Memorie di Emma Lyonna, vol. 1/8

By Alexandre Dumas

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Title: Memorie di Emma Lyonna, vol. 1/8

Author: Alexandre Dumas

Release date: May 14, 2025 [eBook #76089]

Language: Italian

Original publication: Milano: Daelli e C, 1864

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 1/8 ***


                                MEMORIE
                                   DI
                              EMMA LYONNA


                                   DI
                            ALESSANDRO DUMAS


                 UNICA EDIZIONE AUTORIZZATA IN ITALIA.

                                Vol. I.



                                 MILANO
                         G. DAELLI e C. EDITORI
                               MDCCCLXIV.




            Proprietà letteraria — G. DAELLI e C. Editori.

                        STEREOTIPIA G. DASSI E C.

                           TIP. GUGLIELMINI.




MEMORIE

DI

EMMA LYONNA

OVVERO

LE CONFESSIONI D’UNA FAVORITA




AL LETTORE


Il 14 gennaio 1815, verso le cinque della sera, un prete, preceduto da
una vecchia donna che parea servirgli di guida, imprimeva i suoi passi
sul tappeto di neve che stendevasi dal villaggio di Vimillle al piccolo
porto d’Ambleteur, sito fra Boulogne sul mare e Calais e nel quale
Giacomo, scacciato dall’Inghilterra, sbarcò nel 1688. — Questo prete
moveva a rapido passo, ciò che facea credere ch’ei fosse con impazienza
aspettato, e guarentivasi, avviluppandosi nel suo mantello, da un vento
acre e freddo che soffiava dalle coste d’Inghilterra. La marea saliva,
ed udivasi il mugghiare del mare misto al rumore dei ciottoli, che il
flutto salendo rotolava sulla spiaggia.

Dopo fatta presso a poco una mezza lega, seguendo la via tracciata
da una doppia fila di olmi, sfrondati l’inverno dall’inverno stesso,
scompigliati l’estate dal vento del mare, la vecchia prese a destra del
cammino un sentiero appena visibile sotto la neve che il ricopriva, e
che menava ad una piccola capanna eretta nel mezzo d’una collina che
dominava il paesaggio. Un raggio di luce, probabilmente prodotto da
una lampada invisibile attraverso i vetri della finestra, denotava solo
l’esistenza di questa capanna, completamente perduta nell’oscurità.

Dieci minuti bastarono a raggiungerne la soglia.

La vecchia stendeva la mano verso la porta, quando questa si aprì da
per sè, ed una giovine voce disse, con un accento inglese leggermente
pronunciato:

— Venite, signor abate, mia madre vi attende con impazienza.

La vecchia si ritrasse per lasciar passare il prete. Questi entrò
nella capanna, ella gli tenne dietro. La fanciulla richiuse la porta,
ed indicò nella seconda camera, la sola rischiarata, una donna che a
stento sollevavasi sul letto.

— È lui? chiese con voce fioca ed in inglese l’ammalata.

— Sì, madre mia, rispose la fanciulla nella stessa lingua.

— Oh! entri, entri, esclamò in francese la malata.

E ricadde sul letto.

Il prete le si appressò: la fanciulla e la vecchia rimasero nella prima
camera.

L’ammalata parea sfinita dallo sforzo fatto; e, rovesciato il capo
sull’origliere, indicò con mano languida una poltrona, facendo cenno
all’uomo di Dio di accostarla al suo letto e sedervisi.

Il sacerdote comprese il gesto, avvicinò la poltrona e sedette.

Fuvvi un istante di silenzio, durante il quale non udivasi che
l’oppresso respiro della morente, ed i singhiozzi cui tentava invano di
soffocare la fanciulla.

Durante questo momento d’aspettativa il prete ebbe tempo di volgere uno
sguardo intorno.

L’interno dell’appartamento offeriva un misto singolare di lusso e
miseria. I mobili e le pareti erano ben quelli d’una capanna, ma le
lenzuola erano della più fina tela d’Olanda; l’accappatoio, in cui
si avvolgea l’ammalata, era d’una magnifica batista, e il fazzoletto
annodato al suo collo era orlato da quel prezioso merletto, cui
l’Inghilterra ha dato il suo nome.

Di fronte al letto, separati solo dalla finestra, dinanzi alla quale
cadeva una povera cortina d’indiana, staccavansi per lo splendore del
colorito due ritratti in piedi, uno di donna, l’altro di uomo, ambedue
di naturale grandezza.

Quello d’uomo rappresentava un ufficiale superiore della marina
inglese. Il suo abito cilestre portava al manco lato, e di sotto
all’ordine del Bagno, tanto raro in Inghilterra, che nol si dà se
non per grandissimi servigi resi, altre tre decorazioni, cui un
intelligente in siffatta materia avrebbe riconosciute, l’una per
l’ordine di S. Ferdinando e del merito di Napoli, l’altra per quella di
S. Gioacchino di Malta istituita da Paolo I di Russia, e che morì con
lui; la terza infine per la mezzaluna Ottomana, che portava nella sua
curva la cifra in diamanti dell’Imperatore ottomano Selimo III.

Ma ciò che soprattutto rendeva quest’uomo notabile era la gloriosa
mutilazione, onde avea dovuto esser vittima: — una larga cicatrice
solcavagli la fronte, su cui stendevasi una benda nera che celava
un occhio perduto, mentre la manica destra del suo abito abbottonata
all’uniforme, palesava un braccio monco al disopra del gomito.

L’uomo, che il ritratto rappresentava, era piuttosto basso di statura;
avea biondi i capelli; l’occhio, che gli restava, parea vibrare
il lampo del genio; infine il suo naso aquilino ed il suo mento
vigorosamente marcato indicavano il coraggio e la volontà, che fanno i
tratti caratteristici dell’eroe da guerra.

La donna invece era il tipo perfetto della grazia e della bellezza; i
suoi capelli castagni senza alcun ornamento ricadevanle in folte anella
sul collo e sul petto; avea gli occhi ed i sopraccigli neri sopra
un incarnato di sfolgorante freschezza; il naso ben fatto; la bocca
infantile, semi-aperta qual rosa in un mattino di primavera, lasciava
scorgere, o piuttosto divinare due file di perle. — Vestiva una tunica
di chachemire, fatta alla greca, con un mantello di porpora gettato
sulla spalla destra: avea retta la persona da un largo cinto di velluto
color ciriegia ricamato d’oro, il cui fermaglio era fatto d’un cammeo
che rappresentava il profilo d’una testa da vecchia.

Questo splendido ritratto era evidentemente quello dell’ammalata, nei
tratti della quale potevansi ancora riconoscere, a malgrado i suoi
cinquant’anni ed i guasti d’una crudele malattia, i resti di quella
perfetta bellezza dal pittore dipinta sulla tela.

Mentre il prete, quasi suo malgrado, davasi a questo esame, la malata
riaperse lentamente gli occhi, e glieli fissò sopra con inquietudine.
Si sarebbe detto ch’ella cercasse sul volto di colui, che avea mandato
a cercare per farne l’intermediario della sua riconciliazione con Dio,
ciò che poteva temere o sperare dalla celeste misericordia.

Il sacerdote era un vecchio di sessantacinque anni; dalla dolce e
serena sua fisonomia traspariva la semplicità dell’anima: e potea
leggersi nel suo sguardo una scintilla di quella inesauribile
tenerezza, che Leonardo da Vinci ha data agli occhi di Gesù.

Al vederlo, l’ammalata parve rassicurarsi.

— Padre mio, diss’ella, ho letto in tutti i libri santi che la
misericordia di Dio è infinita, ma io ho mandato a cercarvi per
udirmi a ripetere queste parole dalla bocca stessa d’un ministro di
Dio. I miei peccati, le mie colpe, i miei delitti anche, aggiuns’ella
abbassando la voce, sono tanto grandi, che per non morire disperata ho
mestieri della parola d’un sant’uomo come voi.

Il prete guardò con sorpresa quella donna dalla voce dolce, dalla
fisonomia candida, dall’occhio cui la febbre che ardevala non potea
togliere l’angelica espressione, e che pur tuttavia si accusava di
colpe e peccati non solo, ma pur di delitti.

— Figlia mia, le diss’egli, il terror della morte vi smarrisce. La
donna è una debole creatura esposta dalla sua posizione in società a
cader nel peccato, a commettere colpe; ma, se ho ben compreso, voi non
vi accusate solo di colpe e peccati, ma ben anco di delitti.

— Oh! di delitti, sì, di delitti, padre mio..... so bene che quando era
giovane, bella, potente, quando un eroe mi chiamava sua amante ed una
regina sua amica, so bene che nel trasporto della mia giovinezza, nella
foga della mia fortuna, io non giudicava tali i miei atti; ma, dopo
ch’egli è morto, dopo ch’ella è morta, dopo che io sono caduta nella
miseria, e che la miseria, vendetta celeste, mi ha condotta al dubbio,
oh! io mi vedo quale sono, padre mio, cioè con un corpo bruttato dalla
lussuria e delle mani rosse di sangue!....

— Figlia mia, la misericordia del Signore è infinita, ripigliò il
sacerdote, e Gesù in nome del padre suo ha perdonato alla Maddalena ed
alla donna adultera.

L’ammalata stese la mano, la posò sul braccio del prete, e sollevandosi
per avvicinarsegli:

— Avrebb’Egli perdonato ad Erodiade? chiese ella.

L’uomo di Dio la guardò quasi con terrore.

— Chi siete voi dunque? domandò.

— Di fatto avete ragione, padre mio, rispos’ella. Dirvi il mio nome è
tutto dirvi, ma deh! non vi allentate da me quando ve lo avrò detto....

— Figlia mia, disse il prete, accompagnerei e consolerei anche un
parricida al patibolo.

— Oh! il patibolo è l’espiazione, esclamò l’ammalata: se io morissi sul
patibolo invece di morir nel mio letto, non dubiterei tanto!

— Avete dunque ucciso? chiese il sacerdote con terrore.

— No, padre mio, ma ho lasciato morire.

— Avete sentimento del delitto che commettevate?

— No, no, io credeva servire il Re, credeva servir Dio, e non serviva
che la mia vendetta. — Come volete voi che Iddio perdoni a me che non
ho mai perdonato?

Il prete la guardò.

— Siete inglese?

— Sì, padre mio.

— Siete protestante?

— Sì.

— Perchè non avete fatto cercare un pastore della vostra religione? Ve
n’ha uno a Boulogne.

— Lo so.... e l’ammalata crollò il capo gettando un sospiro.

— Ebbene? Insistè il sacerdote.

— I nostri pastori son troppo severi, padre mio; la nostra religione è
troppo dura; non ho osato.

— È un grand’elogio che voi fate con ciò della nostra, figlia mia. E
come, avendo di questa una tale opinione, non avete cercato rifugio nel
suo seno?

— E se essa mi avesse respinta, padre mio?

— La nostra religione non respinge alcuno, figliuola mia, Gesù non ha
egli detto al buon ladrone: «In verità ve lo dico prima d’un’ora voi
sarete meco nel regno del Padre mio?»

— Sì, ma il buon ladrone era in croce; moriva col Salvatore.

— Chi muore in lui, muore con lui, e il pentimento val pure la Croce. —
Vi pentite voi, figlia mia?

— Sì, disse la morente, levando al Cielo le mani — sinceramente, e
ardentemente, ve lo giuro.

— Vi pentite voi per la sola paura della morte?

— No, padre mio, mi pento perchè, come a S. Paolo sulla via di Damasco,
le scaglie mi sono cadute dagli occhi, e mi vedo qual sono.

— Ebbene, lo vedete, non solo Dio ha perdonato a S. Paolo, ma ne ha
fatto uno dei suoi Apostoli: eppure S. Paolo custodiva i mantelli di
quei che lapidavano il santo martire Stefano.

— Oh! voi siete buono, padre mio, di sostenermi e consolarmi in tal
guisa.

— È mio dovere, figliuola mia; quando un’agnella si allontana dal
gregge a malgrado gli avvertimenti del cane, il buon pastore se la
prende sulle spalle e la riporta all’ovile: con più ragione la riceve
egli con gioia quand’essa vi ritorna da sè. Parlate dunque, ditemi
le vostre colpe, sono pronto ad udirle, e se esse non oltrepassano il
potere legato ad un povero prete, sono presto a perdonarvi in nome del
Signore.

— Il narrarle sarebbe lungo ed inutile: il mio nome basterà; quando
saprete il mio nome, saprete tutto.

Il sacerdote la guardò sorpreso.

— Il vostro nome allora? le domandò egli.

La morente si chinò verso lui, e con voce tremula ed appena
intelligibile, mormorò queste due parole:

— Lady Hamilton.

— Questo nome non mi svela nulla, figlia mia, rispose il prete. Non lo
conosco: odo pronunciarlo per la prima volta.

— Oh, Dio mio! esclamò la morente con accento quasi di gioia. Havvi
dunque un uomo che non mi conosce: havvi dunque una bocca che non m’ha
maledetta!

E ricadde sul suo letto, mormorando a bassa voce una preghiera di
ringraziamento all’Eterno.

Ma ad un tratto un vago senso di terrore passò sul suo viso.

— Oh! ma allora, seguitò, io sono perduta, padre mio, giacchè non
avrò la forza nè il tempo di tutto narrarvi: e se non posso dirvi le
pungenti angoscie della miseria, i febbrili allettamenti dell’oro, lo
irresistibile affascinare della passione; se voi conoscete della mia
vita le sole colpe e non le tentazioni, non mi perdonerete giammai....
oh! se poteste leggere....

— Che!

— La mia vita che scrissi io stessa in tutti i suoi dettagli come una
prima espiazione, e soprattutto perchè serva a preservare mia figlia
dalla via che io ho percorsa, e dal cadere nelle colpe in cui sono
caduta.

— E perchè non leggerei io questa vita scritta da voi?...

— Col sangue del mio cuore, ve lo giuro.

— Perchè non la leggerei io? ve lo domando.

— Perchè essendo io inglese, l’ho scritta in inglese.

— Ho abitato cinque anni l’Inghilterra, dal 1790 al 1795, e parlo
l’inglese come la mia lingua materna.

— Oh! padre mio, padre mio! esclamò la moribonda afferrando la mano del
sacerdote, gli è ben realmente Iddio che vi manda, e comincio a credere
nel suo perdono!....

Poi con un ardore febbrile:

— Tenete, padre mio, gli diss’ella dandogli una chiave, stretta ad un
fazzoletto celato sotto il guanciale, prendete questa chiave, aprite
il tiretto di quella toeletta, vi troverete un manoscritto intitolato:
_My Life_; prendetelo, leggetelo, e tornate al più presto che vi sarà
possibile, se mi recherete il perdono; se sono condannata, rimandatemi
il manoscritto: saprò quel che ciò vorrà dire.

Il prete si alzò, aprì il cassetto, e vi prese le carte indicate.

— Figlia mia, le disse egli, bisogna che io adempia ai doveri del mio
stato. Non mi rivedrete che domani a quest’ora stessa.

— Dio mi darà grazia di vivere fino a quel momento, ripigliò
l’ammalata, soprattutto... e ristette.

Il sacerdote la guardò: il suo sguardo era un incoraggiamento.

— Soprattutto, seguitò ella, se voi mi benedite.

— Vi benedico, povera donna, disse il prete; e possa Dio benedirvi come
io lo faccio.

Entrato nella camera attigua vi trovò inginocchiate la fanciulla e la
vecchia.

— Vivete con Dio, figliuola, diss’egli alla giovinetta, posandole sul
capo la destra mano.

La vecchia afferrò l’altra e la baciò.

Il prete uscì.

L’ammalata lo seguì cogli occhi e le braccia stese fin che potè
scorgerlo.

La fanciulla entrò nella camera.

— Madre, chies’ella, come vi sentite?

— Oh! meglio, meglio, Orazia mia, ancora una visita come quella ch’egli
mi ha fatta, e quest’uomo porterà seco il mio passato!

                                  * *
                                   *

Il domane, all’ora stessa, il prete rientrò; era seguito da due
chierici; l’uno portava il vaso dell’acqua santa, l’altro la croce.

L’ammalata era più tranquilla, ma anche più debole del giorno innanzi.
Era evidente che solo la fede e la speranza, queste due figlie di Dio,
la sostenevano.

Egli s’innoltrò verso il letto; il suo viso spirava carità.

La giovinetta e la vecchia, questi due esseri che parevano statue poste
ai due lati della vita per rappresentare la gioventù e la decrepitezza,
sollevarono sul guanciale la moribonda.

Il prete si fermò a due passi da lei: ella attendevalo con gli occhi al
cielo e le mani giunte.

— Credete voi ai sette sacramenti? le chies’egli.

— Vi credo, rispos’ella.

— Credete voi alla presenza reale di Gesù Cristo nella Eucarestia?

— Vi credo.

— Credete voi nella supremazia del romano Pontefice e nella sua
infallibilità in materia di fede?

— Vi credo.

Il sacerdote attinse dalla pila un po’ d’acqua nel palmo della mano, e
aspergendone la testa della morente:

— Ti battezzo in nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo; e
che l’acqua del battesimo lavi i tuoi peccati, le tue colpe, ed anche i
tuoi delitti.

La moribonda gettò un grido di gioia, afferrò la mano del prete ancora
umida dal contatto dell’acqua santa, se la portò avidamente alle labbra
e la baciò.

Poi con uno slancio sublime:

— Dio mio! diss’ella, ricevete l’anima mia!

E si rovesciò sul guanciale, cui lasciarono ricadere la fanciulla e la
vecchia.

Il suo volto aveva ripresa una tale serenità che le due donne
credettero dormisse: il solo prete comprese che soltanto la morte potea
dare quella serenità.

Di fatti era morta.

Come lo aveva detto ella il dì prima, il sacerdote aveva alla seconda
sua visita recato seco il suo passato; e l’acqua del battesimo,
colandole dalla fronte all’anima, aveva tutto lavato — fango e sangue.

                                  * *
                                   *

Ora ecco ciò che il prete aveva letto nel manoscritto, intitolato: _La
mia vita_.

                                                     ALESSANDRO DUMAS




MEMORIE DI EMMA LYONNA

                           1 _gennaio_ 1814.

  _Nella fiducia che Dio perdonerà al mio pentimento ed alla mia
  umiltà, scrivo le seguenti pagine._

                                        EMMA LYONNA, VED. HAMILTON.




LA MIA VITA.

I.


I miei primi ricordi risalgono all’anno 1767: avevo tre o quattro anni.
Non ho mai conosciuto l’epoca precisa della mia nascita: attraverso
una percezione vaga come una nebbia, mi veggo colla madre a seguire
una grande strada in mezzo ai monti, quando portata sulle sue spalle,
quando movendo a lei d’accanto, tenendola per mano, o tirandole
l’abito. Tratto tratto un ruscello tagliava il sentiero, allora mia
madre mi prendeva fra le sue braccia, traversava il ruscello e mi
posava dall’altra parte: ciò doveva avvenire durante l’inverno, od
almeno verso il finire dell’autunno. Avevo sempre freddo; fame qualche
volta.

Quando traversavamo una città od un villaggio, mia madre si fermava
dinanzi alla bottega d’un panettiere, e chiedevagli con voce
supplichevole un pane, che quasi sempre le veniva dato.

Ci fermavamo rare volte la notte nelle città o nei villaggi, ma
piuttosto in qualche fattoria isolata. Là mia madre chiedeva le si
permettesse di dormire in un granaio od in una stalla. Le notti, in
cui il permesso ci veniva accordato, erano le mie notti di festa: avevo
caldo, e quasi sempre il mattino, prima che ci mettessimo in cammino,
la castalda o la domestica, che veniva a mugnere le vacche, mi dava una
tazza di latte tiepido, il che era per me un’altra festa non essendovi
abituata.

Dalla distanza che percorrevamo, supponendo che noi facessimo quattro o
cinque leghe al giorno, il nostro viaggio dovette presso a poco durare
una settimana: alfine arrivammo alla città di Hawarden, che era la meta
della nostra corsa.

Il defunto mio padre avea nome John Lyon: mia madre lasciava la città,
ove era morto, per venire a chiedere alla sua famiglia, che dimorava ad
Hawarden, un qualche soccorso che potesse sovvenire alla mia educazione
ed alla sua esistenza.

A questo punto un’oscurità di qualche mese si stende di nuovo sulla mia
mente, e mi ritrovo a custodia d’un piccolo gregge di montoni, in una
masseria ove mia madre era impiegata a domestica.

Relativamente al passato io mi trovava felice. La primavera era
giunta, e con essa il caldo e la verdura. Il declivio della collina,
ove io menava a pascere il mio gregge, era un vasto tappeto di
serpilli e surcelle che i miei montoni sbroccolavano con delizia, e
dei cui fiori io mi faceva corone. La sera rientrando alla fattoria
dormivo nel pecorile dei miei montoni. Del pane, un po’ di burro o
formaggio, qualche volta un uovo duro, bastavano ai miei bisogni
del giorno: il mio cane divideva il mio pane, e parea quanto me
soddisfatto di quest’ordinario. Quando avevamo finito la colezione ed
il pranzo, andavamo a bere ad una vicina sorgente, che faceva un bacino
trasparente come il cristallo, prima di spandersi e correre come un
filo d’argento sul declivio della collina.

Tre o quattro anni decorsero di tal fatta senza che alcun avvenimento,
lasciando traccia nella mia memoria, venisse a rompere la dolce
monotonia di quella esistenza.

Un giorno, che mi aveva fatta una corona di surcelle color rosa miste
alle margheritine, mentre io beveva come al solito, curvandomi verso
la sorgente, sostai per la prima volta al momento in cui le mie labbra
stavano per baciar l’acqua, accorgendomi ch’io era bella.

Erro nel dire che m’accorsi ch’io era bella: non sapeva ciò che fosse
bellezza: non aveva mai avuto uno specchio nel quale potessi vedermi,
ma il sembiante che l’acqua del bacino rifletteva mi piacque, gli
sorrisi, ed appressai le labbra all’acqua, meno per bere che per dargli
un bacio.

Da quell’istante la riva della sorgente divenne il mio gabinetto
di toeletta; sfacendo e rifacendo le mie corone fino a che fossi
soddisfatta di me, soddisfazione che io manifestava abbracciando la mia
propria immagine.

Un giorno poco mancò che questa tenerezza, ch’io sentiva per me stessa,
non mi fosse fatale: — le mie mani scivolarono sull’erba, caddi nel
bacino, e senza il mio cane che mi ritrasse per l’abito, mi sarei
annegata.

Avevo così poca idea di quel che fosse il bene e il male, che per
far asciugare i miei abiti, mi spogliai nuda al sole; in quel momento
udii a chiamarmi; mi alzai e vidi mia madre: le corsi incontro: ella
mi rimproverò, senza che io comprendessi bene la cagione de’ suoi
rimproveri.

Un miglioramento s’era fatto nella nostra esistenza: ella aveva allora
ricevuto dal conte di Halifax una piccola somma destinata parte a lei
parte a me — la somma destinatami avea per iscopo la mia educazione.

Non ho mai ben compreso la causa di questa munificenza del conte di
Halifax, e mia madre non ha mai voluto spiegarmelo: solo corse voce in
famiglia che un sangue più nobile di quel di John Lyon potesse scorrere
nelle mie vene. Dio mi salvi dall’accusare mia madre, ma se ella fosse,
potrebbe spiegarmi quei vaghi desideri, quelle incessanti aspirazioni
ad un rango cui giunsi, ma al quale non era certo destinata.

Mia madre veniva ad annunziarmi che dal domane cesserei di guardare
il mio gregge, ed entrerei in un istituto di fanciulle, che io vedeva
qualche volta il giovedì e la domenica a passeggiare dal lato del
podere.

La mia prima parola fu:

— Mamma, avrò io un bel cappello di paglia ed un bell’abito azzurro
com’esse?

— Certamente, rispose mia madre, giacchè è l’uniforme del collegio.

Feci un salto di gioia; mi parve che sarei stata assai bella con simili
abiti, cui non avrei mai osato sognare di possedere.

Baciai i miei montoni gli uni dopo gli altri, e gli abbandonai ad un
giovinetto pastore che venne a surrogarmi.

I miei più lunghi addii furono al mio cane: quel povero animale, che mi
avea salvata la vita un’ora prima appena, sentiva una grand’affezione
per me: accarezzai molto il povero Black, ed a stento presi da lui
commiato.

La povera bestia avea gran desiderio di seguirmi: parve esitare fra il
suo amore ed il suo dovere, ma il dovere la vinse. Mi accompagnò fino
ad un luogo, ove, senza perder di vista il suo gregge, potesse seguirmi
cogli occhi: sedette sopra una rupe, la testa volta dalla mia parte,
e mandandomi di tanto in tanto un latrato lamentoso, restò allo stesso
posto immobile e gemente, fino a che la disposizione del terreno me lo
ebbe celato: ma anche non vedendolo più, udiva i suoi lai.

Il giorno stesso mia madre mi condusse alla città distante circa un
mezzo miglio dalla masseria. Ella andava a pagarvi il primo trimestre
della mia pensione, ed a far prendere le misure delle mie vesti, che
venivan fatte dallo stabilimento, onde non vi avesse diversità fra le
alunne.

Era il mercoledì: dovevo entrare al convitto il vegnente lunedì. La
direttrice promise di dirigere la passeggiata della domenica verso la
fattoria, affinchè si potesse provarmi l’uniforme. Era una festa per le
allieve che dovevano farvi colezione con uove fresche e latte caldo.

Il convegno si fissò per le nove; mia madre s’incaricò di preparare il
tutto.

Per la prima volta conobbi la potenza dell’oro. Mia madre, il dì
innanzi povera fantesca di masseria, cui parlavasi aspramente come ad
una serva dell’ultimo grado, pareva essersi rialzata, naturalmente,
tacitamente senza che alcuno facesse obbiezione, al rango di
sorvegliante agli altri domestici. E tutto ciò perchè le si avea visto
fra mani un biglietto da cento lire, che, se venivale dalla sorgente
attribuitale, doveva piuttosto abbassarla che ingrandirla.

