assegnò a ciascheduna i suoi uffiziali, nominò i sergenti, che dovevano
formare a lor volta le squadre; bisogna che occupò fortunatamente una
parte della mattinata. Era tanto di guadagnato.

Mentre i sergenti davano opera alla formazione delle squadre, noi ce
n’eravamo andati poco discosto dall’abitato, verso la strada maestra,
a salutare la quercia di Garibaldi. Così chiamano a Torricella una
quercia, sotto la quale, nel 1849, il gran capitano si era riposato
alcuni minuti, passando da quelle parti, dopo la eroica difesa di
Roma. Quella quercia è sacra pei buoni abitanti di Torricella; e se
ne tengono, come altri luoghi farebbero d’un monumento della passata
grandezza, e l’additano con venerazione a quanti forestieri passano di
là.

Ed hanno ragione. Il rispetto per ogni cosa che rammenti i grandi
cittadini è una bella maniera di gratitudine, e in pari tempo un
incitamento, un esempio. Noi, stirpe tralignata dal buon seme latino,
se siamo ancora venuti a capo di cosa alcuna che porti il pregio
d’essere raccontata ai futuri, dobbiamo darne merito alla virtù dei
ricordi che hanno nutrita la nostra giovinezza.

In quella che noi andavamo, e la storica quercia ci conduceva col
pensiero desideroso alla Caprera, dove il gran capitano certamente
si doleva della ignavia italiana, ecco, si ode sulla strada maestra,
che corre poco più sopra di noi, il rumore di una carrozza che passa
veloce, e poco stante molte voci di nostri compagni, che ci avevano
preceduti, gridano festosamente: “Garibaldi! Garibaldi!„

— Che è, che non è? — Garibaldi! è passato Garibaldi. — Ma come? — Or
ora, in carrozza; era con Stefano Canzio; ci ha salutati; va diritto a
Scandriglia. —

Non mi proverò a descrivere il tumulto dei miei pensieri, all’udir
quelle nuove. Anche volendo, non saprei. So benissimo che c’era
maraviglia e stupore, contento ed ebbrezza, e quasi mi pareva
d’impazzire. E mi sovvenne ancora delle cattive notizie ricevute da
noi nella notte.... Come tutto era di punto in bianco mutato! Ed era un
uomo solo, che operava il miracolo.

Raccapezzatomi un tratto da quello stordimento, immaginai le cose che
dovevano essere occorse nelle acque della Caprera. Stefano Canzio era
venuto a capo del suo disegno: il Generale aveva delusa la custodia
delle navi da guerra e aveva toccata la terraferma. Questo s’intendeva:
ma come, giunto a Genova, o a Livorno, od altrove, aveva egli potuto
proseguire la via? Certo, era passato per Firenze; ma che cosa era
avvenuto colà? Caduto il ministero? o il governo aveva fatto di
necessità virtù?

Tutte queste domande, ed altre consimili, mi giravano per la testa,
si urtavano, si arruffavano, si confondevano, senza trovar punto
risposta. A me e agli amici che erano nel caso mio avveniva allora quel
che avviene certe volte a chi beve un primo sorso dopo lunga penuria
d’acqua, che il bere gli accresce la sete.

Ma bisognò appender la voglia all’arpione, ovvero, poichè non c’era
un arpione, ai rami della quercia, sotto cui stavamo ad almanaccare.
Alle corte, l’essenziale era noto: Garibaldi era giunto; andava a
Scandriglia; e certo, dov’era lui, si passava il confine.




VIII.

Carabinieri Genovesi e Carabinieri Reali. Il passo difficile e
l’augurio del doganiere. Ricordo di Pietro Cossa.


Ce ne tornammo poco stante in paese, con la fronte alta e il piè
leggero. La famiglia del sindaco ci aveva fatta preparare la colazione,
e il corpo, partecipando alle contentezze dell’anima, non ricusò di
nutrirsi. Se vi dicessi che in quella occasione non si tracannò un
bicchiere più dell’usato, vi metterei qui una solenne bugia, e avreste
centomila ragioni a non credere più una sillaba di questo racconto.

L’ordinamento del battaglione era a buon punto: fatte le compagnie,
ognuno riconobbe i suoi ufficiali; ogni squadra i suoi sergenti e
i suoi caporali: poi si diè mano alla distribuzione e alla ripulita
delle armi, cose che destarono molta allegria nelle file. Non sempre
il volontario conosceva il suo fucile, ed io ne ho veduto dei molto
solleciti a buttarlo nel fosso; ma egli è sempre felice quando lo ha
per la prima volta tra mani; lo palleggia allegramente, ne prova il
grilletto, se è di buona _latinità_; si affretta a ripulirlo dentro
e fuori, lo vagheggia, insomma, come se fosse una innamorata. Se
poi è una carabina (dolce femminilità di sostantivo!) la gioia e la
sollecitudine sono dieci volte più intense; l’arme diventa una persona
viva, si giunge perfino a metterle un nome. La carabina di un amico mio
nella campagna del Tirolo si chiamava Ninetta; quella di un altro la
Scherzosa; e così via, tutte quante avevano un nome, soave o terribile,
serio o faceto, secondo l’umore dei loro innamorati padroni. Cosa che
avviene ancora per le sciabole. Quella di un mio collega si chiamava
la Sitibonda. — Buttala nel Chiese, gli diss’io quando ripassammo quel
fiume a guerra finita; si caverà finalmente la sete. —

Tornando ai fucili e alla distribuzione fatta, una trentina d’uomini
rimasero senz’armi; la qual cosa li addolorò grandemente. Li chetammo,
dicendo loro che di là dal confine, o ne avremmo avuto da altri
battaglioni meglio forniti, o alla prima occasione avrebbero raccolti i
fucili dei morti.

Eravamo ancora in quelle faccende, quando giunse il Pietramellara.
Egli aveva veduto il Generale, e portava la notizia che tutte le bande
raccolte nei dintorni di Scandriglia si mettevano in marcia. Noi pure
dovevamo andar subito al confine, ma senza passare per Scandriglia; e
il nostro itinerario, scritto a matita sopra un pezzetto di carta, era
questo:

“Evitare il passo di Osteria Nuova, e passare i monti di Toffia sopra
Carlo Corso; quindi per Carpignano scendere sullo stradale romano; colà
deviare, innanzi di giungere al passo di Corese, prendendo la traversa
che conduce a Montemaggiore.„

Non indugiammo ad obbedire. Le armi erano distribuite. Mandato avanti
con buona scorta il carro delle munizioni, salutati affettuosamente i
nostri ospiti cortesi, lasciammo Torricella alle due pomeridiane del
23 di ottobre, accompagnati da un’acquerugiola fine e continua, che
è, come pare, la solita benedizione del cielo per tutti coloro che
viaggiano a piedi.

Si scende, tuttavia, si scende di lieto animo, cantando il _Fratelli
d’Italia_ al buon popolo di Torricella che ci saluta dai margini della
strada maestra, dalle finestre dei casolari, dalle prode dei campi,
e poi dal marziale dell’inno di Goffredo Mameli passando al patetico
dell’_Addio, mia bella, addio_, dato prodigamente agli echi della
valle solitaria in cui siamo inoltrati, lungo la sponda di un corso
d’acqua di cui non ricordo più il nome, e ignoro se sia fiumicello
o torrente. La pioggerella è cessata; il sole si affaccia ancora tra
le nubi squarciate e le tinge di rosso; la sua tinta favorita delle
ore pomeridiane. È il caso, oramai, di ritrovare una guida, per farci
evitare Osteria Nuova, che può esser distante un’ora di strada; e già
si pensa a cercarla, quando si sente dietro di noi lo scalpitar di un
cavallo. Ci voltiamo a guardare e vediamo un cavaliere, mezzo vestito
alla buttera, come tutti i cavalieri della regione, con grandi calzoni
di pelle di pecora, o di capra, che non saprei dire esattamente, non
avendoci fatto grande attenzione, mentre tutta la mia curiosità era
attratta dal simpatico aspetto signorile del personaggio: un giovanotto
snello, dai baffi biondi, certo De Cupis di Poggio Mirteto, il quale,
dopo averci detto il suo nome e la sua qualità di guida garibaldina,
ci chiede a che distanza potrà ritrovare Garibaldi, per cui ha un
biglietto, e da consegnare al più presto.

Il biglietto è aperto; è del comitato di Rieti, e avverte il Generale
che l’ordine di arrestarlo è giunto da Firenze, e lo porta, insieme
coi mezzi di mandarlo ad effetto, un maggiore dei reali carabinieri,
seguito da trentasei uomini.

— Abbiamo dunque un nuovo ministero a Firenze? — chiesi io.

— Sì e no, — rispose il cavaliere, — si ritira il Rattazzi, è chiamato
il Cialdini, ma non riesce a comporre un gabinetto; intanto la
situazione è cangiata, ritornando quella di otto giorni fa.

— Quest’ordine lo prova. E di quanto precede Lei i carabinieri?

— Di un’ora; son corso a spron battuto.

— Vada, e buona fortuna; — gli disse il maggiore. — Garibaldi è passato
questa mattina, diretto a Scandriglia; se c’è rimasto, il che non
credo, ha tempo di avvisarlo. —

Il cavaliere saluta, tocca di sproni, e via di galoppo verso Osteria
Nuova.

— Ed ora, che cosa facciamo noi altri? — domando io al maggiore.

— Noi abbiamo il nostro ordine: passare i monti di Toffia. Per
cominciare, lasceremo la strada maestra un po’ prima del necessario,
andando a cercare mia guida di là dal fiume. —

Detto fatto, il maggiore ordina che il carro delle munizioni si cali
dalla sponda nel greto del fiume, o torrente che sia. Là sotto, e
nascosto dai cespugli che vestono la ripa, il carro è invisibile; noi
con esso, se staremo bene appiattati sotto l’argine. L’operazione in
venti minuti è felicemente compiuta; gli uomini si sono anche spartiti
i fucili e le munizioni levate dal carro, che rimarrà in abbandono.
L’intenzione era di metterci in armi al confine; ma come fare
altrimenti, in quella necessità? Dall’alto, verso Torricella, si sente
un fragor d’armi e io scalpitio d’una grossa cavalcata. È il drappello
dei carabinieri reali. Vengono rapidi, al trotto, e giunti al piano
della valle si mettono al galoppo. Andate, andate, e non vi venga in
mente di allungare il collo per guardare qui sotto. Li abbiamo a pochi
metri di distanza; passano; sono passati; e noi, appena li vediamo
sparire alla svolta dello stradone, ci togliamo dal nostro nascondiglio
per passare il greto e andare in traccia d’un contadino, o pastore, che
voglia farci da guida.

Un garzoncello, proprio allora, si affaccia al limitare del bosco.
_Lupus in fabula._ Alla vista di tanti uomini armati, senza la divisa
militare, ha avuto un momento di esitazione? o la curiosità soltanto lo
ha inchiodato laggiù, dove noi abbiamo potuto distinguerlo alla luce
del tramonto? Comunque sia, egli è presto accerchiato, ed anche con
bei modi rassicurato. Non gli si domanda altro che qualche ora del suo
tempo, quanto basti per metterci per la via più breve al passo di Carlo
Corso, evitando Osteria Nuova, poichè non abbiamo nessuna voglia di
bere: venga, sia buonino, e gli daremo per la sua camminata uno scudo;
anzi meglio, lo avrà in anticipazione. La moneta, infatti, luccica
agli occhi dell’adolescente e gli sdrucciola nella mano, macchinalmente
aperta per riceverla.

— Andate con Garibaldi? — chiede egli, come per isgravio di coscienza.

— Sicuramente; non lo vedi? Ci avevi presi forse per briganti?

— Oh, non ne avevate l’aria; — risponde egli ridendo.

E si avvia, guidandoci verso la macchia. Entriamo nella penombra, e
indi a poco nel buio. Egli intanto, sia che abbia presa troppo alla
lettera la nostra raccomandazione di condurci per la via più breve, sia
che voglia fare una piccola vendetta della inattesa passeggiata che gli
è imposta da noi, ci fa prendere un sentiero da capre, su pei meandri
d’una scogliera che non promette niente di bene, specie a quell’ora
tarda, con le ombre così pronte a calare dai monti, e con una certa
nebbia egualmente pronta a salire dal fiume. Ancora una mezz’ora di
quella salita, e siamo in una nebbia così fitta, che si dura fatica
a vederci due passi discosto. Ad un certo punto dell’erta, lo stretto
sentiero gira intorno ad una rupe, e non manca nemmeno una di quelle
soluzioni di continuità che son cagionate dalle piogge in tutti i
sentieri di montagna. La rottura non par troppo vasta, ma per contro
appare profondo l’abisso. Ci vuol pazienza; bisogna passare di là. Ma
come fare, coi fucili, che impediscono agli uomini di aiutarsi colle
mani lungo le pareti della roccia? Il maggiore salta per il primo e
si volge a prendere il fucile d’un soldato che lo segue; questi a sua
volta prende il fucile del compagno; e così via via, ad uno ad uno,
passano tutti trecento, senza capitomboli, senza perdita d’armi, che fu
veramente un miracolo.

La difficoltà del passo e la nebbia che c’impedisce di approfittare
dello scarso lume “onde son pie le stelle„, ci fanno perdere un’ora
in quel primo intoppo. Per colmo di sventura, usciti di là, entriamo
in una forra, che ci mena diritti alle spalle di un nero edifizio,
in cui Ludovico di Pietramellara non istenta a riconoscere la temuta
Osteria Nuova. Siamo proprio al punto che dovevamo evitare. Dove mai
ci ha condotti quel briccone di garzoncello Sabino! O non sarebbe il
caso di amministrargli un paio di scappellotti? Ma a che servirebbe la
collera? Meglio varrà pensare ai casi nostri. Se i soldati di guardia
al passo ci hanno sentiti, stanno prendendo le loro disposizioni per
venirci incontro. Una baruffa con soldati italiani è da cansare ad
ogni costo; non per questo siamo venuti al confine. Piuttosto è da
vedere se non ci sia modo di uscire da questo ginepraio. Ludovico ha
una buona ispirazione. Già due volte è passato di là: conosce oramai
il capitano; andrà lui ad esplorare, e, se occorre, a parlamentare.
Ottenuto il permesso dal maggiore, si avvia, gira il canto, e sta una
mezz’ora a ritornare; una mezz’ora che ci è parsa un secolo. Quando ci
capita davanti, Ludovico è fuori di sè dalla gioia; sto per dire che le
lenti, piantate sul suo naso, mandano lampi nella penombra notturna.
Il capitano, di cui temiamo tanto la vigilanza, è in una condizione
stranissima; già dalla mattina, quando Garibaldi è passato in carrozza,
stenta lui a trattenere i suoi uomini. Se passiamo davanti al posto,
chi li terrà più? Verranno tutti con noi; ed egli, infine, egli che
è italiano quanto noi altri, passerà per il primo. No, per carità,
gli ha detto il Pietramellara; aspetti uno o due giorni e l’annunzio
della prima vittoria; vedrà che le esitanze del governo cesseranno, e
tutti, quanti siamo, regolari e volontarii, ci troveremo alle porte di
Roma. Sia dunque inteso tra noi, che non passeremo davanti al posto, e
rispetteremo tutte le convenienze. Quanto a Lei, se per caso sentirà un
po’ di rumore nel bosco, pensi da buon camerata che a Lei hanno dato da
guardare la strada maestra, non le traverse da cacciatori, non le forre
da contrabbandieri.

La missione di Ludovico ci rimette l’anima in corpo. Il contadinello
Sabino, perduta la speranza di liberarsi dalla nostra compagnia, si
risolve di condurci per davvero sulla vetta del monte. Si va come si
può, per gli alpestri sentieri; ma in alto siam fuori della nebbia, e
ci si raccapezza un pochino. Peccato che da un casolare poco lontano
si desti un can da pagliaio. Abbaia, quel figlio d’un cane, dando la
sveglia e l’esempio a tutti i suoi colleghi del vicinato. Di qua, di
là, di su, di giù, tutti i cani della Toffia rispondono, abbaiando
disperatamente in tutti i registri, con tutti i metalli di voce.
Confesso di non aver mai sentito in vita mia un così fiero concerto di
cani, neanche a Parigi, nel _Jardin d’acclimatation_, quando è l’ora
del pasto per questi amici dell’uomo. Che diranno i padroni di tutta
questa canatteria? Se c’è lassù una pattuglia di carabinieri, o un
altro posto di soldati, buona notte, si può dir proprio di aver rotte
le uova in sull’uscio. Ma infine, perchè pensar sempre la peggio?
La luna era sorta; non si poteva anche credere che tutti quei cani
abbaiassero alla luna?

Due ore dopo la mezzanotte avevamo afferrata la vetta. Riuscivamo ad
una strada mulattiera, abbastanza spaziosa; e là, accanto alla strada,
si vedeva al lume della luna una piccola casa.

— Eccovi a Carlo Corso; — disse allora il contadinello Sabino.

Veramente, il nostro ordine scritto diceva: “passare i monti di Toffia
sopra Carlo Corso„. Ma oramai era fatta; quella casa non si poteva
evitare, bisognava passarci davanti, non sopra. E Carlo Corso era un
posto di doganieri, come ci fu agevole di riconoscere, vedendone due,
che spiccavano assai bene con le loro attillate uniformi sull’azzurro
bianchiccio del cielo.

Perchè mai quella casa avesse nome e cognome, io non so, non avendo
pensato a domandarlo. Fors’anche, se lo avessi domandato, quei
doganieri non avrebbero saputo dirmelo. Era ad ogni modo una casa
cristiana. Quei bravi doganieri, indovinato di che si trattasse,
ci fecero festa. Avevamo bisogno d’acqua, e ci diedero acqua; ci
occorrevano due ore di riposo, e i nostri uomini poterono allogarsi
in parte al coperto, in parte adossarsi alle mura dell’edifizio. Il
mio maggiore ebbe il letticciuolo del brigadiere, per ischiacciarvi un
sonnellino: io mi buttai sopra un forziere di noce, dove quell’ottimo
brigadiere teneva le sue carabattole. Ci avrei dormito benissimo, se
fosse stato più lungo ed avessi potuto stendermi tutto, come otto
anni prima, in Lombardia, avevo fatto sulla tavola da pranzo del
sindaco di San Martino, mentre l’amico Gordolon, mio tenente, dormiva
saporitamente in un letto monumentale.

