Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto

By Alberto P. Guglielmotti

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Title: Marcantonio Colonna alla battaglia di Lepanto

Author: Alberto P. Guglielmotti

Release date: June 22, 2025 [eBook #76349]

Language: Italian

Original publication: Firenze: Le Monnier, 1862

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MARCANTONIO COLONNA ALLA BATTAGLIA DI LEPANTO ***


                          MARCANTONIO COLONNA
                                  ALLA
                          BATTAGLIA DI LEPANTO


                                 PER IL

                        P. ALBERTO GUGLIELMOTTI

                          TEOLOGO CASANATENSE
                     E PROVINCIALE DEI PREDICATORI.



                                FIRENZE.
                           FELICE LE MONNIER.
                                 1862.




                         Proprietà letteraria.




LIBRO PRIMO.

IL PRINCIPIO DELLA LEGA E LA GUERRA DI CIPRO.


SOMMARIO DE’ CAPITOLI.

I. — I Turchi ed i Cristiani dopo l’assedio di Malta a rincontro sul
mare. — Principî della guerra di Cipro.

II. — Pio V promette soccorso ai Veneziani. — Elezione di Marcantonio
Colonna a capitan generale. — Breve del Papa. — Fisonomia e moral
carattere di Marcantonio. (11 giugno 1570.)

III. — Provvisioni del generale per l’armata. — Patente di capitano a
Fabio Santacroce e a Domenico de’ Massimi. — Armamento delle galere. —
Levata delle fanterie. — Capitani. — Uditore, commissario, gentiluomini
e venturieri. — Istruzioni ai capitani. (15 giugno.)

IV. — Marcantonio arma otto galere in Ancona. — Viaggia a Venezia. —
Arma altre quattro galere. — Giunge con tutta la squadra ad Otranto.
— Girolamo Zane generale de’ Veneziani, e stato dell’armata sua. —
Lettera a Marcantonio del re di Spagna. — Del doge di Venezia. — Del
gran maestro di Malta. — L’autorità del Colonna dimostrata. (6 agosto.)

V. — Ragioni di Stato tra Venezia e Spagna. — Il primo incontro
di Marcantonio e di Giannandrea Doria in Otranto. — Difficoltà di
Giannandrea. — Risoluzioni di Marcantonio. (21 agosto.)

VI. — I Turchi a Cipro. — Stato dell’armi in quell’Isola. — Astorre
Baglioni perugino. — Il colonnello Palazzo di Fano, e i capitani dello
Stato a Nicosìa. — Vicende dell’assedio fino al primo di settembre.

VII. — Incontro dell’armata ausiliaria con quella dei Veneziani
alla Suda. — La Capitana del Papa al centro tra quelle di Spagna e
di Venezia. — Ragionamenti del Veneziano a Marcantonio. — Consiglio
degli ausiliarii sulla Capitana pontificia. — Giannandrea rifiuta la
battaglia. — Il marchese di Santacroce la chiede. — Sforza Pallavicino
propone diversioni. — Discorso di Marcantonio. — Venuta del generale
veneziano col voto del suo consiglio. — Si delibera la partenza per
Cipro. (3 settembre.)

VIII. — La mostra di tutta l’armata a Sittia. (11 settembre.) — Nuove
difficoltà. — Manifesto di Giannandrea. — Risposta di Marcantonio.
(16 settembre.) — Consiglio di guerra. — Partenza da Sittia. — (17
settembre.) — Ordinanza dell’armata nella navigazione. — Arrivo a
Castelrosso. (21 settembre.)

IX. — Procedimento dell’assedio di Nicosìa dal primo al nove settembre.
— L’armata turca sguarnita alla spiaggia. — Assalto generale della
piazza. — Ributtato dai tre baluardi. — Ricevuto al Podocattaro. —
Perdita e strage di Nicosìa. — Nomi dei capitani statisti che morirono
nel nove Settembre.

X. — Perduta Nicosìa l’armata cristiana si ritira. — Consiglio per
assaltare il Turco in altra parte. — Giannandrea propone la Vallona e
Durazzo. (22 settembre.) — Arrivo a Scarpanto e divisione dell’armata.
— Si riunisce a Tristamo. — (25 settembre). — Giannandrea domanda
licenza. — Marcantonio lo chiama all’ubbidienza. — Dialogo tra loro.
— Parole di don Carlo Dàvalos. — Litigio. — Marcantonio lascia di
mescolarsi nelle cose di Spagna. — Biglietto a Giannandrea. (26
settembre.)

XI. — Considerazioni sulla condotta di Giannandrea. — Sue parole.
— Carica vini preziosi. — Minaccia i Cristiani dell’arcipelago. —
Precetto di san Pio in favor dei Cristiani d’Oriente. — Epilogo delle
opere di Giannandrea.

XII. — Marcantonio amorevole ai Veneziani. — Parte con loro da
Tristamo. (27 settembre.) — Arrivo alla Canèa. (2 ottobre.) —
Naufragio di molte galere e di due del papa. — Scritture ai principi. —
Suggerimenti al re — Brano di lettera.

XIII. — Arriva a Corfù. — Disarma sei galere. — Condotto dalla tempesta
in Schiavonia. — Dispersione degli altri capitani. — Morte del capitan
Domenico de’ Massimi. — Suo testamento. — Gli schiavi. — La galera di
Marcantonio bruciata dal fulmine. — Altra galera naufragata al capo del
Molino. — Marcantonio a Ragusa. — Parte per Ancona. — Viene a Roma. —
Ricevuto amorevolmente dal Papa.




LIBRO PRIMO.

IL PRINCIPIO DELLA LEGA E LA GUERRA DI CIPRO. [1570.]


I. — La vita degl’imperî nel successivo procedimento del sorgere, del
crescere e del cadere fu sempre paragonata alla vita degli uomini per
i tempi della gioventù, della virilità e della vecchiaia: e sempre si è
detto che quelli al paro di questi scadono o per lunga decrepitezza, o
per interna corruzione, o per esterna violenza. Al quale ultimo modo di
scadere vanno più spesso soggetti gl’imperî dei conquistatori: perchè
costoro a lungo andare devono finalmente venire in parte ove la natura
(che ha definiti i termini alle nazioni co’ monti co’ mari e co’ fiumi)
arduità di rupi e profondità di acque lor contrapone; e dall’altra
parte i popoli schivi di servaggio tanto li contrastano che o rottili
tra le balze, o sommersili nell’acque, li riducono contro lor voglia
a declinare. L’impero ottomano, fondato e mantenuto da’ conquistatori,
condotto nel secolo decimoquinto all’altezza di Costantinopoli, non era
nel decimosesto nè decrepito nè corrotto; ma in quella vece florido
di giovanil vigoria, per terra e per mare potentissimo, e geloso
mantenitore degli ordini civili e religiosi onde era salito a tanta
potenza. Ciò non pertanto in quel torno medesimo di tempo e quando
vagheggiava maggiori conquiste, cominciò ad abbassarsi: donde è forza
concludere che nell’ultimo modo, e per violenza di esterna percossa
fosse da altri condotto a rovinare.

Nel vero, dopo avere allargalo il suo dominio in tanta parte
dell’Asia, sottomesso l’Egitto, resa l’Africa tributaria, divorate
molte provincie di Europa, e postosi rimpetto a noi sulle marine
della Grecia, oppresso i popoli vicini, e sempre minacciato i lontani
in quel modo che negli altri miei libri ho raccontato, finalmente
venne a provarsi in guerra contro l’Italia sul confine dei mari
Jonio, Adriatico, e Tirreno ove è Malta. Nell’assedio della quale gli
invasori intendevano a procedere e i difensori a respingere: gli uni
e gli altri commossi alla estrema prova della difesa e dell’offesa.
E quivi medesimo sul mare aveva a decidersi la grande tenzone; e
mettersi, o levarsi il limite delle invasioni; siccome non guari
dopo successe a Lepanto, ove il dito di san Pio e il braccio degli
Italiani segnarono da lungi il nostro trionfo ed il loro confine. E
quantunque la memorabile giornata, in quel luogo combattuta e vinta,
non producesse la caduta repentina dell’imperio ottomano sotto la
violenta percossa, tuttavia ferillo di piaga insanabile, e lo ridusse
per lenta consumazione alla moderna impotenza. Perchè, toltogli quivi
il dominio del mare ed ogni possibilità in questa parte di venire
avanti, nè potendo per le condizioni delle umane cose fermarsi, fu
da quel colpo medesimo ridotto a declinare. Perciò la battaglia di
Lepanto, verso la quale mi affretto, se non fu allora quanto avrebbe
dovuto e potuto essere feconda di grandi successi, neanche fu sterile
nel procedimento del tempo: perchè al postutto là si decisero le sorti
dell’impero ottomano, dell’Italia, e di tutta l’Europa. La storia di
questo grande successo io prendo a svolgere in tre libri: nel primo
dei quali metterò il principio della lega, e la guerra di Cipro; nel
secondo la sanzione dell’alleanza, e la grande battaglia di Lepanto;
nel terzo le conseguenze della medesima, e lo scioglimento della lega.
Il mio dire è tutto sopra i preziosi manoscritti privati e pubblici
di Roma, massime sopra i codici dell’Archivio Colonnese e Vaticano:
nell’uno e nell’altro dei quali Marcantonio ha lasciato arcane e
importantissime memorie di questi fatti. Ed io tanto più volontieri
ne seguo le traccie, in quanto che mi è avviso che, dopo quello che
è stato già scritto dai Veneziani e dagli Spagnuoli, dopo le accuse
e ricriminazioni loro, potrà la storia decidere in favor dei primi;
e avvantaggiarsi di ciò che risulta dai documenti romani, sin ora
sconosciuti.

  [1570.]

Quando i generosi della cristianità fremevano ripensando all’assedio
di Malta ed ai pericoli corsi poc’anzi dall’Italia, allora per opera
di san Carlo Borromeo veniva dagli elettori messo sulla cattedra del
Vaticano quel Pio V che, insieme ad una vita di santi ed immaculati
costumi, portava in cima de’ suoi pensieri il gran disegno di francare
una volta l’Italia e la Cristianità dagl’insulti dei barbari, e
coll’armi riunite dei principi cristiani conquiderli per sempre. E
l’occasione che egli cercava gli venne appunto dalla perfidia loro:
perchè Selim, novello imperadore dei Turchi, assunto all’imperio l’anno
1567, dopo aver confermata con solenne giuramento la pace che Soliman
suo padre e tutta casa sua da più tempo avevano con la repubblica di
Venezia, cominciò a macchinare di torle ad ogni modo il regno di Cipro:
come luogo opportuno a mantenergli il dominio sui paesi usurpati dai
suoi maggiori, ed a fargli strada per novelle conquiste. E celando
il mal talento sotto simulate dimostrazioni di amicizia, tanto si
contenne, sinchè levatisi in arme i Mori di Granata, impigliato il re
Cattolico con quella ed altre guerre, e bruciato gran’parte d’arsenale
in Venezia, gli parve tempo di spiegare il suo disegno. Chiamato per
tanto Marcantonio Barbaro ambasciadore dei Veneziani, fece con lui
gran richiamo delle scorrerie dei Cavalieri di Malta contro ai sudditi
ottomani, e del ricetto e della protezione che i Maltesi trovavano
nell’Isola di Cipro: e il richiese che per sicurezza sua gli si dovesse
cedere quel regno; altrimenti lo torrebbe per forza.

E di ciò parendogli essersi anche troppo scoperto, e che non dovesse
indugiare più oltre a spingere innanzi con tutto il calore la sua
pretensione, fece ai tredici di gennaio del mille cinquecento settanta
sequestrare le navi dei Veneziani che alla fede dei trattati nel
suo imperio trafficavano, chiudere i passi ai mercadanti, sostenere
l’ambasciadore, e sciogliere il freno ai confinanti di Dalmazia
perchè molestassero in terra, ed ai corsari levantini perchè in mare
travagliassero le cose della Repubblica. La quale a un tempo e per
tanti modi offesa grandemente si commosse: e senza piegare l’animo
invitto nè alle lusinghe fraudolenti nè alle minaccie terribili di
così grande imperadore, anzichè cedere in balía di Turchi un regno
cristiano, risposero: Esser turpissima cosa per Selim, senza alcuna
nuova cagione nè vera nè verisimile, rompere quella pace che essi per
tanti anni avevano gelosamente custodita, ed egli medesimo poc’anzi
con giuramento confermata; possedere la Repubblica per giusto titolo il
regno di Cipro; averla Selim e gli altri imperadori sempre riconosciuta
padrona di quello: lo difenderebbe come cosa propria da chiunque fosse
ardito assalirlo: e Iddio, giustissimo giudice dimostrerebbe cogli
effetti a favor loro quanto gli ardimenti dei rapaci e degli spergiuri
siangli malgraditi. Così, rotte le pratiche, con grand’animo presero
i Veneziani a far le provvisioni della guerra, talchè di presente la
città fu piena di armi e in gran movimento al porto e all’arsenale,
scrivere fanti e cavalli, trovar denaro e provvigioni, varar navi e
galere, armarle, fornirle, spingerle a Cipro, rimontar l’artiglierie,
munir le fortezze, dare a Girolamo Zane il comando dell’armata, a
Sforza Pallavicino dell’esercito, chieder soccorso ai principi, e
prima d’ogni altro al Papa, furono opere di tanta prestezza che quasi
a un tempo il Turco assaltava Cipro e il Leone di San Marco spiegava
l’artiglio per difenderlo: e col ruggito di giusta indignazione
chiamava all’armi la Cristianità.


II. — Quando il Papa ebbe inteso dall’ambasciadore di Venezia quel che
i Turchi ardivano, e quel che il Senato da lui richiedeva, si dolse
prima grandemente del travaglio che pativano i diletti suoi figli, e
poi levando al cielo le mani, si rallegrò che gli avesse Iddio ottimo
massimo messo innanzi l’occasione tanto da lui desiderata di stringere
per così giusta causa ed urgente necessità i principi cristiani ad
una lega vigorosa, che sola poteva salvare l’Italia e l’Europa dalla
crudeltà e insaziabile cupidigia dei Turchi, e ricuperare le altre
provincie ove tante migliaja di fedeli, sotto il giogo di spietata
tirannide, servile e misera vita menavano: affinchè gli uni e gli
altri liberati dalle mani dei nemici potessero senza timore servire a
Lui.[1] E quantunque si trovasse egli allora smunto di danaro, pure
volendo prima d’ogni altro dare l’esempio, come colui che per vera
virtù e per santo zelo di religione procedeva, applicò l’animo non
solo a trovar grosse somme, e spedir nunzi e brevi pressantissimi alla
corte di Spagna e agli altri principi, ma anche a soccorre i Veneziani
con un’armata navale: affinchè la lega avesse principio, questi si
confortassero, quelli si commovessero, e tutti il seguissero. E perchè
la cosa riuscisse a buon termine prese semplice e sicuro partito; avere
un uomo capace, dargli ogni potere, e lasciarlo fare.

  [11 giugno 1570.]

E senza riguardare alle passate condizioni politiche della guerra di
Campagna, nè alle ostilità di Marcantonio Colonna in tempo di Paolo IV,
tanta fiducia pose nell’altissimo valore e nella virtù di quel campione
incomparabile del sangue romano, già lungamente provato nelle guerre
di terra e di mare, che avutolo seco a stretto e segreto colloquio non
dubitò, sebbene molti principi d’Italia e qualche grande di Spagna
ambissero quell’onore, di prescegliere lui medesimo per suo capitan
generale, e fornirlo di tutti i poteri con piena balía di governar
quella impresa, siccome si fa manifesto per la lettera in forma di
breve a lui diritta in questa sentenza.[2]

«Al diletto figliuolo, nobil uomo, Marcantonio Colonna, barone romano,
prefetto e capitan generale dell’armata nostra e della Sede apostolica
contro Turchi. Pio Papa V. Diletto figliuolo, nobil uomo, salute ed
apostolica benedizione. — Dovendosi in questi difficili e pericolosi
tempi trascegliere un prefetto all’armata nostra di mare, per opporla
ai Turchi, i quali apertamente combattono dura ed aspra guerra contro
i Veneziani, e contro tutto il Cristianesimo, affinchè congiunte
tutte le forze nostre, più facilmente si possa respingere l’impeto
del furente nemico, gli occhi dell’anima nostra, figlio carissimo,
alla nobiltà tua tra tutti gli altri tuoi pari si sono rivolti; perchè
fermamente speriamo nel nome della nobilissima tua casata e nella tua
virtù, prudenza, fede e nella lunga pratica delle cose militari poterci
al tutto sicuri riposare. Per tanto nel nome di Dio onnipotente, a
difesa della santa Chiesa ed a tutela della Cristiana repubblica, noi
per autorità apostolica e tenore delle presenti, sempre che durerà
il beneplacito nostro e della predetta Sede, ti eleggiamo, creiamo,
costituiamo, e deputiamo capitan generale e prefetto di tutta la navale
armata nostra e della stessa Sede contro i Turchi, con tutte e singole
facoltà, giurisdizioni, preminenze, prerogative, onori, e pesi soliti e
consueti; similmente con lo stipendio mensile per te di scudi seicento
di giulj dieci, e con la provvisione ordinaria di dodici eletti militi,
chiamati volgarmente lancespezzate, e di più venticinque alabardieri
per la guardia del tuo corpo. Al tempo stesso comandiamo a qualunque
capitano, padrone, ufficiale, soldato e persone delle nostre galere e
navi, sotto le pene da infliggersi ad arbitrio nostro, e puranco tuo,
che con il debito onore ed ossequio ricevendoti tengan con te, i tuoi
comandamenti senza alcun indugio od eccezione eseguiscano, ed ogni tuo
volere in tal guisa facciano come se noi medesimi avessimo comandato.
Tu dunque, figliuolo, così ti diporterai, e l’ufficio volenterosamente
da noi conferito eseguirai, che l’opere tue pienamente rispondano a
quanto noi e tutti pubblicamente da te ci aspettiamo. Nel che tu farai
cosa grata primamente a Dio, la cui causa ora si tratta; e poi al
nostro desiderio sommamente soddisfarai: donde te ne verrà dall’istesso
Iddio il premio di felice e perenne vita e da noi senza alcun dubbio la
lode e la giusta commendazione delle egregie opere da te fatte. Dato a
Roma, presso San Pietro sotto l’anello piscatorio, a dì 11 giugno 1570,
del nostro pontificato anno quinto.»

Marcantonio Colonna, duca di Paliano, scritto alla nobiltà di Venezia,
feudatario del re di Spagna, e gran contestabile della corona di
Napoli, era nei trentacinque anni,[3] quando per questo breve gli fu
conferito il generalato del mare. Egli alto e svelto della persona,
calvo in sin da giovanetto, gran fronte, viso lungo, occhi grandi,
aspetto serio, tinte calde, lunghi mustacchi, portamento nobilissimo;
grande intelligenza, raro valore, e cuor magnanimo: provveduto in ogni
sua cosa, efficace nel discorso, e insieme di maniere tanto affabili e
dignitose quanto non si disconverrebbero ad un sovrano. Sin dalla prima
gioventù aveva seguita, al paro de’ suoi maggiori, la via delle armi;
e si era mostrato non solo prode condottiero di fanti e cavalli, come
tutti sanno, ma anche valente capitano di mare. Aveva tenuto tre galere
sue proprie, la Capitana, la Colonna e la Fenice, navigato con quelle
in Spagna e in Africa, fatta la impresa del Pegnone, ed altre onorate
navigazioni che pur gli storici ricordano, e i documenti della sua casa
ampiamente descrivono.[4] Fatto capitan generale dell’armata romana, e
posto in mezzo tra gli Spagnuoli e i Veneziani, ebbe sempre l’animo non
ai propri interessi, ma al pubblico bene di tutti: ed al particolare
eziandio di ciascuna delle potenze confederate. Dai contemporanei toccò
quella mercede che sempre è riserbata a chi ha a fare tra le discordie
di più padroni, e la invidia di molti servi. Il giorno stesso undici di
giugno, vestito di tutt’arme e accompagnato da una splendida cavalcata
di grandi ufficiali e baroni romani, andò nella cappella papale, ove
cantata la messa dello Spirito Santo, e dato il giuramento, ricevette
dalle mani stesse di san Pio le insegne del comando e lo stendardo
della lega, che aveva sul fondo di damasco rosso l’imagine di nostro
Signore Crocifisso, quelle dei santi apostoli Pietro e Paolo, e in alto
a grandi caratteri scritto il motto celebre per le memorie del passato
e per il presagio dell’avvenire: Tu vincerai con questo segno.[5] Dopo
di che, ricondotto dagli amici assembrati sotto il fatal gonfalone
al suo palagio, e ricevute quivi le congratulazioni della corte e le
pubbliche feste che per la città di Roma con molti fuochi e spari
e suoni in simili circostanze solevano farsi, rivolse tutti i suoi
pensieri a ben condurre l’impresa.


III. — Non avendo Marcantonio nè tempo nè modo da costruire, come
avrebbe desiderato, il suo naviglio, posto nella urgente necessità
della guerra imminente, pensò cavare dodici corpi ignudi di galere da
Venezia,[6] e quelli rivestire, ed armare di tutto punto in Ancona.
Prima però di andar colà, si ordinò in Roma di tutto che facesse a
proposito dell’armamento: e secondo il mandato del Pontefice e l’uso di
quel tempo, spedì le patenti ai capitani che dovevano comandare sopra
l’armata, cominciando da Fabio Santacroce, al quale scrisse in questi
termini:[7] «Marcantonio Colonna duca di Paliano, e capitan generale
di sua Santità. Avendosi a provvedere dei capitani delle galere di sua
Beatitudine al nostro general governo commesse nella istante impresa
contro infedeli, et conoscendo il valore et meriti del molto honorato
signore Fabio Santa Croce, nobile romano, gli diamo il carico per la
presente di una di dette galere, deputandolo capitano di quella: con
autorità, e facoltà di armarla, comandarla, e provvederla come conviene
alla qualità sua, et confidiamo che esso signore farà per servitio di
sua Santità. Comandiamo però che per tale sia riconosciuto favorito, et
obbedito da chi appartiene, non si facendo il contrario per quanto si
ha cara la gratia di Sua Santità et nostra. Dato a Roma il dì 11 giugno
1570.»

Prima però che fosse spedita questa patente, già Fabio viaggiava in
diligenza verso Venezia per aver dal Senato quei corpi di galere e
condurli in Ancona, portando seco calde raccomandazioni ai Governatori
della Marca e della Romagna che il favorissero nell’assoldare i
marinari; ed ordine ai tesorieri acciò lo provvedessero del danaro.[8]
Fabio nel suo rapido passaggio, lasciando ovunque istruzioni ed uomini
da ciò, faceva scrivere i comiti o capi delle ciurme, gli scrivani, i
piloti, le maestranze, i bombardieri, e i marinari.[9] Al tempo stesso
le comunità vuotavano le carceri di tutti i condannati e scrivevano
volontarj per metterli al remo, ove erano poscia dagli stessi comuni
senza aggravio dello Stato come prima mantenuti.

  [15 giugno 1570.]

Appresso a Fabio ordinò Marcantonio gli altri capitani a comandar le
galere, e le patenti di ciascuno pose ne’ suoi registri: donde mi piace
cavarne quella che ebbe Domenico de’ Massimi, del quale dovrò più volte
ragionare.[10] «Marcantonio Colonna ec.

»Essendo piaciuto a sua Beatitudine servirsi di noi in quest’impresa
contro infedeli con darci il carico delle galere et fanterie che sopra
quelle hanno da militare, et convenendo al servitio di sua Santità et
alla fede che di noi ha mostrato in questa importante occasione come
al debito et riputatione nostra, haver persone di sapere et di valore,
havemo pregato l’illustrissimo signor Domenico de Massimi, conte di
Cicigliano, che volesse accettare l’infrascritto carico che per sua
comodità et per potersi nell’occasione mostrare gli avemo dato: et
trovato in detto signore corrispondente desiderio verso il servitio
di sua Santità et amor nostro, li concedemo in vigore della facoltà
nostra il governo di una di dette galere che appresso per nostro ordine
gli sarà consegnata, et una di dette compagnie da poter nominare il
capitano di essa et ispedirgliene patente con tutte le provvisioni,
paghe, stipendi, gaggi et emolumenti che si sogliono pagar dai ministri
di sua Santità e da quelli che a ciò saranno deputati. Dunque potrà il
detto signore quanto prima fare allestire detta compagnia per eseguire
l’ordine nostro; volendo, e comandando che nella sua galera sia da
ognuno come la persona nostra obedito, et da ciascuno conforme al
suo merito honorato per quanto si ha caro la gratia di sua Santità et
nostra. In Roma a dì 12 di giugno 1570.» Al modo stesso Marcantonio
chiamò seco il fior dei prodi tra la romana nobiltà a comandar le
sue galere; e questi furono Orazio Orsini, Pompeo Colonna, Prospero
Colonna, Muzio Frangipani, il cavalier Malaguzzi, Domenico de’ Massimi,
Manlio Baglioni, Alessandro Ferretti, Gianluigi Giorgi, il cavalier
Gaspare Bruni e Cencio Capizucchi. E perchè tra quei signori non avesse
a nascere controversia fece imborsare i nomi loro da una parte, e
quelli delle galere dall’altra, e cavarli per dare a ciascuno la sua
secondo che gliene venisse la sorte, salvo quello della capitana, che
dovendo essere di speciale fiducia, e vivere sempre vicino al generale,
non per fortuna ma di sua elezione vi condusse Cencio Capizucchi.[11]
Per la levata delle fanterie destinò in varie parti i quartieri ove
dovessero raccogliersi: e spedì le patenti a dodici capitani, già
provati in molte guerre. Per ordine suo il capitan Dario Nelli assembrò
la compagnia a Castelfidardo, Gianvincenzo Valignani a Santelpidio,
Filippangelo Boccaurati a suo piacimento, Flaminio Zambeccari a
Montemilone, Cornelio Buongiovanni a Montolmo, Sante Ranucci al Sirolo,
Francesco Lodi a Macerata, Guido Tromba a Fano, Camillo Perinelli a
Jesi, Alessandro Ferretti a Recanati, Cencio Capizucchi a Filottrano,
Prospero Colonna a Cingoli: essendosi questi ultimi tre per la loro
grande riputazione messi non solo a reggere le galere, ma anche a levar
le fanterie.

Finalmente chiamato per uditor generale nelle questioni di diritto
l’eccellentissimo dottor Fabrizio Villani, per commissario generale
della Camera apostolica sulle spese monsignor Paolo Francesco
Baglioni, per segretario privato il Gallo di Osimo, e capo di tutti i
bombardieri, il celebre architetto Iacopo Fontana d’Ancona,[12] scrisse
il ruolo dei gentiluomini e venturieri di sua compagnia in una nota
ove fan di sè bella mostra i nomi più chiari che per nobiltà di sangue
e militar virtù allora onorassero le nostre contrade. La qual nota
per giusta retribuzione di lode ai nominali e di onore alle famiglie
e città loro io stimo doversi pubblicare.[13] Ecco a verbo a verbo il
catalogo dei gentiluomini venturieri che si raccolsero intorno alla
persona di Marcantonio Colonna. «Il signor Biagio Capozzuccha alfiere,
Giovanni Orsello da Tolentino sergente, Cesare da Bologna tamburo, il
signor Francesco Orsini de la Scarpa, il cavalier Navarino, signor
Girolamo Mariotti da Fano, signor Alberico Alberici, signor Fabio
Piccolomini, signor Ferrante Davila, signor Annibale degli Oddi, signor
Iacopo Frangipane, il marchese Malaspina, signor Pirro Passerini,
signor Pier Giovanni Spinelli, signor Giulio Gabrielli romano, signor
Camillo Accoramboni, signor Francesco Nari, signor Alfonso Cambi,
signor Camillo Fracastoro, signor Cesare Pagani, signor Lucio Colonna,
signor Giulio Timotelli, Orazio Corona romano, Hieronimo Signorini
da Viterbo, Vetresco Vetreschi da Viterbo, Agnolo Fiamma, Giovanni
Martino portoghese, Pasino Carniglia, Landuga spagnuolo, il capitan
Lucio Cales napolitano, Nicolò Bocchieri del Bosco, Ottavio Caro,
Alessandro Doria, il capitan Gianbattista Alciati, Giovanni Domenico,
Pietrantonio De Giorgi da Magliano, Annibale Bagarotto, Fabrizio
Magnenti di Marino, Matteo di Tommaso da Scanzano, Curzio Caracciolo,
Gianantonio di Maglieri, fra Settimio cavalier di Malta, Belisario
d’Orlando di Genazzano, signor Mutio Vitozzi romano, Francesco
Grignetta napolitano, Camillo Socchini da Modigliano, Michele Corrotto,
signor Pietro de Fabbi, il capitan Lionbruno da Recanati, Pietrozzo da
Recanati, Priamo da Recanati, il capitan Liutrecche da Sassoferrato, il
capitan Pier Mario da Terani,[14] il cavaliere Enèa da Sassoferrato,
Gianfelice da Terni, Teseo de Lanzi da Terni, Menico di ser Basilio
da Terni, Silvestro de Santi da Terni, Marzio da Terni, Ricciotto
da Terni, Niccola Orselli da Tolentino, Agnolo de Zoccoli romano,
Agnolo Leonini romano, Giovanni da Palestrina, Mancino da Fabriano,
Giovanni Battista del Bufalo romano, Giovanni Romolo da Fiorenza,
Valentino da Sassoferrato, Vincenzo da Sassoferrato, Eraclio Ridolfini
da Narni, Cristoforo de Concha spagnuolo, Gasparre spagnuolo, Lazzaro
da Fabriano, Brandimarte della Ripatransona, Lorenzo di Castel delle
Pieve, Tiburzio da Narni, Ottaviano Particappa.» Con questi andarono
molti capitani e gentiluomi perugini: tra i quali si ricordano negli
annali del Crispotti il capitan Simone da Papiano, Traiano Vermiglioli,
Nicolò Graziani, Michelangelo Benincasa, Luca Signorelli, Rugero degli
Oddi, il cavalier Ranieri, Camillo Pennelli, Livio Parisani.[15] Nè
posso tacere quel che tutti gli scrittori raccontano, che il famoso
poeta Michele Cervantes, paggio allora nella corte del cardinale
Acquaviva in Roma, si arrolò tra le milizie di Marcantonio per la
guerra d’Oriente.

Marcantonio dette le seguenti istruzioni ai capitani:[16] «Vostra
signoria ha da fare dugento soldati, cioè centonovanta archibugeri, e
dieci corsaletti con alabarde; e che non manchi uno del numero. Et se
ne menasse quattro o sei di più, se li faranno buoni.

»Li detti archibugeri hanno da avere tutti li morioni alla moderna:
perchè colui che non n’havesse, non sarà passato alla banca; ancorchè
venisse provvisto di tutto il resto.

»Che abbiano ancora li fiaschi di velluto grandi et belli quanto
sia possibile, et che tutti li archibugi siano a miccio, et di buona
munitione; come volgarmente si dice, alla spagnola.

»Che li dieci corsaletti siano buoni et aggarbati, alla moderna. Et le
alabarde tutte di velluto in hasta et chiodate.

»Procurerà ancora che li soldati abbiano calzoni di velluto per quanto
sia possibile, o di panno. Et li borrichi o pezzi alli lati di panno
alla francese. Et con giubboni che siano buoni. Et con un poco di
bombace. Perchè, ancorchè sia di estate, in galera fa freddo.

»Userà diligenza d’haver soldati prattici et buoni. Et perchè non si
potranno haver tutti prattici, procurerà di farli esercitare, giacchè
per una patente a parte si dà loro autorità di poterlo fare.

»Sopra ogni galera s’imbarchi un frate scappucino per cura di essa; e
si mettano due casse di spezieria con li dui medici.» M. A. C.


  [16 giugno 1570.]

IV. — Ciò preparato e disposto con molta sollecitudine, Marcantonio
andò a congedarsi dal Papa, e il sedici del mese dopo vespro partì
da Roma conducendo seco per luogotenente generale Pompeo Colonna, al
quale aveva poc’anzi procurato dal medesimo Papa il titolo di duca di
Zagarolo. La sera giunse a Castelnuovo di Porto, il dì seguente che fu
sabato a Terni, la domenica a Serravalle, lunedì a Macerata, martedì
nella mattina sentì la messa e si comunicò a Loreto, e la sera entrò in
Ancona, ove già era Fabio Santacroce con otto galere che aveva cavate
da Venezia per armarle in quel porto. Difficilmente potrebbe esprimersi
la efficacia delle parole, e la prontezza delle opere del generale e
dei suoi, e quanto volentieri la gioventù concorreva a scriversi nei
ruoli della milizia e della marineria.

  [20 giugno 1570.]

I fatti, per così dire, ne parlano; e Marcantonio Colonna la stessa
sera scrivendo da Ancona al cardinale Alessandrino, gli diceva[17]
avere ritrovate ovunque le fanterie già pronte, e in tanto numero,
e gente così buona da farne restar maravigliato chiunque, e di
più trovarsi già all’ordine trecento nobili venturieri per militar
sull’armata a proprie spese.

  [Luglio 1570]

Mancavano però l’altre quattro galere: e quelle otto trovate in Ancona
erano prive di molte cose necessarie. Ondechè avendo ordine di sua
Santità di passare a Venezia più tosto per complire con quei Signori e
farsi loro amorevole, che per alcun bisogno di armar galere, essendosi
giudicato che non vi sarebbe stata necessità di andar per questo;
pure vedendo le cose a tal termine, fece risoluzione di passar subito
a Venezia con alquante galere della Signoria che si trovavano in
Ancona sotto il governo di Marin Dandolo. Se non che, veduto il tempo
contrario al navigare, prese le poste con cinquanta cavalli; e il primo
giorno (dopo essersi trattenuto alquanto col duca d’Urbino in un luogo
fuori di Pesaro, detto l’Imperiale) fu al Cesenatico; l’altro alle
Fornaci, e il terzo giorno a Chiozza, presso il podestà Lorenzo Emo;
donde sulla sera con buone barche si inviò a Venezia con tanta celerità
che la Signoria non ebbe tempo di mandarlo ad incontrare. Pur nondimeno
subitamente riconosciuto alle sue divise nel passar dal Canale grande,
lo fecero smontare a palazzo Pisani, ove i savi di terraferma Antonio
Tiepolo e il cavalier Soriano vennero a visitarlo e pregarlo che per
quel giorno quivi si riposasse.

Ma il dì seguente con quattro barche della Signoria, in mezzo a
cinquanta senatori vestiti di cremisino, andò in collegio, presente
il principe che gli venne incontro tutti i gradini della sua sedia,
mentre egli graziosamente salutando ad alta voce e rivolto a tutti
diceva che dovessero star di buon animo perchè da sua Santità sarebbero
sempre aiutati con tutte le forze sue ed anche coll’autorità presso
gli altri principi, e che per questo animosamente attendessero alle
provvisioni di sì onorata impresa contro gente rapace e senza fede.
Poi sedutosi allato al Doge e stando sempre con la capitolazione in
mano, siccome era stata conclusa a Roma tra i ministri del Papa e
della Repubblica, si restrinse intorno alle cose principali della sua
commissione, insistendo per essere spedito, specialmente rispetto
alle grandi difficoltà che ogni poco nascevano nell’armare: perchè
le dodici galere non erano pronte secondo il patto, ed a compirne il
numero si offerivano quattro fusti vecchi e mal atti, lasciati indietro
e per rifiuto nell’arsenale; con una capitana che era galera restia
di quarant’anni. Tuttavia Marcantonio tolse le difficoltà, accettando
pure di far certe spese non pattuite: ed i Veneziani per amor di lui
fecero molte cose supplire d’armi e di vettovaglie e di altro a che
non sarebbero stati tenuti. E così destramente negoziando, concluse
in un mese quel che altri non avrebbe pensato in un anno. La sua
mente era a tutto e tutto moveva, in Ancona e in Venezia: là armava
le otto galere,[18] qua le quattro: e, sempre pronto nei ripieghi,
marinari, remigi, soldati, armi, vettovaglie, munizioni, metteva e
governava con tanta cura e così grande prestezza, che ai ventidue di
luglio acconciata ogni cosa, e preso commiato in collegio, partivasi
da Venezia conducendo seco le quattro galere in Ancona, dove all’entrar
d’agosto ebbe tutta la squadra pronta alla vela.[19]

[Agosto 1570.]

Intanto l’armata veneziana numerosa di cento e trentasette galere
sotto il governo di Girolamo Zane suo capitan generale, di Sforza
Pallavicino generale delle fanterie, e dei provveditori Giacomo Celsi
e Antonio da Canale, dopo avere su e giù volteggiato nel golfo per
assicurare i possedimenti di Dalmazia e le Isole del Jonio, finalmente
erasi accostata a Candia: laddove sapendo che in Ponente si era dato
principio a trattar della lega, e aspettando i rinforzi del Papa e
dei principi cristiani, nè potendo nel mezzo tempo far nulla contro
l’armata assai più numerosa del turco, cadde in tanto languore di
ozio e di abbattimento, che, unito alla rea qualità dei cibi ed alla
corruzione dell’aria, si condusse a consumarsi di febbri acute e
di contagio pestilenziale, tanto che in breve perdette di marinari,
di soldati e di ciurme quasi tremila persone. Tuttavia attendevano
i Veneziani a rifar gente in Candia, e confidavano negli aiuti che
a richiesta del Papa mandar doveva secondo certi riscontri il re
cattolico. Monsignor Ludovico de Torres, nuncio straordinario per
questa bisogna della lega, faceva allora allora gran pressa a Madrid.
E sebbene il re Filippo II, con mostra di gran pietà riguardando
agl’interessi della sua corona, avesse risposto al nuncio che i
Veneziani fossero indegni di essere nei loro bisogni aiutati, e che
quanto alla lega voleva pensarci essendo negozio di tanta importanza,
ciò non pertanto dopo infinite difficoltà era venuto ad impegnar la
sua parola che manderebbe Giannandrea Doria con quarantanove galere
a unirsi con le pontificie e le veneziane nell’armata.[20] Onde che
avendo Marcantonio dato fondo il sei d’agosto in Otranto, e trovate
quivi molte lettere di Madrid e di Venezia che l’avvisavano dovere in
quel luogo e prestamente capitare Giannandrea Doria con le predette
quarantanove galere del re per congiungersi sotto il suo stendardo
ed obbedienza, pensò che, tenendo certa aspettativa di così grande
rinforzo, non fosse bene l’andata sua con sole dodici galere in
Candia, e che gli convenisse meglio aspettar quivi Giannandrea e
sollecitarlo tanto più da presso quanto che in questa bisogna lo
vedeva procedere lentamente.[21] Tra le lettere che trovò Marcantonio
in Otranto ve n’ebbe una di Filippo II re di Spagna scritta nel suo
volgare, che per esser di somma importanza, come appresso si dirà,
io qui rivolgo a verbo a verbo nel nostro così:[22] «Illustre cugino
Marcantonio Colonna. — Ho ricevuto la vostra lettera del 9 di giugno
con che mi date contezza come sua Santità vi aveva nominato per
capitano generale delle sue galere, ed io mi sono rallegrato molto
di questo, per la particolar benevolenza che vi porto e fiducia che
metto nella vostra persona: persuaso che voi avrete tanto pensiero
della mia armata e del mio servigio quanto sempre ne avete avuto nel
resto delle cose che vi sono state imposte. Io scrivo a don Giovanni
di Zuñiga, mio ambasciatore in Roma, che vi partecipi la risoluzione
che ho preso perchè Giannandrea, con quelle galere che già prima gli
si era ordinato di tener insieme nel nostro regno di Sicilia, vada ad
unirsi con le galere di sua Santità e con quelle della illustrissima
repubblica di Venezia, e vi obbedisca e segua lo stendardo di sua
Santità. Io vi incarico e prego molto che nella battaglia vi valghiate
in tutto del parere di Giannandrea, che mi si dice vi gioverà assai
la sua assistenza, affinchè abbia felice successo, per la pratica
ed esperienza ch’egli ha delle cose di mare: e che abbiate pensiero
di avvisarci di tutto quello che occorrerà; e similmente che siate
avvertito che se l’armata del Turco pigliasse determinazione diversa da
quella che sin ora si è detta e venisse a danno de’ nostri stati, voi
accorriate con tutte le galere al bisogno come è ragionevole, ed io di
voi confido. — Dall’Escuriale ai 15 di luglio 1570. Io il re — Antonio
Perez.»

La risoluzione presa dal Re che l’armata sua si congiungesse con
quella pontificia e veneziana sotto l’ubbidienza e lo stendardo del
generale del Papa, giunse in Roma col corriero di Spagna il ventisette
di luglio, e subitamente l’ambasciatore fecela pubblicare in corte e
per la città,[23] menandone ognuno grandissima festa, perchè tutti
pensavano che il Re fosse risoluto daddovero di metterci le mani,
e che quelle solenni parole di dover l’armata di Spagna seguire lo
stendardo di sua Santità, ed ubbidire al general pontificio, come
nel linguaggio militare significavano e tuttavia significano assoluta
sommissione, così fossero un sicuro pegno di veder le cose pubbliche
all’ombra del papale stendardo ben dirette da quell’uomo nel quale
tutti riponevano la loro fiducia. Quando questa istessa notizia per
lettere di Madrid e di Roma si riseppe a Venezia crebbero due doppi
tanto le speranze della repubblica. E il doge persuaso che fosse
onore e utilità grande dello stato suo il ricevere gli ajuti di Spagna
sotto la bandiera della Chiesa, e sotto l’obbedienza di Marcantonio,
(già per pubblico decreto chiamato gentiluomo di quella patria e
ammesso a tutti i gradi e dignità della repubblica) quantunque pochi
giorni prima avesse tanto lungamente esso doge ragionato con lui
delle cose di guerra, e trovatolo in tutto seco pienamente concorde;
volle nondimeno mandargliene in Otranto lettere di congratulazione, e
mostrargli fiducia sempre maggiore con una lettera scritta in questa
sentenza:[24] «Aluise Mocenigo per la grazia di Dio doge di Venezia,
eccetera: All’illustrissimo signore Marcantonio Colonna capitano
generale della navale armata pontificia, figliuolo nostro carissimo
salute ed affetto di sincera dilezione. — Con grandissima soddisfazione
dell’animo nostro abbiamo inteso per lettere dei 17 del mese passato
dell’ambasciator nostro presso al serenissimo Re cattolico, che la
maestà sua aveva spedito ordine al signor Giovannandrea Doria che con
ogni diligenza s’abbia da congiungere all’armata nostra con le galere
che ha seco, sotto lo stendardo ed ubbidienza dell’Eccellenza vostra,
sì per averci con così buona risoluzione confermato dell’ottima volontà
della Maestà sua cattolica verso di noi, quanto per vedere queste forze
all’obbedienza di lei tanto amata e stimata dalla signoria nostra, e
tanto nostra confidente: onde se ne rallegramo con l’Eccellenza vostra
per ogni rispetto con quel maggiore e più caldo affetto che potemo: et
perchè abbiamo data commissione ultimamente al capitan nostro generale
di mare che si debba spingere innanzi con l’armata et andare in Candia
perchè di là rinforzate le galere di genti così da combattere come da
remo, et intendendo con più fondamento lo stato delle cose turchesche
per la vicinità dei luoghi, possa fare quelli progressi che nostro
signore Iddio li potesse mettere innanzi, così principalmente per la
difesa del regno nostro di Cipro come per offesa delle forze e cose
turchesche prefate, giudicamo grandemente a proposito che quanto prima
si divenga all’unione dell’armata cristiana a fine che tanto più si
venga a facilitare quello che si avesse a fare: però volemo per queste
nostre pregare l’Eccellenza vostra, sì come facemo con ogni affetto, di
accelerare con ogni diligenza la sua andata in Levante per ritrovare et
unirsi con la detta armata nostra, et accettare quelle occasioni con
le quali la si possa dimostrare di quella virtù e valore che ella è
in effetto, siccome da ognuno è grandemente aspettato: questo siccome
a noi sarà sommamente grato così volemo esser certi che sarà posto in
effetto dalla Eccellenza vostra con ogni prestezza, sì per il desiderio
che conoscemo che ella tiene del comodo e beneficio della cristianità
et nostro in particolare, come perchè con questa unione ella può molto
ben conoscere che darà compita consolazione alla Santità sua desiderosa
oltremodo del bene et della reputazione della repubblica cristiana, et
del comodo nostro, possendosi per ciò operare alcuna cosa innanti che
passi la stagione di quell’utile et honorato servigio suo et beneficio
particolare dello stato nostro che l’Eccellenza vostra per sua prudenza
ben conosce. Dato dal nostro ducal palagio, a dì 5 agosto indizione
decimaterza, 1570.»

Similmente il grammaestro di Malta insieme col suo consiglio nello
spacciare le istruzioni al cavalier Pietro Giustiniani allora
dichiarato generale delle galere in luogo di Francesco di Saint Clement
(che per essersi lasciato sorprendere dal corsaro Luccialì ed aver
perdute la capitana e due sensili era stato strangolato in carcere e
gettato in canale) prescriveva.[25] «Che dovesse navigare alla volta di
Cipro, e quando trovato avrebbe le galere del Papa con esse congiungere
si dovesse riverentemente salutandole con abbassare et alzare tre
volte lo stendardo, e poi tornandolo ad alborare nel suo luogo. Che
presentare si dovesse d’innanzi a Marcantonio Colonna generale di sua
Santità, e che presentandogli le lettere del gran maestro, s’offerisse
di seguirlo con le galere della religione dovunque andar voluto
havesse: dimostrandogli che il principal desiderio di questa religione
era di volere ubbidir sempre ad ogni cenno di sua Beatitudine:
esponendo quanto tiene per difesa della santa fede e per servigio della
santa Sede apostolica. Che far dovesse la scusa se prima non v’era
andato, raccontandogli la disgratia e la perdita delle galere prese da
Luccialì, che di quella tardanza era stata cagione, significandogli lo
sforzo grande e la diligenza che usato havevano acciò, non ostante la
detta disgrazia, lo stendardo della Religione comparisse in ogni modo
ancor quest’anno nell’armata: e che volendo Marcantonio Colonna che
le galere svernassero in Levante, insieme con quelle di sua Santità,
ubbidire il dovesse.»


V. — Non era dunque temerario Marcantonio Colonna duca di Paliano,
cavaliero del tosone, gran contestabile del regno, e capitan generale
del Papa se per tutte quelle ed altre molte lettere, diplomi e ragioni
giudicava di avere qualche autorità sopra le galere ausiliarie, che
dai loro sovrani eran mandate sotto lo stendardo ed obbedienza sua.
E quantunque egli non ad arroganza ma a pubblico servigio intendesse
tener temperantemente in serbo l’autorità pel caso dell’estremo
bisogno, pur qualcuno v’era già fermo a non volerla proprio allora
riconoscere quando più ne facesse mestieri. Costui pensava che lo
stendardo di sua Santità o non mai, o tanto tardi sarebbesi mosso da
doversi scusare in pubblico di non poterlo seguire: e, dato pur che
si movesse, sapeva di potergli contrapporre in privato alcune secrete
cifre di Madrid che dal seguirlo ed obbedirlo il francavano.

Non devo io schivare di scendere ai minuti particolari, nè di salire
alle generali considerazioni quando il richiede l’argomento mio. In
principio la prestezza e la qualità degli armamenti di Marcantonio
voleansi chiarire; però con lui sono sceso a noverare i giorni,
le persone, le armi, le salmerie, gli stipendî. Poscia bisognava
dimostrarne l’autorità; e l’ho fatto, scuotendo dalla polvere degli
archivi le lettere spedite e ricevute a confermarla. Ora mi si
presentano le discordie delle corti, e devo salire a ricercarne le
cause. Il farò, senza voli di fantasia, e senza artificio di parole.
L’artificio e la fantasia hanno da tre secoli travisato nell’opinione
degli uomini il concetto dell’alleanza, e della vittoria di Lepanto.
Io intendo rimetterlo nei giusti termini; e dimostrare chi n’ebbe
dispetto, ne prese diletto, chi ne tolse i frutti. Non ch’io voglia
chiamare al sindacato i secoli passati e giudicarli a mio talento:
non ho siffatta temerità. Sento però dovermi mettere in mezzo a loro,
raccoglierne le parole, udirne le querele, e leggere le arcane cifre
che pur si scrivevano quando più che la paura poteva il dolore. Metterò
tutto innanzi ai lettori: essi saranno giudici. Ed io intento al valore
dei documenti ed alla certezza dei fatti condurrò il mio racconto al
segno prefisso piuttosto per fil di critica che per copia di sentenze e
per forbitezza di stile. Vengo ora ad esporre le ragioni di stato onde
le corti di Roma, di Venezia e di Spagna sin dal principio della Lega
si governavano.

Della interezza di Pio V non v’ha che dubitare. L’animo di lui, come
altresì le parole e le opere, erano per ogni riguardo generose e leali.
I fatti e il procedimento della lega, gli scrittori d’ogni nazione,
infino i protestanti, ne hanno data e ne danno piena testimonianza.
Spagnoli e Veneziani vennero in Roma a trattar con lui della lega, il
tennero mediatore ed arbitro di loro differenze: ed il mondo tanta
fede pose nella sincerità di Pio che la lega e la vittoria intitolò
al suo nome.[26] Ma quanto al doge ed al re, v’hanno molte cose a
ripensare: senza di che la storia anderebbe ancor cieca tra le tenebre
onde sono stati coperti gli intricati successi della lega. Non si
potrebbe nè salvare la legge della morale, nè applicare a ciascuno la
lode o il biasimo secondo il merito; ma in quella vece sbalestrare
giudizî senza cognizione di causa, negare i principî per salvar le
persone, o tuttalpiù mettere in un fascio (come i tristi per iscolpar
sè stessi vorrebbono) tutti insieme gli innocenti co’ rei, gli oppressi
e gli oppressori; e chiamar tutti, senza alcuna distinzione, in colpa
dei gravissimi disordini che vi furono commessi. Protesto però una
volta per sempre che parlando della generosa nazione spagnola e della
sapiente signoria veneziana io non intendo derogare in niuna cosa ai
loro meriti; ma, seguendo l’esempio degli stessi storici spagnoli[27] e
veneziani,[28] voglio che il biasimo sempre s’intenda essere di quelli
o pochi o molti che peccarono; e che per male arti di governo non solo
alla causa pubblica della cristianità, ma anche ai loro concittadini
e patria fecero oltraggio. Che se per avventura dovrò nominar tra
costoro il re Filippo di Spagna, io prego chi legge a non precipitar
nei giudizî: ma rispetto a questo argomento della lega col Papa e co’
Veneziani, e della guerra contro Turchi, seguire il filo del racconto:
e ponderare le ragioni, i fatti e i documenti che nello scrivere mi
sono venuti tra le mani.

Allora la corte di Spagna ambiva grandezza di dominio, e imperio
assoluto in tutta l’Italia.[29] Qua possedeva tre reami, Napoli,
Sicilia, e Sardegna, ridotti a province; e il ducato di Milano a
governo dispotico: qua aveva ridotto il Piemonte, dopo la battaglia
di Sanquintino, a vassallaggio: Genova, per la protezione del re,
e per la condotta di quasi tutti i suoi maggiori uomini nell’armata
regia, a suggezione: la Toscana, in premio della guerra di Siena, a
feudo: Roma (che pur s’era levata più volte a contrastarle) pel sacco
della città, per la guerra di Campagna, e per la tragedia dei Caraffi,
ridotta a sbigottimento: qua non restava più che Venezia libera e
minacciosa, da potere al presente vietarle l’assoluta padronanza, e
contrastargliela nell’avvenire. Quindi gli Spagnuoli, e tutti i loro
aderenti scrivevano e sparlavano sempre contro Venezia: e tanto se le
mostravano avversi quanto poscia si parve e nella rottura con Paolo
V, e nella famosa congiura del duca d’Ossuna. E quantunque le due
corti in palese facessero mostra d’amicizia, in segreto astiavansi
tra loro di odio acerbissimo[30], secondo passione con che gli uni
e gli altri riguardavano la servitù o l’indipendenza d’Italia. Il
principal carattere, che distingue gli storici parziali di Spagna,
(siano di qualunque nazione) è dir sempre male di Venezia: e sovente
dei papi che, come Paolo IV, Sisto V, ed altri, procacciarono frenare
le esorbitanze della corte di Madrid. Oltracciò speciali contrarietà
ciascun di loro covava rispetto alle cose di Lombardia: la qual
provincia era allora divisa in due parti: l’una con Milano, Como,
Lodi, e Pavia a suggezion di Spagna; l’altra con Bergamo, Brescia,
Vicenza, e Verona a signoria de’ Veneziani, talchè l’Adda li partiva.
E siccome suole esser sempre questione tra vicini di costumi diversi
e di interessi contrarî, così essi pure dalle due ripe del fiume
contendevano: non solo per le gabelle, pei banditi, e per molte
altre ragioni di giure internazionale, ma anche per il diritto del
dominio che la corte di Spagna pretendeva sopra alcun territorio dei
Veneziani.[31] Laonde costoro a cessar soperchierie non amavano che il
re crescesse di potenza: e questi per non perder Milano, anzi per fa
valere quando che fosse i diritti suoi al di là dell’Adda, e tenersi
alto in Italia, studiavasi mettere a basso i Veneziani quanto più
copertamente poteva, senza suo carico.[32]

Il perchè gli uni e gli altri già da molto tempo si guardavano
dal mettersi insieme nè a favore nè contro chicchefosse, compreso
il Turco: sapendo i Veneziani non doversi ripromettere gran fatta
soccorsi dagli Spagnuoli; e questi non volendo dar loro troppa mano a
crescere. Onde il senato, costretto dalla necessità, per non perdere
il suo dominio oltremarino sopra tanti paesi cristiani da Cipro sin
quasi a Venezia tutti esposti all’infinita potenza del Turco, per
trafficare liberamente in Levante, e per massima di stato osservava
la pace (non l’alleanza come i Francesi) alla casa Ottomana: e se
alcuno chiedevalo di unirsi seco contro a quella casa, se ne scusava
allegando l’incorrotta fede della Repubblica nel mantenere i trattati
anche a suo discapito cogli stessi infedeli.[33] All’incontro il
re nudriva nimicizia perpetua col Turco, non avendo mai la corona
di Spagna voluto riconoscere nè trattare alla pari con quel governo
barbaro e usurpatore. Dal che gliene veniva molta lode di costanza e
di giustizia, e insieme qualche utilità: perchè lo spavento dei Turchi,
sempre in guerra o in procinto di guerra contro Cristiani, era un gran
freno a mantenergli soggette le Sicilie, ed imbrigliati i Veneziani.
Ma se questi alcuna volta da quel nemico offesi chiedevano aiuto al re
potevano far conto innanzi tutto di sentirsi rispondere che nè egli nè
il suo consiglio giudicavano che fossero meritevoli di essere aiutati
nei loro bisogni, perchè nel tempo dei travagli altrui eran soliti di
starsi a vedere.[34]

Ciò non pertanto alcune volte Spagnuoli e Veneziani stretti ambedue
dall’istessa necessità di difendersi, provocati dalle atroci ingiurie
dei Turchi, e condotti del Papa, avevan potuto collegarsi insieme. Ma
la loro alleanza era riuscita sempre piena di scaltrimento e di frode,
non essendo per ciascun di loro eguali le partite del vincere e del
perdere. Nell’avversa fortuna dovevano perdere i Veneziani tutti i loro
possedimenti oltremarini per opera dei Turchi, e tutta la terraferma
per opera degli Spagnuoli: senza che questi arrischiassero nulla,
potendosi le Sicilie difendere da sè, come facevano. Nella prospera,
niuno impediva che il dominio veneto si allargasse (come già altre
volte) sino a Costantinopoli; e che quel di Spagna (come troppo lontano
da siffatte conquiste) si restasse a veder crescere la potenza degli
emoli, ed il pericolo di Milano. Il senato metteva sul tavoliere tutto
l’aver suo, a rischio di perdere ogni cosa, o di raddoppiar la posta:
il re una piccola parte in ogni evento, a rischio di poca perdita e
con speranza di minor guadagno. Quindi ne veniva un’altra differenza
notabilissima tra loro: erano i Veneziani in tanto bella condizione
che la causa privata della Repubblica s’accordava onninamente con la
pubblica dell’Italia e del Cristianesimo: cosicchè ogni vantaggio o
perdita dell’Italia e della Cristianità era pur perdita o vantaggio dei
Veneziani. Essi avevano in un sol punto l’utile e l’onesto. Non così
per li Spagnuoli, cui veniva egualmente bello, ma non utile del paro,
il vincere. E perciò combattuti da contrarie passioni angustiavano sè
stessi ed i compagni, stentamente misurando che il troppo bello non
addivenisse per loro troppo nocivo.