La sera io mi coricai accanto a mia madre, in un letto che mi si fe’
su due sedie e sotto al quale si celò il fedele mio Black, che mi
festeggiò rivedendomi, come se avesse temuto di perdermi per sempre.

Durante i tre o quattro anni decorsi e che si eran dileguati senza
altro mutamento che quello delle stagioni, io non aveva mai avuto
l’idea di trovare un giorno più lungo dell’altro: non avevo mai bramato
di affrettare il passo del tempo: mi alzavo col giorno e mi coricavo
col sole: dividevo il mio pane con Black; isbricciolavane il resto
agli uccelli; mi facevo corone di fiori; mi specchiavo nella sorgente;
sognavo senza saper che, e giungeva la sera senza che avessi misurato a
quale distanza essa fosse dal giorno.

Non era più così: un mutamento completo s’era operato nel mio spirito:
i minuti s’eran fatti ore; le ore giorni; ed i giorni anni: mi parea
di non giungere mai a quella benedetta domenica, in cui, abbandonati
i miei cenci, indosserei quell’abito cilestre, due volte per me color
del cielo, e quel grazioso cappello di paglia, aureola delle vaghe mie
prime ambizioni. — Desta, io aveva confuse e incoerenti visioni quali
si hanno nei sogni: avrei voluto salire una montagna, alta tanto da
vedere al disopra della cinta di monti che ne circondava: non avevo
idea alcuna di ciò che potea trovarsi al di là, ma certamente ciò
doveva esser più bello di quel che vedevo.

Oimè! in tutta la mia vita volli raggiungere le più alte cime, e vedere
al di là dell’orizzonte, che Dio mi accordava!

Il giorno tanto desiderato giunse finalmente: non dormii punto la
notte che il precedette: prima assai dell’apparire dell’aurora io era
in piedi: mia madre si alzò quasi subito dopo: ella pure avea comprato
nuovi abiti, e quel giorno diede al suo acconciamento un’insolita cura.
Il suo vestito era quello dei montagnuoli del paese di Galles, e per
la prima volta m’avvidi che mia madre dovea essere stata molto vezzosa:
era bella ancora.

Ultimata la sua toeletta, ella si occupò di me; pettinò i miei capelli,
che erano magnifici e per natura inanellati; e, avvedendosi che io era
coperta dalla sola camicia, volle rimettermi gli abiti del dì innanzi;
ma io rifiutai ostinatamente, dicendole che sperava bene, deponendoli
la sera precedente, di essermene separata per sempre.

Siccome il suo abbigliamento mi parea molto bello, le chiesi se era
tanto ricca da farmene regalo d’uno simile: ella me ne promise uno più
bello ancora, se dopo un mese la direttrice fosse stata contenta di me.

Mi proposi di meritarlo.

Per non rimettere i miei abiti del dì innanzi mi ricoricai, ed attesi
le 9 dal mio letto.

Finalmente un gioioso cicalio, simile a quello d’uno stormo di
capinere, mi annunciò l’arrivo delle mie future compagne: mia madre
che sapeva la mia impazienza entrò tosto con una sotto maestra che mi
portava l’uniforme.

Il mio corredo si componeva di due vestiari completi esattamente eguali
di forma: solo quello delle domeniche era di stoffa più fina: — tutti
gli altri oggetti dalle calze ai colletti, erano a mezze dozzine.

Io non potea credere che tutte quelle ricchezze deposte sul mio letto
fossero mie. — Mia madre ne chiese il prezzo e li pagò: solo allora
credetti la mia proprietà assicurata; quattrocento franchi ne pagarono
l’acquisto. — Non avevo visto mai tanto denaro.

La mia toeletta ebbe principio. — Le misure erano state prese da
un’abile mano, giacchè tutto mi andava per eccellenza: in capo a dieci
minuti era pronta.

Un frammento di specchio, nuovo lusso nella camera di mia madre, mi
permise di vedermi. Gettai un grido di gioia; mi vidi ben più bella che
nella fontana: il mio gran cappello di paglia dagli ondeggianti velluti
azzurri mi stava a meraviglia, — e spesso in seguito, anche all’epoca
della mia più alta fortuna, quando volevo trar partito di tutta la mia
bellezza, non sceglievo altra acconciatura che quella della piccola
alunna di Hawarden!

Non feci che uno sbalzo dalla mia camera al cortile e dal cortile al
giardino.

Tutto il collegio era là: sessanta fanciulle presso a poco dell’età di
otto a quindici anni.

Elleno mi guardarono più con curiosità che simpatia.

Una delle grandi disse: —

— Non c’è male per una piccola contadina.

Un’altra rispose:

— Sì, ma ha l’aria goffa.

Il mio cuore si serrò.

Al mio entrare nel mondo, vi era ricevuta dal disprezzo e dal sarcasmo.

Restai in piedi, muta, immobile, sentendo il rossore della vergogna
salirmi alla fronte.

— Bambina, mi disse una terza, va a dire alla masseria che ci si
portino le uova ed il latte.

Il mio orgoglio si rivoltò.

— Scusate, signorina, le dissi, io non sono, parmi, la domestica di
alcuna di voi.

— No, ma siccome vostra madre è quella della masseria, disse la prima
che avea parlato, ella avrà, spero, la bontà di servirci. Noi abbiamo
fame.

Mia madre esciva in quell’istante: mi gettai fra le sue braccia
piangendo: ella mi chiese donde venissero le mie lagrime.

In due parole le narrai il tutto.

La castalda ci ascoltava: ella si avvicinò alle alunne.

— Signorine, diss’ella, la mia fattoria non è un albergo: io vendo
le mie uova, il mio latte ed il mio burro al mercato, ma non qui. A
preghiera della mia amica madama Lyon io era felice di offerirvi tutto
ciò, ma se l’ospitalità ha i suoi doveri, ha eziandio i suoi diritti,
ed uno di questi è il non essere insultati. Reclamo io dunque questo
diritto, e per me, e per tutte le persone che fan parte della mia casa.

— Ben detto, madama, disse la direttrice, vi ringrazio della lezione
che io stessa stavo loro per dare, ma non l’avrei data sì buona. Quelle
fra queste signorine, che vorranno mostrarsi degne dell’onore che voi
fate loro, andranno elleno stesse a prender la loro colezione; e vi
ringrazio anticipatamente in nome di tutte le vostre convitate e mio;
— quelle che non andranno, faran senza della refezione: — ecco tutto,
signorine. Chi mi ama mi segua.

E la direttrice, che chiamavasi mistress Colmann, diede l’esempio,
dirigendosi verso la casa seguita dalle alunne, meno le tre che mi
avevano rivolta direttamente o indirettamente la parola.

Un momento dopo madama Colmann uscì dalla masseria tenendo da una mano
un cestellino pieno d’uova, e dall’altra un’immensa scodella di latte
fumante.

Le due sotto-maestre la seguitavano portando ognuna com’ella uova e
latte.

La massara e mia madre venivano lor dietro con due enormi pani dalla
corteccia bianca e appetitosa.

Ogni alunna portava il suo piatto, la sua forchetta, il suo cucchiaio
ed il suo coltello.

Tutte sedettero sull’erba attorno a madama Colmann ed alle due
sotto-maestre.

Le tre ribelli sole in piedi formavano un gruppo a parte.

— Madama Davison, dissi io alla massara, volete voi darmi sei uova in
un cestellino, una scodella di latte caldo, e tre tazze?

Ella comprese la mia intenzione, e baciandomi in fronte, mi diede ciò
che io le chiedevo.

Uscii dalla fattoria portando il mio cestellino, la scodella e le tre
tazze alle tre espulse.

— Signorine, lor diss’io, volete voi perdonarmi di essere la cagione
del castigo datovi?

— Grazie, rispose la maggiore delle tre, non abbiamo fame.

— Emma, disse la direttrice, venite ad abbracciarmi e sedermi vicina:
voi siete una buona fanciulla.

Io posai il cestino d’uova, il latte e le tazze appiè delle tre
renitenti, ed andai a sedermi accanto a mistress Colmann.

Ella avea detto il vero; sì, io era una buona bambina. — È colpa mia
o del mondo se sono divenuta la perversa creatura, che si prostra ora
dinanzi a voi, o mio Dio!




II.


Dopo la colezione, cui le tre grandi alunne assistettero senza
parteciparne, tutte le fanciulle condotte da madama Colmann tornarono
in città.

Il mattino innanzi sarebbe stato mio maggior desiderio di entrare
il giorno stesso in collegio, ma dopo quel che era avvenuto, il mio
entusiasmo s’era raffreddato, e chiesi a mia madre il permesso di
rimanere quel dì ancora alla masseria. Fu dunque stabilito ch’ella mi
condurrebbe al convitto la mattina del domane.

Nel lasciarmi, madama Colmann che, avendo visto la reazione operatasi
in me, temeva di perdere una alunna, mi fece mille carezze, e incitò
alcune delle fanciulle più piccole a far altrettanto, ma io sentii bene
che sarei sempre per quelle signorine _la piccola contadina, la figlia
della domestica della masseria_.

Mi dilungo su questi dettagli, che sembreranno forse a primo aspetto
puerili, perchè questi ed altri, onde avrò occasione di parlare in
seguito, ebbero una grande influenza sulla mia vita. I fiori devono
il loro splendore ed il loro profumo, i frutti il loro gusto e la
loro bellezza, non solo alle cure più o meno abili e premurose del
giardiniere che li coltiva, ma anche alla temperatura atmosferica
in cui il caso li pose. Il peccato mio originale era l’orgoglio; il
vento dello scherno e del dispregio, soffiandovi sopra, non fe’ che
infiammarlo invece di spegnerlo; e come Satana, il più bello ed il
più amato di tutti gli angeli, io, povera creatura umana, caddi per
orgoglio.

Uscite madama Colmann e le alunne, mossi verso la collina, ove, per tre
o quattr’anni, aveva guidato il mio piccolo gregge. A questa collina
convenivano la domenica alcune persone della città: tutte quelle della
masseria mi avevano già veduta nel mio nuovo splendore; l’impressione
prodotta su loro al mio primo apparire non potea più rinnovarsi; cercai
dunque da nuovi sguardi nuovi encomi.

Di fatto nel salire la collina, col mio gran cappello di paglia, i miei
lunghi capelli al vento, le guance porporine, incontrai varj gruppi
d’individui che mi guardarono: alcune voci dissero: — Ecco una bella
fanciulla. — Una sola chiese: — Non è ella la piccola guardiana del
gregge di madama Davison? —

Oimè, sì, era ben quella.

Questa domanda, che del resto non avea nulla di malevolo, avvelenò
tutta la gioia datami dalle lodi precedenti: — caddi in una triste
meditazione, e seguii ad occhi bassi il mio cammino, lasciandomi ad
uno ad uno cader di mano i fiori, che avevo raccolti per farmene una
corona.

Ad un tratto udii i festevoli latrati d’un cane, e Black, che m’avea da
lunge riconosciuta, si slanciò a me incontro, posandomi addosso le sue
zampe: la povera bestia non si dava pensiero degli abiti ch’io portava,
e credeasi sempre permesso di trattare la fiera alunna di madama
Colmann come la piccola guardiana di pecore. Un — _va via, Black_, —
accompagnato da un colpo di verga sulle irrispettose sue zampe, che
gli strappò un grido di dolore, fu la sola ricompensa che ottenne per
l’atto tenero questo amico, uno dei più antichi e più fedeli ch’io
m’ebbi.

Black si allontanò ad orecchi bassi, e scuotendo la testa come se
parlasse e rispondesse a sè stesso.

Il piccolo pastore, che m’avea surrogata a guardia del gregge, si alzò,
vedendo ch’io m’appressava, e mi disse quando gli fui vicina:

— Ah! siete voi, madamigella Emma! Quanto siete bella!

Gli sorrisi; era il solo complimento senza misto d’amaro ch’io avessi
ancor ricevuto. Gliene seppi buon grado: si vedrà l’influenza che
queste parole ebbero più tardi sul mio destino.

— Buon giorno, Dick,[1] gli rispos’io, tu sei un buon figliuolo e
saresti bello tu pure se fosti meglio vestito.

— Oh! io, seguitò egli, non sono che un povero contadino, nè muterò
probabilmente mai il mio vestito; ma voi pare si sia saputo che siete
una signorina.

Egli faceva allusione alle voci sparse intorno, circa una relazione
che avrebbe avuto mia madre col conte di Halifax, dopo ch’ella ebbe
ricevuto da quel signore cento lire sterline.

Non gli risposi, perchè non comprendeva ciò ch’egli volesse dire: gli
chiesi nuove di sua sorella, fanciulla presso a poco della mia età, che
serviva in una fattoria vicina alla nostra, e che avea nome Amy Sturg.

— Oh, diss’egli, ella sta bene, e sarebbe lieta di vedervi così bene
abbigliata.

— Credi? gli chies’io.

— Certo, rispos’egli: ella vi ama molto, madamigella Emma, e non è
punto invidiosa della fortuna altrui.

Era giunta vicino alla fontana: mi chinai per guardarmivi, ma non osai,
— ne ignoro il perchè, — in presenza di Riccardo dare alla mia immagine
il bacio ch’io le dava quand’era sola.

— Oh! disse Riccardo ridendo, guardatevi nelle nostre sorgenti, un
giorno vi guarderete in grandi specchi dorati, quali ve n’ha nella
bottega del mercante di Hawarden. Quando passerete dinanzi la sua
porta, potrete fermarvi e guardarvi dalla testa ai piedi senza che ciò
vi costi nulla.

Sedetti vicino alla fontana non pensando più a cercare in essa
un’incompleta riproduzione della mia immagine, ma vagheggiando di
vedermi dinanzi ad un grande e bello specchio dorato, in una camera
elegantemente addobbata, dai tappeti turchi, dalle cortine di seta
cilestri come il mio abito, dai mobili riccamente ornati. Chiusi gli
occhi per non veder più la realtà, e concentrarmi nel mio sogno.

— Oimè! quante volte ho io avuto di questi sogni, profetici baleni
dell’avvenire!

Donde poteano venirmi questo visioni di cose incognite? Forse i
primi miei sguardi avevano veduto splendori prontamente svaniti, ma
che aveano lasciato nella mia giovine mente i riverberi d’un mondo
anteriore. Quando io parlava di queste vaghe rimembranze a mia madre,
ella si contentava di rispondermi che io aveva probabilmente avuto
a matrina una fata, che la notte mi avea fatta viaggiare nei suoi
palazzi.

Questa volta ancora la mia matrina mi prese per mano, e per più
d’un’ora mi fe’ trascorrere i suoi fantastici dominj.

Mi riscossi sorridente e lieta, e riaprendo quegli occhi che avean
traveduti i più vaghi colori dell’arcobaleno:

— Addio, Dick, gli dissi; domani entro in collegio, ma i giovedì e le
domeniche ritornerò alla masseria, e di tanto in tanto verrò qui per
vederti.

E mi allontanai senza pensare a Black: il povero animale, che non avea
compreso il mio accoglimento, non comprese il mio addio. Mi seguì di
qualche passo, ma men lungi della prima volta, e sedette per guardarmi
a scendere la collina.

Volsi un ultimo sguardo a quell’angolo che fu l’Eden della mia
fanciullezza, e che io riveggo ancora col suo boschetto di querce e di
ginepri, col suo poggio coperto d’un tappeto di surcelle rosse colla
sua sorgente d’acqua viva, che va a cadere nella vallata a piccole
cascate. — Black mi guardava con occhio triste, come fanno gli amici
disconosciuti: io non pensai neppure a chiamarlo nè a consolarlo:
la povera bestia avea al vedermi tentato di farmi comprendere il suo
affetto, ma non avea potuto dirmi, come Dick, che io era bella.

Fu questa la mia prima ingratitudine.

Si vedrà invece come fui riconoscente, e troppo, a Dick.

Il domane, siccom’era convenuto, mia madre mi condusse da madama
Colmann. Vi fui ricevuta come si riceve ogni alunna che entra in
collegio, ogni monaca che fa noviziato. Le sotto maestre ebbero
raccomandazione di usarmi indulgenza, e madama Colmann condusse ella
stessa mia madre in dormitorio, le fe’ visitare il letto preparato
per me, e le mostrò ad uno ad uno gli oggetti di toeletta che mi erano
destinati.

Tutti quei nuovi oggetti, che erano per me un avviamento al lusso,
mi fecero tollerare gli sguardi sdegnosi delle mie nuove compagne; e
presi commiato dalla mia povera madre, assai più commossa di me, senza
versare troppe lacrime.

Fui interrogata su quel che sapevo; l’esame non fu lungo: non sapevo
assolutamente che le mie preghiere, secondo il rito anglicano, nel
quale ero stata educata. Di lettura e scrittura non avevo mai avuto
notizia: mi fu dunque forza cominciare dall’alfabeto, e, malgrado
i miei nove anni, che già mi davan la pretensione di essere una
giovinetta, entrare nella classe delle bambine di cinque a sei.

Fu una grande umiliazione per me; ma in questa occasione il mio
orgoglio, che spesso mi fu tanto fatale, mi servì; vergognandomi della
classe in cui mi trovava, feci sforzi inauditi per innalzarmi alle
classi superiori. — In capo a due o tre mesi leggeva passabilmente
e cominciava a scrivere: mi si fe’ allora passare nella classe
dell’aritmetica e dell’inglese, ove trascorsi sei mesi, dopo i
quali fui ammessa in quella classe che chiamavasi delle grandi. — Là
imparavasi la geografia, la storia, la musica ed il disegno.

Avevo già fatto qualche progresso in queste due arti, quando un bel
mattino mia madre, piangendo, venne a dirmi che il mio protettore, il
conte di Halifax, s’era ucciso subitamente cadendo da cavallo, ed era
morto senza nulla lasciarci.

La mia pensione era pagata per un mese ancora; ma dopo questo mese mia
madre sarebbe stata obbligata ad interrompere la mia educazione, non
avendo mezzo di pagarne le spese.

La novella che la piccola contadina, i cui progressi aveano spesso
assai umiliate le belle signorine, sarebbe astretta di tornar a
guardare i suoi montoni, cagionò una gioia generale nella classe delle
grandi, dove facean parte le mie tre prime nemiche, che mi avevano
serbato un rancore inglese. Ispirai qualche rammarico nelle classi
inferiori, ove passando mi avea fatta qualche amica; madama Colmann
finse d’asciugarsi una lacrima nel lasciarmi, per dare il buon esempio
alle sue alunne, ma si guardò bene dall’offerirmi di continuar _gratis_
la mia educazione, sebbene mi avesse più d’una volta detto, soprattutto
quando mia madre veniva a pagarle il trimestre, che io sarei fra uno o
due anni la gloria del suo istituto.

Lasciai il collegio, portando meco, per unica consolazione, i miei
oggetti di toeletta ed un uniforme nuovissimo, coll’ingiunzione però
fattami da madama Colmann di non servirmene, non facendo io più parte
del suo istituto.

Del resto me ne andai dopo 18 mesi, recando dalla casa di madama
Colmann una educazione abbozzata su tutti i punti, ma imperfetta
su tutti. Sapea leggere e scrivere; un po’ d’aritmetica, un po’ di
geografia, un po’ di storia, i primi elementi di disegno e di musica,
vale a dire, a parte la lettura e la scrittura, nulla che potesse
essermi utile. Non era abbastanza per sovvenire alla mia salvezza;
ma, dagli orizzonti traveduti, era più che non abbisognasse per la mia
perdizione.

Mia madre pure avea ricevuto la ripercussione della sventura che mi
colpiva. Saputo che ella era ridivenuta la povera vedova senza risorse,
la massaia l’aveva risospinta alla sua prima posizione, vale a dire a
domestica della fattoria.

Quanto a me, per metà signorina quale era diventata, non era più atta
a nulla; non potea tornare a custodire il gregge come una pastorella
di Marmontel col mio abito color di cielo e il mio gran cappello di
paglia. Si cercò dunque per me un’occupazione diversa.

Un giorno la sorella di Dick, Amy Strog, venne ad annunziarmi che
sua madre mi aveva trovato il posto nella famiglia del signor Tommaso
Hawarden, che portava non so perchè il nome della città che abitava,
cognato dell’ultimo Alderman Boydel e padre dell’illustre chirurgo
di Leicester Square. Questo posto, che riuniva le incumbenze di aia
de’ fanciulli e d’istitutrice per la prima età, era ben lungi dal
corrispondere ai miei sogni d’ambizione; ma bisognava vivere, e non
aveva la scelta dei mezzi.

Mi si compose un corredo dei resti di quello del collegio, si trasformò
la mia veste azzurra in una veste ordinaria; e siccome io guadagnava
dodici scellini al mese ed il vitto, si lasciò a cura della mia
economia lo arricchirmi d’altri oggetti.

Fu una grande umiliazione per me il rientrare in Hawarden in una
posizione poco dissimile dalla servitù, ma era questo uno dei primi
capricci del Dio Caso, che pare aversi fatto un gioco di innalzarmi ed
abbassarmi a vicenda.

Voi siete testimonio, o mio Dio, se dall’imo dell’abbassamento, da cui
non ho più speranza di rialzarmi, vi benedico e v’imploro col cuore più
riconoscente di quel che non ebbi al sommo della grandezza!




III.


Entrai presso il signor Tommaso Hawarden il 20 settembre 1778: potevo
avere dai 12 ai 13 anni.

Il signor Hawarden era un vero antico puritano, grave e giusto in
ogni cosa. Sua moglie era dal canto suo fredda e severa: i bimbi, su
cui doveva vegliare, erano figli della lor figlia unica, morta etica
durante un viaggio del padre loro in America.

Erano tre: i due maggiori avevano 4 o 5 anni; l’ultimo era ancora
lattante.

Un gran oriuolo a pendolo, simile a quello dello zio Tobia, pareva
essere la divinità regolatrice della casa: tutti i sabati a mezzogiorno
lo si caricava, e mediante questa cura, cui non vidi il signor Hawarden
mancare una sola volta, tutta la settimana si trascorreva congegnata a
ruote non meno esatte di quelle del pendolo.

Voi mi domanderete chi rimpiazzava il signor Hawarden nel caricare
l’oriuolo al sabbato a mezzogiorno, se egli doveva assentarsi.
Vi risponderò che il signor Hawarden, sapendo di avere al sabbato
quest’importante occupazione, veniva a casa a undici ore e mezza se
era fuori, ovvero se dovea sortire non se ne andava che a mezz’ora dopo
mezzogiorno.

Durante un anno, che io passai presso il signor Hawarden, nol vidi
mai fare un passo più veloce dell’altro, mai dire una parola più forte
dell’altra, mai sorridere una sola volta, mai una volta sola adirarsi,
mai rifiutare una sola occasione di far il bene, mai commettere
un’ingiustizia per quanto leggera la fosse.

Madama Hawarden era letteralmente l’ombra del suo sposo. Ella facevami
l’effetto di quelle buone donne che indicano sul barometro il bel tempo
e la pioggia, ove la donna esce o rientra dietro al marito ripetendone
i gesti, aprendo l’ombrello s’egli lo apre in segno di tempesta,
chiudendolo s’egli lo chiude ad indicare il sole.

Il signor Tommaso Hawarden doveva esser ricco, per quanto non abbia
visto splendere altro denaro che i dodici scellini ch’io riceveva
tutti i primi del mese, alle 10 del mattino colla esattezza ordinaria,
dalla mano scarna e bianca come l’avorio di madama Hawarden. Tutta
la casa apparteneva ai due coniugi: guardava da una parte sulla
strada principale della città, dall’altra sopra un giardino dai viali
sparsi di sabbia marina, dalle aiuole circuite di bossolo, dai tassi
tagliati a piramidi. Un giardiniere avea cura di questo giardino, in
cui non vidi mai una foglia secca, un fiore divelto: i fanciulli vi
passeggiavano, ma sapeano di non avere il diritto di trastullarvisi, ed
esser loro proibito di toccare i fiori ed i frutti.

In estate ci alzavamo alle sei; alle sette in inverno. Alle otto, tutta
la famiglia, padroni e servi, entravamo in una specie d’oratorio,
ove sopra un seggio stava una Bibbia dai fermagli d’acciaio. Il
signor Hawarden leggeva questa Bibbia e una preghiera, cui sua moglie
rispondeva — Amen. — Finita la lettura e chiusa la Bibbia, entravasi
nella sala da pranzo, ove era imbandita una colezione, composta di
latticini, di burro e di latte: un gran vaso da thè, al quale ognuno
aveva il diritto di ricorrere a volontà, ma a cui pareva tacitamente
convenuto che non si ricorrerebbe che due volte, conteneva una dozzina
di tazze: eravamo cinque a tavola, il signor Hawarden, madama Hawarden,
i due fanciulli ed io, che, grazie alla parte delle mie attribuzioni
che innalzavami al grado d’istitutrice, aveva il diritto, poco
invidiato del resto dagli altri domestici, di mangiare al tavolo del
padroni.

Quando il pendolo faceva sentire quel rumore che negli orologi di
questo genere precede il suono delle ore, ci alzavamo tutti da tavola,
era per ciò rarissimo che qualcuno si trovasse ancora in sala quando
suonava la mezza.

A mezzogiorno preciso si andava a pranzo, eccettuato il sabato in cui
tardavasi d’un minuto, perchè il signor Tommaso Hawarden caricasse il
pendolo. Senza essere di lusso, il pranzo era convenevole: la bevanda
ordinaria era la birra; ma ognuno riceveva in una piccola bottiglia un
bicchierino di vino di Bordeaux che dovea servire pel pranzo e la cena:
i fanciulli, un mezzo bicchiere. Il pranzo durava un’ora.

A cinque ore si merendava con dei sandwich, del pane di segale, del
burro e qualche dolce; veniva in campo la thetiera della colazione, il
thè costituiva la sola bevanda, e, come la colezione, la merenda durava
mezz’ora.

Alle otto si cenava: la cena era presso a poco la ripetizione del
pranzo, tranne che i fanciulli non vi assistevano: alle sette e mezzo
si dava loro una fetta di pane coperta di burro, o miele, a loro
scelta, e poi si coricavano.