Amico forziere dei doganieri di Carlo Corso, che bel sogno ho fatto
sul tuo coperchio di noce! “Sogna il guerrier le schiere„ ha cantato
il Metastasio; ma la osservazione psicologica non è niente più giusta
di quell’altra sua, zoologica, che gli ha fatto mettere la serpe in
concorrenza con l’ape, nel suggere i fiori. Io, lungi dal sognare
le schiere, sognai.... Ma no, non lo voglio dire: tanto, sul più
bello, il mio sogno fu interrotto dalla voce del maggiore, che mi
annunziava le cinque del mattino e mi ordinava di radunar gli uomini,
per rimetterci in marcia. Balzai in piedi, corsi fuori a svegliar la
mia compagnia, la seconda del battaglione, e, poichè tanto era tutta
strada, anche la prima, comandata dal Pietramellara, e la terza,
comandata dall’ingegnere Stangolini. In capo a dieci minuti eravamo
tutti pronti per la partenza; e ci avviammo subito, allegri come
pasque, dopo aver salutati con larga effusione di cuore i nostri bravi
doganieri. Rammento che il brigadiere ci augurò di giungere a Roma in
tre tappe. L’augurio, pur troppo, fu vano per noi: ma ad ogni modo il
brigadiere fu profeta. Le tappe erano ancora tre, per l’Italia, e di un
anno ciascuna. È figurato, il linguaggio dei profeti; e bisogna saperlo
intendere, bisogna!

L’aurora ci ritrova ancora sul colmo della montagna, tanti sono i giri
e i rigiri della strada. Sotto di noi s’indovina una valle; davanti
a noi si stende una lunga e larga veduta di vette, di colline, di
poggi, con borghi e castelli appollaiati sui culmini, come nei quadri
di Claudio di Lorena. Dal punto in cui siamo, per mezzo delle alture
digradanti, che incominciano a svolgersi da uno strato di nebbia
sottile ai primi raggi del sole, si scorge in lontananza una piccola
massa tondeggiante e dorata, in cui è facile riconoscere la cupola
di San Pietro, a cui nella nostra prospettiva sembra collegarsi una
lista d’argento, serpeggiante e luccicante; il Tevere, il Tevere che
ci fa da lontano la grazia di non parer biondo, col pericolo d’esser
chiamato limaccioso dagli irreligiosi nepoti. — _Vidimus flavum
Tiberium_, esclama Ludovico, dalla testa della sua compagnia. — _Velox
amoenum saepe Lucretilem_, rispondo io, stendendo la mano verso una
gran montagna che azzurreggia a sinistra. Almeno, dovrebb’esser laggiù
l’ameno Lucrètile, che _igneam defendit æastatem capellis usque meis
pluviosque ventos_. Giustissimo; ribatte Ludovico; e vedi più giù
la montagna di Tivoli, _mite solum Tiburis et moenia Catili_. — E di
qua niente? gridai io, accennando alla destra. Quel monte laggiù, che
innalza la sua negra cima nel fondo della pianura, non sarebbe per
caso il classico Soratte? — _Tu dixisti_, ripiglia quel capo ameno del
mio Ludovico. Tu lo vedi nero, stavolta; se aspetti un par di mesi, lo
vedrai magari bianco. _Vides ut alta stet nive candidum Soracte?_...

Dei immortali, quanto Orazio abbiamo snocciolato quella mattina sui
greppi di Toffia! Io e Ludovico di Pietramellara ci eravamo proprio
incontrati, con la nostra malattia citatoria. Dio li fa e poi li
appaia, come dice il proverbio. Ma questa del citare Orazio ad ogni
passo è veramente la malattia più terribile, quantunque non sia
contagiosa. _Il cite si souvent Homère et Horace, que c’est de quoi en
dégoüter_, ha lasciato scritto di un Tizio il famoso principe di Ligne.
Il nostro maggiore, che la pensa come il principe di Ligne, ci annunzia
ridendo che alla prima tappa ci manderà tutt’e due agli arresti.
Perchè? siamo nel Lazio, perbacco, e la lingua del Lazio è il latino.

Questo dello slatinare in vicinanza di Roma è una mania naturale.
Ricordo che nel 1878 si andò una volta in parecchi amici a visitare la
via Appia. Era con noi Pietro Cossa, che aveva stabilita una multa di
cinquanta centesimi per chiunque in quella gita non parlasse latino.
_Dura lex, sed lex_, e bisognava striderci tutti; anche in un latino
maccheronico, dovevamo parlare come Pietro voleva. Uno solo, romano di
Roma, non si sentiva di obbedire; amava piuttosto star zitto.

— _Silet hic noster_, — dicevamo noi, canzonandolo, — _sed latine
silet; ergo non multabitur_.

Ma quell’altro, intanto, cominciava a capire che a tacer sempre avrebbe
fatto una cattiva figura. Ad un certo punto, preso per mano il Cossa,
lo condusse verso certe rovine, che dovevano essere di una casa.

— _Et etiam latine gesticularis, probo_; — gli disse Pietro,
continuando la celia. — _Sed quid me vis? quid mihi videndum?_ —

L’altro seguitava coi gesti, indicando le rovine; finalmente, mezzo
affermando, mezzo chiedendo, gli disse:

— _Domus?_

— _Domus_; — rispose Pietro Cossa; ma poi, scappandogli la pazienza,
uscì in questa sentenza: — Ah, figlio d’un cane, non sai altro latino
che questo? —

Quel giorno fu Pietro Cossa che pagò la prima multa. Aveva parlato
italiano. Quel povero Pietro non sapeva consolarsene. Noi Io
paragonammo a Caronda, il famoso legislatore di Turio, vittima d’una
legge ch’egli stesso aveva proposta e che primo aveva violata.




IX.

Da Nerola e Montelibretti. La talpa e il ministro di Falconara. Ci
siamo.


Si scende la montagna a rotta di collo; io l’ho più misurata che vista.
In un’ora siamo alle falde; vediamo laggiù una valle stretta stretta,
con una lista di prato e una casa, un fiumicello ed un ponte. La casa è
l’osteria del Grillo; il fiumicello è il Ricco, salvo errore; il ponte
che lo cavalca segna il confine tra noi e il così detto patrimonio di
San Pietro. Abbiamo appena il tempo di raccapezzarci, quando una guida
si avanza, domanda se siamo i carabinieri genovesi del battaglione
Burlando, e avuta risposta affermativa ci consegna un ordine, scritto
in uno dei soliti pezzettini di carta. Niente è mutato nel nostro
indirizzo di marcia; solo v’è aggiunto che dobbiamo impadronirci di
Nerola, per proseguire ad un nuovo ordine verso Montemaggiore.

Nerola è quel castello che si vede lassù, sulla vetta di un colle
davanti a noi, di là dal ponte. A Nerola, ancora ieri, stavano i
Pontificii; bisogna assicurarci se ci sono rimasti, e se ci sono
bisogna sloggiarli.

Non è più il caso di far sosta all’osteria del Grillo, che del resto
è senz’oste e senza vino. Si passa il ponte, leggendo di volo la
iscrizione d’un pontefice che lo ha fatto costruire. Era l’uffizio
suo; _pontifex_ non significa forse in latino colui che fa i ponti?
Arrivati al piede della collina, che di là ci pare una montagna bella e
buona, ci stendiamo in catena, e prendiamo a salire secondo le regole.
La fatica non è poca; ma si sopporta volentieri. E così bello, dopo
tanti giorni di desiderio, fare la prima operazione di guerra! Giunti a
mezza costa, ci pare di veder gente lassù. Ci aspettano a tiro; andiamo
coperti più che si può. Ma che coperti? se sventolano i fazzoletti!
Ebbene, che cosa vuol dire? non potrebb’essere un tradimento? Amici o
nemici che siano, facciamo le cose a dovere. E si continua a salire,
trattenendo gl’impazienti delle prime file, sollecitando i più tardi
delle ultime. Così giungiamo al colmo della vetta, senza che ci abbia
salutati una palla. Son dunque amici lassù? Amici, di fatti, tutto
il popolo di Nerola, poco più di seicento abitanti, già vassalli dei
Colonna di Sciarra, oggi liberi cittadini di una libera patria.

Fin dalla sera innanzi, forse avvisati della presenza di Garibaldi che
da Scandriglia è sceso a passo Corese, i Pontificii hanno spulezzato
da Nerola. Tanto meglio; a nemico che fugge ponte d’oro. Ma la
prudenza comanda a noi di non fidarci troppo: ci sono certe eminenze
sulla nostra sinistra, Montorio Romano ad esempio, dove potrebbero
appiattarsi le insidie. La nostra prima cura è di mettere avamposti da
quella banda, e giù, verso la strada di Montelibretti. Poi si chiede
del sindaco, o governatore, o ministro, od altro che sia il personaggio
più importante della comunità. Viene il personaggio; dev’essere un
ministro di casa Sciarra; mette a nostra disposizione il poco che ha,
paglia fresca prima di tutto e la caserma dei gendarmi pontificii,
che porta ancora i segni della improvvisa fuga dei suoi abitatori.
Sono ancora appesi alle grucce i cappellacci a due punte, di forma
abbastanza napoleonica, e alle caviglie della rastrelliera le giberne
e le tracolle nemiche, pronto trastullo ai nostri uomini, che, essendo
“carabinieri„ amano fare un po’ di baldoria travestendosi da gendarmi.

È una scena di scappellotti, da far morire dal ridere. Ma ogni bel
giuoco dura poco, e i gendarmi ritornano carabinieri per far colazione.
Noi frattanto pensiamo che le compagnie sono formate bensì, e le
squadre divise, ma che non s’è avuto ancora il tempo nè il modo di fare
i ruolini. Si trova carta, penne e calamai; s’improvvisano tre furerie
ed una maggiorità; i penniferi si mettono tosto a lavoro. Veramente
provvidenziale, quella occupazione incruenta di Nerola!

Al maggiore e a me, che faccio anche servizio di stato maggiore, è
toccata una camera con due letti, presso una egregia famiglia del
paese. Ho il dolore di non ricordarne più il nome: bene ricordo una
bella signora, dagli occhi romanamente grandi e romanamente neri. È
lassù in villeggiatura, presso quella famiglia di buoni parenti suoi;
dovrebbe ritornare all’eterna città; ma i casi della guerra non glielo
permetteranno così presto; ad ogni modo, essendo buona italiana, spera
di rivederci laggiù. Accettiamo l’augurio, e lo mettiamo insieme con
quello del doganiere di Carlo Corso. Finalmente, verso le undici di
sera andiamo a riposarci, dopo aver visitati accuratamente i nostri
avamposti, dalla gran guardia fino alle ultime sentinelle.

Buon letto di Nerola, era scritto lassù che io non avessi tempo a
scaldarti. Avevamo appena chiuso un occhio, quando i piantoni vennero a
chiamarci. Era giunta allora allora una guida, e portava uno dei soliti
pezzettini di carta. L’ordine era questo: “Il battaglione Burlando
faccia viveri per un giorno e parta immediatamente per Montelibretti
avviato su Monterotondo„. Svelti, a terra, e vestiamoci. Del resto,
non eravamo spogliati che a mezzo. Dov’è il nemico? Sarà dove vorrà.
L’ordine, del resto, comanda la fretta, e quel dire “su Monterotondo„
scambio di “per Monterotondo„ significa che laggiù avremo forse
l’ostacolo.

Animo, dunque, a svegliar la gente e a far viveri. C’è una tromba nel
battaglione; ma non ce ne serviamo; i piantoni vanno essi ad avvertire
le compagnie, e i preparativi di marcia son fatti alla sordina. Il
ministro di Nerola è richiesto di viveri: non ha nulla da darci: già
aveva poco il giorno innanzi, e gli uomini avevano dovuto nutrirsi
del loro pane. Come fare? Basta, Iddio provvederà, a Montemaggiore, a
Montelibretti, dove parrà più opportuno alla sua misericordia infinita.

Nel cuore della notte, senza viveri, ma con molte speranze per viatico,
scendiamo dal poggio di Nerola. A mezza strada, levando gli avamposti
verso Montemaggiore, mi ricordo degli altri, lasciati indietro, verso
Montorio Romano; e corro a levarli, non perdendo, se Dio vuole, che
una mezz’ora di tempo. Il bravo sergente, un Randaccio dell’isola di
Sardegna, teneva saldo lassù. Aveva sentito il rumore e indovinato, da
vecchio militare del ’59, che si levava il campo; ma sempre da vecchio
militare aveva pensato che dove lo avevano messo gli bisognava restare.
Raccolto lui e la sua squadra, si va in giù a passo di corsa, ed anche
un pochettino a ruzzoloni, per raggiungere il battaglione, che ha
continuato a marciare.

Siamo sull’albeggiare davanti al poggio di Montelibretti. Si fanno
viveri? Ahimè! Montelibretti, interrogato dai nostri ambasciatori, non
ha niente per noi, non ha niente per nessuno; lo hanno spogliato, tra
la sera innanzi e la notte, altri battaglioni passati di là. Non c’è
più una misura di farina per i suoi stessi abitanti, non un sacco di
grano. Poveracci! come faranno? moriranno di fame? Eh via, speriamo di
no. Anche a Falconara, dove giungiamo intorno alle nove, è la stessa
canzone. Falconara, da non confondersi con quella d’Ancona, è la tenuta
di un principe romano. Parliamo col ministro, che giura, e spergiura
anco lui di non aver nulla di nulla. Neanche una goccia di vino, per
bagnarci la bocca? Neanche quella. Ma che è, che non è, mentre noi
stiamo parlamentando sul piazzale del castello, arrivano parecchi
dei nostri soldati, gridando. Cento passi più in la, vedendo un uscio
contro una ripa, e credendo che proteggesse una fontana, hanno sfondato
quell’uscio e trovata una cantina, riccamente fornita di botti, donde
hanno cominciato a spillare. C’è da sgridarli? No davvero; piuttosto
da fare una partaccia al ministro, che allibbisce e balbetta non so
che. Ma non è il caso di andare in collera; il disgraziato non franca
la spesa. Si va tosto alla cantina, e si mettono i piantoni, perchè
tutti bevano, in ordine, con discrezione, con misura, con garbo, senza
sprecare la grazia di Dio.

Falconara mi è rimasta in mente per un altro episodio. Mi ero fermato
sul piazzale, davanti ad un murello, dalla parte di Roma. La città
eterna, essendo noi già tanto al basso nella valle, non si poteva
vedere, intercettata com’era la vista da tante colline. Ma si vedeva
Monterotondo, o piuttosto s’indovinava che fosse Monterotondo, dai
lampi e dal rombo delle artiglierie, che incominciavano a farsi
sentire. Guardavo laggiù, aspettando che le compagnie avessero finito
di bere. Due soldati, frattanto, in un campo sotto i miei occhi,
seguivano certi movimenti del terreno, che si andava alzando via via in
una linea serpeggiante. Era facile indovinare che fosse: una talpa. I
due soldati, puntando le baionette, da un capo e dall’altro della terra
smossa, volevano chiuder la strada alla roditrice sotterranea.

— Perchè fate ciò? — domandai. — Sentite laggiù? Fra un’ora ci saremo
anche noi, e potremo lasciarci la pelle. Morituri, lasciamo vivere
quella povera bestia.

— Devastano i campi, le talpe; — mi rispose uno di loro.

— E lasciate che devastino. Ce ne vorrei trecentomila, a Falconara,
e che non lasciassero in piedi un gambo di grano o un piede di
vigna. —

Così fosti salva, o povera talpa di Falconara. Possa tu aver provate le
gioie della famiglia, ed essere stata consolata di numerosissima prole!

Digiuni di cibo, a mala pena rinfrescati dal vin cotto della cantina
sotterranea, si va, si accorre al cannone. A mezza strada c’imbattiamo
in un contadino che fugge.

— Che c’è? — gli domandiamo.

— Garibaldi jè dà ’na bella battuta; — ci risponde, seguitando a
correre.

— Buone notizie! perchè dunque scappi così?

— Io non scappo, torno a casa. —

E via come il vento. Lo lasciamo andare, facendo un po’ come la guardia
svizzera del Vaticano a cui (se la leggenda è vera) avevano data la
consegna di non lasciar entrare nessuno. — Non si entra! — gridò il
soldato ad uno che voleva forzar la consegna. — Ma io esco; — rispose
il cittadino. — Allora passi! — conchiuse lo svizzero.

Come abbiamo lasciato andare il contadino inerme, non lasciamo andare
otto o dieci armati, che son fuggiti dal campo. Li abbiamo incontrati
davanti ad una casupola, dove si sono affollati, chiedendo in malo
modo da bere. — “Che fate voi altri? perchè non siete al fuoco?„
domanda il maggiore. — “Tutto è perduto; si salva chi può„ ci
rispondono essi. — “Ah sì?„ grida il maggiore. “Allora deponete i
fucili„.

Non vorrebbero; ma egli incalza. — “I fucili, sì; parlo turco? i
fucili, che non sapete portare. A voi, — soggiunge, volgendosi a
quelli dei nostri che ne sono ancora sprovveduti, — levate le armi a
queste....„ E lascio il resto nella penna.

Disarmati, non senza difficoltà, nè senza scapaccioni, filano
borbottando, verso Montelibretti. Uno solo, com’è alla prima svolta
della strada, ardisce far fronte indietro e intuonarci un saluto
beffardo. Gli si punta addosso un fucile, e lui via, come una lepre, a
raggiungere i valorosi compagni. E per fuggire così, quei disgraziati
erano dunque venuti innanzi poche ore prima? Che orrore, il soldato
che fugge! Già l’ho sempre detto; io; l’uomo non è quella bellezza
d’animale ch’egli vorrebbe far credere nei suoi trattati di zoologia; e
spesso ci vuole tutta la sapienza d’un sarto, per renderlo tollerabile.
Ma l’uomo che fugge, è una cosa a dirittura indecente.

— Vuoi scommettere, — mi dice il maggiore, — che non c’è niente di vero
in ciò che hanno raccontato quei mascalzoni?

— Tengo con te, — rispondo, — e ci arrischio tutto quello che ho in
tasca.

— Allora sia per non detto; — conclude egli ridendo. — Ci hai messo la
_mezza sesta_. —

La _mezza sesta_ era una volta, in genovese, l’aumento di prezzo che
si faceva ai pubblici incanti. Si ripete ancora per celia, quando uno,
dicendo più di noi, vuol guadagnarci la mano. E basti della celia, e
dell’episodio ond’è nata.