Valga l’esempio di quel che successe al tempo di Solimano. La
Repubblica era in pace col Turco, quando Carlo V gli faceva la guerra.
Questi chiese aiuti, quella allegò la pace, ambedue se ne offesero. Ma
avendo poco dopo lo stesso Solimano assaliti i Veneziani al paro degli
Spagnuoli, allora stretti gli uni e gli altri dal medesimo bisogno,
per intramessa di Paolo III, si collegarono. Batterono il Turco, lo
scacciarono dalla Puglia, andarono concordi sin che l’utilità degli uni
parve utilità anche agli altri. Venuto però il destro di dare al nemico
una gran battaglia, e una gran vittoria ai Veneziani, allora il vecchio
Doria diventato spagnuolo, voltò le spalle. Espugnato Castelnuovo,
ricusò secondo i patti consegnarlo ai Veneziani. La lega si sciolse
e gli alleati si rimisero al solito, chi in pace, chi in guerra col
Turco; e tra loro in più nemicizia di prima.

Ora nel 1570 quantunque si mantenessero gli Spagnuoli nemici del
Turco ed i Veneziani in pace con lui, ciò non pertanto avendo Selim
assalito Cipro e messo mano a toglier quel regno alla Cristianità, la
Repubblica deliberò la guerra; elesse doge di bellicosi spiriti Luigi
Mocenigo, mise in piè sì grande armata che nè prima nè poi n’ebbe
mai la simigliante, i nobili e i cittadini con volontaria offerta
di denaro concorsero a sostener la patria: ed il Papa per la salute
d’Italia, e per opporsi all’usurpazione dei barbari non ebbe mestieri
di mandar nunzî a Venezia, perchè in quella vece gli ambasciatori
della Repubblica vennero a Roma profferendo tutte le cose loro per la
guerra, nella quale avrebbero durato senza mai cedere a meno che non si
vedessero abbandonati.[35]

All’incontro Filippo II stette sempre saldo ad aspettare le suppliche
de’ Veneziani e del Papa; e le pratiche non solo degli ambasciadori
ordinari e straordinari di Venezia, ma quelle pure del nunzio
Giambattista Castagna arcivescovo di Rossano residente alla sua corte,
e di Ludovico de Torres chierico di camera, e del cardinal Alessandrino
nipote del Papa, mandati a lui l’un dopo l’altro «per farlo risolvere
a prestar questo servigio alla causa comune del Cristianesimo, di
entrar nella lega contro il Turco; e che gli dovesse parere questa
impresa giusta, onorevole, ed utile: e che S. M. pel zelo che aveva
sempre mostrato verso la conservazione dei Cristiani (quandanche non
ci vedesse il proprio interesse) dovesse congiungersi co’ Veneziani
e non temer di loro, ma nel comun pericolo averli per amici massime
insieme col Papa.»[36] Alle quali cose tanto giuste e richieste
istantemente e con questi istessi precisi termini dal Pontefice, non
potendo Filippo ricusarsi per esser tenuto pio, cominciò a querelarsi
dei Veneziani come indegni di essere aiutati,[37] e a chieder tempo
per decidere con maturità sopra la Lega proposta, come affare di così
gran rilievo. Dopo di che ponderando gli interessi della sua corona, e
posposti gli scrupoli della coscienza, deliberò lasciar che i Veneziani
s’immergessero nella guerra, dando loro parole di speranza e mostra
d’aiuto.[38] E così per caparra della lega futura (mentre tenuti da lui
non si movevano a soccorrere i Veneziani nè il granduca Cosimo colle
sue galere, nè il senato genovese, nè il duca di Savoia) egli promise
che avrebbe mandato in Levante Giannandrea Doria con quarantanove
galere sotto lo stendardo ed ubbidienza del general pontificio.

Per ciò quando si riseppe a Venezia che il soccorso del re andrebbe a
congiungersi coll’armata loro sotto il governo di Marcantonio Colonna,
se ne rallegrarono fuor misura, come quelli che in tal modo pensavano
esser daddovero aiutati. E alla corte di Madrid piacque aver fatto un
bel tiro agli emoli laddove pensavano star più sicuri. Perciocchè sotto
quelle tanto belle viste dello stendardo e dell’obbedienza misleali
intendimenti ricoprivansi: ed affinchè Giannandrea nè di suo moto, nè a
talento di Marcantonio, non corresse a favorir troppo efficacemente le
imprese dei Veneziani, già prima di muovere da Messina teneva secrete
istruzioni scritte di mano del re[39] per le quali tanto doveva stare
coll’obbedienza e allo stendardo, quanto gli pareva[40] e portar così
grande aiuto ai Veneziani in Cipro quanto n’aveva portato suo zio alla
Prevesa,[41] e con questo meritarsi dal re Filippo sempre più grandezze
e favori. Dalle opere si conoscono gli uomini.

Ma lasciate pur da parte le secrete istruzioni della corte, e presa
in mano la lettera patente di Filippo a Marcantonio, che avanti ho
pubblicata, a chi ben la considera e quanto ai concetti e per conto
degli effetti che se ne vedranno si mostra chiaro il disegno di
deludere i Veneziani, dando loro come certo un incerto soccorso: e di
mettere eziandio il General pontificio nella contradizione di dover
comandare ed ubbidire al regio. La patente strigne il secondo sotto
l’ubbidienza del primo, e insieme il primo sotto il parere del secondo.
All’uno il presiedere, all’altro il definire, a tutti due il dovere
e il diritto di sottomettersi e rilevarsi, ed a ciascuno il decidere
quando era da star sui pareri e quando sui comandi. I Veneziani
pasciuti di vento avessero speranze senza costrutto; il Papa onori
senza autorità, e il Re sicurezza di stato, lode di pietà, e tutto quel
che meglio gli venisse.

Così dunque Giannandrea Doria che per migliori interpetri doveva aver
colto l’alto senso delle arcane ordinanze del suo sovrano, stavasene
a Messina facendo le grandi viste di voler ubbidire, e non mai
venendo ai fatti. Esso era allora nell’anno trigesimo primo dell’età
sua, lungo, magro, negro, deforme, cui la testa aguzza, la corta e
crespa capigliatura, il naso camuso, l’occhio incavato, ed un gran
labbro gonfio spenzolato all’ingiù davano l’aria piuttosto di corsaro
africano che di gentiluomo genovese.[42] Ma sotto a quelle deformezze
chiudevasi animo grande, intelligente, valoroso, gran pratica del
mare, conoscenza degli uomini, simulazione profonda, ed arte sottile
per menar la sua barca secondo il meridiano di Madrid. Teneva egli
a Messina trentasette galere tra spagnole, napoletane e siciliane; e
dodici sue proprie al soldo del re per diecimila scudi all’anno e a
galera: e quivi stavasene senza darsi gran fatto pensiero di muovere.
Giudicava che Marcantonio non potesse mai per quell’anno esser pronto
da condurselo appresso allo stendardo. Quando fuor d’ogni sua opinione,
sentì ai primi d’agosto che quegli in soli cinquantadue giorni aveva
pure armato di tutto punto le dodici galere, e già era in Otranto
aspettandolo, fece vela. Ma con tanta lentezza, che partitosi da
Messina alli dodici, e sempre col buon tempo, non giunse in Otranto
fino alli venti del mese.[43] Marcantonio attendevalo da quattordici
giorni. Venuto colà a due ore di notte, diè fondo fuor del porto: nè si
mosse dalla sua capitana, nè mandò altrimenti a visitare il generale
del Papa, nè a mettersi all’obbedienza sua, come avrebbe dovuto. Ma
avendogli Marcantonio inviato Pompeo Colonna da sua parte a visitarlo,
egli rese il complimento per mezzo di Marcello Doria. La mattina poi,
senza altra cortesia entratosene in porto, sarebbe restato quivi chi sa
come e quanto se l’istesso Marcantonio, per attendere più alle cose di
momento che alle frivole, dissimulando lo spregio, non fosse andato a
ritrovarlo. E usò secolui tutti i cortesi modi, e largheggiò di titoli
sino a dargli dell’eccellenza, quantunque allora non fosse nè generale
nè luogotenente di generale (il primo di questi carichi aveva in Spagna
don Giovanni d’Austria e il secondo don Luigi de Requesens commendatore
maggiore di Castiglia) sperando così più facilmente piegarlo a trattar
da senno i comuni interessi.[44]

  [21 agosto 1570.]

Tale fu il primo incontro di questi due grandi sopra ai quali si
riposavano allora le sorti della Cristianità. Ambedue italiani di
patria, ambedue spagnoli di clientela: ma l’uno più volto a quella che
a questa, e l’altro più a questa che a quella. Da ciò la differenza del
loro procedere. Il genovese, dopo essersi seduto dappresso al romano,
disse in verità tenere ordine dal re di ubbidirgli e di seguirlo. Ma
ben maravigliarsi della temerità dei Veneziani nel volersi mettere
insieme con loro allo sbaraglio dei Turchi tanto insuperabili sul
mare: altro aspettar non potersene se non vedere le armate del Papa
e del Re cacciate in fuga, e quella della signoria al tutto disfatta
dai nemici, come era a metà già ruinata dalla morìa; e resa inetta non
che al combattere, al fuggire. Dato però che coloro nella disperazione
volessero farne la prova, e condurvi pure le squadre degli ausiliari,
avrebbero almen dovuto per riverenza e per gratitudine venir quivi in
Otranto a trovarli e a congiungersi insieme. Allora sarebbesi egli
provato a persuaderli che per esser la stagione troppo innanzi, le
forze troppo fiacche, il nemico troppo invincibile, non fosse tempo
d’andar verso Cipro ad offesa altrui, ma soltanto da starsene sulle
volte nell’Adriatico a difesa propria. Poscia rivoltosi a Marcantonio
il richiese di dare la mostra delle galere, di venire nel suo parere
di non andare avanti, e in ogni caso di risovvenirsi che secondo gli
ordini del re doveva conservargli l’armata.

L’altro allora con molta grazia e maggior destrezza, ripigliando per
filo tutto il discorso, rispondeva: avere sua Santità e il Re cattolico
comandato chiaramente che quanto prima dovessero le squadre ausiliarie
unirsi all’armata veneziana: quindi non esservi questione nè dubbio
di non doverlo eseguire. Delle sue genti e galere darebbe conto a
chiunque in Candia, ove si sarebbero vedute le squadre di tutti, senza
alcuna eccezione. I Veneziani essere stati aspettando riverenti e
grati anche troppo, dal maggio all’agosto; e non doversi dar carico ai
medesimi perchè allora non avessero abbandonato i Cristiani di Cipro
e di Candia allo strazio dei nemici per venire in Otranto a complir
cogli amici. Lodar egli molto che l’armata cattolica si guardasse dai
pericoli, navigando sempre in buona regola e governo, non già fuggendo
ogni cimento: non potendo esser volontà del Re che l’armata sua si
conservasse senza riputazione. Quanto al modo di combattere i Turchi
e di stimare le forze dei Veneziani doversene ciascun riportare a ciò
che se ne consiglierebbe in Candia: dopo fatta l’unione di tutte le
forze cristiane si prenderebbero più certe e fresche contezze degli
amici e dei nemici. In fine pregavalo che considerata la stagione
così bella del mese di agosto non la facesse inutilmente trascorrere,
ma usasse somma diligenza per mettersi subito alla vela.[45] Il
qual ragionamento tanto assennato quanto ciascun comprende, ridusse
Giannandrea a consentire. Ciò non pertanto bisognò prima dargli tutte
le soddisfazioni che seppe domandare: levargli la paura di essere per
via assalito dai Turchi: ed aspettarlo là dove, non avendo cosa a fare
di due ore, si trattenne due giorni. In capo ai quali finalmente le
squadre ausiliarie fecero vela in alto mare verso Candia.[46]


VI. — Intanto le cose di Cipro volgevano manifestamente a mal termine:
e l’isola per tutti i tempi celebrata come luogo del piacere, delle
grazie e dell’amore era tutta in fiamme, in sangue, e in lagrime in
che gemevano grami e desolati i superstiti alla strage ottomana.[47]
Mustafà general capitano di Selim all’entrante di giugno aveva
sbarcato colà un formidabile esercito: quattro mila cavalli, sei
mila giannizzeri, e novanta mila fanti. E volendo espugnar le sole
due piazze d’armi che quivi erano, Famagosta e Nicosia, disertate le
campagne intorno alla prima, si rivolse a questa seconda per essere
città capitale del regno, debolmente fortificata, e meno opportuna a
ricevere i soccorsi, perchè trenta miglia lungi dal mare. Governavano
per i Veneziani Nicolò Dandolo luogotenente del regno, Astorre Baglioni
perugino governator generale dell’armi, il conte di Roccas barone
principe dell’Isola, e il colonnello Palazzo da Fano con duemila e
cinquecento fanti italiani,[48] cinquecento cavalli dei gentiluomini
feudatari, cinquecento stradiotti, e qualche numero di gente delle
battaglie cittadine, con molti gentiluomini e soldati venturieri e
molti anche dell’Isola. Avevano i Veneziani fatto diverse provvisioni
per fornir meglio quel regno: ma la fortuna era stata loro in tutti i
principî contraria. Imperciocchè essendo il conte Girolamo Martinengo
con grosso presidio mandato per governatore a Famagosta, poco dipoi la
sua partenza morissi; e tutte le genti che seco conduceva di contagiosa
infermità similmente perirono: di modo che Astorre Baglioni, alla cui
cura Nicosia principalmente era commessa, acciocchè la fortezza di
Famagosta molto più rilevante e sul mare non si trovasse sprovvista
di governatore, fu costretto nel maggior bisogno lasciar Nicosia in
mano del Dandolo, uomo inetto, e mettersi in Famagosta, senza che più
il ritorno conceduto non gli fosse nè a Nicosia nè a Perugia: perchè
quivi poco dopo assalito e fatta la nobile difesa che nell’altro
libro dirò, per gloriosa morte lasciò la vita. Similmente Pallavicino
Rangone, in luogo del Martinengo, con tremila fanti mandato insieme
a Sebastiano Veniero provveditor generale del regno, per varii casi
l’uno e l’altro distratti tanto in Candia furono trattenuti che esso
Rangone di sua infermità vi morì, ed il Veniero non potè mai arrivare
a Cipro. Dalle quali cose seguì che quando Nicosia fu assediata si
ritrovò senza governatore e col debolissimo presidio di soli mille
cinquecento fanti, al tutto sproporzionati per difendere grossa città,
vasto perimetro, opere esteriori e undici baluardi. Pur nondimeno
quelli che si trovarono nella piazza, e principalmente il colonnello
Palazzo da Fano che, posta l’imbecillità del luogotenente Dandolo[49]
e la disubbidienza del collaterale Roccas,[50] fu il miglior uomo del
presidio; e con lui i capitani Cecco da Perugia, Giannandrea da Spello,
Niccolò Paleotti da Bologna, Camillo de Gaddi da Forlì, Carlo Malatesta
da Rimini e il capitan Fabrizio da Imola[51] si accinsero alla difesa.
Nonostante la disparità delle forze avrebbero potuto sin dal primo
giorno, siccome tutti dissero, riuscire al glorioso segno di solenne
vittoria, se il Dandolo e il Roccas avessero voluto seguire il prudente
e salutifero consiglio del colonnello Palazzo.[52] Ma per l’imperizia
loro e codardia, lasciata ai nemici (quantunque stracchi, disordinati
e senza artiglieria) libera la strada sin sotto alle mura, bisognò
chiuder le porte, ed aspettare che il dì seguente venissero sbarcati e
condotti là sopra i cannoni d’assedio per riceverne riposatamente la
batteria. Al furor della quale riscossi in fine i rettori, permisero
le sortite: che sebbene facessero buoni effetti, ne avrebbero prodotti
migliori se fossero state da essi più presto e più ben dirette.

Il nemico aprì il fuoco della prima paralella alla distanza di
dugensettanta passi dal fosso: il secondo a passi ottanta. Ma vedendo
che il primo, dal rovinare in fuori alcune case eminenti, poco effetto
faceva; e che nel secondo per il franco rispondere della città aveva i
pezzi continuamente scavalcati; e molto più considerando Mustafà che i
suoi tiri ficcandosi nel terrapieno morivano senza far rovina, rivolse
il pensiero ai guastadori: facendo grande assegnamento nell’opere
possenti della zappa e della pala, le quali dovunque adoperar si
possono non ingannano mai le speranze della vittoria. Cominciò dunque
a cavare il terreno, mettersi al coperto, e alzar trincere, e andare
avanti a spinapesce, sempre difeso: e lavorando continuamente, sboccò
dalla controscarpa nel fosso. Quivi trovando tutta quella terra che
dai precedenti cavamenti vi aveva a disegno buttata, e cavando inoltre
più larga e spaziosa trincera (sempre in mezzo al fuoco vivo perchè gli
assediati non isturbassero i cavatori) con le fascine che la cavalleria
da lungi traeva, fece così forti e gagliardi traverse che levò affatto
le difese dei fianchi, nei quali è posta la sicurezza delle fortezze:
senz’essi nè le cortine nè le faccie dei baluardi possono lungamente
durare. Per tal modo a sicurtà, non potendo essere nè offeso nè
impedito, cominciò a smantellare la fronte delle fortificazioni sopra
quattro lati del poligono, e le punte di altrettanti baluardi.

Di che cominciando que’ rettori di dentro con molta ragione a temere,
stretti dalla necessità che molte volte suol partorire effetti
stupendi, oltre al continuo controbattere, tentarono una sortita
gagliarda di fanti e cavalli. Il dì venticinque agosto improvvisamente
uscendo sull’ora del mezzodì, quando i Turchi per l’eccessivo calore
stavano disarmati e stracchi, ruppero il campo, occuparono due
principalissimi ridotti, e percossero i fuggitivi nella campagna di
tanto terrore che se allora la cavalleria, secondo l’intesa, sboccava
fuori dalla piazza, facilmente quel giorno con la liberazione di
Nicosia una felice vittoria si sarebbe conseguita. Ma il Dandolo
per star sui puntigli non volle che la cavalleria nobile del regno
uscisse, e neanche il permise agli stradiotti che richiedevanlo
frementi al portello. E così quei fanti che già alla vittoria avevano
aperto la strada, essendo poi dalla cavalleria nemica assaltati e
vedutisi abbandonati dalla loro, furono in necessità di lasciare la ben
cominciata impresa e ritirarsi nella piazza con perdita di due capitani
e quasi cento soldati tra morti e prigionieri. Dal qual fatto i Turchi
per conoscere l’imbecillità di chi governava la piazza imbaldanzirono:
e tanto rifidati di sè, quanto in minor stima avevano i nostri, vennero
agli assalti ora ad un baluardo, ora a due, e finalmente a tutti
quattro: con tanta furia e pertinacia, che in pochi giorni dettero
sino a quindici assalti, nei quali essendosi da ambedue le parti fatto
ogni possibile sforzo con ogni sorta d’armi e di istrumenti soliti
adoperarsi in simili combattimenti, vi morirono Turchi infiniti, ma dei
nostri ancor tanti che la città restò quasi vuota di difensori. Laonde
ridotte le cose a quel termine, non rimaneva altra speranza che nel
sostenere più che si poteva con le ritirate dietro le breccie, con le
chiuse alle gole de’ quattro bastioni: non lasciando piazza al nemico
d’alloggiarvisi sinchè il soccorso giungesse, se pur poteva, in tempo.
Scrissero per tanto i rettori di Nicosia lettere pressantissime in più
parti dell’Isola perchè a Girolamo Zane, capitan generale dell’armata
in Candia, si facesse sapere in chiari termini che non era più
possibile sostenere la piazza se non veniva di presente soccorsa.


  [31 agosto 1570.]

VII. — Stava il capitan generale Girolamo Zane coll’armata veneziana
nel porto, o meglio direbbesi nel golfo, della Suda in Candia l’ultimo
giorno d’agosto, molto perplesso con quelle lettere di Cipro in mano,
quando le due squadre del Papa e del re, dopo aver navigato nove
giorni con diversa fortuna, gli comparivano da lungi alla vista per
ravvivare le sue speranze, e per mettere maravigliosa allegrezza nei
suoi capitani che tutti ardentemente desideravano di rivolgersi al
soccorso di quegl’infelici tanto orribilmente dagl’infedeli straziati
in Cipro. Aveva il general veneziano ordine dal senato di usare ogni
sorta d’onore e di rispetto a Marcantonio Colonna ed a Giannandrea
Doria, e di ceder loro il primo luogo per la grandezza dei principi
che rappresentavano. Perciò, prima che quelli approdassero, cavò
tutta l’armata sua dal porto della Suda, a fin di incontrarli con ogni
maggior dimostrazione d’onore. Mise avanti per tale effetto il capitan
del golfo con una squadretta, e appresso tutte le altre galere di qua
e di là divise in due stuoli, quasi due braccia aperte a ricevere in
mezzo gli amici. Ed essendosi questa manovra perfettamente eseguita,
si trovò il Colonna con lo stendardo del Papa e la sua capitana nel
centro: a diritta la capitana di Spagna, ed a sinistra quelle di
Venezia. Tra le quali scambiati i saluti, come si costuma in mare, con
molte salve di moschetti e di cannoni, ristretti insieme entrarono nel
porto.

Quivi Giannandrea chiese subito la comodità per ispalmare le sue
galere. E mentre egli se la passava tra il sevo e la brusca, Girolamo
Zane e Marcantonio Colonna che avevano mantenute in punto e spalmate
di fresco le loro galere, trattavano insieme nella camera di poppa
della capitana pontificia, quel che si avesse a fare in così grande
distretta. Zane mise fuori le lettere più recenti di Nicosia e di
Famagosta: e poi ne cavò una avuta ultimamente da Venezia, per la
quale gli comandavano che (appena unite fossero con lui le galere del
Papa e del re) dovesse andare a Cipro, combattere l’armata nemica,
e liberare il regno. Sopra le quali cose ragionando, diceva: Non
potere il Turco occupare e neanche mantenere il regno di Cipro se
non per mezzo dell’armata navale; perchè, essendo isola, soltanto dal
mare poteva ricevere eserciti e munizioni: dunque distrutta l’armata
nemica, cadeva di necessità l’impresa sua e si aveva vinta la guerra.
La speranza poi del vincere l’armata turca, essere ragionevolmente
fondata non solo sopra il maggior valore dei Cristiani, avendo quivi
raccolto il fiore dei cavalieri di tutta la Cristianità, ma anche sul
maggior numero delle galere, non oltrepassando cencinquanta quelle
del nemico; e quelle degli alleati dugento, oltre alle dodici galeazze
ed al miglior armamento di artiglierie e di rambate e di ripari, che
i Turchi non avevano. Quanto alla battaglia, essere allora non solo
utile ma necessaria per levare i Turchi da Cipro, qualunque fosse lo
stato di Nicosia. Imperciocchè o la piazza reggeva ancora, e molto più
reggerebbe col soccorso vicino: e quandanche per disavventura fosse
perduta, restava non solo la fortezza di Famagosta intatta, e tanti
altri luoghi forti dell’Isola; ma anche la sicurezza di ricuperarla:
perchè non potendo essersi perduta se non da due o tre giorni, e stando
essa dentro terra trenta miglia, senza dubbio i Turchi non sarebbero
tornati sì presto dal sacco di quella città tanto ricca, che non
si fosse potuto prima sorprendere alla spiaggia l’armata loro senza
difensori, e sottometterla. Con questo sol tiro di riscossa muterebbero
le sorti, diverrebbero vinti gli stessi vincitori, e libera la
soggiogata città.

  [3 settembre 1570.]

E certamente le cose quasi con lume di sovrumana visione trattate
da Girolamo, per volontà sua e pieno consentimento di Marcantonio
sarebbero successe in quel modo che detto aveva, se Giannandrea
chiamato a dire il suo parere non si fosse risolutamente opposto al
partito: e ciò con tanto magre e timide ragioni che, riscaldandosi gli
animi, si portava pericolo di grave dissidio. Il perchè Marcantonio,
volendo dolcemente tirarlo a miglior divisamento, pregato il generale
veneziano a ritirarsi, raccolse nella sua capitana il consiglio
privato dei soli ausiliarî: al quale intervennero Giannandrea, Pompeo
Colonna, il marchese di Santacroce generale delle galere di Sicilia,
don Giovanni di Cardona generale di quella di Napoli, Gianfrancesco
di Sangro marchese di Torremaggiore, don Cesare Davalos, e con altri
ufficiali superiori Sforza Pallavicino generale di terra, uomo assai
da tutti stimato. Quivi avendo Marcantonio dato libertà a quei signori
che ciascuno aprisse l’animo suo intorno alla domanda dei Veneziani
di andare avanti e di presentar la battaglia al nemico, prima d’ogni
altro rispose Giannandrea negativamente, dicendo: Esser la stagione
già inoltrata ed i luoghi al di là di Candia senza porto per l’armata
cristiana; quindi non doversi consentire l’andata. Le galere veneziane
quasi vuote di gente per la grande mortalità, le galere Turche al
contrario piene di buoni soldati: il numero dei legni dall’una e
dall’altra parte eguale: dunque non potersi presentar la battaglia. Dal
procedere o dal combattere non altro effetto poterne venire se non il
disfacimento della unica armata che allora aveva la Cristianità, o la
salvezza sua per una fuga vergognosa. Ma temperando l’opposizione col
mostrarsi nelle parole pronto a combattere se l’armata veneta fosse
in ordine, non tirava niuna conclusione positiva del suo discorso,
nè proponeva impresa alcuna, ma soltanto provocava i Veneziani
a risolversi presto, volendo alla fine del mese, tornarsene in
Sicilia.[53]

Appresso parlava don Giovanni di Cardona tanto da dire che egli
intendeva rimettersi in tutto e per tutto al parere di Giannandrea.
Ma il prode marchese di Santacroce, generale delle galere di Sicilia,
il cui nome sarà più volte onorato in questa storia, francamente
impugnando l’opinione dei due prenominati, e quasi tacciandola di
viltà, da buon soldato in poche ma solenni parole, diceva: Che delle
due cose richieste dai signori Veneziani non si poteva per debito
e per onore fare a meno di eseguir l’una, e prepararsi all’altra:
cioè andare avanti subito, e dare a tempo la battaglia.[54] La qual
sentenza sostenuta da Pompeo Colonna sarebbe forse prevalsa, se Sforza
Pallavicino credendo comporre le opinioni diverse non avesse messo il
partito di operare per diversione: volgersi ai Dardanelli e minacciando
il centro dell’imperio ottomano in parte così vitale e sprovveduta,
strappar via da Cipro l’armata nemica e salvare quel regno: nel viaggio
avrebbero facilmente potuto occupar Negroponte, e con quello in mano
ricuperare in ogni caso per via di trattati quanto avessero perduto per
forza d’armi.[55]

Per la qual cosa essendosi gli altri signori del consiglio accostati
chi al parere di Giannandrea, chi all’altro del marchese, chi al terzo
del Pallavicino, parve a Marcantonio che fosse tempo di dire il suo.
E quantunque forte si dolesse in suo cuore di tanto poca concordia,
e amaramente sentisse opporre gli ostacoli della stagione da quelli
istessi che avevanla lasciata passare; pure temperando l’indignazione
con misurate ed efficaci parole, senza offendere gli altri, nè fallire
al proprio dovere, fatto un po’ di silenzio parlò presso a poco
così:[56] Mentre noi a tutto agio, o signori, in questo sicuro e comodo
porto con dugento galere intorno consultiamo di quel che s’abbia a
fare, già gl’infedeli che hanno mosso la guerra nel Regno di Cipro sono
sotto a quelle fortezze in battaglia; già la capitale ha sostenuto
quindici assalti, il generale veneziano per andarla a soccorrere non
ha aspettato altro che il nostro arrivo. Noi siamo venuti, ed egli
oggi ci richiede di esser seco, di andar verso Cipro, e di dar la
battaglia agli inimici. E quantunque l’urgenza grande del bisogno
loro e nostro richieda piuttosto fatti che parole, nondimeno attesa la
diversità dei pareri, dovendo anch’io dir quel che penso, francamente
v’aprirò l’animo mio con quella brevità che l’argomento consente
e il tempo richiede. Noi non siamo venuti sin qua per assistere da
vicino al trionfo dei nemici nostri, per sentirne gli insulti, per
vedere scorrere impunemente il sangue dei cristiani; non per deludere
l’unica speranza degli amici sotto l’ombra d’un vano soccorso, nè per
tornarcene pieni di vergogna donde siamo partiti pieni di onore. Meglio
sarebbe stato non essere venuti: chè non avremmo oggi nè l’obbligo di
metterci alla battaglia nè la taccia di fuggirla. Ma dappoichè pur
ci siamo per nostra volontà e per comandamento dei nostri principi
coll’armi in soccorso dei Veneziani, noi non possiamo senza vergogna
nostra, senza aggravio degli amici, e senza derisione de’ nemici
tirarci indietro. Anzi come cavalieri e come cristiani siamo stretti
a metterci risolutamente ad ogni prova per dare soccorso a coloro cui
abbiamo promesso soccorso. Altrimenti daremmo ragione di dire, cosa
deforme e quasi inaudita! che due principi tanto grandi quanto il
Papa di Roma e il re di Spagna abbiano mandato aiuto ad un principe
minore per non doverlo aiutare: molto più stando essi a manco rischio
di fortuna, quando il terzo espone tutto sè stesso al pericolo, ed i
primi soltanto una piccola parte delle loro forze. E per questa istessa
ragione che i Signori Veneziani mettono nella guerra tutta l’armata
loro di cento quaranta vele, ed espongono il loro stato a pericolo più
grande, ed hanno in casa propria il nemico, è giusto che noi ausiliari
li soccorriamo dove essi sono, e come essi richiedono: non dove e
come a noi piace. Quindi quantunque a me privatamente parrebbe bella
ed utile impresa conquistar Negroponte e portar lo sgomento sino a
Costantinopoli con tutti quegli effetti che si possono immaginare qui
dal signor Sforza; tuttavia, trovandomi unito ai Signori Veneziani
per soccorrerli, quando essi mi richiedono che in vece del mio metodo
di operar per diversione io li segua nel metodo loro più semplice e
naturale d’andare colà ove è il teatro della guerra in Cipro, secondo
che essi sono costretti a fare per molte ragioni, e per obbedire agli
ordini del loro Senato, e mi dicono che ad essi non piace perdere il
proprio per acquistar l’altrui; allora non mi sembra dover mancare
alla domanda loro. Affinchè giammai per il tempo avvenire abbiano a
far lamento d’esser stati abbandonati anche dal generale del Papa, e
che per sua colpa sia perduto il regno di Cipro. E tanto più son fermo
in questa determinazione ed a voi pure, signori, la propongo, quanto
che ho ragionevole speranza della vittoria. Imperciocchè quantunque
la stagione sia avanti, nondimeno essa non è nè più nè meno inoltrata
di quel che sia oggi il tre di settembre: il qual termine ci dà tempo
sufficiente per andare a Cipro, e far la giornata, e ritornarcene
in quindici giorni, cioè molto prima della fin del mese, sino a che
l’eccellenza del signor Giannandrea dice di potersi trattenere. Ed
ancorchè si avesse a tardar di più, siccome il caso presente non è di
elezione ma di necessità, bisognerebbe acconciarvisi senza timore,
sapendosi che le galere tengono il mare non solo di settembre e di
ottobre ma anche di novembre, e per necessità in ogni tempo. Quanto
ai porti abbiamo nell’isola il meglio: perchè il golfo di Famagosta
protetto dalle fortezze è in mano dei nostri, aperto per noi: e le baie
di Limissò e di Pafo, e la cala di Larnaca, e la rada di Cerine e di
Lesca sono a riceverci. E come quivi sulla spiaggia aperta dell’isola,
senza tante comodità quante possiamo aver noi, già da gran tempo
dimora e non teme dimorare l’armata nemica, al modo stesso e meglio
potrà starci la nostra. Quantunque poi sia verissimo che l’armata
veneziana abbia patito gran mortalità, nondimeno la si è rifornita di
gente qui in Candia; ed ora le sue galere sono armate a sufficienza:
avendo ciascuna per lo meno ottanta uomini da combattere. Inoltre
ha marinari e remigi tutti cristiani, che all’occasione lasciato il
remo piglieranno l’armi, e saranno più che bastanti a far dichiarar
la vittoria dalla parte nostra. Finalmente il numero delle nostre
navi, come avrete già veduto e potete anche di qui ad una ad una
riconoscerle, sono galere di Nostro Signore dodici, di sua Maestà
quarantanove, della Signoria cento e ventisei, un galeone, undici
galeazze e sei navi: in tutto dugento e cinque legni di fila.[57]
Quelli del nemico, per aver più volte il general di Venezia mandato a
riconoscerli come anche noi appena arrivati abbiamo fatto, tenendoci
sempre avvisati dei movimenti loro e d’ogni altra occorrenza, non sono
più che cento e cinquanta galere disordinate alla spiaggia. Quindi
noi non corriamo alcun pericolo nel seguire i Veneziani in quel luogo.
Nè dobbiamo avvilirci a dubitar della vittoria. Con questo, cadremmo
nel peggior di tutti i danni: perchè noi con tutta l’armata nostra
renderemmo contennendo il nome cristiano agli amici ed ai nemici di
tutta la terra, anche nel tempo a venire, se trovandoci così vicini,
superiori di forze, e provocati dalle ingiurie, lasciassimo strapparci
un regno di mano e rifiutassimo la battaglia per la sola paura di esser
vinti. Dunque tutte le ragioni di guerra e di onore, i nostri alleati
e i nostri principi, ci inducono a procedere avanti, e a cercar la
battaglia in Cipro. Colà si aspettano di vederci (e ne temono) anche
i nemici; colà gl’invitti difensori e fratelli dell’istessa fede,
le matrone, le vergini, i fanciulli che per le chiese pregano sia
pronto il nostro soccorso. Famagosta si difende, ed ha buon presidio.
Molti cristiani stanno in arme sulle montagne. Gli infedeli soldati
e marinari o all’assedio, o al sacco di Nicosia. L’armata loro alla
spiaggia quasi abbandonata. Noi possiamo con un colpo risoluto e
franco distruggerla. E con l’aiuto di Dio, andandosi in giusta guerra
contro un cane mancatore di fede, io son certo conseguir quella
stessa vittoria che già noi tutti rallegrò cinque anni addietro nella
liberazione di Malta. Dunque, o signori, imitiamo i Veneziani, e andiam
con loro al soccorso e alla battaglia.»

Aveva appena Marcantonio finito di parlare, e già, come suole accadere,
alcuni facean plauso, ed altri non avendo che opporre tacevano, quando
ecco venire il general veneziano col voto dei suoi a richiedere
pubblicamente in consiglio che piacesse agli ausiliari di venir a
Cipro, secondo l’ordine che esso aveva da Venezia: unico rimedio alle
afflitte cose di quel regno. Della qual sua requisizione consegnò
in mano a Marcantonio Colonna una scrittura in questi termini.[58]
«Eccellentissimo signore. Havendo io tanto con questi signori del
consiglio, come li miei signori in Venetia, giudicato che nullo altro
rimedio habbi il regno nostro in Cipro et così l’ovviar alla ruina
che appresso potrebbe causarsi a questi nostri paesi, frontiera del
Turco, se non di andar a trovar la sua armata, ho voluto pregar et
essortar come fo caldamente V. E. come general di S. Santità et che
ha tanta autorità in quella di S. M. Cattolica che non voglia in
questo abbandonarci ma esser con noi: con speranza che il Signore Dio
aiuterà la sua causa. Et che considerato il numero de nemici et la
nostra armata non solo potemo et dovemo andar a combatterla, ma con
certa speranza della vittoria; et quando lo nemico non ci aspettasse
resteremo a S. Santità, et Maestà tanto obligati come la ragione
ci obliga, et non periremo indifesi. Pregando V. S., il signor Gio.
Andrea, et quelli signori che havendo vista la nostra armata lassino
navi galere et insomma faccino tutto quel che a lor pare, che tutto son
pronto di fare, sperando che non ci habbino a mancar in questa urgente
occasione, lasciandoci in preda di un nemico comune come questo, et a
V. E. bacio le mani. Di galera. — Girolamo Zane, Cap. Generale.»

Laonde aggiunto al voto di lui quello del general pontificio, che
era già la maggioranza dei tre principali, e sostenendoli Pompeo
Colonna, il marchese di Santacroce e quanti ivi aveva prodi uomini,
finalmente anche Giannandrea consentì di andare. Ma le sue peritanze,
i suoi sembianti, e le parole con che in pubblico e in privato, prima
e dopo discorreva, avevano già impresso così altamente nell’animo dei
Veneziani l’opinione che egli non aveva volontà di far nulla in questa
guerra, che per non mostrare sospetti sulla lealtà del Re, amarono
meglio di credere che Giannandrea non volesse pericolarvi le dodici
galere di sua proprietà. Talchè il generale della Repubblica venne a
termini di pregar Marcantonio a procacciare che Giannandrea accettasse
un deposito di duecentomila zecchini di Venezia per sicurezza della
sua persona e delle sue dodici galere,[59] e per riparare ai danni
che dalla battaglia potessero provenirgli. E quantunque Marcantonio
per non fare così grande onta a Giannandrea lo impedisse, pure i
Veneziani sempre si mostrarono pronti di andargli ai versi per veder
se lo potevano condurre volentieri alla battaglia. Quindi avendo
egli richiesto molte cose avanti di partirsi dalla Suda, fu di tutte
soddisfatto. Perchè primamente volle che se gli desse biscotto in
tutta la navigazione; e il veneziano concesselo anticipandone benanche
una grossa partita:[60] poi domandò che non mai dovesse navigare
di retroguardia per non aiutar le galere restie; e quantunque quel
travaglio fosse obbligo di tutti per turno, secondo le leggi di quel
tempo, pure se ne fece eccezione per lui: appresso non consentì a
intrecciar le sue galere con le altre dell’armata, ma volle tenersele
tutte spartite con seco dalla banda del largo; e quivi pure lo
lasciarono fare a suo talento, a patto però che in cambio di navigare
sull’ala diritta verso il largo del mare, si mettesse alla stanca verso
terra: e finalmente, ripetendo sempre che doveva tornarsene a casa alla
fine del mese, volle che si facesse all’estrema punta dell’Isola di
Candia, nelle acque di Settia, la mostra generale di tutta l’armata,
per accertarsi che le galere veneziane si fossero con gli uomini levati
dall’isola rifornite a dovere.


  [11 settembre 1570.]

VIII. — Così sciolsero i canapi dalla Suda: e quando sarebbe stato
da navigar speditamente al soccorso, bisognò dar fondo e perder tempo
nel passar la mostra e nel far contento Giannandrea. Quindi la mattina
delli undici settembre, messa tutta l’armata a ordine di battaglia,
e le galere sopra un’ancora al vento, discoste tanto tra loro quanto
bastava a impedire il passaggio delle genti dall’una all’allra, tirati
dentro li schifi, e fatte in più luoghi le guardie, andarono i generali
tutti in un tempo a rassegnarla.

Alla squadra del Papa, Marcantonio, Giannandrea, Sforza Pallavicino,
e Giacomo Celsi; questi istessi all’armata di Spagna; ed a quella di
Venezia da una parte Giannandrea e Sforza, dall’altra Marcantonio,
Zane, Santacroce e Francesco Duodo capitano delle galeazze: rividero
queste ultime il Cardona, Marcello Doria, Pallavicino e don Alvaro
di Bazan. Si trovò che le galere del Papa erano ben fornite, massime
di fanteria più d’ogni altra: quelle di Spagna con cento uomini da
combattere per ciascuna; e quelle di Venezia con ottanta: undici
galeazze, un galeone e sette navi, cioè dugento e due legni di linea,
con mille e trecento cannoni, sedicimila soldati, e più del doppio
remigi e marinari.[61]

  [16 settembre 1570.]

Tuttavia la mostra non piacque a chi era interesse che non piacesse:
e dopo le ragioni, restarono le partite più incerte che prima.
Giannandrea diceva non sentirsi sicuro; aver potuto i Veneziani
dall’una all’altra galera più volte nel tempo della mostra far
passare le soldatesche, per ingannare sul numero: diceva non essere
sufficiente l’armamento di ottanta soldati per galera. E ripetendo
i suoi parziali or una ora un’altra difficoltà, e negando oggi quel
che ieri concedevano, bisognò che Marcantonio pregasse Giannandrea a
mettere in scritto le sue osservazioni. Egli lo fece con quel manifesto
che porta la data del sedici settembre in Sittia, e che essendo stato
più volte pubblicato non fa bisogno ripetere, tanto più che dalle
risposte di Marcantonio si può ben ricavarne il sentimento.[62] Non
propone che difficoltà, biasima la mostra, dice che le galeazze erano
nel porto con le poppe in terra e li soldati a mare, e che potendosi
non solo da terra, ma pure da una galera all’altra, tramutar la gente
e farne vedere assai più che non fosse, neanche restava chiarito bene
delle forze: e in ogni modo essendo le galere veneziane scarse di
ciurme, e non avendo più che ottanta soldati per ciascuna, non credeva
veder ragione per avventurarsi alla battaglia. Due soli effetti buoni
al suo giudizio si potevano sperare dall’andata in Cipro; ma tutti due
senza fondamento: o che il nemico vedendo l’armata nostra risoluta a
combattere la stimasse più del dovere, e se ne fuggisse: ovvero che
volendosi ritirare, e andando esso al suo cammino, e gli alleati al
loro, venissero ad incontrarsi insieme per azzardo, senza che i Turchi
fossero nè preparati nè rinforzati. Ma non essendo credibile nè l’una,
nè l’altra di queste due cose, anzi dovendosi supporre che i Turchi
facessero buona guardia e stessero pronti, non poteva suggerire altro
se non che i Veneziani trovassero subito tremila soldati, e nelle loro
centocinquanta galere ne mettessero, oltre gli ottanta altri venti,
così che fossero cento buoni soldati in ciascuna: che però facessero
presto in due settimane, altrimenti alla fine dei mese sarebbe partito:
e del non essersi fatta cosa alcuna essi sarebbero in colpa. Se questo
non è sarcasmo non saprei qual sia. A Lepanto si vedrà quali fossero i
Veneziani con ottanta uomini, e qual Giannandrea con cento.

Letta e considerata siffatta scrittura, stimò Marcantonio doverglisi
dare risposta: e, come era suo stile parcamente di sè stesso parlando
in persona terza, definir la questione, rispondere alle difficoltà,
ribattere le accuse, e dimostrare quale dovesse essere la condotta
dei generali ausiliari in quella circostanza. Scrisse il suo manifesto
sotto il dì sedici settembre in questa sentenza.[63]

«Marcantonio Colonna è fatto generale delle galere del Papa alli
undici di giugno del mille cinquecento settanta, in aiuto dei signori
Venetiani. E quando detti Signori avevano da armare cento quaranta
galere; esso n’ebbe ad armare dodici. Il che fece contra l’opinione
d’ognuno in pochi dì, bisognandoli ancora per detto negozio levare in
Venetia molte difficoltà occorse nell’armare, per non s’esser mandate
le galere dai Signori veneziani conforme all’appuntamento pigliato
da Sua Beatitudine in scritto: anzi la maggior parte delle galere
che ebbe, erano vecchie e mal atte, lasciate nell’arsenale per le
peggiori, e la sua capitana propria era di quarant’anni. Li marinari
mal pratichi lasciati ancor loro per non essere a proposito. E così
si condusse alli sei di agosto in Otranto, dove ebbe lettere da Sua
Maestà Cattolica che, a requisitione di Nostro Signore, mandava in
aiuto pur dei signori Venetiani le quarantanove galere che aveva
in Italia, con commissione che Giovannandrea Doria che n’era capo
obbedisse il detto signor Marcantonio, e questo perchè confidava in
lui ch’averia il pensiero della sua armata e del suo servizio che
aveva avuto nel resto delle cose che se gli erano imposte. Per il che
Marcantonio si fermò in Otranto, stando di partenza per Candia, ed ivi
aspettò Giovannandrea quindici giorni: e con esso partendo da Otranto
alli ventidue di agosto giunse a Suda porto di Candia all’ultimo, dove
s’unì con l’armata venetiana. E subito fu richiesto da quel Generale
che si dovesse andare in Cipri ad incontrare l’armata nemica: e che la
Signoria ce lo comandava espressamente, et così ancora che l’onorasse
et obbedisse, sperando che da lui se daría ogni aiuto possibile. Ecco
dunque (senza essere in lega formata) in che modo venne Marco Antonio
ad essere generale di questa armata, messo da Sua Santità con ordine di
aiutare li signori Venetiani in ogni cosa possibile, da Sua Maestà per
confidare a lui li suoi servitii, e dalli signori Venetiani per essere
aiutati. Ecco la precedenza che a Marco Antonio toccava, rispetto alla
dignità del Papa. Che se Marcantonio fosse stato generale di questi tre
principi assolutamente per fare quella giornata e quelli effetti che a
lui fossero paruti, prenderia quel conto dell’esito di questo negotio,
che da tal sorta di gente si richiede. Ma quando esso averà aiutato li
signori Venetiani in quanto da loro è stato richiesto, averà complito
con loro e con l’ordine di Sua Santità che era di fare tutto il
possibile in servitio loro; e quando haverà tenuto conto del servitio
di Sua Maestà, avrà corrisposto alla confidenza che di lui si è tenuta.

»Hor veggasi se questo si è fatto. Quanto a Sua Beatitudine et alli
signori Venetiani si crede che abbino da essere soddisfatti nella
diligenza di armare le galere, et con esse haver quindici giorni
aspettato in Otranto l’armata di Sua Maestà Cattolica, et in Candia
quindici li signori Venetiani ad intrecciare l’armata, et remediarla:
nè mai lasciatili, seguendoli, et aiutandoli a quanto si sia potuto.
E richiesto da loro del combattere, continuamente esservi concorso.
Quanto a Sua Maestà (non ostante che Giovannandrea non fosse di parere
d’andare ad incontrare l’armata nemica) Marco Antonio volse che si
andasse sempre, mentre di ciò era richiesto dal general venetiano.
Nel che si persuade haver fatto a Sua Maestà singolarissimo servitio:
prima perchè in questo modo si è conservata all’armata di Sua Maestà,
la reputatione senza la quale nè armata di terra nè di mare non possono
fare cosa buona; e questa era persa, quando si havesse detto che per la
prefata armata fosse restato il combattere. Poi perchè non si conviene
alla prudenza di un tanto Principe che mandasse un aiuto per non
volere arrischiarlo, quando quello che l’haveva da ricevere si metteva
a rischio molto maggiore: come era questo che Sua Maestà perdesse
quarantanove galere, e la Signoria centoventi galere, sei navi e dodici
galeazze e quattordici schirazzi,[64] appresso a questo le loro isole
e riviere marittime; oltre che tutto il danno, che da questo negotio
fosse potuto accadere per non combattere, tanto di perdita di paese e
città, quanto di perdere le occasioni che erano in piè d’una lega tanto
utile alla Cristianità, tutto si fosse mai potuto dire che per questo
rispetto di non volere concorrere l’armata di Sua Maestà al combattere
fosse accaduto. Nè vale a dire che l’andare a combattere fosse a
certa perdita: perchè chiaro era che l’armata nemica non era unita con
Luccialì e con gli altri corsari ponentini; nè mai passò il numero di
centosessantacinque galere, e la nostra era di centottanta e dodici
galere grosse che valevano per molto più, nè manco essi potevano haver
sei navi così buone come le nostre.

»Et ancorchè la nostra armata non avesse tutta quella gente da
combattere che saria stata necessaria, non era però che quella di Sua
Maestà non l’havesse; e così quella del Papa, massime di soldati;
e che quella della Signoria non havesse al meno ottanta uomini da
combattere, e molte galere più, oltre a tante galere particolari che
erano in questa armata, con tanta nobiltà, come erano li capitani di
Sua Beatitudine, di Sua Maestà, Generale venetiano, Sforza Pallavicino,
il generale di Napoli e sua padrona, generale di Sicilia, et altri
capitani particolari, li due provveditori veneziani, il governatore
degli sforzati, e il capitano del golfo, molto più artiglieria, e
più gente armata che non usano li Turchi, gran quantità di fuochi
artificiati, e tutte le ciurme di Sua Santità e della Signoria
armate a combattere: sì che con l’aiuto di Dio, andandosi contro un
cane mancator di fede, non si dovesse al certo sperare di conseguir
vittoria. In modo che si è fatto il servitio di Sua Maestà: e si
è detto, non senza tanto poca cautela, che non si risparmiasse in
simile negotio un’armata ausiliatrice come la sua. E seguitò ancora
Marcantonio li signori Venetiani, con offerirsi a quanto fosse
possibile conforme all’ordine di Sua Beatitudine nel condiscendere a
quello che dalli signori Venetiani fosse richiesto.

»Sicchè Marcantonio crede che stante la qualità del suo generalato,
habbia fatto et complito al debito dell’honor suo tanto con Sua Santità
e Sua Maestà, quanto con la signoria di Venetia. Nè del modo della
navigazione deve egli render conto: poichè non essendo marinaro, se
bene nella sua galera si facevano li segni di partenza e di ogni altra
azione, era per risolutione fatta da altri che in apparenza facevano
lui guida, ma era sempre guidato.[65]

  [17 settembre 1570.]

Il qual manifesto come fu distribuito agli ufficiali dell’armata si
ebbe l’effetto che Marcantonio aspettato n’aveva. L’istessa sera nel
consiglio generale, ribattute le difficoltà, e rinnovata la domanda
di andare avanti, Giannandrea non potè ricusare. Poco dopo, che erano
cinque ore di notte, tutta l’armata salpava da Sittia per andare
a Cipro. Già verso quell’isola navigava Luigi Bembo, ed altri tre
capitani con quattro galere spalverate, perchè quanto prima riportasse
di là nuove certe. L’armata per l’istesso rombo seguiva in questa
ordinanza: all’antiguardo il provveditor Querini con dodici galere,
al centro Marcantonio con le dodici del Papa, Giannandrea con le
quarantanove del Re, Girolamo con trenta di Venezia, Pallavicino
con venticinque, Celsi con venti, e Canale con venti, le quali si
ripartivano anche nei corni della battaglia; al retroguardo Sante Trono
governator dei condannati con sedici galere, Francesco Duodo con dodici
galeazze compreso il galeone, e Pietro Trono con quattordici navi:[66]
tutte insieme dugento e dieci legni di fila, sufficientemente armati, e
ben disposti per navigare e per combattere. Marcantonio aveva il primo
luogo, non il supremo comando: i Veneziani gli si erano volontariamente
sottomessi per la riverenza allo stendardo suo; ma Giannandrea,
che avrebbe dovuto più d’ogni altro osservarlo, manifestamente
contendevagli la dignità, e faceva le viste di volersegli eguagliare.
Imperciocchè, secondo la disciplina militare di quel tempo, dovendosi
nella notte solamente dalla galera del supremo comandante accendere
il fanale di poppa per segno a tutti di seguirne la navigazione ed i
comandi, Giannandrea volle esso pure mettere il lume, a grandissimo
oltraggio di Marcantonio e dei Veneziani: e questi con insigne
longanimità mostravano di non farne conto per il pubblico bene.[67]
Andando adunque l’armata con vento favorevole, sebbene per tenersi
unita facesse vela co’ soli trinchetti, si trovò dopo tre giorni
aver filate trecento miglia, ed esser presso a un isoletta chiamata
Castelrosso nella Caramania,[68] non più che cencinquanta miglia da
Cipro. Colà nella notte del ventuno di settembre, levatasi gran fortuna
di mare e vento freschissimo di scirocco, dettero fondo i capitani di
Venezia e del Papa; alcuni ormeggiati nella rada del Cáccamo, altri a
ridosso delle isole Celidonie: solo Giannandrea si tenne sui bordi al
largo; non piacendogli mettersi quivi entro di notte e con tanta gente,
come egli disse; o aspettando, come dissero gli altri, che lo scirocco
rinforzato il dovesse portar via verso ponente, tanto che paresse
costretto ad abbandonare i compagni.[69]


  [9 settembre 1570.]

IX. — Intanto però i Turchi che abbiamo lasciato all’assedio di
Nicosia, dopo i quindici assalti del mese d’agosto, non stettero
indarno nè a dar le mostre, nè a scrivere i manifesti; ma sempre
strignendo l’oppugnazione: e spianata la strada per montar sui
baluardi, cominciarono a salire. Prima provandosi se loro riusciva di
piantarvi alcuna banderuola, e poi tra cinque o sei giorni mettendosi
agli assalti di forza, che furono molti ed ostinati. Dopo la scarica
delle artiglierie e moschetterie, venivano coloro sulle piazze dei
bastioni sin presso le semigole, e quivi in molti azzuffamenti a
corpo a corpo combattevano, usando ogni arte ed ogni strumento di
guerra: tra l’altre cose mi sia permesso ricordare l’uso continuo
dei fuochi artificiati, e specialmente di certi sacchetti di polvere
che i Turchi gettavano in mezzo ai drappelli dei difensori, senza che
questi potessero per qualche tempo nè scuoterseli nè spegnerli; e guai
a chi ne sentiva la vampa: ma poi infilzati con le picche e rovesciati
destramente tra le file degli aggressori, divenivano armi eccellenti
contro a loro. Per i quali combattimenti, mantenuti da mattina a sera
sopra le piazze dei baluardi, come sul campo d’alcun torneo, chiaro si
vedeva che i Turchi intendevano a consumare a poco a poco i difensori
secondo il modo dall’istesso Mustafà tenuto a Malta; ed i Cristiani
a menare in lungo quanto potessero: quelli ritenuti dal valore degli
assediati e dal timor delle mine; questi dalle promesse degli amici
e dalla speranza del soccorso. Ma quando non restavano in piedi più
che quattrocento soldati nella piazza, e l’armata cristiana non moveva
ancora da Candia, Mustafà persuaso di potere finalmente compire senza
pericolo il suo disegno, cavò fuori dall’armata sua ventimila uomini
(lasciando le galere sue sguarnite e in preda ai nostri, se avessero
saputo coglierle improvvisamente alla spiaggia delle Saline come ne
aveva detto Marcantonio)[70] e feceli venire trenta miglia lontani
dal mare a Nicosia per dare con tutte le forze l’ultima stretta
all’assediata città.

Era la mattina delli nove di settembre, e i difensori ridotti a
così picciol numero stavano risoluti a combattere, senza affatto
pensare alla resa: ma quasi presaghi di non doversi mai più rivedere
affettuosamente salutandosi e raccomandandosi a Dio, si mettevano
ciascuno per ordine alla sua posta, massime alle traverse dei quattro
baluardi sbrecciati, che da altrettante nobili famiglie dell’isola
si nomavano il Davila, il Costanzo, il Tripoli e il Podocattaro.
Poco di poi Mustafà moveva all’assalto generale con tant’impeto e
tanta fierezza quanta se ne poteva da barbare genti in così grande
giornata aspettare. I difensori dei tre primi baluardi, ributtato con
infinita uccisione il nemico, confidavano potersi almen per quel giorno
sostenere: se non che allora i presidiarî del Podocattaro, essendo
molto pochi rimasti, erano costretti a dare indietro e lasciare ai
Turchi la piazza e la ritirata del baluardo medesimo.