Non li ho mai uditi a piangere una sol volta, a meno che cadendo non si
facessero molto male.

Il giovedì dopo pranzo si metteva il cavallo al calessino. I bimbi, la
nutrice ed io vi salivamo, ed il cocchiere ci conduceva in qualcuno dei
prati che confinano colla città di Hawarden.

Allora era per noi tutti una festa. Il peso, che la diacciata atmosfera
della casa aggravava sui nostri petti, si sollevava; perfino il
lattante parea più lieto: la nutrice passeggiava, e i due fanciulli
correvano meco nell’erba, cogliendo fiori ed inseguendo farfalle.

I bambini mi adoravano perchè io era bambina com’essi.

Il sabato sera, dopo cenato, la vettura attendeva alla porta. Tutti vi
salivano, eccetto il giardiniere che rimaneva a guardia del giardino e
della casa, incamminandosi verso _la campagna_.

Chiamavasi _campagna_ un gran poggio, sito a due leghe e mezza da
Hawarden, fra Chester e Flint, sulle rive della Dee, presso a poco ad
un quarto di lega del luogo ove si getta nel mar d’Irlanda, o piuttosto
nel golfo che vi comunica.

Si impiegavano due ore e dieci minuti a fare la strada, mai più, mai
meno; il cocchiere frustava tre volte il suo cavallo; la prima volta
partendo, la seconda volta a mezza via, la terza arrivando al viale.

La prima volta che vidi il mare ebbi una profonda sensazione;
quantunque il golfo della Dee sia assai stretto, potevasi da un
monticello scoprire all’orizzonte il largo mare: stesi le braccia verso
l’infinito, con un gesto appassionato, come se avessi visto l’eternità.

La domenica, che durante i sette bei mesi di primavera, d’estate e
d’autunno, trascorremmo invariabilmente alla campagna, era consacrata
alla preghiera ed al passeggio; in quel giorno io aveva la direzione
dei bimbi non solo dopo colazione, come il giovedì, ma ancora dopo
pranzo.

Ivi non avevamo bisogno di carrozzino. La campagna posta sulla destra
riva della Dee, fra la riviera ed il golfo, ci offeriva a scelta o la
spiaggia del mare per raccogliervi conchiglie, o l’argine della riviera
per cogliervi fiori. Tutto il terreno compreso fra il fiume ed il mare
poteva offerirci una passeggiata di tre quarti di lega.

Là la libertà era ancor più grande che il giovedì nei prati di
Hawarden: insomma erano due giorni di sole per cinque giorni di ombra:
la mia vita non è sempre stata così ben divisa.

Un giorno, — era la domenica della prima settimana del maggio 1777,
— verso le due pomeridiane, alla nostra seconda escita del giorno,
vedemmo in riva al mare una bella barca guidata da 4 o 5 rematori. I
banchi a poppa erano coperti di tappeti e ornati di cuscini in velluto.

Qualche passo più oltre un uomo era seduto sopra uno sgabello, e
disegnava una contadina del paese di Galles, che avea fra le braccia un
bambino: una giovin donna stavagli a fianco in piedi e guardava al di
sopra della spalla i progressi del disegno.

L’uomo e la giovine, benchè indossassero abiti da campagna, erano
vestiti con ricercata eleganza: divinavasi che erano abitanti di Londra
smarriti nel Flintshire.

I fanciulli, spinti dalla curiosità, mossero verso il gruppo: io li
richiamai, ma quanto erano obbedienti in casa, tanto erano caparbi
quando si sentivano in libertà; non mi risposero, e continuarono
a correre fino a che giunsero l’uno vicino alla dama, l’altro al
disegnatore.

Ambedue si volsero.

— Ecco un bel fanciullo, disse l’uomo posando la sua mano sul capo del
fanciullo come per vederlo meglio. Come vi chiamate, mio piccolo amico?

— Edoardo, rispose il bimbo.

— E voi, madamigella? chies’egli alla bambina.

— Sara, rispos’ella.

— Non è egli strano, Arabella? seguitò il pittore, sono i nomi dei due
miei figli.

Poi con un sospiro:

— Essi aveano l’età loro l’ultima volta ch’io li vidi.

E restò pensoso senza curarsi di ripigliare il suo disegno.

Frattanto gli occhi della dama s’erano fissati su me, e pareano
inchiodati al mio viso.

— In fede mia, mormorò ella, ecco una splendida creatura. Osservate
dunque, Romney.

E gli posò la mano sulla spalla a destarlo dalla sua meditazione.

Egli scosse il capo come uomo che volesse scacciar dal suo spirito un
triste ricordo.

— Che dite, Arabella? domandò egli.

— Dico che vi voltiate, e guardiate dietro a voi invece di guardarvi
dinanzi.

Il pittore guardò dalla mia parte, e parve compreso da meraviglia.

— Avvicinatevi, madamigella, mi disse la dama, e lasciate che vi
guardiamo a nostro bell’agio: siete bella abbastanza perchè si abbia
piacere a vedervi.

Il mio volto arrossiva per vergogna, ma il mio cuore gioiva: non era
più un piccolo pastore che dicevami bella; non erano più sprezzanti
compagne che mi trovavano bella, e mi rimproveravano d’esser goffa;
erano un signore ed una signora di città che mi ammiravano francamente
e senza restrizione.

Mi appressai macchinalmente.

Il pittore mi stese la mano; gliela diedi.

— E qual mano, non dirò ella ha, ma ella avrà, seguitò il pittore:
guardate, Arabella.

— Oh! credete pure che la guardo con egual piacere di voi, Romney.
Io non sono, la Dio grazia, gelosa. Puossi chiedervi il vostro nome,
madamigella?

— Mi chiamo Emma, madama, risposi.

— E l’età vostra? chiese il pittore.

— Devo avere presso a poco quattordici anni, signore.

— Come, dovete avere...?

— Mia madre non mi ha detto mai precisamente la mia età.

— È la figlia di qualche duchessa, disse Romney.

— No, signore, rispos’io; sono la figlia d’una semplice contadina.

— Questi due fanciulli, chiese la dama, sono fratello e sorella vostri?

— No, madama: i loro genitori li hanno affidati alla mia custodia, ed
io insegno loro a leggere e a scrivere.

— Dite dunque, Romney, disse la dama curvandosi verso il pittore per
parlargli sottovoce; qual fortuna farebbe ella a Londra con un fisico
come il suo?

— Non vogliate perderla, tentatrice.

Poi volgendosi a me:

— Miss Emma, mi diss’egli, vorreste voi rendermi un gran servigio?

— Volontieri, signore, e quale?

— Volete voi star ferma cinque minuti, affinchè io faccio uno schizzo
di voi.

— Con piacere, signore.

— Allora rimanete come vi trovate in questo momento.

Restai: egli fe’ un mezzo giro sul suo sgabello, e in meno di dieci
minuti ebbe fatto all’acquarello un grazioso schizzo di me stessa.

Seguii avidamente il pennello sulla carta.

Quando fu ultimato, mi mostrò il disegno.

— Vi riconoscete voi? mi chies’egli.

— Oh! gli diss’io, arrossendo questa volta dal piacere, non sono così
bella.

— Mille volte di più, — ma, vedete voi, Arabella, per questa
trasparenza di carni, per questa limpidezza di sguardo, per questi
morbidi capelli, abbisogna l’olio. — Venite a Londra, madamigella,
quando sarete stanca d’abitare la provincia; e per ogni seduta
d’un’ora, che vorrete, spero, accordarmi, vi darò quel che vi si dà in
un anno per l’educazione di questi bimbi.

— Chiamatemi ancor tentatrice, Romney.

— Fate a vostra volta le vostre proposte, Arabella, non ve lo impedisco.

— Oh! quanto a me, se venite a Londra, madamigella, e vi contentate del
posto di semplice dama di compagnia a dieci lire il mese, mi troverete
sempre lieta di ricevervi. Datemi un pezzo di carta e una matita,
Romney.

— Che volete farne?

— Dare il mio indirizzo a questa bella fanciulla.

— A quale scopo, disse Romney alzando le spalle.

— Chi sa? disse Arabella.

— Ed avrete l’ardire dì tener quel viso lì presso di voi, Arabella?

— Perchè no? rispose la dama con aria provocante: io sono di quelle che
cercano i confronti anzichè sfuggirli.

Poi, rivolgendosi a me:

— Tenete, madamigella, in ogni caso eccovi il mio indirizzo, diss’ella.

E mi porse il foglio, su cui erano scritte queste parole, miss Arabella
— Oxford Street, 23.

Lo presi senza sapere quel che ne farei, senza intenzione di
servirmene, come Eva prese il pomo senza intenzione di mangiarlo.

— Andiamo, disse la giovine, andiamo, Romney: siamo attesi a Park Gate
fra un’ora, ed abbiamo tutto lo stretto a traversare.

Il pittore si alzò, gettò un luigi appiè della contadina che avea presa
a modello, e venendo a due passi di distanza da me:

— Venite a Londra, madamigella, farete bene; non vi venite, farete
meglio ancora. Frattanto, — e mi salutò della mano, — addio, o a
rivederci.

— A rivederci, gridò Arabella, ponendo il piede nella barca.

E la fragile navicella si allontanò rapidissima sotto lo sforzo di
quattro rematori.

Io, pensosa e taciturna, ricondussi a casa i bambini.




IV.


Se si ricorda l’effetto che m’avea prodotto Dick quando, parlandomi
di un grande specchio dorato nel quale mi vedrei dal capo ai piedi, mi
avea trasportata nel magico regno della fata Morgana, è facile ideare
le folli visioni che sursero nel mio cervello dopo la mia conversazione
col pittore e la sua bella compagna.

Non comprendeva metà delle parole ch’essi aveano scambiate fra loro,
o che mi aveano dirette, ma aveva capito soltanto l’offerta fattami
dal pittore di cinque lire ad ogni seduta, in cui gli poserei dinanzi;
e da miss Arabella di dieci lire al mese, se accettava di essere sua
damigella di compagnia. Ambedue insomma mi avean detto che, andando a
Londra, una fortuna mi attendeva.

Certo non era un posto molto elevato quello di damigella d’una donna,
la cui condizione mi pareva dubbiosa, ma per me, povera figlia d’una
domestica di fattoria, per me, guardiana di montoni, tre anni innanzi
spregiata alunna di madama Colmann, da dodici mesi istitutrice di
bimbi a quattro _pences_ circa il giorno, era un gran passo fatto verso
questa promessa fortuna lo arrivare a ricevere cento lire l’anno invece
di sette od otto.

Poi Londra, Londra dal magico nome, la città di cui tutti parlavano,
ove tutti volevano andare, ove si gettano tutte le ambizioni, come
tutti i fiumi al mare, — Londra! — Non era già egli un gran che lo
essere a Londra, in una città che conta un milione e mezzo d’abitanti,
invece di vivere in un borgo di Flintshire, in mezzo ai monti del paese
di Galles, presso le spiaggie triste e deserte del mar d’Irlanda?

E nel rientrarvi il lunedì mattina, la casa del signor Tommaso Hawarden
mi parve di fatti più fosca e malinconica che mai.

Una cosa ancora contribuì alla mia mestizia. Come al solito, il
vegnente lunedì condussi a far trastullare nel prato i fanciulli: — era
seduta sopra un albero atterrato, errando col pensiero in quella vasta
città sconosciuta, cui tendevano i miei desiderj, quando udii un rumore
di passi e un cicalìo, che mi si appressava.

Alzai il capo: erano le mie antiche compagne che si dirigevano dalla
mia parte.

Il caso non me ne avea condotto alcuna dinanzi dopo la mia uscita di
collegio, ma in compenso me le menava oggi tutte in massa.

Mi levai in piedi per salutare madama Colmann, ma parve ella appena
riconoscermi, e mi rispose con un lieve cenno del capo, senza volgermi
parola.

Le mie tre nemiche, invece, mi riconobbero: nel passarmi dinanzi, la
maggiore, che avea nome Clarice Damby, disse alla sua vicina, Clara
Sulton:

— Vedi, ecco la nostra antica compagna Emma Lyon. Pare ch’ella non
guadagni di più come aia di bimbi, che come guardiana di montoni,
giacchè ha ancora l’abito del collegio.

E si posero a ridere.

Alcune delle più giovani mi riconobbero; una sola lasciò le compagne e
venne ad abbracciarmi; si chiamava Fanny Campbell: era la figlia d’un
sergente di marina.

Ventidue anni dopo, questo bacio salvò la vita a suo padre.

Ma il bacio non cancellò il sarcasmo che lo avea preceduto.

Ed era vero, io aveva ancora il mio uniforme: aveva tanto avuto cura di
quel della domenica, che durava ancora, e aveva potuto metter da parte
gli uni dopo gli altri i dodici scellini che riceveva al mese.

Era il mio tesoro, vale a dire la libertà.

Dacchè stava presso il signor Hawarden avevo accumulato sei lire
sterline: le mie sei monete d’oro erano chiuse in un cassettino
dell’armadio nella camera mia, la cui chiave io non abbandonava un
momento, precauzione inutile per altro nella casa del signor Hawarden,
ove si avrebbe potuto lasciare il diamante del gran Mogol senza tema
che fosse derubato.

Sì, io aveva sempre lo stesso abito; Clarice Damby aveva detto il
vero, ma andando a Londra e divenendo damigella di compagnia di miss
Arabella con dieci lire il mese, e modello del signor Romney con cinque
lire ogni seduta, potrei bene mutar le mie vesti tutti i mesi, tutti i
quindici giorni, tutte le settimane!

Mai tentazione morse più violentemente il cuor d’una donna di quella
che m’assalì in quell’istante: guardai la carta che teneva in seno
ripetendo ben dieci volte:

— Miss Arabella, Oxford Street, 23.

Anche perdendo quel foglio, l’indirizzo era indelebilmente scolpito nel
mio cervello.

Rientrata in casa, vi trovai un nuovo ospite; il Signor James Hawarden,
quegli che, come ho detto, era chirurgo a Leicester Square.

Egli giungeva da Londra, e doveva restare otto giorni presso suo padre:
durante otto giorni udrei dunque a parlare di Londra!

Il mio aspetto produsse su lui l’impressione che produceva su tutti:
ei m’interrogò sulla mia famiglia, su me: mi chiese quel che contassi
di fare e il perchè non andava a Londra, ove ei s’incaricherebbe, mi
disse, di trovarmi un posto.

Poi, mentre il mio cuore batteva tanto da spezzarmi il petto di
desiderio e speranza, dopo avermi guardata un momento con una suprema
espressione d’interesse:

— No, diss’egli, è meglio assai che non vi veniate.

Io moriva dal desiderio d’interrogarlo, ma non l’osai in presenza del
signor Hawarden padre: fece il caso che questi uscisse; allora, prima
ancora che la porta si richiudesse, queste parole m’erano uscite di
bocca:

— Conoscete voi il signor Romney?

— Quale Romney? chiese il signor James.

— Il pittore, rispos’io.

— Chi non conosce Romney! È il più gran ritrattista dei tempi moderni.
— Poi, crollando le spalle: Che peccato!..... seguitò egli.

Ma non terminò la sua frase.

Io lo guardai interrogandolo cogli occhi, non osando farlo colle labbra.

— Sì, soggiunse egli, che peccato che una sì grande immoralità sia
congiunta a tanto genio! — Egli aveva una moglie adorabile, due vezzosi
bambini, ed ha tutto abbandonato per vivere con donne di teatro e
cortigiane, che logorano la sua salute e smungono il suo avere. Egli
pagherebbe un modello venticinque lire sterline, se questo modello gli
offrisse qualche nuova bellezza. — Ma come conoscete voi Romney?

— Non lo conosco, rispos’io, arrossendo; una mia compagna di collegio
era sua parente.

Il signor Hawarden rientrò: io mi tacqui. Il severo puritano avrebbe
per certo trovato mal fatto che io tenessi con suo figlio una
conversazione su tal materia.

Non riparlai più di Romney col signor James Hawarden: sapeva quanto
volea sapere. Non osai interrogarlo su miss Arabella; temevo di
conoscere quel ch’ella fosse; il dubbio mi permetteva di servirmi della
sua offerta.

D’altronde la prima parola di quelli che mi vedevano non era essa che
io doveva andare a Londra? Vero si è che riflettendovi ognuno se ne
disdiceva; ma che avea dunque Londra di tanto spaventevole? Sopra un
milione e mezzo d’individui che l’abitavano eranvi ben certo due o
trecento mila fanciulle dell’età mia. Per abitar Londra erano elleno
perdute?

Dopo gli otto giorni il signor James Hawarden partì: il suo interesse
per me non avea fatto che accrescersi durante il suo soggiorno dal
padre; e nel lasciarmi, egli mi disse che se mai io andassi a Londra,
cosa ch’egli non mi augurava, mi ricordassi di lui.

Non era a temersi ch’io nol facessi; aveva scritto nella mia mente il
suo indirizzo con quel di miss Arabella.

Qualche giorno dopo la partenza di lui, fece il caso che, uscendo per
andar a riprendere i bambini che erano andati a scorrere un’ora da una
loro parente, passassi dinanzi il negozio di specchi, di cui mi avea
parlato Dick cinque o sei anni innanzi.

Trasalii nel vedermi tutta intera in uno degli specchi esposti alla
porta del magazzino; mio malgrado, sostai come affascinata dalla mia
propria immagine.

In quel momento sentii toccarmi una spalla; mi volsi e riconobbi Amy
Strug, che io non aveva vista da un anno.

Senza essere elegante era vestita assai meglio di quel che non
convenisse al suo stato: la guardai dunque con sorpresa.

Ella vide ch’io stava per interrogarla, e non me ne diè il tempo.

— Che facevi tu là, mi chiese.

Mi posi a ridere.

— Lo hai ben veduto, risposi.

— Sì, ti guardavi in uno specchio, e ti vedevi bella; ed avevi ragione.
Vorrei esserlo quanto lo sei, e so ben io quel che vorrei fare.

— Che faresti?

— Non resterei a lungo nel ducato di Galles.

— Dove andresti?

— A Londra; tutti dicono che con un bel fisico si fa fortuna a Londra:
procura di andarvi; e quando sarai milionaria mi prenderai teco per
cameriera.

Trassi un sospiro.

— Non è il desiderio che mi manca, le dissi.

— Ebbene, chi te lo impedisce?

— Come vuoi tu che all’età mia io parta sola per Londra.

— Se non ti manca che una compagna di viaggio, eccomi.

La guardai.

— Parli seriamente? le dissi.

— Nol potrei più seriamente.

— Ma fa mestieri di molto denaro per andare a Londra.

— No, al contrarlo; con una lira vi si va: me ne sono informata a
Chester. Con una lira si ha un posto nell’interno della diligenza: noi
prendiamo due posti con due lire e in tre giorni siamo a Londra.

— Ma tua madre?

— Mia madre, disse Amy, con una smorfietta; oh! v’ha un po’ di
freddezza fra noi dopo la mia uscita dalla fattoria.

— Non sei dunque più da madama Rivers?

— No..... anzi, tanto vale che io ti dica il tutto. Immagina dunque
che suo figlio Carlo venne a vederla. Nel tempo ch’el fu da sua madre
mi ha fatto la corte; in fede mia io lo trovava troppo bello per non
lasciarmela fare: sua madre se l’ebbe per male e mi ha messa alla
porta. Carlo ha creduto di dovermi un compenso pel posto ch’io aveva
perduto a cagion sua, e prima di partire mi ha dato quindici lire.
Cinque mi sono occorse nella compera d’abiti onde avea gran bisogno; me
ne restano dieci, vuoi tu venir meco a Londra? te ne do cinque. Oh! me
le renderai, non ne sono inquieta.

— Grazie, Amy, le rispos’io; ma son quasi ricca quanto lo sei: ne ho
sette.

— Hai sette lire, ed io dieci: abbiamo diciassette lire! ma abbiamo
tanto da fare il giro del mondo! aggiungendo soprattutto che Carlo è a
bordo d’un vascello.

— Oh! le diss’io, se fossi certa...

— Certa di che? chiese Amy.

— Che la dama, di cui ho l’indirizzo, fosse tornata a Londra.

— Una dama ti ha dato il suo indirizzo?

— Sì.

— E a quale scopo?

— Perchè io vada da lei come damigella di compagnia. Mi offre dieci
lire al mese.

— Dieci lire al mese! e tu esiti?

— Son quindici giorni appena che la ho veduta, in riva al mare, presso
alla campagna del signor Hawarden.

— Dove abitava?

— Ho udito loro a nominare Park Gate.

— Hai _loro_ udito nominare! Ella non era dunque sola?

— Era con un pittore, il quale m’ha offerto cinque lire per ogni volta
che io volessi servirgli da modello.

— Come! hai trovato una dama che ti offre dieci lire, un pittore che
te ne offre cinque ad ogni seduta, ed hai rifiutato? — Se tu fossi
cattolica, direi che vuoi essere canonizzata. Partiamo, Emma: tu farai
la tua fortuna dapprima, quindi la mia.

— Se vi fosse mezzo di sapere se sono ancora a Park Gate, o partiti.

— Nulla di più facile.

— E come?

— Non abbiamo noi Dick che vuole egli pure venire a Londra, e che noi
condurremo con noi, giacchè siamo tanto ricche? In qual giorno vai tu
alla campagna coi tuoi padroni?

— Tutte le domeniche.

— Dammi il nome del tuo pittore e quel della tua dama.

— Il pittore si chiama Romney, la dama miss Arabella.

— Romney — miss Arabella — Prender notizia a Park Gate del luogo ove
si trovano. — Sta di buon animo, non dimenticherò nulla. Sabato sera
partirò per Chester con Dick: domenica, alle dieci del mattino, io
passeggerò in riva al mare: fa di trovarviti e ti darò la risposta.

— Ma Dick, vuoi fargli perdere il posto di pastore?

— Oh! da gran tempo egli non è più a guardia dei montoni.

— E che fa egli allora?

— Nol saprei bene — nulla — un po’ di contrabbando, probabilmente.

— Oh! mio Dio! ma i contrabbandieri son mandati in galera.

— Sì, quando li prendono, ma Dick è furbo e non si lascia prendere;
solo, siccome egli comincia ad essere conosciuto sulle nostre sponde,
non gli dorrebbe di mutar paese, — quindi, a domenica.

— A domenica, ma non ti prometto nulla.

— Chi ti chiede di promettere qualche cosa? Quando saremo là,
combineremo. Solo, non dimenticare nè il tuo denaro nè la valigia.

E si allontanò con passo noncurante e leggero, a provarmi che per conto
suo tutte le sue riflessioni erano fatte.

Io restai un istante immobile e pensosa allo stesso posto: mi
allontanai a mia volta volgendo un ultimo sguardo allo specchio.

Disgraziatamente lo specchio mi diede lo stesso consiglio di Amy Strog.




V.


Come al solito, il sabato vegnente all’ora stessa degli altri sabati,
partimmo per la campagna. Il cavallo s’ebbe i tre colpi di frusta cui
era avvezzo, e dopo due ore e dieci minuti ponemmo piede a terra.

Non avevo punto dimenticate le istruzioni d’Amy: aveva prese meco le
mie sette lire aumentate da dodici scellini, che il signor Tommaso
Hawarden mi avea pagati il dì innanzi, ma non ebbi bisogno di valigia
per chiudere la mia roba: una salvietta annodata ai quattro lati erami
bastata.

Sarebbe difficile lo esprimere i sentimenti che mi assalirono
nell’entrare in quella casa che io rivedeva forse per l’ultima volta,
da cui mi allontanava forse la notte seguente, fuggitiva, senza saper
dove andassi, ed in qual nuovo ed incognito mondo mi slancerei, sotto
la protezione di quella capricciosa divinità che si chiama Caso.

Considerai, qualora la mia fuga venisse risoluta, quali sarebbero
gli ostacoli che avrei a superare: disgraziatamente non erano tali
da arrestare una testa folle come la mia. La camera dei fanciulli
e mia era a pianterreno e guardava sul giardino, la porta del quale
metteva alla spiaggia, e sulla spiaggia Amy e Dick, liberi da ogni
sorveglianza, potevano attendermi.

Il domani all’ora stabilita io era sulla spiaggia coi bimbi: Dick e
Amy mi aspettavano al posto stesso ove un mese prima avevo incontrato
Romney e miss Arabella, i quali da tre settimane erano partiti da Park
Gate, ma non potea sapersi ove fossero andati: siccome però s’eran
fatti condurre a Chester, recavansi probabilmente a Londra.

Nel dubbio, Amy e Dick eran d’avviso di partire: Dick soprattutto
parea desideroso di allontanarsi dalle coste d’Irlanda. Siccome su’ tre
pareri ve ne avean due per la partenza, la maggioranza prevalse.

La vettura per Londra ponevasi in cammino il domani, alle sei del
mattino, e Amy aveva avuta la cautela di ritenere i nostri due posti
nell’interno, e quel di suo fratello sull’imperiale.

A mezzanotte mi aspetterebbero ambedue alla porta del giardino: una
barca ci condurrebbe a Chester, ove arriveremmo un’ora almeno prima
della partenza del Coach-Post.

Prese queste disposizioni, Amy e Dick si allontanarono.

Il giorno trascorse colla consueta regolarità: ho osservato che nulla
passa più presto delle giornate regolari, o piuttosto che, una volta
passate, nulla pare essersi più velocemente dileguato, attesochè,
lasciando solo uniformi ricordi, e non essendo notate da alcun
avvenimento piccante, questi ricordi si cancellano nella tinta fosca e
monotona d’una vita senza gioie e senza dolori.

Giunta la sera, i bambini si coricano all’ora solita; io andai a cena
coi coniugi Hawarden, poi, alle dieci precise, entrai nella mia camera.
Ebbi la precauzione di portarvi penne, carta ed inchiostro, volendo
scrivere due lettere, una al signor Hawarden, l’altra a mia madre.