Si corre, si corre, temendo sempre di non giungere a tempo, si corre
ancora con la lingua fuori, come i cani da caccia. Finalmente, ci
siamo; s’è afferrata una collina, dalla cui sommità si vede benissimo
la borgata di Monterotondo, stretta intorno alle mura di un grande
edifizio, il palazzo Piombino, dalle cui finestre e dall’orlo del muro
di cinta che ne protegge gli accessi, partono lingue di fuoco. Alquanto
più giù, certamente in una spianata sotto il muro, è l’artiglieria dei
Pontificii, che manda ad ogni tanto un lampo ed un tuono. Dal versante
della collina per cui scendiamo spediti, siamo forse a settecento metri
dalla piazza, poichè tra il lampo e il tuono non passano che due minuti
secondi. La scena è maravigliosa, illuminata da un sole stupendo.
Anche noi, sfilando per due sul declivio del prato, con le nostre
baionette luccicanti, dobbiamo fare una bella figura: certamente di là
amici e nemici hanno veduta la nostra ordinanza. I primi a darcene un
cenno sono i nemici. Il palazzo Piombino ha davanti a sè una valletta,
fiancheggiata da due eminenze, da due creste di poggio. La meridionale
è coronata d’un edifizio, il convento dei Cappuccini, la settentrionale
di un altro, il convento di Santa Maria, che non so a quali frati
appartenga. La valletta, dalla parte nostra, ha un canneto. Noi, tirati
insensibilmente dalla piega del prato, voltiamo verso i Cappuccini,
e al passo del canneto ci salutano cinque o sei palle, gnaulando.
Vengono senza dubbio dalle finestre alte del palazzo Piombino. Nessuno
è ferito, quantunque si offra bersaglio sicuro e continuo, sfilando
lenti, come facciamo, per non dar cattiva opinione di noi.

Ci hanno veduti anche i nostri. Di là dal canneto alcuni ufficiali
vengono alla nostra volta. Uno di essi è a cavallo: riconosciamo
il colonnello Frigésy, un bravo ungherese, venuto a combattere con
Garibaldi le battaglie della indipendenza italiana. È con lui il suo
giovane aiutante, Pietro del Vecchio. L’uno e l’altro ci accolgono a
braccia aperte.

— Giungete a tempo, non dubitate, — ci dicono. — Si è attaccato subito,
questa mattina, con le poche forze che si avevano alla mano, aspettando
i battaglioni via via d’ogni parte. Ma gli Antiboini resistono
fieramente. Hanno anche dell’artiglieria; due cannoni impostati
all’ingresso del palazzo Piombino. Bisognerà prenderli, o farli tirar
dentro ad ogni costo. Garibaldi è laggiù con Menotti a Santa Maria,
proprio sotto le mura. Ha due cannoncini, presi da una villa signorile;
ma fanno poco. Ora il fuoco si è un po’ allentato; si aspetta di fare
dopo il mezzogiorno un colpo decisivo. —

Le notizie date dal Frigésy erano buone per noi. Ricambiammo le nostre,
d’essere venuti correndo da Nerola, d’esser digiuni e senza viveri.
Il bravo colonnello ordinò tosto al suo aiutante di guidarci verso i
Cappuccini, dov’era il suo quartiere, e di farci dare un pane a testa.
Era bigio, di munizione, e, cosa rara, eccellente. Ma vedete stranezza:
ci era passata la fame; e così, dopo averne sbocconcellato un orlo,
tralasciammo di mangiare, mettendo il nostro pane ad armacollo, chi
con funicelle, chi con fazzoletti, chi con le fasce azzurre, levate di
torno alla vita.

Ai Cappuccini regnava la bella confusione degli accampamenti
improvvisati. Non mancava la nota triste, per un buon numero di
feriti, che erano stati collocati sulla paglia nel refettorio del
convento. I monaci dalle grandi barbe grigie facevano il debito loro
come infermieri e consolatori. Chi sa che cosa pensavano in cuor loro
quei frati? Sui loro volti non si vedeva dipinto che affetto e bontà.
Del resto, non avevano a lodarsi troppo delle schiere pontificie,
donde partiva il fuoco che devastava il convento, mettendo le lor
vite a gran rischio e sforacchiando con le palle da cannone il muro
di cinta della loro villetta. Tra i feriti e tra gl’illesi della
colonna Frigésy noi salutavamo intanto amici parecchi, fratelli d’armi
del ’66, compagni di baldoria o di passeggiata in tutte le città
italiane. Erano ciarle senza fine, discorsi senza capo nè coda, domande
e risposte intrecciate, interrotti, vaganti su tutti gli argomenti
possibili e immaginabili. Tra tante notizie, due sole ci furono acerbe:
il colonnello Mosto e il capitano Uziel erano caduti quella mattina,
feriti quasi ad un punto, nel riuscir che facevano da una vigna sul
piazzale del castello Piombino. Li avevano trasportati al convento di
Santa Maria: il primo con una palla alla noce del piede, il secondo con
una palla nell’addome. Poveri amici!

Il fuoco era cessato, o quasi. Seguiva un momento di sosta,
nell’attacco e nella difesa. In battaglia, si sa, la munizione si
serba volentieri per i momenti decisivi. Garibaldi (lo seppi poi)
approfittava di quell’ora per dar le disposizioni opportune ad impedire
che una colonna di Pontificii uscita da Roma, venisse in soccorso ai
difensori di Monterotondo. L’operazione gli riuscì magnificamente. Nè
altro io ne dirò: queste note son di viaggio, e di carattere personale;
accennano episodii, aneddoti, cose vedute e sentite; non hanno e non
possono avere la pretesa di raccontare una guerra.

Anzi, se permettete.... Ma no, non vorrei farvi perdere lo
spettacolo di quella sera, di quella notte e della mattina che
seguì, indimenticabili tutte. È un quadro, rimasto intiero nella mia
mente, un quadro maraviglioso, strano, a luce rossastra, come certi
finali di azioni coreografiche, dove i fuochi di Bengala confondono e
trasformano, ingrossano a proporzioni fantastiche uomini e cose. Non
ci rinunzio, adunque; racconterò. Ma badate, non è la storia delle
operazioni ch’io faccio; sono i ricordi miei che metto in carta, le mie
sensazioni che esprimo.




X.

La gran notte di Monterotondo. Ritratti garibaldini. Il capitano Uziel.


Lassù ai Cappuccini, e poi alla cascina Villerma dove ci mandarono
a far campo, si rimase lungamente in attesa, d’ora in ora aspettando
l’ordine di marciare. A romper la noia veniva di tanto in tanto qualche
schioppettata, con cui gli Antiboini (chiamati allora gli Antiboiani da
tutto il nostro piccolo esercito) tenevano l’occhio in esercizio. Verso
le quattro venne da noi un ufficiale, aiutante o guida che fosse, per
recarci gli aspettati comandi del capo.

A proposito, come si conoscevano gli ufficiali? Pochissimi, come il
colonnello Frigésy, come il generale Fabrizi e il capitano Alberto
Mario suo sottocapo di stato maggiore, avevano la camicia rossa
e i distintivi del grado intorno al berretto: quei pochissimi,
naturalmente, portavano al fianco la rivoltina e la sciabola. Pochi
altri avevano solamente il berretto e la sciabola; i più, solamente
la rivoltina, e vestivano alla borghese, come i soldati, anch’essi
capitati al confine coi loro arnesi cittadineschi, signorili o
popolani, con cui erano fuggiti da casa; e immaginate in che stato,
oramai! Soltanto dopo la vittoria di Monterotondo, i comitati avendo
potuto mandare a quella stazione parecchie centinaia di coperte di
lana, gialle o lionate, listate di rosso, di quelle che servono ai
cavalli nelle scuderie, i volontarii avevano preso a farci un taglio
nel mezzo, e nel verso della lunghezza, tanto da poterci passare la
testa, in modo che ricadessero i lembi sulle spalle e sul petto, come
le pianete dei preti. Quei lembi riuscivano tuttavia un po’ più corti;
ma non senza grazia, per certi partiti semplici di pieghe che facevano
sugli omeri, arieggiando nel garbo e nella varietà del colore il
_poncho_ americano di Garibaldi. Quanto ai cappelli, se ne vedevano di
tutte le fogge; pioppini a cencio, pioppini a testiera soda, cocuzzoli
acuti e falde più o meno larghe, alla calabrese, all’Ernani, alla
Bolivar, e via discorrendo. Mancava il Lobbia, che ancora non era
stato inventato dalla Regia dei tabacchi. C’era per contro un cappello
a staio, della forma più rilevata, della freschezza più autentica; il
cappello di Stefano Canzio.

Il futuro generale dell’esercito dei Vosgi era ancora semplicemente
maggiore, com’era uscito, ma con una medaglia d’oro al valor militare,
dalla giornata di Bezzecca. Indossava, secondo il suo costume
invariabile, un tutto vestito di nero; secondo il costume della
sua gioventù, portava in testa un cappello all’imperiale, dall’alta
testiera lucidissima, con le falde fortemente incurvate sulla fronte
e sulla nuca, fortemente rialzate e quasi rivoltate alle tempia, e
largamente orlate d’una trina di seta. Compiva il suo abbigliamento
cittadino un largo e lungo mantello bigio di cavalleria, dal cui lembo
anteriore, stando egli a cavallo, usciva la destra, portando una carta
di stato maggiore.

Era ancora maggiore, vi ho detto, il futuro cavaliere della carica
di Prenoy, e delle tre giornate di Digione, il futuro generale
della quarta brigata che doveva coprirsi di gloria alla fattoria di
Pouilly; ma anche in quel grado secondario era già il braccio destro
di Garibaldi, e si trovava un po’ da per tutto, per far eseguire gli
ordini di lui, o per trovar egli stesso cose nuove, ispirazioni sue
dal terreno, dalle mosse del nemico, da ogni circostanza, insomma;
partecipando in ciò della prontezza di spirito del suo generale. Io
ho veduto dei valorosi, con Garibaldi, l’epico, l’incomparabile eroe,
l’arcangelo delle battaglie; ne ho veduti moltissimi, saldi al fuoco,
calmi al pericolo, irruenti, magnifici, solenni, eleganti, tutto ciò
che si vuole, tutto ciò che è lecito immaginare, secondo le varie forme
del coraggio umano. Ma in verità non ho veduto mai nessun valoroso, tra
gli ufficiali superiori del grande Capitano, che come Stefano Canzio,
alla fermezza, alla imperturbabilità, allo slancio di tanti e tanti
altri, accoppiasse uno spirito così alacre, un ingegno così fecondo
di utili novità, una grazia così serena, una perspicacia così viva nei
momenti più critici.

Aggiungete che egli, possedendo la serenità e il buon umore, sapeva
comunicare altrui l’una e l’altro. Ma quello che negli altri era
appiccaticcio e girava facilmente allo spensierato, in lui era natura
di mente lucida che non cessava mai di riflettere, che non perdeva di
vista nessuna particolarità della battaglia e sapeva trar partito da
tutte. Un sorriso e una celia, passando, erano gittati agli amici;
ma l’occhio guardava intorno e giungeva lontano, vedeva dove fosse
da rimediare, dove da portare un aiuto, dove da togliere un inutile
spreco di forze, quando da rallentare, quando da tener fermo, quando
da spingere. Se tutto non andò per il meglio, in quella guerra
improvvisata, bisogna dire che le forze date dall’Italia d’allora non
erano pari al bisogno, e che i miracoli non sono faccenda di tutti
i giorni. Ma questo è un altro discorso: tornando a Stefano Canzio,
conchiuderò che in lui il soldato moderno era compiuto, sul campo; vera
stoffa di generale, e di quelli che non nascono tutti gli anni, nè su
tutti i bollettini di avanzamento. Se avessi ancora i miei vent’anni,
con quell’uomo per comandante, vorrei andare in capo al mondo, certo
di far sempre una buona figura. E basta, oramai: a buon conto mi sono
sfogato. Io sono di quelli a cui il dir bene della gente, quando n’è il
caso, non ha mai l’atto nodo alla gola.

Dov’eravamo rimasti? Ah, coll’ufficiale venuto a recarci istruzioni.
E piacevoli, infatti, poichè si trattava di muoverci. L’assalto era
stabilito per quella sera, sempre dalla parte del castello e della
porta Pia che gli stava da presso, un po’ verso tramontana. Anche il
borgo di Monterotondo aveva la sua porta Pia, come Roma, e con uguali
destini.

Ma qui non sarà inutile uno scampoletto di descrizione. Monterotondo,
il _Mons Eretum_ degli antichi, ricco di forse duemila quattrocento
abitanti, ricordevole a me per aver dato i natali a Raffaello
Giovaglieli, mio buon compagno d’armi e di penna, sorge alla sinistra
del Tevere, presso la strada ferrata che da Roma conduce ad Orte, e
comanda la carrozzabile che volta risalendo per Rieti; quella stessa
che noi avevamo fatta a ritroso. È rafforzato di mura dalla parte dei
monti, e ci ha due porte, la Pia che ho accennata, e l’altra, assai
vicina, che mette al piazzale del castello Piombino; così detto perchè
oggi appartenente ai Boncompagni Ludovisi, principi di Piombino. Ma
in altri tempi era dei Barberini, il cui stemma, azzurro seminato
di api d’oro, vi è ripetuto dentro, per tutte le grandi sale, sulle
pareti, nelle fasce sovrapposte, e credo anche nei soffitti. Dall’altra
parte, verso il Tevere, non ci sono più mura; il borgo scende a
ripiani di casupole e d’orti pensili verso un burrone, al cui piede
corrono fossatelli, sentieri e tragetti fino alla stazione della
strada ferrata. Noi avremmo potuto attaccarlo di là, donde non era
murato: ma del non appigliarci a quel partito c’erano parecchie e buone
ragioni: aspra la salita; frastagliato, anfrattuoso il terreno; ogni
scaglione difendibile con mezza squadra d’uomini, che avrebbero fatto
per cento. Inoltre, con pochi drappelli, non ancor battaglioni veri, e
già embrioni di colonne, ma composti per la più parte di gente nuova
al fuoco, Garibaldi giustamente temeva che troppi non si sbandassero
all’assalto. Quella stessa mattina anche ad attaccare dalla parte del
castello, dove tutti gli uomini si potevano invigilare e tener quasi
sotto la mano, non se n’erano forse sbandati parecchi? Noi li avevamo
pure veduti, gli otto o dieci fuggiaschi!

Ed ora, al racconto. Guidati dall’ufficiale al posto che ci era
assegnato, non andammo diritti verso il nemico, ma con una contromarcia
in mezzo ai vigneti riuscimmo alle spalle dei Cappuccini. Scendevano
frattanto le ombre della sera, e noi potevamo vedere i lumi che via
via si accendevano nelle stanze del castello, e negli ultimi piani
delle case vicine. Ad un certo punto l’ufficiale ci disse: — È là;
accostatevi quanto più potete alle mura, ma senza strepito, che il
nemico non si senta guardato da quella banda, donde forse tenterà di
fuggire col favor della notte, e dove voi dovrete inchiodarlo.

Questo ed altro che ci aveva detto l’ufficiale, bastò al maggiore
Burlando per distribuire le sue forze. Una compagnia prese a destra,
per collegarsi col battaglione Tanara che occupava una casa in
costruzione, davanti all’ingresso del castello. La comandava Enrico
Razeto, già tenente, e quel giorno innalzato al grado di capitano,
poichè il Pietramellara, per un ufficio di qualche importanza,
come pratico assai del servizio ferroviario, era stato mandato ad
occupare la stazione di Monterotondo. Con me e collo Stangolini,
sotto il comando immediato del maggiore, marciarono la seconda e la
terza, tenendosi, quanto più il terreno permettesse, collegato alla
prima. Così giungemmo davanti ad un canneto. I canneti, lassù, per
lo spesseggiar dei fossati, si alternavano colle vigne. Quello era il
più vicino all’abitato; subito dopo il canneto si affondava il letto
d’un rigagnolo; di là si rizzavano le mura del castello Piombino.
A cinquanta passi dal canneto, ordinato un breve alto, il maggiore
ci ripetè la raccomandazione di andar cauti. Volendo, con un po’
d’attenzione e di calma, potevamo trafugarci tutti là dentro, senza far
stormire una foglia. Ma sì, come persuadere a duecento uomini lo stesso
grado di attenzione e di calma? Entrati nel canneto, sentono il terreno
discendere; si aggrappano tutti alle canne; si rompono qua e là i fusti
nodosi e si divelgono stridendo. Il rumore ha destata l’attenzione del
nemico; non siamo ancor tutti in basso, e dalla spianata che è davanti
al castello si scorge un lampo, e un tuono lo segue; col lampo e col
tuono una grandine di ferro percuote, flagella, dirompe il canneto;
grida e gemiti rispondono allo schianto improvviso.

Non c’è modo di raccogliere i feriti, per allora, nè di contare
i morti; la bisogna più urgente è di correre al posto. Taciti, ma
fortemente commossi, stringendoci la mano come non avevamo fatto mai,
raggiungiamo il muro, e ci mettiamo in agguato. Intanto, al primo colpo
della mitraglia nemica verso il canneto, si sveglia una tempesta che
obbliga i difensori a guardarsi su tutta la linea di difesa: le bande
si spingono sotto; è da una parte e dall’altra un fuoco d’inferno,
che dura lungamente nella notte. I nostri, dalla spianata tentano di
avvicinarsi alle porte; ma inutilmente, da principio: la gragnuola
delle palle è così fitta da mozzare il fiato. Dopo un’ora di quel
frastuono si giunge ad accostare della stipa alla porta minore, e ad
appiccarvi il fuoco. Alla vampata fumosa si rischiara un po’ l’aria,
e in quella mezza luce rossastra si agitano ombre nere di assalitori.
Voci dall’alto del muro, come quelle delle furie dantesche dal sommo
delle mura di Dite, s’intrecciano in un suono con le voci del basso,
e in quel suono assordante si distinguono a tratti le più feroci
ingiurie, le più pazze imprecazioni, le più strane contumelie che
siano mai state pensate in due lingue e in una ventina di dialetti.
— _Lâches Garibaldiens!_ — Sì, venite, qui, canaglia, e ve lo daremo
noi il _lâches_! — Carne venduta! — _Vauriens! chenapans!_ — Brutti
boia! — Assassini! — _Brigands!_ — Mascalzoni! _Fioi de cani! Pito
ch’i seve!_ E taccio, per ragioni facili a indovinarsi, le gentilezze
maggiori; tralascio sopra tutto le genovesi e le livornesi, che nel
campo della ingiuria salace ottengono certamente la palma. Ma allora
non urtavano i nervi, non suonavano male all’orecchio; la gravità del
momento solenne toglieva la volgarità all’improperio, lo faceva parere
epico, omerico, tra il piombo che fischiava e crepitava per ogni dove,
mentre la fiammata si vedeva salire in vorticosi giri, e un gran fumo,
screziato di faville fantasticamente danzanti, involgeva le mura.