Non già che i soldati Italiani ed i nobili cipriotti di combattere
valorosamente cessassero mai; ma abbandonati dalle reclute del
contado, che impaurite si posero a fuggire, e rincalzati dai nemici,
che in quella parte venian crescendo sempre di numero e di ardire,
si trovarono finalmente tolti via dalle poste. Entraronvi allora le
schiere assalitrici, e al primo loro ingresso levossi incredibile
rumore, insieme a fuoco, fumo, polvere e orrende voci di minaccie e di
percosse. Il conte di Rocca co’ suoi fratelli, ed i principali baroni
dell’Isola co’ loro famigliari corsero al Podocattaro per ovviare alla
perdita della piazza: e sebben quivi combattendo con quel valore che
a nobili cavalieri nell’estremo pericolo della patria si conveniva,
facessero prove di gran prodezza, non pertanto avviluppati dalla
moltitudine dei Turchi l’un sull’altro massacrati caddero. Indarno
i vecchi, le donne e i fanciulli dalle fenestre, disperatamente
difendendo il passaggio delle strade, lanciavano sassi, tegole, arnesi;
indarno Greci e Latini mischiaronsi alla riscossa: perchè quei prodi,
i quali negli altri baluardi con virtù memoranda ancora combattevano,
furono presi alle spalle, e tutti sul campo oppressi. Allora
carneficina e violenza per la città: quaranta mila persone messe al
filo della spada, quindici mila alla catena; sei vescovi, tutto quasi
il clero greco e latino, il luogotenente del regno scannati; spogliate
le chiese, aperte le tombe, oltraggiati i fanciulli e le donne: e per
tre giorni saccheggiata la città, si arricchirono i barbari di tante
spoglie, che dalla presa di Costantinopoli sino a quel giorno giammai
esercito ottomano non aveva tra sacre e profane rapitene maggiori.
Tra i nostri statisti morirono onoratamente combattendo il colonnello
Palazzo di Fano, Niccolò Paleotti bolognese, Camillo de Gaddi da Forlì,
Battista da Fano, Carlo Malatesta da Rimini, Giannandrea da Spello,
Fabrizio da Imola tutti capitani di provata virtù, e seco loro quasi
un migliaio di soldati marchiani e romagnoli che sotto le bandiere di
San Marco alla difesa di quei lontani baluardi avevanli seguiti.[71]
E qui, per dare un saggio delle cose successe in Cipro e mostrare con
qual animo stessero quegli infelici in aspettazione del soccorso, io
non posso per grandissima compassione tacere il caso che gli scrittori
contemporanei concordemente raccontano.[72] Volendo Mustafà mandare
al suo signore in Costantinopoli le primizie delle più ricche e care
cose che nella presa città trovate si erano, fece caricare sopra tre
bastimenti molte gioie, e ricchi ornamenti, e gran quantità di oro e di
argento, e insieme uno scelto drappello di fanciulli avvenenti, e di
giovani donne bellissime d’aspetto e di nobiltà principali, affinchè
il Sultano d’ogni cosa avesse la miglior parte. Salpata l’àncora,
quando i tre legni cominciarono a pigliare il vento, una di quelle
infelici donne, scolpitasi nella fantasia la miseria che da così
dura e perpetua servitù se le apparecchiava, e conoscendo che nessuno
schermo avrebbe potuto opporre alla sfrenata libidine di qualsivoglia
nelle cui mani fosse capitata, in cotale estremo e doloroso termine
avvisando che le fosse lecito ogni rimedio, si deliberò di francar
per sempre sè e le compagne da vergogna e dolore. Ondechè con sottile
artificio, senza che mai alcuno abbia potuto saperne il modo, entrò
col fuoco nelle munizioni della polvere, e in men che si pensa mandò
a pezzi sè stessa, la nave, gli amici e i nemici. Mustafà ed i suoi,
quando da alcuni pochi che nuotando si salvarono, riseppero il caso, ne
sentirono pietà. E Giannandrea allora imperturbabile a Candia scriveva
i manifesti contro il soccorso, e chiedeva la mostra dell’armata per
non procedere.[73]


  [22 settembre 1570.]

X. — Stava pertanto l’armata cristiana, come è detto, nelle acque
della Caramania al ridosso degli scirocchi, la notte del ventuno
settembre, quando Luigi Bembo, per quelli stessi venti prestamente
rivenuto dalla sua scoperta di Cipro, scendeva a gran passi nel govone
del General veneziano, e a lui partecipava la perdita di Nicosia,
ed i particolari che si sono avanti raccontati. Alle quali notizie
Girolamo Zane turbatosi tutto (e chi non si sarebbe turbato tra quei
successi, e con da presso Giannandrea?), invece di tenersele, come
facilmente poteva, celate; invece di spingere al più presto l’armata
cristiana secondo la già presa deliberazione a Cipro contro l’armata
nemica, che esser doveva allora più ingombra e meno apparecchiata;
invece di cogliere quelle occasioni favorevoli che certamente potevano
venirgli innanzi, pubblicò le notizie: e volle che un’altra volta si
mettesse in consiglio (che era quanto dire in discordia) il partito da
prendere. Ondechè la mattina seguente, raccoltisi insieme i capitani di
fanale nella generalizia del Papa, parlò Girolamo Zane, che stante la
perdita di Nicosia non gli pareva più tempo d’andare a Cipro, essendo
finito il bisogno di soccorrerla, nè avendo forza a ricuperarla: che
rispetto a Famagosta non gli mancava modo di provvedere, restandogli la
fortezza intatta, e il mare aperto: soltanto richiedeva gli ausiliarî
di mettersi con lui ad alcuna impresa di terra, per togliere al
Turco qualche fortezza, e compensare col guadagno da una parte quel
che dall’altra già s’era perduto. E dibattendosi là tra i generali
se fosse meglio assaltar Negroponte, o la Morèa, o altri luoghi
dell’Arcipelago, Giannandrea mostrò la qualità della stagione, la
vicinanza della Vallona e di Durazzo all’Italia, e la difficoltà che il
Turco avrebbe di soccorrere queste due piazze così lontane da Cipro e
da Costantinopoli, cioè dall’armata e dalla capitale sua; e si offerì
alla espugnazione delle medesime: dicendo che quivi avrebbe potuto
più lungamente trattenersi. Nel qual parere essendo tutti gli altri di
buona fede convenuti, e rimettendosi Marcantonio in questa come in ogni
altra cosa alle richieste del General veneziano, restò fermo il partito
del ritorno.[74]

  [25 settembre 1570.]

Così la stessa sera del ventidue di settembre, nell’ordine che erano
venuti, virarono di bordo dalle isole Celidonie a Rodi, e il dì
seguente a Scarpanto, che è isola grossa tra Rodi e Candia, donde
ha nome il mar Carpazio: ma in quei rivaggi avendo trovato burrasche
da varie parti, e rifoli di vento, e grosso mare, dovette ripararsi
ciascuno come meglio gli venne. Giannandrea diè fondo a Tristamo, che
è il miglior porto dell’Isola; Marcantonio e Girolamo a Portograto; le
navi, le galeazze ed una grossa partita di galere veneziane si tennero
volteggiando a mare due giorni, prima di potersi ricongiungere alle
conserve: e una galea di San Marco apertasi in mezzo, andò perduta
con tutta la gente. Il giorno venticinque, parendo a Giannandrea che
il tempo volesse rabbonarsi, e che l’armata dei Veneziani e del Papa
dovesse essere già scorsa avanti insino a Candia, si levò da Tristamo
per seguirla: se non che trovato fuori il vento e il mare contrario al
suo viaggio si rivolse indietro all’istesso porto, allora appunto che
Marcantonio e Girolamo, ricercando pur di lui, gli venivano incontro.
L’avversa fortuna traevali tra quelle tempeste, ed in quel porto di
tristo nome a rompere l’ultimo filo della concordia. Imperciocchè
allora Giannandrea, uscitagli di mente la promessa della Vallona e
di Durazzo, e stringendo i capi del discorso intorno alla perdita di
Nicosia, alla stagione autunnale, alla prevalenza dei Turchi, alla
debolezza dei Veneziani, ai venti, ai pericoli, ed agli ordini segreti
di Madrid, stimò aver ragioni più che sufficienti per andarsene a suo
talento. Il perchè, fatta una consulta privata co’ suoi capitani, mandò
Marcello Doria alla generalizia pontificia, pregando Marcantonio che si
facesse mediatore tra lui e i Veneziani, e gli ottenesse buona licenza
di ritirarsi. Come restassero a tal domanda in siffatto luogo e tempo
pieni di stupore i Papalini e i Veneziani, lo pensi chiunque ha fatto
assegnamento sulle promesse di Giannandrea. Ciò non pertanto frenando
la indignazione, rimandarono Marcello a fargli sapere quanto tutti
desideravano averlo seco loro in compagnia nelle imprese da farsi, o
almeno sino al Zante; ove, se non avesse voluto più oltre continuare,
lo avrebbero liberato dall’impegno.

  [26 settembre 1570.]

Quietò Giannandrea per quel giorno: ma la mattina seguente, sapendo
essersi già ben avanzato per l’ambasceria di Marcello, fu in persona
a trovare Marcantonio, con animo di persuaderlo delle sue ragioni.
Or questi vedendo da una parte il campione di Spagna risoluto a fare
il piacer suo, e dall’altra il general veneziano risolutissimo a
non volersene contentare, pensò non si poter disciogliere siffatto
nodo se non da quelli che ne tenevano i capi. E ben era dura cosa
l’aver aspettato tanto un soccorso così inutile; e il vedersi poscia
abbandonati nell’avversa fortuna, in onta a tutte le promesse.
Perciò inchinossi a pregar Giannandrea di venir seco a bordo del
General veneziano, e di intendersi con lui. Laddove entrati ambedue
con buon numero di cavalieri, e tra essi don Carlo Davalos, cugino
di Marcantonio e condottiero di fanterie nell’armata di Spagna, non
fu mai possibile mettere d’accordo Girolamo e Giannandrea: dicendo
il secondo volersi partire col beneplacito del primo, e il primo
volersi ritener l’altro al modo istesso. Sicchè dopo avere que’ due a
grand’infingimento gareggiato tra loro di cortesie, ciascun di essi si
rivolse al mediatore perchè venisse in favor suo. Quindi Marcantonio
stretto dalla pressa che ambedue gli facevano; e vedendo più giustizia
e maggior beneficio pubblico a contentare i Veneziani, affinchè quel
principio di Lega non si rompesse; memore eziandio dell’autorità
che a lui concedevano le lettere del Re, e giudicando che quello non
fosse caso nè di navale battaglia nè di pratica marineria da stare al
parere di Giannandrea, cortesemente per finir la disputa con queste
istesse parole, prese a dirgli:[75] — Se io vi comanderò che restiate,
il farete voi? — Al che l’altro fattosi sopra sè, e a grado a grado
crescendo di tuono nella risposta, diceva: — Se questa dilazione
non portasse infinito danno all’armata ed ai regni di Sua Maestà, se
io avessi ordine libero di poter senza occasione di combattere o di
altra fazione che lo meriti lasciar di provvedere alla conservazione
dell’armata, se non fosse questa domanda di così poco rilievo com’è
d’accompagnare chi può andar da sè; anche, Signore, se voi aveste
l’autorità di don Giovanni d’Austria da potermelo comandare: allora
ubbidirei. — Che anzi, ripigliava il primo, misurando i termini per
rispetto all’Altezza di don Giovanni, Che anzi, questo è il caso in
che io mi trovo qui avere tanta autorità quanta n’aveva sull’armata
don Garzia di Toledo; e quanta n’avrebbe sua Altezza, come successor
di don Garzia, se qui fosse presente. Però voi, Signore, ora avete
ordine d’ubbidirmi, e di seguire il mio stendardo. — Ma Giannandrea che
posto di fronte all’autorità non si sentiva bastante nè a riconoscerla
nè a rifiutarla, volse agli assurdi, e soggiunse: — Se questo fosse,
potrebbe vostra Eccellenza far giustizia sull’armata di Sua Maestà,
come ho fatt’io sin ora; senza mescolarsene di niente l’Eccellenza
vostra. — Sì bene, replicò Marcantonio, avrei potuto, e potrei ancora
far giustizia di pena e di premio sull’armata di Sua Maestà che è
posta all’ubbidienza mia: ed è per buona grazia che ho lasciato e
lascio farlo all’Eccellenza vostra. — E quegli di tratto: — Perdoni,
Vostra Eccellenza, che è in errore; perchè le lettere del Re non le
conferiscono tanto libera autorità. — E qui, fatte venire e leggere le
lettere del Re,[76] Marcantonio rivolgevasi a Giannandrea, dicendo: —
Io ho mostrato le lettere mie: vostra Eccellenza ha udito l’ordine del
Re perchè ubbidisca al generale del Papa e ne segua lo stendardo. Se
Ella per avventura ha ordini in contrario, li mostri. E prima sappia
che, qualora sua Maestà comandi a me di ubbidire a lei, il farò ben
volentieri e sempre che mi si mostri l’ordine. — Giannandrea però che
non avea carte da mettere in pubblico, sì bene da tenersi gelosamente
nascoste, replicava con più parole che ragioni, come sempre avviene
a chi sia colto in fallo; e finalmente conchiudeva: — Gli ordini di
sua Maestà li conosco ben io, io solo ho il comando dell’armata, io
farò quel che meglio mi parrà: e chiamando i miei capi di squadre, il
marchese di Santacroce e don Giovanni di Cardona, si potrà sentir da
loro, cui abbiano ordine di obbedire. — L’altro tuttavia soggiungeva: —
Per quel che riguarda le galere del Re, a me basta comandare a vostra
Eccellenza, e per suo mezzo agli altri: ma se pur vogliamo sentir
qualcuno, venga il marchese di Torremaggiore, ed egli ne ripeta gli
ordini avuti dal Vicerè di Napoli. — Giunti a questo segno don Carlo
Davalos essendo stato lungamente in silenzio a udire, e non avendo
per bene che si chiamasse il marchese assente, quando egli era quivi
presente, entrò per terzo nel discorso, e disse: — Io altresì tengo
carico di fanterie sulle galere del Re, come il marchese; e non ho
ordine d’ubbidire ad altri che al signor Giannandrea. — Alterossi a
siffatta scappata Marcantonio, per vedersi contraddetto da un giovane
ufficiale, suo parente, e non richiesto in materia così grave: sicchè
vedendosi ormai solo contra due, quanto più gli apparve misleale il
rincalzo, tanto meno da passarsene: e per un istante guardato in faccia
don Carlo, sdegnosamente gli disse: — Molto poco mi cale, Signore, di
comandare a voi. — Ed egli di rimando: — E a me, molto meno di ubbidire
vostra Eccellenza. — Don Carlo! esclamò allora Marcantonio, mi hanno
ubbidito uomini maggiori di voi! — E già don Carlo levatosi in piè
ferocemente cominciava: — Questo no!... — Quando Giannandrea venuto in
mezzo, non volendo che colui passasse più avanti, coprì la di lui voce
e persona con la voce e persona sua, gridando anch’esso: — Don Carlo!
io dico, don Carlo! Mostrate coi fatti che voi mi ubbidite: tacete e
levatevi subito di qua! — Questi inchinatosi con grande osservanza a
Giannandrea, prese congedo tacendo; intanto che Marcantonio raddolcito
dicevagli nel vederlo partire: — Così dunque, signor don Carlo, non
avete avuto vergogna di parlare ad un vostro fratello maggiore con
tanto poco rispetto! — Ma al tempo stesso colui era già fuori di
camera, e Giannandrea d’impaccio. Imperciocchè, giunti a quei termini,
indarno il Doria si fece a ripigliare la pratica per condurla a suo
talento; che era al postutto di voler che gli altri si chiamassero
contenti a loro dispetto. Marcantonio sentendosi in obbligo di non
offendere i Veneziani, ed impotente a condurre gli Spagnoli, dichiarò
sull’atto a tutti quei signori in pubblico che egli intendeva finire di
intromettersi più in niuna cosa che riguardasse l’armata del Re.[77]
E fatto segno al general veneziano che egli non l’avrebbe giammai
abbandonato, uscì dai bandini e tornossene alla sua capitana, fermo
di mantenere il proposito, e di lasciare la dimane quell’infausto
porto.[78]

Prima però di sciogliere le vele, ripensando alla disciplina militare
che a lui sembrava violata dalla oltracotanza di don Carlo, con parole
misurate e calzanti, senza mettere in mezzo nè il nome nè l’autorità
del Pontefice, scrisse a Giannandrea questo biglietto.[79]

  «Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore.

»Havendo considerato quel che oggi il signor don Carlo Davalos ha detto
in presenza mia, di Vostra Eccellenza, del general di Venezia, et di
quelli altri Signori, mi è parso convenire al servitio di Sua Maestà
ed alla dignità che io tengo di dire a Vostra Eccellenza che faccia
ritenere la persona di esso signor don Carlo, fintanto che Sua Maestà,
inteso quel che oggi è passato, commandi quel che le farà servitio;
perchè fatto questo io non vi ho altro che fare. Pertanto la prego che
per servitio di Sua Maestà e per rispetto della mia dignità lo voglia
così eseguire: che così farei io stesso in servitio suo, quando ne
fossi da lei richiesto, stando Vostra Eccellenza nel luogo mio. Et le
bacio le mani. Dalla mia galera capitana nel porto di Tristamo a dì 26
di settembre 1570. Servo di Vostra Eccellenza

                                               »MARCANTONIO COLONNA.»


  [27 settembre 1570.]

XI. — Così l’armata di Spagna restò il medesimo giorno divisa dalla
pontificia e dalla veneziana nel porto di Tristamo, per aver voluto
Giannandrea fare il piacer suo, secondo gli ordini secreti del Re. Il
quale dappoi non ne fece alcun risentimento, anzi ebbelo sempre più
caro: a tale che non guari dopo lo nominò generale con preminenza sopra
gli altri generali delle galere di Napoli, di Sicilia e di Spagna; e
di più non dubitò proporlo l’anno seguente nella terna del generalato
supremo di tutta la lega:[80] e quantunque escluso, rimandollo alla
armata insieme con don Carlo Davalos, procurando ad ambedue l’onore del
comando: all’uno l’ala diritta dell’ordinanza, e all’altro il governo
delle navi: donde gli effetti funesti che appresso si leggeranno.

Intanto però Giannandrea congedatosi dal Generale di Venezia con
molte cirimonie, e inchinatolo a ogni passo dallo scannetto di poppa,
chiamato pizzuolo dai Veneziani, sino alla scaletta di fuoribanda, si
ridusse a bordo della sua galera: ove sommamente lieto di aver concluso
il negozio a modo suo, fermo alla spalliera, fè palese agli amici la
vittoria riportata e l’abbassamento del Generale romano; uscendo ancora
a motteggiarlo con questo frizzo:[81] — Pensava Marcantonio farsi
onore a Cipro con la roba mia. — E quantunque Giannandrea si lasciasse
andare a siffatto discorso sul ponte della sua galera, senza che vi
fosse persona di fuori, tuttavia ciascun deve intendere l’enormità
di rattizzare le passioni de’ suoi con le proprie, a pubblico danno,
e con sì gran travisamento di giudizio. Imperciocchè al postutto non
intendeva là Marcantonio a farsi onore con la roba altrui: ma sì bene
a liberare i Cristiani dal coltello dei Turchi con le forze comuni
messe all’ubbidienza sua; che sarebbe stato onore e debito di ciascun
cristiano il farlo, come fu colpa e vergogna il rifiutarlo. Tanto
più per parte di Giannandrea, le cui galere condotte a prezzo dal Re,
promesse ai Veneziani per soccorso, e poste sotto lo stendardo papale
per combattere, non potevano più dirsi, come egli diceva, roba sua:
ma di tutti coloro ai quali erano obbligate per quegli effetti che
egli fare non voleva. Ma in quella vece pensava conservarsele a fin di
caricare in Candia moscadelli e malvasia in buon dato, e di scorrere
dappoi nell’Arcipelago: non già per rifocillar di generosa bevanda quei
Greci tapini che erano pur cristiani al par di lui, ma per farvi presa
di genti, e rifornir di ciurme le sue galere.[82]

Certo è che non ostante la gran premura di voler presto essere in
Sicilia, indugiossi in Candia cinque giorni a caricar quei vini:
ma non trovo che egli eseguisse il divisamento delle rappresaglie
nell’Arcipelago. Forse le tempeste che gli fecero sferrare molte
galere,[83] forse l’orrore di tanto eccesso, il ritennero. Ma in
argomento così grave sopra gli usi e gli abusi della marineria di quel
secolo, non posso io restarmi dal chiarire che fossero le così dette
rappresaglie: ed il farò con le parole gravissime di san Pio, donde
tutta si dimostra la qualità del male e del rimedio. Ecco il documento
in volgar nostro rivolto.[84]

Precetto di Pio Papa quinto.

«Quantunque ciascuno sappia che questa guerra or ora incominciata
contro l’empio tiranno dei Turchi non solo si faccia per trastornar
dal nostro capo il pericolo imminente delle sue continue invasioni,
ma anche per rimettere in libertà, e al quieto esercizio della
fede, ed alla professione franca del nome di Gesù tante migliaia di
cristiani che sotto la feral tirannide dei Turchi servile e misera
vita conducono, tuttavia non sono mancati taluni tanto immemori della
cristiana fratellanza che assaltando le terre dei Turchi nostri nemici
hanno fatti schiavi pur i cristiani di quelle parti, e spogliatili dei
loro beni e sostanze li hanno incatenati nelle galere, messi al remo,
ed anche imposto il taglione per il loro riscatto. Donde ne è seguito
che i fedeli redenti col sangue di Gesù Cristo, i quali avevano con le
loro orazioni e voti affrettata la venuta e la vittoria dei Cristiani,
tali cose abbiano avuto a patire dai Cristiani istessi loro fratelli
e vincitori, quali appena dai Turchi aspettar si potevano. Laonde
noi, che quantunque immeritevoli, teniamo in terra il luogo di Lui che
venne dal cielo a sciogliere le nostre catene, affinchè liberati dalle
mani dei nostri nemici quinci innanzi senza timore serviamo a lui,
temendo giustamente non forse poco curando la carità e la dilezione
impostaci da Lui verso i nostri figli, provochiamo l’ira sua contro di
noi e contro la navale Armata nostra, dovendo provvedere a siffatto
disordine, per tenore delle presenti deliberatamente commandiamo che
niuno quinci innanzi, o militante nella sacra alleanza, o chiunque
si voglia, ardisca pigliare a forza i cristiani, nè costringerli
contro lor voglia a remigare quando ben li pagasse, nè imporre il
taglione, nè spogliarli dell’avere: ma in quella vece fraternamente
ed amichevolmente come conviensi alla pietà cristiana, li tratti, e
gli uomini coi figli e con le spose di ciascuno lascino andare a lor
talento. Però dichiariamo che tutti e singoli coloro i quali ardiranno
violare questa nostra costituzione debbano sul fatto essere incorsi
nella pena della scomunica, sentenza già data, dalla quale, men che
nell’articolo della morte, non possono esser prosciolti altrimenti
che da Noi o dai nostri Successori: vogliamo inoltre che essi stessi
i delinquenti siano puniti dai superiori loro di pena severa e grave,
avuto rispetto alla qualità del mancamento. Comandiamo ancora a tutti
e singoli i superiori tanto della predetta Armata quanto dei luoghi
indicati, ai quali spetta o per il tempo futuro spetterà, che per
quanto hanno caro meritar la grazia di Dio e la nostra benevolenza,
questo Nostro, o per dir meglio Divin comandamento e precetto,
nei luoghi della loro giurisdizione; o vero dovunque approderanno
i comandanti dell’Armata, o delle squadre dei principi alleati lo
faccino pubblicare, affiggere, tradurre nelle lingue che si parlano nei
detti luoghi, e dalle dette persone, bandire per tutta l’Armata e da
tutti inviolabilmente osservare, sotto le pene che a loro sembreranno
convenienti, affinchè possano sperare da Dio ottimo massimo i premi
eterni, e da noi giusta lode per l’adempimento fedele di questo dovere.
Vogliamo di più che nel presente Motuproprio basti solo la nostra
segnatura; e questa dovunque faccia fede nel giudizio, e fuori, non
ostante qualunque regola e costituzione apostolica in contrario: e
che se ne tirino molti esemplari a stampa e quelli sottoscritti da
alcun Notaro pubblico ed insieme muniti del sigillo di qualunque Curia
ecclesiastica o di qualche Prelato, tanta fede facciano in ogni luogo
quanta ne farebbe il presente original Motuproprio se fosse prodotto e
mostrato. Nonostante checchessia in contrario. Piace per Motoproprio.»

Ecco dipinta al vivo per la mano maestra di un Santo la pietà fallace
di alcuni malvagi militanti nella sacra alleanza, che sotto specie di
far la guerra ai Turchi spogliavano e manomettevano i Cristiani, con
tanta sfrontatezza, che a frenarli fu bisogno di un decreto papale
in tutte le forme e in tutte le lingue, come quello recitato. Da ciò
giudichi chi intende il principio dell’alleanza in compagnia di cotali.

Ma per ritornare a Giannandrea, la sua condotta nella guerra di Cipro
spiacque a ciascuno in ogni parte men che nella corte di Madrid.[85]
Il cardinal Morone, di quella esperienza e virtù che tutti sanno,
quantunque nato suddito di Spagna, se ne dolse pubblicamente.[86] Il
cardinal Pacecco, principalissimo ministro del Re in Roma, ripetè più
volte che egli non sarebbe mai ben servito finchè l’armata sua fosse
in mano di chi ha galere proprie; perchè questi per loro interesse
schivano quanto possono di metterle a pericolo, nè vogliono distruggere
l’armata del Turco; perchè il nutrimento loro è l’armata di lui.[87] E
san Pio tanto disgusto ne prese che per più lettere se ne richiamò al
re di Spagna;[88] e di ciò non contento, spedì a Madrid Pompeo Colonna
perchè a voce dicesse quel più che non voleva scriverne:[89] ed avendo
Giannandrea per discolparsi mandato a Roma Marcello Doria, questo
non fu mai voluto ricever dal Papa.[90] L’unica sua difesa furono e
sempre saranno gli ordini secreti del Re: ma quanto possa valere in
materia così grave ed evidente, con tanta ruina del cristianesimo in
Levante, tanto danno dei Veneziani a Cipro, e tanto pericolo di tutta
l’Italia; massime con quel modo perfido di mostrarsi sempre pronto
in parole, esser sempre restio nei fatti, e rimandarne sempre agli
altri la colpa; il dica chi ha senno, o chi si sente d’imitarlo. I
suoi parziali, e alcuni scrittori, smagati al miraglio della corte
spagnuola, non potendo dare ragione a lui, si contentano levarla agli
altri. Dicono che i generali vennero a rottura, che le loro istruzioni
portavano difficoltà, che le corti non erano d’accordo. Ma i generali
di Venezia, le istruzioni e gli ordini del loro governo dicevano chiaro
una cosa sola: ite a Cipro, e combattete l’armata nemica. Quelli di
Roma ancor più chiaro dicevano; ite, soccorrete i Veneziani dove e come
essi richiedono. Il disaccordo, la rottura, le istruzioni equivoche
restano in mano d’un solo: di colui che ha le cifre segrete, di colui
che deve combattere e non combattere, esporre l’armata e non esporla,
obbedire e non obbedire. A lui, ed alla corte da lui rappresentata,
tutto il torto; anche per implicita confessione di quelli che nel
difenderlo si contentano di dargliene la metà. Ciò non pertanto io non
sarei nullamente maravigliato di veder comparire alcun campione alla
sua difesa: perchè ancor dura il vezzo di riguardar l’opere sue sotto
il manto della real grazia che le coprì, come se non avesse mai potuto
dare in fallo. Si provino costoro, producano paurosi documenti, citino
qualche storico che non potè nè vedere nè alzare il misterioso velo;
mettano innanzi qualche avviluppatore che, non volendo accusare uno,
calunniò tutti; e se fa bisogno, rinneghino gli archivi di Roma, di
Venezia, di Firenze, di Montecassino, non meno che quelli di Spagna:
farà sempre contro a loro l’isola di Cipro che per non esser soccorsa
cadde abbandonata nelle mani dei barbari, i quali ancora dopo tre
secoli la possiedono; sarà mai sempre vero che Giannandrea inteso a
magnificare la potenza del nemico, e a vilipendere la nostra, sconfortò
l’animo delle genti e ne guastò il valore, o come oggi dicono,
demoralizzò l’armata;[91] si avrà per sua confessione medesima che egli
fu l’ultimo ad arrivare, quando ogni menomo indugio era fatale: che
giunto sul campo, si oppose al procedere; chiamato a battaglia, non
volle combattere; richiesto di soccorso, prese congedo; pregato, si
scusò; comandato, disubbidì. E se questo non basta, seguanlo da presso,
riguardino ai favori del re Filippo che già lo destina primo tra i
generali di Spagna, e successore in luogo di Don Giovanni d’Austria;
s’affissino al resto dell’opere sue, sino alla famosa giornata del
sette ottobre a Lepanto. Là tra tanta gente di tante nazioni tutte
ricoperte di verace e cristiana gloria una sola vergogna dovette
rattristare il cristianesimo, e fu la sua.


  [2 ottobre 1570.]

XII. — Marcantonio al contrario rappresentando non già le gelosie, nè
le ragioni di stato di cupa e interessata corte, ma in vece la sincera
fede e l’imparzial devozione del Pontefice romano al pubblico bene
della cristianità, ripresa l’abituale sua prudenza e moderazione (da
che per comune testimonianza soltanto il repentino caso del ventisei
avevalo alquanto potuto smovere) si accostò sempre più amorevolmente ai
Veneziani, lor mostrando l’animo suo tutto conforme nelle parole e nei
fatti alle istruzioni di Roma di non doverli giammai abbandonare. Ecco
come i due capitani secondo gli ordinamenti diversi delle due corti
si comportavano. E i Veneziani posero amore grande a Marcantonio e
tanta fiducia in lui, che non pareva loro poter giammai in alcun tempo
trovare amico più fedele e più pronto ad ogni loro piacimento.[92]
Laonde insieme con lui il giorno ventisette salparono da Tristamo,
insieme il dì seguente presero terra a Sittia, insieme schivarono
d’incontrarsi più con Giannandrea, oltrepassarono il porto di Candia,
e alli due di ottobre si ormeggiarono alla Canèa. Infausto ritorno!
scherniti da’ nemici, pressochè traditi dagli amici, perseguitati
dall’avversità della fortuna, dalle tempeste del mare, e dalla rabbia
dei venti. A Giannandrea nel tragitto sferrarono quattro galere, tre di
Napoli e una dei Negroni:[93] due galere di Marcantonio naufragarono,
tredici dei Veneziani si persero, ed altre più andarono traviate sino
a capo Dionda nella costa meridionale dell’isola. E sebbene non vi
fosse stata gran mortalità di gente, pur restarono tutti così perduti
di animo e di forza, che non era più a riconoscersi quella robusta
marineria, e quella fanteria intrepida che poc’anzi aveva chiesto ad
ogni risico la battaglia. Niuna cosa più contrista gli uomini nella
sventura, che l’essere abbandonati da chi s’aspettavano aiuto.

Ciò non pertanto il general veneziano prese a rimettere l’armata,
a sbarcar le milizie, e ad ordinare i soccorsi e le provvigioni
per Famagosta, per Candia, e per le altre isole del dominio. E
Marcantonio a riparar le sue galere, e a scrivere gli strani ed
infelici successi di quella campagna a Roma, a Venezia e a Madrid.
Si conservano ancora nell’Archivio di sua casa lettere, giornali,
documenti, relazioni, cifre, e scritture d’ogni maniera mandate o
ricevute dal Papa, dal Doge, dal Re, dall’ambasciatore di Spagna, dal
Granduca di Fiorenza, dal Cardinal segretario di Stato, e da altri
personaggi principalissimi, nella secreta confidenza dei quali tutta
traspira la candidezza e la fede dell’uomo eccellente. Là è gran mèsse
a raccogliere per la storia di questi tempi: e di là ricavo che niuna
cosa tanto ribadisce nelle sue lettere, anche al re Filippo, quanto
la doppiezza e gli ordini segreti di Giannandrea. E quantunque nelle
lettere al Re destramente faccia le viste di credere che questo sconcio
non fosse venuto per sua volontà, pure avvisa che il solo sospetto
produceva tristi effetti, diffidenza tra i Veneziani e discredito
all’armata reale. E ciò ben chiaro si mostra da un brano di lettera
al Re con la seguente conclusione:[94] «In fine per tutto il tempo
di questa campagna Marcantonio non ha avuto che dire con Giannandrea
perchè gli fosse dato nulla, ma solo per queste due ragioni: la prima
è che non avessero giammai a sapere i principi del mondo che Vostra
Maestà avesse dato ordini contradittorî per la stessa impresa, come
non li ha dati; e l’altra che tenendo Marcantonio la medesima volontà
e desiderio di Giannandrea per la conservazione dell’armata di Vostra
Maestà, si doveva fare in modo da conservarle pur la riputazione, e
che giammai pel tempo a venire non si potesse dar taccia ai ministri di
Vostra Maestà di aver lasciato di aiutare e di favorire una causa tanto
cristiana come è questa. Tale è in breve la sostanza di quel che è
occorso; e quantunque ognun sappia che siffatte pratiche possono esser
dipinte e raffazzonate con molto artificio e molti colori, tuttavia è
parso a Marcantonio parlare col suo Re e signore senza mistero la pura
e schietta verità, con poche e veritiere parole.»


  [Ottobre — Dicembre.]

XIII. — Intanto il General veneziano aveva fermo levarsi da Candia
per isgravar l’isola dall’incomodo che le apportava il dover nudrir
tanta gente; ed anche per indurre coll’esempio l’armata nemica a
ritirarsi, perchè quei luoghi potessero quietare. Ondechè, lasciato
quivi il Quirini con le galere consuete della guardia, egli col resto
dell’armata se ne venne a Corfù in compagnia di Marcantonio. Il quale
vedendo che i Veneziani disarmavano, fece lo stesso; riserbandosi
soltanto quattro galere rinforzate: e congedatosi da loro, che a
gara non rifinivano di onorarlo e ringraziarlo, sciolse le vele per
ritornarsene a Roma.[95]

Se non che nel breve tragitto da Corfù ad Ancona ebbe così avversa
la fortuna, e tante maniere di travagli e di presentissimi pericoli
quanti nelle lunghe navigazioni di molti anni incontrar si potrebbero:
calamità, tempeste, venti, folgori, peste, fuoco e nemici, posero
a durissime prove la sua costanza.[96] Entrata nelle galere da lui
condotte la infermità che era nelle veneziane, patì acerbissime pene, e
vide gran numero dei suoi tocchi di peste e morti. Partitosi da Corfù
ai ventotto di ottobre, fu da terribile tempesta gittato a Casopo: e
non mai racconciandosi il tempo, quivi ritenuto un mese a consumarsi
di fame e di stenti. Sciolte le vele alla prima aura favorevole, ecco
scatenarglisi contro la rabbia di un libeccio burrascoso, e gittarlo
a naufragare in Schiavonia: altri de’ suoi morirgli attorno di febbri
acute e di lunghi patimenti, altri tornarsene a Corfù, altri ad
ogni rischio sopra piccole barche farsi tragittare nella Puglia per
potersi in qualche modo curare. Tra questi fu Domenico de’ Massimi,
nobile romano e capitan di galera, che dopo il naufragio con alquanti
suoi famigliari scampato a Lecce, quivi rifinito da tanti disastri,
alli quattro di decembre morissi. Ho alle mani il codicillo della
sua ultima volontà, donde ora traggo alcune notizie che fanno al mio
proposito.[97] Domenico prima di tutto lascia scudi venti per dare
suffragio alle anime di tutti quei remiganti che, di buona voglia
presi a Roma, erano morti nel naufragio della sua galera: lascia scudi
trenta al padre Cappellano dell’abito di sant’Agostino; altrettanti
alla Camera Apostolica per le spese della guerra contro Turchi: scudi
cento al capitan Paolo Martelli di sua provvisione, del tempo che
prese a servire sino a tanto che la galera dètte in terra: ordina che
qualora la sua fregata fosse mai caduta in poter degl’infedeli, siano
riscattati a sue spese i marinari, e pagato il prezzo della medesima
al padron Girolamo Laudati.[98] Così il capitan de’ Massimi[99] e
tanti altri suoi pari romani e veneziani terminarono il corso della
infelice spedizione a Cipro. Oltracciò si legge che essendosi la
squadra pontificia per tanto tempo trovata nel paese dei nemici; o
dalle loro terre, o dai loro bastimenti in alcun parziale riscontro,
aveva preso prigionieri. Domenico nel predetto codicillo ne lascia
diciassette, tutti turchi: quattro siano liberi, cioè Annibale, Adir,
Orlandecco, e Marzio: una bambina turca di Scarpanto sia messa alle
orfanelle di Roma: siano consegnati ai ministri del Papa l’albanese
e il greco, ambedue rinnegati; e il turco naturale chiamato Curdo: un
puttin negro, per nome Salem, al signor Piero de’ Massimi suo nepote:
Cadir africano a suo fratello Orazio: uno schiavo ed una schiava grandi
di Barno al signor Paolo Orsini: ed alla signora Vittoria Naro sua
moglie quattro schiave bianche ed una negra, questa chiamata Barlecca,
e quelle Fatima, Miriam, Zenà e Zoaba, insieme con una donzelletta e un
fanciullino figliuoli dell’ultima; pregando la detta signora contessa
a far quanto si conveniva perchè tutti si battezzassero, e le donne si
maritassero ne’ suoi feudi: che se per avventura coloro la ponessero in
fastidio e non volessero battezzarsi, pensasse a venderli.

Tratterò a miglior tempo questa materia degli schiavi turchi e del loro
trattamento nello Stato papale.

Ora torno a Marcantonio che, ricoveratosi a Cattaro, neanche quivi
entro al porto può trovar riparo alla contrarietà degli elementi onde
è perseguitato. Stando surto presso alle mura della città, durante un
grosso temporale, tra la pioggia diluviosa e lo spesso guizzar dei
lampi e l’eco lungamente fragoroso dei tuoni, la saetta folgore diè
a gran furia nella sua capitana, e misela a fuoco. Il legno vecchio
di quarant’anni, arido e impegolato prestamente fu tutto in fiamme;
terribile spettacolo, e rare volte veduto. Guizzava il fuoco su per le
sartie sino al calcese, bruciavan vele e manovre, le antenne ardenti
cadevano sul ponte; e come arrivava il fuoco alle poste degli archibugi
e delle artiglierie, sparavano da sè in mezzo all’incendio ove per
caso erano volte. Là in mezzo scorrea Marcantonio a sferrar le ciurme
e a far disbarcare le genti: e vedendo che il fuoco s’accostava alla
Santabarbara, preso in braccio lo stendardo usciva ultimo dalla galera.
Indi a poco, accesa la munizione della polvere, con orrendo strepito
tutta disfatta in minutissimi pezzi disperdevasi nei gorghi del mare.
Questa fine ebbe la famosa galea quadrireme del Fausto.[100] Ciò non
pertanto fu così destro Marcantonio che, aiutato dal cavalier Gaspare
Bruni, potè salvar tutte le genti di capo e di remo, e portar seco lo
stendardo e le scritture a terra, e dopo ricuperare l’artiglieria. E
quantunque avesse in quel disastro perduto ogni privato arredo, per
fino l’argenteria della sua camera, e non avesse altri panni che in
dosso, pure imperterrito nei pericoli, e nullamente sgomentato nè delle
tempeste del mare, nè degli ardori del fuoco, riprese il mare con una
galera veneziana di Francesco Trono, menando seco le genti che gli
restavano.[101] Da Cattaro passò a Gianizza perseguitato sempre dalla
fortuna, e sempre superiore alla medesima: in quel passaggio tanto gli
crebbe il vento contrario, che i piloti giudicarono non potersi salvare
se non pigliando terra a Ragusavecchia, ove dettero fondo a due ancore,
e si rafforzarono con un capo in terra. Ma provando in quel luogo una
rivolta gagliarda di scirocco, col quale aveano navigato il giorno,
deliberarono scorrere avanti e dar fondo al ridosso del capo Molino,
tre miglia lungi da Ragusa. Colà tuttavia la galera travagliava assai,
ed era bisogno alla ciurma star sempre col remo ad aiutar l’àncora che
non arasse sul fondo: sebbene con poco effetto, perchè il freddo della
notte, e l’acqua che minuta pioveva, e gli stenti continui prostrate
avevano le forze di quelle misere genti. Ma pur la galera ad ogni modo
si manteneva.

Parendo nondimeno al sotto-comito che, per la grande tiragna[102]
che essa galera pativa, sarebbe stata maggior sicurtà legare a piè
dell’albero un provese che slava al netto di prua, tostochè ebbe
allentato quell’aiuto da una parte, e prima che potesse raccomandarlo
all’altra, la galera impetuosamente dètte in terra: prendendo così
lungo tratto, che ciascuno potè sbarcare in secco, senza danno delle
persone, ma con la perdita del naviglio e grandissimo pericolo di
ciascuno, per esser quivi presso al confine molte masnade di Turchi
in arme. Quindi Marcantonio condusse nel silenzio della notte i
compagni del naufragio alla piccola casa del molino: e spartite che
ebbe le guardie alla porta, alle scale e all’entrar delle stanze,
aspettò il giorno. All’apparir del quale, posto il fuoco alla galera,
e squadronate le genti, marciò ordinatamente verso Ragusa: ove poi
seppe che un migliaio di Turchi non tardarono due ore ad essere in quel
molino ove aveva passata la notte, ed ove ardevano ancora di giorno
l’ultime tavole del suo bastimento.[103]

I Ragusei raccolsero a grande onore il general pontificio e tutta
la sua brigata; e li fornirono di cavalli, e di ogni altra comodità,
finchè a loro piacque dimorare in quella terra: dopo di che, essendosi
Marcantonio licenziato, passò in Ancona, e sul principio del seguente
anno giunse a Roma. Il Pontefice lo rivide con piacere più che dir si
possa grandissimo, e gli parlò parole di gratitudine e di amorevolezza,
dichiarandosi di lui pienamente soddisfatto: sì perchè aveva patito
tanti disastri per obbedirlo, come per le buone relazioni che gliene
avevano date i Veneziani, il Doge, e gli ambasciatori. E vie meglio
sopra di lui fondava le sue speranze di quella lega, che tanto
ardentemente desiderava: e che la provvidenza disponeva doversi non da
altri condurre a compimento se non dal più generoso e leal capitano,
come nell’altro libro sarà narrato.




LIBRO SECONDO.

CONCLUSIONE DELLA LEGA E BATTAGLIA DI LEPANTO.


SOMMARIO DE’ CAPITOLI.

I. — Ministri della Repubblica del Re e del Papa a trattare i capitoli
della alleanza. — Prima sessione. (1º luglio 1570.) — Domande e
risposte. — Offensiva e difensiva. — Le censure. — Altre difficoltà. —
Condizioni di Venezia al principio del 1571.

II. — Il generale della lega in mare e in terra, e il suo luogotenente.
— Don Giovanni d’Austria e Marcantonio Colonna. — Ristretto della
capitolazione. (Febbraio 1571.)

III. — Congresso solenne del 7 marzo alla Minerva. — Articolo
addizionale improvvisato dal Granuela. — Nuove discordie. — Fermezza
dei Veneziani. — Il Papa torna senza conclusione a Palazzo (7 marzo.)

IV. — Scioglimento dei trattati. — Marcantonio spedito a Venezia. —
Opinione dei Veneziani. — Destrezza e ragionamenti di Marcantonio. —
Sua orazione in senato per la lega. (Aprile 1571.)

V. — Istanze di Marcantonio. — Suo ripiego per togliere la difficoltà
del danaro. — Conduce il senato alla lega. — Sottoscrizione de’
capitoli a Roma. (25 maggio 1571.) — Medaglia.

VI. — Armamenti. — Pompeo Colonna luogotenente generale. — Onorato
Gaetani generale delle fanterie. — Cencio Capizucchi maestro di campo;
sua patente. — Capitani delle compagnie. — Nobili venturieri. — Tutti i
Papi del cinquecento tennero galere proprie. — Perchè non n’ebbe Pio V.
— Difficoltà per condurre galere da Venezia. — Capitoli per le dodici
galere dell’ordine di santo Stefano. (Maggio 1571.)

VII. — Venuta delle galere a Civitavecchia. — Loro nomi e capitani.
— Ordini di san Pio. — Marcantonio a Civitavecchia. — Mostra delle
galere, e delle fanterie. — Partenza. — Arrivo a Napoli. — Rissa
sanguinosa in quella città tra papalini e spagnoli. — La squadra
pontificia prima d’ogni altra a Messina. (20 luglio.)

VIII. — Movimenti dell’armata turca e della veneziana. — Sebastian
Veniero. — Pericoli di lui. — Rimedî suggeriti da Marcantonio.
— Sebastiano in gran travaglio si rivolge a Messina. — Incontro
dell’armata veneziana e pontificia. — Feste a Messina. — Amorevolezze
dei Veneziani verso i Papalini. — Maltalento degli Spagnoli. — Veniero
vorrebbe partirsi. — Marcantonio lo ritiene. — Soperchieria degli
Spagnoli contro i Papalini. — Tumulto militare. — Giustizia sopra gli
Spagnoli. (7 agosto.)

IX. — Arrivo di don Giovanni a Napoli. — Sue qualità. — Riceve lo
stendardo della Lega. — Lettera del Granuela. (13 agosto.) — Pio V
lo sospinge a Messina. — Vi arriva alli 23 di agosto. — Consiglio di
guerra sulla reale alli 24. — Nomi dei principali capitani, e loro
propositi. — Deliberazione del consiglio. — Ardore dei Veneziani. —
Freddezze degli Spagnoli. — Lettera in cifra di Marcantonio. — Sua
difficile posizione. — Due lettere, a san Pio e a san Francesco Borgia.

X. — Altre sessanta galere veneziane a Messina. — Altre questioni. —
Rimedi di Marcantonio. (2 settembre.) — La mostra. — L’armata veneziana
difetta di fanterie. — Don Giovanni vuole fornirla con soldati del Re.
— Rifiuto di Sebastiano. — Mediazione di Marcantonio. — Consenso dei
Veneziani. (8 settembre.)

XI. — Altro consiglio di guerra. — Doppiezza dei consiglieri spagnoli.
— Voto favorevole di Sebastiano e di Marcantonio per far giornata. —
Sentenza di don Giovanni. (10 settembre.)

XII. — La partenza da Messina. (16 settembre.) — Religione all’armata.
— Ordine del navigare. — Passaggio a capo Colonna. (21 settembre.) —
Segni nel cielo. — Navigazione a Corfù. (26 settembre.) — Aggiramenti
degli Spagnoli. — Arrivo alle Gomenizze. — La prima scaramuccia
dei Romani contro i Turchi. (2 ottobre.) — La perdita di Famagosta
conosciuta all’armata.

XIII. — Tumulto dei soldati del Re sulle galere veneziane. — Il
Veniero impicca un capitano e tre soldati del Re. — Turbamento di don
Giovanni e del suo consiglio. — Decisione contro il Generale veneziano.
— Tumulto in tutta l’armata. — Marcantonio chiamato al consiglio. —
Suo parere e ragioni prudentissime. — Trova il modo di comporre le
differenze. — Partenza per la Cefalonia. (3 ottobre.)

XIV. — Pareri dei Cristiani e dei Turchi intorno alla battaglia. —
Esploratori da una parte e dall’altra. — Ambedue le armate decidono di
combattere. — I Cristiani la sera del 6 ottobre spuntano la Cefalonia,
e passano la notte nel canale. — Si appressano alle Curzolari. —
Descrizione di questo luogo. — Ordinanza dell’armata. — Le galeazze
alla fronte. — Rassegna dell’armata cristiana e della turchesca,
galere, galeazze, navi, cannoni, soldati, marinari e remieri. — Mossa
dell’armata nemica. — Muta il vento. (7 ottobre.)

XV. — Il primo movimento di Giannandrea. — Rompe l’ordinanza. — Il
Turco sfida i Cristiani con un tiro. — Risposta di don Giovanni. — Lo
stendardo di battaglia. — Assoluzione delle colpe. — I generali. — Il
ballo. — Ferocia dei Turchi all’assalto. — Le galeazze. — Scontro delle
armate. — Le due reali investite tra loro per prua. — Marcantonio al
terzo banco. — Pertaù al focone. — La capitana di Venezia in pericolo.
— La pontificia ributta Pertaù. — Concia altre galere. — Opprime i
figli di Aly. — Conquista una galera. — Assalta il bassà per fianco.
— Piglia insieme con don Giovanni la reale nemica. — Prosegue la
battaglia sull’ala sinistra. — Astuzia di bassà Scirocco. — Prudenza
del Barbarigo. — Una squadra dei Turchi è vinta alla spiaggia. —
L’altra è circondata. — Orribile azzuffamento. — Vittoria dell’ala
sinistra. — Morte del Barbarigo, e suo elogio in una lettera di M. A.
— L’ala diritta. — Giannandrea e Luccialì. — Il primo s’allontana:
il secondo fugge, opprimendo nel suo passaggio diciassette galere
cristiane. — Sentenza di san Pio sui fatti di Giannandrea.

XVI. — Cause della vittoria ed effetti generali. — Notizie speciali
delle galere di Marcantonio. — La capitana ributta Pertaù, opprime il
re di Negroponte, vince un’altra galera. Conquista l’almirante del
Turco insieme con don Giovanni. — Lettere di Marcantonio a diversi,
e ai cardinali Gaetani e Spinosa. — La Padrona e suo soccorso alla
battaglia. Salva Ascanio della Corgnia. — La Soprana e la Serena
pigliano e inseguono galere nemiche. — La Reina sostiene la sua
generalizia. — L’Elbigina conquista la Capitana di Rodi. — La Grifona
vince i famosi corsari Caracossa ed Aly, ricupera la Fiorenza e la
Piemontesa. — Vittorie dell’altre galere. — Ruggiero Oddi ripiglia la
Capitana papale perduta alla Gerbe. — Lettera di M. A. a san Pio. —
Condotta nobile dei soldati romani rispetto all’interesse. — Esempj del
Caetano. — Lettera di un soldato. — I monsignori Odescalchi e Grimaldi.
— I cappuccini. — Visione di san Pio. (7 ottobre.)

XVII. — Rivista dei generali sul campo. — L’armata nel porto di Platèa.
— Abbracciamento dei tre generali. — Tempesta nella notte. — Gran
mortalità di nemici. — Don Giovanni e Marcantonio un altra volta sul
campo. — Consiglio e ritirata. — Novero delle prede. — Partizione. (8
ottobre.)

XVIII. — Marcantonio a Messina. (1 novembre.) — Entra nel porto di
Napoli con la sua squadra e le vinte galere. (13 novembre.) — Verso
Roma per le poste a fin di trattar col Papa. — Notizie e feste di Roma.
— Apparecchio di trionfo. — Maltrattamento delle fanterie per alcuni
ufficiali. (18 novembre.) — Le galere, i cannoni, e i prigionieri a
Civitavecchia. — Il Papa a sue spese arma alcune galere in quel porto.

XIX. — Apparato di Roma per il ritorno di Marcantonio. — Lettera di
san Francesco Borgia. — Arrivo di M. A. in Roma, suoi modi e costumi.
— Gli artieri, le milizie, i prigionieri, i patrizi, i dignitari, gli
stendardi di Roma. — Il passaggio di Marcantonio. — Le iscrizioni. —
Il Campidoglio. — Castel Santangelo. — Il Vaticano. — Marcantonio e
san Pio. — Luminarie (4 dicembre.) — Feste all’Aracœli. — Orazione del
Mureto. — La colonna rostrata. (13 dicembre.)

XX. — Feste della Chiesa cattolica. — Medaglie di san Pio con sopravi
l’ordinanza navale. — Considerazioni. — Gelosie degli Spagnoli per i
trionfi di Venezia e di Roma. — Fanno deporre il Veniero. — Mettono in
mala vista Marcantonio. — Conseguenze funeste. (31 dicembre 1571.)




LIBRO SECONDO.

CONCLUSIONE DELLA LEGA E BATTAGLIA DI LEPANTO [1571.]


  [1571.]

I. — Si saranno taluni per avventura maravigliati che le nostre armate
sul principio della Lega dopo vinte tante difficoltà per unirle
a Candia, e sì duri travagli superati a voler che approdassero in
Cipro, siansi finalmente ritirate dalla guerra senza battaglie e dal
soccorso senza profitto: derise dai nemici, di danni afflitte, dalle
discordie lacerate, e percosse dalle tempeste. Io qui non ripeterò
la dimostrazione delle cause che gittaronle a rompere in siffatti
frangenti, perchè già ne ho detto avanti. Ciò non pertanto bisognandomi
ancora per molto tempo fra le angustie dei medesimi scogli navigare,
devo sin dal principio far cauti i lettori a lasciar da parte ogni
maraviglia se pure in questo libro (in fronte al quale sta scritto
il gran nome di Lepanto) vedranno le cose dell’armata cristiana
procedere al modo stesso con che furono principiate. Agúzzino essi
l’ingegno per discernere il vero, sebbene occulto, carattere di queste
alleanze: donde altrettanto grande comparisce la paura che avevano i
Cristiani dei Turchi, quanto la rivalità che nutrivano tra loro: più
nocevole, perchè più celata. Nel vero, concorrenti a Cipro, giammai non
combatterono col Turco; ma vicendevolmente sempre contesero: ed alleati
a Lepanto, tanto si osteggiarono tra loro per un anno che furono al
punto d’azzuffarsi insieme; ed un giorno solo di battaglia ebbero col
nemico. Pur sarebbe bastato quel dì a mutar la faccia semibarbarica
dell’Europa, se avessero almen dopo il trionfo potuto quietare. Ma non
ostante la comune necessità, e l’universal desiderio, la lega giurata
e la mediazione di un santo, non arrivarono mai ad esser concordi. Anzi
ingelosirono più nella vittoria: e finirono a quella dissoluzione che,
copertamente causata dagli uni, e non potuta a niun patto cessare dagli
altri, fece perder tutto il frutto che poteva sperarsi allora allora
dalla grande giornata. Indi pure si può comprendere quanto tra loro si
nimicavano. Ma di mezzo a siffatto contrasto più bella e più gloriosa
rilevasi l’intramessa del Pontefice e de’ suoi capitani, ai quali la
posterità farà ragione dei beneficî ricevuti: e gli storici romani
levandosi all’altezza di così degno argomento, troppo travisato dalle
altrui passioni, potranno una volta con la penna rimetterlo in chiaro,
come i loro maggiori lo posero con la virtù.

Aveva il santo Padre, sin da quando il Turco assaltò primamente Cipro,
deliberato di condurre i principi maggiori della Cristianità ad una
lega per la difesa comune del Cristianesimo, alla quale esso stesso si
offrì avanti a tutti per zelo di religione, subito i Veneziani se gli
accostarono per bisogno di aiuti, appresso il re di Spagna si lasciò
trarre per contentarnelo,[104] e finalmente gli altri principi lo
udirono per iscusarsene. Ma tra gli Spagnuoli e i Veneziani, sebbene
dovesse riuscire difficilissimo il concludere e il mantenere la lega,
non fu gran fatto malagevole, sotto la mediazione del Papa, cominciarne
le pratiche: talchè invitati ad aprire in Roma le conferenze, vennero
le commissioni di pieno potere da Venezia all’ambasciadore ordinario
Michele Soriano, cui poscia fu aggiunto Giovanni Soranzo; e da Madrid
egualmente all’ambasciadore don Giovanni di Zuñiga, e ai due cardinali
spagnoli Antonio Perrenotto di Granuela, e Francesco Pacheco: con
i quali il Papa deputò da sua parte sette cardinali, che furono
Giovanni Morone, Michele Bonelli, Giovanni Aldobrandini, Carlo Grassi,
Pierdonato Cesi, Girolamo Rusticucci e Prospero Santacroce, oltre al
cardinal Giampaolo Chiesa surrogato alla morte del Grassi; uomini tutti
di valore e di giudizio eccellenti per negozio così grande.