Scrissi al primo, ringraziandolo della bontà che aveva avuto per me,
dicendogli che non dimenticherei mai l’anno che avevo avuto la fortuna
di passare in sua casa, ma che un desiderio più forte della mia volontà
mi trascinava verso quel paese di chimere che ha nome Londra; che
io partiva raccomandandomi alle sue preci e a quelle di sua moglie,
come fa al suo salire in un fragile schifo il povero marinaio, che si
avventura in un incognito mare.

Scrissi a mia madre che, avendo trovato a Londra, presso una ricca
signora, un posto eccellente che dovea fruttarmi dieci lire al mese, io
partiva per quella città. Aggiunsi, ma senza darle altre spiegazioni,
che se il posto fosse quale mi si annunciava, non tarderei a provarle
la mia riconoscenza per le cure prese di me: le dissi infine che se io
non mi recava a farle i miei addii, si era nella tema di non aver più
il coraggio di staccarmi dalle sue braccia.

Scritte queste lettere, piegatele, e postivi gl’indirizzi, mi sentii
più tranquilla.

In un’altra famiglia avrei potuto temere che i padroni si ritirassero
tardi, ovvero l’incontro del giardiniere o qualche altra persona in
giardino; ma la casa del signor Hawarden era troppo bene regolata,
perchè mi avvenisse un tale inconveniente.

Udii a suonare le 11, poi la mezza al pendolo della sala da pranzo,
simile per esattezza a quello di Hawarden; colla differenza, che in
luogo del sabato a mezzogiorno, veniva caricato alla medesima ora nella
domenica. Lasciai trascorrere ancora dieci minuti circa; abbracciai nel
lor letto i bimbi, che, dalla regolarità con cui dormivano, attestavano
la incontestabile figliazione; apersi la finestra, e da questa scivolai
nel giardino, tentando, se non di chiuderla, almeno di avvicinarne le
due imposte.

Appiè della finestra fui costretta a fermarmi un istante: per quanto
non avessi gran che a temere, il mio cuore batteva violentemente:
per soprappiù la notte era tetra, e dacchè abitavo Hawarden io era
ricaduta in quei puerili timori ispirati dalle tenebre, che non avevo
avuti giammai quando abitavo la masseria e scorrevo le mie notti nelle
montagne.

Ma in capo a qualche secondo, questo terrore, piuttosto prodotto
dall’azione stessa che io commetteva, che dalle condizioni in cui
la eseguivo, questo terrore svanì; i miei occhi si abituarono alla
oscurità; grazie alla ghiaia ond’era sabbiato il terreno, io lo vidi
svolgersi dinanzi ai miei occhi come una lunga e fosca striscia: questa
striscia menava direttamente alla porta del giardino che metteva al
mare.

Corsi verso questa porta: giuntavi, sostai: mi pareva d’aver udito a
parlare dall’altra parte del muro: era ben naturale, Amy e Dick erano
là che mi aspettavano.

Ripigliai fiato e chiesi a mezza voce:

— Sei tu, Amy?

La voce d’Amy risposemi affermativamente: udii inoltre la stessa voce
che diceva a Dick:

— È dessa, eccola.

Era evidente che essi, malgrado l’accordo della mattina, temevano ch’io
mancassi alla mia parola.

Apersi la porta girando solo la chiave e tirando due catenacci. Per
vero nessuna fuga, seguita da così strani risultati, fu accompagnata da
men romantici avvenimenti.

Dietro la porta mi attendevano Amy e Dick. Osservai che Dick era armato
di una corta carabina e d’un paio di pistole. Egli s’era fatto un
robusto giovinotto di 18 anni, dall’aspetto coraggioso e risoluto.

Chiuse la porta e la serrò al di fuori colla chiave, affinchè, noi
partiti, nessuno potesse introdursi nel giardino, e gettò la chiave
dall’alto del muro.

Una piccola barca attendevaci a qualche passo di distanza: Amy ed io vi
salimmo prime; Dick la spinse e vi saltò dentro, mentre già cominciava
a correre sull’acqua; poi, impadronitosi dei remi, vogò arditamente.

Era, il ricordo, una bella notte dell’agosto 1797, la notte del 15
al 16 luglio, quando abbandonai la placida casa che non dovea più
rivedere, lasciandomi dietro tutte le innocenti rimembranze della
fanciullezza, attraverso le quali non dovea più ripassare che in sogno,
e per dire, come Francesca da Rimini:

    «...... Nessun maggior dolore,
    Che ricordarsi del tempo felice
    Nella miseria;..........»

Trentasett’anni sono decorsi da quella notte, e quando chiudo gli
occhi, e mi concentro nei miei pensieri, mi par che sia ieri, e
riveggo tutti gli oggetti che colpirono in quel momento i miei occhi e
preoccuparono il mio spirito.

Il cielo era oscuro, ma dalla sola assenza della luna: milioni di
stelle brillavano nel fosco suo azzurro, riflettendosi nell’azzurro
più cupo ancora delle acque del golfo. La casa del signor Hawarden,
dinanzi a cui passavamo tacitamente, lasciandoci dietro un solco che si
cancellava all’istante, scompariva alla nostra destra come una massa
grigia: un fuoco splendeva al sommo d’una collinetta sulla costa che
avevamo appena lasciata, e sull’opposto lido un cane latrava in qualche
invisibile fattoria.

Approdammo verso le tre all’altra riva del golfo. Dick allogò il suo
battello vicino ad uno schifo ancorato alla spiaggia: al suo richiamo
due uomini si alzarono: egli scambiò con essi qualche parola, consegnò
loro le sue armi, strinse la mano dell’uno, abbracciò l’altro, saltò a
terra e ci porse la destra per discendere: i suoi addii eran fatti.

Movemmo per la via di Chester, discosta presso a poco una lega dal
lido. Una lega era ben poca cosa a campagnuoli come noi: portai il mio
piccolo fardello; Dick, il quale probabilmente non possedeva che gli
abiti che indossava, s’incaricò di quello d’Amy.

Arrivammo a Chester all’apparire del giorno. Dick ci condusse in una
specie di taverna vicina all’ufficio della diligenza: Amy ed io ci
facemmo portare una coppa di latte ciascuna: Dick, meno pastorale di
noi, trangugiò un bicchiere d’acquavite. L’ora trascorse alla meglio, e
alle sei montammo in carrozza.

La strada non ci offrì incidente alcuno che meriti d’esser qui
ricordato. Traversammo le città principali del centro dell’Inghilterra,
Lichfield, Coventry, Oxford, ed il terzo giorno arrivammo a Londra
verso le quattro del pomeriggio.

Dick s’era munito dell’indirizzo d’un piccolo albergo, ove qualche
parola di riconoscimento dovea farlo il benvenuto, essendo, a quel che
pareva, l’albergatore in relazione con tutti i contrabbandieri della
costa.

Quest’albergo era sito nella piccola via di Villiers, che confinava da
un parte col Tamigi, dall’altra collo Strand.

Confesso che al mio entrare in Londra fui più impaurita che sorpresa.
Quelle vetture che s’incrocicchiano in tutti i sensi; quel clamore
continuo, in mezzo al quale tenterebbe invano di farsi udire quello
del tuono; que’ pedoni spaventati che corrono anzichè andare;
quell’atmosfera che da limpida e pura, quale l’avevamo sentita,
viaggiando nelle campagne, erasi fatta fosca e grave, dacchè eravamo
entrati nella città; quel miserabile albergo, ove eravamo venuti a
cadere, dopo una corsa di sessanta ore, tutto ciò insomma non era fatto
per dare una dorata e poetica realtà ai miei sogni.

Dick chiese una camera per Amy e per me, e siccome l’incertezza in cui
ero sulla presenza di miss Arabella a Londra non mi lasciava un istante
di riposo, tosto ultimata la mia toeletta, presi il braccio di Dick e
mi feci da lui condurre a Oxford Street. Dick non conoscea meglio di
me la via che conduceva a questa meta di tutte le mie speranze, ma ne
prese notizia, e siccome Oxford Street era poco distante dal nostro
albergo, in men d’un quarto d’ora vi fummo.

Il numero 23 era impresso alla porta d’una graziosa palazzina, dal
cui cortile, attraverso un’inferriata, distinguevasi la lussureggiante
verdura d’un giardino.

Uno Svizzero in gran livrea stava ritto sul limitare della porta.

Ebbi un certo timore nel dirigere la parola ad un personaggio che
parevami considerabile, e con voce tremula per doppia emozione, gli
chiesi se miss Arabella era a Londra.

— Che volete da sua signoria? domandommi egli.

— Ho avuto l’onore d’incontrarla a Chester or fa quasi un mese, e mi ha
detto di venire a ritrovarla in Londra: ed ecco l’indirizzo ch’ella mi
ha dato, risposi.

Lo Svizzero sonò una campana, ed una cameriera discese.

— Rispondete a questa fanciulla, mistress Northon, disse lo Svizzero,
ripigliando la sua maestosa immobilità.

Ripetei alla donna quel che avevo già detto allo Svizzero, e le
presentai l’indirizzo datomi da miss Arabella.

— È di fatto la scrittura di madama, diss’ella, dopo averlo letto, ma
disgraziatamente, madama non è a Londra.

— Oh, Dio mio! E dov’è ella? Ed io che venni qui solo per lei!

— L’ultima sua lettera veniva da Douvres: ci annunziava ch’ella partiva
per la Francia.

— E, chies’io col cuore affranto da questo primo disinganno, nulla vi
fa sospettare l’epoca del suo ritorno?

— Nulla; — è probabile però che madama sia qui per le corse.

— E quando avranno luogo queste corse?

— Dal 15 al 25 agosto.

— Che fare? diss’io, volgendomi a Dick.

— Eh! rispos’egli, attendere.

— Se madamigella vuole scrivere il suo nome, ripigliò la cameriera,
appena tornata madama, le si mostrerà.

— Volentieri.

Entrai nella stanzina dello Svizzero e scrissi — Emma Lyonna.

— Avrete la bontà di dire a madama, seguitai, che è la giovanetta da
lei incontrata nel ducato di Galles, in riva al mare, ed alla quale
ella ha dato il suo indirizzo, perchè venisse a raggiungerla in Londra.

— Ed ove si potrà trovarvi, se madama ordina che vi si cerchi?

— Nol so ancora; arrivo da mezz’ora appena ed ignoro quel che farò.

— Per ora, disse Dick, abitiamo....

Lo interruppi comprendendo che l’indicazione del nostro albergo darebbe
poca opinione di noi.

— Per ora, dissi, si saprà sempre ove trovarmi — presso il signor James
Hawarden chirurgo a Leycester Square.

Volete che aggiunga, al mio, il suo indirizzo?

— È inutile: egli ha curato Tom quando si ruppe la gamba.

— Grazie; ed ora, dissi a Dick, abbiate la bontà di condurmi dal signor
Hawarden.

Dick s’informò del sentiero da prendere. Per fortuna Leicester Square
non era molto discosto da Oxford Street, e ripigliammo il nostro
cammino.




VI.


Anche il signor James Hawarden era fuor di casa, ma dovea rientrarvi
prima delle sette, ed erano le cinque e mezzo.

Mi si offerse d’attendere. Io pregai Dick di rientrare all’albergo e
tornar a prendermi due ore dopo.

Dopo una mezz’ora, udii battere tre o quattro colpi alla porta; era il
padrone che, rientrando, s’annunciava in tal modo.

Io lo aspettava in una specie di parlatorio; e quantunque la luce fossa
scemata per l’appressar della notte, egli mi riconobbe subito.

— Ah! siete voi mia bella fanciulla? mi diss’egli con un sorriso misto
ad una certa tristezza; m’immaginavo, nel lasciare Hawarden, che non
tarderei molto a rivedervi a Londra.

— È egli un rimprovero che mi fate, signore? chies’io.

— No, la gioventù è ardita, e la bellezza ha i suoi destini venturosi o
fatali, ai quali non può sfuggire. — Volete entrare nel mio gabinetto?
Vi saremo più liberi per parlare, giacchè suppongo che avrete non poche
cose a dirmi.

— Se voi siete tanto buono da ascoltarmi....

— Venite, figliuola mia.

E, prendendo un candeliere, mi precedette.

Entrammo e sedemmo in un gabinetto elegante e semplice in una volta.

— Ebbene, eccovi dunque, mi diss’egli; e che venite a far qui?

— Signore, gli dissi, quando vi ho chiesto se conoscevate il pittore
Romney, dicendovi ch’egli era parente d’una mia compagna di collegio,
ho mentito.

Il signor Hawarden sorrise d’un singolare sorriso.

— V’ingannate, signore, soggiunsi arrossendo; non ho visto che una sola
volta il signor Romney: egli stava alla spiaggia del mare con una dama
a nome miss Arabella.

— Diffatti, disse il signor Hawarden, mi fu detto ch’egli viaggiava con
essa.

— Ora, ripigliai, lasciate ch’io vi dica la verità.

E gli raccontai il nostro incontro in tutti i suoi particolari;
l’indirizzo datomi da miss Arabella; le offerte fattemi da ambedue; gli
dissi senza nulla celargli come avevo lasciata la casa di suo padre,
come ero venuta a Londra, e la visita senza risultato fatta poco prima
ad Oxford Street.

Egli mi lasciò dir tutto, poi, guardandomi fiso e serrando le mie nelle
sue mani:

— Figlia mia, mi disse con una gran dolcezza, ma al tempo stesso con
una certa solennità, quando si ha l’età vostra e la vostra bellezza,
due sono i cammini nella vita: l’uno, diritto e semplice attraverso una
pianura dall’aspetto monotono e tranquillo, che mena col matrimonio e
la maternità ad una vecchiezza onorata ed onorevole; l’altro, che si
eleva talvolta per lasciarvi travedere splendidi orizzonti, talvolta si
abbassa per forzarvi a traversare fangose paludi: seguendo questo, si
giunge per tre stadi al fine della vita: l’uno si chiama l’orgoglio,
il secondo la fortuna, il terzo l’onta. Voi siete al bivio delle due
strade. Vedete quale delle due volete seguire.

— Oh! signore, potete voi domandarmelo?

— Sì, fanciulla mia, posso e devo chiedervelo, giacchè, prima d’essere
moralista, lasciatemelo dire, sono filosofo. Ora io non credo, come
dicono certi spiriti assoluti, che l’uomo fruisca interamente del
suo libero arbitrio; credo al potere irresistibile della materia
sull’anima, più che al comando dell’anima sulla materia. Ancorchè
prendiate la via retta e semplice, talora l’oscurità della notte,
talora l’ebbrezza de’ sensi, ve ne faranno ritorcere. Buoni consigli
ed una buona guida vi rimetteranno in cammino; ed io sarovvi, ove
il vogliate, guida e consiglio; ma hanvi condizioni primitive in
certe organizzazioni, di cui non possono trionfare nè i consigli, nè
l’esempio: la società le respinge, la legge stessa le punisce, ma la
scienza le compiange e qualche volta anche le assolve. È però sempre
una fortuna di più lo scegliere il buono anzichè il cattivo sentiero:
è già una bontà della Provvidenza il non aver trovata quella donna:
volete voi promettermi di non andar mai di moto proprio, nè a casa di
lei nè da Romney?

Stetti muta.

— Voi esitate? mi diss’egli.

— No, signore; ma io aveva vagheggiato un avvenire melodioso e dorato,
mi si è tanto detto che, venendo a Londra, vi farei la mia fortuna, che
vi sono venuta senza punto curarmi del modo con cui la si farebbe. È
egli troppo il chiedervi cinque minuti per dar tempo all’illusione di
dileguarsi?

— Povera fanciulla! mormorò il dottore.

Restai pensierosa: sentivo il suo sguardo fiso nel mio, e parevami che
questo sguardo mi penetrasse nell’animo, dandogli una forza di volontà
sconosciuta fin allora.

— Signore, gli dissi dopo alcuni momenti, vi prometto di non cercar
mai di rivedere nè miss Arabella nè il signor Romney: vi prometto
di non andar da loro, ma se essi vengono a me, se io li incontro
senza cercarli, non vi prometto di aver la forza di resistere alla
tentazione.

— Avrai fatto quanto potevi, rispose il signor Hawarden, e non si può
chieder di più ad una figlia d’Eva.

In quel momento si udì batter due volte la porta; questi due colpi
indicavano l’umiltà di colui che picchiava.

Io trasalii.

— Che avete? mi chiese il dottore.

— Signore, gli dissi, è probabilmente Dick, il fratello d’Amy, che
viene a cercarmi. Se volete che io profitti dei vostri buoni consigli
non mi lasciate tornare presso l’amica: è dessa che m’ha fatto
abbandonare Hawarden, è dessa che m’ha trascinata a Londra; e, se mi
perdo, ho il presentimento di perdermi per mezzo suo.

— Sta bene; dite che vi fermate qui stasera, e che vi ritengo, perchè
ho promesso di trovarvi un posto domani.

Il servitore che mi aveva introdotta aprì la porta del gabinetto, e
volgendosi al suo padrone:

— Signore, disse, il giovinetto che ha accompagnato madamigella viene a
riprenderla.

— Fatelo entrare, rispose il signor Hawarden.

Poi, aprendo una porta da cui vedevasi un salotto ove stava ricamando
una giovin donna di 23 a 24 anni, con ai piedi un bimbo seduto che
sfogliava un libro d’incisioni:

— Amica mia, le diss’egli, eccoti la giovinetta di cui ti ho parlato,
tornando da Hawarden: ella è arrivata dalla casa di mio padre; sii
buona tanto da darle ospitalità fino a domani: domani spero trovarle il
posto che le conviene.

La signora si alzò e mi venne incontro.

In quel momento Dick comparve alla porta.

— Dick, gli diss’io, scusatemi con Amy, perchè mi fermo presso i
signori Hawarden: se la speranza datami dal mio degno protettore si
realizza, vi scriverò tosto.

— Ebbene, ve lo diceva io, madamigella, che non bisognava diffidare? Il
buon Dio è buono, e v’ha a Londra posto per tutti: in ogni caso, signor
Hawarden, potrete vantarvi di aver reso servigio a quella che era ieri
la più bella fanciulla della provincia, e che è oggi probabilmente la
più bella fanciulla di Londra. A rivederci, madamigella Emma; signore e
signora, Dio vi rimeriti.

Ed uscì felice della mia felicità.

Questa felicità non era precisamente quella che io aveva vagheggiata:
ciò che a me pareva felicità era la vita clamorosa, agitata, colle
subitanee fortune, le repentine catastrofi, le inaspettate peripezie.
Certo quella donna che or ora m’aveva abbracciata come una sorella, che
aveva abbracciato suo marito come un fratello, ed erasi, sorridente
e tranquilla, riseduta accanto al bimbo, che dal canto suo non avea
neppure alzato gli occhi dal libro per vedere chi entrasse; quella
giovin donna che avea ripreso il suo ricamo con una mano, cui le
passioni parevano non avere agitata giammai, che assortiva i colori dei
fiori con una noncurante destrezza, ed una paziente abilità, quella
donna era felice; ma come lo avea così bene spiegato il sapiente
dottore hanvi nature alle quali non può bastare questa fredda e
monotona felicità.

E ancora, qual probabilità eravi per me di giungere al punto cui
ella era giunta? Era io nata ricca ed onorata com’essa, per trovare
a diciott’anni uno sposo illustre nella scienza, che mi condurrebbe
in un elegante salotto, caldo, dolce ed aggradevole come un nido? —
No, io era una povera contadina senza beni di fortuna e quasi senza
educazione: non osava rispondere quando mi si chiedeva quel che
facesse mia madre, e poteva appena rispondere quando mi si domandava
il nome del padre mio. Era bella, ecco tutto: dovea dunque chiedere
alla mia bellezza ciò che le altre si aspettavano dalla nascita, dalla
educazione e dal loro stato: non avendomi largito che questo dono, Dio
me lo avea forse dato per supplire a tutto ciò che mancavami.

Spettava dunque alla mia bellezza il decider di me, anzi che a me il
decidere della mia bellezza.

Ecco le riflessioni che io facevo in vedere quella placida famiglia, in
cui il marito leggeva, mentre la moglie ricamava ed il bimbo guardava
le incisioni.

Ma, quale distanza da questa tranquillità a quel portamento altero e
risoluto di miss Arabella, a quell’ardente entusiasmo, a quella vita
libera, a quella gloria artistica di Romney! Erano senza dubbio bimbi
che si trastullavano, e una moglie che ricamava come la donna ed il
bimbo che io aveva sott’occhi, quelli ch’egli aveva abbandonati, e per
verità, se ciò era così, io non mi sentiva coraggio di fargliene un
delitto!

O folle giovinezza! o immaginazione insensata!

Oimè! quando, giunta all’altra estremità della vita, io guardo oggi
con gli occhi del pentimento quel che guardava allora cogli occhi
dell’illusione, come vorrei essere stata la dolce giovine, e aver
trascorsa la mia vita a ricamar fiori, col marito accanto ed il bimbo
a’ piedi, anzichè la brillante e colpevole Emma Lyonna, la ricca e
possente Lady Hamilton!

Alle sette, madama Hawarden fece il thè: alle nove cenammo; tutta la
differenza fra il signor Hawarden padre ed il Hawarden figlio fu nel
far cenare il bimbo con noi. Alle dieci fui condotta nella mia camera.
Dick aveva avuto cura di portarmi il mio piccolo fardello: i pochi
panni che lo componevano e le cinque lire che mi restavano, dopo pagato
il viaggio, erano tutto il mio avere.

Il domani, non sapendo se dovessi discendere attesi che mi si
prevenisse di quel che dovea fare: vennero ad annunciarmi che la
colezione era pronta, e discesi.

Il signor James Hawarden rientrava allora appena.

Egli mi mosse incontro tutto lieto, dicendomi:

— Ebbene io sono riuscito, e sta ora e voi lo scegliere il cammino
indicatovi ieri. Uno dei miei clienti, il signor Plowden, uno dei più
ricchi gioiellieri di Londra, ha bisogno d’una damigella di magazzino.
I vostri occhi potranno spesso far danno a’ suoi diamanti, ed i vostri
denti alle sue perle, ma, in fede mia, tanto peggio per essi. Voi
avrete cinque lire al mese dapprima, in seguito, si vedrà: dico in
seguito, perchè non intendo che basti la raccomandazione che gli ho
fatto per voi questa mattina. Ora è convenuto che voi entrate domani in
funzioni; vi conduco da lui e vi colloco.

Poi guardandomi dal capo ai piedi:

— Diavolo! esclamò.

Io arrossii.

— La mia toeletta; non è egli vero?

— Sì; non avete un abito più fresco e un po’ più di moda?

Scossi il capo.

— Siete bella, per Dio, e non è ciò che m’inquieta; sareste vezzosa
anche vestita di bigello e di cenci; ma bisogna avere una certa
apparenza per entrare in siffatti negozi alla moda. Se vi fosse tempo
da qui a domani...

In quel momento la cameriera di madama Hawarden entrò.

— Madama non è qui? chies’ella.

— No; che volete da lei?

— Madamigella Cecily la domanda.

— Appunto la sarta! disse il signor Hawarden; pregate Cecily di
attendere, e madama di venir qui.

La cameriera uscì, e cinque minuti dopo entrò madama Hawarden. Io
aspettava tutta confusa.

— Ti ho fatto chiamare, amica mia, le disse suo marito, per chiederti
se, da qui a domattina, madama Cecily può fare un abito a questa
fanciulla.

— Ciò mi par difficile; ma, aspetta.

Madama Hawarden mi guardò a sua volta con attenzione, ed
appressandomisi, misurò alla mia la sua spalla.

— Credo che potrò trarvi d’impaccio, diss’ella.

— M’affido a te.

— La sarta, seguitò madama Hawarden, mi porta appunto un abito semplice
ma elegante; madamigella ha la mia statura, è forse un po’ più gracile
di me, in ogni modo se credi potremo combinarci così: essa potrà
prendere il mio abito, e siccome io posso attendere, Cecily me ne farà
un altro.

Suo marito la baciò in fronte.

— Tu sei un angelo, rispos’egli; no, m’inganno una santa, o piuttosto
l’uno e l’altra ad un tempo.

Poi, volgendosi a me:

— Ciò vi conviene, madamigella, e vorrete voi portare un abito fatto
per mia moglie?

— Ne sarò felice e orgogliosa.

Il signor Hawarden suonò il campanello.

— Fate entrare madamigella Cecily.

La sarta entrò.

— Vi lascio, ripigliò il signor Hawarden, la cosa dee passarsi fra voi.

Ed uscì.

L’abito pareva fatto a mio dosso.

Il domani alle dieci del mattino io era stabilita presso il signor
Plowden, nel più bel negozio dello Strand, e il signor Hawarden
prendeva commiato dal padrone del negozio, raccomandandomegli come
fossi stata sua figlia.

Ho certo avuto molte vesti dipoi, ma non ne ebbi mai una che mi facesse
più bella, e mi andasse meglio di quella di madama Hawarden.




VII.


Se il signor Hawarden avea creduto allontanarmi dalla tentazione,
ponendomi in mezzo ai diamanti, agli smeraldi, ai rubbini, agli
zaffiri, ed alle perle del signor Plowden, egli s’era di gran lunga
ingannato. Quel dotto anatomico, che leggeva nel petto e nei visceri
dei suoi ammalati le loro infermità fisiche, non avea saputo leggere
nel mio cuore la infermità morale che lo divorava.

Farmi toccare ad ogni istante del giorno quei mille gioielli d’ogni
forma, che costituiscono quel superfluo, tanto necessario, dirò anzi
indispensabile, alla donna veramente donna: farmeli mettere al collo,
ai polsi, agli orecchi di creature meno belle di me, ma che condotte a
quella fonte di luce dai loro mariti o da’ loro amanti, se li portavano
via per adornarsene ai balli, ai teatri, alle feste, era far giocare la
polvere col fuoco.

Dieci o dodici giorni dopo il mio collocamento, il signor Hawarden
venne a chiedere mie nuove: gli furono date eccellenti: il signor
Plowden era soddisfattissimo di me; pretendeva che la maggior parte
dei signori che venivano a far acquisto di gioielli per le loro mogli o
le loro amanti, si servissero del pretesto di queste compere per veder
me, e che, se avessero osato, ne avrebbero fatto piuttosto dono al mio
collo ed alle mie braccia, che a quelli delle loro donne.