Il nostro maggiore non era stato alle mosse: aveva sentito gridare in
genovese; certamente la prima compagnia era impegnata; e lui sotto,
e noi dietro a lui, restando poca gente all’agguato. Ma che agguato,
oramai? Il presidio pensava a difendersi, non a fuggire. Tutti quanti,
in breve, correvamo verso la casa in costruzione, donde si sentivano
i nostri genovesi, e donde giungevano a noi le sonore invocazioni
parmensi di Faustino Tanara. Di lassù una più bella fiammata si
vedeva più oltre, davanti a porta Pia. Stefano Canzio aveva avuta una
delle sue felici ispirazioni. Raccolto dai vicini casolari tutto lo
zolfo avanzato ai coloni dalla cura dei vigneti, ne aveva fatto una
carrettata, con molta stipa e tronchi di legno. Il carretto era stato
spinto contro la porta, e un ragazzetto, garibaldino precoce, andando
dietro la mobile catasta, le aveva appiccato il fuoco. Bravo ragazzetto
volontario, vorrei ricordare il tuo nome! E si salvò ancora, il
coraggioso, tornò illeso alle file. Nè i difensori valsero a spegnere
il fuoco; tardi pensarono all’acqua; di spalancar la porta, liberare il
passo da quel brulotto rotabile, non c’era nemmeno a pensare; i nostri,
avanzati sotto il muro, e là nascosti in attesa, avrebbero fatta in due
salti la strada per entrar dentro alla svelta. Ce n’erano dei morti,
lì davanti, in gran numero: li vedemmo la mattina, tutti colpiti alla
testa, alla gola, al petto, o caduti bocconi, sulla propria ferita, i
valorosi!

La fiamma aveva fatto presa; in breve ora si abbronzarono, si
arroventarono gli assi chiodati; divamparono, cigolarono le poderose
imposte, diventando di bragia; un’ora dopo, la breccia era fatta; tra
gli avanzi del carretto e quelli dell’uscio, mentre cadevano ancora
a falde incandescenti i brandelli di legno, si ficcarono dentro i
più animosi, dilagarono nella strada maggiore del borgo, mentre i
difensori, chiuso da quella parte l’uscio ferrato del castello, si
mettevano al riparo. Un altro assalto, un’altra fiammata avrebbe dovuto
snidarli; ma oramai la difesa poteva durar poco; più per guadagnar
tempo ed agio alla resa, si erano rinchiusi, che non per vender cara
la vita. Due ore dopo, incalzati in quell’ultimo covo, gridarono di
volersi arrendere. A discrezione, per altro; così voleva Garibaldi,
che fu poi generoso, e li rimandò tutti (erano forse quattrocento) al
confine italiano.

Quella mattina, all’alba, vedemmo Garibaldi in tutta la gloria del suo
trionfo. Era venuto sopra un piazzale, e sedeva sopra un muricciuolo,
donde si scopriva la campagna verso il Tevere. Indossava la camicia
rossa e i calzoni bigi chiari, affondati nelle trombe degli stivali
alla scudiera, in una delle quali era collocato un lungo stile, dalla
guaina e dalla impugnatura gentilmente cesellata. Quel gingillo era la
sua misericordia; certo, in un brutto frangente ne avrebbe usato, non
volendo esser preso vivo da soldati del papa. Portava sulla camicia il
suo _poncho_, non quello di panno grigio della campagna antecedente in
Tirolo, che era nel fatto, e salvo poche modificazioni, un mantello di
cavalleria; ma un _poncho_ americano autentico, di stoffa a colori,
vergato di rosso e di azzurro, che io non so come l’arte scultoria
non ami ritrarre più spesso, tanto è elegante di caduta e di pieghe.
Non aveva il solito cappello catalano, dalla falda arrovesciata tutto
intorno alla testiera e foderata di velluto; portava invece un cappello
alla calabrese, di feltro nero, finissimo, contornato d’un largo nastro
di seta. Era di lieto umore; la vittoria colorava d’un tenero incarnato
il suo viso, negli ultimi anni un po’ cereo; la barba aveva ancora
bionda, con riflessi dorati, il labbro vermiglio, dolcissimo, e il
sorriso affascinante come la voce. Dal 1860, quando egli era a Genova,
per preparare la spedizione di Sicilia, non avevo mai più veduto
Garibaldi così giovane, così vivace nell’aspetto, così poeticamente
bello.

Erano intorno a lui Menotti e Ricciotti, Stefano Canzio ed altri
ufficiali superiori. Egli riposava un istante, e riposando speculava
tutto intorno la campagna. Noi, ottenuto l’abbraccio ch’egli dava
volentieri ai suoi Genovesi, tornammo al nostro primo alloggiamento
della cascina Villerma, dopo aver raccolti i nostri morti e i nostri
feriti. Avevamo avuto una ventina d’uomini fuori combattimento. Ma io,
prima di ritornare alla cascina Villerma, ero anche andato al convento
di Santa Maria, tramutato in ospedale, per vedere il colonnello Mosto
e il capitano Uziel, feriti; l’ultimo dei quali aveva allora allora
mandato attorno un compagno d’armi a chieder notizie di tutti gli
amici: dolce pensiero e solenne curiosità di morente!

Povero Uziel! Avevano potuto trasportare mezz’ora prima in una casa
privata il suo comandante Antonio Mosto; lui no, che la ferita,
gravissima per la posizione e non ancora esplorata, non permetteva
di levarlo dalla paglia su cui era stato deposto. Mi vide, e i suoi
occhi morati brillarono, e un sorriso gli sfiorò le pallide labbra
ombreggiate da baffettini neri, tanto più neri su quel viso smorto. Mi
tese la mano e volle stringer forte la mia, ma non potè: ben poteva
parlare, quantunque a mezza voce, per chiedermi di tutti gli amici.
Diceva ad uno ad uno, lentamente, i nomi che gli venivano alla mente;
ma era uno sforzo, e volli risparmiarglielo, dicendoli io come mi
venivano ricordati.

— Io son morto; — mi disse; — la palla è nel ventre.

Gli rammentai allora qualche amico a cui era toccata una sorte uguale,
e che pure non era morto. Accettò la consolazione, forse per non avere
a discutere. Volle farmi vedere il suo portafogli, che aveva fatta
deviare la palla, restandone lacerato in un angolo. E tante altre
cose mi accennò, più che non disse, il povero Bepi, come lo chiamavamo
noi tutti nella intimità della vecchia amicizia; nè tutte le cose che
accennò sono da ripetersi qui.

Giuseppe Uziel era nato a Venezia; fanciullo, coi parenti esuli, era
venuto a Genova, e la nostra città fu patria seconda per lui. Qui
studiò, amò, sofferse, divenne uomo, insomma, adoperandosi in tutte
le lotte aperte, in tutte le preparazioni di lotta. Dal ’58 in poi non
era stato tentativo patrio, non guerra, che non lo avesse volontario e
prode soldato. Tale era stato in Lombardia, tale in Sicilia, tale nel
Trentino e nell’Agro romano. Comandava la prima compagnia del primo
battaglione genovese, agli ordini del Mosto; con lui saliva animoso
all’assalto di Monterotondo, e là, davanti alla spianata del castello
Piombino, una delle prime palle nemiche lo aveva fulminato nel ventre.

Fin da principio non c’era da sperar nulla; ed io bene lo intendevo,
prendendo commiato, e promettendo di ritornare. Più tardi, il vederlo
resistere, mercè la sua vigorosa complessione, ai naturali progressi
del male, lasciò credere che Giuseppe Uziel avrebbe potuto scamparla.
Esplorata la ferita, tre giorni dopo la mia visita, anch’egli era stato
trasportato in una casa privata, dove lo seguivano le amorevoli cure di
due compagni d’armi, e donde ogni giorno uscivano parole di speranza a
confortare gli amici.

La mente dell’infermo era tutta agli eventi, alle fasi della campagna,
ad ogni più minuto particolare dei fatti quotidiani. Noi, come e quando
lo permettevano le distanze e gli obblighi del servizio, facevamo or
l’uno or l’altro la trottata fino a Monterotondo, per vedere il povero
Bepi. Come si colorava il suo viso smorto, come si ravvivavano i suoi
occhi languidi, udendo che i nostri fuochi splendevano davanti a Roma,
dalle alture di Marcigliana e di Castel Giubileo, e che Garibaldi si
era spinto sul monte Sacro, coi due battaglioni genovesi, di contro
alle porte della fremente città!

Sapeva di esser condannato a morire; sorrideva incredulo ai pietosi
pronostici; l’ultima cosa di cui si dèsse pensiero, sebbene gli
dolesse atrocemente, era la sua triste ferita. E ne diede una nobile
testimonianza nella sera del 3 novembre. L’atto suo, le parole, furono
di uomo dei tempi antichi, allorquando pugnavano Epaminonda e Pelopida,
cantava inni Tirteo e dettava istorie Tucidide.

Mentana era perduta per noi. Dodici O quattordici migliaia di
combattenti, bene armati, bene equipaggiati, muniti di artiglierie,
non lasciati soli, nè sconfessati dai loro governi, soverchiavano i
duemila intrepidi che tennero fermo al fianco di Garibaldi. Al rombo
del cannone in lontananza, Giuseppe Uziel intese che si combatteva
nella direzione di Tivoli, e il cuore gli soggiunse che avremmo vinto.
Quattro ore più tardi, il fischiar delle palle fino a Monterotondo,
lasciò capire al ferito che i suoi compagni d’armi avevano pur fatto
una resistenza vigorosa, ma che la giornata era perduta, e il nemico
alle porte del borgo.

E allora, in un impeto d’amor patrio, tentò sollevarsi per la prima
volta dal letto. Voleva la sua rivoltina, la voleva ad ogni costo.

— Là.... alla finestra! — gridava. — Trasportatemi là; voglio morir
là.... facendo l’ultimo colpo. —

Ed era già sceso a mezzo; ma le forze estenuate non corrisposero
all’animoso proposito. Ricadde inerte sul letto, col rantolo in gola.
L’agonia di Giuseppe Uziel era incominciata: tre giorni dopo, il
valoroso carabiniere genovese era morto.




XI.

Un fraticello domenicano. I casi sacri di Fornonuovo. Da Fidene alla
Cecchina.


Continuerò? La tentazione è forte; ma è pur grande la riluttanza.
Nondimeno, ci sono ancora dei ricordi buoni: raccontiamo dunque, alla
svelta.

Quel giorno, il 26 di ottobre, era stato speso nei pietosi uffici
che vi ho detto e nelle cure del nostro collocamento alla cascina
Villerma, buona e cara conoscenza del giorno avanti. Dormimmo là,
occupando le poche camere, le scale, il fienile, la tettoia dei carri
e via discorrendo. La mattina dopo, senza alcun merito mio, e senza
gusto, vi prego di crederlo, ero chiamato come giudice al tribunal
militare, improvvisato in Monterotondo. Si trattava di giudicare tre
gendarmi pontificii, sfuggiti alla capitolazione, e per colpa loro;
poichè, scambio di mettersi in riga cogli Antiboini, erano andati a
rimpiattarsi in certe cantine, donde il popolo li aveva snidati. E
c’era per giunta un fraticello domenicano, trovato nascosto anche lui,
sebbene potesse, e con più ragione dei gendarmi, mettersi in mostra coi
soldati, che lo avevano per cappellano militare. Che imprudenza era
stata la sua! E serbava ancora un taccuino, nel quale aveva scritti
giorno per giorno i suoi miti pensieri. C’erano invocazioni a Maria,
abbastanza affettuose, per chiederle il trionfo della buona causa; ma
c’erano anche delle impertinenze, che si possono dire da soldati, nella
rabbia, ma che non si scrivono, a mente fredda, e anche meno da frati.
S’intende che eravamo tutti briganti, per il bianco vestito annotatore;
ed anche codardi. “Sono comparsi, — scriveva egli, — ma non osano
accostarsi, i vili!„ Dove avesse poi presa questa notizia, lo saprà
lui. I vili di cui sopra, appena comparsi, avevano attaccato. Ma non
ci fermiamo a piatire per queste bazzecole. C’era di peggio, per lui.
Parecchi soldati nostri affermavano con giuramento di averlo veduto,
la mattina della battaglia, affacciarsi ad una finestra del castello,
puntar la carabina e sparare: cosa anche meno da frate; almeno secondo
le idee moderne sulla soggetta materia.

Il tribunale era composto del colonnello Pianciani, presidente, di me,
e del tenente Enrico Copello, giudici aggiunti; faceva da segretario
il tenente Luigi Morandi, già noto all’Italia come gentile poeta, più
tardi come prosatore valente e come maestro di umane lettere al giovane
principe di Napoli.

Così, mentre i miei compagni lasciavano improvvisamente gli alloggi
della cascina Villerma per scendere sulla linea della strada ferrata
in attesa di proseguire verso Roma, noi eravamo occupati a ministrar la
giustizia sommaria. Il tribunale fu umano; mandò in prigione i gendarmi
e in prigione il frate: quest’ultimo senza darne sentenza, che, dopo
le testimonianze gravissime, sarebbe stata dolorosa, e rimettendo il
giovane domenicano alla clemenza di Garibaldi. Ciò non era secondo le
norme del diritto, nè della procedura penale; ma contentava la nostra
coscienza, e cui non piace la sputi. Garibaldi lo lasciò in carcere,
per custodirlo contro le ire di molti; l’ultimo giorno delle nostre
imprese sul territorio nemico, il fraticello fu rilasciato libero al
confine, senz’altro danno che la paura. Non fu riconoscente, per altro;
e me ne duole moltissimo, rispettando io i frati, non essendo stato
il più tiepido dei giudici a favorirlo, e avendo ottenuto dall’ottimo
presidente che perorasse quella stessa notte presso Garibaldi la causa
del disgraziato. Egli scrisse, di fatti, un anno dopo, o giù di lì,
una _Mano di Dio negli ultimi avvenimenti_, in due volumi, se ben
ricordo, dicendo corna dei giudici. Quel piccolo martirio incruento gli
sarà giovato, del resto; credo che oggi sia cardinale; certo, del suo
casato, ce ne son due nel sacro Collegio.

Quella sera, mentre il Pianciani galoppava a Santa Colomba, dove
Garibaldi aveva portato il suo quartier generale, io galoppavo in
traccia dei miei compagni genovesi. Mi accolsero a festa, in un casotto
di guardiani della strada ferrata; senza viveri al solito, ma con
un fiasco di vin bianco, regalato dalla signora Mario, in compenso
dell’averle trovato un ricovero per i cavalli della sua carrozza
d’ambulanza.

La mattina del 28 eravamo in marcia da capo, e occupavamo la chiesetta
di Fornonuovo. Visitando la sagrestia, trovammo paramenti sacerdotali,
che riponemmo nei cassettoni, sotto la guardia dei nostri soldati. Ma
c’era anche un astuccio di cuoio, con le api barberiniane impresse in
oro; dentro l’astuccio un bel calice con la sua patena d’argento, in
alcune parti dorato. Vasi sacri; che ne faremo noi?

— Ciccetta! — dice il maggiore al sottotenente Pozzo, un rosso
simpatico, milite di tutte le guerre garibaldine, a cui il suo nome
di Giovan Battista ha fruttato il vezzeggiativo genovese di Ciccetta.
— Prendete questo astuccio, portatelo sulla collina, al Generale. Noi
non vogliamo tenere in custodia argenterie. Non si sa mai; un giorno,
qualche nemico pettegolo potrebbe gabellarci per ladri. —

Garibaldi aveva posto il suo mobile quartiere a Santa Colomba. Va
il nostro Pozzo lassù, e ritorna a sera inoltrata, ancora col suo
astuccio tra le mani. Il Generale non ha voluto ritenere il deposito;
gli scopritori ne facciano quello che credono. A noi, per la ragione
accennata dal maggiore, dava noia tenerlo in custodia. Che custodia,
poi, in guerra, con tanti pencoli di smarrirlo, o di lasciarlo sul
campo? Una mia idea, venuta lì per lì, piacque molto al maggiore.

— Domattina, se non si marcia al nemico, non possiamo fare una
galoppata fino a Monterotondo? C’è lassù quel canonico Tolti, nella cui
casa, ier l’altro, abbiamo mangiato, pagando la spesa, un pezzo di pan
bigio e uno spicchio di lesso. Che ti pare? consegniamo il deposito a
lui? —

Detto, fatto. All’alba del 29, saputo che si rimarrà tutta la giornata
a Fornonuovo, inforchiamo i bucefali. Avevamo requisiti i due cavalli
il giorno prima.

Quello del maggiore era discreto; il mio aveva una bella apparenza,
e trottava anche benino; ma aveva lo spavento, e quel moto convulsivo
che a quando a quando gli prendeva nei muscoli esteriori dello stinco
e flessori del piede, era una morte per chi gli stava sopra e per chi
gli camminava vicino. Ben me ne avvidi a Mentana, che fui costretto
ad appiedarmi, per non isfondare io stesso la mia compagnia con quella
povera brenna arrembata, che faceva un passo avanti e due indietro.

Giungiamo a Monterotondo, col nostro involtino penzoloni dal pomo
della sella, e smontiamo dal canonico Totti; un vecchio di settantasei
anni, alto alto, un po’ curvo nelle spalle e mezzo cieco. Ci fa buona
accoglienza e ci domanda, non senza un po’ d’ironia interiore, se siamo
già di ritorno dalla nostra marcia in avanti.

— No, reverendo; fermi soltanto per poche ore, ma si prenderà la
rincorsa. Eccole qua la ragione della nostra visita: abbiamo trovato
questo negozio nella sagrestia della chiesetta di Fornonuovo. Sia che
entriamo a Roma noi, sia che usciamo dal cosidetto patrimonio di San
Pietro, com’Ella sicuramente ci augura, si celebreranno ancora delle
messe a Fornonuovo ed altrove. Prenda questi vasi sacri in regalo,
in consegna, come le parrà meglio; solo per nostra soddisfazione ci
rilasci due righe di ricevuta. —

Il canonico si profonde in ringraziamenti e in elogi; vuole da noi, per
ricordo, un atto di consegna; per contro ci fa un atto di ricevimento,
che il maggiore intasca e conserva. Noi si ritorna al nostro campo,
dopo aver mangiato (e questo senza pagare, confessiamolo) un tozzo
di pane e un mazzo di ravanelli, conditi con olio, sale e pepe;
l’unica grazia di Dio che avesse allora in cucina il nostro vecchio
ospite. Oh, non fo per dire, ma noi, nell’Agro romano, si è vissuti
nell’abbondanza. Cincinnato e Fabrizio possono andarsi a riporre.