Il Pontefice riconosciutili tutti, gli ebbe a sè il primo di luglio
del mille cinquecensettanta: e con parole gravi e piene di saviezza
parlò loro delle cose occorrenti, ed esortolli a concludere prestamente
quell’alleanza dalla quale ciascuno doveva ripromettersi la difesa e
della Cristianità e degli Stati loro contro la potenza del Turco, che
minacciava a parte a parte opprimerli tutti.[105] E avendo i deputati
risposto con parole onoratissime, mostrando pronta volontà ad ogni suo
consiglio e piacimento, si ristrinsero insieme a negoziare presso il
cardinal Bonelli. Gli arcani colloqui degli ambasciatori sono in gran
parte pubblicati per le stampe,[106] nè io intendo fermarmici troppo:
ma solo darne un cenno per tenermi alle ragioni dell’argomento mio; e
farmi strada a metter fuori per la prima volta alcune notizie che molta
luce spargono e più particolari aggiungono in questa negoziazione, per
ciò che v’ebbe a fare Marcantonio Colonna.

Sin dal primo giorno i ministri spagnuoli con gran sicumèra e con
sospettosa alterigia presero a mandar le cose per le lunghe, ed a
trattar co’ Veneziani piuttosto da superiori che da compagni. Venisse
l’ambasciator Soriano in mezzo a far le petizioni; e lasciasse loro il
carico di rispondere, e di mandare i partiti a Madrid per ricavarne
dal Re risposte e ordini più precisi secondo le speciali risoluzioni
che si avessero a prendere.[107] Michele però cui pareva indegna quella
parte obbligata di domande e risposte, come tra maestri e discepoli si
costuma nelle scuole, soggiugneva: non aver egli altra cosa a chiedere
che non avessela già prima di lui domandata il Papa. E rivolto ai sette
cardinali dal medesimo Papa deputati, pregavali che, secondo la mente
di Sua Santità, ripigliati i capitoli dell’altra lega tra Paolo III,
Carlo V e la Signoria nel millecinquecento trentasette, quelli medesimi
proponessero nel settanta: e coll’istessa prestezza, fin dalla prima
congregazione, li pubblicassero come lega conclusa; affinchè il mondo
si quietasse nella pronta risoluzione, e gli alleati si ordinassero
ad eseguirla. Allora il cardinal Granuela, prese a dimostrare che i
capitoli del trentasette si dovevano correggere: e che tanti anni fa
si era potuto in un giorno concludere, ma non si potrebbe ora, per
non essere i deputati delle due parti egualmente convenuti nei punti
principali. Poscia passò a considerare quanto tempo avrebbero per
discutere riposatamente i nuovi capitoli: stantechè per quell’anno le
forze della Repubblica, del Re e del Papa unite a Candia già bastavano
alla difensiva; e che prima di mettersi alla offensiva nell’anno
seguente, si poteva con ogni comodità trattarne il modo, e convenire
insieme nelle debite forme. Al qual discorso il Soriano, che vedeva
quanto pericolo da quelle comodità del Granuela venisse a Venezia di
consumarsi nel mezzo tempo coi Turchi e con gli Spagnuoli, replicava:
non essere nè giusto nè utile aspettar gli anni e struggersi intanto
nella guerra senza alcun beneficio; che il nemico non aspettava di
assaltar Cipro l’anno venturo, ma già aveva invaso l’isola, e in
quei giorni combattevane la capitale: doversi pigliar subitamente
l’offensiva ora e sempre; perchè il miglior modo di difendersi è quello
di offendere l’inimico, e di farlo impotente a nuocere; e di togliergli
quanto più si può delle cose da lui usurpate, donde è sua forza: dovere
i Cristiani con gli acquisti presenti a danno del Turco compensarsi
delle perdite passate. Scendendo poscia ai particolari; dimostrava
non esservi forse mai stata occasione tanto bella di offenderlo come
allora, quando l’armata sua trovavasi in fondo al mare di Cipro,
e restavano tutte le isole e città marittime dell’imperio ottomano
sguarnite, e senza speranza di soccorso: preda certa a chi di presente
volesse assaltarle.

Le risposte del Soriano riferite al Papa tanto gli piacquero che
da quelle prese occasione di rinnovare ai signori ambasciadori più
caldi ufficî, perchè sollecitassero la conclusione dell’alleanza:
e mandò loro il dì seguente, che erano li tre di luglio, una bozza
di capitoli, secondo che a lui coll’intervento di uomini periti era
parso conveniente di fare.[108] Sopra il quale fondamento si sarebbe
in poco tempo potuto costruire un edificio di buona lega, e togliere
le difficoltà del domandare e del rispondere, dell’offensiva e della
difensiva, ed ogni altra maniera ostacoli, se non ci fosse entrato il
disegno che gli Spagnuoli avevano di pigliar tempo, contro il volere
del Papa e de’ Veneziani. E dall’insieme apparisce che non era a pena
risoluto un dubbio se non quando ne nascevano due: talchè per molti
mesi bisognò che i deputati di buona o mala voglia si acconciassero a
disputar sottilmente se la lega esser dovesse a perpetuità o a tempo,
e se in questo caso bastasse il termine di dieci o dodici anni; se
dichiararsi sol contro il gran Turco o contro tutti gl’infedeli, o
almeno pur contro i Barbareschi; se imporre la pena delle censure
ecclesiastiche contro a chi la romperebbe; se chiamare alla lega
i Persiani, quantunque seguaci di Maometto; se concludere senza
l’imperador dei Romani, e senza gli altri principi cristiani ad uno
ad uno nominati; se togliere o mantenere la neutralità dei Ragusei:
quante le forze comuni dei collegati, che per ciascuno, come ripartir
le spese, quando concedere le tratte, a chi le conquiste, qual porzione
delle prede, cui dare il generalato di mare, e quello di terra, e
la successione ad ambedue in loro difetto: cose tutte che insieme a
molte altre furono con grande arte diplomatica tramestate e ribattute
per ogni verso. Ma principalmente i due punti dell’offensiva e delle
censure; sui quali soprammodo insistevano gli Spagnuoli. Volevano
costoro che la lega si dichiarasse soltanto difensiva dal sultano di
Costantinopoli, offensiva contro i Barbareschi: e che fosse scomunicato
dalla Chiesa chi rompendola si pacificasse con loro. Ma i Veneziani,
sostenuti dal Papa, vinsero il partito che l’alleanza mirasse sin dal
principio a guerra offensiva contro il gran Turco e suoi dipendenti:
e quanto al secondo, contentandosene il Papa, non vollero mai sentire
parola di censure. E quantunque dicessero che la fosse indegnità e
capitolo inutile e non mai praticato tra i principi, i quali non si
legano nè si guardano da fallire come i privati per paura delle pene,
ma per amore della virtù; ciò non pertanto vedevano e dissimulavano
che si potrebbe con siffatto capitolo di scomunica straccarli tanto
(come poi successe) da farveli cadere: e allora, tra lo sbigottimento
pubblico e lo scroscio del fulmine, tirare a Madrid tutto il loro
dominio di Terraferma. Queste pratiche pertanto durarono sei mesi
dell’anno settanta, e i due primi mesi del settantuno; con tal
contenzione che più volte i Veneziani furono al punto di rompere ogni
pratica, e più volte gli Spagnoli dissero conclusa ogni cosa, sebbene
non ne fosse deliberatamente fermata alcuna.[109] Senza conclusione e
senza rottura si andava per le lunghe: e quantunque i ministri del Re
avessero messe in ogni cosa tante difficoltà, e negoziato con tanta
insolenza che più non si poteva,[110] nondimeno il Papa e i Veneziani
tolleravano. Grande è la pazienza degl’infelici e dei santi.

A queste difficoltà si aggiungeva la mala condotta di Giannandrea
nella guerra di Cipro. Avevano i Veneziani concepito grande speranza di
far buona guerra; e coll’aiuto del Papa e del Re, e coll’armata loro
quant’altra mai bellissima, piena di valorosi soldati e di eccellenti
capitani, si erano persuasi di poter non solo francamente difendere
lo stato oltremarino, ma anche conquistare buona parte dell’imperio
turchesco, rifarsi con molto vantaggio dei danni patiti nelle guerre
passate, e finalmente con infinita e giusta gloria abbassare l’orgoglio
ottomano. Quando poi in fine della prima campagna si trovarono aver
perduto il tempo nell’aspettare da Giannandrea un soccorso tanto
inutile, il regno di Cipro abbandonato, la capitale perduta, e l’armata
loro ruinata, non dall’armi nemiche, ma dall’ozio, dalle infermità, e
dai lunghi inganni degli amici, e finalmente ebbero un successo alle
prime speranze tutto contrario; mesti, confusi e sbigottiti, come
negl’imprevisti e acerbi accidenti suole avvenire, gemevano.[111]
Le case piene di lutto, la città di vesti lugubri: chi la morte dei
parenti, chi la perdita delle sostanze, chi il pericolo della patria
amaramente piangeva. La plebe per la sospensione dei traffichi ridotta
in miseria, la piazza piena di fallimenti, ed il senato pel gravissimo
pericolo della publica salute in travaglio. E quantunque non ristassero
di fare que’ maggiori provvedimenti che potevano per sostener la
guerra, pure poco o nulla più fidavano nell’aiuto lontano, tardo e
ritroso degli Spagnuoli. Di che allora andò proverbio, ripetuto poi le
tante volte a Venezia, che la Republica nella guerra del Turco avesse
ad esser sempre presta e sempre sola.


II. — Nondimeno risoluti a continuare la guerra, e volendo pur
contentare il Papa, nel quale grandemente confidavano, perchè era uomo
di petto, franco nel dire ciò che pensava, e fermo nel mantenere le sue
parole, non avevano mai rotte le pratiche della lega: ed erano giunti
fino al febbraio del settantuno, quando (dopo aver in qualche maniera
composte le altre difficoltà) restava a decidersi del generalato: cioè
di chi dovrebbe con suprema autorità governare le forze di tutti i
confederati. Punto essenzialissimo, intorno al quale rigiravasi tutta
la ragione di stato dei negoziatori, e tutte le speranze della lega:
perchè in potestà di quell’uomo sarebbe stato il favorire o ruinare
ogni impresa. I Veneziani che si erano onninamente contentati della
capitolazione fatta con Carlo V e Paolo III nell’anno 1537, e che erano
disposti a ricevere ogni altro capitolo, solo nel punto del generalato
chiedevano istantemente nuova forma. Ripensavano che, per essere
allora stato fatto così assolutamente Andrea Doria, nè coi nemici si
era combattuto alla Prevesa, nè cogli amici osservata la capitolazione
a Castelnuovo: quindi proponevano al presente che, dovendo ognun de’
tre principi collegati avere il suo generale, essi tre risolvessero
il tutto; siffattamente che la volontà dei due generali fosse legge
al terzo, e la deliberazione dei due s’intendesse deliberazione di
tutti: dandosi però il titolo di generale supremo, e la facoltà di
eseguire i partiti deliberati a uno di loro che potesse nell’autorità
e nel nome soprastare agli altri, talchè niuno patisse ad ubbidirlo
con quella prontezza e fede che è necessaria nelle cose di guerra.
La scelta però di comune soddisfazione riusciva difficilissima.
Imperciocchè da una parte al piacer dei Veneziani nominandosi per tale
ufficio tutti i principi maggiori d’Italia dal duca di Savoja in giù,
e dall’altra volendo il Re per suoi fini che si dovesse scegliere don
Giovanni suo fratello naturale, si era quinci e quindi in sospeso:
finchè i Veneziani, come sempre succedeva, piegaronsi ad accettarlo:
rimettendone l’elezione al Papa e chiamandosi contenti di chiunque
piacesse eleggere a sua Santità. Allora il Pontefice scrisse al Re che
esso e i Veneziani seco si contentavano che secondo la sua proposta
don Giovanni aver dovesse il generalato dell’armata, e pregavalo
che proponesse altre persone di sua fiducia tra le quali si potesse
scegliere il generale dall’esercito per le imprese di terra, ed i
successori dell’uno e dell’altro qualora alcuno dei due si trovasse
assente o impedito. Queste lettere partivano nel tempo che i deputati
spagnoli a Roma erano a pretendere in punto che, mancando don Giovanni,
dovesse farne le veci l’ordinario luogotenente di sua Altezza: cosa che
non piaceva ad alcun altro, e nè pure il Papa poteva soffrirla.[112]
Perchè ricordando tutti la mala condotta di Giannandrea nella campagna
precedente, temevano vederlo luogotenente di don Giovanni nella
campagna seguente: e neanche potevano restar capaci, che fosse giusto
di vedere in tal modo un luogotenente (per accidentale combinazione)
montare improvvisamente a tanta altezza da essere superiore ai Capitani
Generali del Papa e dei Veneziani presenti all’armata. Molto più che a
libito di don Giovanni sarebbe dichiararsi impedito, e a libito del Re
metter in sua vece chi non godeva fiducia. Perciò il Papa e i Veneziani
fermamente mantennero che in difetto di don Giovanni, Generale
spagnuolo, dovesse succedere Marcantonio, Generale pontificio: ed in
questo condiscese il Re (che in suo segreto si riserbava alcune parti
graziose) tanto per soddisfare al Pontefice, quanto perchè stimava
la persona di Marcantonio. Ma tra simili difficoltà la lega invece di
concludersi speditamente, se ne passava in negoziati quasi un anno, e
intanto niuna delle parti faceva le provvisioni con quella fiducia e
calore che sarebbe stato necessario.

  [Febbraio 1571.]

Tuttavia venuta la risposta di Filippo, che fu all’uscita di febbraio,
i Veneziani non vollero mancare di concludere quello di che si erano
per rispetto del Pontefice contentati; nè lasciare di sciogliere
quell’ultimo nodo del generalato di terra e di mare e dei loro
successori. Portavano le lettere che nel comando dell’armata, non vi
essendo presente don Giovanni, dovesse succedere l’uno dei tre: o don
Luigi di Requesens commendator maggiore di Castiglia, o Marcantonio
Colonna, o Giannandrea Doria: nel comando poi dell’esercito, il
principe di Parma, quello di Urbino, Marcantonio Colonna, e Vespasiano
Gonzaga. Tra le terne e le quaterne niun veneziano, sì bene il Doria.
Lasciava poi ai deputati del congresso in Roma che si accordassero a
scegliere per il mare uno delli tre, e per la terra uno delli quattro:
se pure non amavano meglio che don Giovanni riunisse nella sua persona
il generalato di terra e di mare per maggior beneficio dell’impresa.

Il tenore di queste lettere condusse i deputati a risolvere la
difficoltà: imperciocchè avendo il Re posto Marcantonio nella terna
e nella quaterna, tanto di mare che di terra; e trovando i Veneti
eccezione in qualcuno dei capitani del mare, come il Pontefice in
uno di quelli di terra, si venne nel parere di sua Maestà, e tutti
nel fatto concordi stabilirono dare a don Giovanni l’uno e l’altro
generalato, e a Marcantonio egualmente il succedere nell’uno e
nell’altro carico quando fosse assente o impedito don Giovanni.[113]
Così restò stabilito il capitolo dei Generali e insieme fermati gli
altri della lega, che dal latino al volgar nostro ridotti sommariamente
dicevano in questo modo.[114]

I. Tra il Pontefice, il Re, e la Repubblica nell’anno mille cinquecento
e settantuno sia lega perpetua, offensiva e difensiva, contro il Turco
e suoi dipendenti.

II. Le forze della lega siano dugento galere, cento navi, cinquanta
mila fanti, e nove mila cavalli.

III. Gli apprestamenti di guerra si facciano ogni anno nel mese di
marzo: al fine del quale tutta l’armata debba trovarsi pronta in quel
porto che verrà stabilito.

IV. Dato che il Turco assalti alcuna piazza dei confederati, quella
debba esser soccorsa da tutta l’armata o da una parte di essa, secondo
il bisogno.

V. Gli ambasciadori dei confederati ogni anno tratteranno in Roma,
durante la stagione autunnale, ciò che debba imprendersi alla primavera
dell’anno seguente.

VI. Il Pontefice armi dodici galere, tremila fanti, e ducensessanta
cavalli.

VII. Le spese si dividano in sei parti: così che il Re ne paghi tre, la
Repubblica due, e il Papa una.

VIII. Il Re e la Repubblica diano ciò che possa mancare al Papa: in
ragione di tre quinti per il primo, e due quinti per la seconda.

IX. I Veneziani imprestino al Papa dodici galere ben munite
d’artiglieria, e il Papa le armi di sue genti ed a sue spese.

X. Colui dei confederati che supera gli altri nelle spese abbia il
diritto ad esser dai medesimi rimborsato.

XI. Sia libera la tratta dei grani e delle vittovaglie per l’armata,
secondo certe speciali convenzioni sulla quantità e sul prezzo.

XII. Niuno imponga nuove gabelle sopra i generi necessarî al
sostentamento dell’armata.

XIII. Se i Barbareschi assalteranno la Spagna, si debba soccorrerla con
tutta o con parte dell’armata, secondo il bisogno.

XIV. Il simile per la spiaggia romana.

XV. E lo stesso in ogni parte del dominio veneto.

XVI. Nei consigli interverranno i tre generali dei confederati: e
quello che sarà parere di due s’intenda essere deliberazione di tutti.

XVII. Don Giovanni D’Austria, per eseguire le deliberazioni comuni,
sia capitan generale della Lega in mare e in terra; e nel caso di
impedimento o di assenza ne faccia le veci Marcantonio Colonna.

XVIII. L’armata quando sia unita inalberi lo stendardo della lega.

XIX. Si riserbi un luogo conveniente all’imperadore dei Romani, ed ai
re di Francia e di Portogallo.

XX. S’invitino pure gli altri principi cristiani.

XXI. Le prede si dividano in tanti sesti, quanti ciascuno ne spende: e
le conquiste tornino ai primi possessori, come nel trattato del 1537;
eccettuato Tunisi, Tripoli, e Algeri che debbano rimettersi al re di
Spagna.

XXII. Si riconosca la neutralità dei Ragusei.

XXIII. Le difficoltà che possono insorgere si rimettano
all’arbitramento del Pontefice.

XXIV. Niuno faccia nè pace, nè tregua col nemico, senza il
consentimento degli altri.


  [7 marzo 1571.]

III. — Essendosi adunque dopo tanto tempo e travaglio accordati gli
ambasciatori nei predetti capitoli, parve al Papa che fosse tempo di
sottoscriverli e di bandirli solennemente. Al quale fine, dopo avere
ottenuto il consenso di tutti, fissò il giorno sette di marzo nel quale
si celebrava con molta pompa da’ suoi domenicani di santa Maria sopra
Minerva la festa dell’angelico dottore san Tommaso d’Aquino: acciocchè
nel giorno istesso e nella medesima chiesa si dovesse pubblicare
la tanto sospirata alleanza, e renderne le dovute grazie a Dio.
Venuto il qual giorno, e ridottosi quivi il collegio dei cardinali,
gli ambasciatori dei principi, e la frequenza della nobiltà e del
popolo romano, dopo la Messa, si restrinsero fra di loro i deputati
in una sala del convento alla presenza del Papa per far lettura
dell’istromento e firmarlo.[115] Recitato però il proemio, e parte
del primo capitolo, là dove diceva che la lega s’intendesse stabilita
nell’anno mille cinquecento e settantuno, levossi in piedi il cardinale
Granuela, primo negoziatore di Spagna, e senza alcun rispetto alla
solenne adunanza, alla pubblica espettazione, ed alla maestà del romano
Pontefice; anzi traendo partito da tutte queste cose per sorprendere
i Veneziani e per legarli a suo talento, interruppe repentinamente il
lettore dicendo: Questo è impossibile nell’anno presente; perchè il
tempo è troppo avanti. Siamo alli sette di marzo, e non possiamo per la
fine del mese, secondo il capitolo terzo, aver pronta tutta l’armata a
Messina: non si può eseguire quest’anno tutto ciò che si contiene nella
capitolazione. Dunque o bisogna acconciare, e mettere il settantadue
laddove dice settantuno; o introdurre nel trattato un articolo di più,
che ne determini le applicazioni pratiche per l’anno presente. E dopo
alquante repliche di varie persone con diversi propositi, richiesto
a manifestare qual dovesse essere il tenore dell’articolo nuovo, egli
lesse da una sua carta la seguente sentenza:[116] «Perchè quest’anno
non si possono mettere insieme quelle forze che sono contenute nel
capitolo terzo, e pur bisogna contro il Turco comune nemico fare
quest’anno tutto che si può, li deputati del serenissimo Re cattolico
offeriscono che avrà in ordine quanto più presto, ed al più tardi per
tutto maggio, almeno da settanta in ottanta galere ben in ordine ed
armate; desiderando si menino insieme di quelle dei confederati tutti
in quel maggior numero che si potrà fino al numero di duecencinquanta:
et che li signori Venetiani in questo di armar galere faccino ogni
sforzo, perchè hanno comodità di più legni. Con questo però che
quello che contribuiranno in questo più della loro rata, il più dal
serenissimo Re loro sarà compensato in denaro, o in altro; siccome in
gente, vettovaglie, remi, munizioni et altre cose: sì come darà loro
comodità di cercar remigi, ed armar galere quanto si potrà nelli suoi
regni, con che si provvedano ancora le galere di sua Maestà di quello
avranno bisogno.»

Letto questo capitolo, il Granuela si tacque, pago di aver con sì
bel tratto mostrato palesemente al mondo qual fosse la tempra del
suo negoziare; ed essersi reso degno di quei premî che poco dopo
gli vennero da Madrid col governo vicereale di Napoli, e con la
presidenza del supremo consiglio sopra gli affari d’Italia. San Pio,
già ristucco delle arti usate da quell’insidiatore del pubblico bene,
ruminava le severe parole con che poscia rampognandolo il discacciò
da se:[117] e gli astanti che avevano sentite tante novità, ed erano
improvvisamente caduti in così gran confusione, guardandosi l’un
l’altro tacevano. Gli ambasciadori veneziani però consideratamente
s’applicarono a contrappesare la giunta e la derrata; deducendone
che al postutto si voleva stringerli in quell’anno a non far nulla,
come nell’anno passato; e sol contentarli con le speranze del tempo
futuro: e intanto obbligarli ad armare oltre il debito loro, e a
riceverne il pagamento ancora nel tempo a venire, o in denaro, o
in altro. Nondimeno anzichè rompere, pregarono che si lasciassero i
capitoli così come erano già prima convenuti: promettendo che essi non
mancherebbero ai patti, nè allora nè mai; come stimavano che per le
maggiori sue forze potrebbe anche meglio di loro in quell’anno e sempre
venir fatto dal Re. Protestavano gli Spagnuoli che il loro governo
non potrebbe essere in ordine nel settantuno: e che non si dovrebbe
intanto pensare ad alcuna impresa, nè a ricuperare Cipro, nè ad altra
conquista; ma soltanto a star sulle difese. I Veneziani insistevano
che l’offensiva era già risoluta, e che il peggiore di tutti i danni
sarebbe il perder tempo. Finalmente dopo molte dispute, appartandosi
or gli uni or gli altri a trattar in diverse camere, e poi riunendosi
insieme senza accordarsi mai, i Veneziani risolutamente troncarono la
questione, dicendo: Essere venuti là per sottoscrivere ciò che dopo
otto mesi di pratiche si era stabilito; e non per avere ad abbracciare
nuove condizioni: mantenessero i regî quanto avevano promesso, ed
essi pure il manterrebbero: alle altre novità non estendersi il loro
mandato, scriverebbero a Venezia. Ma i regî importunavano: in quel
modo e in quel giorno le firme volevano; rinfacciavano ai Veneziani il
rifiuto, chiamavanli irreverenti al Pontefice, ingrati al Re: speravano
vincolarli col giuramento dei capitoli e delle giunte; ed essi
liberamente entrare in possesso delle grazie di Roma e delle decime
del clero, sulle quali non potevano gettarsi se non a lega bandita. Gli
ambasciatori Veneziani però in cosa di tanto momento, e così diversa da
quel che si era sino allora stabilito, giudicarono convenirsi al debito
loro aspettar nuovi ordini dal Senato. Stettero fermi: e l’assemblea fu
sciolta.

Così il giorno dell’alleanza solenne si finì con amara dissensione: e
il Papa dolente di veder tante sue fatiche rese vane, non senza grave
cordoglio, piangendo alla vista del popolo romano stupefatto, se ne
tornò a palazzo.[118] Avvenimento rimarchevole che onora la sua virtù;
quantunque per rispetto di Spagna taciuto dagli scrittori della sua
vita.


  [Aprile 1571.]

IV. — Come poi arrivarono le notizie di questi successi a Venezia
crebbe fuormisura la pubblica indignazione. E molti principali senatori
che conoscevano le ordinarie condizioni delle leghe, e penetravano
eziandio profondamente nei segreti della corte di Spagna, furono tutti
in por mente al capitolo di Granuela, congetturandone simili e peggiori
cavillazioni perpetue nel tempo futuro. Gli Spagnoli dall’altra parte
sapendo come alla Repubblica non restava altro partito che, o gettarsi
ai loro piedi, o pacificarsi col Turco; quando schifava il primo
partito, davano voce che pensasse al secondo; con questo giustificavano
i sospetti, e chiamavanla traditrice. E quanto più gli uni e gli
altri replicavano con le scritture e co’ corrieri, tanto più la piaga
inciprigniva, e la lega si andava da un capo all’altro disciogliendo;
tanto che già se n’era perduta ogni speranza. Se non che il Pontefice
per farvi sopra dal suo canto tutto quello che poteva, pensò mandare
a Venezia, non già vescovi prelati o cardinali, quantunque ve ne
fossero in Roma eccellentissimi; ma l’istesso capitano generale della
sua marineria. Marcantonio Colonna: affinchè egli procurasse con la
destrezza e co’ graziosi suoi modi di levar le difficoltà e rinverdir
la fiducia già quasi spenta, e ridurre per pubblico beneficio l’animo
dei Veneziani a quella condiscendenza che non si poteva conseguire
dagli altri.

Quei che avevano allora in mano il governo di Venezia erano risoluti
alla guerra contro il Turco, risoluti alla lega con gli Spagnoli: ma
ogni giorno meno speravano nella lega e nella guerra. La pochezza del
soccorso ricevuto l’anno avanti da Giannandrea, gli ostacoli continui
nel negoziare, gli articoli improvvisi del Granuela, la cupezza del Re
tenevali impensieriti nel tempo presente, e toglieva loro la speranza
di effetti migliori nel tempo a venire. Vedevano la loro armata
percossa di grande mortalità e di maggiore avvilimento, vedeano già
quasi certa la perdita del regno di Cipro, e tutto il resto del dominio
loro in Levante presso che vicino a perdersi: vedevano non poter
soli resistere contro la sterminata potenza del Turco, l’imperatore
di Germania non volersi rompere con lui, e il re di Francia più che
mai osservarlo. La lega poi pareva a molti segni che dovesse riuscire
piuttosto difensiva che offensiva, cioè al rovescio del loro proprio e
del comune interesse: avendo essi e tutto il Cristianesimo bisogno di
assalire per ricuperare Cipro, Negroponte, ed altri paesi perduti, per
allontanare il Turco dall’Italia, e per goder poi lungamente il frutto
di tanti travagli. Cose che non potevano tutte egualmente piacere
alli Spagnuoli. Anche l’immensa voragine delle spese li spaventava,
temendo da un giorno all’altro dover loro venir manco onde pagar le
milizie; e consumato senza profitto lo stato di Lombardia, farsi quei
popoli nemici. La pubblica miseria, la perdita del traffico, i continui
fallimenti, il lutto di tante vedove, e di tanti orfani opprimevali.
Confrontando poi le spese ed i pericoli loro con quelli degli altri,
si trovavano per ogni capo in peggior condizione: perchè nè il Papa nè
gli Spagnoli potevano nella guerra perder nulla; ed essi avevano già
perduto un regno, e stavano al punto di perderne altri, specialmente
Candia sulle fauci dell’arcipelago, e più di Cipro vicina a
Costantinopoli. Quanto all’armata, vedevano il Papa metterci solamente
dodici galere e minima spesa, il Re poi di spese e galere quasi nulla:
perchè le stesse squadre della guardia ordinaria di Napoli, Sicilia,
Sardegna e presidî dell’Africa bastavano a fornire il contingente
della lega; e, quando anche avesse in qualche parte ecceduto, poteva
largamente compensarsi sopra le ricche decime del clero di Spagna,
per la concessione che glie ne farebbe il Pontefice. Ed essi, senza
tante rendite, costretti a mantenere fuor del costume cencinquanta
legni in mare, cinquanta mila uomini in terra, l’assedio tremendo di
Famagosta nell’isola, le difese di Dalmazia, di Candia, di Corfù, e
di tante altre piazze poste in pericolo; i presidî, le munizioni, le
vettovaglie; e con questo carico addosso sentire gli Spagnuoli nelle
sedute riposatamente discorrere di aspettare un altr’anno, non potevan
quasi più contenersi. E sebbene per la grande prudenza tacessero in
pubblico, nondimeno si lasciavano intendere in Senato, che vedendosi
abbandonati da tutti i principi e delusi dagli Spagnuoli, altro
lor non restava se non venire col Turco a qualche accordo, purchè
fosse onesto.[119] Dicevano che dovendo pur finalmente venire a
questo termine, meglio sarebbe farlo subito per aver da lui megliori
condizioni, che non dopo conchiusa la lega; a rischio di peggior
sorte per lo sdegno del Turco, del Re, e del Papa. Ad ogni modo poi,
essendo già presso il mese di aprile senza alcuna conclusione, e stando
le forze del re divise in più parti e lontane, nè potendo nel corso
dell’anno far cosa di momento, concludevano non doversi la Repubblica
obbligare a niun patto, per non pigliarsi addosso così grave peso,
senza alcun vantaggio. A tale si era ridotta la pratica della lega dopo
il capitolo del Granuela.

E così Marcantonio, quando con prestissimo viaggio giunse a Venezia,
trovò le cose. Il Doge coi principali senatori amorevolmente
ricevendolo non dissimularono dolersi di lui per compassione che
fosse venuto a negozio non solo difficile, ma disperato: intorno al
quale nondimeno, desiderando dargli ogni soddisfazione possibile, lo
avrebbero udito. Laonde egli, come di animo grande, levandosi al di
sopra della difficoltà si accinse all’impresa, altrettanto ardua per
lui che utile per tutti, di condurre a lieto fine la sua missione.
E alcune volte in Collegio, spesso in privato, nel continuo ritrovo
che in casa sua si faceva dei senatori principali che al di là d’ogni
credenza lo visitavano e frequentavano, prese a ragionare sopra questa
materia, procurando togliere le diffidenze che erano nate, scusando gli
Spagnuoli, e le opere loro rivolgendo (per quanto era possibile) dal
lato più favorevole, e conchiudendo che dalla lega se ne potrebbe in
fine qualche cosa di bene ottenere. Dimostrava a quei signori che non
dovessero creder mai di poter vivere in pace col Turco, il quale si era
sempre mostrato traditore e senza fede: che li avrebbe un’altra volta
all’ombra di novella pace tanto meglio disarmati e ripercossi, quanto
maggior profitto gli lascerebbero cavare dai precedenti tradimenti,
e dai trattati successivi. Non così con la persona santissima del
Pontefice tutta volta ai vantaggi della Cristianità, specialmente della
loro Repubblica, e tutta nell’osservanza delle promesse. E che l’animo
pur di sua Maestà si dovesse credere buono, nonostante la difficoltà
dei ministri, s’ingegnava dimostrare per molti indizî, e per l’articolo
addizionale medesimo; potendosi indi dedurre che sua Maestà intendeva
determinare chiaramente quel che poteva fare per volerlo mantenere:
altrimenti se l’animo suo fosse a violare le promesse, non farebbe
tanta difficoltà nell’obbligare la parola. Poi richiamavali al punto
della loro riputazione, e diceva aver caro che non iscapitassero nel
mostrarsi tanto nemici dell’armi e della guerra da meritarsi la taccia
di gente morbida e neghittosa, cui nè le parole, nè i fatti, nè le
ingiurie, nè la perdita dei regni potessero scuotere dal letargo: così
che ognuno in seguito pigliasse ardire ad offenderli senza rispetto.
Veniva appresso stringendoli a confessare che essi da sè non potevano
sostener la guerra, ancorchè difensiva, contro la grande potenza del
Turco, cresciuto troppo più di forze in terra e in mare, che negli
altri tempi, quando essi soli vittoriosamente aveano guerreggiato
con lui. E scendendo ai particolari faceva loro toccar con mano non
aver essi luogo alcuno sicuro ed a proposito per conservar l’armata
unita, in guisa che potesse far fronte al nemico e difendere lo Stato:
imperciocchè mandatala nel capacissimo porto della Suda in Candia,
potrebbero bene tenerla unita, ma non guardare il golfo nè assicurar
Venezia, per la grande distanza: avrebbero da Corfù potuto fronteggiare
il nemico e coprire il golfo, ma non unirvi l’armata; essendo poco
capace quel porto, e neanche sicuro, perchè dominato da certe alture,
donde il nemico potrebbe distruggere le navi sulla testa dell’ancora.
Nella Dalmazia non esservi porto ove l’inimico non avesse facoltà
di piantargli sopra alcuna batteria dal lato di terra, e cacciare in
fondo l’armata: così che del naviglio loro poco o niente si sarebbero
potuti servire. Per la qual cosa non dovendo essi confidare nella
fede del Turco, nè potendo guerreggiar da sè soli, nè sull’offensiva
nè sulla difensiva, bisognava che consentissero nella lega con gli
altri; ed accettassero gli aiuti del Papa e del Re per una guerra
tanto onesta, profittevole, ordinata non solo a difendere l’Italia e
la Cristianità, ma anche ad offendere il nemico ed a ritogliere dalle
rapaci sue mani quanto si potesse dei paesi già prima da lui usurpati.
Che se rifiutassero così grandi soccorsi, non solo resterebbero da
tutti abbandonati e vilipesi per aver impedito il pubblico bene, ma
altri potrebbe attribuire a loro ogni danno che fosse per venire al
Cristianesimo. E perderebbero inoltre que’ vantaggi che con ogni buona
ragione erano da aspettare dalla lega: tra’ quali il principale di
distruggere con una navale battaglia la potenza del Turco sul mare
anche nell’anno medesimo: non essendo poi la stagione tanto innanzi che
non si potesse in cinque mesi almeno un giorno incontrarsi col nemico,
combattere e trionfare, con immensa gloria e perpetuo beneficio degli
stessi Veneziani.

Con questi ed altri simili ragionamenti Marcantonio, che dalle cause
naturali argomentava i successi che di fatto poi si ottennero, avendo
già molto acquistato nell’animo dei senatori, cui il solo pensiero di
naval battaglia e vittoria faceva lietissimi, domandò essere ricevuto
un giorno in Collegio: e quivi alli dodici di aprile, presenti il Doge
e i senatori, declamò la seguente orazione:[120]

  [12 aprile 1571.]

«Serenissimo Principe.

»Avendo la Santità di Nostro Signore per gloria de Dio e servitio
della Cristianità procurato la lega contro il Turco comune nemico, e
vedendo l’utile che da questa unione si può sperare, et il danno che
apporta mandare in lungo la risolutione per essere il tempo avanti,
acciocchè le forze de’ confederati siano unite a tempo, per poter
pigliare di quelle occasioni che il Signore Iddio ne potesse mettere
innanzi, m’ha commesso che io faccia istanza con la Serenità Vostra per
la ispeditione di questo negotio, il quale da lei è stato sempre tanto
bene abbracciato e venutoci così alla libera.

»Nè sa vedere Sua Santità perchè s’habbia d’haver per novità quella
che dai ministri di Sua Maestà Cattolica si è ricordata per il
capitolo aggiunto, che possa alterare la conclusione di negotio tanto
importante: anzi si deve tenere per segno certo dell’animo buono che
Sua Maestà tiene nell’osservanza di quanto promette: perchè dovendosi
di necessità pigliare dopo la conclusione della lega (la risolutione
della quale è stata così tardi) questo o altro simile provvedimento, e
intanto ritrarne da Nostro Signore le gratie che a Sua Maestà importano
tanto, ha voluto anteporre ad ogni interesse la realità dell’animo
suo. E con tuttociò Sua Santità stabilì con i ministri regî che le
galere fussino almeno al numero di ottanta alla fine di maggio, unite
e bene armate, e quelle di Sua Santità e della religione di Malta
ancor prima. Anzi con l’occasione dell’andata a Napoli del cardinal
Granuela, Sua Santità l’ha stretto in tal modo, che, se bene Sua Maestà
pensa per l’anno a venire havere tutto il numero della sua rata di
galere sforzate (con far che altri armino, e pigliandoli al suo soldo
come è solito di fare) non di meno procurerà di armare venti galere
per complimento delle cento, usandovi tutta la diligenza possibile.
Le altre si havrebbero a mandare da Vostra Serenità a Brindisi quanto
prima. E la Santità Sua con molta ragione crede che se il tempo lo
comportasse operaria che Sua Maestà levasse via questa difficoltà, come
ha fatto dell’altre: ma non si potendo, Sua Santità giudica che con
queste forze si deve sperare di haver armata da fare tale effetto che
forse meglio non si potrebbe desiderare: in modo che con complire al
resto delle spese, con assiguramento di vettovaglie e denari, pareria
haver assettato questo negotio: quando non si volesse spedire per
migliorare le conditioni della pace, come i maligni hanno voluto dire
e dicono per nocere: e il dilatare ancora con questo le provvisioni
necessarie perla guerra.

»Questa lega, Serenissimo Principe, è già stata giudicata fruttuosa e
necessaria: il medesimo si deve sperare hora più che mai. Perchè ogni
parte della Christianità che patisse, bisognerebbe che ruinasse il
resto: e però la salute deve esser comune, et unita dunque deve esser
la forza. Poi per lo danno che apporterebbe per sempre il perdersi
la speranza di detta salutifera unione, non havendo questo negotio
havuto mai altra difficoltà che la confidenza; e però non sarà mai per
venire tempo più atto ad esserci questa. E resterà affatto bandita
l’inconfidenza, essendo la Serenità Vostra tanto infedelmente stata
trattata dal Turco, Sua Santità volta solo al servitio di Dio e della
Fede cattolica, Sua Maestà aliena d’occupar quello d’altri e amatrice
di conservare ad ognuno il suo, come si vidde nella pace fatta con
la felice memoria del re Henrico. Anzi, che dico io della confidenza
certa che apporterebbe la lega, se l’anno scorso quando appena vi
si era pensato, Sua Maestà (quantunque havesse i Mori in casa) mandò
subito soccorso alle Serenità Vostra con le galere sue. E Sua Santità
armò galere de’ suoi sudditi propri. E certo non so veder io qual
vittoria habbia havuto mai il Turco contra la Christianità tale, quanta
sarebbe la dissolutione di questo negotio: poichè restarebbe sicuro
di non esser offeso; e certo di poter fare, senza altro incontro, ciò
che la sua rabbia e insatiabile ingordigia gli dettasse. Quanto poi
al fatto che di questa lega si potrebbe sperare, prima nelle cose di
mare, le quali sono d’infinita importanza, sarebbe grandissimo. Perchè
chiaramente si è visto che non habbiamo lasciato mai di non haver
vittoria per mancamento di forze, ma solo per mal governo. Hora che
Sua Santità ha il voto in questo negotio, e così la Serenità Vostra,
e che quello di Sua Maestà sarà in potere di suo fratello con esser
generale di mare e di terra, che si haverà da sperar altro che col
combatter gloriosi successi e fuori di ogni interesse privato? Nè sono
tanto cresciute le forze del Turco in mare, che le nostre non habbino
fatto ancora il medesimo, e forse a proporzione maggiore, aumento.
Quanto alle cose di terra che dubbio è che dove sarà Sua Santità e
Sua Maestà cattolica vi sarà ancora l’Imperatore, il re di Polonia,
e altri principi? I quali con le forze loro, e con quelle della lega
già formata (potendosi dargliene ventimila fanti, e quattro mila
cavalli) faranno effetti notabili. Oltrecchè solo il batter l’armata
del Turco, basterebbe a far la Christianità gloriosa. Anzi tali forze
di lega non so veder io come possano esser altrimenti che offensive.
Nè accade per congetture pensare e credere altrimenti: perchè essendo
stata l’opinione del mondo sempre questa, e così ricercandolo il
bisogno presente, gran stoltitia sarebbe dei Christiani confidare sì
poco nella bontà di Dio (essendo questa sua causa) che non credessero
mai di poter fare nè progressi nè conquiste, e che perciò lasciassero
essa lega. Se però con gli effetti dopo fatta si vedesse col tempo
altrimente, all’hora ad ogni modo si haveria da attribuire più presto
questa disavventura alli peccati nostri, che a difetto di questa
unione; nè che dalla Serenità Vostra e da gli altri principi si havesse
havuto confidenza temeraria in Dio in quello che spetta alla gloria e
esaltatione della sua santa Fede: e che il mondo potesse restare con
opinione, che la Christianità havesse per sempre persa la speranza
del suo rimedio, e che tutte le ruine che per l’avvenire venissero si
potessero attribuire alla esclusione di questa santa opera. Il perchè
non è da credere che il Turco tardasse molto a valersi di questa
occasione, acciò in tanto non si perdesse la memoria di questo danno:
poichè si restarebbe con maggior disunione, che mai: e tutti con
opinione di poca forza e potenza. Pertanto nostro Signore spera che
la Serenità Vostra quanto prima darà perfetione a questo negotio, il
quale scorrendo così, nè sì facendo le provisioni con quel calore che
si deve, al tempo poi del bisogno il tutto si trovarebbe in confusione.
Veda quanti giorni sono passati dopo che Sua Santità mandò l’avviso
delle ottanta galere per lo tempo detto. E Sua Santità non mancherà
alla Serenità Vostra giammai di soccorso di galere e di genti, fatta
la lega. Nè si ha da maravigliare Vostra Serenità se Sua Beatitudine
non l’ha fatto prima: che il medesimo ha usato col Re cattolico, al
quale non ha voluto far le gratie se prima non habbia veduto la lega
conclusa, con tutto che quella Maestà havesse la guerra co’ Mori in
Spagna e con gli heretici in Fiandra, oltra quelle che continuamente
ha con il Turco. Ponderate queste ragioni, la Serenità Vostra conforme
all’istanza di Sua Beatitudine deliberi, e accetti la lega.»


  [Maggio 1571]

V. — Questa ed altre cose dette con efficacia e spirito militare da
tale personaggio, che sempre si era con le parole e coi fatti mostrato
prode e leale, commossero i Veneziani, cupidi soprammodo di potere
almeno in quell’anno battere l’armata del Turco: talchè da una parte
restando perplessi i più avversi alla lega, e dall’altra crescendo di
ardire e di numero i favorevoli, si vedeva già chiaro che l’opinione
fosse rivolta verso la lega medesima, senza però che si venisse ad
alcuna risoluzione. Laonde Marcantonio dopo alquanti giorni, non
volendo che gli animi freddassero, si rifece a stringere il Senato con
molte preghiere ed anche con dolce risentimento, perchè risolvessero:
dicendo, parere a lui che la troppo lunga perplessità fosse un rifiuto
con poca sua riputazione e con danno ancora del Papa e del Re, i quali
se ne restavano incerti delle cose loro; e con pregiudizio del Senato
eziandio che dava ai maligni l’occasione di calunniarlo, come se
tirasse in lungo il negozio della lega tra i Cristiani per avvantaggiar
quello della pace coi Turchi.

E perchè parlando un giorno in Collegio potè rilevare delle parole del
Doge che a lui faceva difficoltà, sol questo, di dover anticipatamente
spendere la parte sua e quella del Re per riscuotere in tempo futuro,
e che in tutto il resto facilmente si comporrebbe; giudicò poter per
sua destrezza trovar partiti a togliere di mezzo siffatto ostacolo.
Era occorso di fresco che per necessità di frumenti i Veneziani avean
preso in alto mare (come allora si costumava) un convoglio di navi
che trasportavano i grani della Puglia a Napoli: di che eran venute
in Venezia le persone che v’aveano loro interesse, a domandarne il
prezzo; e di più i ministri dell’erario regio a ripetere la valuta
delle tratte, per le quali domandavano gran somma. E stando Marcantonio
coll’animo vôlto appunto alla difficoltà del danaro, trovò a caso chi
l’informò pienamente di siffatto successo. Indi pensò cavare partito
per la sua causa.

Scrisse al cardinal Morone in Roma che dovesse trattare coi ministri
del Re cattolico di lasciare ai Veneziani il prezzo dei frumenti e
delle tratte, per quattro mesi, durante la campagna: dopo la quale,
fatti i conti e detratte le spese, si pagherebbe la differenza cui
toccasse. Con siffatto ripiego ai Veneziani si toglieva il timore di
poter riscuoter denari da un principe più potente in tempo futuro;
lasciando la grossa somma depositata nelle loro proprie mani: nè
pareva farsi ingiuria al Re se, per così grande e pubblico beneficio,
e per soli quattro mesi, rimettesse il pagamento che a lui medesimo
ed ai sudditi suoi più doviziosi era dovuto. Laonde proposto che fu
segretamente questo partito dai ministri del Papa a quelli del Re,
tutti d’un animo l’accettarono. Ed il Morone immantinenti ne dette
conto a Marcantonio: il quale aspettando questa risposta andava
tuttavia più oltre ne’ suoi trattati, e nella certezza che la maggior
parte del Senato fosse per lui rivolta in favor della lega: altra
difficoltà non restando se non quella del danaro.

Avute pertanto le risposte in debita forma, tornò in Collegio, e
propose come suo pensato questo modo di acconciare gli interessi:
dicendo che, quando alla Signoria fosse piaciuto, se ne potrebbe
trattare. E quantunque alcuni, come suole avvenire nei congressi di
molte persone, mettessero fuori diverse difficoltà, pure considerata
bene la ragione da ogni parte, il consiglio dei Pregadi a grande
maggiorità abbracciò la proposta. Ma quando poi quei signori chiamarono
Marcantonio per comporre con lui il tenor delle lettere da scriversi
a Roma a fin di condurre i ministri del Papa e del Re a prestarvi il
consentimento, allora Marcantonio sorridendo, e tra le maraviglie degli
astanti mostrando le carte, diede loro il negozio per concluso.[121] E
al tempo stesso gli strinse a decidere, perchè gli altri aspettavano
ed il nemico insolentiva. Onde il giorno appresso con quella maggior
solennità a che la Repubblica veneta usata era, messo il partito
della lega, dappoichè la difficoltà del danaro erasi tolta, fu quello
abbracciato con tale concorso che tra dugento senatori non restarono
più che dieci contrarî, e tutti gli altri cento e novanta favorevoli.
In mezzo ai quali entrato per poco tempo Marcantonio, prese la
risoluzione: e speditamente partitosi portolla a Roma tra il plauso
infinito dei popoli ovunque passò, maravigliandosi ciascuno che egli
fosse riuscito in un negozio tanto difficile, quanto che tutti avevano
fino a quel giorno tenuta per vana la sua gita a Venezia.[122]

  [25 maggio 1571.]

Così dunque, restando fermi i capitoli già concertati, e ricevuto
eziandio dai Veneziani l’articolo aggiunto con la predetta malleveria,
fu sottoscritto in Roma alla presenza del Papa l’istrumento della
Lega alli venticinque di maggio. Letti ad alta voce i capitoli in
pieno concistoro, il sommo Pontefice pose la destra sul suo petto, e
gli ambasciadori di Spagna e di Venezia sopra i santi Evangeli: tutti
insieme ne giurarono l’osservanza. I banditori la pubblicavano nella
chiesa di san Pietro.[123] E mentre da più parti intorno si facevano
feste e si apparecchiavano l’armi, il Pontefice per tramandare alla
posterità la memoria di questo glorioso avvenimento del suo tempo
faceva coniare una medaglia;[124] sopra la quale era scritto in bronzo:
— Sanzione della lega contro i Turchi. —

Nel mezzo volle effigiati i contraenti per tre simboliche figure:
cosicchè alla diritta l’una di fiero e marziale aspetto armata di
elmo, corsaletto e soprasberga, con a piedi l’aquila imperiale,
simboleggiasse il re Filippo di Spagna: l’altra sulla sinistra in
grave movenza di donna forte, sparte le chiome, e cinta di ducal
corona, con sotto l’alato lion di san Marco, figurasse la Repubblica
di Venezia: e mentre il Re porge la destra alla Repubblica, la Chiesa
Romana nel mezzo come nobil vergine in abito sacerdotale, col papal
triregno sulla fronte e l’agnello di Dio a’ piedi, abbracciando e quasi
stringendo ambedue, conferma il patto dell’alleanza. Dall’altro lato
poi lasciò agli artisti che ritraessero la sua fisonomia di profilo,
a capo nudo, e con le mani giunte sul petto, scrivendogli attorno:
— Pio quinto Pontefice Massimo l’anno della salute mille cinquecento
settantuno. —


  [Giugno 1571.]

VI. — Conclusa pertanto l’alleanza con infinita consolazione del Papa,
si rivolse Marcantonio a preparare l’armamento. E innanzi a tutto
deputò Innocenzo volgarmente detto Cencio Capizucchi, patrizio romano,
a far la levata delle fanterie, con grado di maestro di campo generale,
e patente che sebbene porti la data dell’anno successivo, tuttavia
parla ancora del presente in questa sentenza.[125] «Havendo il signor
Cencio Capizucco mastro di campo generale delle battaglie di Roma
e dello Stato Ecclesiastico, come apparisce per motoproprio e breve
della felice memoria di Pio IV concessoli, sempre esercitato detto
uffitio con molta prudenza, fede e valore, e massime l’anno 1571 nella
speditione della lega contro Turchi: per ciò stante detti motoproprio
e breve e saggio che diede di sè nella sopradetta impresa et in ogni
altro tempo, e desiderandoli noi per tutti li sopradetti rispetti
questo et ogni altro honore e riputatione, n’è parso conveniente
dichiarare, come con la presente dichiariamo, che il presente anno
e nella presente speditione della detta Lega habbia da esercitare
e continuare il detto suo uffitio di mastro di campo con tutti i
suoi carichi et privilegi et emolumenti, secondo più largamente si
contiene ne i detti motuproprio e breve, et altri soliti concedersi
in tale offitio: ordinando a qualsivoglia et colonnelli, capitani,
luogotenenti, alfieri, sergenti, et altri uffitiali e soldati nostri
che, riconoscendolo per mastro di campo come sopra, l’obbedischino et
assistino nel detto suo offitio, come la persona nostra propria, per
quanto stimano la gratia et il servitio di nostro Signore. Dato in Roma
li 27 d’aprile 1572. Marco Antonio Colonna duca di Paliano.»

Similmente confermò Pompeo Colonna nel grado di suo luogotenente,
pose generale delle fanterie Onorato Gaetani signore di Sermoneta,
colonnello delle medesime Pirro Malvezzi gentiluomo bolognese, e
capitani delle otto compagnie, ciascuna di ducento fanti, Flaminio
Zambeccari di Bologna, Ruggero Oddi di Perugia, Angelo Mezzatosti
di Roma, Giammaria Puccini di Roma, Giannantonio Gigli di Fuligno,
Gianpaolo Berardelli da Spoleto, Livio Parisani da Perugia, e Ippolito
Tebaldini da Osimo:[126] ai quali si unirono molti prodi e veterani
soldati e cavalieri statisti, come Michele Bonelli, Orazio Orsini
di Bomarzo, Lelio de’ Massimi, il conte Francescantonio Berardi,
Tullio da Velletri, Fabio e Niccolò Graziani, Girolamo Mariotti
da Fano, il cavalier Tommasi d’Ancona, il capitan Camillo Bartoli
da Perugia, il marchese Malaspina, il signor Fabrizio Ruspoli di
Roma, Ottavio Speranza da Fano, Muzio Colonna, Carlo del Monte, il
Baglione, Ottavio Corona e Orazio Campana romani, Francesco Zucconi
da Tivoli, Marcello Regio d’Ancona, Maurizio Calmanti da Camerino,
Giulio Angelici da Macerata, Matteo Pierbenedetti da Camerino, Pasquale
Micara da Sanseverino, Gaudenzio Contucci da Matelica, Marzio Spuntoni
e Felice Rossolini da Viterbo, e tra i molti altri valorosi che ho
nominato l’anno addietro[127] il capitan Bartolommeo Sereno: che
indi a quattro anni, posata la spada di cavaliere romano e preso il
sajo di monaco cassinese, scrisse i commentarj di questa guerra che
furono non ha guari per le stampe pubblicati.[128] Or costoro tanto
bene si governarono, ciascuno secondo il suo carico, per le città
più popolate e guerriere dello Stato, che sebbene paresse impossibile
di trovare soldati a quei tempi per esser tutti sbigottiti non solo
dalla mortalità e dagli stenti patiti l’anno addietro sull’armata, ma
anche dalle discordie degli alleati; nondimeno con meraviglia di ogni
uomo innanzi ai quindici di giugno ebbero tutte le compagnie compite,
rassegnate e pagate; e di gente così prestante e valorosa, che tutti ne
facevano le meraviglie, e se ne promettevano quei felici successi che
poi si videro.

Intanto si trattava in Roma del modo di avere le galere. Secondo il
capitolo nono della Lega, avrebber dovuto i Veneziani dare dodici
galere sfornite, ed il Papa armarle di sue genti ed a sue spese.
Tuttavia nell’anno presente i Veneziani non le dettero; ed il Papa
presele dal granduca Cosimo di Firenze. Qui fa mestieri notare come,
tra tutti i Papi del cinquecento, solamente Pio quinto si trovò
non avere galere sue proprie. Gli ordini diversi osservati dai suoi
predecessori nel costruirle, armarle o condurle per i tempi di mezzo,
sino a tutto il secolo decimoquinto, e le imprese da essi fatte sono
state da me descritte e pubblicate in quattro libri.[129] Ne ho in
punto altri dieci per la storia del tempo successivo; condotti al modo
stesso, e sopra quella maniera di documenti che ho in uso studiare. Si
vedrà come nel cinquecento non v’ebbe fazione alcuna di momento nei
nostri mari, ove non fossero le galere proprie dei Papi. E ciò tanto
nelle guerre d’Italia al tempo di Alessandro VI, di Giulio II, di Leon
X, e di Clemente VII; quanto nelle guerre dei pirati e dei Turchi. Il
marchese Cintio Benincasa, il conte Gabriele Bonarelli, Giovanni del
Biassa, Paolo Vettori, Bernardo Salviati, il conte dell’Anguillara,
Carlo Sforza, Flaminio Orsini, il conte Marcantonio Zane,[130] il
commendatore Emilio Pucci, il cavalier Cesare Magalotti, ed altri
multi prodi capitani, o nativi dello Stato o congiunti ai Papi per
vincoli di sangue o di clientela, guidarono le galere romane nel secolo
decimosesto a Rodi, a Santamaura, a Corone, alla Goletta, a Tunisi,
alla Prevesa, a Castelnovo, ad Algeri, ad Afrodisio, a Tripoli, alle
Gerbe. Tutti sanno l’infelice successo dell’armata cristiana sotto il
duca di Medinaceli all’isola delle Gerbe, che ivi fu compiutamente
disfatto dai Turchi. Tra gli altri capitani di squadre, si trovò a
quella giornata con le galere romane il cavalier Flaminio Orsini: uno
dei pochi che seppe prevedere il disastro, e suggerirne il rimedio;
unico che tenne il fermo nel combattere e nel morire. Col sangue
suggellò la prudenza dei consigli, e dette la vita per cuoprire la
fuga dei compagni. Caduto l’Orsino, i Turchi ebbero le galere del
Papa; e tutta la nostra gente di capo e di remo passarono a fil di
spada, o condussero in schiavitù. Il resto dell’armata, quasi cento
legni d’ogni grandezza e d’ogni parte d’Italia e di Spagna, andò
perduto: i pochi che si salvarono colla fuga, dovettero saperne grazia
all’Orsino. Questo avvenne nel 1560, al tempo di Pio IV. Il quale,
spaventato di tanta rovina, smise il pensiero delle galere, e rivolse
più tosto l’animo a fortificare la spiaggia romana per difendersi ne’
suoi domini. Riprese i lavori attorno alla città Leonina,[131] munì
le fortezze di Civitavecchia e di Ancona, e cominciò a mettere in piè
quel sistema di torri che si distende sulla riva del mare dal monte
Circèo all’Argentario. Io ho voluto seguirlo in siffatto lavoro di
fortificazioni; e rifacendomi ai principî sopra i disegni originali
e con nuovi argomenti penso averne dato saggio non ispregevole per
alcune scritture intorno ai bastioni di Civitavecchia,[132] ed alla
rocca d’Ostia.[133] Or Pio quinto, venuto al pontificato sei anni
dopo, continuava l’opera del predecessore,[134] quando fu colto
all’improvviso dalla guerra dei Turchi in Cipro: indi si trovò, come
ho detto, senza naviglio, e fu costretto chiederne ai Veneziani.[135]
Nondimeno alla fine dell’anno armò in Civitavecchia tre galere sue
proprie:[136] altre ne aggiunse Gregorio XIII, e non guari dopo Sisto V
ebbe il vanto di richiamare a nuova vita la marineria romana.