Eravi in ciò molto di vero, nè io m’ingannava sull’effetto che
produceva.

Il signor Hawarden, tutto lieto, chiese al suo cliente di permettermi
di andare a trascorrere in casa sua la vegnente domenica, volendo
egli farmi una sorpresa: mi ricondurrebbe il domani per tempissimo. Il
signor Plowden acconsentì, tanto più volentieri quanto che la domenica
a Londra non un magazzino è aperto; talchè la gentilezza ch’egli mi
usava era più un vantaggio che una privazione per lui.

La casa del signor Hawarden non era, come si sarà potuto giudicare
da quel po’ che ne ho detto, d’una folle allegria, ma i quindici
giorni trascorsi seduta in negozio, astretta a mostrare i gioielli, ad
encomiare le persone che se ne adornavano, ed a spingere gli avventori
alla generosità, mi avevano insegnato ad apprezzare ventiquatt’ore, se
non di piacere, almeno di riposo.

Poi il signor Hawarden avea parlato di sorpresa, ed io chiedeva a me
stessa quale poteva essere.

La domenica mi trovai a Leicester Square all’ora dell’asciolvere.

Madama Hawarden mi ricevè colla dolcezza e la benevolenza che le erano
abituali. Era una magnifica giornata d’agosto: si attaccarono i cavalli
alla vettura e andammo a passeggiare a Hyde Park.

Non conosceva di Londra che Williers Street, Oxford Street, Leicester
Square e lo Strand; quest’aristocratica gita fu dunque il principio
della mia introduzione in un altro mondo. Quegli squadroni di cavalieri
vestiti della ricca assisa dell’epoca, quelle eleganti amazzoni dalle
vesti e dai veli fluttuanti, quegli squisiti modi dell’alta società
inglese mi stupirono.

Avrei dato metà del tempo che restavami a vivere, per condurre uno di
que’ leggieri calessi, che ci passavan dinanzi rapidi come il turbine,
o per corvettare con uno di quei bel cavalli nel viali riserbati ai
cavalieri.

Decisamente il signor Hawarden avea adoperato per guarirmi
dall’ambizione e dall’orgoglio una cura che correa rischio di produrre
un effetto totalmente contrario a quello ch’ei s’attendeva.

Tornammo per Green Park, che traversammo a piedi, pel piacere del
bimbo, e rientrammo a casa per desinare.

Chiesi ai signor Hawarden se quella era la sorpresa di cui mi aveva
parlato.

— No, mi diss’egli: pare vi siate divertita al passeggio; ma ho assai
meglio di ciò ad offerirvi; voglio farvi vedere Garrick.

Ignorava completamente chi fosse Garrick. Non ebbi la debolezza di
nascondere la mia ignoranza; gliene chiesi la spiegazione.

— Ah! è vero, mi rispos’egli, Garrick è il primo attore che sia mai
stato al mondo.

Spalancai gli occhi.

— Egli recita probabilmente stasera per l’ultima volta, mentre per la
prima esordisce una giovane attrice, cui promettono un grande avvenire,
madama Siddons. Sheridan, del quale sono amico e chirurgo ad un tempo,
mi ha serbato un palco per questa solennità, e, come m’ero proposto, ho
voluto farvi partecipe di questa munificenza.

— Come! esclamai, andrò al teatro, vedrò una commedia?

— No, una tragedia, ma spero vi piacerà egualmente.

Misi un grido di gioia, battendo l’una contro l’altra le mie mani come
una bambina.

— Oh! quanto siete buono, signor Hawarden! Vedrò una tragedia! Vi
saranno dunque re e regine sulla scena!

— Oggi no, ma vi saranno due amanti che valgono un re ed una regina.

— E qual’è il titolo di questa tragedia?

— _Giulietta e Romeo_, uno dei quattro capo lavori di Shakespeare.

— Ed io la vedrò! esclamai con giubilo. Dio mio, quanto sono felice!

— Orsù alla buon’ora! disse il signor Hawarden, è una soddisfazione il
procurarvi un piacere.

Io era di fatti in estasi: aveva udito più volte a parlar di teatro, ma
non aveva idea di quel che fosse. Alcune alunne di madama Colmann, che
già avevano udito a recitare qualche compagnia di provincia, ne erano
tornate tutte sorprese.

Che sarebbe dunque a Londra?

— A qual ora comincia? domandai al signor Hawarden.

— Alle sette e mezzo precise.

— E finisce?

— Presso a poco alle undici.

— Quindi lo spettacolo dura tre ore e mezzo?

— Ma da queste tre ore e mezzo bisogna detrarre gl’intermedj degli atti.

— Assisteremo al principio, non è egli vero?

— Saremo nel nostro palco all’alzar della tela.

— Ma Dio mio, non sono ancora che le sei!

— Meno cinque minuti, ma il tempo passerà: Abbiamo qualche cosa a fare;
prima il thè da prendere, ed ecco appunto che ci viene portato; poi la
vostra toeletta da preparare.

— La mia toeletta? Oh! sapete pure, signor Hawarden, che io non ho
altro abito che questo, donatomi da madama; e, salvo che io non indossi
una altra volta la famosa veste azzurra, cosa che, v’assicuro, non
ambisco gran che....

— L’azzurro vi sta però bene.

— Sì, ma non l’abito: ricordatevi che tale è stata appunto la vostra
opinione.

— Oh! ma tutto ciò si accomoderà, spero.

I miei occhi non si staccavano dall’oriuolo.

— Non ritarda il pendolo? chiesi.

— Nella famiglia Hawarden ciò non accade giammai; ed è perciò che,
bevuto il thè, mangiato i dolci, ognuno entrerà nella sua camera,
perchè saranno le sei e mezzo, e bastano dieci minuti per andare da qui
a Drury-Lane.

Mangiato e bevuto, salii alla mia stanza che era la stessa ove avea
già dormito: ignorava quel che vi farei durante i quaranta minuti che
ci separavano ancora dall’istante di lasciar la casa, quando vidi sul
letto un grazioso abito di taffettà cilestre, che pareva quello della
peau d’âne tagliato da un lembo del cielo.

Al tempo stesso la cameriera entrò.

— Madamigella, vuol ella permettermi di aiutarla a vestirsi?

Ed alzò l’abito nelle sue mani.

Allora compresi ciò che m’era rimasto oscuro nelle parole del signor
Hawarden: non solo egli aveva pensato a condurmi in teatro, ma ancora a
darmi una veste per andarvi.

Le lacrime mi spuntarono sul ciglio: sentiva il bisogno di correre a
lui ed esprimergli la mia riconoscenza.

— Ov’è il signor Hawarden? domandai.

— Egli veste madama, onde io possa aiutare madamigella, acciò che
ognuno sia pronto all’ora stabilita.

Io restai muta e triste dinanzi a quella suprema bontà, di cui mi
riconosceva del tutto indegna, e fin’anco incapace ad esprimere la mia
gratitudine.

Ero divenuta più astratta che impaziente; pensava a quell’uomo che
godeva d’una stima universale, che era uno dei primi chirurgi di
Londra, anatomico eminente, scienziato di prim’ordine, e che si dava
la pena di vestire sua moglie affinchè la figlia della povera serva di
fattoria, l’aia dei bimbi di suo padre, la damigella di magazzino non
giungesse troppo tardi allo spettacolo, e non perdesse alcun che della
felicità che ne attendeva.

Avvi nel genio una misericordiosa bontà pe’ piccoli, una suprema
benignità pe’ deboli, che lo avvicina alla onnipotenza di Dio.

Alle sette ed un quarto battè egli stesso alla mia porta.

— Ebbene, mi chies’egli, siamo presti?

Io gli afferrai vivamente la mano, e prima che egli avesse tempo di
indovinare la mia idea, gliela baciai.

Egli mi guardò: doveva essere senza dubbio assai bella, perchè con un
muover di spalle pieno d’affettuosa pietà:

— Confessa, diss’egli, additandomi a sua moglie, che usciva in quel
momento dalle sue camere, confessa che la sarebbe pure una grave
sventura se questo portento della creazione si avviasse al male?

Poi, come pentendosi d’aver dato questo alimento al mio orgoglio:

— Andiamo, andiamo, soggiunse; in carrozza: ho promesso a questa
fanciulla che arriveremmo prima dello alzar della tela.

Difatti ci sedevamo nel nostro palco al momento in cui cominciava la
sinfonia; ebbi tempo di volgere uno sguardo all’intorno. Sheridan, che
era il direttore del teatro, lo avea fatto addobbare a nuovo dal primo
decoratore di Londra.

Avremmo potuto crederci in un palazzo di fate.

Io, abbagliata dalla luce, magnetizzata dalla musica, affascinata
dall’oro, dai diamanti e dai fiori, non potendo comprendere come
si riunissero tante ricchezze senza rovinare l’universo, mi sentiva
incapace di dire e di comprendere dove mi fossi.

Il sipario si alzò, ed io non vidi più altro che una pubblica piazza in
Verona.




VIII.


Coloro che mi hanno seguita in tutte le fasi della mia oscura ed
ignorante fanciullezza, possono farsi un’idea dell’effetto prodotto in
me da questa rappresentazione di Giulietta e Romeo, recitata dal più
gran tragico che già vantasse l’Inghilterra, e dalla più gran tragica
che dovea vantare in avvenire. Il mio cervello, bianco ancora come le
pagine d’un vergine libro, ricevette tutte le impressioni di poesia,
d’affetto, di pietà, d’orrore, racchiuse in quell’ammirabile poema, le
quali, incidendosi nel mio spirito, portarono tutti i miei sensi al più
alto grado d’entusiasmo e d’esaltazione.

Aveva appunto l’età di Giulietta; era bella ed appassionata com’essa:
compresi quel subito amore da lei sentito pel giovine Montecchio, che
le fa esclamare nella previsione d’una prossima morte, il primo giorno,
o piuttosto la prima notte del loro abboccarsi.

— «Corri, nutrice, corri; informati s’egli è ancor libero, chè ove
fosse ammogliato, oimè, te lo giuro, la bara sarebbe il mio letto
nuziale.»

Il signor Hawarden contava sul mio viso le fluttuazioni del cuore e
l’abile psicologo vi leggeva tutte le mie impressioni: era per lui uno
studio curioso, misto a quella dolce soddisfazione che ispira la vista
del piacere o della felicità altrui procacciata.

E, difatti, il mio piacere e la mia felicità eran grandi: quando
vennero le scene del balcone, tanto poetica la prima, tanto
appassionata la seconda, io, strette le mani sul cuore a comprimerne
i battiti, anelante, coll’occhio immobile, il respiro sospeso, avrei
voluto, siccome Giulietta, rattenere e nello stesso tempo spingere fuor
dalla scena Romeo.

Si giudichi dunque a qual grado di terrore io giungessi quando
Giulietta, bevuto il filtro che deve addormentarla, trema pensando al
suo destarsi sola nel sepolcro de’ suoi avi, in mezzo ai defunti, e
all’idea di veder questi morti uscire dalle loro tombe.

Poi venne la catastrofe, catastrofe che mi produsse tanto maggiore
effetto, perchè nuova, non solo a me, ma agli altri uditori. Si sa che,
nella tragedia primitiva originale di Shakespeare, Romeo muore accanto
all’avello di Giulietta, ignorando ch’ella è soltanto addormentata, e
Giulietta non riprende i sensi che dopo morto Romeo.

Per un lampo di genio drammatico, Garrick ha visto, o piuttosto ha
divinato, a fianco di quale terribile scena il gran Drammaturgo sia
passato, senza avvedersene; ed ha svegliata Giulietta al momento in
cui Romeo, credendola morta, si è avvelenato: invece di far le due
morti isolate e, per conseguenza, solitarie, egli ha dato ai due amanti
una stessa agonia, che finisce per l’uno col veleno, per l’altra col
pugnale. E con questa intuizione egli ha portato la scena dal dolore
alla disperazione, dal bello al sublime.

Al momento in cui Giulietta si uccide, io mi rovesciai all’indietro
e svenni, mentre la intera adunanza, ringraziando Garrick della sua
prodigiosa invenzione, e dello splendido talento onde avea fatto
mostra, ruppe in applausi.

Il mio deliquio non fu pericoloso: con un po’ di acqua fresca tornai
in me: non seppi che prendere e stringere le mani del signor Hawarden,
e, senza punto curarmi della convenienza o della sconvenevolezza
dell’atto, mi gettai nelle braccia di sua moglie e la baciai.

Tornammo in casa: la cena era imbandita, ma, come è facile
comprenderlo, io non pensai a gustarne; aveva gli occhi pieni di luce,
la mente piena di poesia, il cuore pieno d’amore e di lacrime.

Chiesi al signor Hawarden il permesso di ritirarmi nella mia camera;
egli me l’accordò, poi, prendendo un libro dalla sua biblioteca, e
ponendomelo in mano:

— So quel che volete, diss’egli; vorreste far ritorno in teatro;
ebbene, andatevi.

E mi diede un libro.

Era un volume di Shakespeare, ove trovavasi la tragedia di Giulietta e
Romeo.

Trassi un grido di gioia; il signor Hawarden avea divinato il più
ardente desiderio del mio cuore, e lo avea prevenuto.

Mi slanciai nella mia stanza, e, adagiatami sopra una sedia a
bracciuoli, rilessi dal primo all’ultimo verso la produzione.

Poi tornai alle scene principali, alle scene d’amore fra Giulietta e
Romeo, cominciando da quella del ballo a quella delle tombe.

Io era incapace di apprezzare il genio che avea creato questo
capolavoro di dramma e poesia, ma il mio cuore pieno di gioventù, di
speranza e d’amore, suppliva alla scienza colla intuizione.

D’altronde, non aveva nulla dimenticato, nè un gesto dell’attore, nè
un accento dell’attrice: e qual attore? Quale attrice? Garrick e madama
Siddons!

Verso le tre del mattino, col cuore e la testa in fuoco, ma vinta
dalla stanchezza, mi coricai. Fui per sognare ch’io era Giulietta, per
stringermi fra le braccia un Romeo ideale, e morire con lui di dolore e
d’amore.

È vano il dire in quale disposizione di spirito io rientrassi il
domani al magazzino. Avea chiesto al signor Hawarden il permesso
di portar meco il magico libro, che io mi teneva stretto al cuore,
quasi temessi che la poesia di cui era copioso, gli prestasse le ali
per isfuggirmi. Oh! come i riguardi ch’io era astretta di usare agli
avventori, le adulazioni che la mia posizione mi obbligava a far loro,
le lodi alle merci che io loro offeriva, come pesarono al mio cuore e
parvero basse al mio orgoglio! Esser bella quanto Giulietta, avere un
cuore pieno d’amore e di poesia quanto il suo, e provar gioielli in un
negozio, fosse anche quello del primo gioielliere di Londra, invece
di strascinare un abito di broccato in un ballo, invece di scambiare
parole d’amore con un bel cavaliere dall’alto al basso d’una finestra,
invece di ascoltare il canto degli uccelli e discutere coll’uomo del
cuore, se sia quello del rosignuolo o dell’allodola. Eravi, bisogna
convenirne, un abisso da quel che era a quel che poteva essere, dal
sogno alla realtà.

Non osai leggere nel giorno: e, l’avessi ardito, il tempo mi sarebbe
mancato, essendo il negozio del signor Plowden uno dei meglio avviati
di Londra, ed io occupatissima per conseguenza: attesi con impazienza
le dieci della sera, ora in cui chiudevasi.

Appena chiuso, salii alla mia camera.

Non mi limitai più a leggere: aveva in una notte imparato a memoria
quasi tutto il dramma; le scene soprattutto di Giulietta m’erano rimase
parola per parola nello spirito, e rammentava non solo i versi ma il
tuono di voce con cui la grande attrice che rappresentava Giulietta, li
avea pronunciati.

Allora mi studiai a riprodurre i gesti e le intonazioni, ma, orgogliosa
ch’io m’era, per quanto perfetta mi fosse sembrata madama Siddons
quando la vedeva e l’udiva, parevami, nel ridire quelli stessi versi,
ch’ella avrebbe potuto giungere ad una maggior dolcezza di voce.
Difatti, madama Siddons, come ebbi agio di giudicare in seguito,
perfetta veramente nelle parti di Lady Machbeth e di Lady Hamlet,
lasciava qualche cosa a desiderare in quelle più dolci, più affettuose,
più varie di Giulietta e Desdemona. — Ebbene, questa grazia del corpo,
questo incanto della voce, pareva a me che la natura me lo avesse
largito. La mia persona pieghevole, alta, armoniosa, poteva colle
sue naturali ondulazioni giungere a quella perfezione di languore
e di flessibilità che gl’italiani dinotano coll’intraducibile nome
di morbidezza. Parevami di avere, cosa assai rara, la voce dolce e
tragica: il mio viso, posso dirlo oggi, era tanto atto ad esprimere
ogni impressione che, anche riproducendo le sensazioni più facili, era
nella tristezza una melanconia, nella gioia un abbagliamento. Se la
trasparenza del mio animo era già un po’ offuscata, il mio corpo era
ancor puro; e la mia bellezza aveva quell’aureola d’incontrastabile
innocenza, che fa rispettare, per quanto ignuda, la Venere dei Medici.
In una parola, io seminava già il fuoco, ma non ardeva ancora.

Trascorsi una parte della notte a declamare e a gestire dinanzi un
piccolo specchio, che riproduceva appena la quinta o sesta parte della
mia persona.

Il domani madama Plowden, sia ingenuamente, sia ironicamente, mi chiese
se io aveva l’abitudine di parlare ad alta voce sognando: i miei vicini
di soffitta essendosi lagnati che io avea loro impedito di dormire,
ella mi pregava a moderare gli slanci della mia voce, sia parlando
desta, che in sogno.

Era un dirmi di rinunciare alla sola gioia vera che fosse venuta a
visitarmi dacchè io era al mondo.

Continuai i miei studi notturni, ma sottovoce. La maggior illusione
che mi sorridesse era quella di presentarmi ad un impresario, e farmi
da lui scritturare: pensava pure di farmi raccomandare a Sheridan,
di cui non aveva obliato il nome, quantunque a quell’epoca non avessi
alcun’idea della celebrità che lo accompagnava; ma come fare una simile
domanda al signor Hawarden? Come aver la forza di dirgli che io voleva
lasciare il negozio del signor Plowden, per farmi attrice? Che voleva
abbandonare la via retta ch’egli mi aveva aperta per quella tortuosa
che avea creduto di chiudermi? Questa forza, io lo sentiva bene, non
l’avrei mai trovata in me stessa.

Che fare?

Attendere: rimettermi a qualcuno di quegli strani avvenimenti che
mutano ad un tratto l’avvenire d’una vita, e aggrapparmi nel naufragio
al fragile sostegno della speranza.

Quindici giorni decorsero di tal fatta, e furono forse i più dolorosi
che io avessi ancora passati.

Era da più d’un mese presso il signor Plowden e da quindici giorni
almeno provava i tormenti che ho tentato descrivere, quando un’elegante
vettura fermossi dinanzi alla porta, e un lacchè vestito d’una livrea
grigia e rossa aprivane lo sportello, che dava adito ad una donna
abbigliata con ammirabile ricercatezza.

Appena ebbi volti gli occhi su questa donna, poco mancò non gettassi un
grido.

Era miss Arabella.

Ella entrò in negozio col suo incedere risoluto ed altero; si sarebbe
detta la regina della moda e della ricchezza, o meglio ancora, la
stessa Fortuna.

Ella mi vide, incrociò col mio il suo sguardo, ma non un muscolo del
suo volto indicò che mi avea riconosciuta.

Ciò non mi sorprese: senza dubbio non le era stato detto ch’io
fossi andata da lei ed ella mi credeva sempre nel ducato di Galles,
supponendo però che mi ricordasse, la sola cosa che potesse attirare i
suoi sguardi su me, vedendomi a Londra, nel magazzino del gioielliere
Plowden, era uno stupore cagionato dalla somiglianza.

Ma questo stupore ella nol fe’ in modo alcuno manifesto.

Chiese le si mostrassero de’ gioielli, e quantunque fossi io che glieli
esibissi, ella non mi volse la parola che come ed una straniera che le
fosse stata perfettamente sconosciuta.

Preferì un fregio di smeraldi attorniato di diamanti, del valore di tre
mila lire sterline.

Fatta la scelta:

— Mandate questo fregio al mio palazzo oggi alle cinque, diss’ella,
colla fattura e la quitanza.

Poi, additandomi con un semplice sguardo:

— Madamigella mi porterà il tutto, soggiunse.

Mi sentii correre un brivido pel corpo.

Il signor Plowden, riconducendola con ogni sorta di cerimonie fino alla
sua carrozza, le promise che sarebbe stata obbedita.

— Madamigella, e non un’altra, ripigliò miss Arabella prima di salire;
intendete, signor Plowden, o altrimenti non pago il vostro gioiello e
ve lo rimando per non comprare più mai nulla da voi.

— La S. V. stia tranquilla, rispose il signor Plowden, che sarà fatto
com’ella desidera.

Miss Arabella fe’ un cenno, e la carrozza partì a galoppo.

Io era annichilita: quell’inaspettato avvenimento, che io invocava
senza poter specificare, come quelle magiche evocazioni improvvisate
dalla bacchetta d’una fata, era accorso alla mia chiamata. Io non aveva
cercata miss Arabella che mi avea rinvenuta: qualunque cosa derivasse
da quest’incontro, io non mancava alla parola data al signor Hawarden.

Alle cinque il signor Plowden fe’ venire una vettura, non stimando
prudente di lasciarmi andar a piedi per Londra con un astuccio di
tanto valore. Era il momento decisivo. Si appiccò in me una lotta
violenta; fui sul punto di pregare il signor Plowden a risparmiarmi la
tentazione; ma il tentatore mi stava nell’animo, — e vinse.

La carrozza si fermò ad Oxford Street, n. 23. Riconobbi la palazzina
col giardino al fondo e lo Svizzero sulla porta. Egli suonò colla
stessa maestà, e la stessa cameriera comparve. Dissi che veniva per
parte del signor Plowden; l’ordine era dato di farmi entrare.

Miss Arabella stava in un salottino bianco e oro, tappezzato di raso
azzurro; vestita riccamente alla foggia turca, con un’acconciatura di
zecchini sul capo, un giubbettino di velluto color ciriegia ricamato
in oro, che lasciava scorgere una parte del petto; i suoi piedi ignudi
calzavano pantofole orientali color ciriegia e d’oro come il cinto.

Era seduta o piuttosto sdraiata sopra dei cuscini.

Fe’ cenno a mistress Northon di chiuder la porta e lasciarmi sola con
lei.

— Madama, le diss’io con voce tremula e senza ardire d’alzar gli occhi,
ecco il fregio che voi avete scelto dal signor Plowden ed il conto da
voi richiesto. Il signor Plowden vi fa dire che non avrebbe mandato il
conto se l’ordine vostro non....

Ella m’interruppe.

— Siete dunque voi, piccola ingrata, disse; appressatevi.

La bellezza ha sempre avuto su me una potenza suprema, e miss Arabella
era per vero d’una splendida bellezza.

Me le avvicinai, e mi posi in ginocchio come avrei fatto davanti a
Venere, nel tempo in cui gli Dei scendevano in terra, se fossi stata
una fanciulla di Pafo.

— Oh! madama, le dissi, completamente soggiogata, voi mi giudicate
male. La mia prima visita a Londra fu per voi: si fu per seguirvi, per
obbedirvi, per servirvi in ginocchio, come lo fo in questo momento, che
io venni a Londra: vi sarà stato, spero, consegnato il mio nome, ma voi
stessa lo avrete certo posto in obblio.

— Venite qui, mi diss’ella, e, prendendomi per mano, mi fe’ sedere su’
cuscini. Vedete pure, al contrario, che non vi ho dimenticata, giacchè
vi ho seguita fino al magazzino di quell’orribile ebreo per nome
Plowden. Ma perchè non siete tornata al palazzo?

Abbassai gli occhi, perchè stavo per mentire.

— Temevo che non foste ancora di ritorno.

— Perchè avete proibito in casa Hawarden che mi si desse il vostro
indirizzo?

— Oh! non l’ho mai proibito, esclamai vivamente: fu senza dubbio il
signor Hawarden che....

Ella m’interruppe.

— Che ha voluto salvare la vostra virtù, la quale, a parer suo, correa
pericolo presso di me.

Chinai gli occhi arrossendo.

— Andiamo, voi non sapete ancora mentire: è letteralmente quel che io
aveva indovinato.

E suonò il campanello. Madama Northon rientrò.

— Prendete, diss’ella, dandole un pacchetto di biglietti di banca già
pronti: portate ciò al signor Plowden, e ditegli che io tengo il fregio
e la persona che lo ha portato.

— Oh! madama, esclamai; come volete....

— Vorreste voi farmi credere che rimpiangiate il magazzino del signor
Plowden e il posto di damigella da bottega? Andiamo, via, sarebbe un
annientare le mie credenze in fisionomia. Qui, mia cara, soggiunse
ridendo, potrete declamare a vostro bell’agio; nessuno si lagnerà che
voi parliate sognando....

— Come, voi sapete...

— Sono assai curiosa: la curiosità, lo sapete, è il peccato delle belle
donne. Dico dunque che potrete declamare a vostro bell’agio, senza
contare che anderete in teatro ogniqualvolta vi piacerà.

— Oh! davvero, madama?

— Non è un gran favore ch’io vi faccio: ho un palco annuo che è sempre
vuoto; ne profitterete a piacer vostro.

Rivolgendosi a madama Northon:

— Ebbene, che fate voi là, mia cara?

— Farò osservare a V. S. ch’ella attende una visita dalle cinque alla
sei, e se vado io stessa dal signor Plowden, la persona può venire
mentre io sono assente, e non troverà alcuno che la introduca.