Quella sera si ripartì con tutto il battaglione dalla povera sede
di Fornonuovo, per andare alla poverissima della Marcigliana. Dico
poverissima, perchè non ci trovammo niente, neanche una chiesetta da
starci al riparo; per giunta, nella notte, senza fuochi, riposammo
sotto una pioggia fitta, non avendo che il cappello tirato sulla faccia
per coprirci i connotati, e le braccia incrocicchiate per difenderci
il petto. La mattina del 30 avemmo lo spettacolo di un albero che
pareva tutto carico di foglie, e ad un tratto le perdette tutte quante,
sparpagliate in tutte le direzioni, senza che ci avesse lavorato il
vento. Non erano foglie, ma corvi, che c’erano stati a dormire, e
andavano a cercare la colazione. Beati loro! noi l’aspettammo fino a
mezzogiorno, e fu una distribuzione di pan bigio, venuto dalla stazione
di Monterotondo; magnifico, incomparabil presente del comitato di
Terni.

La sera del 30 siamo in marcia da capo, e giunti a Castel Giubileo
abbiamo l’ordine di fermarci a bivacco. Parecchie squadre, comandate,
vanno attorno per legna, di cui fanno cataste sulla fronte del campo,
dalla parte di Roma. L’eterna città deve scorgere i nostri fuochi,
allineati a sette chilometri dalle sue mura. Garibaldi vede il suo
piccolo esercito dall’alto di una eminenza su cui è murato un edificio
nerastro che ha per l’appunto il nome di Castel Giubileo. La guida del
Baedeker dice che la fabbrica si denomina da una famiglia Giubileo; ma
in pari tempo nota che il castello fu edificato nel 1300 da Bonifazio
VIII. Ecco due notizie diverse e mal maritate da un compilatore
frettoloso. Se è il papa Caetani che ha fatto edificare il castello
nel 1300, è chiaro che il nome di Giubileo deriva per l’appunto dalla
grande solennità cattolica apostolica e romana di quell’anno, e la
famiglia Giubileo non ci ha niente a vedere. La eminenza su cui il
castello è murato era l’acropoli dell’antica Fidene; piccola acropoli
di ottantun metro d’altezza, per una piccola città di poche migliaia
d’abitanti.

Pensando che avrei dormito poco, sul ciglio della strada, e non avendo
nessuno di noi un pizzico di tabacco per caricare la pipa del maggiore,
la famosa pipa che faceva il giro della brigata come la coppa convivale
degli antichi, feci la salita del castello, per andare a chiedere un
po’ di limosina agli amici del quartiere generale. Garibaldi, fiore
di cortesia, saputo il bisogno mio, volle regalarmi addirittura un
mazzo di sigari di Nizza; i suoi prediletti, per ragione della terra
natale, io credo, non già per la intima bontà della concia; sigari
biondi chiari, con un sapore di foglia di castagno, a cui non seppi
avvezzarmi. Gli amici li gustarono meglio: tanto che me li presero
tutti. Ma io non portavo solamente sigari, da castel Giubileo; portavo
anche notizie e induzioni. Due guide borghesi erano annunziate e
introdotte presso il generale, mentre io stavo lassù. Non erano
semplici guide, erano amici travestiti; uno di essi, il maggiore
Guerzoni. Venivano allora da Roma, donde avevano potuto uscire con un
pretesto, in arnese da contadini. Recavano l’annunzio che tutto era
pronto per una insurrezione in città; ma che, per incominciare, si
voleva aver Garibaldi alle porte. Era facile d’indovinare la risposta
del generale, e facile d’intendere che quella notte si sarebbe dormito
poco.

L’ordine di marcia fu dato alle quattro del mattino. Splendevano
ancora i nostri fuochi sulla fronte del campo, e il piccolo esercito,
precedendolo i carabinieri genovesi, era in marcia per certe colline
sulla sinistra della strada maestra. Quante colline, o Dei immortali!
Pareva che non volessero finir mai. E tutte simili, ancora; basse,
lunghe, ignude, frammezzate da insenature, frangiate qua e là da un
po’ di macchia nana, il cui verde cupo contrastava col verde tenero
delle praterie, che in quella penombra s’intravvedeva tinto di brina.
Un odor di mentastro, abbastanza gradevole, ci giungeva alle nari, a
mano a mano (quasi sarebbe il caso di dire a piede a piede) che noi
calpestavamo l’erba di quei prati; i quali non volevano finir mai. Ne
abbiamo misurati sei chilometri almeno.

Cauti e spediti ad un tempo, silenziosi, con avanguardie e
fiancheggiatori, osservando tutte le insenature, esplorando tutte
le piccole macchie, procedono i nostri due battaglioni. Sempre più
volgendo a sinistra, verso le otto del mattino vediamo il primo segno
d’uomini in quella solitudine; una casa sopra un rialzo di terreno e
un muro di cinta, che indica una fattoria. È il casale, anzi l’osteria
della Cecchina. C’è un oste, ma senza vino, bensì con un pozzo in mezzo
al cortile, e perciò con dell’acqua a volontà; un’acqua che egli ci
offre, o ci lascia prendere, rompendola con una filza di sagrati. Par
di sentire il locandiere di Rieti.

Riposiamo un tratto, bevendo acqua, e ci frughiamo nelle tasche
per ritrovare un’ultima crosta di pane. Improvvisamente, si dà il
comando di rimetterci in marcia. Si sono sentiti degli spari, laggiù
a mezzogiorno. Corriamo uscendo dal cortile, per una carraia che va
verso Roma. Che cos’era avvenuto? Garibaldi, uso a muover sempre alla
testa delle proprie avanguardie, aveva incontrato laggiù, a Casal de’
Pazzi, una vedetta nemica; quattro o cinque cavalieri pontificii, che
avevano scaricate contro di lui le loro pistole d’arcione, fuggendo
tosto a galoppo, a carriera. Egli era rimasto illeso; ferito appena, ma
leggermente, uno de’ suoi ufficiali.

Ci avviciniamo anche noi a Casal de’ Pazzi, dove abbiamo queste
notizie. La fabbrica non è di casale che nella apparente rusticità
dell’intonaco: nel complesso della membratura è un palazzo, e ci pare
un castello murato tra il cinquecento e il seicento; rammodernato
nell’ottocento, s’intende. Sarà quel che vorrà essere; io, curioso
della campagna e della prospettiva, non sono entrato a vederlo. Mi par
di ricordare che fosse un’abitazione abbastanza signorile; rammento di
aver letto nei _Miei ricordi_ di Massimo d’Azeglio che così l’avesse
ridotta un cardinal Morozzo, suo zio, che non pare ne fosse lodato come
savio nella scelta del luogo. Sicuramente c’erano parecchie comodità
di cucina e buone provviste di dispensa, forse non potute portar via,
per la nostra repentina apparizione. Tutte queste cose le ritrovarono
alcuni dei nostri, che sotto la direzione dell’amico Ciccetta
impastarono farina a gran furia e scaldarono un forno, per preparare il
pane ai compagni.

Questo Casal de’ Pazzi è piantato sull’estremo lembo di una
collina lunga, che va con dolce declivio a finire sulla riva destra
dell’Aniene, di contro all’ingresso del ponte Nomentano. La collina è
fiancheggiata da due insenature; una a destra, assai poco sensibile,
che la collega ad altre colline; l’altra a sinistra, che si avvalla
alquanto di più, ricevendo le acque di un rigagnolo, e dando campo
alla via Nomentana, che muove di lì risalendo a tramontana, verso
Monticelli, Sant’Angelo e Palombara. Ma non ci occupiamo delle cose
lontane; siamo sulla collina pianeggiante, solcata per lungo dalla
carraia che congiunge l’osteria della Cecchina a Casal de’ Pazzi. La
carraia è orlata, sul margine di sinistra, da una rada piantata di
pini, ancor giovani; a destra da motte di terra, da zolle, che fanno un
po’ di ciglione. I nostri uomini, per comando del Generale, si pongono
a sedere lungo il ciglione, e ne rimangono coperti benissimo; riposando
possono mangiare il loro pane, se ne hanno, e una fetta di carne che è
stata loro distribuita poc’anzi. S’intende che è carne cruda, e debbono
arrostirsela lì per lì. Le legna non mancano; ci sono le staccionate
dei campi, per darne al bisogno, e più in là.




XII.

Sul monte Sacro. Favola antica e storia moderna. La mia bella giornata.


Garibaldi è là in piedi, sul colmo della collina, intento a guardare
tutto intorno, con gli occhi leonini socchiusi, eppure sfolgoranti
sotto le ciglia aggrottate. Non è di cattivo umore, per altro; se
fosse, avrebbe il cappello tirato sugli occhi. Qua e là, solitarii
in contemplazione, o raccolti a crocchi, gli ufficiali del quartier
generale, dello stato maggiore, e dei battaglioni genovesi; da
quindici a venti persone. Sulla destra, in lunga fila appiattati, i due
battaglioni che ho detto, un po’ smilzi, cinquecento uomini in tutto, i
cui avamposti arrivano laggiù, sotto il ciglio della collina, in vista
del ponte Nomentano. L’insidia è tesa, se a qualcheduno venisse voglia
di farsi avanti, attratto dall’esca di quelle quindici o venti persone
in piedi sul poggio, e lontanamente visibili. Certo, di contro a forze
considerevoli, quell’agguato di cinquecento uomini sarebbe povera
cosa; ma c’è indietro dell’altro; c’è il grosso dell’esercito, dietro
le colline donde noi siamo venuti; le colonne di Menotti e del Frigésy
hanno le loro avanguardie in certe piccole macchie, che si vedono a
tramontana, forse quattrocento metri più indietro.

Lo spettacolo, intanto, è maraviglioso di lassù. Vedo davanti a me,
oltre la linea serpeggiante dell’Aniene, distendersi una campagna
arsiccia, in parte coltivata, sparsa di radi edifizi, orlata nel
fondo da masse d’alberi e di non bene distinti edifizi, forse di
ville signorili, o di abitazioni suburbane. Là dietro è Roma, l’eterna
città, riconoscibile da pochi tratti monumentali e solenni: una fila
d’archi, a sinistra, l’acquedotto di Claudio; poco lontana da quegli
archi una gran mole quadra, listata di colonne, sormontata da statue,
San Giovanni Laterano; più in là, sulla destra, una cupola immensa,
coronata d’un globo dorato, San Pietro; finalmente, all’estrema
sinistra, l’eminenza di monte Mario, con la sua piantata di cipressi,
che dà l’immagine d’un manipolo di cavalieri in vedetta. La gran scena
è tutta circonfusa di quella luce rosea, vaporosa e calda, che è una
bellezza propria della campagna romana.

Mentre io sto contemplando quello spettacolo così nuovo per me, una
mano mi si posa sulla spalla; e subito dopo una voce dolcissima, che
ben riconosco, mi dice:

— Sapete dove siamo?

— No, generale, vedo questi luoghi per la prima volta.

— Sul monte Sacro.

— Ah! — esclamai. — Per monte, tuttavia, è un po’ basso.

— Agli occhi del capo, ve lo concedo, — rispose Garibaldi,
sorridendo; — non già a quelli della storia. Qui il senatore
Menenio Agrippa raccontò la sua favola dello stomaco e delle membra
ribellate, persuadendo la plebe ammutinata a ritornare in città. Qui,
secondo alcuni, e non sulla strada Latina, Marzio Conciano si accampò
coi suoi Volsci, e vinto dalle preghiere della madre Veturia levò
l’assedio dalla sua patria.

— E noi, generale, se la domanda è lecita, — osai dire, — che cosa ci
faremo?

— Una breve fermata, io spero; — rispose il generale. — Aspettiamo
un segnale di là; — soggiunse, dopo un istante di pausa, accennando
davanti a sè, verso San Giovanni Laterano. — Appena il segnale sia
dato, intenderemo che la insurrezione è scoppiata in città; passeremo
l’Aniene, e ce la faremo a correre.

— Intendo; — diss’io. — Ma non ci sono le mura, che ci tratterranno,
così pochi come siamo?

— Le mura son rotte, laggiù; — replicò egli, indicando l’acquedotto di
Claudio. — Tra vigne e orti, si può entrare benissimo. —

Avevo già indovinata la mossa fin dalla sera innanzi, a Castel
Giubileo; e là, finalmente, ne avevo la conferma dalle labbra del
grande capitano, fatto per onorare il monte Sacro assai più di
Coriolano e di Menenio Agrippa; sia detto con buona pace di quegli
antichissimi personaggi. Si aspettava dunque il segnale. Passò
un’ora, ne passarono due, ma il segnale non venne. Vennero bensì
due ricognizioni nemiche, simultaneamente, una da manca e l’altra da
destra. La prima indicata da una sequela di punti grigi, nei quali
non tardammo a riconoscere il reggimento degli zuavi pontifici, si
stese oltre la via Nomentana, lentamente, con poca intenzione di
avvilupparci, forse temendo di essere avviluppata. La seconda, tutta
di punti neri, si avanzò guardinga, ma con più risolute intenzioni,
sulle colline dalla parte di ponte Molle, venendo con le avanguardie
in quadriglia fino al colmo di una eminenza, a duecento metri da noi.
Riconoscemmo allora i cappottoni della legione d’Antibo.

Le disposizioni di Garibaldi furono poche e semplicissime. Al
reggimento degli zuavi non oppose alcun nerbo di forze, solo ordinando
al maggiore Guerzoni di tener dietro ai loro movimenti, piantato un
po’ più in là, con un cannocchiale da campo. Alle ardite quadriglie
antiboine volse la sua attenzione egli stesso. Si avanzavano sempre,
si avanzarono fino a cento metri, non di più, dalla tranquillità nostra
argomentando l’insidia. Per tastarci, incominciarono da quella distanza
a tirare. I nostri avevano ordine di non muoversi, di tener bassi i
fucili, di non far vedere neanche la punta delle baionette di sopra al
ciglione.

— Li aspetteremo a venti passi; — diceva Garibaldi; — e allora daremo
dentro tutti quanti. —

Le quadriglie antiboine non fecero un passo di più; parevano inchiodate
al terreno. Solo davanti a loro, o per mezzo, si muoveva correndo un
bel cane spagnuolo, evidentemente felice come tutti i cani in guerra,
che partecipano con tanto ardore, e sto per dire più dei cavalli, alle
forti commozioni della battaglia. Il fuoco era aperto, ma durava senza
merito, poichè nessuno di noi rispondeva. Fischiavano e gnaulavano
le palle; quasi tutte troppo alte, passando; alcune troppo basse,
ficcandosi nel terreno davanti a noi, o daccanto; nessuna toccando il
bersaglio, che in quindici o venti offrivamo. E certo gli Antiboini
avevano riconosciuto Garibaldi, poichè intorno a lui la gragnuola era
più spessa. Un ufficiale di quella gente, da noi distinto benissimo,
si fece dare da uno dei suoi soldati il fucile, puntò lungamente e
sparò, anch’egli fallendo il colpo, e guadagnandosi un sorriso di
commiserazione. Garibaldi, che era stato un pezzo guardando i tiratori
col cannocchiale, si avanzò di alcuni passi fino alla linea dei pini, e
gridò loro con voce stentorea:

— _Vous étes des conscrits; vous ne savez pas tirer. Vous étes des
conscrits_, — ripetè ancora parecchie volte, rinforzando la voce, forse
con la speranza che il sarcasmo li ferisse, invitandoli a farsi sotto,
dove egli avrebbe voluto.

Ma il sarcasmo non li ferì, o se li ferì non bastò a farli scattare.
Continuavano a scattare, in quella vece, i loro fucili, con sempre
inutili tiri; e la musica era già molto durata, quando si avanzò
Stefano Canzio.

— Senta Generale; — diss’egli. — Vuol proprio che imparino, tirando su
Lei? Venga qua, la prego, un pochino, più indietro, al riparo di quel
pagliaio. Per quello che vuol fare, se ci sarà da farlo, — soggiunse,
con un’accorta restrizione che mostrava la sua poca fede in certe
notizie, — non è mica necessario che Lei stia qui a far da bersaglio ai
coscritti. —

Sorrise il Generale, gradì la celia, ma non si volle muovere di là.
Forse pensava che quello era il giorno del fato, e che bisognava
commettersi al fato. Egli accettò in quella vece di sedersi e di far
colazione, finalmente, alle due dopo il meriggio, mangiando un pezzo
d’arrosto freddo, rilievo di pranzo o di cena del giorno antecedente,
rinvoltato in una pagina del piccolo _Movimento_ di Genova.

— Ne volete? — diss’egli a me. — Senza complimenti.

— No, grazie, generale; non ho pane. — Oh, già! — soggiunse egli,
ridendo. — Volete sempre il pane, voi altri. In America non ne vedevamo
quasi mai, e c’eravamo abituati benissimo. Ogni legionario portava il
suo spicchio di carne infilzato sulla baionetta, se lo arrostiva alla
prima fermata, e se lo sgranava senza aiuto di pane.

— In America, sì; — replicai. — Ma noi siamo in Italia, e nel Lazio.

— Che cosa vuol dire?

— Che Cerere è dea latina, —

Egli mi aveva dato tre ore prima un cenno classico; io gliene davo un
altro, che parve averlo vinto.

— Avete ragione; — conchiuse.

E mangiò tuttavia senza pane il suo spicchio di carne rifredda. Cioè,
intendiamoci, non lo mangiò tutto: ne lasciò mezzo, che rinvoltò nella
pagina del giornale, e consegnò al suo attendente. Doveva essere la
sua cena, quel povero avanzo. Di bere non si parlò neanche; forse
gli bastava un sorso d’acqua, accettato al casale della Cecchina.
Garibaldi, come sapete, non beveva mai vino. Solo dopo il ’60 aveva
fatta una piccola concessione al Marsala, prendendone un dito, nelle
occasioni solenni, certamente per grato animo ai sacri ricordi del suo
sbarco in Sicilia.