Ma nel trattar la Lega del mille cinquecento settantuno, ricordava
Marcantonio di quanto poca soddisfazione riuscite fossero le galere
prese l’anno innanzi a Venezia, e che non convenisse allora nè privare
la Repubblica del suo meglio, e nè anche accettare i suoi rifiuti:
ricordava altresì la troppa lontananza di là a Roma, che doveva essere
il centro del movimento delle milizie, come lo era di tutti gli affari
dei confederati: e suggeriva che alle spese della Camera apostolica,
e senza ingiuria di alcuno, si potrebbero assoldare le dodici galere
che teneva a Livorno il granduca Cosimo di Fiorenza grammaestro
dell’ordine militare di santo Stefano. Io non mi fermerò alle origini
di tale ordine cavalleresco che nel primo secolo di sua vita ebbe
grande celebrità di belle e gloriose imprese che risuonano ancora e
risuoneranno nel tempo a venire; ma stretto ai termini dell’argomento
mio mi starò contento a riprodurre i capitoli stipulati tra la Camera
apostolica e il serenissimo granduca per la condotta delle predette
galere.[137]

«Capitulazione tra nostro Signore Papa Pio V et il serenissimo gran
Duca di Toscana per l’assento delle dodici galere di Sua Altezza per
l’effetto della Lega.

»Avendo Sua Beatitudine, nel tempo che durerà la Lega tra sua Santità,
la maestà del Re cattolico, et li signori Venetiani, a tener armate per
servitio di essa certo numero di galere, per minore spesa della Sede
Apostolica, disegnando accostarsi a qualche Principe che commodamente
possa sostener questo peso, ha giudicato che il serenissimo gran Duca
di Toscana non meno ossequente et amorevole verso di Sua Santità che
fautore del servizio di Dio, et amatore del benefitio pubblico di
Christianità, sia per pigliar volentieri questa cura. Ha però Sua
Santità convenuto con sua Altezza in questo modo, cioè:

»In prima che sua Altezza sia obbligata havere in Civitavecchia, almeno
per tutto il mese d’aprile prossimo 1571, dodici galere buone di fusti
ed atte a navigare, con i suoi remieri, armamenti, monitioni, fuochi,
arme, artiglierie, vele, sarte, et ogni altra cosa necessaria per il
detto effetto nel modo a punto che si tenevan già a soldo dalla Maestà
Cattolica.

»Che la Capitana habbi cinque huomini di remo per banco da poppa
all’arbore, et quattro dall’arbore alla prua, con tutti quelli huomini
et offitiali di più che a una Capitana si ricercano et son soliti
ritenersi dall’altre.

»Che la Capitana habbi fanale, concerto di trombetti, et ogni altra
cosa solita portarsi da altre galere capitane, talchè il Generale di
Sua Santità non habbi a provvederla d’altro che di bandiere, tendali di
seta, et altri ornamenti soliti portarsi da li generali.

»Che il capitano della galera capitana, et così il pilotto d’essa
habbino a esser eletti et deputati dal Generale di Sua Santità, et
similmente il capitano d’una altra galera, accetto che della Padrona,
a spese però di Sua Altezza, con il medesimo stipendio et pagamento che
ella è solita pagare questi simili per il passato.

»Che il Generale di Sua Beatitudine habbi a provedere il vitto suo
della tavola di poppa, et de’ suoi servitori.

»Che il Generale di Sua Santità habbi a essere obbedito dal Generale,
luogotenente, capitani, offiziali, et ministri di dette galere, et gli
sia lecito castigar chi commettesse alcun delitto su dette galere; con
darne conto però a Sua Altezza.

»Che il Generale di Sua Santità non possa in modo alcuno dar libertà
alli forzati o schiavi di dette galere, senza partecipazione di Sua
Altezza.

»Che il Generale di Sua Santità, o la R. Camera, et suoi ministri
possino sempre che gli pare pigliar la mostra di dette galere, acciò
possino vedere che stieno ben proviste et con gli huomini che sono
obbligate tenere.

»Che il Generale di Sua Altezza, o suo luogotenente, possa navigar
sempre con dette galere et su quella che più gli piacerà: lasciando
però la capitana al Generale di Sua Beatitudine, quando vi sarà
presente.

»Che le altre undici galere siano almeno di ventiquattro banchi a tre
huomini per banco, o quel più che paressi a Sua Altezza.

»Che Sua Altezza sia obbligata tenere su dette dodici galere sessanta
uomini tra marinari et offitiali in tutto per ciascuna galera.

»Che Sua Altezza debba metter li capitani et marinari a modo suo in
tutte le altre galere, eccetto li due offiziali della Capitana et il
capitano dell’altra, come di sopra.

»Che Sua Altezza habbi a tenere una fregata armata di padrone
et huomini, almeno di sette banchi, per il tempo che le galere
navigheranno. Che le dette dodici galere sieno tenute sei a sei
servire quando si sarà in attual guerra, et sei altre ne sieno armate
continuamente, dandoli però di suo verno mesi cinque all’anno.

»Che quando Sua Santità voglia porre nelle dette galere fanteria, debba
essere a tutte spese di Sua Santità, conforme a quello che si costuma
et fa con quelle che stanno al soldo della Maestà Cattolica.

»Che Sua Santità sia obbligata pagare il soldo di sei galere solamente,
il quale s’intenda di scudi cinquecento d’oro in oro il mese per
ciascuna galera, conforme a come li paga Sua Maestà cattolica.

»Che la galera capitana debba essere pagata a ragione d’una galera et
mezza.

»Che Sua Santità sia obligata dare la tratta dei grani per servitio di
dette galere che costuma di dare la Maestà Cattolica alle sue.

»Che li scudi d’oro il mese, che importa la spesa di sei galere si
debbino pagare in tre paghe, ogni quattro mesi la rata: et che per
detti pagamenti sia obbligata Sua Beatitudine consegnare a Sua Altezza
l’assignamento nella sua generale tesaureria o qualche altro modo da
potersene valere a detti tempi.

»Che Sua Altezza habbi a tenere le sopra dette dodici galere in essere
per tutto il tempo che durerà la lega tra Sua Santità, la Maestà
Cattolica, et la Signoria di Venetia: non intendendo in parte alcuna
alterata per questo, anzi salva sempre la capitolazione che Sua Altezza
tiene con la maestà del Re cattolico; col consenso del quale, dato
per sue lettere de’ 18 ottobre prossimo passato, queste dodici galere
servono per l’effetto della lega di Sua Beatitudine.»


VII. — All’entrare di giugno furono nel porto di Civitavecchia le
galere assoldate dal Papa a Firenze: e quantunque di gran lunga
migliori delle altre prese l’anno precedente a Venezia, pur esse
mancavano di remigi, di munizioni e di molte cose; di che per la
diligenza grande di Marcantonio sollecitamente si fornirono in quel
porto.[138] Di là al tempo stesso movevano marinari e capitani,
non solo per militare nell’armata pontificia,[139] ma anche nella
veneziana.[140] Ecco i nomi delle galere, e dei dodici cavalieri
che la guidavano.[141] La Capitana destinata secondo i capitoli a
Pompeo Colonna, la Padrona condotta da Alfonso d’Appiano, la Reina
dal cavaliere Olgiati, la Grifona da Alessandro Negroni, la Soprana
da Antonio d’Ascoli, la Toscana da Metello Caracciolo, la Vittoria
da Baccio di Pisa, la Pace da Jacopo Perpignano, la Pisana da Ercole
Lotta, la Fiorenza da Tommaso de’ Medici, la Santa Maria da Pandolfo
Strozzi, il San Giovanni da Angelo Biffoli, l’Elbicina da Fulvio
Galerati, la Serena da Ettore Caraffa duca di Mondragone, nominato da
Marcantonio; e di più sei fregate. Venute le quali a Civitavecchia,
e raccoltesi quivi pur da Corneto le fanterie, parve al Colonna che
fosse tempo di imbarcarsi. Prima però volle andare con gli ufficiali
del suo seguito a pigliar congedo dal Papa; il quale, dopo averlo
con tutta l’effusione dell’anima benedetto, gli diè tre ricordi:[142]
invigilasse sulla pietà delle genti, e non patisse giammai che alcuno
fosse tanto ardito da bestemmiare il nome di Dio; secondo, licenziasse
gli scostumati e non tenesse a bordo giovanetti imberbi; terzo che
non togliesse i soldati dalle battaglie di Maremma. Per quest’ultimo
provvedeva al di dentro la difesa dello Stato, quando spediva al di
fuori la guerra; pel secondo, assicurava la morale in un punto tanto
dilicato quanto per le sue costituzioni si fa manifesto; e pel primo
manteneva incorrotte le pratiche della religione ed il timor di Dio.

Le quali cose avendo Marcantonio promesso osservare, si partì da Roma
alli tredici di giugno: e passata la notte a Cerveteri, entrò il dì
seguente in Civitavecchia. Colà onoratamente ricevuto si trattenne fino
al ventuno:[143] rivide le galere, rassegnò le genti di capo e di remo,
e fece di tutti i soldati sulla piazza d’arme una mostra assai bella
per ogni rispetto, massime pel numeroso concorso di gentili cavalieri
e di nobili dame venute da Roma a salutare gli amici e a dar animo
ai guerrieri. Onorato Gaetani, vestito di tutt’arme e sopravveste di
raso bianco,[144] conduceva ad una ad una le compagnie d’innanzi al
Generale. Più d’ogni altro fu commendato il capitan Mazzatosti di Roma,
onesto e prode condottiero, alla testa di uomini valenti e di bello
e grande aspetto; appresso il capitan degli Oddi che mostrava la sua
compagnia assai ben armata di corsaletti e di morioni; e il capitan
Livio Parisani da Perugia, che l’avea fiorita di molta nobiltà: ma per
esservene di troppo giovani, ne furono cassi parecchi, secondo l’ordine
del Papa. Impietosirono gli astanti nel vedere que’ bei giovanetti
uscir dalla compagnia, piangendo il rifiuto.[145] Questi tornarono alle
case loro, e gli altri presero il complemento a Napoli con una mano di
militi romani che avevano campeggiato nel regno.[146]

Alli ventuno di giugno, imbarcatosi Marcantonio con Michele Bonelli,
Gabrio Serbelloni, Pompeo Colonna, e il celebre cavalier Romegasso
sulla Capitana; Onorato Gaetani sulla Grifona, monsignor Paolo
Odescalchi nunzio del Papa sulla Vittoria; e distribuiti quegli
altri signori e capitani con le loro fanterie, ciascuno sopra la
galea assegnatagli, sciolsero le vele da Civitavecchia con vento
freschissimo di tramontana: e dato fondo il dì seguente nel porto
di Gaeta, entrarono il ventiquattro sull’ora di vespero in quel di
Napoli.[147] Quivi alla riva erano il Cardinal vicerè ed i ministri
regî a riceverli con tante dimostrazioni di onore quante mai se ne
potessero. Santelmo, Castelnuovo, e castel dell’Uovo davano fuoco alle
più grosse artiglierie, e il popolo napoletano serrato a calca sul molo
acclamava strepitosamente alla venuta dei Romani. Felice presagio di
lieto avvenire. Ma in mezzo alla comune letizia che tutta una città
dimostrava per la venuta della squadra papale, i soldati spagnoli
dal presidio, o punti di gelosia, o mossi dalla rivalità nazionale,
insultando villanamente alle milizie nostre quiete e pacifiche per la
città, provocarono tumulto di molta importanza. Imperciocchè essendovi
al primo affronto morti alcuni di loro e feriti quattro papalini, già
dall’una parte e dall’altra si chiamavano i compagni, e si correva
all’armi, con pericolo di maggior sconcio, se dalla prudenza di
Marcantonio non vi si fosse opportunamente ovviato. E seppe egli tanto
destramente fare col Cardinal vicerè, che sebbene offeso dall’essere i
papalini entrati sin dentro al suo palazzo a far vendetta, tuttavia con
pace d’ognuno fu in un subito ogni cosa acquietata e sopita.[148]

E quantunque egli desiderato avesse fermarsi in Napoli sino all’arrivo
di don Giovanni, per esser dei primi ad inchinarsegli ed a trattar
insieme della guerra; ciò non per tanto essendogli venuto da Roma
l’ordine di partir subito per Messina, affinchè quanto più egli
s’inoltrasse verso levante tanto più don Giovanni s’affrettasse a
raggiugnerlo, e tanto meglio i Veneziani si mantenessero in fede; prese
commiato dal Vicerè, ed ai venti di luglio fu a Messina, festeggiato
altresì da quei popoli, che vedevano nel porto e alla raunanza dei
confederati comparire prima d’ogni altro lo stendardo di Roma.[149]


  [20 luglio 1571.]

VIII. — Intanto che gli alleati perdevano il tempo nelle lunghe
difficoltà dei trattati e nei tardi apprestamenti della guerra, già
il sultano di Costantinopoli, cavata dai Dardanelli l’armata sua, di
quasi trecento vele, da una parte aveva stretto l’assedio di Famagosta;
dall’altra assaltava le Isole dei Veneziani; e riempiva di arsioni e di
rapine Candia, il Cerigo, il Zante, e la Cefalonia. Erano i Turchi sul
muovere a irreparabil danno sopra Corfù, quando Marcantonio si volse a
provvedere eziandio da quella parte alla salute degli amici.[150]

Aveva il Senato fin dal verno precedente tolto il comando a Girolamo
Zane, perchè non aveva combattuto a Cipro, e posto in suo luogo
Sebastiano Veniero; uomo, secondo l’usanza dei Veneziani, di nobil
sangue, dotto di leggi, acuto di mente, di grande eloquenza e di
maggiore ardire, famoso per molte avventure e per non poche ferite
fatte e toccate in quelle risse ove esso avidamente correva a mescolare
le mani.[151] Sebastiano al primo rumore di guerra, quantunque
vecchio di settant’anni, era andato ad offerire il suo braccio ancora
robusto in servizio della patria: egli avea tolto a sè i carichi più
rischiosi e difficili, quando altri ricusavansi; e sempre tenendo per
la guerra, avea pur con poca gente poc’anzi espugnata la fortezza
di Soppotò nell’Albania. Venuta la buona stagione, Sebastiano era
in punto con tutta l’armata di più che cento galere: ma avendo tanto
paese a difendere, e non essendo in alcun luogo porto capace e sicuro
da contenerla, aveva dovuto smembrarla in due divisioni: delle quali
l’una stanziava a Candia, con i provveditori Canale e Quirino; e
l’altra seco a Corfù con il luogotenente Barbarigo. Giunte queste
notizie a Marcantonio quando passava da Napoli, e discorrendone
insieme con Ascanio della Corgnia, e col Buonvicino secretario dei
Veneziani, mostrò ad ambedue come dall’essersi tutta l’armata del
Turco arditamente cacciata in mezzo tra le due divisioni del Veniero e
dei provveditori, facilmente potrebbe interporsi un grave ostacolo al
congiungimento di tutte le forze della lega: per a cui ovviare, era da
scrivere immantinente al Veniero in Corfù, acciò prima d’esser chiuso
in quel luogo dovesse prendere senza più il cammino diritto per la via
di Otranto a Messina; ed il simile dovessero fare a golfo lanciato da
Gandia le altre galere dei provveditori Canale e Quirino: passando al
tempo stesso questi sulla sinistra e quegli sulla diritta dell’armata
nemica, per unirsi all’istesso punto in Sicilia.

  [21 luglio 1571.]

Siffatti avvisi furono giudicati importanti dal Buonvicino, e che in
diligenza spedì un corriero a Brindisi, e fece saperli al Generale
veneziano: il quale, vedendo approssimarsi l’armata nemica, antivedeva
egli stesso il sinistro; così del pericolo suo, standosene fermo in
quel luogo; come della impossibilità d’unirsi agli altri, entrando
in golfo. Nella quale perplessità, non avendo tempo da consultare il
Senato, risolvette di seguire il parere di Marcantonio: e il fece col
voto de’ suoi capitani, specialmente di Agostino Barbarigo, uomo per
singolar prudenza e valore da tutti commendato. Ondechè Sebastiano
spedì ordine in Candia, che le sessanta galere di quell’Isola venissero
difilate a Messina: ed egli stesso, quasi alla vista dell’armata nemica
che nel canal di Corfù compariva, partissi. Ma la sua levata, come fu
repentina e contr’animo, così gli apportò infinito travaglio per molti
rispetti: massime perchè vedeva l’inimico vigoroso venirgli sopra, e
la lega novella non essergli a beneficio; anzi cagione ch’egli, mentre
il Turco entrava in golfo e poteva accostarsi a Venezia, dovesse
abbandonare la patria, lo stato e la capitale, andandosene improvviso e
quasi fuggiasco nei regni altrui.

Voglionsi avvertire e considerare questi fatti per giudicar delle
persone e delle cose: e non saltare a un tratto alla grande giornata,
senza mettere innanzi quei particolari che la prepararono; d’onde è il
merito di chi vinse.

  [23 luglio 1571.]

Quando l’armata del Veniero si appressava a Messina, uscì dal porto la
nostra squadra: e per tre miglia incontro agli amici sopravvegnenti
andò con quella pompa che allora si costumava. Marcantonio fece
abbatter le tende, pavesar le galere, issare i più ricchi stendardi
da poppa e da prua, spignere fino alla penna le fiamme di dommasco,
porre i pennoncelli variopinti al calcese, i gagliardetti all’osta,
e su per le sartie di maestro e di trinchetto quattro sàgole con
assai banderuole d’ogni taglio e colore: i soldati alle balestriere,
i bombardieri sul castello di prua, i marinari alla freccia dello
sprone, le genti di capo sulle rambade, gli ufficiali e i gentiluomini
alla spalliera, ciascuno alla sua posta, come se fosse il momento
del combattere. E mentre le milizie brandivano le armi, e le ciurme
palpavano il remo, la nostra capitana appuntato il cannone di corsia,
con quattro tiri salutava lo stendardo di san Marco: quindi tutte
le altre galere nostre prima da diritta e poi da sinistra, una dopo
l’altra, ripetevano con due tiri. I Veneziani di fronte altresì
pavesati a festa risalutavano con innumerabili spari da ogni parte; e
gli uni e gli altri a intervalli facevano risuonare le melodie della
musica marziale. Allora tutte le nostre galere, ripresa la voga,
passarono per mezzo alle veneziane; ciascuna delle nostre tra due delle
loro; ed avendo nel passaggio acconigliati i remi, e poscia virato di
bordo sulla contrammarcia, si accompagnarono insieme per ritornare a
Messina. Nella qual manovra la capitana nostra prolungandosi a lato
di quella di Venezia, tanto che l’una coll’altra si incontrassero
alle scalette di poppa; Marcantonio Colonna, Michele Bonelli, Onorato
Caetani, e monsignor Odescalco prevennero il general Veniero, e
tutti quattro a un tratto saliti sulla galera gli furono intorno,
festeggiandolo con quelle liete accoglienze che usano i marini, e che
allora per tanti rispetti più si convenivano. Nè per questo cessarono
le salve dei Veneziani, come le nostre: che anzi essi non fecero altro
in quel tragitto se non sparar cannonate sin quasi dentro il porto;
dove, secondo che entravano, ripetevano il fuoco per salutare la piazza
e le fortezze con tanto rimbombo d’artiglierie che non si sarebbero
udite scoppiar le folgori. La città all’incontro non mancò al debito
suo di corrispondere; imperciocchè da quattro parti ordinatamente
salutava senza riposo, finchè non furono tutte le galere arrivate,
e ferme agli ormeggi. Dopo un’ora sopravvennero le famose galeazze,
cui tanta parte della vittoria a Lepanto è dovuta; e quantunque
rimburchiata ciascuna da quattro galere, pure lentamente entrarono.
Ma allorchè furono dentro, daddovero che si fecero sentire: e tal fu
il fragoroso scoppio delle grosse artiglierie che prognosticarono, al
dir di taluni, la grande ruina degli Ottomani.[152] Il dì seguente
Marcantonio convitò al suo bordo il Generale veneziano, e tutti gli
ufficiali superiori delle due bandiere; e il veneto appresso rese
la pariglia a Marcantonio ed ai maggiori dell’armata romana:[153]
con tanta, non dirò già pace ed osservanza, ma amore ed amicizia dei
capitani, dei marinari, e dei soldati tra loro, che tutti ed essi
medesimi sommamente lieti ne pigliavano maraviglioso diletto. Nè
bisognava meno per ritenere in Messina i Veneziani trenta giorni, in
quella stagione, senza far altro che domandare quando giugnerebbe don
Giovanni: e sentire dall’altra parte continuamente gl’infiniti danni
che i Turchi facevano nelle Isole, in Dalmazia, e in ogni luogo dei
loro possedimenti. Imperciocchè l’armata nemica per continue crudeltà,
col ferro e col fuoco, per terra e per mare, da Candia sin quasi a
Venezia guastando ogni luogo scorreva, e non soltanto nei casali e
nelle spiagge aperte, ma nelle terre murate e nelle stesse fortezze
combattendo entrava; talchè avendo espugnato Dulcigno e Antivari,
ripreso Soppotò, ed assalito Cattaro, non altro restava se non che
da sera a mattina comparisse davanti a Venezia. Giungendo pertanto
con grande rapidità l’una dopo l’altra queste notizie a Messina, più
volte il Veniero (che anche non poco dubitava dell’animo del re di
Spagna)[154] piuttosto che consumare così inutilmente quel tempo, si
mostrò risoluto d’andarsene e far da sè qualche impresa: e più volte
il Colonna coll’autorità e prudenza sua lo ritenne, dimostrandogli
che per il merito della costanza nel mantenere la lega, presto maggior
ricompensa e maggior trionfo n’avrebbe.[155] E sebbene afflittissimo
anch’esso del pubblico danno, e di quello suo privato per la morte di
donna Giovanna sua figliuola, duchessa di Mandragone, per la quale
non pur la sua famiglia e guardia ma le galere ancora messe a lutto
e coperte di gramaglia davano a tutti cagione di cordoglio; non per
questo smetteva punto dell’usata diligenza, nè lasciava oziose le
galere in Messina: ma unite alle veneziane ora le spediva a Milazzo
per levar vittovaglie,[156] ora all’Eolie per inseguir pirati, ora
a Palermo per condurne milizie all’armata. Nelle quali spedizioni
si adoprarono con molta utilità pubblica e senza danni; quantunque
rompessero più volte terribili burrasche. I Veneziani poco pratici di
quelle riviere, andati a Reggio per vino, perdettero sette galere nel
mare.[157]

  [7 agosto 1571.]

Vero è che la molta lealtà e i grandi servigi, che avevano rese le
genti romane carissime ai Veneziani e ai Messinesi, non valsero
a dimesticare l’altiera natura dei soldati spagnuoli, per la cui
malvagità si riprodussero in Sicilia quegli stessi scandali, già
da loro in Napoli provocati. Tanto è difficile la pace co’ superbi.
Il qual fatto, quantunque coperto dagli altri storici cui tornava a
vergogna, si trova dai nostri con tutte le sue particolarità descritto;
e dal Sereno tanto bene e saviamente narrato, che io crederei mancare
al debito mio se, in materia sì grave, aggiungessi o togliessi solo una
parola a quelle di lui contemporaneo e testimonio di veduta, che dice
così:[158] «Or mentre quivi (in Messina) si stava aspettando che gli
altri ministri dei collegati con gli altri vascelli si riducessero, gli
Spagnuoli soldati che al presidio di quella città si trovavano, forse
perchè avevano udito che la questione seguita in Napoli tra quelli
della loro nazione e i soldati italiani del Papa fosse con disvantaggio
dei loro terminata, e per ciò sperando vendicarsene volessero
farne risentimento; o per qualsivoglia altra cagione lo facessero,
assaltarono una notte con abbominevol soverchieria alquanti dei
soldati di quelle galere, i quali senza sospetto, il fresco della terra
sicuri godendosi, chi qua, chi là d’intorno al porto per tutto sparsi
dormivano. E avendone alcuni così all’improvviso feriti, con disonesta
vigliaccheria molte spade e cappe di essi rubarono. Il che non parendo
agl’Italiani che fosse da comportarsi, quantunque di lor mano la
mattina seguente ne gastigassero alcuni, avevano nondimeno risoluto
di far loro un tal giuoco che con molta uccisione terminandosi,
avria senza dubbio gli animi di quelle due nazioni si gravemente
concitati, che facilmente grave disturbo alle cose dell’armata recare
avrebbe potuto. Ma fu da Marcantonio con tanta prestezza rimediato,
che avendo fatta pigliare alcuni di quelli Spagnuoli che il delitto
avevano commesso e condannare alla catena in galera, e alcuni altri
impiccare, s’acquetò di tal sorta il tumulto, che non fu dipoi alcuno
dell’una parte o dell’altra, che di tal fatto osasse più di parlare.»
Mal si comportarono i Papalini con la vendetta di arbitrio privato;
peggio gli Spagnuoli con le ruberie, gl’insulti, e le provocazioni; e
giustamente Marcantonio con la prudenza sua, usando a tempo il credito,
l’imparzialità, e il grado di luogotenente generale e supremo duce,
nell’assenza di don Giovanni, oppresse il disordine nella sua origine,
e assicurò l’armata da ogni turbamento futuro anche per questo capo.


  [9 agosto 1571.]

IX. — Intanto la Cristianità, senza ristare ai successi di Messina,
affissava da lungi il guardo sulla persona di don Giovanni; e co’ voti
giorno e notte affrettavane la venuta.[159] Egli uscito di Barcellona
dopo molti stenti a mezzo luglio, giungeva il ventidue a Genova con
quarantaquattro galere: e dopo esser passato di lungo avanti a Livorno,
ed aver fatto una breve posata a Civitavecchia, liberando da molti
sospetti la Liguria e la Toscana,[160] entrava finalmente alli nove
d’agosto nel porto di Napoli. Era don Giovanni d’età giovanetto, di
aspetto bellissimo, di maniere gentili, e di grandi speranze; figlio
naturale di quel Carlo, cui tuttavia chiamavano invitto imperadore.
Indole egregia, amor di gloria, sincerità d’animo, e desiderio del
pubblico bene si accordavano mirabilmente in lui, e dalla franca
espressione di sua fisonomia venivano a chiunque il riguardasse
dimostrati. Nondimeno per queste istesse ragioni facilmente si levava
all’arroganza sopra i colleghi, e cadeva nella debolezza sotto agli
adulatori invidiosi. Sin dai primi giorni per le sue lentezze aveva
fatto palese al mondo quanto egli fosse stretto a seguir la politica
del Re[161] suo fratello: il quale, sotto specie di aiutare la sua poca
età, ma in fondo per viemeglio dominarlo, avevagli dato a governo un
consiglio privato d’uomini suoi devotissimi, don Luigi de Requesens
commendator maggiore di Castiglia, il conte di Pliego, Stefano Mutino
dell’abito di Santiago, Giovanni Soto, Pierfrancesco Doria, ed il
Marchese di Pescara; il quale, essendo in quei giorni morto in Sicilia,
non ebbe allora successore:[162] ma nell’anno seguente gliene furono
dati una ventina, che tarparono le ali di quel giovanetto, e finalmente
lo ridussero a mutar costume. Soperchieria di Filippo; più a danno
pubblico, e de’ Veneziani, e del Papa, che del fratello.

  [13 agosto 1571]

Sostenne don Giovanni dieci giorni in Napoli per ricevere quivi gli
onori, che da quella città regalmente se gli facevano; e per torre
a gran pompa dalle mani del cardinal Granuela il bastone del comando
e lo stendardo della lega, che il sommo Pontefice gli aveva mandato.
Questa cirimonia con molta solennità e numeroso concorso di cavalieri,
di dame e di tutto il popolo napolitano fu compiuta nella chiesa di
santa Chiara, alli tredici di agosto: di che il cardinale scrisse a Pio
quinto con molte e belle parole la lettera seguente.[163]

  «Padre Beatissimo.

»Dopo i baci umilissimi de’ santissimi piedi: Avendo ricevuto le
lettere dalla Santità Vostra per mezzo del conte Sassatelli che
rimenerà a Roma la mia risposta, io ho consegnato oggi stesso, secondo
il rito e nelle forme che mi si erano ordinate, lo stendardo benedetto
ed il bastone insegna del capitanato generale di tutte le milizie della
lega cristiana al Serenissimo don Giovanni d’Austria, due giorni dopo
il suo arrivo: la qual cosa sarà di salute alla repubblica cristiana
ed ai nemici di terrore e di ruina, come sommamente desidero e con
preghiere continue d’innanzi al Signore Iddio imploro: tuttociò che
dalla Santità Vostra mi verrà comandato, son pronto ad osservare e
subitamente obbedire. Oggi doveva partirsi l’istesso don Giovanni
d’Austria, ma per cagioni necessarie ha differito a domani: egli
certamente si affretta, ed io ancora con molti argomenti lo sospingo
e non manco per quanto posso coll’aiuto, fatica, studio ed opera a
sollecitare questa stessa prontezza. Ne conceda il Signore prosperi
eventi, e la Santità Vostra alla sua Chiesa lungamente conservi sano.
Della Santità Vostra umilissimo servitore obbedientissimo, Antonio
cardinale Granuela.»

  [23 agosto 1571.]

Quindi don Giovanni tolte le divise del suo generalato, e punto da più
maniere di stimoli che il Pontefice da ogni parte gli metteva addosso,
uscì dal porto di Napoli, ed alli ventitrè giunse finalmente a Messina.
Venne così tardo, e insieme tanto improvviso, che appena furono in
tempo le armate pontificia e veneziana ad uscire per incontrarlo.
Pur nondimeno con somma allegrezza e festa incredibile ricevuto dai
collegati, allo sparo di una salva reale di tutte l’artiglierie;
e dalla città di Messina sopra un ricchissimo palco messo a mare,
ricoperto di sontuose drapperie, di vaghe pitture e di ingegnose
iscrizioni, entrò nella terra alla testa di una splendida cavalcata di
gentiluomini e capitani, fino al palagio reale. Laddove, licenziatosi
da ogni altro, si restrinse per due ore a trattar con Marcantonio:
facendosi intendere, che quanto alle deliberazioni e governo
dell’armata non avrebbe mai cosa alcuna risoluto se non quanto da lui
fosse stato approvato e dal generale dei Veneziani, secondo i capitoli
della lega.[164]

  [24 agosto 1571.]

Dopo le quali cose volendo anche contentare quegli altri signori
e venturieri che quivi erano, li ebbe tutti il dì seguente sulla
sua capitana; ove stando esso nel mezzo e Marcantonio alla diritta,
sedettero nel salone di poppa l’un dopo l’altro, nelle loro assise
e costumi, Sebastiano Veniero generale dei Veneziani, che bollente
di giovanile ardore in età decrepita non sofferiva che di altro si
trattasse che di partenza e di battaglia; il commendator di Castiglia
don Luigi de Requesens, uomo di molta esperienza nelle cose del mondo;
Pompeo Colonna luogotenente sull’armata del Papa, Onorato Gaetani
generale delle nostre fanterie, Michele Bonelli nipote giovanetto di
sua Santità, Francesco Maria della Rovere figliuolo del duca d’Urbino,
Alderano Cibo marchese di Carrara, Alessandro Farnese figliuolo di
Ottavio duca di Parma, Stefano Mottino maestro di don Giovanni, Paolo
Giordano Orsini duca di Bracciano, Ascanio della Corgnia maestro di
campo generale delle fanterie della lega, monsignor Paolo Odescalchi
nuncio del Papa, Gabrio Serbelloni milanese generale delle artiglierie,
don Bernardino de Cardines, don Carlo Davalos, Ottavio e Sigismondo
Gonzaga, don Pietro di Padiglia, don Lopez di Figueroa, Vincenzo
Caraffa, il conte di Lodrone, don Pompeo della Noia, Giovan Ferrante
Bisballo, Girolamo Morgat, il conte di Santafiora e Paolo Sforza suo
fratello, Ettore Spinola generale delle tre galere di Genova, Antonio
Provana conte di Leiny generale delle galere di Savoia, Giovanni
Vasquez di Coronado capitano della reale, don Luigi d’Acosta capitan
della padrona reale, Gil d’Andrada, Pirro Malvezzi, Ambrogio Negroni,
Giorgio Grimaldi, Stefano de Mari, Nicolò Doria, David Imperiali,
Giovanni di Cordona, Ferrante Caracciolo conte di Bìccari scrittore dei
commentarj di questa guerra, e molti altri, che furono più di sessanta
persone. Quivi prima d’ogni altro si fece a parlare don Giovanni,
mostrando le relazioni che si avevano dell’armata nemica, e le qualità
della cristiana: poi svolse così per le generali il suo intendimento
con animo bello e generoso, senza venire a niuna risoluzione; e pregò
tutti que’ signori che se avessero a dire, sì il facessero liberamente;
o se alcuno amava meglio dare il suo parere in iscritto, egli in buon
grado l’avrebbe.

E quantunque non pochi di essi, specialmente spagnuoli e loro
aderenti, pensassero che non si dovesse a niun patto mai arrischiare
la battaglia; ma soltanto difendere gli stati della Cristianità, o
al più assaltare qualche fortezza lontana dall’armata nemica, per non
esporre a pericolo la propria; tanto più che i Turchi, a parer loro,
dovevano stimarsi invincibili in mare;[165] ciò non pertanto, ritenuti
dalla vergogna di aversi in così picciol conto e di tanto poco stimare
il fiore dei cavalieri cristiani, quivi venuti non già a dichiararsi
impotenti, sì bene a combattere, si tacquero. Parlarono però
Marcantonio e il Sebastiano, affermando che l’armata cristiana era più
che bastevole a vincere in ogni riscontro la nemica: e che qualunque
altra impresa di terra, o espugnazione di fortezze o d’isole, vorrebbe
riuscire o vana, o di poco momento, se prima l’orgoglio dell’armata
nemica non si fosse abbassato: perchè ove niuno ardisse frenarla,
l’altrui sgomento le darebbe animo a sempre mantenere la padronanza
di tutto il mare. Alle quali proposte non solo a cenni fece plauso
continuamente monsignor Odescalchi, nuncio del Papa, ma appena potè
parlare, a nome di sua Santità, disse: non bramare altro se non che si
ponesse questo pensiero ad effetto, e che si accelerasse la partenza
e la battaglia, che per buone ragioni prevedeva doversi terminare con
una splendida vittoria. Laonde ripetendosi queste parole, di battaglia
e di vittoria, da molti capitani e da tutti i venturieri giovani, che
veramente o non dovevano dir nulla o questo, fu sciolto il consiglio.
Causa di maggior discordia nell’armata. I Veneziani gli si attaccarono
forte, e vi si tennero sempre saldi; perchè fatto a parer loro con ogni
solennità di pieno consenso e deliberazione di tutti; da non doversi
mai più rivocare dubbio: dicendo che chiunque non aveva in quel giorno
fatto parola in contrario, era convenuto con la parte maggiore, nel
punto di cercar l’inimico e di combatterlo. Ma non pensavano così i
parziali di Spagna: ai quali pareva che il consiglio fosse stato tenuto
da don Giovanni per cirimonia, e per dimostrazione di gentilezza: e
che si dovesse ancora pigliar tempo, ed esaminare meglio le imprese
di sicura riuscita. Non già per fuggir la battaglia, no: ma per
andar cauti in ogni cosa; per cavare certe utilità ora da Brindisi,
ora da Otranto, poi rinforzi di fanteria, e appresso provvigioni, e
l’un giorno assalir Negroponte, l’altro espugnar Castelnuovo. Tutti
andirivieni conosciuti: voltarsi di fianco quando non si vuole andare
di fronte; e dar tempo al tempo perchè da cosa nasca cosa.

  [1 settembre 1571.]

E questo si faceva non solo in parole ma anche in scritture, con gran
disturbo dell’impresa e avvilimento di tutti. Ascanio della Corgnia
pubblicava un manifesto alli venticinque d’agosto in Messina, il giorno
dopo al consiglio: nel quale parlando a don Giovanni tra l’altre cose
diceva:[166] «Vostra Altezza non ha forza bastante per andare a trovare
l’armata nemica, nè per tentare impresa alcuna a diversione, o ad altro
effetto, senza porsi a manifesto pericolo di perdersi malamente.»
Ascanio dopo la grande giornata venuto a Roma non essendo ricevuto
dal Papa nè con accoglienze nè con parole, come egli pretendeva di
meritare, cadde ammalato; e diede ragione universalmente di credere
che da quel dispiacere gli fosse venuta la morte, che in assai breve
spazio gli succedette. Non pochi tra i maggiori condottieri parlavano
e scrivevano simili indegnità: tanto che Marcantonio ristucco della
soperchieria ed autorità dei contradittori, mandava allora a Roma una
lettera arcana, che diciferata diceva così:[167] «Il signor Ascanio
della Corgnia ed il conte di Santa Fiora, con altri tenuti d’autorità,
si fanno intendere pubblicamente in parole e in iscritture che non sia
bastante l’armata nostra a combattere la nemica, e in tal modo fanno
raffreddare l’animo buono del signor don Giovanni: ed io, che tanto
ho faticato a ridurre le cose a sì buon termine d’unione, non posso
comportare che dopo tante fatiche e spese si perda una occasione tale,
donde può risultare tanta inconvenienza e pubblico danno.... Io di
tutto sento gran disturbo, nè posso quietarmi come il signor Ascanio e
Santafiora, che sono pur vassalli di Sua Santità, vadano tanto contro
la buona mente sua e contro il comun servigio, facendo tanto conto
dell’armata nemica per il numero delle vele, che sono di gran parte
fuste e vascelli piccoli; et fare sì poco conto dell’armata nostra,
che sono duecento e dieci galere, sei galeazze, e trenta navi: che non
so quando mai se ne unirà un’altra tale. Io potrei quietarmi e lasciar
fare a chi tocca; ma non devo.... et il mio voto sarà sempre che si
combatta.» Per questo egli era perseguitato: e i suoi nemici sottili
arti adoperavano a metterlo in diffidenza de’ confederati. Tra i
Veneziani spargevano che se la intendesse secretamente cogli Spagnuoli;
e tra gli Spagnuoli che egli seguitasse la parte dei Veneziani: don
Giovanni liberamente dicevagli che contro di lui gli si erano fatti
pessimi uffici, e il re Filippo (che non ardiva per rispetto di san
Pio spiegare con lui l’animo suo) scrivevagli lettere misteriose,
rammentandogli sempre gli obblighi suoi, come se diffidassene, o
volesse condurlo all’adempimento di alcun secreto e poco onesto
disegno.[168] Onde Marcantonio per più lettere e più persone fece
sapergli che il togliesse da quella incertezza; e se era malcontento,
gli desse licenza di potersi ritirare: altrimenti parlasse chiaro quel
che da lui desiderava. Ecco al proposito due lettere importanti: ecco
come un uomo grande, ma suddito e feudatario del cinquecento, scriveva
del re Filippo e degli affari correnti a san Pio, e a san Francesco
Borgia:

  «Reverendissimo Padre.

»La Paternità vostra si è incaricata per sua bontà di supplicare
la Maestà Sua che mi desse licenza di lasciare questo generalato,
dappoichè dicono che io l’ho preso con altro fine che non è di servir
Sua Maestà; o vero, se così gli fosse piaciuto meglio, mi comandasse
ciò che avrei a fare. Ora torno di nuovo a supplicare la Paternità
Vostra per la cosa medesima, purchè non si opponga il signor Ruy
Gomez, nel quale ho fondata speranza. Mi sono giunte diverse lettere
di Sua Maestà mettendomi sempre avanti le mie obbligazioni che tengo
per servizio suo. Di modo che la mia volontà, che a questo mira più
che a quante ricchezze e onori sono nel mondo, si tiene per nulla.
Peggio è che sento dire essersi proposto a Sua Maestà di scrivermi cose
anche più strane. Che se a tal mi vedessi, io gli lascerei tutto, e
me ne verrei costà, e sarebbe un bene all’anima mia. Ecco che quando
pensavo che i miei servigi sarebbero graditi, non essendomi trovato in
Roma, nè avendo trattato cosa che potesse dar disgusto a Sua Maestà,
avendogli l’anno passato messo in salvo l’onore dell’armata sua, e in
questo conclusagli la lega, mi trovo al punto di dover scrivere la mia
giustificazione. In che modo servo al Signor don Giovanni egli lo vede,
e lo vedrà: però quando penso che alcuno abbia a dire che me lo fanno
fare per forza, resto tanto afflitto, come se questo fosse cosa nuova
per gli altri di casa mia e per me stesso. Sia lodato Iddio, che ci
fa conoscere quanto poco vale questo mondo. E sappia vostra paternità
reverendissima che tanto pubblicamente correva voce che il signor don
Giovanni veniva coll’ordine di mettermi in paura e soggezione, che
il Papa mandò qui monsignor Odescalchi principalmente a raccommandar
me a questo Signore, e a trattar con lui, pensando che a me non mi
ascolterebbero. Lodato Dio, che siamo qui tutti: e si vedrà quel che
vale ciascuno. A vostra paternità bacio le mani, pregandola a perdonar
la molestia: chè certamente questo negozio mi ha dato tanta afflizione,
che mi ha fatto dimenticar quella della galera in Messina li quattro di
settembre 1571.»

A san Pio, senza toccare i particolari, sapendo ambedue le istruzioni
di monsignor Odescalco, e ciò che direbbe tornandosene allora a Roma,
scriveva brevemente così.

  «Santissimo et beatissimo Padre.

»Da monsignor Odescalco Vostra Santità sarà informata di ogni
particolare di quest’armata. A lui mi rimetto: certificando la Santità
Vostra che il detto monsignore con giuditio et diligenza ha eseguito
l’ordine suo. — Raccomando alla S. V. le cose mie. — Et bacio li suoi
santissimi piedi. Di Messina li 15 settembre 1571.»


  [2 settembre 1571.]

X. — Ma quando a’ due di settembre furono riunite nel porto di Messina
le altre sessanta galere dei Veneziani, venute da Candia a golfo
lanciato, senza aver toccato terra, per una delle maggiori navigazioni
che simili bastimenti avessero da gran tempo fatta; e quando nella
stessa giornata altre undici galere del Re, agiatamente condotte da
Giannandrea Doria, vi ebbero dato fondo;[169] crebbero le dissensioni.
I Veneziani non potevano più patire di esser tenuti a bada colà, nè gli
Spagnuoli risolversi a partirsene. Questi sempre in parole di nuove
consultazioni per veder ciò che s’avesse a fare; quelli all’opposto
sempre fermi nel partito già preso di cercar l’inimico e di dargli
la battaglia. La qual differenza tanto più dispiaceva ai Veneziani,
quanto che vedevano i regi ad ogni altra cosa, men che alla battaglia,
prontissimi. A Giannandrea, l’istesso giorno dell’arrivo e senza loro
consentimento, era dato da don Giovanni il comando di tutta l’ala
diritta nell’ordinanza della lega; a don Carlo Davalos similmente
il governo di tutte le navi, ad Ascanio della Cornia di tutte le
fanterie. Ascanio, che a loro dispetto parlava e scriveva in Messina
contro la battaglia; Carlo, che a loro danno era stato nella guerra
di Cipro; e Giannandrea, che dovunque e sempre attraversavali.[170]
A costoro il comandare, ai Veneziani l’ubbidire. Le leggi, uscite di
penna a don Giovanni, senza participazione di alcun di loro, tosto si
pubblicavano: e più volte s’era veduto, in barca e bandiera spagnuola,
il banditore venirsene sotto la Capitana veneziana intimando a suon
di tromba l’osservanza di certi editti, e le minacce di certe pene, di
che il general Sebastiano era costretto a dire non sapersi cosa gli si
comandava.

Marcantonio là in mezzo difficil carico sosteneva, la lega per lui
durava: tutto amorevolezza verso i Veneziani, procacciava quietarli; e
tutto osservanza verso don Giovanni, dirgli liberamente il suo parere:
quelli per lui tolleravano lo strazio; e questi per lui rimediava ai
disordini. Non era sempr’esso la causa; ma altri poco officiosi e meno
benigni. Pur la macchina andava, e le opposte pretensioni restavano
dentro certi limiti: oltre ai quali più di una volta sarebbero
infallantemente trascorse se Marcantonio, mirando al pubblico bene, non
le avesse con somma prudenza contenute.[171]

  [8 settembre 1571.]

Tra questi travagli si venne agli otto di settembre a dar la mostra
generale di tutta l’armata. Le dodici galere pontificie e le sei
fregate furono stimate ottime per la qualità ed armamento loro, e
più pel numero e bellezza delle fanterie; al paro di chi che fosse
all’armata;[172] le galere del Re eziandio ben fornite d’armi e di
genti; quelle dei Veneziani, pregevoli per ogni altro capo, e mal
fornite di fanterie; non avendo più che ottanta soldati per galera. E
quantunque il loro Generale con buon fondamento dicesse che i remigi
dell’armata sua, perchè tutti cristiani e volontari, non turchi
o sforzati, in caso di battaglia, lasciato il remo piglierebbero
l’armi, ed egli ne avrebbe più combattenti d’ogni altro; ciò non
pertanto i consiglieri di don Giovanni deliberarono che in ciascuna
galea di san Marco dovessero mettersi venticinque soldati del Re. Gli
Spagnuoli volevano comparire in ogni parte, assicurarsi dei Veneziani,
e aggravarne i difetti: pognamo pur che fossero, come questo era,
segno di loro bravura. Di che si alterarono grandemente, parendo loro
indegnità d’essere voluti aiutare nel combattimento da chi mostrava
tanta poca voglia di combattere; e di ricevere in casa, anzi dentro
le viscere delle loro migliori fortezze (chè tali erano le galere pei
Veneziani) gente straniera, sospetta, e coll’armi in dosso. Sebastiano
s’opponeva, don Giovanni protestava; e Marcantonio tenuto dal primo in
altissimo concetto e dagli altri in più fede che tutta la lega,[173]
temperando quello e persuadendo questi, riusciva a mettere sulle galere
veneziane quattro mila soldati tra Spagnuoli ed Italiani che erano in
Messina ai soldi del Re. Io stimo, e ogni altro meco vorrà convenire,
che la mediazione di lui era primo sostentamento della Lega, e la
sommissione dei Veneziani segno il più certo della loro buona volontà.

I loro nemici non poterono negarlo: e gli storici meno parziali
condotti dall’evidenza dei fatti riconoscono in quella ed in
altre occasioni la fiducia, e la sincerità con che procedevano i
Veneziani.[174]


  [10 settembre 1571]

XI. — Ciò non pertanto gli alleati non movevano da Messina: e molti
ricantando la potenza, la bravura, il numero, e ogni altro vantaggio
vero o supposto dei Turchi, dissuadevano la partenza. Per ciò don
Giovanni divisò raunare un’altra volta il maggior consiglio, e mandar
di nuovo a partito la già presa deliberazione. Tutti quei signori, che
erano stati chiamali il ventiquattro di agosto, tornarono sulla reale
ai dieci di settembre; più il marchese di Santacroce, Prospero Colonna,
il Quirini, il Canale, Giannandrea Doria, e alcuni altri arrivati di
fresco, quasi settanta persone, a rimestar l’argomento del cercare o
del fuggire la battaglia.

I tutori di don Giovanni che pensavano aver già fatto gran cosa ad
aiutar i Veneziani sino a Messina, e non volevano altri viaggi nè
battaglie, per fuggir la taccia di codardia, affettavano prudenza:[175]
non si arrischiasse tutta la naval forza della Cristianità ad una
battaglia di esito incerto; si attendesse alla stagione troppo
inoltrata per navigare, al difetto di viveri, di milizie, e di molte
cose: meglio rivolgersi a Tunisi, ove sarebbero guadagni certi; doversi
procedere con grandissima cautela, e guardarsi bene dagli scontri
repentini: affinchè l’armata nemica, già tanto vittoriosa, che aveva
la gran provincia di Dalmazia e il ricco regno di Cipro all’impero
Ottomano soggettato, potesse facilmente andarsene a Costantinopoli.

Ma dall’altra parte Marcantonio, Sebastiano, il marchese di Santacroce,
tutti i Romani e tutti i Veneziani, dicendo che erano venuti per
combattere non per tremare di paura, per mettersi alla prova non
per fuggirla, e che alla Cristianità recava pericolo ogni altra cosa
fuorchè la battaglia, persistevano in richiederla. Quando fosse vinta,
secondo che doveva con ogni ragione sperarsi, l’avrebbe per sempre
liberata: e quand’anche perduta si fosse, non potrebbe però il nemico,
senza grandissima sua strage e ruina di molte sue navi, della vittoria
godere; per l’ardire e la bravura di tanti valorosi guerrieri, quanti
nell’armata cristiana se ne vedevano. In tal caso nè la cristianità
nè i regni d’Italia, ben guardati e muniti, avrebbero nulla a temere
dagli inimici tanto debilitati, dai quali quantunque potenti s’erano
sempre difesi. L’armata cristiana non già la turca correrebbe pericolo
di esser disfatta dal tempo; dipendendo la prima da più principi
le cui volontà potevano mutarsi, e la seconda dalla volontà di un
solo che non mutava mai. E ripetendo che il turco non fosse già mica
l’invincibile, nè che avesse tanta superiorità di forze, nè per il
numero dei vascelli, nè per la loro qualità, che non si potesse con
molto vantaggio delle pavesate, rambate, artiglierie e galeazze nostre
superare, conchiudevano che per necessità di non romper la lega, e
per la molta speranza della vittoria, e con poco pericolo in caso di
rovescio, si dovesse onninamente andare a combatterlo.

Le quali ragioni, sostenute dal generale veneziano con assai calore
e dal romano con molta saviezza, bastando già i due voti secondo
i capitoli della Lega a dar legge al terzo, ridussero don Giovanni
(quantunque perplesso tra l’osservanza del fratello e gli stimoli
della gloria) a inclinare il suo voto in favor della battaglia. Ondechè
levatosi in piedi a un tratto, e rivolto agli astanti parlò presso a
poco in questo tenore:[176] «Avendo qui adunate sotto l’imperio mio
tutte le forze marittime che dai principi cristiani cavar si possono,
penserei di commettere grave scelleratezza se in tanti e sì urgenti
pericoli dei Veneziani gravemente afflitti, mentre sono compagni e
nella lega confederati, io non li soccorressi d’ogni aiuto opportuno.
Pertanto ho risoluto, insieme col Generale del Papa e di Venezia, di
partirmi di qua; e di fare ogni diligenza per trovar l’armata nemica
e con l’aiuto di Dio combatterla. Esorto adunque e prego ogn’uomo che
l’animo e le forze generosamente disponga a secondarmi: talchè io possa
risolutamente venire alla battaglia; e con tutti voi rallegrarmi poscia
d’una splendida vittoria.[177]

Dopo le quali parole, udite da tutti in profondo silenzio, gli
astanti senza eccezione, anche gli stessi regi curatori che tanto
avevano sconsigliato il combattere (fosse vergogna, fosse adulazione)
proruppero con grandi applausi, acclamando alla generosa e risoluta
semenza di don Giovanni: e quasi tutti lietissimi, se ne uscirono dal
consiglio. Sull’atto diffusane la notizia; fu, da chiunque non avesse
sinistre intenzioni, ricevuta con un solo e solenne sentimento di
gioia.


  [16 settembre 1571.]

XII. — Sei giorni dopo, tutta l’armata cristiana usciva dal porto di
Messina, tra le acclamazioni dei popoli, la festa dei soldati e le
maraviglie dei marinari. Navigavano in bellissima ordinanza, e prima di
tutto con grandissime dimostrazioni di pietà: avendone dato l’esempio
i generali, i colonnelli e gli altri ufficiali; e detto ai soldati
che si dovesse confidare in Dio per aver buoni effetti da così giusta
e santa guerra, tolta per servigio suo, e per la difesa della fede e
della patria. Però quasi tutti in Messina si erano riconciliati con
Dio, ed avevano ricevuti per le chiese i sacramenti: e comunemente si
giudicava che forse mai non si fosse veduta un’armata così disciplinata
in fatto di religione. Nella qual cosa grandemente si adoperarono
quei sacerdoti Cappuccini che il Papa aveva messo nelle pontifice
galere;[178] e quei padri Gesuiti che il Re aveva mandato nelle sue;
e quei tanti dell’ordine di san Domenico e di san Francesco che qua
e là sulle galere di Genova, di Venezia e di Savoja esercitavano il
sacerdotal ministerio. Andava di vanguardia don Giovanni di Cardona con
otto galere spalverate, venti miglia a mare; con ordine che scuoprendo
l’armata nemica dovesse ripiegarsi subito sulla nostra, e rimettersi
al luogo assegnato, con dar conto al Generale di quanto avesse veduto.
Appresso di tutte le galere dell’armata si fecero tre divisioni; cioè
il corno destro, la battaglia, e il corno sinistro: mettendo le galere
del Re, del Papa, e della Repubblica interzate e miste tra loro,
perchè si aggiustassero le squadre ad essere egualmente gagliarde,
e si togliessero i pericoli di ammutinamento e di fuga. Così pure fu
riserbato un corpo di trenta galere da venire appresso un miglio per
soccorso e riserva. E finalmente per turno un capo di retroguardia col
carico di soccorrere se qualche galera rimanesse sbandata o zoppa; e
di allumare il fanale nella notte per dimostrare quanto addietro fosse
l’ultima galera; perchè le prime regolassero il cammino, e al far del
giorno si trovasse tutta l’armata unita. Le quali cose, con molti altri
ordini bellissimi, di che parlerò nel giorno della battaglia, furono
tutte disegnate in carta e dipinte a colori, coi nomi e stendardi di
ciascuna galera, e distribuitone un esemplare a tutti i capitani di
esse, e a tutti coloro che nell’armata avevano governo.

  [21 settembre 1571.]