— Avete ragione: mandate Tom. Se quella persona viene, voi la
pregherete d’aspettare un momento in salotto, e mi farete avvertita;
andate.

Mistress Northon uscì.

— Vediamo i diamanti, disse miss Arabella, con tuono svogliato.

Le presentai l’astuccio.

— Sono veramente belli.

— Oh! ne ho già tanti, mio Dio; ma Giorgio mi ha detto ieri che la
pietra di sua preferenza è lo smeraldo, e bisogna pure far qualche cosa
per coloro che vi... oh! la brutta parola che m’era venuta alle labbra!
stavo per dire, che vi pagano, invece di dire, che vi amano.

Io la guardai: una specie di sudor freddo mi correva per la fronte:
cominciavo a credere che il signor Hawarden avesse avuto ragione; ma
era troppo tardi.

— Aiutatemi a mettere questo fregio, mi diss’ella.

E mi porse il suo collo, poi gli orecchi, poi le braccia.

Mi era io innalzata, od aveva disceso, passando del negozio dello
Strand al palazzo della via Oxford? Là, era la serva del pubblico, qui
la cameriera di miss Arabella.

Avevo appena affibbiato il secondo braccialetto, quando madama Northon
rientrò.

— È lui, diss’ella.

— Dov’è?

— Nel salotto.

— Conducete madamigella all’appartamento che guarda sul giardino, e
vegliate acciò non abbia a mancarle nulla. Incaricate Sara del suo
servizio.

Mistress Northon aprì una porticina celata nell’intavolato e m’invitò a
seguirla, mentre miss Arabella, alzatasi e fatti alcuni passi verso il
salotto, diceva colla maggior dolcezza di voce:

— Entrate, mio caro principe.




IX.


Il mio appartamento componevasi di tre belle camerette che guardavano
sul giardino: avevano l’altezza dei mezzanini comuni. Il balcone di
quella del mezzo, tutto ricoperto di edera e di vite, prolungavasi
a mo’ di terrazzo dinanzi alle finestre delle altre stanze, sotto a
grandi alberi verdeggianti e frondosi.

La vista di questo poggiuolo fe’ balzarmi il cuore di gioia: mi ricordò
la decorazione del secondo atto di Giulietta e Romeo: a mezzanotte,
al chiaror della luna, con un accappatoio bianco, affacciata a questo
balcone, nulla m’impediva di credermi Giulietta: non mancavami che un
Romeo.

Appena mi vidi sola, pensai al nuovo mutamento fattosi nella mia
vita, alla fatalità che mi spingeva, ed all’avvenire verso cui era
trascinata. Certo, un volere più forte del mio disponeva della mia
esistenza, senza lasciarmi tempo di resistergli.

Dapprima, un inaspettato sussidio del conte di Halifax mi toglie
all’umile mia posizione ed alla mia ignoranza natía, per darmi un
principio d’educazione più nocivo forse che utile; poi, questo soccorso
mi manca, e il destino mi spinge in seno ad una buona ed onesta
famiglia puritana, ove credo per qualche tempo fissata la mia vita,
quando lo inaspettato incontro di Amy Strog, non crea, ma sviluppa con
tal forza nel mio spirito nuovi progetti, che tento invano resistere
alla mano che mi trascina, e vengo a Londra rispondendo all’appello
d’una donna sconosciuta. La Provvidenza, che degna abbassare il
suo sguardo infino a me, svia questa donna dal mio sentiero, e
trovo, in luogo suo, un uomo dal cuore nobile, una donna dall’animo
compassionevole e dolce; per essi io m’innalzo in un momento dallo
stato di straniera a quello d’amica. Mi si cerca, mi si trova un posto,
tanto più alto di quello ch’io occupava presso il signor Hawarden
padre, quanto questo era già superiore alla mia prima posizione presso
madama Davison. Da guardiana di montoni giungo ad essere damigella di
fiducia d’uno dei più ricchi gioiellieri di Londra, e qui, la fatalità
cui ho sfuggito, mi ritrova, mi avvinghia di nuovo, e mi getta, senza
che io abbia il tempo d’accorgemene, in quella via tortuosa della quale
il signor Hawarden mi ha fatto una così triste pittura.

Che fare?

È ancor tempo: correre dal signor Hawarden, fuggendo questa casa
perduta; dirgli tutto, confessargli tutto, anche il mio desiderio di
farmi attrice; pormi sotto la di lui protezione e dirgli: — Eccomi,
salvatemi, salvatemi; e ciò prima che trascorra la notte, chè decorsa
una notte sulla mia assenza, tutto è perduto.

O restare; lasciar la navicella, seguire il corso dell’acqua che la
trascina, senza pilota e senza governale, in mezzo alle onde ed ai
turbini che la spingono all’Oceano, vale a dire all’ignoto, forse al
meraviglioso Cattai di Marco Polo, ma forse ancora ai geli del Polo.

Ma qual differenza fra la vita di questa donna che ha magnifici
cavalli, splendide vetture, lacchè riccamente vestiti, un sontuoso
palazzo, gemme a profusione e un amante cui dice: — Entrate, mio
caro principe, io vi attendo, e l’esistenza di questa povera figlia
di banco, che si alza alle otto del mattino, passa le sue giornate
a toccar fregi, di cui le sue mani non serbano che l’impronta, e
gli occhi il riflesso; che si corica alle dieci, non osando neppure
declamare qualche verso di Shakespeare nella sua camera, per tema che i
vicini se ne lagnino ed il suo padrone le chieda se parla dormendo.

Oh mio Dio, Signore! Sante sono quelle che hanno la forza di resistere
al torrente, ma degne di scusa, nella posizione che le leggi umane
lor fanno in società, scusabili assai, o mio Dio, sono quelle che si
lascian da esso trascinare!

Oimè! io fui di queste! La sera trascorse: venne la notte senza che
io avessi il coraggio di nulla decidere: avrei almeno dovuto scrivere
al signor Hawarden; avrei dovuto dirgli di baciare per me i piedi
della sua degna consorte: non solo mi rifugiai da lui, non solo non
gli scrissi, ma, vergognosa di rivederlo, evitai il suo incontro, e
sentendo che il ricordo stesso di lui m’era un rimorso, mi studiai a
dimenticarlo, e non potendo riuscirvi, tentai almeno sbalordirmi.

Fu la mia seconda ingratitudine!

Eppure mancò ben poco che non facessi tutto all’opposto: voleva
scrivergli: entrai in un piccolo gabinetto ove avea visto uno
scrittoio, nel quale sperava trovare l’occorrente: ma non vi rinvenni
altro che un libro: machinalmente lo apersi e vi lessi: Clarice
Harlowe.

Non sapevo che fosse un romanzo, come ignoravo, venendo a Londra, quel
che fosse teatro. Apersi il libro, o piuttosto schiusi una nuova porta
in quell’incognito e fantastico mondo, nel quale ero entrata il giorno,
in cui il sipario d’un teatro s’era alzato dinanzi ai miei occhi.

Questo romanzo, che assicurasi scritto con uno scopo morale, produsse
in me un effetto opposto d’assai a quello propostosi dall’autore.
Lovelace invece di apparirmi un infame seduttore, mi parve un
gentiluomo seducente. Invidiai le sventure di Clarice Harlowe a prezzo
della felicità ch’ella aveva avuta in amore; e mi sentii presta ad
arrischiare gli stessi suoi casi, a cimento di cadere nelle stesse
avversità.

Dall’istante in cui il libro mi cadde fra mani, dall’istante in cui
l’ebbi aperto, non pensai più nè a scrivere al signor Hawarden, nè a
tornare dal signor Plowden. La fata mi avea tocca di nuovo colla sua
magica verga, ed io non mi apparteneva più.

Mistress Northon venne a chiedermi se voleva discendere per bere il
thè, e mi trovò assorta nella mia lettura. Le chiesi se era un ordine
di miss Arabella, o un invito di lei mistress Northon; ella mi rispose
che miss Arabella avea gente nel suo appartamento, e probabilmente
non pensava a me. La pregai allora a mandarmi in camera il thè ed i
sandwich, che comporrebbero la mia merenda e la mia cena, e a lasciarmi
alla mia lettura.

Un momento dopo, senza che il suo entrare ed uscire mi facessero alzar
gli occhi dal libro, udii il lacchè portarmi quel che avevo richiesto:
gli feci segno di porre il tutto sopra un tavolo e d’andarsene.

Siccome ei non chiedeva probabilmente meglio che di non servirmi,
obbedì tosto.

Chiusi la porta quasi temessi di venir disturbata.

Obliai il thè, mistress Northon, miss Arabella, il mondo intero: ero
divenuta Clarice Harlowe, come prima mi sentivo Giulietta.

Ma due o tre ore dopo una tanto ostinata lettura, si fe’ tale un caos
nella mia mente, il sangue mi affluì con forza tale al cervello, che
provai imperioso il bisogno di prender aria.

Apersi la finestra e andai a sedermi sopra uno degli scanni di pietra
del poggiuolo.

Era una bella notte d’estate: una di quelle notti che Shakespeare
scelse a popolare d’uno dei suoi sogni.

Il chiaror della luna, adombrato dagli alberi del giardino, marezzava
il verde tappeto delle zolle e l’acqua tranquilla della fontana: il
rosignuolo di Giulietta cantava in un cespuglio. Era una dì quelle
notti che più inebbrianti del sole più ardente, maturano l’amore in un
vergine cuore.

A traverso le seriche cortine, vedevansi le finestre dell’appartamento
di miss Arabella, splendidamente illuminato: udivansi gli accordi di
un’arpa e il suono indistinto d’una voce di donna.

Non avevo mai udito l’armonia delle corde del divino istrumento: quelle
vibrazioni quasi soffocate dall’ostacolo che loro impediva di giungere
fino a me, avevano un’infinita dolcezza: l’arte e la natura si univano
per dare un concerto ai miei sogni: era il rosignuolo di Giulietta, era
l’arpa di Clarice che dicevanmi ad una volta: Tutto ama; noi abbiamo
amato; ama tu pure.

Tutt’a un tratto spalancossi una finestra e una parte del giardino ne
rimase illuminata, lasciando me nell’ombra, di modo ch’io poteva veder
non vista. Vi si affacciò una donna, quella donna era miss Arabella.

Mi mossi per ritirarmi, ma comprendendo che io non poteva essere
scorta, rimasi al mio posto.

Colla luce un soave profumo si sparse al di fuori. Sentii quindi una
voce domandare.

— Dove siete, Arabella?

— Qui, monsignore, rispose miss Arabella.

— Che andate voi facendo alla finestra, mia diletta regina?

— Bruciavo e cerco un refrigerio.

Dietro a lei comparve allora un leggiadro giovanetto, un ragazzo quasi,
e venne ad appoggiarsi coi gomiti sul davanzale; la testa dell’una
era sì vicina a quella dell’altro, che i capelli ondeggianti di miss
Arabella celavano mezzo il volto del ragazzo, confondendosi coi di lui
biondi ricci.

Il giovanetto altri non era, se non il principe di Galles, che fu di
poi re Giorgio IV.

Ei presele con ambe le mani i capelli, e li baciò appassionatamente.

Porgevo attenta l’orecchio per sentir quel che si dicessero; ma
parlavano tanto piano, che le parole loro non giungevano sino a me;
udii soltanto lo scoccar di uno o due baci, quindi il giovane cinse
colle braccia la vita di miss Arabella e la condusse nelle stanze.
La finestra si chiuse, le cortine furono calate; l’amorosa e poetica
apparizione era svanita lasciandomi immersa in un languore fin allora a
me del tutto ignoto.

L’usignuolo seguitava a cantare, ma gli accordi dell’arpa erano
dismessi.

Mi sovvenni della seconda scena di amore fra Giulietta e Romeo, e
parevami di aver impressi in cuore accenti ancor più dolci di quelli
ch’avevanmi colpito al teatro; pure esitai, sebbene sentissi il bisogno
di sfogarmi con quella ammirabile poesia di Shakespeare. Non sapeva
risolvermi a turbare questo silenzio, rotto soltanto dai gorgheggi
dell’usignuolo, e dall’ineffabile rumore, che nelle trasparenti tenebre
delle notti di estate rassomiglia al batter delle ali di Oberon e
Titania.

Eppure, mio malgrado, tanta era in me la piena degli affetti, che
proruppi in questo primo verso:

    Partir già vuoi? Non viene il giorno ancora.

Poi, tremante, mi guardai attorno; era ben sola, e d’una voce più
accentata continuai:

    Fu l’usignuol, non già la lodoletta,
    Ch’or ti feriva il timoroso orecchio:
    Là sovra il melograno, ad ogni notte,
    Ei se’n viene a cantar. Credilo, o caro,
    Fu l’usignuol.

Mi fermai ansante, mi parve d’aver udito il rumore d’una finestra che
s’apriva dalla parte del giardino.

Guardai dalla parte che supponeva venuto il rumore; ma non vidi niente:
tutto era calmo, tutto sembrava solitario. Avea provato un immenso
piacere a sentire il suono della mia voce, e continuai, rispondendo per
l’assente Romeo:

                   La lodoletta ell’era,
    La nunzia del mattin, non l’usignuolo:
    Vedi, amor mio, di striscia invida ortale
    Le sparse nubi là nell’orïente:
    Le notturne facelle omai consunte,
    Ve’ il giocondo mattin, che coll’estremo
    Piè tocca i monti nebulosi! — È forza
    Ch’io parta e viva, ovver rimanga e muoia.

Superato questo primo timore, inebriata dalla melodia della mia voce,
proseguii a declamare, con tutta la maggior espressione possibile, la
scena fino alla fine. Venne il mio turno e con tutta l’anima mia, come
se Romeo fosse stato presente per intendermi, o come se avessi avuto
qual spettatore un pubblico per applaudirmi, risposi:

    Quello splendor, ben io lo so, ben io,
    L’alba non è; ma qualche eterea sfera
    Dal sole uscita a rischiararti in questa
    Notte, qual face, a Mantova il cammino.
    Deh, resta! di partir non anco è l’ora.

Mi sembrava di non aver sentito abbastanza passione in quest’ultimo
verso, e quindi lo ripetei con forza.

Questa volta fui contenta di me; mi parea di aver fatto vibrare tutte
le corde del mio cuore nelle tre parole: Ti amo tanto!

Indi, rimpiazzando Romeo, risposi a me stessa:

    Colganmi pur, mi traggan pure a morte;
    Pago son io, se così vuoi tu stessa.
    Quel barlume non è, dirollo anch’io,
    L’occhio dell’alba; è il pallido chiarore
    Della fronte di Cinzia. Oh! non è quella
    L’allodola che leva il canto arguto
    Sui nostri campi, e ne rïempie il cielo.
    Più di restar che di partirmi ho brama. —
    Vieni, o morte, e sarai la benvenuta:
    Giulietta così vuole. — Anima mia,
    Che hai tu? Parliamo ancor, non è il mattino.

Mi ricordai quanto era stata bella madama Siddons in questo momento,
cioè quando, conoscendo ch’ella s’inganna, s’avvede in qual pericolo il
suo errore, o piuttosto il suo amore, ha trascinato il suo amante, ed
esclamai d’una voce non meno vibrante di terrore della sua:

    È il mattino, è il mattin! fuggi, t’affretta!
    L’allodola quest’è, che in tuon discorde
    Sforza aspre note e disgustosi trilli.
    E dicon, che può far metri soavi:
    Ah no! che di partirci ora non teme.
    Dicon che dessa e il sozzo rospo han fatto
    Scambio d’occhi fra lor: perchè del paro
    Non iscambiâr la voce? È questa voce
    Che ne sgomenta, e braccio svelle a braccio,
    E te spinge di fuor col suo saluto
    Intempestivo al dì. — Pártiti, vanne:
    Splendida più e più la luce avanza.

Non appena ebbi detto quest’ultimo verso con tutta quell’espressione
ond’io era capace, una voce gridò: Brava! e risuonarono applausi dalla
parte ove erami sembrato sentir aprire una finestra.

Misi un grido, rientrai nella stanza, chiusi la finestra, e tutta
tremante mi gettai su di un divano.

Erami creduta sola ma m’ingannava, qualcuno stava ad ascoltarmi,
e chi? Un giovane certamente. La fresca voce ed argentina faceami
così supporre. Gli applausi poi avean seguitato anche dopo che io
ebbi chiusa la finestra, sarebbesi detto che, come al teatro, si
raddoppiavano gli applausi per far ricomparir un’artista che avea
esordito in tali strane condizioni.

Ma benchè turbata, il mio turbamento era pieno di dolcezza.

Tutte queste minuzie parranno forse puerili a chi le leggerà,
eppure come dovrei cercare di impetrar perdono alla mia caduta, se
non mostrassi quanto ripida fosse la discesa giù per la quale io
precipitava?




X.


Nella notte, le emozioni della serata continuarono a svilupparsi:
parevami di avere cominciato anch’io un romanzo.

Due cose mi perseguitarono nel mio sonno, penetrandomi ambedue fino
al core per la porta dei sensi: l’una, la dolce e amorosa visione che
rappresentavami quelle due belle teste sì vicine l’una all’altra da
confondere i loro capelli, il loro alito, i loro sospiri, dispiccantisi
vivamente dal fondo della camera splendidamente illuminata; l’altra,
quell’ascoltatore invisibile che mi avea senza dubbio seguita con gli
occhi nei più piccoli movimenti di quella scena notturna ch’io credeva
solitaria.

Tutto si riuniva così per perdermi: gli avvenimenti del giorno, i sogni
della notte.

Miss Arabella non fu visibile che ad ora tarda: ella mi fe’ chiamare,
la trovai nello stesso salottino ove l’avea vista il dì innanzi.

— Mia cara fanciulla, mi disse con accento da regina, io lascio Londra
per qualche giorno; vorrei condurvi meco, ma è impossibile: resterete
dunque qui, me assente. So che amate il teatro, e metto il mio palco
a vostra disposizione: potrete andarvi sola, se vi aggrada, ma siete
troppo giovane, e troppo bella, e quindi sarebbe meglio se vi andaste
con mistress Northon, che vi accompagnerà volentieri. La sola cosa di
cui vi prego, si è di non ricevere alcuno: al mio ritorno, se la smania
del teatro non vi avrà lasciata, parlerò di voi a Sheridan e vi faremo
esordire. Se per caso incontraste Romney, fate ch’egli non vi vegga; se
vi vede, evitate di parlargli; e se vi parla, non gli dite presso chi
vi trovate: siamo divenuti mortali nemici.

Promisi a miss Arabella di eseguire i suoi cenni.

— Ed ora, mi disse ella, vuoi aiutarmi a svestirmi?

— Voglio quanto voi mi ordinerete, rispos’io; non sono qui per
obbedirvi?

— Sì, finchè non comanderai altrove, carina, ciò che non può tardare ad
accaderti con quel visino.

E mi prese fra le dita il mento.

— Davvero, ripigliò, credo che Romney avesse ragione, e che sia una
grande presunzione la mia l’avvicinare questo vezzoso visetto al mio
volto. Sai tu di che mi dolgo? diss’ella, passando le sue mani nella
anella dei miei capelli.

— No, risposi io, perchè non saprei veramente che abbiate a desiderare
al mondo, voi, giovane, bella, ricca e amata.

— Mi trovi tu proprio bella, o lo dici come gli altri per farmi un
complimento? seguitò ella posandosi dinanzi uno specchio, e appressando
al mio il suo viso come per paragonare il diverso genere delle nostre
bellezze.

— Bella, bellissima! esclamai coll’accento della più perfetta verità.

— Ebbene, diss’ella, mi duole di non essere _bello, bellissimo_, invece
di _bella, bellissima_; perchè, te lo giuro, se fossi uomo, farei per
te tutte le follie possibili: e, vedi, ecco che senza esser uomo, le
comincio, giacchè mi dimentico, parlando teco, che farò attendere il
principe.

Mi diè un bacio in fronte e suonò il campanello: la cameriera comparve.

— Or bene? chiese miss Arabella, i miei abiti non sono ancora pronti?
Il sarto me gli avea promessi per le tre del pomeriggio.

— Sono qui da una mezz’ora madama.

— Datemeli allora.

La cameriera uscì e rientrò all’istante con un completo vestiario da
uomo della più perfetta eleganza.

— Come! esclamai, vi vestite così?

— Sì, è un capriccio del principe. Andiamo a passare qualche giorno
in campagna con alcuni dei suoi amici; faremo la vita de’ castellani,
cacceremo, e che so io. Egli mi ha detto ieri: — Sapete quel che
dovreste fare, Arabella? vestitevi da uomo.

Io ho mandato a chiamare a sarto, e gli ho ordinato un vestito per
quest’oggi alle due: egli me l’ha promesso e, come vedi, mi ha tenuto
parola.

— Ebbene, soggiunse, volgendosi alla cameriera che fate voi là?

— Aspetto gli ordini di madama per abbigliarla.

— No, Emma mi aiuterà: non è vero, carina, che vorrai prestarmi questo
servigio?

— Senza dubbio.

— Lasciateci dunque, e fate venire i cavalli da posta, affinchè io
possa fra mezz’ora partire.

La cameriera uscì.

Miss Arabella esaminò allora ad uno ad uno i diversi oggetti del suo
vestimento; tutto era del miglior gusto, ed atto a far risaltare la
persona che lo indossava.

L’abito era di velluto color granato a bottoniere d’oro: il farsetto di
seta bianco ricamato di un ramo di fiori; i calzoni di velluto azzurro
e gli stivali d’un cuoio tanto fino, che pareva una stoffa, giungevano
più alti del ginocchio, e lasciavano indovinare la gamba, mostrando il
piede più grazioso che potesse vedersi.

Arabella parve contentissima di quell’esame.

— Credi tu ch’io sarò passabile in tal guisa?

— Sarete adorabile, le risposi io.

— Adulatrice! mi diss’ella, svestendosi dell’abito da camera; vediamo,
aiutami.

Trasse dal cassettino della sua toeletta un camiciotto in batista con
una gala di merletto d’Inghilterra ed i manichini eguali, e me lo diede
perchè l’aiutassi a indossarlo. Ell’era già pettinata e la pettinatura
da uomo si addiceva perfettamente al suo bel volto, la espressione del
quale era, bisogna convenirne, più ardita e fiera, che modesta.

Finì allora di spogliarsi delle sue vesti donnesche: Arabella avrebbe
potuto lottare per bellezza plastica, non con le statue antiche, ma
con quelle, forse più seducenti dal punto di vista della grazia e delle
pieghevolezza, del medio evo.

Non era la Venere di Prassitele, o la Vittoria di Fidia, ma per certo,
una delle Grazie di Germano Pilone.

Io non aveva mai vista una donna ignuda; ristetti un istante a guardare
con ammirazione quella perfezione di forme, che nell’antichità era una
religione.

— Ebbene, mi diss’ella, che pensate voi dunque, bella distratta?

— Vi osservo, madama, e penso che il principe è ben fortunato.

Ella sorrise, fece un grazioso moto di spalle, e si chinò perch’io
potessi indossarle la camicia.

Strana cosa è la nostra femminile natura, le cui supreme soddisfazioni
stanno nell’orgoglio, e i complimenti più dolci sono quelli
dell’adulazione! — Che era io per miss Arabella? Poco più d’una
cameriera. — Eppure era evidente ch’ella ricercava i miei complimenti
con avidità pari a quelli del principe.

Il seguito dell’abbigliamento si fece colla stessa lentezza e la
stessa civetteria. Senza dubbio non era la prima volta che la volubile
creatura vestiva l’abito di cavaliero; ultimata la toeletta, la
metamorfosi fu completa, e si avrebbe giurato esser ella un giovine
gentiluomo di sedici o diciott’anni tutto al più, mentre in fogge
donnesche ne dimostrava venticinque, per quanto avesse, secondo ogni
probabilità, già oltrepassata questa età prima fioritura della vita.

Al momento in cui, rimproverandomi la mia goffaggine perchè non sapeva
come si mettesse la cravatta, ed ella stessa se la annodava al collo,
con una prestezza ed un’abilità che ne svelavano l’abitudine, la
cameriera rientrò annunciando che i cavalli eran giunti e la vettura
attendeva.

Miss Arabella diede un’ultima occhiata a sè stessa, poi a me: era
evidente che combatteva in essa una strana battaglia, di cui io non
sapeva rendermi conto.

Poi, curvandosi al mio orecchio:

— Non sai a che penso? diss’ella.

— No, risposi io, con la più perfetta ingenuità.

— Penso che vorrei esser uomo e rapirti in questa vettura, anzichè
esser donna e salirvi, anche per raggiungere l’erede della corona
d’Inghilterra.

Poi, prendendo uno scudiscio nel cui manico era incastonato un
magnifico smeraldo:

— Addio, diss’ella; farò ritorno il più presto possibile, sii
tranquilla: frattanto ti lascio padrona di casa.

E si allontanò rapidamente, frustando il suo stivale e facendo risonare
gli speroni sul pavimento.

La finestra guardava sulla strada: corsi a quella per vedere ancora
miss Arabella: ella saltò leggera nel calesse tirato da quattro
cavalli, levò il capo, mi vide, portò la mano alle labbra e la stese
verso me.

I postiglioni fecero scoppiettare le fruste e la vettura partì al
galoppo.

Restai sola in quella camera tepida e profumata, ove era impossibile
pensare ad altro che alla ricchezza, all’amore, ed alla voluttà. Vi
restai un’ora ad assorbire quella molle atmosfera, che faceva Baia
tanto pericolosa alla virtù delle matrone romane. Quanto era diversa
dall’atmosfera dolce ed intelligente che mi avea confortata nella
casa di Leicester Square, dall’atmosfera aspra e mercantile che avevo
spirata nel magazzino del signor Plowden, da quella, infine, puritana e
rigida dalla casa del signor Hawarden padre!

— Ti lascio padrone della casa, mi avea detto miss Arabella partendo.

— Perchè, come, e con quale diritto aveva io conquistato un tanto
favore?

Eppure, qualunque fosse il motivo cui lo doveva, era questo potere
reale: me ne avvidi dal modo con cui la cameriera mi chiese se avevo
nulla ad ordinarle.