Il fuoco antiboino continuava, sempre con lo stesso esito di vana
molestia. E frattanto, nessun segnale da Roma. Il viso di Garibaldi
cominciò a rabbruscarsi, la falda del suo cappello a calarsi sugli
occhi.

— Che cos’hanno quei seccatori? — esclamò egli ad un tratto.

Noi prendemmo coraggio a domandargli il permesso di rispondere con
qualche colpo.

— Purchè sia bene assestato; — rispose, assentendo col gesto. — Trovate
quattro o cinque buoni tiratori, e andate ad appostarli laggiù, verso
la falda della collina. —

Obbedimmo prontamente. Cinque tiratori, dei meglio armati, scelti nei
due battaglioni, furono collocati dove il Generale aveva consigliato.
Una piccola siepe di rovi li nascondeva al nemico. Presero essi a
tirare, puntando con calma, e cinque colpi bene aggiustati mostrarono
che nelle nostre file non erano coscritti. Le quadriglie balenarono,
risposero ancora due o tre colpi, poi si ritrassero, portando i loro
feriti; e l’ufficiale e il suo cane sparirono con esse dietro una
ondulazione del terreno.

Un quarto d’ora dopo, ad una insenatura della collina, vedemmo la
legione tutta quanta ritirarsi, nella direzione di ponte Molle. In pari
tempo si ritirava dall’altra banda il reggimento degli zuavi. Eravamo
rimasti padroni del campo: ma per che farne? Ahimè, niun segnale da
Roma.

Si stette ancora un pezzo a passeggiare, a far capannelli, a
discorrere, amici da anni, amici da un giorno, che ci vedevamo là,
e forse, tolti di là, non ci saremmo veduti che a punti di luna,
o mai più. Ricordo che un Galoppini, di Spezia, capitano nel primo
battaglione genovese, m’insegnò a fumare senza tabacco, caricando
la pipa col caffè: due o tre chicchi tostati, rotti tra le dita, si
mettevano nel fondo della campana; tutto l’altro era caffè macinato;
e ne usciva una fumata aromatica, eccellente, alla gloria di Roma.
E ricordo ancora che la mia pipata destò l’invidia di un ufficiale
spagnuolo, certo De Roa, venuto con altri suoi connazionali, esuli
dalla patria, nel seguito di Garibaldi. Il simpatico giovane possedeva
ancora un libriccino di _papel de fumo_; ma gli era mancata la foglia,
e sperava di averla da me. Lo disingannai, mostrandogli un involtino
di caffè macinato, che mi aveva regalato il collega; ma anche lo resi
felice, dandogliene tanto da farsi quattro o cinque involtate per i
suoi _papelitos_.

Così fumò anch’egli, il bravo De Roa, bellissimo brunetto, cavalleresco
e prode, che seppi poi ufficiale d’ordinanza del generale Prim, e morto
più tardi nella guerra contro i Carlisti. Sia pace alla sua bell’anima:
per intanto, egli fece nobilmente il suo dovere a Mentana. E non poteva
capire come si potesse dare indietro altrimenti che al passo. Nella
terza fase della battaglia, quando nessuno più valse, nè Menotti, nè
Canzio, nè Frigésy, a fermare certe giovani schiere che erano state
colte da un panico strano, e mentre Garibaldi, fermo a cavallo sulla
strada, fremeva di tanta codardia, mettendo lampi di sdegno dagli occhi
fulminei, avvenne al De Roa di sciabolare un soldato che si era buttato
a terra, contorcendosi nello spasimo della paura e gridando: “chi me
l’avesse mai detto!„ E non voleva lasciare il fucile, quel pauroso,
stringendolo forte tra le mani convulse, non sentendo le piattonate,
non sentendo i rimbrotti. Garibaldi calò le pupille un istante, a
guardare la triste scena; pensò, torse le labbra, poi levò la mano in
atto solenne, dicendo al concittadino del Cid:

— Eh, lasciatelo stare! —

Fu grazia della vita allo sciagurato, ma fu anche una sentenza peggior
della morte, se quel convulsionario l’ha intesa. Che orrore per lui, se
vive ancora e ne conserva memoria!

Ritorniamo al monte Sacro. Verso l’imbrunire fu deciso di dar volta a
Castel Giubileo, donde la mattina eravamo partiti con tante speranze.
Garibaldi aveva un messaggio da Roma: niente da sperare, là dentro,
dove in quel medesimo giorno erano giunti i Francesi a sostegno del
poter temporale. Per questo fatto le cose prendevano una piega diversa.
Bisognava far testa a Monterotondo, l’ultimo punto a cui giungesse la
strada ferrata, donde potevamo aver munizioni e vettovaglie, dove,
infine, si sarebbero presi i provvedimenti opportuni per proseguire
la guerra. Il Generale ordinò che si facessero fuochi sul monte
Sacro, per simulare un bivacco; noi dell’avanguardia restando in
retroguardia, dovevamo tenere la posizione fino a tanto il piccolo
esercito non fosse tutto avviato, fuori da quel labirinto di colline.
Per intanto, rompevamo le staccionate dei prati, e facevamo cataste
di legna intorno ai giovani pini che fiancheggiavano la carraia. A
quelle cataste, essendo venuta la notte, appiccammo subito il fuoco:
un’ora dopo avevamo l’avviso di poterci mettere in marcia. Un panico
notturno, per lo scontro di due colonne, una delle quali aveva smarrito
il sentiero e pareva venire dalla parte di ponte Molle, fece correre
qualche fucilata. Ne seguì naturalmente un po’ di scompiglio. Il
maggiore Burlando, giustamente interpetrando l’ordine che avevamo di
proteggere la ritirata, pensò che la cosa non potesse farsi a dovere,
se non ritornando tutti noi della retroguardia sui nostri passi. Fummo
in mezz’ora al nostro accampamento del monte Sacro, tra le cataste che
ardevano, malinconicamente sole.

Io pensavo ai bei stratagemmi dei fuochi notturni con cui s’ingannano
gli eserciti moderni, come s’ingannavano gli antichi, e cercavo di
ricomporre nella mia memoria il quadro dei sarmenti accesi a Casilino,
nella guerra tra Cartaginesi e Romani. Ma chi li aveva accesi?
Annibale, o Fabio Massimo? Lì per lì, non sapevo. Ma altri pensieri
vennero a distornarmi piacevolmente da quella ricerca erudita ed
infruttuosa. Pensai di fatti che la mia bella giornata l’avevo avuta,
ed intiera. Le tenebre regnavano intorno a noi, tanto più fitte nello
sfondo della scena, quanto più vivi sul primo piano rosseggiavano i
fuochi. Ma la giornata era stata singolarmente luminosa: rivedevo la
campagna pianeggiante di là dall’Aniene, seminata d’illustri rovine,
l’acquedotto Claudio, San Giovanni Laterano con la sua ordinanza aerea
di statue, la cupola di San Pietro col suo globo d’oro, monte Mario
coi suoi negri lancieri in vedetta, tutta la prospettiva della eterna
città circonfusa d’una rosea luce vaporosa, traente all’oro, come nelle
glorie dei quadri antichi. Giornata inutile ad altri, che misurano
ogni cosa dagli effetti ottenuti; ma non inutile a me, che l’avevo
goduta! E pensai che fosse stata fatta unicamente per me; ne fui grato
a Garibaldi; gliene sarò grato fin ch’io viva, perchè veramente fu
la prima e sarà certamente l’ultima giornata bella della mia vita;
con lui, davanti a lui, senza folle importune a levarmene la vista;
vicino a lui nel pericolo lungo, nel pericolo dimenticato tra i lieti
ragionamenti, che mi parvero pregustazione dei colloquii d’Eliso;
vicino a lui nella speranza, infine, e nel pieno gaudio dell’essere.
Viva Garibaldi! e il monte Sacro abbia il più sacro dei miei ricordi,
per lui.




XIII.


Da capo a Monterotondo. I trecento di Leonida. Digiuno d’Ognissanti.


Sono le undici di sera: “tutto tace il bosco intorno„; anzi, non
il bosco, poichè bosco non c’è, ma la macchia nana a ponente della
Cecchina. Ci mettiamo in cammino, silenziosi, marciando tutta la notte,
guidandoci come possiamo, col far mentalmente alla rovescia quella
sequela di giri e diagonali che avevamo già percorsa nella notte
antecedente. Fortunati abbastanza, vediamo sull’alba l’eminenza di
Castel Giubileo. Non isfuggirò l’occasione d’un bisticcio, dicendovi
che per conto mio ci arrivai giubilando. Il maggiore, invece, era di
cattivissimo umore, vedendo troppi fucili abbandonati sulla strada,
e non bastando i nostri uomini a caricarseli tutti sulle spalle.
Che diavolo era avvenuto? Sapemmo più tardi che intiere compagnie,
nel ritorno, facevano getto delle armi, gridando di non voler più
combattere per una bandiera regia. Donde avessero cavata la notizia,
che la bandiera fosse regia, io veramente non so: bandiera, per verità,
non ce n’era nessuna: si voleva giungere a Roma, ecco tutto, e alla
scelta della bandiera ci pensasse poi il buon popolo Quirite. Altri,
per contro, anche prima della marcia al monte Sacro, avevano lasciato
il campo, immaginando che la bandiera fosse rossa. Anche questi avevano
il torto; ma con una apparenza di ragione, argomentando dal fatto che
l’impresa di Garibaldi era stata sconfessata dal governo italiano, e
più chiaramente, più solennemente, da un recentissimo proclama reale.
Così noi, poveri reduci della vana dimostrazione armata, avevamo il
male, il malanno e l’uscio addosso.

Alquanto più giù di Castel Giubileo, ritto a cavallo sul binario della
strada ferrata trovammo Garibaldi. Fu lieto di vederci, e volle da noi
le notizie del nostro esodo. Tutto bene, salvo un piccolo incidente.
La sera innanzi, alla prima partenza dal monte Sacro, avevamo fatti
avvertire i compagni che stavano dentro il casal dei Pazzi. Ci avevano
risposto che sarebbero venuti tra poco, volendo finire un’infornata
di pane. Noi ci eravamo contentati della risposta; più tardi, ed al
buio, credendo che fossero con noi, ci eravamo avviati senza di loro,
avvedendoci solo al mattino della loro mancanza dalle file.

Mentre il Generale mostrava di addolorarsi del fatto, si sentirono
grida in lontananza; e giù dalla collina, a gran furia, si videro
calare tre uomini! Erano i tre nostri compagni; uno di essi il tenente
Pozzo, che per tal modo ebbe la fortuna di dare al Generale i più
freschi ragguagli, le più recenti notizie, che meglio non avrebbe
potuto fare il telegrafo. I tre genovesi si erano dimenticati nella
stanza del forno: solo un po’ prima dell’alba li aveva turbati un suono
di cannonate. Usciti all’aperto avevano veduto il campo vuoto, i fuochi
già presso a spegnersi e presi di mira da una pioggia di granate, che
venivano dalla campagna oltre l’Aniene. Non erano stati a pensarci più
che tanto; avevano preso il largo, guidandosi a lume di naso, come noi
altri, e via via più spediti, con l’ali alle calcagna, erano venuti a
salvezza.

— Bravi! — disse Garibaldi. — E così, stando là dentro, con tanta
farina, avrete fatti i taglierini.

— Eh, magari li avessimo fatti! capirà, Generale....

— Capisco; — interruppe il Generale, ridendo; — capisco che a voi
altri, genovesi, ci vorrebbe un’osteria ogni mezzo chilometro. —

Si rise tutti, ricevendo la nostra patente. Era una gentilezza, del
resto; tale la faceva il tono bonario, tale la confermava il sorriso
amorevole. Ma per verità, se in qualche altra campagna avevamo gradita
la frasca, in quella, pur troppo, non c’era stato modo di gradirla,
poichè non s’era neanche veduta. Garibaldi, per contro, scherzava
volentieri coi genovesi; e volentieri, nelle ore quiete, passando
davanti al loro accampamento, accettava due cucchiaiate di minestrone.
Era genovese anche lui: nato a Nizza, sì; ma la madre era di Loano,
e originaria di Cogoleto; il padre di Chiavari, e i suoi vecchi
erano stati genovesi e chiavaresi a vicenda, nel giro di parecchie
generazioni, secondo portavano le ragioni del commercio, o i casi della
repubblica. La Liguria è tutta Genova, a questo modo; e Genova, nel
corso di otto secoli, si è sparpagliata un po’ da per tutto, tra il
Varo e la Magra.

Arrivati noi della retroguardia, non c’era da aspettar più nessuno. Il
Generale fece togliere da un casotto della strada ferrata una botte
di vino, che c’era stata messa in custodia, e ordinò che ne fosse
spillato a tutti; liberalità molto opportuna, dalla quale argomentai
che su quella strada, per allora, non si sarebbe più ritornati. Dopo
di che, avanti ragazzi, e via, alla volta di Monterotondo. Il grosso
dell’esercito era salito al paese; noi rimanemmo alla stazione,
occupando un casolare abbandonato e stendendo subito i nostri avamposti
verso Fornonuovo.

Era il primo di novembre, il dì d’Ognissanti. Non avevamo viveri, nè
potevamo sperarne. Si scoperse una cavolaia: lavorandoci attorno per
tagliarne, si vide che lasciavamo il meglio in terra; non erano cavoli
semplici, ma cavoli rape. Allora si scavò, in cambio di tagliare, e fu
portato in cucina tutto il raccolto del campo. Il Tevere diede l’acqua;
un paiuolo dimenticato servì a far bollire quella verdura, in due o tre
riprese. Ad ognuno toccò il suo tallo; poca cosa, ed insipida, poichè
non avevamo sale da mettere in pentola. Ma non fu male che la porzione
riuscisse scarsa, e lo sentimmo presto a certi dolori di stomaco;
effetto del paiuolo di rame, che non era stagnato.

Noi eravamo in quelle bellezze, quando dall’avamposto fu dato un
allarme. Accorremmo: niente di grave; anzi, una buona sorte per noi.
Si avanzava, dopo aver passato il Tevere sulla barcaccia che era in
quei pressi, una compagnia d’armati; volontarii, e genovesi, che
proprio cascavano a noi, come la manna agli ebrei nel deserto. Li
comandava un capitano Valle, di Sestri Ponente, ed erano in gran parte
doganieri, bella gente, e bene armata. Il maggiore Burlando offerse
loro d’incorporarli: accettarono, formando la quarta compagnia del
battaglione.

Una guida, frattanto, veniva da Monterotondo a cercare di noi. Menotti
ci voleva alloggiati in paese, e proprio nel castello Piombino. Andammo
subito; ma tanto cresciuti di numero, con tant’altra gente già allogata
nelle vaste sale del palazzo barberiniano, ci sentivamo a disagio.
Chiedemmo allora, e facilmente ottenemmo dal nostro buon colonnello, di
andare ad alloggio nella nostra cascina Villerma. Il vecchio castaldo
che la teneva ci rivide volentieri, sebbene non fossimo gli ospiti
più desiderabili del mondo. Ma già, se non eravamo noi, potevano esser
altri; meglio adunque noi altri, visi ed umori conosciuti, come di suoi
figliuoli. Buon vecchierello sorridente! Non aveva nient’altro da darci
che paglia; ma quella paglia, son per dire che gli veniva proprio dal
cuore. E poi, quando c’è la salute, c’è tutto.

Ma ora, che si fa? Qualcheduno deve andare a prender lingua, a scrutare
i cuori e le reni, se gli riesce. Vado io, esploratore e diplomatico
da strapazzo; tanto, avrò occasione di vedere gli amici. Ne vedo
moltissimi, al primo piano del castello, nell’anticamera di Garibaldi,
e passo un’ora chiacchierando con tutti, mentre si aspetta il Generale,
che è salito sulla torre del castello, a specolar la campagna. Egli
non scende che sull’imbrunire; mi vede e m’invita a cena. Accetto col
gesto, e accetterei con la voce, se il colonnello Basso, segretario
di Garibaldi, non mi facesse cenno con gli occhi e col capo. Non lo
intendo, ma sto zitto; intanto il Generale si avvia, e l’amico Basso
trova il modo di bisbigliarmi all’orecchio: — vieni pure, ma non
accettar di mangiare con lui: non ha che una frittata di due ova.
Seguo il consiglio del colonnello e i passi del Generale nella sala
da pranzo; siedo a tavola, ma non per mangiare, avendo (oh generosa
bugia!) pranzato dianzi alla cascina Villerma.

Anche a stomaco vuoto, è quella una deliziosa serata. Il Generale è
di buon umore; ragiona di cento cose cogli amici che assistono al suo
modestissimo pasto. Tra essi è il Negretti, il famoso ottico italiano,
stabilito a Londra, ma venuto anche lui a fare la campagna dell’Agro
romano. È uno dei pochi che abbiano la camicia rossa. Io, non lo
dimentichiamo, ho da tre ore una sciabola, la mia Sitibonda del ’66,
che m’ha portata quel giorno un amico da Genova, insieme con la mia
vecchia divisa grigia e la mantellina nera di carabiniere genovese.

Garibaldi è di buon umore, ho detto; confida ancora. Tre giorni
prima aveva settemila uomini; non ne ha più che cinquemila, oggi; ma
saranno tutti buoni? È il dubbio di parecchi, nella comitiva: il modo
tumultuario con cui sono stati accettati e avviati dalle diverse città,
la poca o nessuna conoscenza che hanno gli ufficiali di tanta gente
nuova, raccolta a Terni e avviata in fretta al confine, ritorna spesso
e volentieri sul tappeto, anzi sulla tovaglia. Si squaglieranno a poco
a poco, dice un pessimista.

— Ebbene, — conchiuse Garibaldi, — quando saremo in trecento, faremo
come Leonìda. —

Egli pronunziava Leonìda, con l’accento sulla penultima. L’ho già
notato altrove, ed ho anche soggiunto: “L’eroe di Sparta avrebbe
amato udirsi chiamare in quella forma da lui. Chi sa? ora, nel regno
delle ombre, o delle luci, ragionano insieme, dopo uno di quei baci
elisii, intravveduti dal genio di Dante.„ Aggiungo ora, per confessione
della nostra miseria, che se egli era capace di fare come Leonida,
ci sarebbero voluti trecento Spartani, e risoluti al sacrificio, per
fargli compagnia. Ma la storia non si ripete. Del resto, quarantott’ore
dopo, su poco più di duemila combattenti, furono cinquecento che gli
caddero intorno a Mentana. Come lezione all’Italia d’allora, non fu poi
tanto male.