Le nostre galere assai quietamente, sebbene fossero accadute
alcune questioni di precedenza tra la capitana di Malta e quella
di Savoja,[179] rigirarono il capo Spartivento; e costeggiata la
Calabria, con diverse fortune, nella cala delle Castella dettero
fondo, al ridosso di capo Colonna. Nel qual luogo, mentre erano dal
gran vento impedite di procedere (pel quale sferrò con molto pericolo
la capitana di Malta) la notte avanti al ventuno di settembre apparve
in alto un segno, che fu dalla gente creduto prodigioso. Era il
cielo tutto sereno, il vento di tramontana freschissima, le stelle
chiare e scintillanti; ed ecco nel mezzo all’aria fiamma di fuoco sì
lucente e sì grande in forma di colonna per lungo spazio fu da tutti
con maraviglia veduta. E quantunque oggidì sia dimostrato che tra li
fenomeni elettrici e pneumatici dell’atmosfera, i quali più vigorosi
appariscono nel cader dell’estate, debbano annoverarsi non solo i
fuochi fatui e la luce di Santelmo; ma anche i globi di fuoco e le
travi ardenti, come questa; nondimeno allora gli spettatori, come
da prodigiosa apparizione, ne tiravano felicissimi augurj di gran
vittoria. Stimavano che la colonna di fuoco guidar dovesse l’armata
cristiana sul mare, come guidò il popolo d’Israele nel deserto: o vero
simboleggiasse colassù lo stemma di quel Colonna che, avendo quaggiù
coll’altezza della sua prudenza congiunto la lega, con la saviezza
del suo consiglio la sostentava.[180] E tanto più si addentravano nei
prognostici di siffatto segno, quanto che da molti altri era stato
in poco tempo preceduto: perchè la terra si era scossa a Ferrara,
il fulmine aveva pur dato in Roma sul campanil di san Pietro, e in
Firenze sulla cupola di santa Maria del Fiore: oltreacciò si diceva
che nella parte più sublime di santa Sofia in Costantinopoli, che oggi
è principal moschèa dei Turchi, fossero apparse alcune striscie di
fuoco, come tre croci. Di che sparsa la fama in ogni parte rinverdivano
le speranze dei popoli, come se quei segni presagissero la caduta
dell’impero ottomano. Dolci fantasie di rozze genti; che in ogni modo
disvelano le loro speranze, ed ovunque ne scorgono i segni. Tito Livio
ed altri storici, prima di narrare grandi successi, ricordano sovente
l’opinione dei popoli sui presagi.

  [26 Settembre 1571.]

Ora io non istarò a noverar tutte le palate che dette, nè tutti i capi
che raddoppiò, nè le cale tutte ove diè fondo l’armata nostra; col
vento or favorevole or contrario, e col mare or di bonaccia or grosso:
ma insiem con lei me n’entro nel porto di Corfù, alli ventisei di
settembre, sull’ora di vespro, per vedere altri segni grandissimi di
quelle allegrezze che erano in ogni luogo dimostre ai capitani della
lega. Non rimase uomo alcuno in Corfù che non scendesse al porto,
nè pezzo alcuno d’artiglieria nella fortezza che non fosse sparato:
l’accoglienze e gli onori dei Veneziani a don Giovanni, a Marcantonio
ed agli altri condottieri apparver grandi, e le dimostrazioni di
confidenza infinite. Contuttociò, nella breve dimora che quivi fecero
aspettando il ritorno di Gil d’Andrada, spedito avanti sulle tracce
dell’armata nemica per cavarne notizie, non lasciarono i consiglieri
di Spagna di ritentar la prova se pur venisse lor fatto di smuovere don
Giovanni e di rivolgerlo altrove; cioè all’espugnazione di Santamaura,
o della Prevesa o di altre fortezze più vicine. Ma ributtate siffatte
proposizioni da lui, che ormai ardeva nel desiderio di trovar l’armata
nemica, fu nuovamente risoluto di tirare avanti per inseguirla: e posto
che non si potesse raggiungerla, si sarebbe assalito Negroponte. A
quest’effetto ordinarono che Gabrio Serbelloni imbarcasse sei pezzi
grossi da batteria, con ruote e carri di rispetto, seimila palle, e
polvere all’avvenante.

  [2 ottobre 1571.]

Dalle quali cose speditosi don Giovanni, e ricevuta poco dopo da
Gil d’Andrada la notizia che l’armata turchesca era giusto allora
entrata nel golfo di Lepanto, condusse la nostra alle Gomenizze:
bello e capacissimo porto, messo dalla natura al di là di Corfù venti
miglia, sulla costa dell’Epiro; senza alcuna fortezza che ne tenesse
l’ingresso. Quivi l’armata dovette per tre giorni rimanere; essendo
il mare grosso, e il vento contrario gagliardo da scirocco. Nel qual
tempo i Turchi della provincia, temendo qualche sbarco, eransi raccolti
da più parti in arme, e spiavano ogni occasione per danneggiare
i Cristiani. Colà appunto alli due di ottobre successe la prima
scaramuccia; e toccò in sorte ai soldati di Marcantonio di far sui
nemici il primo fuoco. Imperciocchè, volendo una delle nostre galere
mandare gente in terra per acqua, il capitan Ruggiero Oddi di Perugia
sbarcò altresì venticinque soldati a spalleggiare gli acquatori.
Andarono alla sorgente, e dettero nell’imboscata di cinquanta cavalli
nemici. I quali a un tratto usciti fuori con grida ferocissime mossero
per caricare sopra i nostri. Però fu così destro un soldato velletrano
ad aggiustar la palla del suo moschetto in petto al caporal de’ Turchi,
che lo rovesciò semivivo da cavallo; e tanto prestamente i compagni
presero quel vantaggio, che a furia d’archibugiate cacciarono in
dirotta fuga il mal arrivato drappello.[181]

  [3 ottobre 1571.]

Tra le feste che a bordo si facevano per la riuscita di questo primo
scontro, arrivarono quivi stesso nella notte le infauste notizie di
Cipro. Era rimasta in quell’isola ai Veneziani soltanto la fortezza
e città di Famagosta; che sin dall’anno precedente assediata, si era
pur lungamente difesa, per opera non solo del presidio sceltissimo di
gente italiana, ma anche dei nobili e terrazzani che dettero sempre
ogni bell’esempio di virtù. Ma dopo infiniti travagli, cavato nuovo
fosso, e rilevati altri fianchi e più traverse su tutte le opere di
fortificazione; difesa a palmo a palmo la strada coperta, l’argine, il
fosso, il muro, le brecce, e le ritirate; venute meno le munizioni, il
vino, il pane, e ogni speranza di soccorso; piene le strade e le case
di feriti, di languenti, e di cadaveri; dovettero finalmente capitolar
la resa: salva la vita dei capitani e dei soldati; l’uscita libera
a chiunque volesse, e ciò con armi, bagagli, cinque cannoni, e tre
cavalli, uno di Astor Baglioni governator generale della piazza, uno
di Marcantonio Bragadino provveditor dell’Isola, e uno del provveditor
Quirini; il passaggio sulle galere per fino a Candia; e i cittadini
rimanessero nelle loro case, vivendo da cristiani e godendo de’ loro
beni. Ma un giorno appresso alla giurata capitolazione, resa la città,
il Turco traditore fece tagliare a pezzi il prode Astorre Baglioni
di Perugia, con altri cavalieri principali di sua compagnia:[182] e
l’invitto Marcantonio Bragadino, mozzate le orecchie e schernito con
molte bestemmie più giorni, finalmente messo nudo in sulla piazza al
ferro della gogna, fece crudelmente così vivo scorticare: con tanta
costanza, fede e divozione di quell’uomo nei tormenti, che non perdendo
mai punto dell’animo suo generoso, rimproverando senza turbamento
a Mustafà, che era presente, la fede violata, e raccomandandosi
divotamente a Dio, in grazia di sua divina maestà come dobbiamo
credere, santamente spirò.[183]


XIII. — Udite siffatte atrocità in onta alle leggi di natura per
oltraggio della fede e del nome cristiano, l’indignazione dei soldati
sull’armata proruppe con segni tanto manifesti, quanto ciascun
generoso meglio può pensare che non io descrivere. Niuno però imaginar
potrebbe, senza che venisse ricordato, come l’istesso giorno di
così giusto dolore, quando gli alleati avrebbero dovuto viemeglio
stringersi e levarsi tutti insieme contro gli spergiuri per vendicare
il sangue dei traditi fratelli, allora appunto i fratelli contro i
fratelli rompevano, e tutta l’armata in due parti divisa si metteva
in punto di combattere con sè stessa, e mutuamente sconfiggersi
ed annichilarsi. Già ho detto come stavano tra loro di mal talento
gli Spagnuoli e i Veneziani; e quanto il general Sebastiano Veniero
s’era opposto per non ricevere nell’armata sua le soldatesche del
Re. Ma avendole, per la necessità di non rompersi apertamente con don
Giovanni, ricevute, presto successe ciò che egli già pensato n’aveva.
Era sopra una galera veneziana del capitan Andrea Calergi, nobile
candiotto, un tal Muzio Alticozzi di Cortona, capitano al soldo del
Re: uomo fazioso e caparbio, il quale per cagione di lieve momento
intorno a certe balestriere si lasciò fuggir di bocca parole villane
a vituperio dei Veneziani. Nacque allora una rissa tra le parti, che
fu a stento compressa dal Calergi. Ma essendosene poi le genti della
galera querelate col general Veneziano, questi mandò alcuni compagni di
stendardo (così chiamavansi a Venezia i berrovieri del mare) e ordinò
che fossero imprigionati i delinquenti. Se non che Muzio, dicendo che
egli niun veneziano riconosceva per superiore, fece tal resistenza
coll’armi contro quei dello stendardo, contro al Comito reale dai
Veneziani chiamato l’ammiraglio, e contro all’istesso generale
Veniero, venuto in fretta per frenarlo; che sotto quasi agli occhi suoi
ammazzò due uomini, e sconciamente ferì di archibugiata nella spalla
l’ammiraglio. Ma intanto essendo stato ferito in più parti, e preso
anche Muzio, fu a un tratto, così mezzo morto, per ordine del Veniero
sull’antenna di quella galera impiccato, insieme con un caporale e due
soldati partecipi del disordine.[184]

Non fu accidente in tutta quell’annata che più di questo turbasse
l’animo di don Giovanni; parendogli che l’autorità sua tornasse al
tutto disprezzata. E si alterarono intorno a lui maggiormente quei
consiglieri che non avevano voglia d’andare avanti, tanto Spagnuoli
che Italiani aderenti loro. Gli uni rappresentavano il fatto come
ingiustizia del Veniero, gli altri come offesa a don Giovanni, questi
come oltraggio alla nazione, quelli come degradamento dei capitani, e
quasi tutti come cosa da non doversi in niun modo comportare. Ondechè
sua Altezza radunò il consiglio privato: nel quale la maggior parte
deliberò che don Giovanni, per sua dignità e per ogni rispetto, doveva
pigliar prigione il General veneziano, e fare dimostrazione notabile e
rigorosa contro la persona sua. Ciò è dire, punirlo nella testa.[185]

Presa questa deliberazione, don Giovanni fece trattenere il consiglio
unito, mandò per Marcantonio, e quivi in pubblico il richiese se avesse
udito il gran disordine del general Sebastiano, che egli non sarebbe
mai per comportare. Indi lo pregò che dicesse subito il parer suo; non
come generale del Papa, ma come servitore del Re.[186] Marcantonio
era rivolto coll’animo a scusare quel fatto: perchè non si poteva
dubitare che il capitan Muzio ed i suoi complici non avessero meritato
il gastigo; e pareva che (quantunque prestati da don Giovanni) avendo
pur commesso grave delitto sopra le galere dei Veneziani, e dovendo per
quel tempo essere sottoposti agli ordini e giustizia loro, potevano
essere puniti dal Generale medesimo, massime in caso di urgente
necessità e per sicurezza sua; non restando altro a scolpare se non
l’errore, forse inavvertito, di non averne dato parte a don Giovanni
prima, o almeno subito dopo, della esecuzione. Ciò non pertanto, veduta
l’alterazione di sua Altezza, si contenne. Molto più che quivi erano
taluni i quali per private passioni facevano cattivi ufficî; e più
ancora che non miravano se non alla dignità dell’Altezza Sua, facendo
poco conto di tutti gli altri; e pochi di loro sapevano qual fosse
la sostanza dei capitoli: talchè avrebbero anzi acceso che spento
il fuoco. Pensò dunque di pigliar tempo a rispondere; e disse: aver
udito il caso del capitan Muzio; ma che, per esser quivi giunto allora
allora, prima di parlare desiderava sentire il parere di quei signori
che già avevano trattato l’argomento. Ondechè, tacendo Marcantonio,
ripigliarono quegli altri: ma confusi e peritosi, come avviene a chi
ripete pareri poco ragionevoli; specialmente innanzi a personaggio
sagace, che fissamente riguardando mostri noverare gli errori di
ciascuno, e biasimarne la poca prudenza. Finalmente Marcantonio col
movimento della persona mostrò di aver chiaramente compreso come
avessero già ferma quella deliberazione che peggiore tra tutte s’era
immaginata. Allora non volendo inutilmente opporsi nè entrare in
dispute contro tanti, si rivolse a don Giovanni, e rispose: che quello
che gli occorreva, come capitano del Papa e insieme come servitore
del Re, era il dissimulare intanto ogni ingiuria, e rimettere la
dimostrazione rigorosa ad altro tempo. E ciò per molte ragioni: prima
perchè la deliberazione venisse con minor calore, e quindi più prudente
e più giustificata: e poi perchè la dimostrazione rigorosa in quel
momento doveva farsi contro ad altri nemici, assai peggiori, coi quali
prima già s’erano disfidati; e che nondimeno impuniti e sempre più da
vicino insultavano e manomettevano a tradimento la vita e il sangue,
non di tre malfattori, sì di molte migliaja d’innocenti: essendosi
con tante fatiche e tante spese unita l’armata della lega per questo
fine. E perchè era altresì cosa certa che la dimostrazione di rigore
non si sarebbe potuta fare contro la persona di uno che comandava la
maggior parte dell’armata, senza combattere con lui e mandare in ruina
la lega e tutta la Cristianità, doveva ognuno intendere il pericolo
di quel consiglio. Si guardasse, che sarebbe poi biasimato da tutti, e
solamente lodato dai Turchi: i quali avrebbero cogli occhi loro così da
vicino veduto il giocondo spettacolo del combattersi insieme le armate
cristiane, e del caderne gli avanzi senza fatica in poter loro. Gli
altri però, principi e popoli della Cristianità, che avevano concetta
tanto grande speranza della virtù di don Giovanni e della potenza
della lega, resterebbero non solo delusi ma esposti alle ingiurie
dei barbari, per causa del disordine fatto da un privato gentiluomo
veneziano; che altro non era il Veniero, tornato che fosse a Venezia.
E quantunque agli offesi potesse parer dura la sofferenza, nondimeno
si doveva considerare ciò che ne direbbero gli uomini presenti e
gli avvenire: Ecco, direbbero, la lega è stata disciolta, il Turco
è prevalso, la congiunzione di tante navi è stata vana, don Giovanni
non ha fatto cosa alcuna degna del suo nome: e ciò perchè Sebastiano
Veniero ha impiccati tre uomini, che alla fine lo meritavano.
Quindi liberamente era di parere che, potendosi trovar alcun modo
a dissimulare per allora l’ingiuria, ciò fosse da fare: e procedere
innanzi. Così, domando l’ira con la clemenza e posponendo le private
passioni al pubblico bene, acquisterebbe don Giovanni quella fama e
quella gloria che sempre segue chi ben si governa.

Commosso don Giovanni alle ragioni ed ai consigli di lui, non solo
sospese la vendetta, ma arrossì di sè stesso; pensando anche aver
dato occasione a tal personaggio, di tanto senno e gravità, qual
era Marcantonio, di venir seco ad umili supplicazioni. Perciocchè,
dicendo l’ultime affettuose parole, per abbracciargli le ginocchia
gli si era inchinato. Laonde subitamente levatolo, rispose: che a
lui si rimetteva, perchè come aveva saputo ben consigliare, così
saprebbe anche meglio scegliere la forma più adatta a salvare le sue
ragioni, a contenere il general veneziano, e a fare insomma che tutto
ben procedesse, sino a veder l’esito della battaglia. E Marcantonio
salutandolo graziosamente si partiva, dicendo: che sarebbe andato di
presente a trattarne con Agostino Barbarigo, nella prudenza e destrezza
del quale molto si confidava.

Tornando allora col palischermo verso la sua capitana, già presso la
mezzanotte, vide tutta l’armata sossopra in gran rumore, per essersi
saputa la deliberazione del consiglio privato di sua Altezza, contro la
persona del General veneziano. Onde questi aveva preso l’armi, accesi
i fanali, chiamate intorno a sè le sue galere, e si apparecchiava a
difendersi: gli Spagnuoli dall’altra parte davano mano ad allestirsi,
e pieni di sospetto si tiravano da parte, e mettevano le armi in
coperta: i capitani di qua e di là scorrevano incerti di quel che
dovesse succedere: ed Agostino Barbarigo per quel rumore era venuto
sulla capitana pontificia, e aspettava che Marcantonio ritornasse dal
Consiglio. Per ciò narratisi rapidamente l’un l’altro le cose occorse
sino a quel momento, presero ambedue a trattar del modo che si avesse a
tenere per quietare don Giovanni. Convennero in questo, che Sebastiano
non dovrebbe più intervenire nei consigli, ma starsene nella sua galera
privatamente, e non farsi vedere a don Giovanni, nè anche nel navigare;
e che il Barbarigo potrebbe in sua vece entrare in consiglio, posto che
Marcantonio avrebbe sempre riferito prima quel che si dovesse trattare,
affinchè l’altro potesse venirci indettato dal suo Generale e dagli
altri provveditori. Preso questo concerto, se ne andarono al Veniero:
e come dubitavano della sua terribile natura, per essere quel vecchio
collerico e di subitanea impressione, fermarono insieme di usare ogni
arte per condurlo a secondare il loro avviso. Ma trovarono la cosa
tanto facile, che in due parole restò conclusa: perchè avendo colui
saputo della dimostrazione che si voleva fargli, già era fisso che non
sarebbe mai più montato sopra una galera spagnuola, quandanche tutta
la sua Repubblica vi si fosse unita. Marcantonio non per questo lasciò
con buone ragioni di ammonirlo, dicendogli: che mal si conveniva a lui,
tanto versato nelle leggi per tutto il tempo di sua vita, dimenticarle
nel maggior bisogno. Indi tornò a don Giovanni, che era quasi solo col
marchese di Santacroce e don Luigi de Requesens: tacque la facilità del
consentimento di Sebastiano: anzi mostrò come era gran cosa il tener
colui confinato nella sua galera, escluso dai consigli, e riservati a
miglior tempo quei risentimenti che fossero creduti giusti; e indusse
sua Altezza a contentarsene. La mattina seguente tutta l’armata, per
la prudenza del generale romano campata dal presentissimo pericolo,
assai quietamente dava le vele ai venti, facendo prua verso la
Cefalonia.[187]


  [4 ottobre 1571.]

XIV. — In questo intervallo, sino alli sette di ottobre, che fu la
grande giornata, non successe alcuna novità di momento nell’armata
cristiana; e nè anche nella nemica. Ma da una parte e dall’altra due
cose si facevano; disputare della battaglia, e spedire gli esploratori.
I Turchi, sicuri di non poter essere offesi nel golfo di Lepanto,
dibattevano tra loro se dovessero uscir fuori, o no, incontro ai
cristiani; e al tempo stesso mandavano Carascosa, famoso corsaro, a
raccogliere tra le nostre galere il numero, la qualità, e per fino le
parole: tanto egli si pose a seguirle da presso.[188] Ma essendosi
costui per diversi accidenti ingannato nel conto, fu poi principale
cagione perchè i nemici deliberassero uscir dal golfo, e cercar
l’armata della lega: persuasi di pigliarsela tutta a salvamano, sol che
si mostrassero. I Cristiani dall’altra parte, levatisi dalle Gomenizze,
s’avviarono all’Isola di Paxo; già chiamata Ericusa. Nel qual viaggio
tutta l’armata per la prima volta si pose in perfetta ordinanza di
battaglia: e tenendo ogni galera ed ogni squadra il suo luogo, lasciò
finalmente considerare quanto tutta la fronte di essa si stendesse;
quanto spazio ciascuna squadra occupasse; quanto l’ala diritta a largo
mare dovesse tenersi per non stringere troppo a terra l’ala sinistra;
e finalmente in che modo ciascuno il suo ufficio ordinatamente far
dovrebbe, affinchè nel caso improvviso tra loro non si intricassero.
Con questa ordinanza, che fu molto bella a vedere, giunsero nel
canale tra Itaca e la Cefalonia. Dopo aver navigato ora a vela, ora
a secco, essendo i venti a segno di ponente e maestro troppo freschi
e con una sorda maretta, si fermarono alla punta settentrionale della
Cefalonia, in una calanca, detta Val d’Alessandria. Colà i consiglieri
privati, insieme con Giannandrea, un’altra volta rappresentarono a
don Giovanni l’incertezza del vincere, la difficoltà del fuggire,
e tutto ciò che poteva fare contro al disegno di combattere: ma non
poterono più smuoverlo; anzi, come alli dieci di settembre, furono
rimandati pieni di confusione. Dalla volontà di Marcantonio e dei
Veneziani, divenuta ormai volontà ferma altresì di don Giovanni, come
bisce tratte all’incanto, senza pur volerlo nè intenderlo, erano alla
battaglia condotti.[189] E tanto erano pubblicamente note le difficoltà
di costoro, che avendo anch’esso don Giovanni mandato tra gli altri
esploratori in più luoghi, ed anche in terra d’Epiro, un pratico
piloto, detto Cecco Pisano, a riconoscere l’armata nemica; questi
ritornando, maravigliato del numero delle galere, delle navi e dei
soldati ottomani, non volle da alcuno di loro lasciarsi intendere; per
timore che ne venissero altri impedimenti alla battaglia. Ma colto il
destro di esser da solo a solo con Marcantonio, dandogli secretamente
certa relazione del gran numero dei vascelli da lui veduti, gli disse:
«Spuntati l’unghie, signore, e combatti; che n’è bisogno.»[190]

  [7 ottobre 1571.]

Pertanto fermatasi l’armata nostra il cinque di ottobre in Val
d’Alessandria, si mosse il sei: e contrastando tutto il giorno col
vento contrario, di levante e scirocco, per uscir dal canale della
Cefalonia, appena potè la notte. Ma non volendo tra le tenebre troppo
avanzare, col nemico così vicino, prima che alle isole Curzolari, dagli
antichi dette Echinadi, arrivasse, per aspettare il giorno fermossi. I
Turchi l’istessa notte, col vento a loro favorevole, usciti da Lepanto
per trovar l’armata nostra nel canale della Cefalonia, le venivano
incontro: così che ai sette di ottobre, molto per tempo, le due
armate vicendevolmente si avvicinavano a quei rivaggi ove si avevano a
decidere le nostre sorti.

E poichè questo luogo è venuto a tanta celebrità dopo la famosa
giornata, io stimo doverlo in qualche modo descrivere; affinchè meglio
possa ciascuno comprendere quel che appresso dovrà vederne.

Chiunque riguarda alla bocca del golfo di Lepanto vede di qua e di
là due costiere, che si partono quasi a sesto di squadra: l’una a
levante mostra le spiagge della Morea per miglia settanta, sino a
capo Tornese; l’altra a settentrione segna le rive dell’Epiro per
miglia più che ottanta, sino all’Isola di Santamaura. E perchè questo
luogo, in siffatta maniera da due lati già chiuso, resti anche meglio
da ogni altra parte rinserrato; ecco, da ponente comparir di contro
per quaranta miglia la Cefalonia; e da ostro per venticinque il
Zante: talchè nel giro di dugencinquanta miglia, trovandosi l’acqua
tutt’intorno riparata, e vedendosi da ogni parte la terra, più
quasi dà vista di lago che di mare: e come se fosse una artificiale
naumachia, sembra dalla natura destinato tra l’oriente e l’occidente
a teatro di naval combattimento. Là, presso al promontorio azziaco,
Ottaviano contro Marcantonio mutò lo stato dell’imperio romano: là,
presso a Corinto, Maometto secondo rassodò il suo seggio in Bizanzio:
là, presso alla Prevesa, il vecchio Doria macchiò il suo nome, e rese
formidabile la naval potenza dei Turchi: là, presso a Lepanto, gli
alleati la prostrarono: là, presso a Navarrino, risorse nel nostro
tempo la Grecia. Però quando due armate nemiche siano a punto nel
mezzo della naumachia, niuna delle due può rifiutar la battaglia, nè
fuggire lo scontro, senza intricarsi e perdersi tra gli angusti canali
di quelle isole: massime che in più parti dell’istesso bacino sorgono
altre isolette, importune ai naviganti; tra le quali irte e spesse
compariscono dal lato settentrionale, un miglio da terra, le ignude
rocce delle isole Curzolari: che, quantunque sino alla metà del secolo
decimosesto neglette ed oscure, acquistarono grande rinomanza per la
memorabile battaglia quivi presso combattuta.[191]

Nel sito di tal contenenza essendosi fermato tutto il naviglio della
lega, come ho detto, ad aspettare il giorno, non appena comparve la
prima luce dell’aurora a rischiarare la marina di levante nel sette
di ottobre, levossi: e quantunque ancor fosse contrario il vento, andò
dirittamente per mettersi alla bocca del golfo di Lepanto. Poco dappoi,
quando fu dato veder chiaro anche da lungi, cominciò la guardia del
calcese sulla Reale a dar segno, prima del vedere da levante due vele;
tanto però lontane da non poter così bene discernere se le fossero
navi o galere; e poscia, continuandosi nel cammino e scorgendo di
mano in mano molte altre vele, diede avviso a don Giovanni di veder
certamente tutta l’armata nemica. Alla qual notizia, perchè poco
dopo da più parti ripetuta; e confermata eziandio dagli esploratori,
che innanzi a tutti avendo battuto il mare, secondo l’ordine se ne
tornavano; fece don Giovanni sparar da poppa un piccolo sagro: segno
ai capitani di pigliare l’armi, e mettersi in punto; segno perchè
i soldati a combattere si apparecchiassero. Allora tutte le nostre
galere si restrinsero all’ordinanza, e le milizie alle poste loro delle
balestriere e delle rambate; con tanta volontà, quanta per ogni più
desiderata cosa ne avrebbero potuto dimostrare. Era l’armata cristiana,
secondo la tattica militare, divisa in tre squadre, sotto tre diverse
bandiere. Nel mezzo la squadra azzurra, coi pennoncelli dello stesso
colore al calcese; a diritta la verde, coi gagliardetti alla penna;
ed a sinistra la gialla, con le banderuole dorate all’osta. Per tutti
un ordine solo; tener le galere di ogni squadra tanto vicine tra
loro e ristrette che, dato pur lo spazio necessario al palamento, non
potesse mai galera nemica cacciarsi in mezzo; e di stendere le ali a
diritta e a sinistra quaranta braccia lungi dal corpo di battaglia,
talchè ciascun corno avesse modo a rivolgersi ovunque occorresse senza
imbarazzar nè il centro nè l’altre squadre. Le quali pareggiate alla
battaglia n’andavano, non già in figura di mezzaluna o semicerchio,
come alcuni dicono; ma sopra un sol filo di retta linea, tutte insieme
del paro e di fronte.[192]

La squadra azzurra contava sessantuna galera: nel centro la reale di
Spagna e don Giovanni, a diritta la capitana di Roma e Marcantonio;
a sinistra di Venezia e Sebastiano: poi di qua la capitana di Savoja
col conte di Leiny ed il principe di Urbino; di là, la capitana di
Genova con Ettore Spinola e il principe di Parma; e tra le altre
galere spagnuole e veneziane, erano nel corpo di battaglia la nostra
Grifona ed Onorato Gaetani, la Pisana e il capitan Mazzatosti, la
Fiorenza e il capitan Puccini, la Pace e il capitan Orazio Orsini,
la Vittoria e il capitan Livio Parisani da Perugia, la Toscana e il
capitan degl’Oddi, tutte del Papa. La squadra verde sulla diritta,
sotto Giannandrea Doria, favorito della corte di Spagna, teneva insieme
cinquantatrè galere: tra le quali il san Giovanni e la santa Maria del
Papa, con Cencio Capizzucchi e Tullio da Velletri. La squadra gialla
sul lato sinistro aveva cinquantacinque galere, al comando di Agostino
Barbarigo; e insiem con lui il capitan Gigli di Fuligno nell’Elbigina.
Poi da poppa alla reale, e alle altre quattro capitane del centro, si
stringevano dieci galere sottili, talchè ciascuna di quelle aveva seco
due di queste per assisterle nel combattimento: e là era al servigio
della capitana nostra la Reina, sulla quale governava le fanterie il
capitan Flaminio Zambeccari di Bologna. Finalmente un miglio appresso
venivano di retroguardia, col marchese di Santacroce, trenta galere;
portando l’insegna bianca in asta, quattro braccia più su del fanale:
e in mezzo a loro la Padrona, la Soprana, e la Serena del Papa, coi
capitani delle nostre fanterie Berardetti, Tebaldini e Bartoli. Le
trenta navi a carico di don Carlo Davalos avrebbero dovuto mettersi
sopravvento, secondo che spirasse; e investire per fianco nell’armata
nemica a vele gonfie, o almeno molestarla alle spalle coll’artiglieria
e coi moschettieri imbarcati nelle lance: ma per diverse ragioni e
venti contrarii tutto quel giorno non furono nè anche vedute. Però
le sei galeazze veneziane, della condotta di Francesco Duodo, tratte
avanti per forza di rimburchio da don Giovanni medesimo, e dalle
capitane di Marcantonio e dagli altri principali dell’armata, i quali
ponevano in quelle grandissima fiducia per rompere l’ordinanza dei
nemici, già erano o andavano a porsi un miglio innanzi, a due a due:
perchè, quanto potessero, ciascuna coppia cuoprisse l’una delle tre
squadre. E quantunque le due, che dovevano fronteggiare innanzi alla
squadra gialla, più delle altre tardassero, ciò non pertanto esse
ancora nel momento della battaglia furono, sebbene a grandissimo
stento, menate alle loro poste. Erano dunque all’armata centocinque
galere di Venezia; dodici del Papa, prese dai Fiorentini; ottantuna
del re, cavate da Genova, da Napoli, da Sicilia, e da Spagna; tre di
Savoja, tre di Genova, e tre di Malta: in tutto duecento sette galere,
sei galeazze, e trenta navi, mille ottocento cannoni. Militavano quivi
tre mila nobili venturieri, quasi tutti d’Italia; venti mila fanti
italiani assoldati dalle varie potenze, ed ottomila Spagnuoli: v’erano
dodici mila marinari, quarantamila remigi; e tra tutte le genti di
guerra di capo e di remo nell’armata cristiana più che ottanta mila
persone.[193]

I Turchi all’incontro avevano anch’essi l’armata loro in altrettante
squadre ripartita: al centro Aly generale del mare; e al suo fianco
le capitane di Pertaù generale delle fanterie, e di Esdey tesoriero,
con novantaquattro galere della battaglia: al corno diritto, Maometto
Scirocco, governator di Alessandria, con cinquantatre galere; ed
al sinistro, con sessantacinque, Luccialì re di Algeri: facendosi
anch’essi seguire da Amurat Dragut con dieci galere e sessanta piccoli
bastimenti, vuoi fuste o brigantini, che riuscirono membra troppo
fievoli a soccorrere efficacemente quando ne venne il bisogno.[194] Ma
il numero grande e la qualità dei soldati, che avevano allora cavati
dai presidj di Lepanto e di Patrasso, tanto rinforzavano le squadre
nemiche e ne accrescevano l’orgoglio, che ripensando alla vergognosa
fuga del vecchio Doria, quivi presso alla Prevesa, stimavano che i
Cristiani per la sola vista e paura dell’armata loro avrebbero un’altra
volta vilmente mostrato le spalle. E nel vero non pochi dei consiglieri
di don Giovanni avean l’animo a secondare questa speranza dei Turchi.

In siffatto modo dugentoventi galere e sessanta fuste ottomane,
navigando coi soli trinchetti e col vento fresco in poppa, venivano
da Lepanto a trovare dugentosette galere, e sei galeazze cristiane,
che dalle Curzolari a lenta voga andavano loro incontro, la mattina
del sette ottobre mille cinquecento settantuno, sull’ora di terza:
quando improvvisamente, e contro l’aspettazione d’ognuno, prima
tacque ogni vento; e poi, spianatosi il mare a perfettissima calma,
levossi sull’ora del mezzodì una brezza di ponente, tanto favorevole
ai Cristiani, quanto ai Turchi perniciosa. Frattanto quasi tutti i
generali andarono alla Reale di don Giovanni per accertare le ultime
sue disposizioni: e alcuni di loro, pregiandosi del voto che avevano
nei consigli privati di sua Altezza, non ebbero vergogna in quel
momento di ripetergli le consuete difficoltà: stesse cauto, vedesse
meglio il pericolo, sentisse il consiglio: in somma si ritirasse,
e ripetesse nelle acque di Lepanto le infamie della Prevesa e delle
Gerbe. Però sostenuto da Marcantonio Colonna e da Agostino Barbarigo,
don Giovanni li discacciò, dicendo: «Andate, signori, che ormai non è
più tempo di consiglio, ma di battaglia.»[195]


XV. — Il primo movimento che allor fece l’armata cristiana fu dalla
parte di Giannandrea: il quale comandò a tutta la sua squadra verde di
girare il bordo al largo. Laonde si vide a un tratto l’ala diritta, da
lui condotta, rompere l’ordinanza, distaccarsi dall’altre due squadre;
e senza rispetto alle leggi, tanto studiosamente composte in Messina,
andarsene lungi per mezzo il mare. E sebbene pochi in quel momento
potessero giudicare dove e a che intendimento si rivolgesse, ciò non
pertanto sin dal principio il fatto suo parve a tutti i Cristiani segno
di poca volontà di combattere; e parve fuga manifesta ai Turchi.[196]
Tanto che Alì pascià, comandante supremo dell’armata nemica, per
ritenerlo che non si fuggisse, gli scaricò dietro un gran tiro; come
disfida a lui, ed a tutta la lega. Alla quale chiamata, non essendosi
in modo alcuno rivolto Giannandrea, rispose don Giovanni col cannone di
corsia, significando l’accettazione della battaglia.

Allora tutte le galere della squadra azzurra e della gialla abbatterono
dall’albero le bandiere dei loro principi, e la sola reale di don
Giovanni spiegò il grande stendardo della Lega, benedetto dal santo
Pontefice, e a lui mandato affinchè lo inalberasse nel giorno della
battaglia. Era un ricco drappo di seta cremisina, coll’immagine del
Redentore in croce: alla vista del quale avendo tutti, dal primo
capitano all’ultimo soldato, scoperto il capo e posto a terra il
ginocchio, con segni di molta compunzione, fecero la confession
generale in compendio per quella necessità; e ne riportarono dai
sacerdoti in ciascuna galera, a nome del Pontefice, l’assoluzione
sacramentale e la plenaria indulgenza di colpa, e di pena.[197]
Rilevatisi poi con maggior fiducia; sciolti dalle catene i forzati,
come caparra della libertà che loro si riprometteva nella vittoria;
e distribuite buone vivande e vini generosi a tutte le genti di
guerra, di capo, e di remo, perchè potessero sostenere il peso del
vicino conflitto; scesero, da una parte don Giovanni, e dall’altra
Marcantonio, sopra due fregatine spalverate a percorrere la linea della
battaglia.[198] Salutavano a nome i capitani, animavano i soldati,
prescrivevano quel che facesse mestieri. Ecco, dicevano, ecco il
giorno segnato da Dio per abbattere l’orgoglio degl’infedeli, e per
dissipare le forze dei barbari, che senza legge e senza fede insultano
e minacciano esterminio e catene. Ricordassero il proprio valore,
le ingiurie ricevute, i tradimenti patiti, e il sangue innocente del
Bragadino e del Baglioni, che aspettavano giusta vendetta per le loro
mani: l’avrebbero. Ai forti gloria e vantaggio in vita, ed anche nella
morte la suprema felicità che Dio riserba a chi dà il sangue per la
fede e per la patria. Stringevano la destra degli amici, salutavano le
schiere, e con la serenità del volto raggiante di gioia pronosticavano
il vicino trionfo. Si legge che don Giovanni, tornato nella sua galera
dopo quella rassegna, non solo facesse un’altra volta avvisati i suoi
tutori a cessar di molestarlo per codardi consigli,[199] ma che tutto
ebbro di letizia e tratto da giovanil ferocità nell’ardente desio di
appiccar la zuffa, facesse dar nelle trombe; e sopra la piazza d’arme
della sua galera, con due cavalieri, ballasse a vista di tutta l’armata
una concitatissima danza, chiamata dagli Spagnuoli la gagliarda.[200]

Marcantonio, tornato a bordo, si vestì di tutt’arme, fece spuntar lo
sperone delle galere per incontrarsi più da vicino coi nemici, spianò
i banchi della capitana per averne più larga la piazza sul ponte;
assegnò il governo e la difesa della mezzania a Pirro Malvezzi e al
conte Berardi, il quartier di prua a Virginio Orsini da Vicovaro ed a
Pompeo Colonna; mise alle rambate Lelio de’ Massimi, Biagio Capizucchi,
Giulio Gabrielli e Francesco Nari; al focone Iacopo Frangipani, allo
schifo Orazio Orsini da Bomarzo, alla poppa Francesco Graziani, Michele
Bonelli, Annibale degl’Oddi, Orazio Corona, Ridolfini, Brandimarte, ed
i gentiluomini della sua casa.

Intanto i Turchi sebben fossero, per la mutazion del vento, costretti
ad ammainare i trinchetti, e con loro discapito mettersi a remo; pur
avvisatisi che l’armata nostra sull’esempio del Doria dovesse volgere
alla fuga, presero maggiore ardimento. Tanto che sprezzando ogni
pericolo, a voga arrancata, mossero per investirla tutta d’un colpo, in
ogni parte: parendo loro doversene alla prima far padroni. Ma essendosi
già le galeazze avanzate un buon miglio, e stando quelle enormi e
poderose macchine là in mezzo al mare, piene di grosse artiglierie,
come primo intoppo alla loro foga, dovette il Bassà per quel rispetto
mutare l’ordine della sua battaglia. Perchè, persuaso che ad espugnar
ciascuna di quelle galeazze gli anderebbe molto tempo e perdita di
molte galere, prese il partito di lasciarle da banda: pensando, quando
avrebbe vinto l’armata cristiana, impadronirsene senza combatterle.
Perciò fece ai suoi ufficiali in gran fretta comandare, che in più
squadre uguali e ben distanti si dividessero; e, senza trattenersi
colle galeazze, anzi vogando arrancati, passassero oltre, sino ad
investire nella linea dell’armata cristiana.

Ma quanto più divisi essi arrancavano, tanto più per diversi accidenti
tra loro si confondevano; e tanto meglio si accostavano alle terribili
galeazze. Il capitan delle quali, come ebbe veduto quegli stormi
passargli sotto a tiro, cominciò sì fieramente a percuoterli, chè
avendo col primo colpo levato il fanale alla galera di Aly, e con
molte altre cannonate ad un tempo rotto le spalle a certe galere,
e cert’altre direnatele, uccisi molti nemici, e gittata tra loro la
confusione, fu causa di aprire e mantenere la vittoria ai nostri, sino
a compiuta. I capitani d’Aly, al primo fuoco delle galeazze, come se
avessero urtato nel muro, chi a orza chi a poggia, per diverse parti
rimbalzati piegarono. Ed egli tra quelle angustie (assai più che
stimato non aveva dannosissime) battuto, risospinto, e disordinato,
arse di rabbia: ma pur trapassando con quanta celerità poteva,
s’argomentò rannodare al di qua le sue galere. E avendo allora anche
i capitani della Lega fatto forza coi remi, in brevissimo tempo le due
armate intieramente, con le prue l’una sull’altra, investirono.

Il quale terribile e pauroso scontro non si potendo con le parole
descrivere tutto a un tratto, mi bisogna a parte a parte narrarlo.

La capitana d’Aly, quasi di mezzo corpo precedendo le conserve, correva
difilata a cercare la capitana del Papa: della qual cosa avvedutosi don
Giovanni, ordinò al suo timoniero che dovesse incontrarla, dirizzandosi
a lei: cotalchè le due Reali urtaronsi prora contro prora. Ma la galera
del Turco, come più alta di bordo, caricò sopra quella di Spagna; dando
e ricevendo nell’atto dell’investire la scarica di tutte l’artiglierie
grosse e minute, che furono di qua e di là nell’istesso tempo messe
a fuoco. La capitana del Papa, per sostenere la reale di Spagna,
mosse a voga arrancata su quella del Turco; e fieramente il percosse
al terzo banco. Pertaù, in aiuto d’Aly, cozzò sulla pontificia alla
mezzania.[201] E appresso molte altre galere di turchi e di cristiani,
confusamente concorrendo, s’investirono, s’intrecciarono, si strinsero
in micidiale, ma gloriosa zuffa. Là i primi capitani, là il centro
della battaglia, le prove del valore, e la decisione della vittoria.
Laonde come si furono quelle galere anche meglio con ramponi e catene
di ferro le une coll’altre strette e assicurate, tornò la cosa quasi
più a guerra terrestre che navale; e i combattenti non solo con gli
archibusi e con le spade, ma coi pugnali e co’ denti, vennero alla vita
gli uni sugli altri.

I giannizzari d’Aly, quattrocento giovani di scelta milizia, fatto
un terribile sforzo, tentarono innanzi a tutti saltar dentro nella
reale di Spagna: e gli archibugeri del terzo di Sardegna, con molta
nobiltà venturiera, non solo si opposero al loro impeto, ma per tre
volte con fierezza terribile li ricacciarono indietro; e mescolatamente
con loro entrarono nella Reale turchesca, sino al trinchetto: senza
mai poter fare maggior progresso, a cagione dei continui rinforzi che
a’ nemici venivano per poppa. La corsia dell’emule galere era in tre
luoghi abbarrata; al trinchetto, alla mezzania, alla spalliera. Gli uni
dietro ai ripari si difendevano, gli altri assalivano. Il ponte unto
di sevo, perchè i vegnenti stramazzassero; su per gli alberi arcieri e
moschettieri a percuotere i sottostanti: e le artiglierie a cartoccio
(quando si poteva caricarle) a spazzare di diritta e di sinistra le
file nemiche.

Similmente dalle altre parti disperatamente e con molto sangue venuti
alle mani, già alcune galere di qua e di là bruciavano, altre si
sommergevano, queste si aprivano, quelle sottentravano: e le genti
a fremere, a percuotere, a rovesciarsi insieme nel mare. Là fuochi
artificiati, là colpi di metraglia, e punte, e fendenti, e ferite
di mille guise. Spettacolo orribile! Vedere continuo ogni maniera di
morte crudelissima, e quello strazio che fa delle membra umane ora il
ferro ora il fuoco, scorgendosi al tempo istesso quello arso, questo
sbranato, l’uno sommerso, l’altro trafitto, o messo a pezzi dalle
artiglierie. E poi le navi tranghiottite dal pelago, non potute dagli
amici aiutare; ed i compagni semivivi andare al fondo: e il mare mutar
colore, divenir vermiglio di sangue; coprirsi d’armi, di spoglie, e
di rottami; e per la moltitudine dei tiri e delle grida, fatto come
un baratro pieno di fuoco, di morte, di caligine, e di urla tremende.
I prodi non invilirono per ciò. E intrepidi nella durissima prova,
tennero il proposito: o vincere, o morire.

A tale erano dopo un’ora di combattimento le due armate: e si stava
da una parte e dall’altra in gran dubbiezza, quando il Veniero non
ancora assalito da niuno, per agevolare la vittoria a don Giovanni,
pensò attaccarsi alla poppa della Reale nemica. Ma quantunque l’ardito
vecchio, a capo scoperto e con una zagalia in mano, valorosamente
combattendo si studiasse di ciò fare; tuttavia alcuni capitani
nemici ad impedirlo si mossero: e l’istesso Pertaù, disferratosi
da Marcantonio, giunse in tempo a tagliargli la strada. Ondechè il
capitano di Venezia sopraffatto dal numero, morti ed uccisi quasi
tutti i difensori, e ferito esso stesso di freccia in un piede, sarebbe
certamente caduto in potere dei Turchi, se non accorrevano prontamente
con due galere Giovanni Loredano e Caterin Malipiero, arditissimi
giovani. I quali entrati nel maggior pericolo, non solo col proprio
sangue assicurarono la vita del loro Generale e la difesa della sua
capitana, ma avanti di cadere esanimi tanta strage menarono nella
galera di Pertaù (già stremata dai Romani) che fuggitosi colui quasi
solo sopra un palischermo, restò la galera abbandonata a Paolo Giordano
Orsini.[202]

Marcantonio però, con quella scelta mano di prodi che ho già nel capo
sesto noverati, non volle mai per cosa alcuna muoversi dal fianco di
don Giovanni: guardando sempre a sostenere l’onore della Reale, e il
centro della battaglia. Laddove al tempo stesso combatteva di fronte
contro Aly, e di fianco contro chiunque il volesse trastornare. Tanto
che, avendo ributtato Pertaù, e mal conce tre altre galere (senza mai
lasciare don Giovanni) ebbe a far prova con quella di Maometto, re di
Negroponte, ed ajo de’ due figli di Alì. Questi giovanetti avevano
la mattina giurato al padre di portargli prigioniera la capitana di
Marcantonio: e venivano risoluti a mantenere il giuramento. Ma trovato
alla giovanile baldanza virile riscontro, dovettero pensare piuttosto
a scioglier sè stessi, che a legare altrui. Gran mercè se poterono al
primo saggio battere la ritirata. Ma quantunque Marcantonio, fermo
alla istessa posta, non curasse inseguirli, pure ambedue caddero
poco lungi di là in potere del commendator di Castiglia, che poi li
rese a Marcantonio, dal quale furono menati prigionieri a Roma. Poco
dopo a rinfrescar la battaglia contro la nostra capitana, sottentrava
un’altra galea; alla quale non valse nè scampo di fuga, nè stanchezza
delle nostre genti; perchè di primo impeto vi montarono sopra, e se ne
impadronirono.[203]

Dopo di che Marcantonio, libero ormai da ogni altra molestia di nemici,
quantunque avesse già perduti più che settanta soldati, raccolse tutte
le forze sue e delle conserve per dare ad Aly l’ultima stretta. Fattosi
arditamente alla prora (come il dipinse Gerardi nelle vôlte della
galleria colonnese, e il Vasari nella sala regia del Vaticano) e menata
gran strage nel mezzo del ponte, colse il momento, segnò la strada,
e suonando concitate le trombe, spinse una mano de’ suoi sul fianco
della reale d’Aly. E già era egli stesso in punto per saltarvi, quando
al marchese di Santacroce parve tempo di movere le riserve, e portarle
sul centro, per inchinare coll’ultimo colpo a favor dei nostri le ancor
dubbiose sorti della battaglia. Nel qual tempo, restando tutti da una
parte e dall’altra per poco sospesi, entrarono a rinforzo dugento fanti
spagnuoli sulla galera di don Giovanni, ed altrettanti soldati italiani
su quella di Marcantonio. Allora rifulse in tutto il suo splendore
la gloria della Spagna. Il braccio dei valorosi campioni cancellò la
viltà degli infinti consiglieri. I soldati vendicarono l’onore della
patria oltraggiato dai ministri: essi fecero testimonianza alla storia;
essi comprovarono coll’opera quella virtù che io ho riconosciuta sin
dal principio con le parole:[204] essi posero in chiaro quanto e come
differissero tra loro la nazione e la corte; quantunque l’uso comune
di quei tempi portasse di ristrignere il grande e generoso nome di
Spagna nella misera e tenebrosa cerchia dell’Escuriale. Allora i
soldati freschi spagnuoli ed italiani al cenno di don Giovanni e di
Marcantonio, rinforzando i prodi che da più ore combattevano, fatta
gagliarda irresistibile impressione, i primi per prua, gli altri per
fianco, penetrarono in tutta la galea del Turco.[205] In un istante
Aly fu morto, i suoi giannizzeri sterminati, la galera almirante
sottomessa. Scendeva giù per le sàgole lo stendardo della luna, e
saliva in alto quello della croce: gridando i soldati da ogni parte:
Vittoria! vittoria! E ben a ragione i valorosi mandavano dai robusti
petti queste voci, quando tutte le galere del centro, aiutate dalle
riserve, a un tratto finivano di ghermire e sottomettere le loro
contrarie: quando in questa parte non era più a vedere naviglio alcuno
di Turchi, che non fosse stato o prima o dopo sommerso o preso.

Pari contrasto e fortuna aveva incontrato alla sinistra la squadra
gialla. Là s’era combattuto, non solo di forza, ma anche di astuzia,
tra Agostino Barbarigo provveditor di Venezia, e pascià Scirocco
governator d’Alessandria. Costui vedutosi di rincontro un numero di
navi assai minor delle sue; e pensando che tra la spiaggia dell’Epiro,
e la punta dell’ala sinistra, avrebbe modo a trapassare, tenne quella
maniera di guerra che, ripetuta poi nella battaglia di Abukir, dette
tanta fama a Nelson. Perciò ad un suo cenno quindici galere sottili, e
buona mano di legni minori, si volsero verso la spiaggia per isguizzare
sui bassi fondi, e riuscire alle spalle del Barbarigo. Se non che
Agostino, antiveduto il disegno dell’avversario, spediva subitamente
una partita di galere a tagliargli la strada. Se avesse imitato
Giannandrea, e per non lasciarsi circuire si fosse tirato indietro, la
battaglia quantunque già ben avviata nel centro, era perduta in ogni
altra parte. Ma esso in quella vece, senza allontanarsi dal posto,
anzi accorrendo più da vicino con la persona sua ove era maggiore il
pericolo, tanto bene giugneva a chiudere il varco, che il nemico non
potendo per questo andare innanzi, appena girata la prua verso il lido,
si trovò ai fianchi le galere veneziane che con tiri giustissimi e con
mirabil maestria lo percuotevano. Il perchè fallito a quello stuolo il
disegno, stretto già troppo alla riva, disordinato, e battuto, dovette
(come è solito in questi casi) investire in terra. I Turchi fuggendo
alla spiaggia salvarono le persone: ma le galere e le fuste, caddero
tutte in poter del vincitore.

Restavano però in punto di combattere le altre galere di Scirocco,
presso a quaranta, che non essendo entrate in quella stretta
s’aspettavano miglior sorte. Ma coloro, veduta prima la rotta dei
compagni e poi toccando il fuoco delle galere veneziane, che di fronte
e di fianco si voltavano a stringerli, non più aggiratori ma aggirati
in quella rete che a loro danno tesa avevano, si trovarono chiusi da
ogni parte. Onde non avendo più scampo in terra, vôlta la sofferenza
in furore, deliberarono morir combattendo; come è forza a chi vien meno
ogni altra speranza di salute. Anche i Veneziani, che più di tutti per
le antiche e per le recenti ingiurie odiavano i Turchi, maggiormente
adirati dell’audacia loro e delle dure percosse che ne ricevevano,
corsero perdutamente ad assalirli. La zuffa della sinistra divenne
orribilissima.

Nel che Agostino Barbarigo, mentre con pari senno e valore dirigeva
i movimenti de’ suoi, chiamò sopra di sè l’attenzione dei nemici; i
quali contra a lui di presente con fierezza terribile si rivolsero per
disbramar nel suo sangue la vendetta. Là si vide cosa fossero sul mare
i Veneziani, le loro galere, i loro remieri, i loro soldati; e quanto
poco abbisognassero degli altrui soccorsi.[206] Due volte i Turchi
entrarono nella galera del Barbarigo, due volte ne furono ributtati.
Ma ripetuto con tremendo sforzo il terzo assalto, difendendosi egli
valorosamente, e temendo non forse la sua voce non fosse udita dai
soldati, secondo gli ordini che di volta in volta intimava, si tolse
la rotella dalla faccia, proprio in quella che i nemici più fieramente
saettavano. Avvisava, come disse di poi, per minor male essere
trafitto dai nemici, che non sentito dalla sua gente. In quell’atto
e’ fu percosso mortalmente da una freccia nell’occhio diritto, e
cadde sul ponte. Di che presero i soldati tanto terrore, che quasi
attoniti cedendo, non senza pericolo di perdersi tutti, sino all’albero
lasciarono entrare il nemico. Se non che correndo opportunamente
a rinfrescar la battaglia il conte di Porcia con la sua galera, e
appresso il Nani, il Quirini, e il Canaletto, con quella prontezza che
dal loro conosciuto valore aspettar si doveva, non solo ributtarono i
Turchi con molta strage; ma penetrati nella capitana di Scirocco con
maggior furia, la sottomisero. Gli stessi galeotti, lasciato il remo,
e prese quelle armi che il furore metteva loro nelle mani, con ira
ferocissima terminavano d’opprimere qualunque dei Turchi facesse ancor
vista di combattere.

Agostino Barbarigo, l’Epaminonda dei moderni tempi, pregato a ritirarsi
e a medicar la ferita, non volle mai consentire. Ma rilevatosi, e
sempre saldo in corsìa, sostenne sino all’ultimo le parti di prode ed
invitto capitano: sinchè non vide sottomessa tutta l’ala cui aveva
combattuta. Poi sceso da basso nella camera, trasse di sua mano il
ferro dalla fronte; e sopravvissuto fino a saper le notizie certe della
vittoria, levate le braccia al cielo, tra i conforti della religione,
ne rese a Dio le dovute grazie, e spirò. Fu il Barbarigo bello e
singolar esempio di prudenza e di valore, amicissimo a Marcantonio,
sempre con lui nel mantenere il filo della concordia tra gli alleati,
e nel rincalzare il partito del combattere contro i nemici: ebbe
animo grande, vita pura, aspetto nobile, e memoria onorata da tutta
la posterità. Valga l’elogio che di lui fece l’istesso Marcantonio,
scrivendo al Buonvicino: ed i lettori non disgradino sentire gli uomini
grandi parlare da sè le cose loro.[207]

  «Molto Magnifico Signore.

»Nostro Signore Iddio dà le gratie quando la sapienza umana resta da
banda. Come hora, che per il tempo et altri impedimenti non si sperava
tanto bene, si è chiarito che i Venetiani sono quelli d’altro tempo,
e che i Turchi sono homini come l’altri: per non dir più, per nostro
honore. E che io l’anno passato e questo ero ben ispirato, e non era
illusione diabolica nè temerità la mia. Mi rallegro di questo fatto con
Vostra Signoria come cristiano che siete zelante della vostra patria et
mio caro amico: del resto non dirò altro. Basta che il combattere mi è
parso riposo all’altri intrighi che il demonio, quasi presago di questo
fatto, haveva messo davanti. Dolgomi bene, al paro del contento, della
perdita fatta dalla Christianità tutta della gloriosa et honoratissima
memoria del Barbarigo: homo singulare di ogni cosa, et che in un giorno
valeva già quanto ogni altro soldato. Et certo la nostra repubblica di
Venezia ha perso il braccio diritto; et io tanto, che non voglio qui
dichiararlo. Felice lui, che così felicemente è uscito dalle miserie
di questo mondo. Mai si vide homo a mio giudicio che valesse più di
lui. Oh! gran perdita si è fatta. Et è tale che mi fa temere che il
Signore non voglia che sia cavato tanto frutto da questa vittoria,
come si poteva sperare hora et sempre; levandoci tanto bene et tanto
homo: che io per me quando stavo con lui havevo tanto contento che ogni
travaglio mi si appartava davanti. Et quel che peggio mi sa, è che
non li ho potuto dare un abbraccio dopo la battaglia per mia estrema
consolattione. Et per non esservi molesto finirò.

  »Di Petalà, li 9 di ottobre 1571.

                                                     »M. A. COLONNA.»

Per contrario mi è forza ora favellare di Giannandrea Doria; perchè non
devo e neanche posso lasciar di descrivere questa battaglia in ogni sua
parte.