Comandare io! io che fino a quel momento avea sempre ricevuti comandi.

Debbo dirlo, ebbi sempre il sentimento della mia umiltà. In certe ore
d’ebbrezza obbliai forse qualche volta il punto da cui era partita: ma
appena mi ritrovava sola con me stessa, sentivami piuttosto disposta
a rampognar la fortuna dei suoi doni, i quali pareano elevarmi solo
per far più profonda la mia caduta, anzichè a ringraziarla di questo
innalzamento, che io sentiva per istinto essere un errore della
Provvidenza.

Risposi che se mistress Northon volea farmi il piacere di pranzar meco
e d’accompagnarmi al teatro, gliene sarei riconoscente.

Mistress Northon non chiedeva di meglio: era una buona fortuna per essa
andare in teatro: mi chiese quale preferissi: io non ne conosceva che
uno, Drury Lane.

Recitavasi Macbeth: era il trionfo di mistress Siddons.

Questa volta le mie impressioni furono ben diverse dalla prima: scorsi
tutte le fasi del terrore. Ai doni di dolcezza e di leggiadria, che
mancavano a mistress Siddons nella parte di Giulietta, supplivano
le doti opposte in quella di Lady Macbeth: l’energia della voce,
l’inflessibilità della fisonomia, davano alle ambiziose aspirazioni di
quell’anima ferrea una perfezione nel dire, che giungeva al sublime.
Nella scena, in cui spinge Macbeth al delitto, nell’altra, ove rincora
il suo sposo minacciato dall’ombra di Banco, in quella, infine, nella
quale affranta nel sonno più dal crollare del suo potere, che dal
rimorso, in veste da notte, cogli occhi aperti ma senza sguardo, con
voce ansante ma senza suono, dà, addormentata, spettacoli di quei
terrori notturni che perseguono l’assassino, ella era d’uno splendore
cui non vidi mai alcun’altra raggiungere. Tornai a casa forse più
sorpresa ancora della prima volta, ma meno commossa, meno intenerita;
ammirai, ma non piansi: sentiva di aver assistito ad una cosa d’arte,
mentre dopo Giulietta e Romeo m’era sembrato prender parte ad una scena
della natura.

Entrai fremente nel mio appartamento e sotto l’impressione di quel
che aveva veduto, volli provarmi, come la prima sera, in cui il
signor Hawarden mi condusse in teatro, a riprodurre ciò che aveva
ascoltato, ma mi avvidi tosto che nè la mia fisionomia, nè la mia voce
si prestavano ai sentimenti terribili: la mia voce era troppo dolce,
la mia fisionomia troppo tenera e troppo giovanile: risi di me stessa
vedendomi incapace a ripetere que’ tetri accenti e quelle irresistibili
tentazioni che fanno dire a Macbeth:

    _... Bring forth men-children only,_
    _For the undaunted mettle should compose_
    _Nothing but males!.........[2]_

Mio malgrado io cadeva nelle dolci e amorose inflessioni di voce, che
facevanmi credere di aver trovato nuovi ed incogniti accenti nella
parte di Giulietta: la mia fisionomia accordavasi allora per eccellenza
coll’armonica solfa delle mie parole: sentiva infine che mi sarebbe
impossibile, per quanto facessi, innalzar meco fino al trono un
Macbeth qualunque, ma che colla sola parola, col solo sguardo, col solo
sorriso, trascinerei il più ribelle dei Romei nella mia tomba.

E mi vedeva allora passare dinanzi agli occhi tutta quella scena
ammaliante del ballo, ove, senza quasi parlarsi, i due giovani si danno
l’uno all’altro, in modo che, all’uscir di Romeo, Giulietta, sentendo
il suo cuore involarsi con lui, esclama spingendogli dietro la sua
nutrice:

    Va, chiedi il nome suo. — S’egli è già sposo,
    Sarà mio letto nuzïal la tomba!

E ripetevo queste parole con tutta l’anima e tutta la passione
ond’era capace il mio cuore, quando mi parve udire a chiamarmi nel
giardino appiè della finestra, non col mio nome d’Emma, ma con quel di
Giulietta.

Era un errore della mia immaginazione, una sorpresa de’ miei sensi? Era
io entrata sì addentro del sogno da incontrarvi la realtà? Mi appressai
leggermente al balcone, l’apersi, e dolce come un alito di brezza, una
voce ripetè:

— Giulietta, Giulietta!

Romeo era trovato; Romeo era appiè della finestra: ma, chi era egli?




XI.


Fatta certa che un incognito era in giardino, avrei dovuto chiudere
il balcone, lasciarne ricadere le cortine, fuggire al fondo della
mia camera e chiudermivi con doppia chiave: e lo avrei fatto senza
dubbio in tutt’altra disposizione di spirito, ma, quell’essere, cui la
Scrittura non osa nominare e chiama _quegli che cammina nelle tenebre_,
pare si fosse stretto a me come ad una preda ed avesse giurato di non
lasciarmi un istante finchè non m’avesse trascinata al più profondo
dell’abisso.

Invece di chiudere la finestra, invece di fuggire appressai il mio
orecchio alle socchiuse imposte, ed ascoltai.

Allora lo sconosciuto, con voce dolce e fresca, pronunciò i versi
seguenti, come se fossimo l’uno e l’altro chiamati a recitare la parte
dinanzi ad un pubblico invisibile, o piuttosto, come se veramente
fossimo stati Giulietta e Romeo.

Ascoltai ansiosa:

    . . . . . . . . . . . Qual luce
    Là sul verone scintillar vegg’io?
    È l’orïente, e n’è Giulietta il sole! —
    Sorgi, o bel sol! La luna invida spegni,
    Ch’egra e pallida già, par che si dolga
    Che tu splenda di lei più bella tanto,
    Tu, vergin sua: più non ti leghi a quella
    Invidïosa il virginal tuo voto.
    Già fioco e smunto appar quel che la cinge
    Ammanto di vestal, che omai non orna
    Più che le stolte... deh! tu pur lo spoglia. —
    Oh! dessa è la mia donna, è l’amor mio!

Conoscete il potere affascinatore attribuito dagli antichi al canto
delle sirene, a quel magico canto, cui Ulisse si sottrasse legando i
suoi compagni agli alberi de’ suoi vascelli, e turandosi egli stesso
gli orecchi con cera? Oimè! Io non era stretta da alcun laccio: oimè!
le mie orecchie erano aperte a tutte le sensuali melodie dell’amore;
la voce mi attirava con un irresistibile fascino; misi il piede sul
balcone, col cuor palpitante e le labbra tremule.

E come avesse avuto il segreto del mio cuore, la voce continuò:

    Deh! se saperlo ella potesse...! È lei
    Che parla, e pur non dice accento. — Or come?
    Son gli occhi suoi che parlano.... Io rispondo:
    Ma troppo ardisco; non a me favella.
    Ah! sì, due de’ più belli astri del cielo,
    Svagáti altrove, supplicâr que’ cari
    Occhi d’irradïar le loro sfere
    Sinchè faccian ritorno. Oh! se quegli occhi
    Fosser nel cielo, e stelle avesse in fronte?
    Allor della sua gota il chiaro lume
    Quelle stelle farìa discolorite,
    Come al raggio del dì notturna lampa;
    E gli occhi bei, del ciel ne’ scuri campi,
    Di novello splendor versando un fiume;
    Farìan desti gli augelli a’ lieti canti.
    Qual se notte non fosse!...

Trascinata da questa dolce poesia, e cominciando ad entrare nello
spirito della mia parte, ricordai madama Siddons e mi posai sulla
mano la fronte. Il mio incognito Romeo, che pareva attendere ch’io mi
atteggiassi all’apparato scenico, seguitò:

                           Or vedi come
    Posa la gota sulla mano! Oh fossi
    Un guanto a quella man, ché almen potrei
    Toccar la bella gota!

Non seppi astenermi dal rispondere col poeta:

    Aimè!

E sospirai: la voce ripigliò con un accento di passione, che fe’
vibrare tutte le fibre del mio cuore:

                                       Favella!
    Oh! parla, parla, angiol di luce. In questa
    Notte tu scendi sovra il capo mio,
    Splendido al par d’un messaggiero alato
    Del ciel, quando i mortali a riguardarlo
    Colle bianche pupille in su rivolte,
    Per maraviglia cadono a ritroso;
    Ed ei le pigre varca e lente nubi,
    E in grembo del commosso äere veleggia.

Io mi appoggiai ambo le mani al cuore, e con accento che non lasciava
nulla da desiderare al mio interlocutore che io divinava più che nol
distinguessi nell’ombre, risposi:

    Romeo! Romeo! Perchè Romeo tu sei?
    Deh! rinnega tuo padre e il nome tuo;
    O se così non vuoi, giurami amore,
    Ed io più non sarò de’ Capelletti.

La voce mormorò:

    Deggio starmi ad udirla? o le rispondo?

Ed io, tutta alla mia parte, ripigliai con voce la più soave che per me
si potesse:

    Gli è solo il nome tuo che m’è nemico:
    Pur lo stesso sei tu, ben che non uno
    Dei Montecchi. E che mai ti fa Montecchio?
    Non la mano, nè il piè, nè il braccio o il viso
    Od altra parte che d’un uomo sia.
    Oh! tu avessi altro nome! E che v’ha mai
    Nel nome?... Il fior che rosa è da noi detto,
    Un olezzo soäve avrìa del paro
    Con altro nome. Tal Romeo, se pure
    Romeo non si nomasse, avrebbe tutti
    I cari pregi ond’è fornito. Oh! lascia
    Il tuo nome, Romeo: prendi per esso,
    Che parte tua non è, tutta me prendi.

Confesso che io attendeva con emozione la risposta che impegnava
direttamente il dialogo col mio interlocutore: la risposta non si fe’
attendere, e Romeo ripigliò con un accento di tenerezza non minore del
mio:

    Io ti piglio al tuo detto. Oh! me sol chiama
    Amor tuo, ch’io n’avrò nuovo battesmo;
    Nè da tal punto sarò più Romeo!

Il lettore ci vede, me alla finestra, il mio incognito Romeo celato
nell’ombre, ma solo separati da un sì breve spazio che le nostre mani,
stendendosi, avrebber potuto toccarsi. Non ho dunque che a trascrivere
la scena fino al fine, perchè il lettore se ne figuri egli stesso
l’apparato scenico, ed immagini le emozioni nate in un cuor quindicenne
che faceva, per così dire, il suo doppio esordire in una poesia
inebriante e in un amore misterioso.

Lascerò dunque da parte i commenti e seguiterò la scena:

    _Giul_.
      Chi mai se’ tu che, nella notte ascoso,
      Vieni a turbar l’arcano mio?
    _Rom_.
                                   Per nome
      Dirti non so qual io mi sia, chè troppo
      Abborrito a me stesso è il nome mio;
      Poichè nemico a te, mia cara santa,
      Ei mi rende; e s’io qui l’avessi scritto
      Lacerar lo vorrei.
    _Giul_.
                            Cento parole
      Da tal voce profferte ancor non bevve
      L’orecchio mio; pur ne conosco il suono:
      Romeo non se’ tu forse un de’ Montecchi?
    _Rom_.
      Nè l’un nè l’altro io son, se a te disgrada,
      O mia santa gentil!
    _Giul_.
                           Ma come, dimmi,
      E perchè mai venisti? Alto è il recinto
      Del giardin, periglioso alla salita;
      E, pensando chi sei, se alcun de’ nostri
      Qui ti trovasse.... questo suol t’è morte.
    _Rom_.
      Io d’amor con le lievi ale varcai
      Quel recinto: ad amor non vieta il passo
      Confin di pietre; e tutto ciò che vuole
      Amor l’ardisce. A me non fanno intoppo
      I tuoi congiunti.
    _Giul_.
                         Se da lor veduto
      Qui sei, t’uccideranno.
    _Rom_.
                              Oimè! periglio
      Ben più fatal negli occhi tuoi vegg’io
      Che in venti spade lor. Dolce mi guarda,
      E saldo io son contr’essi, a tutta prova.
    _Giul_.
      Per quanto è in terra, non vorrei tu fossi
      Qui veduto da lor.
    _Rom_.
                          Di notte il manto
      M’asconde ad essi — Ma, purchè tu m’ami,
      Qui mi discopran pure! Oh! meglio assai
      Finir per loro nimistà la vita,
      Che non vedermi prolungare la morte,
      Non amato da te!
    _Giul_.
                       Chi mai t’apprese
      A trovar questo loco?
    _Rom_.
                            Amor, che primo
      Mi pose in su la traccia; esso il consiglio,
      Ed io gli occhi prestai. Non son nocchiero;
      Ma pur vorrei, se tu più lunge fossi
      Dei lidi ermi che lava il mare estremo,
      Sfidar, per tal tesoro, ogni fortuna.

Queste ultime parole furon dette con tal passione, che non ebbi a
fingermi commossa nel rispondere:

    _Giul_.
      Sai che larva mi fa la notte al viso;
      Se no, per quel che da me udisti, avrei
      D’un virgineo rossor pinta la gota.
      Star vorrei contegnosa, e vorrei pure
      Rivocar ciò che dissi!... E invece, addio,
      Addio, rispetto! — M’ami tu? So bene
      Che mi dirai di sì; che la tua fede
      M’impegnerai; ma pur, giurando, puoi
      Farti spergiuro: intesi dir che Giove,
      Allo spergiuro degli amanti, rida.
      O gentile Romeo! se m’ami, dillo
      Veracemente: o, se ben presto vinta
      Tu mi credessi mai, farò cipiglio,
      Sarò cattiva, e mi terrò sul niego:
      Così preghiera mi farai d’amore.
      Ma in altra via, non mai, per quanto è in terra!
      In ver son troppo ardente, o bel Montecchio,
      E il mio contegno puoi stimar leggero:
      Ma credi, cavalier, me troverai
      Più vera di tant’altre che ti fanno
      Ad arte la ritrosa. E più ritrosa
      Esser dovea, confesso; ma, già prima
      Ch’io di me fossi accorta, avevi udito
      La voce del mio vero amor possente.
      Dunque perdona, nè m’apporre a colpa
      D’amor leggero la fralezza mia,
      Cui tolse il velo questa notte oscura.
    _Rom_.
      Io giuro, o donna, per la sacra luna
      Che le cime inargenta a quei frutteti...
    _Giul_.
      Oh! così non giurar, no, per la luna,
      Per l’incostante luna, che si muta
      D’ogni mese al mutar della sua sfera,
      Perchè non cangi anche il tuo cor, com’essa.
    _Rom_.
      Per chi giurar?
    _Giul_.
                      Nol dèi per cosa alcuna:
      O giura, se tu il vuoi, per la tua cara
      Sembianza, ch’è mio nume, idolo mio;
      E fede ti darò.
    _Rom_.
                      Se del mio core
      Il sacro amor...
    _Giul_.
                      Deh, non giurar! Bench’io
      Ponga ogni gioia in te, questa promessa
      Nell’alta notte, non m’è gioia; troppo
      È ratta, sconsigliata ed improvvisa,
      Come balen che più non è, già prima
      Che tu dica: Balena! — O caro, addio!
      Questo germe d’amor, se fiato estivo
      Lo feconda, sarà fior di bellezza,
      Quando vedremci un’altra volta. Addio!
      Addio! Venga al tuo cor dolce riposo
      E così dolce nel mio cor la pace.
    _Rom_.
      Malcontento così dunque mi lasci?
    _Giul_.
      E che più brami in questa notte?
    _Rom_.
                                      Un fido
      Contraccambio d’amore al voto mio.
    _Giul_.
      Io ti diedi, già pria che tu il chiedessi,
      Il mio: così m’avessi a darlo ancora!
    _Rom_.
      Ritòr me lo vorresti? E perchè mai,
      Mio dolce amore?
    _Giul_.
                       Sol perchè vorrei
      Libera a te ridarlo. Eppure io bramo
      Cosa che già posseggo. È la mia grazia
      Senza confine, come il mar; com’esso
      Profondo è l’amor mio: più te ne dono,
      E in me n’ho più, chè sono ambo infiniti![3]

Mancavaci un terzo interlocutore; perchè nella tragedia in questo
momento la nutrice chiama Giulietta: ma, come se il caso avesse giurato
di far in tutto di questa finzione una realtà, all’istante in cui
doveva essere pronunciato il nome di Giulietta, quello di Emma rintronò
nella mia camera pronunciato da una voce di donna, e vidi alcuno
appressarsi alla finestra.

Non ebbi che il tempo di dire in prosa al mio Romeo:

— Attendetemi, ritorno.

Rientrai in camera e mi trovai di fronte ad Amy Strog ch’io non aveva
riveduta dal dì del mio arrivo in Londra.

La poveretta piangeva dirottamente.

Quantunque la sua venuta non fosse molto opportuna, mi slanciai fra le
sue braccia con tutto l’abbandono d’un giovin cuore troppo pieno che
prova il bisogno di effondersi in quel d’un’amica.

Compresi dalle sue prime parole ch’ella aveva una lunga storia da
narrarmi, e che era sua intenzione nel venire ad ora sì tarda, di non
lasciarmi che il domattina.

Restavami a prender commiato dal mio Romeo: feci entrare Amy nella mia
camera da letto e tornai al mio balcone: m’inclinai dalla balaustrata e
stesi la mano.

Due mani l’afferrarono: una bocca ardente si posò su di essa, e le
nostre voci mormorarono unite:

— A domani.

Poi tornai all’amica, col cuore agitato ed i sensi scossi da quel
nuovo ed incognito sentimento infiltratosi nelle mie vene, con quella
inebbriante poesia e quello strano mistero.




XII.


Non sarebbe stato difficile ad Amy Strog lo indovinare che avveniva
qualche cosa d’insolito nella mia vita, ma ella parea tanto preoccupata
del soggetto della sua visita, che non parve punto farvi osservazione,
e venne subito al fatto.

Dick, il fratello d’Amy Strog, che, come si ricorda, era venuto con noi
a Londra, in una leva di marina era stato preso e destinato a far parte
dell’equipaggio del comandante John Payne.

Trattavasi di ottenere dall’ufficiale la liberazione del giovine, ed
essendo stato detto ad Amy Strog che il galante capitano non sapea
nulla negare ad un bel visino, ella avea pensato a me per farmi
l’interceditrice della grazia cui voleva ottenere.

Allora ella s’era data a cercarmi: avea chiesto notizia di me al signor
Hawarden, che l’avea rimandata al signor Plowden: il signor Plowden le
avea dato l’indirizzo di miss Arabella, dicendo che io era scomparsa,
ma che probabilmente mi si ritroverebbe colà.

Due volte nella serata ella era venuta, ma le era stato risposto ch’io
mi trovava assente; e difatti lo si ricorda, io era andata a Drury
Lane; ma, ferma nel proposito di voler vedermi, ella era tornata una
terza volta, ed avea talmente insistito che, quantunque fosse vicina
la mezzanotte, l’aveano introdotta nella mia stanza. Ed era giunta,
come si è veduto, precisamente al momento in cui la nutrice chiama
Giulietta, ed avea fatta una doppia variante: la prima, chiamandomi col
nome d’Emma invece di quel di Giulietta, e la seconda, astringendomi
a prender commiato dal mio Romeo, prima assai che nol faccia la vera
Giulietta.

Io era in quella disposizione di cuore e di spirito, nella quale pare
abbiasi tanta felicità da espanderne su tutto il genere umano.

Promisi ad Amy di occuparmi il domani della libertà di Dick; e siccome
ella non potea tornare a casa sua ad una simile ora, le preparai un
letto sopra un divano, affine di potere, al dì dopo, prendere insieme
le opportune misure.

Amy avea già saputo che il signor John Payne era a bordo del suo
bastimento il Théseus, ancorato nel Tamigi, fra Greenwich e Londra.

Amy s’avvide che, all’opposto di lei, io aveva il volto sorridente, e
lieto il cuore: com’ella mi avea raccontato le sue pene, le narrai io,
non la mia felicità, perchè non avea ragione alcuna di trovarmi felice,
ma le illusioni della mia immaginazione di quindici anni, i quali se
non sono per le fanciulle la felicità, ne hanno almeno lo splendore.

È vano il dire che, fino che fummo deste, il mio incognito Romeo fu il
soggetto della nostra conversazione: mi addormentai col cuore pieno del
nome di Romeo e le labbra sulla mia mano al posto ove egli avea posate
le sue.

La intera notte non fu per me che un sogno di fuoco.

Il domani, nell’aprir la porta della mia camera, vidi una lettera
a terra sul pavimento: era stata probabilmente spinta all’interno
dell’apertura che trovavasi fra il pavimento e la finestra del
poggiuolo.

Portava questa soprascritta:

  _A Giulietta._

L’apersi e fissai vivamente gli occhi sulla firma: il nome di quegli
che l’avea scritta poteva essere un nome di battesimo come un cognome;
era sottoscritta: Harry.

Allora la lessi o piuttosto la divorai.

Avevo presso a poco divinato il vero; Romeo Harry era il mio vicino,
mi avea vista alla mia finestra la sera, in cui, credendomi sola,
io ripeteva la scena di Giulietta al balcone. Era egli che m’aveva
applaudita al finir della scena e m’avea fatta fuggire applaudendomi:
allora egli s’era fissato nell’idea di scendere al domani nel giardino,
senza punto occuparsi, come Romeo, de’ pericoli cui potea correre con
tale imprudenza, e tentar di attirarmi alla finestra, dicendo i primi
versi della bella scena del giardino.

Si sa com’ei vi fosse riuscito.

Le spiegazioni ch’egli davami sul conto suo eran brevi: era studente
all’università di Cambridge, ma trascinato da un’irresistibile
passione per il teatro, e credendo che io dividessi questa vocazione,
mi proponeva di tentare insieme i favori della sorte e della gloria
artistica.

Supplicavami a venir la notte seguente al poggiolo per dargli una
risposta da cui dipendeva, diceva egli, la felicità della sua vita
futura.

Questa lettera era stata evidentemente scritta dopo l’interruzione
della nostra scena; e quegli che ne era l’autore aveva scalato il
mio balcone, e dopo essersi accertato che io non ero sola e nol
sarei probabilmente in tutta la notte, era penetrato dal di fuori
all’interno.

Ciò indicavami che io non era gran che sicura nel mio appartamento, e
che passerei bentosto, come la vera Giulietta, dalla scena del giardino
a quella del balcone.

Oimè! era ancora uno dei pericoli della mia situazione lo arrestare
senza spavento il mio spirito sopra un vincolo del genere di quello
che venivami offerto. Se Giulietta, l’erede dei Capuleti, vale a dire
d’uno de’ più nobili casati di Verona, cui spettava sostenere l’onore
d’una famiglia che adoravala, che l’avea con ogni cura educata a tutti
i principj di virtù, a tutte le esigenze della società, aveva, in una
di quelle giovanili attraenze nelle quali il cuore prevale su tutte le
umane considerazioni, fatto al suo amante sacrificio della sua virtù,
della sua fama, del suo onore, come poteva io, povera fanciulla isolata
e senza nome, educata quasi dalla pubblica carità; io, che non avea mai
conosciuto mio padre, mal vigilata da mia madre, che guadagnava il suo
pane giornaliero col travaglio dell’intero suo giorno; come, io, cui
la prima di tutte le lezioni, quella dell’esempio, mancava; io, che non
dovea conto ad alcuno della mia condotta; io, che cadendo non macchiava
nè un nome, nè una famiglia, e perdendomi, perdeva me sola, come poteva
io neppur pensare a resistere, se Giulietta avea soggiaciuto?

E difatti non vi pensai; non pensai altro che alla felicità di
rivedere, o piuttosto vedere la sera il mio incognito Romeo, giacchè
non avea potuto distinguere il suo volto nell’oscurità: solo, dalle
intonazioni della sua voce avea riconosciuto la gioventù, e, dalla sua
calligrafia e dal suo stile, divinata un’elegante educazione. Quanto
alla bellezza, io era certa della sua, chè aveanvi in quest’avventura
non solo le ispirazioni della gioventù, ma quelle eziandio dalla
leggiadria.

Baciai la lettera e me la posi sul cuore.

Frattanto Amy si vestiva: avevamo presso a poco una lega e mezzo da
fare per giungere vicino al Tamigi, al luogo ove era ancorata la flotta
inglese; ma noi non dovevamo presentarci all’ammiraglio che verso
il mezzogiorno, ed avevamo quindi il tempo d’asciolvere al palazzo e
partirne dopo colezione.

Chiamai per chiedere se si potesse servirmi di colezione nel mio
appartamento: il domestico rispose che miss Arabella avea lasciato
ordine che mi si obbedisse come a lei stessa.

Mentre noi asciolvevamo mi fu chiesto se volevo che si mettessero i
cavalli alla carrozza, ma io, non volendo si sapesse ove andavamo,
rifiutai, dicendo soltanto che probabilmente non farei ritorno che la
sera.

Verso il mezzodì ci ponemmo in cammino. Più avvezza di me agli usi
di Londra, la mia compagna prese una vettura, ne fissò il prezzo per
l’intero giorno e partimmo.

Io mi lasciava del resto assolutamente condurre da Amy: il mio spirito
era tutto all’avventura del dì innanzi: ad ogni istante ponevami al
cuore la mano per accertarmi che non avea perduta la lettera di Harry;
la sola cosa che facea nube a quella serena illusione era lo aver
incontrato un semplice studente, un semplice artista, che m’offriva
di percorrere al suo braccio lo spinoso sentiero dell’arte, invece
d’un bel gentiluomo, d’un ricco signore che mi menasse alla gloria di
mistress Siddons e alla fortuna di miss Arabella in un’elegante vettura
a quattro cavalli.

Ma ciò che era protratto non era perduto: il teatro è un piedestallo,
sul quale la statua della bellezza ha un culto come quella
dell’ingegno; e siccome io era certa d’esser bella, — oimè me lo avean
già tanto ripetuto, dal povero Dick che primo me lo avea detto nelle
montagne del ducato di Galles, ad Harry-Romeo che me lo avea scritto
il mattino stesso, — siccome, ripeto, era sicura d’esser bella ed avea
speme di posseder del talento, non era che un affare di data, e potevo
attendere.