Quella sera, uscii tardi dal castello Piombino. Era buio pesto, nelle
scale, tutte piene zeppe di soldati dormenti; ed io, nel discendere,
incespicai una diecina di volte, urtando di qua e di là, facendo
attaccar moccoli, che pur troppo non valsero a rischiararmi la discesa.
Ma un cerino si accese improvvisamente nell’androne; a quella luce
riconobbi un amico, celebre avvocato bolognese, già deputato alla
Costituente romana, allora deputato di Forlì al Parlamento italiano,
Oreste Regnoli. Egli giungeva allora allora a Monterotondo, e si
volgeva al quartier generale per aver notizie del campo dei Genovesi,
e ritrovarci un suo giovane amico. Non poteva capitar meglio; il suo
valoroso amico diciottenne l’avevo io nella mia compagnia, vivo e sano.

— Venite con me, amico Regnoli, — gli dissi. — Tra quindici minuti
potrete vederlo. —

Si uscì insieme a rivedere le stelle: passata la piccola spianata
davanti al castello, e un certo portone di villa che mi ha sempre avuto
l’aria di un arco di trionfo, entrammo in un vigneto; giungemmo al
settimo filare, voltammo a sinistra, e trovato un sentiero campestre,
ci avviammo diritti al piazzale della cascina Villerma. Anche là, nel
portone e su per una scaletta che metteva al piano superiore della
casa, pestammo piedi e stinchi allungati, facendo attaccar moccoli
d’ogni misura. Ma questi erano di fabbrica paesana; accidenti in chiave
di casa. Altri dovevo sentirne lassù, nel quartierino, dov’erano gli
amici in molta libertà, più che in maniche di camicia, quando giunsi
in mezzo a loro ed annunziai una visita, e di un deputato per giunta.
Ma riconobbero il Regnoli, un amico, quasi un concittadino, e la mia
imprudenza fu subito perdonata.

Gli amici avevano fatto un po’ di baldoria; erano riusciti a rifarsi
del cavol rapa. Fumavano, allora, avendo trovato non so più come una
buetta di tabacco; ma poc’anzi avevano cenato, facendo perfino la
minestra, gli epuloni! La zuppiera si vedeva ancora sul desco, ma
vuota. Han sempre torto, gli assentì.

— Ma non avete dunque anima? — gridai.

— Chi se lo immaginava? — risposero. — Tu eri in _gaudeamus_, al
quartier generale. —

Avevano ragione a rider di me. La burla era feroce: la mandai giù per
tutta cena. E così finì il primo giorno del mese di novembre.

Il giorno due fu di calma per il corpo, d’ansietà per lo spirito.
Che cosa si farà ora? che cosa non si farà? Chi ne diceva una e chi
un’altra. Si pensava ancora a tutti quelli che avevano ripresa la
via del confine, quali per la bandiera che non era rossa, quali per
il proclama reale che ci metteva al bando, o giù di lì, ma i più
perchè avevano fiutata la impossibilità del vincere e non gradivano la
prospettiva di marce e contromarce, di stenti e di privazioni, in una
guerra di bande. Quanto a noi, conchiudevamo filosoficamente tutti i
nostri almanacchi: ci penserà il Generale; noi altri obbediremo, come
si è fatto finora.

Ma che cosa pensava egli di fare, specie dopo il proclama accennato,
che sicuramente sarebbe stato seguito da atti di polizia, che avrebbero
tagliati i nervi ai comitati nostri e impedito ogni invio di munizioni
al confine? Io non lo sapevo; nè fo conto di metter qui le mie povere
induzioni d’allora. Solo mi pareva d’intendere che egli, non avendo
potuto penetrare in Roma senza il consenso armato della popolazione,
non avendo potuto accogliere sotto il proprio comando i due corpi
lontani, dell’Acerbi a Viterbo, del Nicotera a Valmontone, volesse
aspettare in armi, per qualche settimana ancora, lo svolgersi degli
eventi, facendo base in qualche altro luogo, non più a Monterotondo,
ma a Tivoli, sulle montagne dell’Aquilano. L’accenno a Tivoli lo avevo
avuto quella sera, difatti, udendo che un colonnello doveva andare con
tre battaglioni tra Monticelli e Sant’Angelo, che erano per l’appunto
sulla strada di Tivoli: mi confermava il sospetto l’invio d’un
battaglione, con Marziano Ciotti, ad occupare l’incontro della strada
di Tivoli con la Salara: finalmente, ad ora tarda, seppi che a Tivoli
doveva andare la mattina seguente il colonnello Pianciani; senza gente,
per altro, con due soli ufficiali, romano a romani.

— E andiamo a Tivoli; — pensai, — vedrò la villa di Orazio, o il luogo
dov’era situata, poichè _etiam periere ruinæ_. Peccato che non abbiamo
più con noi Ludovico di Pietramellara. Vorrebbero esser odi a tutto
spiano. —

Venne la mattina del tre, e fu ordinata la marcia. Ma a me si ordinava
anche di andar giudice al tribunale militare nel palazzo Piombino. A
che pro’ una seduta di tribunale, se si era tutti per muoverci? Avrete
tempo, mi dissero allo stato maggiore; non si parte che alle undici.
E sia; eccoci in tribunale, anzi _pro tribunali_. Presiede questa
volta il maggiore Guerzoni; è avvocato fiscale il maggiore Suliotti.
Sbrighiamo le nostre faccende; i processi son chiari; si tratta di
qualche prepotenza in casa di privati, e le condanne son pronte: come
poi le faremo eseguire, non avendo sicurezza di mantenere un nostro
sistema carcerario, non so. Alle undici abbiamo finito; va ognuno
pei fatti suoi; io raggiungo il mio battaglione, uscito dalla cascina
Villerma e già in ordine di marcia sulla spianata del castello.




XIV.

In cammino per Tivoli. Lo scontro fatale. Momento epico.


Racconterò io la giornata di Mentana? No, davvero. Brevemente, a sommi
capi, in iscorcio, l’ho già fatto in altre pagine: distesamente non
saprei, non potrei, non vorrei, dovendo lasciare un simile ufficio
a narratori più autorevoli in materia, e meglio forniti di tutte
le opportune notizie dei varii corpi impegnati. Ed anzi, volentieri
mi fermerei qui, se non pensassi che le mie son note personali, di
cose vedute, di sensazioni provate. In questa misura, adunque, e con
queste restrizioni necessarie, accogliete il poco che io vi dirò, per
compire la storia dei miei venti giorni di viaggio, che furono poi
ventiquattro. Ma i rotti non contano, si danno per il buon peso.

L’ordine del giorno porta che noi del secondo battaglione genovese
marceremo in avanguardia, e il primo battaglione in fiancheggiatori.
Con noi è un battaglione di Milanesi, comandato dal colonnello Missori.
Così disposti ci mettiamo in cammino, e dopo forse mezz’ora giungiamo
alle prime case di Mentana, accolti dall’inno: “_Si schiudon le tombe_„
suonato dalla fanfara della colonna Frigésy. Quella musica piace poco;
ad un illustre amico mio, che passa in quel punto a cavallo, non piace
niente affatto. Per lui, essa è di mal augurio, non avendo avuto il
battesimo del fuoco. Infatti, conosciuta dai volontarii quando già era
finita la campagna del ’59, non fu suonata in Sicilia, nè sul Volturno,
nè in Tirolo; non si è udita mai, se non nelle città, nei teatri, sulle
piazze. Garibaldi, poi, ama meglio la Marsigliese, a cui vengon subito
appresso, nelle sue simpatie, il “_Fratelli d’Italia_„ e più un inno
del Rossetti: “_Minaccioso l’arcangel di guerra_„ che i suoi legionarii
cantavano nel ’49, a Roma e a Velletri. Ma basti di ciò; anche l’inno:
“_Si schiudon le tombe_„ ha avuto il suo battesimo a Mentana; triste,
se vogliamo, ma solenne, e non è più il caso di tornarci su, poichè il
sacramento è indelebile.

Io m’ero accostato a Mentana senza sospetto. L’andata pacifica
del Pianciani a Tivoli mi prometteva una marcia tranquilla: nè
il mio ragionamento interiore poteva esser turbato dal fatto dei
fiancheggiatori, essendo costume d’ogni esercito in marcia, su
territorio conteso, di aver fiancheggiatori e avanguardia. Noi, dopo
tutto, facevamo una marcia di fianco, pericolosa sempre la parte sua,
richiedente diligenza somma e celerità singolare. La diligenza si
usava: la celerità veniva di costa. Ma le parole dell’amico, che mi
era passato accanto, seguendo il Generale, mi avevano reso pensieroso.
Esposi i miei dubbi al maggiore; e il maggiore si contentò di
rispondermi:

— Ma che? credevi proprio che andassimo a nozze?

Eppure, guardate, l’aspetto della cosa era quello. Mentana era in
festa, sul nostro passaggio, e tutto ci sorrideva dintorno. Già, per
sè stessa, Mentana è una borgata simpatica, con case basse e pulite,
fiancheggianti una via romanamente lastricata, che va serpeggiando per
una insenatura di monte. Sulla nostra sinistra, passata una chiesina
campestre, il monte fa una conca dietro la fila delle case, abbastanza
vasta per accogliere senza danno della prospettiva due o tre grossi
pagliai, e per istendersi in una lunga prateria che va fuori del paese
verso una piccola eminenza, su cui è murata una casa padronale, la casa
della Vigna Santucci. Sulla destra, e dietro all’altra fila di case,
il monte si rompe in greppi, vallette e burroni, che portano al Tevere
l’acqua di otto o dieci rigagnoli. In capo al paese e sulla sinistra,
la fila delle case s’innesta in un vecchio castello con negri torrioni,
tra i quali, dalla parte di Tivoli, si stende la cortina sormontata
da un largo terrazzo, donde una frotta di donne sventola le pezzuole,
i fazzoletti, gridando il buon viaggio a noi che passiamo spediti.
Salutiamo le donne, salutiamo Mentana, salutiamo l’antica Nomentum di
cui essa è l’erede, e tiriamo di lungo. Abbiamo fatto a mala pena un
centinaio di passi, e vediamo accorrere verso di noi un biroccino, e
sul biroccino una donna. Allarghiamo le file per lasciarla passare.
È rossa in volto, ha negli occhi il terrore; e passa, gittandoci una
frase:

— _Ce so’ lì papalini, ce so’!_ —

— Ah, davvero? — Il maggiore si volta a me, per darmi un’occhiata; e
l’occhiata significa: — che cosa ti dicevo io?

Ancora un centinaio di passi, e sentiamo una fucilata. Sì dubita di
aver male inteso; ed eccone una seconda, che conferma la prima. I
fiancheggiatori, sulla nostra diritta, hanno dunque incontrato il
nemico? O il nemico ha tirato su Garibaldi, che cavalca sempre alla
testa delle sue avanguardie? Affrettiamo il passo, ci mettiamo alla
corsa. Ad una svolta della strada vediamo Garibaldi e il suo stato
maggiore che salgono una collina, afferrando il colmo, dov’è la casa
di Vigna Santucci. Noi, genovesi e milanesi, guidati dal Guerzoni che
accorre con ordini del Generale, coroniamo un’eminenza a sinistra,
facendo fronte ad un’altra, donde ci viene la fucilata, e che riusciamo
ad occupare, ma senza poterla tenere lungamente, tanta è la forza che
abbiamo di contro. Ci vien fatto nondimeno di sostenerci saldamente
due ore sulla collina primamente occupata, stendendoci anche a coprire
la Vigna Santucci; opponendo scarsi fuochi ma risoluti alla fitta
grandinata onde ci bersaglia il nemico. Ma lassù, tra Vigna Santucci
e Romitorio (questo nome mi è rimasto nella mente accompagnato
all’immagine della eminenza sulla nostra diritta) non siamo che tre
battaglioni distesi in catena. La nostra linea, già interrotta dalla
strada maestra, ha presto altre soluzioni di continuità, che non
possono essere colmate. Le teste di colonna di Merlotti e del Frigésy
hanno da far fronte a sinistra, donde, precedendo coperti alla lontana,
si sono avanzati altri battaglioni nemici, tentando di avvilupparci.
E dura aspramente la lotta; una lotta in cui Garibaldi, Menotti,
Ricciotti, Stefano Canzio, personalmente s’impegnano contro zuavi,
antiboini e cacciatori esteri. Intanto, sopra una collina di destra
si è riusciti a portare la nostra artiglieria: i due pezzi guadagnati
a Monterotondo, che sono un obice e un cannone rigato da otto, ma che
avranno tra tutt’e due a mala pena una trentina di cariche. Facendo
volata sul paesello, la nostra artiglieria incomincia a sfolgorare
le colonne nemiche irrompenti a sinistra. Di là quattro pezzi in
batteria prendono tosto a rispondere. Le riserve pontificie, girando la
posizione, mirano a pigliarci di fianco; alcune eminenze importanti san
prese, perdute, riprese, perdute ancora. Nel paese di Mentana, presso
il castello, facciamo le barricate, lasciandoci il maggiore Federico
Salomone con la sua gente e con mezza compagnia dei nostri. Garibaldi
stesso, che è da per tutto, accorre a vedere come si tenga quel passo.
Ricordo che in quel punto, volendo egli affacciarsi, gli si pianta
davanti il capitano Carlino Nicotera, con la mano al morso del cavallo,
gridando: “Generale, fatemi fucilare, ma non andrete più avanti.„
E lui a sorridere: sulle prime pareva disposto a contentarlo; indi
proseguì allo scoperto, dove grandinava più fitto; stette un momento
a dar ordini, poi voltò il cavallo e corse sulla sinistra, dove noi io
seguimmo, verso i pagliai. Colà si era molto avanzato, troppo avanzato,
il nemico.

La presenza del Generale rianima i suoi. Menotti, Canzio, Ricciotti,
Bennici, Bezzi, Missori e tanti altri hanno raccolto quanta gente
han potuto: con essa irrompono sulla prateria. Al grido: “Garibaldi!
Garibaldi!„ è una maraviglia di carica vittoriosa, la più bella che io
abbia veduto mai. Paga per tutti il reggimento degli zuavi, che si era
fatto avanti il primo, e che è scompigliato, sbarattato, disfatto dalla
ondata irruente. Più in là, verso il colmo di una collina, vediamo
fuggire a spron battuto uno stuolo di cavalieri luccicanti al sole;
forse il generale nemico, che era venuto innanzi col suo brillante
stato maggiore, credendo vinta per lui la giornata. Giuochi di fortuna!
Che sia nostra davvero? Fu allora, per l’appunto, che un illustre
amico, ritornando dalla sua carica vittoriosa, mi passò accanto co! suo
bel sorriso costante sul labbro, e mi lasciò cadere questa frase:

— Ti ho detto tre ore fa che si cominciava male; vedrai che finisce
bene. — Ah, foss’egli stato profeta! Ma tutto diceva di sì, in
quel momento felice. Mentana era liberata; Vigna Santucci ripresa. Per
tutto il campo erano feriti sparsi, alcuni dei quali, al passar dei
soldati con le baionette spianate, gridavano: _ne nous tuez pas_.

Furono tutti rispettati, lo affermo con giuramento. E poichè sono a
parlare di me, lasciatemi vantare; è la debolezza del soldato, quando
racconta. Di quei feriti ne raccolsi uno, i cui occhi si erano fissati
ne’ miei, con una espressione dolorosa e supplichevole; e lo feci
trasportare sulle braccia di due commilitoni miei, all’ambulanza della
vicina chiesuola. Era un caporale; così almeno mi parve, da un nastro
giallo che gli girava a staffa sul dosso della manica: aveva delicati
i lineamenti del volto, di tipo schiettamente francese, quantunque i
basettini fossero neri, e neri i capelli, un po’ radi sulla fronte.
Mi sorrise malinconico, in atto di ringraziamento, ed io m’interessai
vivamente a lui, accompagnandolo un tratto, fino al pendio ella
collina. Quanto gli sarà giovato il mio piccolo aiuto? Aveva una palla
in petto e il pallore della morte sul volto. Pensai alla sua gioventù;
pensai a sua madre. Ah, povere madri, in tempo di guerra! povere madri,
se in quei momenti un’idea non le sostenesse, e non le affidasse una
speranza lontana! Ed ancora pensai che insieme con soldati francesi,
otto anni prima, avevamo fatta una guerra fortunata; che con altri
zuavi avevamo barattate fraternamente le spoglie, per ballare insieme
sulle piazze dei borghi di Lombardia, da Gorgonzola a Treviglio, da
Coccaglio a Brescia, da Ponte San Marco a Desenzano. Perchè così
mutati in otto anni gli spiriti? E ancora non sapevo che dietro a
questi francesi, arruolati nell’esercito pontificio, venivano a masse
compatte, girando largo dietro le colline, i francesi dell’esercito
imperiale, per entrare in azione sulla nostra sinistra, mentre noi
vittoriosi di un’ora, in quella vittoria avendo messo tutte le forze
nostre, non avremmo avuto più nulla da opporre, più nulla!

Fu quello che avvenne. Procedevano i nostri su Vigna Santucci, quando
sulla sinistra, e quasi dietro a noi, cogliendoci di rovescio,
apparvero nuovi battaglioni sui poggi; non avvertiti sulle prime,
creduti amici alla riscossa. Ma qualche fucilata ci avvertì dell’esser
loro; i cannocchiali, puntati da quella banda, non lasciarono
più dubbio; si riconoscevano anzi, ai pantaloni rossi, i soldati
dell’esercito imperiale. Fu allora necessario dar dietro, far
conversione a sinistra, per opporci al nuovo pericolo, così perdendo
i frutti della carica vittoriosa. Ma qui ben presto occorreva uno di
quei fenomeni tanto frequenti in guerra, e presso tutti gli eserciti.
Mentre le prime schiere facendo fronte al nuovo nemico resistevano
virilmente, e già cominciavano a tenerlo in rispetto, le ultime schiere
ingrandendosi il pericolo, non vedendosi forse sostenute alle spalle,
si lasciarono cogliere da un improvviso sgomento, si ritirarono a
scompiglio verso la chiesuola dell’ambulanza, all’estremità del paese.
Invano gli ufficiali con le sciabole in aria tentano di fermare quella
valanga della paura. Invano il Generale, accorrendo, tenta di rianimare
quel branco di fuggiaschi; invano li rimprovera con aspre parole. —
Prima di scappare, voltatevi almeno a vedere chi v’insegue, vigliacchi!
— grida egli furente. Ma invano, ho detto e ripetuto: costoro fuggono,
fuggono, fuggono, lasciando tutto scoperto il terreno e con esso il
lato sinistro del paese, con forse cinquecento uomini tagliati fuori
nel suo abitato.