Giannandrea, messo dal consiglio di don Giovanni a governar l’ala
diritta con cinquantatrè galere, si trovò rimpetto l’ala sinistra del
nemico, numerosa di sessantacinque, guidate da Luccialì re d’Algeri,
rinegato calabrese, per soprannome il Tignoso. Stavano l’uno rimpetto
all’altro due uomini del paro deformi all’aspetto, del paro eccellenti
nel mestiero del mare: ambedue prodi, ambedue scaltriti, vissuti
sempre tra i remi e le vele, sempre sulle galere proprie al soldo di
maggiori principi: ambedue giudicavano che non fosse da far giornata,
nè da mettere a pericolo le cose loro. Il parere di Luccialì era
giustificato da molte ragioni: l’armata turca era unanime, padrona
del mare, stimata invincibile, e gloriosa per l’acquisto di Cipro, per
le prede menate da Candia, dal Cerigo, dal Zante e dalla Cefalonia; e
per l’espugnazione di Dulcigno, Soppotò, Antivari, Budua, e di tanti
altri castelli nel golfo stesso di Venezia: non era stretta da niuna
necessità a combattere, nè a mettere in dubbio quel che già possedeva:
anzi temporeggiando guadagnava più che non combattendo; perchè se
quella stagione, già vicina al suo termine, passata fosse senza alcun
benefizio per la lega, non poteva andare molto che dall’istesso suo
stento non tornasse a sciogliersi. Nondimeno, preferita dal consiglio
dei bascià l’opinione contraria, Luccialì rispettò l’ordine del suo
Generale, stette fermo al posto, non violò la disciplina militare,
e raccolse il frutto de’ suoi scaltrimenti: oppresse una parte
dell’armata nostra, e salvò le reliquie della sua. Ma Giannandrea che
per vieppiù forti ragioni avrebbe dovuto consentire alla generosa
deliberazione dei collegati, e alla necessità del combattere, che
allora o non mai più doveva stringerlo, rifiutò la pugna, spregiò le
leggi della milizia, abbandonò il suo posto, e fu causa che molte
galere nostre rimanessero sterminate, e che quaranta delle nemiche
scampassero. Imperciocchè essendosi, come ho detto, al primo segno di
battaglia tirato fuori, quasi fuggendo, tanto se ne andò per mezzo
il mare, che invece di lasciare tra l’ultima galera della squadra
azzurra e la prima della verde lo spazio di quaranta braccia, fecevi
squarcio di quattro miglia: e tenendosi sempre lontano, quanto durò
il combattimento, stette poltro a riguardare. Anzi, per non esser dai
nemici riconosciuto, levò via dalla poppa il notissimo suo fanale: che
era un mappamondo di cristallo, co’ coluri e lo zodiaco dorato. Pensava
a Filippo.[208]

Nel qual tempo alcune delle galere romane, maltesi e veneziane, che
si trovavano per grande sventura con lui all’estrema sinistra della
squadra verde, e fuori dell’ordinanza, sospettando per tanti segni che
colui non intendesse a combattere ma a fuggire, lo abbandonarono, per
tornarsene laddove si combatteva:[209] e parecchie altre all’estrema
diritta della squadra azzurra si distesero da quel lato, per dar loro
la mano e coprire insieme quanto si poteva lo squarcio predetto. Furono
nel numero di queste galere la Fiorenza e il san Giovanni del Papa, la
capitana di Malta, undici di Venezia, una di Savoia, e due di Sicilia.

Rimpetto alle quali, senza fare niun movimento, nè di assaltare nè
di circuire, si tenne Luccialì risguardando, tanto che vide tutto
l’andamento della battaglia.[210] Ma quando fu certo della totale
disfatta de’ suoi sul centro e sulla diritta, come colui che stava in
ponte, e senza oppositori per gettarsi da quella parte che meglio gli
tornerebbe, pensò non esser da più indugiare in quel luogo. Il perchè
avendo già fatto sue ragioni che il centro dei nostri e l’ala sinistra
fossero bastantemente ancora travagliati a finire il combattimento,
le riserve già incorporate nella battaglia, e il corno diritto con
Giannandrea troppo lontano per tenergli il passo; e pensando che
sulla strada gli verrebbe fatto pigliarsi a man salva quelle galere
che il Doria aveva là in mezzo abbandonate, fece udire l’acuto sibilo
del suo fischietto alle ciurme, e sull’atto dare dei remi in acqua,
e arrancare dirittamente nel mezzo allo squarcio.[211] Nondimeno
quelle poche galere che lo guardavano non si fuggirono; anzi gli si
opposero animosamente: in guisa che il combattimento, allora allora
in ogni altra parte terminato, quivi si ripigliò. La capitana di Malta
contro tre galere nemiche già quasi vinte combatteva, quando Luccialì,
ferocissimo nemico di quel nome, con altre tre giunse a sottometterla:
prese lo stendardo, e sgozzò sul ponte trentasei cavalieri e tutte
le genti di capo.[212] La san Giovanni del Papa, governata dal
cavalier Angelo Biffoli, e dal capitan Tullio da Velletri, sostenne
il combattimento con molte galere nemiche, senza arrendersi mai: vi
morì Tullio, e quasi tutti gli altri restarono morti o feriti; tra i
quali Angelo con due archibugiate nella gola, di che finchè visse per
molti anni portò come onorato segno le cicatrici.[213] La Fiorenza,
egualmente del Papa, ove erano i due capitani Tommaso de’ Medici
e Giammaria Puccini, aveva già nell’estrema diritta dell’ordinanza
combattuto felicemente: ma poi investita a un tempo per ogni parte
da quattro galere e tre galeotte, massacrate le sue genti, salvo il
capitano e quattordici uomini, fu presa: e tanto malmenata che bisognò
bruciarla.[214] Insomma aveva Luccialì oppresse dodici galere, morti
più che mille cristiani, e avrebbe continuata la carnificina, se don
Giovanni, Marcantonio, il Caetano, il Quirino, il Canale, e tutti i
più generosi, lasciato il bottino delle galere già prima vinte, non
si fossero mossi da lungi a quella parte per la riscossa. Allora il
Tignoso fischiò un’altra volta più forte il segno della ritirata: e
non mirando più ad altro che a scampare, abbandonò le dodici galere
poc’anzi predate, meno quella di Pietro Bua corfiotto; lasciò pur quivi
delle sue venticinque galere e molte galeotte, che nello scontro erano
state dai nostri, quantunque inferiori di numero, orrendamente guaste;
e prese la fuga. Così Luccialì, menando per via la rovina al Cardona e
a quanti cristiani si ardirono venirgli avanti, se ne andò con quaranta
legni verso Costantinopoli. E così Giannandrea, traendo cannonate da
lontano, comparve finalmente sul campo della battaglia, quando era
finito il combattimento. Giunse però in tempo a ghermire dalle mani dei
vincitori la sua parte del bottino.[215]

Io non mi fermerò troppo ai fianchi di Giannandrea; non a paragonare
le parole e le opere sue dell’anno passato, con quelle del presente;
e nè pure ad aggravarne i disordini. Lo lascio a suo talento rompere
l’ordinanza, abbandonare gli amici alla strage, e favorire la fuga
dei nemici. Solo dico a chi ben discerne, che affissi nella maniera
di lui il carattere occulto della lega: e, squarciando il velo della
marinaresca bravura, in che si studiarono ricoprirlo i cortigiani di
Filippo e i parziali suoi, faccia giudizio guardandolo a nudo, secondo
l’evidenza dei fatti. Dappoi scorra a Madrid, e lo troverà cresciuto
in assai più grazia della corte;[216] passi a Genova, e sentirà le sue
scuse:[217] entri in senato a Venezia, e leggerà i processi:[218] giri
il mondo, e non avrà chi lo lodi:[219] venga a Roma, e sentirà che i
movimenti di quel suo corno diritto fecero a qualcuno saltar le corna
in testa:[220] si accosti finalmente al Vaticano, e avrà dalla bocca
istessa di san Pio, in dolce e pietoso tenore, quella aperta condanna
de’ fatti suoi, che a me piace coll’istesse parole ripetere: «Iddio
gliela perdoni al Doria.»[221]

Ciò non pertanto il re Filippo e i suoi cortigiani, sapendo cui
Giannandrea serviva, e quanto lor bisognava coprir lui per non
discoprire sè stessi, procacciarono con grande arte discolparlo.
Dissero che quelle giravolte da lontano erano state marinaresche
bravure delle più rare e squisite da trasecolarne; imposero silenzio ai
contrarî, usarono minacce: e, come erano potenti e temuti, costrinsero
le genti a far vista di contentarsene. Solo a san Pio non poterono
mai darla ad intendere, nè egli volle mai tranghiottirsela: e vi fu
chi, sentendosi turbata la coscienza, ne prese paura. Tanto che un di
coloro, commendator maggiore di Castiglia, luogotenente generale di
don Giovanni, commissario del re Filippo a Roma, e per lui governator
di Milano, scrivendo all’istesso don Giovanni d’Austria alli quindici
dicembre di quell’anno medesimo, ebbe a dire:[222] «Io ho procurato
qui in Roma di difendere Giannandrea, per quanto è stato possibile:
e finalmente sono arrivato al punto che niuno oramai più si ardisce
venirmi a parlare di ciò che tocca la persona di lui. _Se ne sono
dette qui a suo carico delle grosse:_ e il Papa non c’è rimedio che
voglia quietarsene. E siccome Sua Santità alcune volte procede con
molta franchezza; così Giannandrea ha preso il partito di non venire
per queste parti.» Io penso che la generosa nazione Spagnuola, onorata
di tante glorie, conosciuti tali disordini di Giannandrea e questi
tranelli de’ cortigiani, non vorrà farsene mallevadrice, nè chiamarsene
partecipe, nè giurar sulle parole dei bugiardi per dare una mentita a
san Pio.[223]


XVI. — Dopo ciò resta chiarito, così per le generali, l’andamento delle
squadre cristiane nella gran giornata di Lepanto: quando gli alleati,
contro il voler dei regî consiglieri, costretti dalla necessità perchè
assaliti dai Turchi, dopo cinque ore di combattimento dalla sesta a
vespro, favoriti dal vento, dalle galeazze, dalle artiglierie e dalle
riserve (che furono le quattro cagioni principali della vittoria)
prostrarono per sempre la potenza navale degli Ottomani. Imperciocchè
di tutto quel numeroso naviglio, che aveva corso in più partite tutte
le marine del Mediterraneo, dall’Egitto alla Spagna, non tornò indietro
a Costantinopoli altro più che venticinque galere e venti galeotte di
Luccialì. Il resto rimase alle Curzolari: di legni grossi e piccoli
centosette arsi o sommersi, centotrenta presi, quarantamila tra soldati
e marinari uccisi, ottomila prigionieri, morti quasi tutti i capitani
di conto, e liberati dalle catene diecimila cristiani. Al qual glorioso
fine tutti, come ho detto, si adoperarono tanto animosamente e con
dimostrazione di così gran valore, che non si finirebbe mai se si
volessero ricordare ad una ad una tutte le prove ammirabili che ogni
nazione, ogni squadra, e quasi ogni soldato in quel benedetto giorno
dètte della sua virtù. Ciò non pertanto se a me non si conviene più
stendermi, nè ripetere ciò che i Veneziani e gli Spagnuoli da lontano
tempo hanno detto delle cose loro, verrebbemi certo apposto a gran
difetto se mi rimanessi dal contare in questo luogo, delle nostre
almeno, i fatti più belli e gloriosi, di che mai prima non si è fatto
quel conto che se ne doveva.

E innanzi tratto risguardando alla nostra Capitana ed a quella eletta
schiera di prodi che vi erano di presidio o v’entrarono per soccorso,
siccome Pompeo Colonna, il cavalier Romegasso, Orazio Orsini da
Bomarzo, e Virginio Orsini da Vicovaro, Pirro Malvezzi, il conte
Berardi, Michele Bonelli, Flaminio Zambeccari, Cesare Cavaniglia, Lelio
dei Massimi, Gabrielli, Naro, Fabi, Frangipani, Accoramboni, Ridolfini,
e tanti altri cavalieri di sangue e di valore provatissimi, io non so
come degnamente lodare le tante e sì chiare prove di virtù militare,
per le quali si resero degni di stare al paragone di qualsivoglia degli
antichi trionfatori che nella loro patria salissero al Campidoglio.
Temerei anzi di scemar la grandezza loro, se nessuna ricordanza ne
lasciassi agli avvenire: e meritarmi biasimo di temerità se pensassi
colle mie parole agguagliarne i meriti. La qual difficoltà molto più
mi sgomenta quando ripenso a Marcantonio Colonna, il più grand’uomo
del suo tempo, colonna saldissima del Cristianesimo, dell’Italia,
e di Roma: dal cui senno e valore deve la posterità riconoscere la
grande vittoria. Egli a stringer la lega, egli a conservarla, egli a
trovare il danaro, egli a quietare le risse dei soldati, egli prima di
ogni altro al convegno di Messina, egli ad assicurare la congiunzione
dell’armata, egli a ritenere in fede i Veneziani, egli a vincere
il partito della battaglia, egli a prevedere in chiari termini la
vittoria, egli a mettere la ragione in capo agli Spagnoli, egli ad
impedire la guerra intestina, egli a condurre i discordi sul campo
della battaglia, egli a sostenerli nella mischia: sempre esposto ai
maggiori pericoli, non solo nel comandare e provvedere ai bisogni della
sua galera, ma a quelli di don Giovanni e di tutta l’armata.[224] Il
perchè non volle mai discostarsi dal fianco di Sua Altezza, nè per
inseguir galere già vinte, nè per iscuotersi di dosso galere moleste,
che lo stringevano per fianco e per poppa: ma sempre fermo alla sua
posta ebbe animo di ributtare la galera di Pertaù, di opprimere quella
dei figli d’Aly, di sottometterne un’altra, e finalmente insieme con
la reale di Spagna di conquistare la nave almirante dei Turchi. Nella
quale, a grande stento, morti già settanta de’ suoi, quasi tutti uomini
di conto, oltre ai molti feriti; e fra essi Orazio e Virginio Orsini
che poco di poi si morirono, e Fabio Graziani che gli cadde trafitto al
fianco, e poco lungi di là il conte Berardi parimente morto, e Troilo
Savelli, e il cavalier Sangiorgio, e Michele Bonelli feriti, egli entrò
al tempo stesso dalla mezzanía quando don Giovanni v’entrava per prua.

Nel qual lungo e sanguinoso conflitto, quantunque del continuo in mezzo
a infiniti tiri di frecce, d’archibugi e di cannoni, come è da credere,
più volte preso di mira, nondimeno intatto e senza una minima offesa,
nella persona e nello stendardo, restò da Dio preservato; perchè la
Cristianità avesse con tanta vittoria la compiuta allegrezza della
conservazione del suo più forte ed onorato campione.[226] Di che fan
fede non solo le testimonianze qui prodotte per mantenerlo in possesso
di quella gloria che alcuni vorrebbero in parte almeno togliere a lui,
e farla propria ad altri; ma anche la parola che egli, come onorato
cavaliere, ne mandò modestamente al cardinal di Sermoneta; e che ancora
si conserva di suo pugno scritta in questo tenore:[227] «Posso con
ragione arrogarmi, non solo per la fattura della lega, ma anche per la
conservazione di essa, e per la opinione ferma di doversi combattere
l’armata nemica, d’avere io superato infinite difficoltà ed esser
venuto a questo memorabile effetto.... Dalla mia Capitana si è fatto
quanto più non si poteva: poichè oltre all’aver sostenuto il maggior
impeto dell’armata nemica che seguiva la loro generalizia (combattuta
da don Giovanni e da me, e giuntamente conquistata) venne ad investirmi
un’altra buona galea di fanale, con una galeotta di fianco, ed una
galea da poppa, che mi ammazzò alcuni appresso, senza esser tocco nè io
nè lo stendardo di Sua Santità. Cosa invero miracolosa.»

La Padrona comandata dal signore Alfonso d’Appiano, sulla quale era
Gianpaolo Berardetti di Spoleto, capitano di chiara fama ai suoi
tempi,[228] quantunque non gl’incontrasse combattere nella prima
fila, pure tanto opportunatamente si mosse con le riserve, e venne in
mezzo alla battaglia, che riparando ai danni ed alla stanchezza di chi
aveva sino allora combattuto, riscotendo dai nemici la persona e la
galera d’Ascanio della Corgnia, e fulminando la capitana del Turco, si
meritò nella pubblica opinione lode grandissima per la parte che ebbe
all’esito felice della pugna.[229]

La Soprana e la Serena, che avevano per capitani Antonio d’Ascoli
ed Ettore Caraffa, e per duci delle fanterie Ippolito Tebaldini e
Pirro Malvezzi, entrarono anch’esse con la squadra del soccorso nel
combattimento; e poi si volsero insieme ad afferrar galere di Turchi
che nel trambusto cercavano la fuga.[230]

Il cavaliere Olgiati e il capitano Zambeccari, come stettero sempre
con la Reina appresso alla Capitana, così parteciparono di tutte le
fatiche e onori di quella. Fabio Gallerati, e Giannantonio Gigli,
nell’ala sinistra coll’Elbigina, dopo molte prove di squisito valore,
si affrontarono con la capitana di Rodi, galea di fanale, e la
sottomisero: facendovi ricco guadagno, per esser quivi gran parte del
danaro dell’armata nemica.[231]

Diè saggio di sè al paro d’ogni altro la Grifona del Papa, ove erano
Onorato Caetani generale delle fanterie, Alessandro Negroni, e il
cavalier Sereno; ai quali toccò in sorte punire Caracossa, ed Aly,
principi di corsari, e crudelissimi nemici del nome cristiano. Costoro
avevano già nella mischia battuta la galea del capitan Benedetti di
Corfù, e ributtata quella del capitan Buzzaccarino di Padova; quando a
un tempo investivano la Grifona, l’uno per prua, e l’altro per fianco.
Onorato sostenne con parte de’ suoi l’assalto del primo sulle rambate,
sino a che non sottomise all’abbordo la galeotta d’Aly. Ma quando,
morto il corsaro, quella fu doma; allora con maggior impeto sdrucì
nell’altra. E senza che mai turco alcuno non potesse metter piè nella
Grifona, tanto quivi combattè, che ucciso Caracossa da una archibugiata
di Giambatista Cortesi, e caduti tutti gli altri, da sei in fuori, la
galera fu presa. Non ignoro che il Dionigi vorrebbe togliere questa
gloria alla Grifona del Papa, e darla ai Padovani; producendo a favor
loro il giuramento d’un tale Olzignano che, ferito in faccia di freccia
e rotta la coscia di mitraglia, poteva ben in quel giorno giurare de’
suoi dolori e sfinimenti, non già delle conquiste e dei fatti altrui.
Non dissimulo come il Doglioni vorrebbe che il Benedetti, ucciso in
singolar certame e uccisor di Caracossa, facilitasse almeno al Caetano
la vittoria.[232] Anzi ne deduco quanto ciascuno si studiasse per onore
suo di esser tenuto il vincitore di codesto pirata, e come ambedue gli
autori citati confermino almeno in parte quel che ne dicono del tutto
in favor della Grifona le molte testimonianze che qui produco.[233]

Il Caetano ebbe due colpi di fuoco e tre saette, senza alcuna ferita,
per essere ricoperto da capo a piè di maglia e di piastra a botta di
archibugio: altri nondimeno vi lasciarono la vita, e molti toccarono
onorate ferite, come il predetto Cortesi, Adriano de Virgili e Paolo
Durante, tutti gentiluomini romani. La Grifona menava seco rimburchiate
a rovescio le due prede, quando all’improvviso si udirono sulla
diritta le artiglierie di Luccialì, che malmenava le poche galere
abbandonate da quella parte. Allora Onorato, tronchi con la scure i
rimburchi, e lasciata ogni cosa in preda a certe galere che venivano
appresso,[234] volse di tutta lena a soccorrerle. Ed essendo stato dei
primi a far impeto sopra il Tignoso, ricuperò prima la Fiorenza e poi
la Piemontesa; che passate a fil di spada, mostravano il ponte pieno
di soldati cristiani condotti a morire sotto al ferro ottomano dalla
marinaresca bravura di Giannandrea.[235] Onorato restituì l’una al
conte di Leiny, generale del duca di Savoia, che indarno ivi ricercò
il prode capitano Ottaviano, indarno il signor Chiaberto di Scalenghe
dei signori di Piossasco, e Cesare Provana dei signori di Leiny, e il
cavaliere di Sanvitale, e tutti gli altri ufficiali di quella: trovò
soltanto vivo don Francesco di Savoia; ma così concio in sul capo,
che da lì a poco morissi. L’altra poi, che era tutta ancora macchiata
del sangue dei nostri, se la menò sempre seco fino a Santamaura: ove,
vedutala non più alta a navigare, per ordine di Marcantonio bruciolla.
Il fuoco la purgò dalla macchia di contaminazione ricevuta nel contatto
dei nemici. Le due galere di Caracossa e d’Aly, saccheggiate dai
Napoletani e più altri, per sentenza di don Giovanni, furono restituite
alla Grifona; che non ne cavò utile alcuno, eccetto la fatica di
rimburchiarsele in trionfo sino a Messina.[236]

Le altre galere della squadra papale vinsero ciascuna la sua nemica:
e tra le conquiste degne di memoria devo specialmente ricordare quella
che fece Ruggero degli Oddi da Perugia. Il quale, dopo aver combattuta
e presa una grossa galera, riconobbe agli stemmi, alle pitture, e a
molti segni essere quella stessa capitana del Papa che dodici anni
prima avevano i Turchi presa nella sanguinosa giornata delle Gerbe.
Ancora poderosa e forte, come tutte le romane costruzioni, serviva di
capitana ai nemici. Il sangue dell’Orsino fu dal valore del Colonnese
e de’ suoi in quell’istesso giorno vendicato.[237] Ecco la prova di
questi fatti nella lettera originale di Marcantonio al Papa, scritta
l’istesso giorno della battaglia.[238]

  «S[=m]o e B[=m]o Padre.

»È piacciuto alla bontà e gran misericordia di Dio esaudire le calde
et sante orationi della Santità Vostra, perchè hoggi 7 de ottobre,
festa del Signore, Sua Divina Maestà ne ha voluto dare vittoria
nell’essaltazione della sua vera Fede.

»Il Serenissimo signor don Giovanni, così figlio del suo cristiano e
valoroso padre, è stato sempre fermo in questo santo proposito: et così
essendo certi che l’inimico era in Lepanto ci incamminammo a quella
volta, et all’uscir del sole si scoperse l’armata turca che vistasi
forte et fortunata se ne veniva ad incontrarci. La nostra armata
col gran valore et somma prudenza del signor don Giovanni si mise
all’ordine, mettendo avanti le sei galeazze, et così ne riscontrammo
verso le ore 18: e per cinque hore continue se combattè: al fin si
ottenne la desiderata vittoria. Et alcuni vasselli inimici et per
Levante et per Ponente si misero in fuga; che credo che di 220 che
erano non se ne sien salvati 40. I quali meglio credo che fuggiranno
la faccia del suo Padrone, più che non hanno fatto la nostra. Pensano
seguitar la vittoria tanto quanto la stagione et la commodità che si
havrà lo comporti.

»Tutte le galere della Santità Vostra hanno fatto il debito: il signor
Honorato nella sua, il signor Alfonso luogotenente di Sua Altezza,
et così quella dove era monsignor Commissario. Quanto alla Capitana
il signor Michele, il duca di Mondragone, il signor Pompeo Colonna,
signor Romegasso, et tutti; talmente chè non si potria dir meglio, et
si farà la lista delli feriti et morti, et così della battaglia più
distintamente.

»Il cavalier Sangiorgio è stato ferito, et così il signor Horatio
Orsino et il fratello di monsignor Camaiano, il signor Pirro Malvezzi,
il marchese Malaspina et tutti in somma, chè io non vorrei far torto a
nullo. Io et lo stendardo di Vostra Santità stemmo in tal modo illesi,
che parse cosa di miracolo. Il signor Michele fu un poco ferito, ma
certo lo ha fatto tanto bene che più non si potria desiderare. Mando
il signor Romegasso membro principale di questa vittoria, a darne
conto alla Santità Vostra più particolare; et lascerò di fare altro
ragguaglio, come havevo detto di sopra. Al signor Pompeo, che verrà a
congratularsene, spinto dal desiderio di baciar li piedi alla Santità
Vostra e dall’amore che a me porta Vostra Santità, non li creda altro
se non quello che io le dirò: che io mi sono soddisfatto in tutto di
quanto devo all’obbligo che ho e che devo alla salda confidenza che
la Santità Vostra ha tenuto di me. E così prego Iddio che mi abbia da
trovare a molte vittorie cristiane della Santità Vostra, alla quale
bacio li suoi pii piedi, pregandole lunga vita.

»Da Petalà, li 7 ottobre 1571.

                                                     »M. A. COLONNA.»

«Li padri Cappuccini si sono portati mirabilmente. Il cardinal
Rusticucci dirà a Vostra Santità una gratia che io desidero per il
signor Romegasso: la supplico a non mancarmi, per quanto ha cara la
mia servitù. Le dodici galere di Vostra Santità hanno pigliato dieci
galere turche, et la sua Capitana, oltre una che ne prese, fu unita
all’acquisto della generale inimica. Si è ricuperata la capitana del
Papa persa alle Gerbe.»

In tutte le quali fazioni i soldati romani tal opera vi fecero che ben
si parve il carattere antico impresso sul corpo di questa milizia: cioè
di combattere per onore non per mestiero, per debito non per guadagno.
Imperciocchè tra tanta ricchezza di arredi, di vestimenta, e di danari,
quanta n’era sull’armata nemica, non si udì tra loro nè richiamo
nè ruberia. Tornarono alle loro case più poveri che non ne fossero
partiti, e lasciarono a chi ne volle gli utili; mirando soltanto a
vincere i nemici, ed a soccorrere gli oppressi.

Altri soldati e marinari fecero bottino così grande d’ogni cosa ed
ebbero alle mani tant’oro, che sdegnavano di più toccar l’argento, e
di ricevere il resto nello spendere.[239] Al contrario Marcantonio,
per onore di don Giovanni e per quiete degli altri, vietò ai Papalini
il sacco della reale del Turco; e tutti gli schiavi rassegnò, come se
non fossero suoi. Il Caetano, per riscuotere dalle mani di Luccialì
la Fiorenza e la Piemontesa, abbandonò il ricco bottino di Caracossa
e d’Aly. E la nobiltà di questi ed altri esempi era talmente dai
capitani trasfusa negli animi dei più minuti soldati e famigli, che
essi pure in fatto di guadagneria tanto si mostravano di parole e di
tratto delicati, quanto si potrebbe aspettare da’ cavalieri. Ecco come
scriveva, in rozze frasi e nobil sentenza, allo zio del suo padrone un
servitore di Onorato Gaetani, imbarcato sulla Grifona:[240]

»All’illustrissimo e reverendissimo padrone mio osservandissimo il
cardinale di Sermoneta. — Hora con l’ajuto de Dio semo arivati a questa
santa giornata, e a gastigar questi cani: che n’avemo fatto un fragello
tale, che non averanno mai più animo nè così granne ardire, come
avevano. E avemo havuto tre galere addosso alla nostra galera, e semo
stati li primi a investire. E havemo avuto Caracozza che dicono che
è principale corsaro: e con l’ajuto de Dio, il Signore (Onorato) s’è
portato valorosissimamente, e non ha havuto mal nessuno. Sta benissimo
con tutti quanti noi altri. Il capitan Tullio è morto. Si sono fatti
grannissimi buttini: ma noi, che havemo atteso a commattere, non
havemo buscato nulla: ma havemo assai aver la sanità. Ora che havemo
cominciato a incarnarci, faremo qualche altra cosa bona. Non le dirò
altro, se non che stamo benissimo tutti, e allegramente: in questo le
bacio la mano. Dal Porto di Santa Maura adì 8 di ottobre, di Vostra
Signoria illustrissima humilissimo Servitore, Vitale Casolo.»

Ora la qualità del mio argomento stringemi a toccare alcune cose dei
prelati e dei cappellani, che Marcantonio condusse all’armata. Dirò
per ordine: e prima di monsignor Paolo Odescalchi, uditore della
Camera, visitator generale dello Stato, nunzio già alla corte di
Spagna sotto Pio IV, eletto da Pio V per vescovo di Penne, e nuncio
apostolico sull’armata della lega: quivi egli si mostrò destro e
zelante, sostenne il partito del combattere, non solo nel consiglio
di guerra e nei discorsi privati, ma anche dal pergamo della chiesa
cattedrale di Messina, alla presenza di quasi tutti i soldati e
marinari, che lo udirono.[241] Monsignor Domenico Grimaldi, commissario
della squadra papale, dopo aver soddisfatto all’ufficio suo con molta
lode, volle nella grande giornata farsi conoscere dai soldati non meno
nell’economia esperto che nell’armi. Sovrapposta alla toga la corazza,
con un grande spadone si cacciò nella mischia, e menò le mani fino
a che non fu dichiarata la vittoria. Dopo la quale veduti nella sua
galera due soldati a contendersi l’onore d’aver fatto un prigioniero,
egli con tanta prestezza entrò di mezzo a dividergli, che avendo appena
preso quel turco, là presso alla scaletta di poppa, e fatto prova di
levarnelo, sfuggirongli i piedi; e cadde in un tratto giù nel profondo
del mare. Senza alcun dubbio si sarebbe affogato coll’elmo e corsaletto
che aveva in dosso, se per sua fortuna cadendo non avesse tirato seco
quel turco. Il quale stretto da lui sott’acqua, per non morire insieme,
dovette dar mano a salvarlo: esperto nuotatore si acconciò sotto al
ventre del Prelato, e tanto sbracciò di nuoto sostenendolo e traendolo
fuori, che i marinari della galera poterono ricoverarli a bordo
ambedue.[242]

Anche i cappuccini, che il Papa aveva messi nelle sue galere, perchè
i soldati e i marinari n’avessero esempio di pietà e soccorso di
religione, non solo ministrarono i sacramenti e fecero cuore ai
guerrieri; ma nel fervor della mischia, esposti a ogni pericolo,
stettero intrepidi all’assistenza dei feriti, al conforto dei morienti,
ed alla prova di quella sublime carità che le storie, le leggende,
e per fino i racconti dei romanzieri tanto hanno nell’ordine loro
commendata.[243] Un frate Marco di Viterbo, colpito da più moschettate
che gli trapassarono la tonaca, restò illeso:[244] un altro ferito di
freccia nella gamba, dopo alquanto tempo morissi:[245] qualcuno sin
dal principio della battaglia salì al calcese in cima all’albero, e
quivi stette, affinchè i soldati meglio ne udissero l’esortazioni:
qualch’altro di qua teneva mente all’ufficio suo, e di là guatava
attorno se pur venisse il caso della necessità, che gli facesse lecito
di pigliar l’armi, e satisfare al pizzicore di dare, come gli altri
davano, addosso ai Turchi. Il qual caso come parve al padre Anselmo da
Pietramelara che fosse venuto, perchè dopo molta uccisione di Cristiani
la galera sua era piena di nemici, così afferrò con ambe le mani un
roncone: e invece d’elmo crinito e di corazza lucente, camuffato
di aguzzo cappuccio e di bigio saione, non altro mostrando che il
ferro acuto e l’ispida barba, con sì fiero piglio e di tanto furore
avventossi contro i nemici, e così grande spavento mise nelle anime
loro al solo mostrarsi, che dopo aver co’ suoi manrovesci straziato
sette turchi, cacciò tutti gli altri in fuga, o spinseli a gettarsi
nel mare; senza che nessuno s’ardisse affrontarsi con lui. L’annalista
Boverio ne fa sapere che frate Anselmo raccontando il suo fatto in Roma
al Papa, il fece sorridere.

Nel tempo però che queste cose succedevano, il santo Pontefice con
molte orazioni chiamava l’assistenza di Dio sopra ai suoi figli, e le
celesti benedizioni sopra l’armi cristiane. A tutte le pie persone, e
più agli ecclesiastici, faceva dire che orassero cori fiducia, e ne
vedrebbero gli effetti. L’Altissimo il volle non solo esaudito, ma
lieto con la notizia anticipata della vittoria. Imperciocchè stando
quel giorno sette di ottobre nelle ore pomeridiane con monsignor
Bartolommeo Bussotto tesoriero, col cardinal Cesis, e più altri
famigliari, improvvisamente appartatosi da loro cogli occhi levati al
cielo, pieno di giubilo, e mostrando sui tratti dello scarno sembiante
l’impressione del superno lume, rivolto al Tesoriero, gli disse:
Andate, monsignore, non è tempo di altri affari: ringraziatene Iddio
che l’armata nostra, affrontatasi con la nemica, ha guadagnato la
vittoria.[246]


XVII. — In quella i nostri generali, da vincitori spaziavano sul mare,
ovunque s’era combattuto. Dopo avere rimessa ogni cosa in punto, e
dato ordine che niente restasse di che il nemico si potesse giovare,
conducevano le dugento galere cristiane, e le turchesche pressochè di
egual numero conquistate, al porto o meglio direi alla sicura baja
di Platèa, che oggi dicono Petalà, in terraferma dell’Epiro, presso
la foce del fiume Achelòo, sei miglia dal luogo della battaglia. Colà
prima di tutto pubblicamente furono rese le dovute grazie a Dio per il
gran beneficio che in quel memorabil giorno si era ricevuto: e poi non
altro si fece, per tutta quasi la notte, che visite e congratulazioni;
concorrendo tutti, generali, colonnelli, capitani e venturieri sulla
galera di don Giovanni. Il quale con affetto di cuore incomparabile
li abbracciava, e pur li ringraziava delle valorose prove onde
l’avevano sostenuto. Quando venne a rallegrarsi insieme con gli altri
il vecchio Sebastiano, generale di Venezia, prima che Marcantonio
potesse profferir parola per indurre don Giovanni a condonargli in
quel giorno ogni passato disgusto, già il regio giovane correndo con
allegrissimo viso avevaselo stretto tra le braccia. Nel quale amplesso,
invitato anche Marcantonio a fraternamente rallegrarsi con loro, tutti
tre insieme i tre generali della lega, alla presenza dell’armata, si
baciarono in fronte. Il viril romano, il giovanetto spagnuolo, e il
vecchio veneziano espressero con quel bacio la letizia di tutte l’età.

Il vento, che nel giorno due volte era saltato da levante a ponente,
si girò per maestro: e coll’avanzar della notte tanto crebbe, e portò
sì gran pioggia, in mezzo a tuoni e lampi e gonfiezza di mare, che se
avvenuti non si fossero in quel porto così vicino e capace per tante
navi quant’erano le vinte e le vincitrici, sarebbero andate tutte
perdute.

  [8 ottobre 1571.]

La mattina seguente però, riandando l’accaduto, stava ogni uomo
attonito e stupefatto, come se avesse sognato. Imperciocchè richiamando
da una parte alla mente le difficoltà della lega, la tarda unione, lo
stento della partenza, il successo delle Gomenizze, la contrarietà dei
consiglieri, la ritirala di Giannandrea, e la inestimabile opinione
che si era fatta prevalere della potenza del Turco; e dall’altra
riguardando tante navi cattivate, tanti schiavi alla catena, tante
armi, tanti arredi, tante ricchezze; non pareva possibile che alle loro
mani così d’un tratto fossero tutte venute.

Ma più d’ogni altra cosa li riempiva di maraviglia il gran numero di
cadaveri che il mare, sazio della ingorda sua preda, aveva gonfiati, e
messo al sommo; e il vento talmente spinti ed ammassati alla spiaggia,
che quanto giungesse la vista non altro scoprir si poteva che ignude
teste di turchi. Là erano gli sforzati e i marinari, e continuamente
pescando cavavano danari, vestimenta, arredi e molte altre cose che a
galla ad ogni muover di onde apparivano, tra mezzo alla densa caterva
dei morti. Nel qual tempo volle don Giovanni tornare con Marcantonio,
e Giannandrea, e poche altre galere a rivedere il campo; che ben si
poteva discernere al fosco colore che l’acqua ancor manteneva nel luogo
del tremendo conflitto. Non altro ritrovarono che rottami e cadaveri
trabalzati sull’onde; e due galere turche abbandonate, l’una già quasi
tutta consunta dal fuoco; e l’altra talmente nelle secche incagliata
che Marcantonio, quantunque con la sua galera gli desse tre strappate,
non potè cavarnela. Laonde, tolta l’artiglieria, e lasciatala
saccheggiare alle ciurme, fece tutto il resto bruciare. Tornati poi al
porto, diè don Giovanni il segno della partenza a tutta l’armata; e
con quella si ridusse l’istesso giorno a Santamaura, ove radunato il
consiglio prese a ragionare di quel che dovesse farsi. E quantunque
alcuni con alla testa Marcantonio,[247] richiedessero istantemente
di seguir la vittoria, di scorrere sino a Costantinopoli, o almeno
riscuotere dai Turchi la Grecia; tuttavia tante difficoltà si opposero
al generoso divisamento, che non restò altro partito se non di tornare
addietro. Imperciocchè da una parte non si poteva negare che l’armata
non fosse piena di ferite e di squassi:[248] scarsa di vettovaglie e
di munizioni, dopo quel che se n’era fatto: e dall’altra i consiglieri
regî pensavano che i disegni della loro corte dovrebbero certamente
variare dopo la gran vittoria. Rinascevano le gelosie, e le doppiezze;
le trenta navi cariche di vittovaglia sotto gli ordini di don Carlo
Davalos non erano più state vedute; don Giovanni chiaramente protestava
aver ordine espresso dal Re di svernare in Sicilia;[249] e Giannandrea,
invece di vergogna e di biasimo, toccava più che mai onori e riverenze
dagli Spagnuoli. L’istesso don Giovanni gli era sempre intorno; e sulla
galera di lui banchettava gli amici, esclusi i Veneziani.[250] Qual
maraviglia che fosse allora deliberato il ritorno; e che, chiamandosi
contenti di quello che si era fatto, rimettessero il resto all’anno
futuro?

Prima però di separarsi vollero in quel luogo rassegnare tutto ciò
che si era guadagnato nella battaglia; e dividere la preda, secondo
i capitoli e le consuetudini della milizia. Alla qual rassegna e
partizione don Giovanni diputò Marcantonio, insieme con monsignor
Grimaldi commissario del Papa, don Francesco d’Ivarra commissario del
Re, ed il riveditore veneziano; affinchè di comune consenso facessero
buona giustizia a ciascuno.[251]

Messe adunque da parte le galere e le galeotte fracassate e inutili
per bruciarle, si trovò esservi di legni venuti in mano degli alleati,
galere centodiciassette e galeotte tredici; in tutto centotrenta
bastimenti buoni a navigare: cannoni grossi centosedici, petrieri
diciotto, cannoni piccoli o sagri da sei libbre e più di palla
dugencinquantadue: turchi prigionieri, più volte rassegnati di mano
in mano che dai commissari venivano scoperti, ancorchè nascosti da
molti per fin di guadagno o di pompa, settemila duecento e venti:
e si diceva che ne fossero occultati altrettanti.[252] Intorno alle
quali cifre, dato pur che in diverse scritture si trovino notevoli
differenze, tuttavia si può ben discernere la verità da chi voglia,
come ho fatt’io, raccoglierle diligentemente, e confrontarle: partendo
da principii certi, cioè dal primitivo numero dell’armata nemica; e
poi scevrando i legni grossi dai piccoli; ed i presi dagli sfuggiti
e dagli arsi. Le quali cose alcuni confondono tutte insieme, e
quindi trapassano co’ numeri; altri le escludono, e per questo non
giungono al giusto novero. Finalmente sommando le parti, che per certe
testimonianze si sa esserne a ciascuno venute, si può ritornare al
totale; ed aggiungere alle ragioni la prova.[253]

Fatto il novero si venne al partire: prima la Cristianità n’ebbe di sua
parte diecimila uomini, quasi tutti italiani, in quel giorno francati
dalla schiavitù dei Turchi: poi, secondo il capitolo vigesimoprimo
della lega, ciascuno tolse le sue seste parti, proporzionate alle
spese; e finalmente don Giovanni, siccome capitan generale, toccò la
decima dei sei sesti: ma essendo nate alcune difficoltà sul conto delle
artiglierie, si aspettò per questo la decisione del Pontefice.

A Marcantonio furono immediatamente dati diciannove cannoni grossi, tre
petrieri, quarantadue sagri, mille duecento prigionieri, e galere tra
grandi e piccole ventuna: delle quali, avendone il Papa donate otto
al granduca di Toscana, ne restarono tredici. Al modo stesso tanto
don Giovanni quanto i Veneziani ne donarono sopra le loro porzioni
ai cavalieri di Malta, a quelli di Savoia, ai principi di Urbino e
di Parma, ed agli altri principali venturieri, secondo il merito di
ciascuno; affinchè ragguagliatamente all’opera posta ne avessero il
premio.

  [10 ottobre 1571]

Intanto che alla rada di Santamaura queste cose si facevano, aveva
don Giovanni mandato a riconoscere la fortezza dell’isola. Le galere
di Giannandrea menarono Ascanio della Corgnia, Grabrio Serbelloni.
Prospero Colonna, Lelio de’ Massimi, ed alcuni altri sperti cavalieri:
i quali dopo essersi aggirati in più parti, tornarono dicendo, che
la impresa vorrebbe riuscire troppo difficile; massime bisognandovi
l’artiglieria grossa, e di molte fascinate attraverso alle paludi; e
che il presidio, essendosi già quivi ingrossato e messo in punto alla
difesa, la sarebbe opera non meno di quindici giorni.[254] 148 Però
don Giovanni pose da parte anche questo pensiero: e intanto, con molto
pressanti inviti a quei signori di tornar per tempo nella prossima
primavera, rivolse l’animo e la prora verso l’Italia. A ciascuno
altresì diè licenza, come meglio gli mettesse, di partirsi.

  [23 ottobre 1571.]

Sciolsero i canapi alli ventitrè di ottobre; e chi prima chi dopo,
senza timore di nemici, presero terra a Corfù. Colà in capo a un mese
fu riveduto il Davalos,[255] che a malgrado dei Veneziani, posto per
generale delle trenta navi, aveva con quelle talmente navigato da
non incontrarsi mai più nell’armata se non al ritorno.[256] In quel
porto si fermò Sebastiano, rivolgendo nella mente diverse fazioni che
imprese poi a suo conto nell’inverno. E don Giovanni con Marcantonio
licenziatisi da lui, che fu visto in quel punto piangere di tenerezza,
tra le acclamazioni e gli onori dei Corfiotti, ripresero il mare verso
Messina. Nel quale viaggio, essendo i tempi già rotti a pioggia e a
fortunali, dovettero beccheggiare coi soli trinchetti: e spesso anche
investire nei rimburchi; che, per la loro leggerezza trabalzati dalle
onde, davano fieramente di sperone nelle poppe delle galere che li
traevano.

  [1 novembre 1571.]

Tuttavia presso a Messina, come se il cielo coi vincitori e coi
Siciliani rallegrar si volesse, dissipate le nubi dal soffio del
vento maestro, e fattasi l’aria tutta serena, entrarono a gran festa
nel porto. Sulla riva del quale l’arcivescovo col suo clero e tutti
i Messinesi, non statovi alcuno nè uomo nè donna nè fanciullo che il
solenne e glorioso ingresso vedere ed esaltar non volesse, cantando
salmodie e agitando ramoscelli di ulivo, incontrarono don Giovanni,
Marcantonio e gli altri campioni dal cui senno e valore si stimavano
per sempre dalla invasione e dalle perpetue molestie del Turco
liberati.


  [13 novembre 1571.]

XVIII. — Io non dirò gli onori che ebbe Marcantonio da don Giovanni
e da tutti gli ordini della città di Messina, nè le accoglienze anche
maggiori del popolo napoletano, quando alli tredici di novembre giunse
nel porto di quella capitale con la sua squadra vittoriosa; perchè
n’avrò molto a poter descrivere l’ingresso trionfale in Roma. Già quivi
erano Pompeo Colonna, Pirro Malvezzi, e il tanto celebre cavalier
Romegasso, messaggeri al Pontefice per contargli il successo della
vittoria, da parte di Marcantonio.[257]

Ma parendo a lui di dover molte cose aggiungere a voce, e trovandosi
in Napoli così vicino, prese le poste e sollecitamente si mosse verso
Roma. Nel qual tempo rallegrandosi fuormisura la città e la corte,
con tante feste nelle chiese, luminarie nelle piazze, limosine ai
poverelli, doti alle fanciulle, liberazione di carcerati, suffragi ai
defunti, suoni, spari, e gazzarre, quante niuno prima per qualunque
novella di maggior contento non aveva vedute; venne a tutti in mente
che a render compiuta la dimostrazione della pubblica esultanza si
convenisse ricevere Marcantonio, come principale cagione di tanto
bene, trionfalmente nella sua patria. Di che mandarono ambasciadori
ad incontrarlo e ritenerlo nella sua terra di Marino, dieci miglia da
Roma, tanto che egli quivi si riposasse in mezzo alla sua famiglia, e
il popolo romano si apparecchiasse al suo trionfo.

  [18 novembre 1571.]

Uscito però il prudentissimo uomo di Napoli, e rimasta la squadra
in balía di altri ufficiali, subitamente nacquero tali disordini che
condussero all’estrema miseria le vittoriose fanterie pontificie. Io
non scrivo elogi, ma storia: quindi non posso, nè devo tacere i rei
fatti di niuno, ancorchè nostrano e potente, a pubblico danno. Anzi per
guidare chi legge consideratamente dagli esempii del tempo passato al
buon governo del futuro, dopo aver mostrato la premura grandissima del
Pontefice verso quel suo armamento, bisogna pur che ricordi l’oltraggio
fattogli: così che ciascun comprenda come i ministri talora vadano
contro i buoni intendimenti anche dei principi più virtuosi; ed in qual
modo il zelo disordinato di certi officiali e la trista speculazione
di alcuni taccagni sovrastanti alla pecunia pubblica procaccino non
già l’economia ma la rovina dell’erario, la vergogna dello stato, il
biasimo degli estranei, l’ingiuria dei sudditi, e l’ingratitudine verso
i benemeriti. Era costume generalmente osservato in Europa per quei
tempi far la levata così dei soldati come dei marinari e dei remieri,
quando se ne aveva bisogno, per qualunque fazione; e quella finita,
licenziarli. Nè praticandosi allora coscrivere la gioventù alla sorte
dei numeri, secondo l’uso moderno, nè ingaggiarla con premii per
certo tempo, restava a libito dei sudditi il militare, e dei principi
il togliersi quando che fosse il peso di tenerli. Quindi sciolto
l’assembramento delle armi alleate a Messina, e venuta la tregua
consueta del verno, potevano bene i ministri del Papa congedare quanti
remieri, marinari e soldati avessero voluto: ma entrarono in questo
negozio con tanta precipitazione, e in così piccolo conto tennero
gli altrui meriti a volersi troppo valere del proprio diritto, che
toccarono il segno dell’ingiuria, e produssero tutte quelle infelici
conseguenze che io non credo potersi altrimenti descrivere se non
ripetendo le stesse parole di Bartolomeo Sereno, cavaliere romano,
ufficiale delle fanterie papali a Lepanto, e gravissimo istorico di
quell’età, il quale ne parlò in questa sentenza:[258] «Non mancò in
Messina chi proponesse, per alleggerire al Papa la spesa, che ai
soldati delle sue galere si saldassero i conti; e si sbandassero.
Ma per non v’essere il Commissario, a cui toccava la cura (il quale
avendo inteso la morte di Giorgio Grimaldi suo fratello a Genova per
provvedere alle cose sue era andato) ebbero pure i soldati quel poco
di comodo d’esser fino a Napoli ricondotti. Dove, ritornato che fu il
detto Commissario, tanto minutamente fu fatto loro il conto, che, come
se mai fazione alcuna avessero fatto, non procurando per loro chi ne
doveva aver cura, fu lor fatto pagare sino alle proprie munizioni,
che col sangue loro dai nemici combattendo s’avevano guadagnate. Di
modo che non essendo lor donata la paga (che col nome di donativo
molto debitamente dopo le generali fazioni si deve) e ritrovandosi
la maggior parte di essi senza danari, licenziati che furono, non
bastò loro vender le armi per vivere, ma nel ritornare alle case loro
scalzi e spogliati d’andar miseramente mendicando furono costretti.
Aggiungendosi alla loro miseria ancora, che essendo in Napoli e in Roma
prima di essi comparsi quelli che più avevano procacciato il guadagno
che combattuto, ed avendo di molto oro fatto mostra pomposa, furon
cagione che quando essi meschini, che da buoni soldati onoratamente
avevan fatto il debito loro, così maltrattati vi giunsero, credendosi
ognuno che solo i vigliacchi e da poco guadagnar non avesser saputo,
non solo non trovarono chi li aiutasse, ma furono il più comunemente
scherniti. Questi furono i primi trofei che in Roma si videro della
ricca vittoria! questo fu il guiderdone di chi col sangue e col valore
l’avevano partorita!»

Io qui lascio Bartolomeo a proseguir la lunga intemerata e le molte
rampogne contro i colpevoli, che più d’uno e grandi esser dovevano;
quantunque egli non nomini alcuno. Consento però pienamente con lui,
che le nostre milizie avevano fatto onoratamente il debito loro mirando
più all’onore che all’interesse; perchè ciò torna sempre non solo
dai fatti di questa battaglia, ma da tanti altri fatti precedenti e
seguenti che connaturati perpetuamente alla romana milizia ed alle sue
tradizioni ne rappresentano, per così dire, a primo aspetto le veraci
fattezze del suo volto. E perchè appunto bene e onoratamente servirono,
ebbero a sostener la soprassoma della miseria e degli scherni, di
che alcuni beffardi avrebber voluto anche in altri tempi rimeritarle.
Siffatti disordini non si vogliono tacere, e nè meno scusare; affinchè
non si riproducano a discapito non solo della milizia, ma anche di ogni
altra maniera d’uomini per qualsivoglia ragione benemeriti.

  [25 novembre 1571.]

Alleggerita pertanto dalle fanterie, venne la squadra nel porto di
Civitavecchia a sbarcare quelle genti che ancor le rimanevano: e poco
dopo furono pur nella darsena condotte alcune delle galere prese a
Lepanto, e le artiglierie conquistate, ed i mille dugento prigionieri.
Sopra di che i Caetani, gli Orsini e più altri s’adoperavano per
averne parte. Ogn’uomo, che aveva nella gran battaglia con qualche
carico combattuto, contendeva di ottenere in premio schiavi, cannoni e
galere; e di armarle a spese sue, e di entrar poscia venturiero con la
propria squadretta nell’armata.[259] Io non saprei dire ciò che essi
ne conseguissero: ma ho argomento certo a provare che il Papa istesso
del suo ne armò tre per Michele Bonelli, il quale in tenera età aveva
di sè molto fatti contenti il Papa, e don Giovanni, e Marcantonio.[260]
Il perchè soprattenne un mese in Civitavecchia monsignor Grimaldi ed
il cavalier Romegasso a dirigere il racconcio di quelle, e a mettere
le opere nuove, la piattaforma per cinque pezzi in vece di tre, le
pavesate attorno ai filaretti ed alle battagliole, e le rambate sulla
batteria, di che andavano sfornite le galere dei Turchi.[261] Così il
santo Pontefice dava mano a rilevare la nostra marineria, che disfatta
già dagli Ottomani nell’infelice giornata delle Gerbe, ora coll’istesso
naviglio, cannoni e ciurme di turchi si rifaceva dopo la vittoria di
Lepanto; e non guari dopo giungeva a compimento per opera del suo amico
e successore Sisto V: di che a suo tempo sarà detto. Anzi volendo, per
quanto egli poteva, impedire che i nemici non ripigliassero mai più la
padronanza del mare, dappoichè nella battaglia avevano perduti quasi
tutti i capitani, piloti e marinari, vietò ai Cristiani che durante la
guerra non dovessero nè vendere nè liberare i prigionieri; ma ritenerli
sotto custodia: perchè al nemico, per manco di uomini esperti del mare,
si accrescesse la difficoltà di risorgere.[262] Quindi la turba dei
prigioni venutagli in parte mise al remo nelle sue galere; e gli uomini
di maggior conto, siccome Maometto re di Negroponte, Mamet bey figlio
del capitan bassà, Ammet governator di Bisa, e molti altri capitani,
sino a quaranta, li tenne in Roma molto umanamente, ma sotto buona
guardia, nel palazzo dell’Aquila in Borgo.[263]


  [4 dicembre 1571.]

XIX. — Ma gli è da ritornare a Marcantonio che se ne stava a Marino
ricevendo visite, lettere e infinite congratulazioni da ogni parte.
Stimo utile darne qualche saggio; e preferisco la breve lettera d’un
santo e grande amico dei Colonnese: dalla quale pur si raccolgono
importanti notizie intorno alla speranza di cavare gran frutto dalla
vittoria, e di mettere altri principi nella lega, e di finirla per
sempre co’ Turchi. Sospiro di santi, di papi, di popoli: non di
Filippo. Il padre Francesco Borgia in quei giorni scriveva così:[264]
— «Jh[=u]s. — Ill[=m]o et Ecc[=m]o Signore. — Di quello che passai con
Sua Maestà sopra la persona di V. Eccellenza, ho scritto di Madrid.
Questa è solamente per rallegrarmi et render gratie a Iddio nostro
Signore insieme con V. Eccza di questa vittoria data da Dio nostro
Signore alla Xpianità, come cosa da sua mano. Li ngeli lo benedicano et
tutti li santi suoi; et vorrei che li fedeli che stamo quaggiù in terra
non fossimo ingrati in riconoscere tanto beneficio, nè in supplicare
ala divina Maestà lo faccia perfeto con li buoni incessi in questi anni
che seguitano della Liga. Molto particolarmente ci siamo consolati de
che V. Eccza se sia ritrovata in questa santa impresa, et che li tocchi
tanta buona parte della fatica et merito et gloria di quella; et per
l’avvenire in tutto spero sarà in augmento. Siamo quasi spediti di
questa Corte di Portogallo molto bene, Dio laudato: et quanto ala Liga
che questo Principe ci entra molto voluntieri, et non solamente per il
mar Rosso et Persico, et per l’Etiopia vuole far la guerra al Turco, ma
anche per questa parte vol dare aiuto alla Armata Xpiana. Già V. Eccza
saprà come Nostro Signore vole si vada ancora in Franza: io mi preparo
per accompagnar il Illmo Legato, benchè non mi serve troppo la sanità.
Dio la conservi a V. Eccza, et prosperi sua Illma et Eccma persona et
Casa, con augmento continuo dei suoi doni per grande aiuto del bene
universale. De Lisbona 10 diziembre 1571. Servo in Jesùs.»

                                                            »FRANCº.»

Allora in Roma altro quasi più non si udiva ripetere che il nome di
Marcantonio; nè commendare altro maggiormente che il senno ed il valore
onde egli aveva difeso il cristianesimo dal suo più crudele e pertinace
nemico, e levata in quei giorni la gloria della sua patria a tanta
altezza quanta mai se ne potesse negli antichi tempi ricordare. Per
ciò chierici e laici, senato e popolo a gara concorrevano per onorarlo
quanto più potessero nel suo ritorno: ed apparecchiavano archi, trofei,
iscrizioni, ed ogni altra dimostrazione di festosa accoglienza sulle
porte, per le vie, nel Campidoglio, al Vaticano.