Vedasi che io sono fedele al programma che mi ho imposto scrivendo la
mia vita, e svelo il fondo de’ miei pensieri agli uomini, che mi hanno,
forse troppo severamente, giudicata, come a Dio che, ne ho fiducia, mi
sarà più indulgente all’ora di morte.

Se scrivessi un romanzo, potrei invertire o mutare i fatti, celare
i miei torti e scusar le mie colpe, ma ho posto in titolo a questo
libro la mia vita, e non ho quindi il diritto di nulla alterare negli
avvenimenti di essa; deggio svolgerli nel loro ordine e nella loro
sincerità. Confesso che, come romanzo scritto da pugno umano, questo
libro sarebbe mal fatto; e, quel che è peggio, mal ideato, perchè,
frutto dell’immaginazione, non potrebbe avere influenza alcuna sulla
vita degli altri, ma non è di tal guisa: io stacco una pagina di storia
dal gran libro universale dell’umanità, scritta dalla penna di ferro
del destino che mi ha fatta passare come fatale meteora attraverso al
mio secolo, ed usare un’infausta autorità su’ miei contemporanei. Devo
dir tutto, anche i miei cattivi pensieri, come tutto svelare, anche
le cattive azioni; sono gli uni che menano alle altre; la mia sola
scusa sia nel non aver nulla preparato, nulla macchinato, nulla voluto
di quanto mi accadde, ma di aver in vece sempre ceduto ad un fascino
stabilito da cagioni indipendenti dalla mia volontà, e soprattutto più
forti di essa.

E poi, lo dirò io? Sì, perchè deggio dir tutto, anche ciò che dee
servimi di difesa; le mie più cattive azioni, o piuttosto i più
brutti avvenimenti della mia vita, hanno avuto quasi sempre una buona
intenzione, un eccellente principio; e quella che io intraprendeva in
questo momento, la quale dovea menarmi alla prima mia colpa, e per
essa condurmi dagli abissi più cupi e profondi della società alle
più brillanti sua altezze, aveva uno scopo lodevole ed era dettata
dall’umanità, giacchè era per salvare il fratello della mia amica dal
destino più temuto per un libero Inglese.

Ma perchè poi vi poneva io tanta premura, tant’anima, tanto cuore? Non
forse perchè Dick pel primo aveva ammirata la mia bellezza?

Io era tanto assorta nelle mie riflessioni, che non m’avvidi nè del
cammino percorso, nè del tempo impiegato a farlo, quando la vettura
arrestossi.

Ci trovavamo in riva al fiume, poco discosti da un magnifico bastimento
da guerra.

Eravamo noi aspettate? Lo ignoro, e mi ricorse in seguito più volte al
pensiero l’idea che tutto fosse dapprima convenuto fra Amy e sir John
Payne. Avevamo appena posto piede a terra, quando una barca guidata da
sei rematori si scostò dal Théseus e vogò verso noi.

Tutto era sì nuovo per me, ed io mi trovava in mezzo a tante e diverse
emozioni, che questa circostanza mi sfuggì in quel momento, e non vi
pensai che in seguito.

In un istante fummo a bordo del bastimento.

Una delle prime cose ch’io vidi salendo la scala fu il povero Dick già
in assisa da marinaio, il quale, appressandomisi, mi disse con voce
compassionevole:

— Madamigella Emma, abbiate pietà del povero Dick; il mio destino è
nelle vostre mani.

Non poteva io ben comprendere come disponessi d’un sì gran potere, ma
l’infelice giovine avea l’aria sì mesta, che io gli promisi di fare
quanto stesse in poter mio.

Un sottotenente lo respinse brutalmente, e ci condusse alla cameretta
del comandante. Questa stanzina era uno dei più eleganti salottini
che io abbia veduti mai, anche al tempo in cui passava la mia vita
nelle sale d’una regina. Il tappeto era composto di magnifiche
pelli di tigri, e la tappezzeria dei più fini casimiri dell’India!
Nel sollevarsi questi casimiri lasciavano scorgere trofei d’armi
magnifiche tolte dai più ricchi bazar dell’Oriente. La scranna, su cui
il comandante era seduto o piuttosto sdraiato, era uno di quei divani
turchi ricamati a fiori d’oro, quali appena si sognano sulle rive del
Bosforo e del Gange; la base, su cui si posava, era di due cannoni in
bronzo, brillanti come oro: nei giorni ordinari sparivano completamente
sotto alla stoffa: in quei di combattimento levavansi i casimiri
che mettevano a nudo i trofei, i cuscini del divano che scoprivano i
cannoni, e il salottino da elegante signora, tramutavasi nell’arsenale
d’un comandante inglese.

Sir John Payne, avvolto in un magnifico abito da camera di stoffa
chinese, era intento a leggere quando noi entrammo.

Egli si volse dalla nostra parte colla trascuranza di un uomo che
riceve una visita inaspettata; poi, vedendo due donne, si alzò.

Gettai su lui un rapido sguardo, che pure mi valse a veder tutto.

Sir John Payne era un bell’ufficiale dai 30 ai 35 anni, il quale, per
certo, doveva il grado che occupava a tale età, più alla sua nascita
ed alla sua fortuna, che alle campagne fatte: tutto in lui, come a
lui d’intorno, annunciava il lusso. Il coltello con cui tagliava il
suo libro era d’argento dorato, le sue dita eran carche di anelli, un
magnifico orologio posato a lui vicino era adorno delle sue iniziali in
diamanti.

Tutto in lui indicava la suprema aristocrazia.

Amy, singhiozzando (ella aveva un’ammirabile segreto per trovar
lagrime), gli si prostrò ai piedi, o piuttosto volle prostrarvisi; ma
egli la rattenne, chiedendole il motivo che la conduceva.

Ed ella, come se i singhiozzi le soffocassero la voce, mi trasse per
mano, accennandomi di parlare in luogo suo.

Allora soltanto parve l’ammiraglio accorgersi della mia presenza; mi
guardò, parve sorpreso della mia bellezza, e mi fe’ sedere accanto a
lui.

Amy restò in piedi, col volto nascosto dal fazzoletto, dicendomi con
voce soffocata:

— Parla, parla; Sua Signoria ti ascolterà ben più volentieri di me!




XIII.


Era io stessa fortemente turbata, e con voce commossa spiegai
all’ammiraglio lo scopo della nostra visita, affermandogli ch’egli
acquisterebbe un diritto eterno alla mia riconoscenza se mi desse il
congedo del povero Dick.

Sia ch’ei lo credesse di fatto, sia che volesse dirigermi
un’adulazione, mi domandò quale motivo una persona della mia condizione
potesse avere ad interessarsi d’uno scapestrato, come quegli di cui
chiedevo la liberazione.

Risposi allora con umiltà mista ad un certo orgoglio, che io non era
una persona _di condizione_, ma una povera contadina compatriotta di
Dick.

Egli mi prese una mano, la guardò, e scosse il capo con aria di dubbio.

Di fatto le mie mani, di cui con una civetteria superiore alla mia età
aveva sempre avuto la più gran cura, erano assai belle.

— Queste mani, mi diss’egli ridendo, non sono mani da contadina.

Assicurai l’ammiraglio ch’ei s’ingannava.

— Allora, seguitò egli, levandosi dal dito mignolo un diamante, non
mancano che di quest’anello per divenir mani da duchessa.

Io mi sentii arrossire, più di piacere che di vergogna però, e
quantunque la mia mano mi sembrasse molto più bella coll’ornamento
ricevuto, pure volli restituire all’ammiraglio l’anello che egli mi
offeriva tanto galantemente; ma ei rattenne la mia nella sua mano,
dicendomi che se io persisteva nel mio rifiuto, avrei a temere ch’egli
pure persistesse nel suo.

Volsi gli occhi ad Amy; ella mi guardò con uno sguardo tanto
supplichevole in mezzo alle lacrime che irrigavanle le gote, ch’io non
ebbi il coraggio di durare una più lunga resistenza. Tenni l’anello.

Allora Amy ripigliò coraggio.

— E il mio povero Dick? chies’ella.

— Ascolta, rispose l’ammiraglio; io non sono solo a decidere la
quistione: posso proporre il congedo, ma debbo farlo accettare
dall’ammiragliato.

— Sì, diss’io, prendendo le mani di sir John Payne: ma domandato da
voi, questo congedo sarà accordato, non è egli vero?

— Lo spero.

— Dite che ne siete certo.

— Farò quanto mi sarà possibile per esservi accetto, disse
l’ammiraglio, inchinandosi cortesemente.

— Oh! se riusciste, ve ne sarei tanto riconoscente! esclamai.

— È egli proprio vero quel che mi dite? chiese l’ammiraglio,
guardandomi fisso e con occhio, se non pieno d’amore, almeno pieno di
desiderio.

Io arrossii, e chinai il capo senza rispondere.

Parvemi allora vedergli scambiare uno sguardo con Amy; ma questo
sguardo poteva essere come il mio, uno sguardo di preghiera.

— Ascoltate, ci diss’egli, voglio darvi una prova del mio buon volere:
oggi stesso andrò a Londra, e farò i passi opportuni.

— Oh! quanto siete buono! esclamai.

— E, domandò Amy, come e dove avremo noi la risposta?

— V’ha un mezzo assai semplice, rispose l’ammiraglio, attendetemi qui.

— Qui? chies’io con esitazione, giacchè pensavo al mio appuntamento
della sera.

— No, a Londra nel mio palazzo di Piccadilly.

Guardai Amy come per interrogarla.

— Domandatelo ad Emma, diss’ella; io sono agli ordini della Signoria
Vostra.

— Aspetterò dove vi piacerà, Mylord, rispos’io, nella fiducia che la
risposta sia buona: solo...

— Solo che? ripetè l’ammiraglio.

— Devo esser rientrata a casa alle dieci della sera.

— Sarete padrona di ritirarvi quando vi piacerà; ma siccome la risposta
può farsi attendere e ritener me stesso fino a tard’ora, prenderete
almeno una tazza di thè ed un dolce, dopo di che vi rendo la vostra
libertà e vi chiedo la mia, cosa che non farei certamente, se non fosse
per rendervi servigio.

E suonò un campanello chinese che fece udire un suono prolungato e
vibrato.

Entrò un servo.

— Il thè, domandò l’ammiraglio.

Senza dubbio gli ordini erano stati dati dapprima, perchè il domestico
rientrò subito con un vassoio coperto di pasticcerie che posò sopra un
tavolo.

— Vediamo, mia bella interceditrice; fateci gli onori del thè, mi disse
l’ammiraglio.

Obbedii arrossendo, e versai una tazza di thè che gli offersi con una
mano, presentandogli coll’altra lo zucchero, e facendogli un inchino da
collegiale.

— In verità, mi disse sir John, non m’era stato detto nulla di troppo,
e voi siete adorabile.

Volsi uno sguardo di rimprovero ad Amy: ciò che era sfuggito di bocca
all’ammiraglio provavami che la mia venuta non era imprevista, come io
il credeva, ma attesa.

— Sapreste a lei mal grado, ripigliò il capitano, di avermi detto
ch’ella aveva ad amica la più bella creatura terrena, ed a me di aver
bramato vedervi? La sarebbe cosa crudele, perchè rifiutando di venire,
avreste fatto del vostro amico Dick un marinaio, stato che parmi non
sia di sua inclinazione, e non mi avreste permesso di dirmi vostro
servitore, ciò che parmi proprio la mia.

Non sapevo che rispondere a questa cortesia facile ma irrispettosa:
egli mi porse la sua tazza perchè vi lasciassi cadere qualche goccia di
crema, e s’accorse del tremito della mia mano.

— Che? mormorò egli, in una donna sola virtù, cortesia e pudore, oltre
la bellezza e la gioventù?

Io lo guardai sorpresa.

— Non avete visto recitare Amleto?

— No, rispos’io.

— Ebbene, ciò che vi ho detto è quel che Amleto dice ad Ofelia quando
è sorpreso di trovar tanta grazia, tanto affetto e tanto pudore riuniti
in una stessa donna.

Scossi il capo.

— E, seguitò sir John, siccome ella non crede all’amore del principe di
Danimarca, questi prosegue:

    «Dubita pure che gli astri splendano,
    Dimmi che il sole più non appar,
    Dimmi che il vero mente e sa fingere
    Ma, deh! ch’io t’ami non dubitar.»

Sir John mi prese ambo le mani, e dando alla sua voce la più tenera
espressione, seguitò:

    «O cara Ofelia! il mal che m’addolora
    Cresce con questi versi. I’ non ho l’arte
    Di vestir di bel metro i miei sospiri,
    Ma pure io t’amo tanto! Oh non è cosa
    Che agguagli l’amor mio! Credilo, addio.
      Per sempre tuo, soave e cara donna,
      Fin che sia questa macchina d’Amleto,»

— E che risponde Ofelia a questi versi?

Sir John si alzò.

— Amleto, rispos’egli, non le lascia tempo di rispondere, ed esce,
rimettendo al cuore di lei, che egli ama, la cura di parlare per lui
nella sua assenza.

— Voi ci lasciate? chiesi a sir John.

— Dopo le tre non rinverrei più i lordi dell’ammiragliato, e voglio
avere almeno il merito di mantenere la mia promessa, dandovi oggi,
buona o cattiva, una risposta.

— E noi? domandò Amy.

— Voi, rispose sir John, avrete la bontà di attendermi a Piccadilly,
ove il mio servitore vi accompagnerà.

— Dareste frattanto un congedo di 24 ore al povero Dick?

— Sì, disse l’ammiraglio ridendo, purchè miss Emma impegni la sua
parola che il mariuolo non diserterà: nel qual caso, miss Emma
risponderà di lui corpo per corpo.

— Odi, Emma? disse Amy.

Stesi la mano a sir John.

— Lo prometto, Mylord, diss’io.

— Ed ora ripigliò l’ammiraglio, non desidero che una cosa, la fuga in
capo al mondo del mariuolo. Venite voi con me, o bramate ch’io vi metta
a terra?

— Eravamo venute a bordo di questo bastimento per Mylord, diss’io;
e dal momento che Mylord lo lascia, non abbiamo nessun motivo di
restarvi.

Sir John suonò una seconda volta il campanello. Lo stesso domestico
comparve.

— La iolo, disse l’ammiraglio.

— È pronta, Mylord.

— Venite a terra con noi, e conducete le signore a Piccadilly. La cena
per le sette.

Volli fare un’osservazione sulla cena alle sette, ma sir John non me ne
diede il tempo, ed offrendomi il suo braccio, mi condusse alla scala.

Tutti gli ufficiali erano schierati in doppia fila a noi dinanzi.

Io chinai non solo gli occhi ma il capo: tutti quei sguardi pesavano in
certo modo sulla mia fronte, curvandola sotto il loro peso.

Mi trovai nella iolo senza saper come vi fossi discesa: udii la voce
di sir John ordinare a Dick di seguirci; poi la barca si staccò dal
bastimento leggera come un uccello, e mosse verso terra.

Quivi attendevaci la carrozza di Mylord, e poco discosta stava l’umile
nostra vettura.

— Non tornerete a Londra lì dentro, non è egli vero? ci diss’egli.

— Ma in che volete voi che vi rientriamo? gli chies’io.

— Piccadilly è sul mio cammino, e quivi vi lascerò passando.

Fe’ un cenno al suo domestico che andò a pagare la nostra vettura; aprì
egli stesso lo sportello e mi fe’ scendere prima, mentre Amy scambiava
qualche parola con Dick per dargli un appuntamento, e farlo avvertito
del risultato della faccenda.

Dick, meno fiero di noi, entrò nella vettura e si fe’ trionfalmente
condurre a Londra.

Sir John sedette al dinanzi, cedendoci i due posti di fondo:
il domestico montò accanto al cocchiere, e la carrozza partì,
riconducendomi, strana condizione del mio destino, immersa in
tutt’altri sogni di quelli con cui era partita.

Oh! fu ben per me che la vita ebbe a simbolo una ruota che gira
incessantemente; ma da qual lato girava questa ruota? Era per elevarmi
o per avvilirmi?

Mi era io innalzata dal dì in cui era la pastorella di mistress
Davison, od aveva disceso?

La mia meditazione era tanto profonda, che quasi non sentii sir John
impadronirsi della mia mano: gliela lasciai inerte nelle sue.

Dopo una mezz’ora di corsa la carrozza si arrestò: ci trovavamo a
Piccadilly.

Lo sportello si aprì: scese primo sir John per darci la mano: io mi
sentiva riconoscente ad un gentiluomo di tal fatta, che ci trattava
come duchesse: per un moto involontario strinsi la destra ch’ei mi
stendeva.

— Grazie, mormorò egli sottovoce.

Ritrassi violentemente la mano.

Egli mi guardò con una certa sorpresa, ma vide dal mio sorriso che non
vi era nulla d’offensivo per lui nel mio atto.

Erano le tre: non doveva egli perdere un minuto se volea giungere in
tempo all’ammiragliato; risalì dunque in carrozza; e noi, guidate dal
servo, entrammo in casa.

Questa casa, sita presso a poco a metà strada fra Londra e la stazione,
era una graziosa palazzina costrutta colla maggior eleganza, il cui
solo locatario e proprietario era l’aristocratico protettore di Dick.

Il lacchè lasciatoci per introdurci, ne condusse ognuna nella nostra
camera.

All’entrar nella mia, io mi fermai, cercando nelle mie rimembranze, ove
avessi già veduta questa stanza.

Eravi qualche cosa d’impossibile nella realtà di questa visione: le mie
gite non mi aveano mai condotta dalla parte di Piccadilly, e si sa che
venendo a Londra vi veniva per la prima volta.

Mi trovava dinanzi ad un grande specchio dalla cornice dorata, in una
camera elegante con cortine di seta azzurra e mobigliata di toelette
e cassettoni in legno di rosa: aveva sotto ai piedi un tappeto turco,
sovra il capo un soffitto adorno di affreschi, che si sarebbero detti
sortiti dal pennello di Boucher o di Watteau.

Senza fallo io aveva veduta questa camera.

Mi lasciai cadere sopra una sedia a bracciuoli simile alle cortine: e
questo colore azzurro mi ricordò per analogia il primo abito azzurro
da collegiale: mi rividi seduta con quella veste vicino alla sorgente
della collina, ove pascolava il mio gregge, il giorno in cui Dick mi
avea detto:

— Guardatevi nelle nostre sorgenti, madamigella Emma; un giorno
anderete alla città e vi guarderete in grandi specchi e cornici dorate,
come quelli della bottega del negoziante di Hawarden.

Condotta dal filo de’ miei ricordi, rammentai il tutto.

Questa camera, questo specchio, questo turco tappeto, queste cortine
del colore del mio abito da collegiale, così lungi da me, sì, io li
avea visti in un sogno della mia fanciullezza, ed ecco che sette od
otto anni dopo, io li ritrovo in realtà!

E Dick che me ne avea fatta la predizione era causa del suo avverarsi:
strana concatenazione di circostanze che radicò nel mio cuore la fatale
idea, che un potere più possente della mia volontà disponesse del mio
destino, e che invano tenterei di oppormi al fascino di questo potere.

Amy Strog entrò nella mia camera mezz’ora dopo, e mi trovò nello
stesso seggiolone ove m’era abbandonata entrando: il mio meditare parve
inquietarla e tentò distrarmene parlandomi di sir John Payne, della sua
bontà per Dick, e della sua cortesia per noi.

Io sorrisi senza rispondere; comprendeva lo scopo di questa cortesia,
il calcolo di questa bontà, e sentiva per istinto che il mio onore
sarebbe il riscatto di Dick.

Disgraziatamente sir John Payne era giovane, era bello, era ricco;
disgraziatamente era amabile e parea buono: tutto concorreva dunque
alla mia perdizione, perfino i buoni istinti del mio cuore che mi
portavano a salvar Dick ed a consolare Amy.

Alle cinque una vettura arrestossi davanti alla porta: trasalii: Amy
corse alla finestra.

— Non avea bisogno, esclamò, di andare alla finestra per sentire che
era sir John che rientrava.

Un istante dopo la porta si aprì, ed ci comparve tutto lieto.

— Che mi darete voi, miss Emma, mi disse egli, se vi porto una buona
notizia pel vostro protetto?

— Che posso io darvi Mylord, risposi alzandomi e stendendogli ambo
le mani, se non i sinceri ringraziamenti di un cuore oltre ogni dire
riconoscente alle vostre bontà?

— Sta bene, seguitò egli; prendo per ora i ringraziamenti: regoleremo
più tardi i conti.

— Avete dunque ottenuto, Mylord? domandò Amy.

— Sono almeno a buona via di riuscirvi: mi fu promesso il congedo
di vostro fratello per questa sera: lo aspetteremo, se il volete, a
tavola: dovete avere gran fame, avendo appena gustata una ciambella; ed
io confesso, che le corse fatte mi hanno dato grand’appetito.

Stavo per fare un’osservazione sulla necessità che io aveva di tornare
a Oxford Street, quando il domestico entrò, annunciando che Mylord era
servito.

Sir John afferrò il mio braccio, e mi condusse nella sala da pranzo.

— Andiamo, andiamo, mie belle commensali, a tavola, diss’egli.

Il giorno cominciava a cadere, e dalla mezza oscurità della mia stanza,
aumentata dallo spessore delle cortine, entrammo in una sala da pranzo
sfolgoreggiante di luce che riflettevasi nel cristallo dei bicchieri e
nello splendore delle argenterie.

Si sarebbe detta una mensa imbandita dalle fate pel loro re Oberone e
la loro regina Titania: l’atmosfera era tepida ed imbevuta d’un profumo
acre e dolce ad un tempo, che parea penetrarmi per ogni poro.

Alla vista di tutto quel lusso, all’impressione profumata di
quest’atmosfera, provai un subito offuscamento: mi sentii quasi
mancare: le mie mani tremavano, la mia testa s’inclinò sulle spalle:
sir John mi sentì pesare al suo braccio, e vedendo al languore dei miei
occhi ed alla curva del mio corpo ciò che avveniva in me.

— Siete della specie delle sensitive, mi diss’egli; donna e fiore ad un
tempo: felice quegli che spirerà l’olezzo del fiore e suggerà la parola
amore sui labbri della donna.

Trassi un sospiro e vacillante sedetti sulla scranna ch’egli mi indicò
accanto a lui.

Il fascino dell’opulenza è sempre stato possente su me quanto l’orrore
della miseria. Sono io dunque realmente d’un sangue aristocratico e
tutti i miei istinti tendono essi a ripigliare il livello distrutto
dalla mia nascita illegittima? La mia vita non fu sotto a questo
rapporto che un lungo inebbriamento; e quando ricca, e gran dama,
non ebbi più nulla da chiedere al rango ed alla fortuna, sentii
l’abbagliamento della gloria, come povera fanciulla aveva avuto quello
dell’aristocrazia e della ricchezza.

Per la prima volta io sedeva ad una mensa riccamente imbandita: per
la prima volta i miei occhi erano accecati dallo splendore di fiamma
dei cristalli simili ai diamanti: per la prima volta io appressava
le mie labbra a quello spumoso vino di Francia, che simile a quel
dell’antichità, pare premuto dalle mani delle Baccanti nella coppa del
piacere.

Nulla di tutto ciò bastava a scuotermi dal mio abbagliamento, a calmare
il sangue che scorrevami più rapido per le vene, a spegnere il fuoco
che, serpeggiando, salivami dal petto alla fronte. Nel sedermi a tavola
era già ebbra di profumo e di luce.

Al pospasto un domestico entrò latore d’un dispaccio a largo sigillo.

Sir John lo ruppe, accertossi che fosse il congedo di Dick e lo porse
ad Amy.

Amy si alzò subito, e sotto il pretesto di non ritardare a Dick
l’annuncio di così buona novella, chiese di ritirarsi.

Sir John non vi si oppose, lodando questo slancio d’una buona sorella.

Compresi che tutto l’avvenire della mia vita dipendeva da’ cinque
minuti che stavano per decorrere: vedendo Amy alzarsi, mi levai pur io,
e sir John non vi si oppose: ma restavami a prendere nell’altra camera
il mio cappello e la mia mantiglia; feci uno sforzo di volontà, decisa
a svellermi dalla seduzione, e mi slanciai nella mia stanza che trovai
fiocamente rischiarata da una lampada d’alabastro.

Nulla di più incantevole di quella camera, vista al suo dolce chiarore,
che parea quel della luna in una bella notte d’estate: restai un
istante muta, immobile, estasiata, in lotta fra il desiderio di
rimanere e quello di seguire Amy: compresi allora che mi era mestieri
cercare un appoggio altrove che in me; misi la mano sul cuore vi cercai
e sentii la lettera di Harry.

Respirai allora e volli uscire dalla stanza; ma dietro a me, la porta
s’era chiusa, e perduta nella modanatura dell’intavolato, s’era fatta
invisibile: sarebbesi detto che la magia fosse entrata nella mia
esistenza e mi spingesse in un palazzo di fate.

Mi volsi per chiamare qualcuno; ma, fra me e il camino stava ritto sir
John, colle braccia aperte, mormorando la parola:

— Ingrata!

Al suono di quella voce, il fascino mai assopito si ridestò: una nube
di fuoco passò dinanzi ai miei occhi e caddi fra le braccia che m’erano
aperte.

Vi ringrazio, o mio Dio, d’aver permesso che la prima mia colpa fosse
una caduta per amicizia e bontà, non per cupidigia e dissolutezza!


  FINE DEL PRIMO VOLUME.




NOTE:


[1] In inglese Dick è il diminutivo di Riccardo.

[2] Non mettere al mondo che figli maschi, giacchè il tuo cuore
invincibile non dovrebbe produrre che uomini.

[3] Possedendo l’Italia la traduzione in versi di Shakespeare per
Giulio Carcano, sarebbe stato profano la intendere ad altra versione e
credemmo perciò di trascriverne la scena suddetta.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MEMORIE DI EMMA LYONNA, VOL. 1/8 ***


    

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