Tra la chiesuola dell’ambulanza e la collina di sinistra, donde i
nostri pezzi senza munizioni son costretti a tacere, la strada verso
Monterotondo si fa alquanto più stretta. Una carretta d’artiglieria,
rimasta là a caso, fa un po’ d’impedimento al passaggio. Garibaldi
si è fermato là, col cavallo; non ci sarebbe dunque, modo di passare.
E nondimeno la fiumana dei fuggenti riesce a dilagare intorno a lui,
scavalcando e magari rompendo le siepi. Ogni buon volere è impossibile,
superato e travolto ogni ostacolo; grande fortuna se quella paura
potrà rallentarsi più indietro, essere ravviata, trasformata ancora
in eroismo. Garibaldi tenta ancora questo miracolo, mentre lo seguono
i suoi ufficiali, in parte appiedati. Vedo Menotti, a cui è stato
ucciso il cavallo, ferito egli stesso alla coscia, venire in giù,
torbido nel viso, colla sua rivoltina nel pugno. Quello almeno va al
passo, come piace al De Roa. Anch’egli dopo qualche istante si ferma,
volendo opporre qualche manipolo di volenterosi all’avanzar del nemico.
Si esce dalle siepi, si formano quadriglie, si riprende la fucilata.
Dalla parte nostra son due brandelli di compagnie: le altre due, o i
brandelli delle altre due, rimasero al maggiore Burlando entro Mentana.
Su noi il nemico vien lento, ma senza esitanza; facendo le quadriglie,
fermandosi una a sparare, poi l’altra venendo innanzi a coprirla, e
così via: regolarità di movimenti che ammazza!

E ancora bisogna indietreggiare. Oramai si fa il colpo di fuoco per
l’onore, non più per la speranza di vincere. Ad un certo punto c’è da
saltare una ripa; si casca gli uni sugli altri; io sotto a parecchi, e
temo, al dolore acuto che provo, di essermi spezzata una gamba. Non è
niente; sono un po’ indolenzito, ed anche ferito, poichè sono caduto
sul filo della sciabola, che tenevo impugnata colla sinistra, sotto
la guardia. La mia Sitibonda si è abbeverata finalmente di sangue,
e del mio. I commilitoni mi rialzano da terra; riconosco Ettore
Ballerà, Luigi Domenico Canessa, un Arduino. Essi mi sollevano, mi
trasportano un po’ sulle braccia fraterne, fino a tanto non mi cessa
il dolore. Il Canessa s’incarica di portare anche la mia sciabola:
gliel’ho poi regalata, come cinque ore prima avevo regalata la mia
rivoltina al tenente Graffigna, che non aveva nulla, per insegna di
comando, neanche un bastone, Fortuna diversa delle armi! La rivoltina
passò ai Pontificii, poichè l’amico Graffigna, rimasto in Mentana, fu
fatto prigioniero la mattina seguente. La spada andò tre anni dopo in
Francia, ma libera, in difesa di quella generosa nazione, nel piccolo e
glorioso esercito dei Vosgi.

Seguitiamo a ritirarci, con le quadriglie francesi a cinquanta passi
da noi, al fragore dei loro _chassepots_ che fanno veramente prodigi.
Guai se quella gente dilaga, giungendo prima di noi a Monterotondo,
che è in vista oramai! Ma no; ecco Garibaldi ancora, Garibaldi con
un centinaio di uomini, alla riscossa. È gente nuova, o avanzo della
vecchia, ch’egli è riuscito a rianimare pur ora? Mi par di sentire,
giungendo ad afferrar la spianata, ch’egli ha trovate e prese con sè
le due compagnie lasciate di guardia alle carceri. Chiunque siano,
ben vengano. Si avanzano con le baionette spianate; un po’ balenanti,
mi pare, e Garibaldi non vuole trepidazioni in quel momento supremo.
Lo vede ancora, fiammeggiante cavaliere, nella luce sanguigna del
tramonto; ritto in sella, battendo a colpi ripetuti il fianco del
suo cavallo alto e bianco, con una striscia di cuoio, all’americana;
risoluto di arrestare ad ogni costo un nemico che la fortuna aveva
fatto insolente. E percuotendo il cavallo, scendeva dalla spianata,
gridando con voce vibrata:

— Venite a morire con me! Venite a morire con me! Avete paura di venire
a morire con me?

Alcune parole genovesi, augurali, e non di fortuna, accompagnavano
la frase italiana; ma la voce si abbassava di un tono, dicendole;
mentre era scandito, accentato con fiera progressione il “con me„
ferma l’intonazione e accennante un disperato proposito. L’uomo era
solenne, e solenne il momento. E tutti allora i reduci sfiniti, i
cadenti spettatori della scena terribile, si strinsero ai fianchi di
quel cavallo, confondendosi con quelle due compagnie, travolgendole,
precipitandosi con lui nella strada. La carica della disperazione
ottiene l’intento; il nemico si arresta, si ritira, facendo fuoco di
dietro alle siepi. Garibaldi vorrebbe proseguire; ma a qual pro? A che
gli servirebbero, fin dove, quei dugento uomini che porta in mezzo alle
schiere nemiche?

L’occhio vigile di Stefano Canzio ha precorso il pericolo. L’animoso
ufficiale coglie il momento opportuno del nemico arrestato, si gitta
alla testa del cavallo e ne afferra le redini, gridando con voce di
amoroso rimprovero, ma donde trapelano tutte le collere addensate da
un’ora:

— Per chi vuol farsi ammazzare, Generale? per chi?

Ho veduto, ho sentito: il ripetuto “per chi?„ fu quello che vinse
l’animo di Garibaldi, serbando il suo cuore, il suo braccio, il suo
nome, alla gloria di una sublime vendetta.




XV.

Triste partenza. Il convoglio miracoloso. Contrasti della vita.


Non facilmente s’era piegato l’eroe. Aveva data in giro un’occhiata
leonina; aveva abbassate le ciglia, forse mormorando quel maraviglioso
“avete ragione„ in cui soleva sfolgorare la sua bella modestia,
chiudendo molte discussioni e mostrando il lavoro interiore che si
faceva rapidamente nel suo nobile spirito; poi aveva dato ancora uno
sguardo lungo e profondo in quella penombra della strada contornata
di siepi, onde balenavano i lampi della moschetteria contro lui
invulnerabile. Nè, ritiratosi lentamente di là, avrebbe voluto cedere
il campo. Non erano ancora di là da Mentana, sulla strada di Tivoli, i
tre battaglioni mandati la sera innanzi ad occupare Sant’Angelo? Perchè
non si erano mossi? perchè non erano accorsi al cannone? e perchè,
finalmente, non avrebbero potuto attaccare nella notte, aiutando così a
ripigliar l’offensiva?

Un giovane e bravo ufficiale, il capitano Giacomo Vivaldi Pasqua, si
offerse all’incarico di andarli ad avvertire. Aveva il miglior cavallo
del piccolo esercito; per una via laterale nei campi, se ancora non
c’erano dilagati i nemici, poteva giungere in mezz’ora a Sant’Angelo.
Detto fatto, mise il cavallo a galoppo dietro la cascina Villerma:
fortunato, passò sulla destra del nemico, salutato dalle fucilate
innocue d’una compagnia che il suo passaggio aveva sorpresa: era giunto
dal comandante dei tre battaglioni, sì, ma trovando che quelle forze
erano state divise, accantonate per compagnie nei casolari sparsi,
non pure di Sant’Angelo, ma di Monticelli, e perfino di Palombara. Ci
sarebbero volute ore ed ore, a raccogliere quella gente; e neanche,
dopo tanti esempi dolorosi, era da sperare che si potesse venirne a
capo.

La sera intanto è venuta; segue la notte, scura per il cielo nuvoloso,
e dei tre battaglioni invocati non si ha nuova nè canzone. Ad ora
tarda, dopo avere inutilmente specolato dalla torre del castello
Piombino, Garibaldi si arrende alla evidenza delle cose, ai consigli di
tutti i suoi ufficiali, e comanda la ritirata.

Ne avemmo notizia anche noi, avanzi dei due battaglioni genovesi,
che ci eravamo raccapezzati alla meglio, nel trambusto del momento,
e stavamo pensando per l’appunto a mandare qualcheduno di noi per
chiedere istruzioni al comando. Ci avviammo allora alla piazza maggiore
del paese, dov’era tuttavia la carrozza del Generale, che per aiuto
nostro riuscì a passare da porta Pia, allora allora asserragliata
di botti. Nella carrozza non era Garibaldi, per altro; c’era Alberto
Mario, sottocapo di stato maggiore, il capitano Adamoli e il padre di
lui, vecchio patriota, venuto proprio quel giorno ad abbracciare il
figliuolo; finalmente ci avevo preso posto io, per cortesia di Alberto.
I miei commilitoni genovesi venivano intorno; furono essi che disfecero
la barricata, o almeno quel tanto che fosse necessario per lasciar
passare la carrozza.

La discesa fu triste; non parlava nessuno. Sulla pianura, oltrepassata
di poco la stazione della strada ferrata, raggiungemmo una cavalcata
ugualmente taciturna, avviata come noi al confine.

— Generale, siamo qua; — disse Alberto Mario, alzandosi in piedi; —
vuol salire?

— No, grazie; — rispose la voce di Garibaldi da quel gruppo di
cavalieri ammantellati; — andate pure, vi seguiamo.

La carrozza procedette più lenta, per non disgiungersi da lui; ed
anche per non istancar troppo i soldati che seguivano a piedi, ma che,
dopo tutto, il freddo della notte faceva più svelti alla corsa. Giunti
a Passo Corese, smontammo ad una casetta alcuni passi distante dal
confine. Bevetti colà poche gocce d’acqua; le prime, dopo tante ore
di fatica. E passammo il ponte, accolti fraternamente dai granatieri
del colonnello Caravà, che ci offersero quanto avevano. Ringraziammo,
non accettando nulla: tanto poteva più l’amarezza che la fame. Sapemmo
allora che nella giornata i soldati dell’esercito regolare avevano
disarmato via via duemila volontarii, ripassanti il confine.

— A che ora? — domandai all’ufficiale che ci dava la notizia.

— Fra le due e le quattro; — mi rispose.

Molte cose si spiegavano allora. Aveva ragione l’ufficiale pessimista,
che due giorni innanzi, nel palazzo Piombino, alla tavola del Generale,
aveva detta così crudamente la sua opinione su tanta parte delle
nostre forze in campagna. Se quei duemila fossero rimasti nelle file,
sarebbero giunti in azione al momento opportuno di slanciar le riserve.
Erano alla coda, forse ancora a Monterotondo, udendo il fuoco d’inferno
che si faceva a Mentana; avevano pensato ai casi loro, e risoluto di
conservarsi per giorni migliori. Ottima gente! e non essi soltanto, che
se n’erano andati, ma anche le molte migliaia che se n’erano rimaste a
casa! Intesi allora anche meglio la forza di un ragionamento del mio
amico Stefano Canzio. “Per chi vuol farsi ammazzare, Generale? per
chi?„ Del resto, chi sa? forse è bene che le cose andassero allora
così. Ci vuol filosofia, nelle cose del mondo: la filosofia insegna a
sopportare molte noie; e si sopportano più facilmente le cose che non è
dato cangiare.

    _Durum; sed levius fit patientia_
    _Quidquid corrigere est nefas._

Ah, ecco da capo Orazio? Ma sì, lettori umanissimi; e Orazio dovrebbe
annunciarci vicino il Pietramellara. Il mio buon Ludovico era là,
padrone della strada ferrata, facendo da capostazione. Mi vide, mi
abbracciò, senza tanti discorsi mi condusse al marciapiede d’asfalto,
e mi ficcò in un compartimento di prima classe, dove c’era già un
ufficiale inferraiolato, in atteggiamento di riposo. Credetti che
l’amico mi mettesse là dentro al caldo, perchè schiacciassi un
sonnellino; ma no, faceva dell’altro, l’amico. Dopo due o tre minuti
spesi a dar ordini, venne ancora a salutarmi, a darmi il buon viaggio;
chiuse egli stesso lo sportello, accostò un fischietto alle labbra
e ne cavò un suono acuto; la macchina rispose sbuffando, il treno si
mosse crocchiando, e volò via in direzione di Terni. Com’era andata?
Evidentemente, ero capitato là nel momento buono. Ad ogni modo, quella
partenza improvvisata mi parve un prodigio; ed oggi ancora, quando ci
penso, mi par di sognare.

Il mio compagno di viaggio, che riconobbi tosto al fioco lume della
lampada, era Augusto Tironi, veneziano. Venezia e Genova, già fiere
rivali (la solita storia che bisogna dire quando i due nomi si
associano) viaggiarono di buon accordo fino a Terni. Ma si fecero poche
parole, quella notte; l’amico era ferito al braccio, e quantunque la
ferita non fosse grave, gli pizzicava un po’ troppo: del resto non era
momento da discorsi allegri. Gaio compagno in altri tempi, il Tironi;
sempre ricco di belle fantasie, pronto sempre alla celia. Rammento di
lui un aneddoto, e lo metto qui, in mancanza di una conversazione che
tra noi in quel momento necessariamente languiva.

Un giorno, Garibaldi, era in viaggio nel Veneto. A Lendinara, se ben
ricordo, o in altro paese vicino, era stato accolto col suo seguito
nella casa del sindaco. Da un pezzo erano là, e non si parlava mai di
andare a pranzo, nè si vedevano i segni precursori d’una chiamata a
tavola. Gli ufficiali incominciavano a mormorare; qualcheduno accennava
già di voler uscire, per andare a trovare un’osteria.

— Lasciate fare a me, — disse Augusto Tironi, — parlo io al padron di
casa; voglio esplorarne l’animo. —

L’idea parve temeraria ai compagni. Il sindaco non aveva accennato di
voler dare da pranzo; poteva benissimo non averci pensato e non aver
provveduto; nel qual caso una domanda importuna poteva turbargli lo
spinto.

— Ma con garbo, veh! — dissero dunque al Tironi. — Pensa che siamo i
suoi ospiti.

— Non dubitate, conosco le leggi.

E si mosse, andando in traccia del padrone di casa. Il sindaco, che
andava e veniva per le stanze, fece un sorriso amabile a quel gran
giovanotto dalle spalle quadre, dalla carnagione bianca e dai capelli
rossi, che pareva balzato fuori da un quadro di Paolo Veronese.

— Signor sindaco — incominciò allora il Tironi, rispondendo alla muta
interrogazione che gli faceva quell’altro con gli occhi, —

           .... e l’ora s’appressava
    Che il cibo ne solea essere addotto,
    E per suo sogno ciascun dubitava.

— Oh, non dubiti, non dubiti! — si affrettò a rispondere il sindaco.
— È stata colpa della cuoca, che non ha saputo calcolar giusto,
preparando per tanti; fra cinque minuti si dà in tavola. —

Mi separai da quel simpatico ufficiale alla stazione di Terni, avendo
sentito che in un carro di merci, che doveva esser aggiunto al treno,
erano tre compagni genovesi, feriti a Monterotondo. Andato con loro
nella paglia, ebbi la fortuna di esser utile, telegrafando ad un
illustre chirurgo d’una grande città, per la quale dovevamo passare.
L’insigne uomo venne infatti ad aspettarci alla stazione; visitò i tre
feriti, diede consigli da pari suo e conforto di buone speranze.

A quella stazione erano accorsi anche due amici artisti, che mi
strapparono dal treno e mi condussero in città. D’uno tra essi indossai
gli abiti, lasciando per una sera le mie spoglie soldatesche; e poco
dopo, vedete stranezza! in una poltrona, a teatro, assistevo alla
rappresentazione di un’opera in musica. Mai l’arte dei suoni mi parve
più bella; mai ebbi dalle sette note una commozione più viva.

In Francia, lo ha detto un francese, _tout finit par des chansons_. Io,
in Italia, finivo la mia piccola odissea con una orecchiata di musica
eccellente. La vita è piena di tali contrasti. Ed io vedevo tanta gente
allegra, a teatro! tante belle dame sorridenti nella mezza luce dei
palchetti ai cavalieri galanti, dai guanti grigi perlati e dai candidi
petti di porcellana! Niente di nuovo, niente di grave era accaduto in
Italia. Per chi volevate farvi ammazzare, Generale? per chi?


  FINE.




INDICE.


                                                    PAG.
     I. Come si esce da Genova. Gerolamo Costa
          e Giovan Battista Parodi. Dalla
          “bella Ninin„                                4
    II. Da Quarto a Firenze. L’entrata alla
         Tappa. Nella Galleria degli Uffizî           14
   III. Ludovico di Pietramellara. Si rimonta ai
          Vespri Siciliani. Calessata
          musicale                                    26
    IV. Da Firenze a Terni. Formiche ed uomini.
          Cose antiche e moderne                      38
     V. Trecento uomini sulle braccia. La cascata
          delle Marmore. Poesia d’un
          viaggiatore e prosa d’un cicerone           49
    VI. Da Terni a Rieti, e da Rieti a Condigliano.
          L’_eureka_ dello stomaco. Le
          spose Sabine                                62
   VII. La bella gigantessa. Fermate ed ansie di
          Torricella. Giungono i fucili
          e passa Garibaldi                           75
  VIII. Carabinieri Genovesi e Carabinieri Reali.
          Il passo difficile e l’augurio del
          doganiere. Ricordo di Pietro Cossa          87
    IX. Da Nerola e Montelibretti. La talpa e il
          ministro di Falconara. Ci siamo             99
     X. La gran notte di Monterotondo. Ritratti
          garibaldini. Il capitano Uziel             111
    XI. Un fraticello domenicano. I casi sacri
          di Fornonuovo. Da Fidene alla Cecchina     124
   XII. Sul monte Sacro. Favola antica e storia
          moderna. La mia bella giornata             134
  XIII. Da capo a Monterotondo. I trecento di
          Leonida. Digiuno d’Ognissanti              145
   XIV. In cammino per Tivoli. Lo scontro fatale.
          Momento epico                              155
    XV. Triste partenza. Il convoglio miracoloso.
          Contrasti della vita                       166




NOTE:


[1] Due bravi amici morti; il primo a Buenos-Ayres, dove era andato ad
esercitare la sua arte salutare, ottenendovi buon nome; il secondo a
Digione, combattendo da valoroso nel 1871.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK CON GARIBALDI ALLE PORTE DI ROMA ***


    

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