Era il dì quattro del mese di decembre, e l’ampia vallèa che intorno
a Roma dai colli albani sino al mare si stende non compariva già,
come nella stagione invernale, umida di piogge dirotte, o coperta di
nubi procellose; ma invece, maravigliandone ciascuno, si vedevano,
come a primavera, le campagne tiepide e fiorite, con tale serenità
di cielo, e splendor di giorno lucidissimo da non potersene volere il
più bello per festeggiare il gentil cavaliero che cavalcando sulla via
Appia s’appressava alle porte della città, presso la basilica di san
Sebastiano.[265] Stavano colà schierate alle due bande della via le
milizie di Roma, e nel mezzo il senatore, i conservatori, i caporioni,
e gli altri ufficiali del popolo romano, riccamente in loro costume
vestiti; e tanta gente, anche dalle vicine terre concorsa, quanta ve
ne capiva. Tutti chiedevano della venuta dell’aspettatissimo campione:
e tutti riguardavano i novelli ornamenti della porta; gli stemmi del
Papa, del Senato, e dei Colonnesi; i fiori, le ghirlande, le bandiere,
i trofei militari, i rostri delle galere, la luna ottomana riversata, i
prigionieri tra le catene, messi qua e là a colori, a rilievo, a stucco
e a dorature bellissime. Alcuni cogli occhi alla grande iscrizione
sull’arco della porta Capena voltavano in volgar nostro la leggenda
che poneva:[266] — Il Senato e il popolo romano a Marcantonio Colonna,
capitan generale della marineria pontificia, della Apostolica Sede,
della salvezza dei confederati, e della dignità del popolo romano
sommamente benemerito. — Quando ecco da ogni parte risuonare il suo
nome, ecco rivolgersi tutti alla strada; e un batter di mani, e un
accalcarsi di popolo, e un gridar di viva: e dar nelle trombe, e
salutare da presso e da lunge, coi cenni e con la voce, con le berrette
e con le bandiere: ecco i fanciulli, le donne, i baroni, e la plebe
esprimere la pubblica gratitudine al valoroso.

Veniva egli, per certe ragioni che appresso toccherò, disarmato;
modestamente per lo suo grado vestito, senza carro trionfale, e senza
corona d’alloro: ma sopra un cavallo ambiante di bianco mantello,
donatogli poc’anzi da san Pio. Avea sella ricoperta di tocca d’oro,
gualdrappa di seta porporina, trapunta di passamani e frangette
ad oro; il pettorale, il morso, le briglie ricoperte e sfioccate a
porpora e ad oro. Aveva in piè stivaletti bianchi, incerati a lustro;
calze cangianti di rosso e di giallo, brache rigonfie alla spagnuola
a molti listoni di teletta d’argento e di seta morella, giubba di
tocca d’oro, cappa di seta nera trinata ad oro e soppannata di pelli
zibelline, cappello di velluto nero, e la piuma bianca affibbiata a un
gran bottone di perle ricchissimo.[267] Giunto in quel luogo faceva
cordialissime proteste di gratitudine e d’osservanza al Senatore ed
agli altri ufficiali di Roma, e sempre col cappello in mano riguardando
qua e là gli astanti, e mostrando grata riconoscenza, secondo il merito
di ciascuno cordialmente inchinavalo.

In quella moveva dalla porta il corteggio trionfale: dietro ad una
prima squadretta di trombe a cavallo passavano numerose brigate di
uomini scelti tra gli artieri di Roma; fabbri, magnani, legnaiuoli,
armaiuoli, pellicciai, ed altrettali sino a ventisette maestranze,
tutte spartitamente raccolte sotto alle loro capitudini e gonfaloni,
tutti vestiti di novello, lucenti e lisci che menavano per via gioia
e festa. Passavano dappoi Domenico Jacovacci e Cencio della Tolfa
gentiluomini romani, armati di corsaletti, impugnando il baston del
comando, come coloro che erano sergenti maggiori, o vero capi dei
battaglioni nelle milizie della città; alla testa delle quali, con
loro trombe e tamburi, cavalcavano. Il primo corpo d’armati era uno
squadrone di milletrecensessanta archibugeri, messi dieci per dieci,
in centotrentasei file: il secondo, comandato dal sargente maggiore
Francesco Spannocchi, di millecinquecento picchieri, in cencinquanta
file: e il terzo, sotto Gianpietro Muti, di mille cento e trenta
moschettieri, in centotredici file. Tutti pomposamente vestiti di
velluto e di seta a vaghi colori, sotto bellissime insegne, con morioni
lucenti d’acciaio, e pennoncelli azzurrini sul capo, o vero berrette di
velluto con piume, o anche cappelli rivolti all’ungarese; e i picchieri
armati di corsaletti bruniti, che rendevano bella e nobil vista. E a
cessare agli spettatori quel sentimento di sazietà solito nascere dalla
continuata medesimezza delle stesse comparse, avevano provvedutamente
tra l’uno e l’altro squadrone, ed anche tra le istesse compagnie,
tramezzato molti manipoli di alabardieri, e alcuni drappelli di spadoni
a due mani, e divise di paggi bellamente scompartiti, in assetto di
ricche livree, che portavano pendoni, celate, scudi, ed armi attorno ai
capitani.

Lo sguardo però degli spettatori e il cicaleccio dei curiosi rincalzava
sul passaggio dei prigionieri che, appresso alla bandiera ottomana
rovesciata allo ingiù, seguivano in due turme; tutti legati con le mani
dietro alle spalle, e tutti avvinghiati da due catene di ferro, che dai
polsi dell’uno entrando tra i polsi dell’altro scorrevano a far di loro
due grosse brancate di quasi cento turchi per ciascuna. Erano costoro
vestiti tutti al paro d’una tonachetta di panno giallo e rosso insino
al ginocchio, calzati di cordovano giallo, e coperti di una berretta
marinaresca della stessa divisa, in mezzo a due file di alabardieri che
li guardavano.[268] Passati i quali, come per isgombrare quell’aria
di tristezza, e i chiusi petti a nuovi e più lieti sensi allargare,
scorrevano a cavallo trombando in alto i famigli del Senato a pomposa
foggia, e schiudevano la cavalcata di quasi cento gentiluomini romani,
che in diversi costumi, sotto le proprie divise, erano quivi insieme
assembrati per onorare la virtù dell’invitto guerriero che tanta luce
diffondeva sulla già chiara nobiltà del patriziato romano.

Da meglio che un’ora difilava la pompa, nè si pareva ancor segno di
stanchezza in alcuno colà, dove non solo la dolcezza della stagione
e la giustizia di così nobile trionfo, ma altresì la varietà di
tanto belle comparse teneva occupati gli animi d’intenta curiosità
e mirabil diletto. Quando però furono trascorse innanzi le schiere
degli artigiani, dei soldati, dei prigioni, e dei nobili cavalieri
romani, sopravvenne maggior solletico e maggiore gradimento: perchè
ad ogni istante proseguivano sopra cavalli di maneggio bellissimi,
con isquisita eleganza e senza profusion di lusso, nuove assise,
maggiori dignità, e personaggi di più rispetto. Di che desta vieppiù la
curiosità delle persone, v’avean di quelli che sperti negli usi della
corte romana, qua e là tra la folla, divisavano i nomi e le cose, così
per punto come venivano a passare, facendo conto ai vicini ciò che al
loro sguardo si presentava. Ecco, dicevano, passa il signor Camillo de’
Crescenzi e il signor Angelo Flad maestri di strada; in roba lunga, col
berretto alla ducale, e attorno i loro staffieri: passano a coppia li
due sindaci di Roma, in velluto lionato, e negre gualdrappe, tra i loro
famigli: passa lo Scriba del Senato e il suo collega, in costume di
dottori: i quattro appresso, con le piume cangianti di quattro colori,
sono i secretari, tra la turba dei donzelli: passano i marescialli
del popolo romano, in casacca azzurrina e calze incarnate, ciascun dei
quattro con due staffieri. Vedi, vedi, a due a due i paggi del comune,
vestiti a verde e violetto, con in mano ciascuno la grande insegna del
suo rione. I begli stendardi della città damascati a onda e a spina, e
l’aste tutte coperte di velluto cremisino, con frange di seta e d’oro:
ecco il capo del leone in campo rosso, e la ruota in campo vermiglio;
emblemi di Trastevere e di Ripa. Vedi l’angelo in campo rosso, e la
testa di drago in campo d’argento; sono Santangelo e Campitelli: poi la
pigna, e la testa di cervo sul rosso, del rione Pigna e Santeustachio:
il fusone in campo d’azzurro, e il grifo in campo d’argento, per la
Regola e Parione: fiume e ponte in campo rosso, e la luna in campo
d’azzurro, segnano Ponte e Campomarzo: le tre spade in campo di rosso,
e i tre monti in campo d’azzurro, sono di Trevi e Monti: ecco in ultimo
la colonna del rione omonimo: e appresso i Signori dodici della città,
Velli, Boncori, Massimi, dello Schiavo, Caffarelli, Cenci, Falconieri,
Galgano, della Riccia, Coccio, Calvi, Maccarani; e il loro priore
Stefano de’ Crescenzi. Passano venti staffieri ai colori della casa
Cesarina, e il signor Giangiorgio gonfaloniero nostro perpetuo con lo
stendardo del popolo romano. E poi le trombe d’argento con le nappe
rosse, e il commendator Romegasso con la bandiera papale, e il capitan
della sua guardia. Vedi, nobile quadriglia a cavallo, Pompeo Colonna,
e Onorato Caetani, con in mezzo i due Bonelli Michele e Girolamo nipoti
del Papa. Ed ecco tutti ammutolire in grandissima aspettazione, eccoli
farsi in punta di piè, levare il capo, guardare intesamente a colui di
chi la festa era. Allora un sol grido scoppiare di vivissima gioia,
e ripetersi: Viva, viva il signor Marcantonio, e la casa Colonna. Ed
egli in tanta gloria i baldi e guerreschi spiriti di tanta popolar
commozione per lui, non che della ingenita sua gentilezza temprando,
discoprirsi il capo, volgere a tutti piacevole lo sguardo, tutti
riconoscere e salutare. Non così i boriosi antichi trionfatori! Erangli
ai lati dodici staffieri nelle assise della sua casa: lo seguivano il
Senator di Roma, i conservatori, gli amici e consorti suoi, i paggi,
ed un drappello di cavalleggeri. Dopo i quali ad ogni passo crescevagli
appresso la calca del popolo.

E dovendo il glorioso campione in tal modo procedere, dalla porta
Capena alla via trionfale ed al foro romano, per salire sul Campidoglio
e passarsene al Vaticano; facendo cammino per questi luoghi di eterna
rinomanza, ove stanno ancora dopo tanti secoli le maravigliose moli
poste a segno della romana grandezza, rivedeva non solo lo splendore
delle arti antiche, e le memorie dei prischi eroi; ma novelle
leggiadrie d’ornamenti, e più liete leggende intitolate al suo nome.
Là, sull’arco di Druso leggeva:[269] — Roma esultante nel Signore Iddio
stende le braccia al vincitore, e stringe al seno il più chiaro dei
suoi cittadini. —

Qua, da quello di Costantino gli scendeva all’anima il motto:[270]
— Ripensa che a te si schiude la via per andar nel nome di Dio a
riscuotere quella città che Costantino ebbe fondata. —

Quinci sulla diritta rileggeva che:[271] — Costantino tra i Romani
Imperadori fu il primo a combattere felicemente sotto lo stendardo
della Croce, contro ai crudelissimi nemici del nome cristiano. —

E quindi sulla sinistra gloriava[272] — Pio Quinto che tra i romani
pontefici fu il primo, per la lega col re cattolico e con la repubblica
veneziana, e per l’aiuto dello stesso segno di salute, ad aver vittoria
giocondissima sopra la maggiore armata dei Turchi. —

Dall’arco di Tito ritraeva della guerra giudaica, e del passaggio
delle crociate; in proposito delle quali si diceva:[273] — Rallegrati
Gerusalemme: che, se Tito Vespasiano già ti trasse cattiva. Pio Quinto
intende a liberarti. —

Più sotto all’ultimo lembo del foro avvenivasi nell’arco di Settimio
Severo, vincitore dei Parti: ivi in tre scompartimenti leggeva tre
diverse iscrizioni. Nel mezzo così:[274] — Sta ancor qui l’antico
monumento al senato ed al popolo romano della partica vittoria per
ricevere coll’aiuto d’Iddio i nuovi trionfi contro i Parti. —

A diritta poi:[275] — Quei prischi capitani fortemente combattendo
ritornarono alla sua pristina dignità l’imperio romano guasto dall’armi
dei Parti. —

A sinistra finalmente:[276] — I nostri prodi, dopo l’insigne e
incomparabile naval combattimento, vittoriosi dal furor dei Turchi
liberarono le cervici del popolo cristiano. —

Di là, salita l’erta del colle, l’eroe si trovava sulla vetta del
Campidoglio: attorno al quale i balconi dei tre splendidi palagi
levati su da Michelangelo, ornati di tappezzerie, gremiti di dame e
di cavalieri, abbelliti dalle bandiere tolte al nemico, facevano di
sè lietissima mostra. Scorreva coll’occhio in ogni parte, e quivi pur
leggeva in rapidi sensi scritto:[277] — Fiorisce ancor virtù, ardono i
petti, sovreggia pietà, non son già spenti i romani affetti, spicca il
romano valore. — In quella, ecco, a un cenno del Senatore, scoppiare
lietissimi plausi e festosi saluti di tutto il popolo; ecco una bella
musica di scelti strumenti agitare una marcia guerriera; ed al rintocco
delle campane del Campidoglio rispondere in trionfo lo sparo degli
archibugi, e l’incocciamento delle spade e degli scudi dei picchieri.
Nel qual festoso armeggiare dopo essersi alcun poco dilettato,
proseguiva il cammino per la piazza degli Altieri, la via de’ Cesarini
e de’ Banchi, a Montegiordano ed a Ponte: sul cui passaggio il castello
Santangelo di prospetto, spiegati i vessilli, sbombardò da ogni parte
tutte l’artiglierie grosse e minute, con tant’ordine, e strepitoso
echeggiamento sulle ripe del Tevere, che non si potrebbe facilmente
raccontare.

Finalmente passando di Borgo, entrò nel palazzo del Vaticano per la
porta maggiore, e scavalcato nel cortile, venne nella Basilica di San
Pietro onorevolmente ricevuto dai canonici e da monsignor Patriarca di
Gerusalemme loro vicario, che pontificalmente vestito il condusse seco
innanzi all’altare. Colà esso e tutti gli altri del seguito, cantando
devotamente a Dio lodiamo, resero alla divina maestà le grazie maggiori
che potevano dei beneficî ricevuti.

Ma nell’uscir di chiesa eran là due camerieri del Papa presti a torselo
in mezzo, e a condurlo su nel pubblico concistoro dei cardinali,
alla presenza del Pontefice. Laddove essendo egli stato da tutti
piacevolmente riveduto, ebbe poi dal Papa maravigliose dimostrazioni di
stima e di gratitudine, con parole di così grande benevolenza e tanto
calde di affetto, che i risguardanti ne stupivano. In fine congedato
ogni uomo e rimasti soli Marcantonio e san Pio per lungo tratto a
ragionare sopra i grandi successi di quel tempo, non potrebbe nè
altri nè io ripetere il discorso onde le due grandi anime rivelaronsi
scambievolmente i propri concetti. Vorrei che alcun mi dipingesse
Marcantonio e san Pio nell’arcano colloquio: da un verone in lontananza
il prospetto del mare; di qua, il ducal palagio di Venezia; di là,
la reggia di Spagna: e qui presso alla grande basilica di Roma, un
guerriero romano e un romano Pontefice che sorreggono il destino
d’Italia, e difendono la fede e la civiltà dell’Europa.

Tornossene sull’imbrunir della sera in cocchio e privatamente
Marcantonio alle sue case: ma come dopo così lieta e luminosa giornata
non potevano aver luogo le tenebre; così fu tutta la città da un capo
all’altro illuminata, con tante fiaccole, tanti fanali, e tanto fuoco
sulle vie, nei balconi, e in mezzo alle piazze, che quasi al paro
del giorno lucente e lieta invitava ogni uomo generoso a ricercar di
fronte alla piazza degli Apostoli la casa dell’ammiratissimo Signore,
e a ripetergli attorno le festose dimostrazioni di che pareva non
potessero saziarsi. Nel vero il magistrato romano quell’istessa sera
deliberava che la domane, ripetendo la medesima pompa, si dovesse
accompagnare il vincitor di Lepanto a render le dovute grazie alla
Madre di Dio nella chiesa senatoria dell’Araceli; e, a nuova mostra
della tragrande allegrezza, dargli a spese pubbliche nella maggior sala
del Campidoglio un lauto banchetto. Se non che, venuto il Senatore
ad invitarlo, Marcantonio dissegli che siccome la spesa del convito
non era ad altro che per onorarlo da vantaggio, ed egli già di troppo
onorato teneasi, gli piacesse dispensare in pietose opere e in dote
alle povere fanciulle della città quel danaro che da metter fosse nel
convito. Ed essendo ogni sua volontà come legge dal Senatore ricevuta,
insieme si consigliarono del modo ed ordine che si avesse a tenere
nella esecuzione.

  [13 dicembre 1571.]

Laonde provvedutamente rimisero la solennità dell’Araceli alli tredici
dell’istesso mese. E venuto il dì posto di santa Lucia, il Senato e
tutti gli ordini della città in lunga cavalcata andarono al palazzo di
Marcantonio; e, presolo in mezzo, alla chiesa predetta del Campidoglio
lo accompagnarono. Tra molte iscrizioni, ornamenti, e drapperie che
dentro e fuori decoravano il tempio, si lodò molto la leggenda composta
così dal Mureto:[278] — Quelle grazie che gl’imperadori pagani per
la felice riuscita delle loro imprese rendevano vanamente agl’idoli
sul Campidoglio, ora il vincitor cristiano salendo qua ov’è l’ara
del cielo, al vero Iddio Cristo Redentore ed alla gloriosissima sua
Madre per la gloriosa vittoria, religioso e pio le rende e protesta.
— Col qual sentimento di vera fede tutti quei signori entrarono
devotamente nella chiesa per assistere ai divini misteri, celebrati
da un vescovo dell’abito di san Francesco, in mezzo ai ministri ed ai
cantori della cappella papale. Ma come si fu letto il vangelo, ecco
da ogni parte farsi silenzio, e riguardare tutti al pergamo, donde
monsignor Marcantonio Mureto, facondissimo oratore di quell’età, per
commissione del Senato, recitava una elegante e grave orazione latina
pel ritorno di Marcantonio a Roma, dopo la vittoria riportata in naval
combattimento contro i Turchi a Lepanto.[279] Il quale avendo con
acconce parole dimostrato la grandezza dell’istessa vittoria sopra
quei nemici che gonfi di tanta fortuna pensavano quasi sol con un
soffio disperdere l’armata cristiana, ed occupare i porti, le isole, e
tutta la riviera del mediterraneo, rammentava a ciascuno quanto poco
alcuni mesi indietro sperato avrebbe di conseguirla. Talchè se pur
i nemici se ne fossero andati a loro piacimento in Costantinopoli,
se avessero sgombrato l’Adriatico e il Jonio, se lasciato togliersi
qualche prigioniero o qualche galera, ognuno avrebbe dovuto, secondo
la poca aspettazione, anche di quel poco chiamarsi contento. Ma che
la potentissima armata si distruggesse, che dugento quasi galere si
pigliassero; quarantamila turchi si uccidessero, e tanti prigioni,
tante armi, tante bandiere venissero in poter degli alleati, niuno
pensato avrebbe conseguire, e neanche desiderare.

Ora poi, diceva, tutto questo esser già fatto per la virtù sovrumana
di tanti capitani valorosi, e di tanti prodi soldati, quanti colà
combattendo avevano onoratamente vinto o erano gloriosamente caduti.
A tutti doversi lode ed onore; ma a Marcantonio capitan generale
della marineria romana, e general luogotenente della lega, doversene
ancor più che non ne pensassero quelli stessi che più l’onoravano.
Lui aver messi i fondamenti della lega, lui compiutala, lui prima
d’ogni altro in Sicilia a sostenerne il peso, lui a parlar sempre
nei consigli la miglior sentenza, lui a quietare le discordie sempre
nascenti, lui a ricomporre in pace gli alleati, lui ad infiammare i
soldati alla battaglia, e combattere nel maggior pericolo, e vincere
con tanto maggior bravura quanto con minore ostentazione. A lui
l’istesso don Giovanni, più che a ogni altro, aver dato pubblica
testimonianza di gratitudine, chiamandolo consigliero, sostenitore e
campione principalissimo della vittoria. Laonde, appellando dal pergamo
Marcantonio medesimo, e sopra di lui chiamando gli sguardi di tutti,
esortavalo a ripigliar le armi vincitrici, seguire il felice presagio
del suo nome, e riscuotere la Grecia e la Palestina, Costantinopoli
e Gerusalemme: confidando che come già il popolo eletto da lunga e
faticosa schiavitù, sotto la scorta di lucente colonna, potè essere
a dispetto dei suoi nemici liberato; così in quel tempo le nazioni
cristiane d’occidente e d’oriente francate venissero dal giogo ottomano
per la virtù di quella sublime colonna su che poggiava la difesa del
Cristianesimo: affinchè a Roma, sede dell’imperio e centro della fede,
nel pontificato del medesimo Pio, e per l’opera d’un romano campione,
un altra volta toccasse la prima parte di così nobil trionfo.

In questa sentenza perorava il Mureto, e quantunque egli dovesse, a
cessar gelosie come ciascun da se comprende, studiarsi di velare il
suo pensiero rispetto al primato del Colonna; e tanto largheggiare in
lode verso don Giovanni, da chiamarlo divin giovanetto; tuttavia non
potè fare che non manifestasse chiaramente l’animo suo e la pubblica
opinione di quel tempo, che appunto a Marcantonio dava il principal
merito della vittoria. Perchè egli, degno rappresentante del romano
Pontefice, pel senno, pel valore, per la fede e per l’età, posto in
mezzo agli altri due e fatto arbitro, potè condurre l’uno e sostenere
l’altro sino al termine glorioso: ove ancor più facilmente sarebbe
arrivato, se fosse stata sua la prima autorità, e avesse potuto seguire
il generoso volo senza ch’altri di qua e di là gli gravassero le penne.
Iddio il volle premiato: niuno da lui in fuora ebbe il trionfo. Ed
egli sempre prudentissimo, fattosi al gradino dell’altare, e quivi
genuflesso, protestava doversi la vittoria riconoscere dalla mano di
Dio. In segno di che offeriva di oro purissimo una imaginetta di Gesù
risorto con la croce tra le braccia (simile a quella che Michelangelo
aveva scolpito alla Minerva), posta in cima ad una colonna d’argento
coronata ad oro, secondo che si vede negli stemmi della sua casa: e
attorno al fusto i rostri delle galere in argento dorato, avendoci già
scritto nella base:[280] — Al Cristo vincitore, Marcantonio figlio
d’Ascanio, capitan generale dell’armata pontificia, dopo la insigne
vittoria riportata sopra i Turchi, a memoria del beneficio. — Volle poi
il Senato che a ricordare il gran fatto una simile colonna rostrata di
marmo si ponesse nel palazzo dei conservatori al piano del cortile.
Questa tuttavia rimane ove fu posta: l’altra andò al crogiuolo pel
trattato di Tolentino.

Dopo di che, terminati gli uffici divini, si fecero venire in chiesa
a processione sessantatrè donzellette, con la bella veste di panno
rosso e il borsellin della dote. Sulla porta i fedeli del Campidoglio
regalavano di tre giulî ciascun poverello che quivi era venuto per
mercè. E Marcantonio lietissimo d’avere in ogni parte soddisfatto al
debito suo, tornavasene alle sue case.


  [31 dicembre 1571.]

XX. — A imitazione di Roma furono ripetute diverse feste in tutta
l’Italia, e nelle Spagne eziandio. E mentre le arti belle, le
dotte accademie, ed una turba di più che cento poeti, l’uno a gara
dell’altro, tramandavano alla posterità la gloriosa e per tutti
i secoli memorabil vittoria;[281] san Pio ordinava che nell’orbe
cattolico dovesse essere festivamente ogni anno ricordata in
quell’istesso giorno che da Dio Ottimo Massimo, per la intercessione
della Vergine ausiliatrice dei cristiani era stata concessa; e la
memoria tuttavia ne rimane nei fasti annuali della Chiesa, ove il
successor di lui fecela scrivere per la domenica prima d’ottobre,
sotto il titolo del Rosario, con che a solennità di culto e di
processioni, per tutto il mondo ancor si celebra.[282] Volle pur san
Pio che il glorioso successo di quella battaglia, secondo l’esempio
dei predecessori, fosse scolpito sulle medaglie monumentali del suo
pontificato. Di che per avventura molto avrei a dire, se non temessi
increscere ai miei lettori. Niuno tuttavia vorrà darmi biasimo se
con una di quelle per poco mi trattengo, a fine di ribadire i fatti,
dichiarare le altre, ed esporre in tutte l’intendimento di quel grande
che le volle conformi al suo pensiero condotte.[283] Questa medaglia
da una parte semplicemente mostra l’immagine sua, a capo scoperto, e
il solo nome — Pio V, Pontefice Massimo: — dall’altra dispiega tanta
varietà e tanto movimento, che l’occhio a grande compiacenza vi si
posa per discernere in essa tutta, quasi direi, la storia della grande
giornata.[284] Il campo della medaglia è sul mare: alla sinistra
le isole Curzolari, che per la loro lontananza non compariscono; di
fronte, la vista di Lepanto, il golfo quivi aperto, i due castelli
che ne difendono l’ingresso, e lo svolgimento delle due riviere,
quinci l’Epiro, quindi la Morèa. L’ora si manifesta a chi nol sappia
essere quella di sesta, cioè poco prima che si venisse alle mani;
perchè non apparisce ancor segno di combattimento, Giannandrea non
si è separato, le riserve stanno ancora addietro, nè sono arrivate
le due galeazze a coprir la fronte della squadra gialla, ove come ho
detto, non poterono essere se non a mala pena condotte nel momento
della battaglia. L’ordinanza dell’armata cristiana è secondo narrano
le storie, in cinque membri: avanti le galeazze; sulla linea le
tre squadre del centro, della diritta, e della sinistra; appresso
la squadra del soccorso: e tutte distribuite in bella mostra come
esser dovevano poco prima di azzuffarsi co’ nemici. Ciò non pertanto
la fantasia dell’artista, trapassando rapidamente dalle cause agli
effetti, giugne di volo all’armata nemica che doveva esser vinta poco
dopo dalla nostra; e ti mette sott’occhio la distruzione dei Turchi
in tutta la squadra loro diritta, e in tutto il loro centro: ove più
non si vede che il mare coperto di rottami. Non resta di loro altro
che la squadra sinistra, e la capitana di Luccialì presta a fuggirsi
per quel varco che gli schiuderebbe Giannandrea. Costui impari di qua
come egli avrebbe dovuto tener sua posta; stia saldo sul bronzo laddove
non volle stare sul mare: e sempre cogli occhi suoi veggasi avanti
Luccialì in atto di prender gabbo dell’arti sue marinaresche, e di
opprimere i Cristiani in quella parte abbandonati. L’anima nobile del
Barbarigo, là sulla punta dell’ala da lui valorosamente comandata, si
consoli: perchè al suo cospetto vanno dispersi i nemici. Don Giovanni
non presuma: perchè nè il suo nome nè la sua persona vi è posta:
e nè anche pigli gelosia, che niuno quivi gli è stato preferito.
Marcantonio finalmente e tutti i prodi con lui riconoscono da Dio il
beneficio: perchè attorno all’Angelo che scende dai cieli, con la spada
ignuda a loro soccorso, sta scritto: — La destra del Signore ha fatto
la prodezza. — Le altre medaglie in quel torno di tempo per questa
istessa vittoria coniate, tutte sul campo medesimo, rimpetto a Lepanto,
mostrano diversi abbattimenti di galere: ai quali sempre sovrasta la
virtù, l’assistenza, e il soccorso di Dio; ed il motto pietoso: — La
tua destra, o Signore, ha percosso il nemico. — Ciò è stato fatto dal
Signore. — [285]

Ma all’ombra dei gloriosi allori invece di cader appassita, crebbe
più che mai rigogliosa la trista semenza della gelosia con che si era
dato principio all’alleanza. I Turchi, ha notato il Baronio, potevano
esser vinti; ma non gli alleati aver concordia.[286] Alla corte di
Spagna suonarono ingrate l’esultanze di Venezia e di Roma: la gran
vittoria fece paura, come quella che cresceva troppo riputazione
e forza all’emula repubblica: don Giovanni, quantunque vincitore e
fratello del Re, fu colà biasimato e fatto segno a severe riprensioni
per il gran rischio in che aveva posto la corona;[287] Giannandrea, per
essersi due anni dimenato nell’armata ad impedir le battaglie, divenne
sempre più caro: il general Sebastiano, per quel fatto delle Gomenizze,
bisognò che cedesse all’implacabile livore di Filippo; e se ne tornasse
degradato a Venezia:[288] e la virtù di Marcantonio, che era stata sin
là riverita da tutti, e pur dai regî cortigiani commendata, quand’ebbe
conseguita la vittoria a Lepanto e il trionfo a Roma, increbbe alla
burbanza di costoro. Tant’onore a chi aveva sempre richiesto il
combattere, e voluta una lega efficace, dolse a quelli ch’erano stati
là per dar la mostra e pigliar la gloria. E sebbene san Pio avesse per
giustizia consentito al senato e popolo romano di onorare il vincitore
di quelli onori trionfali che addietro ho descritti; e per prudenza
temperatane la pompa; talchè senza carro trionfale e senza corona
d’alloro non mandasse nè ombra nè strepito alla corte di Spagna; ciò
non pertanto alcuni di questa nazione, tanto più offesi quanto più loro
se ne richiamava la propria coscienza, asprissimamente ne mormorarono,
dicendo: che al solo serenissimo don Giovanni, perchè generalissimo
della lega, si addiceva il trionfare.[289] Come se in Roma non si
potesse onorare un Romano; o vero si dovessero i trionfi ai nomi
superlativi e non alle sublimi virtù. E tant’oltre costoro spinsero
la malignità da tentar col santo Pontefice che dinegasse al senato
romano il trionfo di Marcantonio. Al che quantunque san Pio, indignato
che gli si volesse imporre in casa sua, di niente mostrasse di voler
loro consentire; non è però che essi non facessero legge perchè niuno
Spagnuolo o seguace di Spagna non si facesse incontro alla venuta di
Marcantonio, nè fosse spettatore delle feste volute fargli.[290] Questo
sia detto perchè ciascuno intenda chiaramente gli umori della lega: e
trovi eziandio non solo la verità sempre costante dal principio alla
fine di questo libro; ma anche possa antivedere quel che narrare dovrò
nel libro terzo, rispetto ai frutti che si raccolsero dalla grande
battaglia.




LIBRO TERZO.

LA GUERRA DI GRECIA, E LO SCIOGLIMENTO DELLA LEGA.


SOMMARIO DE’ CAPITOLI.

I. — Speranze dei Cristiani, e avvilimento dei Turchi. — Gelosia
tra gli alleati. — Conferenze degli Ambasciatori a Roma. — Contesa
sugl’interessi. — Vorrebbero gli Spagnuoli fuorviare la guerra in
Africa. (Gennaio 1572.)

II. — Pio V vince le difficoltà. — Si delibera la guerra di Grecia. —
Provvisioni di Marcantonio. — Levata delle fanterie. — Torquato Conti
ad Otranto. — Michele Bonelli, Cencio Capizucchi. — Lettera circolare.
— Gli altri capitani sull’armata del Papa. — I Romani su quella di
Venezia. — Le galere di Civitavecchia e di Livorno. — Infermità e morte
del Pontefice. (1º maggio.)

III. — Lutto della Cristianità. — Turbamento della Lega. — Il Granduca
ritiene le galere. — Lettera dei Cardinali a Cosimo. — Armamento nello
Stato. — Lettere al castellano di Civitavecchia per mettere in punto
tre galere. — Conclave ed elezione di Gregorio XIII. (13 maggio.)

IV. — Marcantonio richiamato a Roma. — S’imbarca coi suoi, a Gaeta.
— Naviga a Messina. — Don Giovanni e i Veneziani. — Iacopo Foscarini
generale al luogo del Veniero. — Doppiezza.

V. — Don Giovanni si rifiuta a partire. — Scuse de’ suoi. —
Indignazione pubblica. — Giudizio d’ogni maniera di persone. — Condotta
ed opinione di Marcantonio. — Contraddizioni degli Spagnuoli. —
Concedono ventidue galere ai Veneziani. (1º luglio.)

VI. — Marcantonio favorisce questa risoluzione. — Ordini di don
Giovanni. — Scrittura di S. A. perchè si combatta. — Partenza di
Marcantonio da Messina. (7 luglio.) — Giunge a Corfù. (13 luglio.) —
Querele dei Veneziani. — Prudenza di Marcantonio. — Avvisi dell’armata
nemica. — Luccialì capitan generale, sue forze e suoi disegni. —
Consiglio dei nostri. — I Veneziani richiedono la partenza verso la
Grecia. — Marcantonio conduce l’armata alle Gomenizze. — Rassegna. (22
luglio.)

VII. — Artifizio spagnuolo. — Impedimento al procedere di Marcantonio.
— Don Giovanni riceve l’ordine di muovere per la Grecia. — Sua lettera
a Marcantonio. — Si fermi, e vada avanti. — Contraddizioni di S. A.
— Ragionamento dei Veneziani. — Modestia di Marcantonio. — Continua
il viaggio. — Lettere di Marcantonio a don Giovanni. — Sdegno degli
Spagnuoli. — Minacce di don Giovanni. (30 luglio.)

VIII. — Turbamento degli altri generali. — Marcantonio scioglie dalle
Gomenizze. — Arriva alla Cefalonia, al Zante, al Cerigo. (1º agosto.)
— Posizione dell’armata nostra. — Notizie dell’armata nemica. — Nota
delle galere dei Turchi. — Falso allarme. — Marcantonio in battaglia
a capo Maléo. — Postura alle Dragoniere. (3 agosto.) — Avvisaglie del
quattro agosto a capo Maléo.

IX. — Luccialì spunta da capo Maléo. — Si accosta all’isola dei Cervi.
— Rivolge la faccia a Marcantonio. — Aspetta il ponente per venir
sopravento ad investirlo. — Marcantonio muta l’ordinanza. — Mette le
navi sulla sinistra per riceverlo tra due fuochi. — Falla il ponente. —
Marcantonio profitta dello scirocco per andarlo a trovare. — Ordinanza
da tenere insieme le navi e le galere. — Luccialì dà in dietro. — Cessa
il vento. — Marcantonio animoso e prudente. — Ordina i rimburchi. —
Va con le navi e con le galere. — Principia il combattimento. — Fuga
vergognosa di Luccialì. — Marcantonio padrone del campo. (7 agosto.)

X. — La notte. — Ordine dell’armata cristiana appresso a Luccialì. —
Dispacci di Marcantonio a don Giovanni. — Ritorno al Cerigo. — Alcuni
capitani violatori della disciplina. — Falso allarme. — Disordine di
alcune galere. — Provvedimento di Marcantonio. — Dissimula per non
punire gli Spagnuoli. — Luccialì comparisce verso capo Matapan. (8
agosto.) — Marcantonio accorre per cuoprire don Giovanni. (9 agosto.) —
Navigazione notturna. — Dispute per andare a sua Altezza. — Proposta di
Marcantonio. — Replica dei Veneziani. — Ragioni segrete. (9 agosto.)

XI. — Partenza nella notte con tutta l’armata. — Scontro coi Turchi. —
Una nave Veneziana s’accosta per errore ai nemici. — Contrasto attorno
a quella. — Luccialì l’abbandona e Marcantonio la libera. — Sfida il
nemico a battaglia. — Luccialì accetta. — Giornata del 10 agosto a
capo Matapan. — Cannoneggiamento tra le due armate. — I nostri mettono
in fondo cinque galere turche, e sette fuori di combattimento. —
Confusione dei nemici. — Il Soranzo e Marcantonio, lasciate le navi, si
avanzano per investire. — Non sono seguiti dagli altri. — Pertinacia
del Canaletto. — Il nemico si rifà, e i nostri si confondono. —
Pericolo dell’armata cristiana. — Risoluzione di Marcantonio. — Rimette
l’ordinanza. — Torna alla carica. — Artificî di Luccialì per tirarsi
indietro. — Incalzato, fugge vilmente. — Marcantonio lo perseguita.
— Mutato il vento, torna al Cerigo. — Doglianze di Marcantonio, e
sue parole ai mancatori. — Considerazioni sulle navi. (10 agosto.) —
Consiglio per congiungersi con don Giovanni. (14 agosto.) — Partenza.
— Arrivo al Zante. (16 agosto.) — Avvisi di don Giovanni che quivi
l’aspettassero. — Epilogo dei fatti di Marcantonio, durante il suo
comando.

XII. — Disordini degli Spagnuoli. — Consiglio privato di don Giovanni.
— False relazioni di Pietro Pardo. — Veraci ragguagli di don Alonso.
— Marcantonio al Zante, e don Giovanni a Corfù. — Il primo s’affatica
condurre i Veneziani incontro al secondo, sino alla Cefalonia. —
Questi comanda che si riducano a Corfù. — Lettera di don Giovanni a
Marcantonio. — Indignazione de’ Veneziani, risentimento di Marcantonio.
— Obbedienza. (16 al 31 agosto.)

XIII. — Arrivo di Marcantonio a Corfù. — Mal animo di don Giovanni.
— Magnanimità del Colonna. — Brano di lettera al Secretario di stato
in Roma. — Lettere al Re, ed al Papa. — Considerazioni. — Sentenza.
— Consigli. — Ragionamenti di Marcantonio contro i timidi disegni. —
Rincalzo sul condurre all’impresa le navi e le galere. — Deliberazione.
(6 settembre.)

XIV. — Partenza. — Rifiuto dei Veneziani di ricevere a bordo soldati
spagnuoli. — Insistenza di don Giovanni. — Ragioni delle due parti. —
Ripiego di Marcantonio. — Le fanterie del Papa sulle galere veneziane.
(7 settembre.) — Rassegna dell’armata. (11 settembre.) Navigazione
da Corfù alla Cefalonia. — Notizie dei nemici. — Ardore dei nostri.
— Lentezza degli Spagnuoli. — L’armata dà fondo alle Stanfani. (16
settembre.) — Parole libere del Foscarino. — Parere di Marcantonio.
— Deliberazione del consiglio, per essere la dimane all’isola della
Sapienza. (16 settembre.)

XV. — Navigazione della notte. — Gravità del successo. — Dubitazione
degli scrittori. — La costa di Morèa, Navarino, Modone, il Prodàno
e la Sapienza. — L’armata Turca divisa in due parti. — L’armata
cristiana invece di essere la mattina alla Sapienza è condotta al
Prodàno. — Giudizio imparziale di questo fatto. — Gli alleati perdono
la più bella occasione. — I Turchi di Navarrino fuggono verso Modone.
— Poca caccia di don Giovanni. — Marcantonio lo stimola. — Sceglie
venti galere per inseguire il nemico. — Impedito da don Giovanni. — Va
solo. — Oltraggiato. — Riconosce la fuga del nemico. — Lo raggiugne.
— Nove galere contro lui solo. — Soccorso. — Prodezze di Marcantonio
sotto Modone. — Lentezza di don Giovanni. — Il nemico opera la sua
congiunzione. (17 settembre.)

XVI. — Don Giovanni arriva vogando a’ quartieri. — Cosa fosse. —
Difficoltà d’assaltare Modone. — L’armata si sbanda. — Marcantonio
torna a riconoscere la piazza. — Perseguita quattordici galere. —
Esce fuori Luccialì. — Pericolo dei nostri. — Avvisaglia lontana. —
Giolito. (17 settembre.) — La disfida del dì seguente. — L’acquata.
(18 settembre.) — Ritorno a Modone. — Tutto il consiglio sulla Capitana
del Papa a riconoscere la Piazza. — Parere degli Spagnuoli per tornare
al Zante. — Risposta dei Veneziani. — Marcantonio propone entrare a
viva forza nel porto, e distruggere l’armata nemica. — Sue ragioni.
— Stato di Luccialì. — Difficoltà dei collegati. — Altro ripiego di
Marcantonio. — Sua fecondità di partiti. — Opinione del marchese di
Trevico. — Risposte dei Veneziani. (19 settembre.)

XVII. — L’architetto del duca Cosimo, e la sua macchina. (25
settembre.) — L’arrivo delle navi, e la mancanza della panatica. (27
detto.) — Impresa di Navarrino. (30 detto.) Assedio. — Disordine e
ritirata. — Marcantonio sbarca per difendere le spalle di quei signori.
(5 ottobre.)

XVIII. — L’esercito rimbarcato. — Anniversario della gran giornata.
(7 ottobre.) — Avvisaglie intorno ad una nave Veneziana. — Presa
una galera di Turchi. — Notizie dei nemici. — Mancanza di viveri tra
i nostri. — Deliberazione pel ritorno. — Lettera di Marcantonio. —
Considerazioni. — Naufragio di una galera del Papa. — Arrivo alle
Gomenizze. — Navi, soldati e vittovaglie quando non era più tempo. —
Il duca di Sessa e Giannandrea sollecitano don Giovanni a ridursi in
Sicilia. — Ciascuno ai suoi porti.

XIX. — Don Giovanni a Napoli. — Marcantonio in Spagna. — Il Re Filippo
motteggia. — Indignazione dei Veneziani. — Pratiche per la pace col
Turco. — Intanto apparecchi di guerra a Venezia ed a Roma.

XX. — I deputati al congresso. — Artifizj degli Spagnuoli. (1573.)
— Costanza dei Cardinali. — Domanda dei Veneziani. — Deliberazioni
del congresso. — Freno a don Giovanni, accrescimento dell’armata,
e principio della campagna pel fine di marzo. — Al primo di aprile
niuna esecuzione. — Capitoli di pace col Turco. — Fermati a Venezia
il tre di aprile. — Ragionamento del Doge col nunzio del Papa. —
Parole quiete del re Filippo. — Conseguenze. — Disarmo. — Marcantonio
ottiene licenza. — Suoi meriti riconosciuti da popoli e da principi.
— Non dagl’invidiosi. — Sua lettera al Re. — Suoi persecutori. — Muore
avvelenato in Spagna. — Fine.




LIBRO TERZO

LA GUERRA DI GRECIA, E LO SCIOGLIMENTO DELLA LEGA. [1572-1573.]


  [Gennaio 1572 ]

I. — Pensava il mondo che la vittoria di Lepanto tanto maggior
frutto portar dovesse ai vincitori, quanto incomparabilmente più
d’ogni altra che per i tempi passati ricordar si potesse, era stata
gloriosa, decisiva, e compiuta.[291] I Greci erano in punto di levarsi
per tutto l’Oriente, i Turchi sbigottiti stavano aspettandosi la
caduta dell’imperio, il Sultano confuso tornava precipitosamente
dalle provincie a guardar la capitale, e la plebe musulmana a quei
Franchi, che aveva sino allora disprezzati, s’inchinava pubblicamente;
e loro confidava le più preziose sostanze, per salvarle dal sacco,
che temevano da un giorno all’altro imminente.[292] Gli Occidentali
dall’altra parte niuna cosa più rivolgevano per la mente che battaglie
e conquiste: cacciare i Turchi dall’Europa, svellere dalle radici
la pirateria africana, rimettere in piedi l’imperio di Grecia,
riscuotere la Palestina, liberare Gerusalemme, impedire la temuta
rovina dell’Ungheria e della Polonia, ed ogni altra impresa, quantunque
ardua, stimavano che dovesse, dopo così felice cominciamento, riuscire.
Ciò non pertanto dalla grande vittoria nostra (che pur fu principio
del dichinamento in che è venuto l’imperio turchesco) non si cavò
allora niun frutto: perchè ad onta dell’opinione pubblicamente tenuta
dagli amici e dai nemici, contro il corso ordinario degli eventi, ed
oppositamente agli interessi comuni del Cristianesimo e dell’Italia,
vi fu chi si adoperò a contrariarlo. Questa sola ragione, già nota ai
miei lettori, quantunque studiosamente ricoperta dietro le cortine dei
gabinetti, e poco eziandio potuta o voluta vedere dagli storici timidi
o parziali, pur rilevasi da tutta l’orditura dei fatti precedenti e
seguenti, e dalle carte secrete degli archivî. Questa sola ragione,
dico e ripeto, può chiarire gl’intricati successi con che si passarono
gli altri anni dell’alleanza.

A vedere insieme Spagnuoli e Veneziani pareva che dovessero essere in
grande amicizia tra loro; ma nel secreto nudrivano gli uni contro gli
altri odio più acerbo che non contro i Turchi.[293] Ed il fuoco occulto
delle passioni, rattizzato dalle continue querele, e più che mai
scosso dal soffio della recente vittoria, divampava qua e là in fiamme
di sdegnose parole. Imperciocchè gli Spagnuoli, generazione d’uomini
gonfia e burbanzosa, dispettando la semplicità e sottigliezza dei
Veneziani, ne spregiavano il costume, la milizia e l’armata; altamente
sentivano e parlavano di sè; tutto il vanto della giornata davano
ai capitani, ai soldati e galere loro. Ed i Veneziani non sapendosi
passare di tanta arroganza, e forse anche travalicando i limiti della
giusta indignazione, riforbivano le lingue a narrare i loro meriti,
e le altrui magagne. Contrapponevano alla tardanza di don Giovanni
la prontezza del Veniero; alla fuga o al tradimento di Giannandrea,
le prodezze e la gloriosa morte del Barbarigo; alla infingardaggine
del Davalos, capitan delle navi spagnuole, la bravura di Francesco
Duodo, duce delle galeazze veneziane; ai timidi consigli dei tutori
di sua Altezza, il deliberato parere dei provveditori di san Marco: e
dimostravano che la battaglia e la vittoria erano state, non a diletto
ma a dispetto degli Spagnuoli: essendo che per quant’era da loro non
avrebbero voluto combattere per non vincere. Il governo di Venezia
oltracciò mirava apertamente non solo a ricuperare Cipro e Negroponte,
ma ben anche a mettere altri ordini di dominio nell’Epiro e nella
Grecia: e la corte di Madrid, che non poteva nè per i capitoli della
lega, nè per la distanza delle regioni, aver parte a siffatti guadagni,
pativa troppo a dar mano perchè l’abborrita rivale se ne facesse
padrona. Bisognavale piuttosto averla avvilita e fiacca, che gagliarda
e vittoriosa.[294] Così gli alleati di gloria, d’imperio e di virtù,
nella marineria, nella milizia e nei gabinetti contendevano.

Ma in Roma sotto la fede di Pio V si facean pratiche per coprire gli
oltraggi, quietare gli sdegni, e promovere la concordia: a pur ottener
che tutti insieme si volgessero al pubblico beneficio. Da questo
centro, ove era più pura l’intenzione e più sincera la pietà, partivano
consigli generosi ed efficaci rimedj per condurre sulla diritta via a
termine salutare la scontorta machina della lega. Perciò, volendo a un
tempo crescerle forza e ripararne i difetti, pensò il Papa rinfiancarla
coll’imperadore de’ Romani, e col re di Francia, e di Portogallo;
invitandoli a mettersi di accordo per così giusta ed util guerra. Ma
quantunque si brigassero a Vienna e a Parigi i due cardinali Commendone
e Bonelli, a questo intendimento mandativi dal Pontefice, non si
potè conseguir nulla di rilevante.[295] Massimiliano, dopo la gran
battaglia navale, non avendo più paura del Turco, schermivasi dai colpi
maestrevoli del Commendone: e Carlo, dicendo che sarebbe venuto nella
Lega quando ci fosse entrato Cesare, si scusava: prometteva però con
molta solennità di parole e magnificenze di regî segni al Bonelli, che,
sebbene dovesse far risentimento di certi oltraggi ricevuti dal re di
Spagna; pure vivendo il Pontefice, non avrebbe mai mosso l’armi contro
di lui, nè in alcun modo disturbata la lega. Di Portogallo si ebbero
molte promesse, e nulla più.[296]

Così al principio del settantadue non furono in Roma a trattar le sorti
della futura campagna altri ambasciadori se non quelli stessi del re
Filippo e dei Veneziani: i quali sembrava pur che non avessero modo
ad accordarsi insieme altrimenti che nel trovare ogni dì nuovi capi di
questioni senza fine, se l’autorità del Pontefice mediatore, appo gli
uni e gli altri sommamente valevole, non le avesse terminate.[297]

Per dirne quel tanto che basta, comincerò dai Veneziani: i quali
primamente proponevano che si vedessero i registri delle spese, e per
giustizia si restituisse alla repubblica il denaro cavato al di là
del debito suo. Laddove gli Spagnuoli scaltritamente entrando con loro
nell’irto spineto del lungo e minuto bilancio, tanto li ravvolgevano
in cento digressioni sulla passata economia da mandar quasi in
oblio i provvedimenti della guerra da farsi. Il Pontefice però che
intentamente vegliava sopra i negoziatori, e più d’ogni altro sentiva
l’importanza del trattato, e però il danno che dalle altrui passioni
gli veniva, per ovviarvi, proibì a quei signori di fermarsi punto
sulle cose passate senza aver prima concordato delle future. Ma qui
pure si fece campo a discordie e a strani infingimenti. Qui si erano
a grand’arte provvisti e trincerati gli Spagnuoli. Avevano tra loro
deliberato, e con molte maniere di ragionamenti persuaso a sè stessi,
e non dubitavano di poterlo persuadere anche agli altri, di smettere
la guerra di Grecia, e di rivoltarla in Africa. E ciò ostinatamente
richiedevano per comprimere la oltracotanza dei pirati, e per rilevare
la Spagna dalle loro molestie. Trovato bellissimo a mantener la guerra,
a perdere i frutti della vittoria, ed a consumare i Veneziani. Questi
però si opponevano a siffatto tranello, richiamandosi al capitolo
quarto della Lega, e all’obbligo di esser tutti colà ove Turchi e
barbareschi, molestavano insieme, non con parziali ladronecci, ma
con guerra guerreggiata i possedimenti di una tra le potenze alleate.
Richiedevano la difesa di Candia, la riscossa di Cipro, l’impresa già
bene incominciata di cacciar fuori il Turco dall’Europa, e francare per
sempre l’Italia e la Cristianità dal timore dei barbari. Schiacciato
il capo dei nemici a Costantinopoli, dicevano, cadrebbero da sè le
membra troppo slogate del mostruoso imperio nella Libia: al contrario
i pirati, quantunque percossi, rileverebbersi più che mai formidabili
se al loro capo si lasciasse il vigore di ravvivarli. Allora gli
Spagnuoli, ribattuti sino alle trincee, voltavano la faccia, e si
rifacevano all’assalto da un altro lato: dicevano che non si poteva
andare tanto innanzi nella Grecia senza l’aiuto dell’imperadore dei
Romani, il quale non si sapeva ancora se volesse o no entrare nella
lega. E i Veneziani, che non cedevano in destrezza e avvantaggiavano
nella giustezza dei tiri, rispondevano che Cesare più facilmente si
metterebbe con loro se li vedesse venire avanti verso di lui, che
non se li sentisse andare in dietro verso l’Africa. Quindi i primi
abbassavano l’armi; e come se volessero capitolare, proponevano con
molta dolcezza, che, stando Cesare irresoluto, si potrebbe almeno
lasciare in arbitrio dei tre generali il decidere quando e come meglio
metterebbe il voltarsi a Levante, o a Ponente: facevano secretamente
ragione di poter tirare ogni cosa a quest’ultima parte coll’autorità
di don Giovanni e con lo stringervi Marcantonio. Ma gli altri,
fiutata la malizia, rilevavano in alto le armi della capitolazione,
dicendo doversi osservare quelle leggi che si erano con solennità
di sacramento stabilite; nè concedere a niuno, fossero pure i tre
generali, la facoltà di violarle.[298] I primi allora querelavansi
che la Repubblica volesse dominare a suo talento, e togliere per sè
ogni vantaggio: i secondi che si tentasse ingannarli, e toglier loro
il frutto della vittoria. E gli uni e gli altri da questo a quel
ragionamento trapassando, senza fermarsi mai, dopo il giro di due mesi
si restavano nell’incertezza del primo giorno: nè si vedeva alcun segno
di conclusione.


  [Marzo-Aprile 1572.]

II. — Allora san Pio, contrappesate le opposte sentenze, e veduto
che da una parte era doppiezza e pubblico danno, e dall’altra lealtà
e comun beneficio (sebbene accidentalmente congiunto con la privata
utilità di chi lo sosteneva) pronunciò l’arbitramento, conforme al
vigesimoterzo capitolo dell’alleanza, che fu da tutti di buona o mala
voglia ricevuto.[299] Con questo restarono decisi i quattro punti di
maggior controversia: primo, all’entrante di aprile l’armata tutta
si troverebbe a Corfù; secondo, la guerra si farebbe nella Grecia;
terzo, là e non altrove si governerebbero le imprese col voto dei tre
generali; finalmente ciascuno accrescerebbe a poter suo il numero delle
galere, e tutti insieme per la rata parte condurrebbero sull’armata
trentaduemila fanti, cinquecento cavalli, trenta cannoni da batteria,
munizioni all’avvenante; e terrebbero un campo di dodici mila fanti ad
Otranto, sia per rinforzar l’armata, sia per traghettarli quando che
fosse in Grecia. Ciò fermato, e tronche per la diligenza ed autorità
sua infinite altre questioni, si venne a sottoscrivere i detti ordini
per la campagna dell’anno mille cinquecensettantadue. I Veneziani
palesemente gioivano sperando gran fatti: e gli Spagnuoli in segreto
sogghignavano, sapendo di aver loro dato parole di soddisfazione in
carta, purchè continuassero a consumarsi nella guerra.[300]

Marcantonio ebbe ordine di allestirsi alla partenza. Sapeva bene quanta
invidia fosse cresciuta dalla plebe dei cortigiani sino al trono di
Filippo contro di sè.[301] Sapeva le querele tra Spagnuoli e Veneziani,
e pensava come, dovendo star tra loro nel mezzo, sarebbe stato afflitto
o dalle esorbitanze degli uni, o dalle esigenze degli altri. Ciò
non pertanto, ripigliato animosamente il governo della spedizione,
e pronto a soffrire tutto anzichè fallire alla fiducia del Papa, si
dette a provvedere quello che bisognava per la campagna. Prima deputò
ad Otranto Torquato Conti e Gentile Sassatelli, nobilissimi romani e
prodi condottieri, con duemila fanti che esser dovevano la parte del
Pontefice in quel campo.[302] E trovandosi poco soddisfatto di Onorato
Gaetani per la provvisione dei soldati, quantunque marito dell’Agnesina
Colonna sua sorella, gli tolse il generalato delle fanterie,[303] e
in suo luogo pose Michele Bonelli; che, avendo molto valorosamente
combattuto a Lepanto, per la sua virtù e per l’autorità che gli dava
la parentela e benevolenza del Papa, stimava molto a proposito per
quel carico. Aveva altresì destinati i nuovi capitani a far levata
di fanterie sotto la direzione di Cencio Capizucchi mastro di campo
generale, cui spacciò con amplissima autorità nelle provincie, datagli
tra l’altre una lettera di bando a tutti i governatori e magistrati
secondo suo usato in questi brevi concetti:[304] «Molto magnifici
Signori. Roma, 15 gennaro 1572. Il signor Cencio Capizucchi viene
per servigio di Nostro Signore e per ordine mio a fare scelta delle
fanterie che sono necessarie in questa nuova spedizione per l’armata
di Sua Santità, come vedranno le Signorie vostre per la sua patente.
Et perchè appresso li ragionerà di alcune cose toccanti all’honore et
riputazione di codesta Comunità et beneficio e comodo delli soldati, li
prego a credergli come farebbero a me medesimo, et favorirlo in tutto
quello che da lui saranno richiesti per questa causa: et alle signorie
vostre mi raccomando et offero: «Marcantonio Colonna.»

Quindi spedì la patente al capitan Girolamo Mariotti di Fano, perchè
mettesse la sua compagnia nella Marca d’Ancona: alli venti diè la
condotta a tre altri capitani; Filippo Contucci da Matelica, Concetto
Matteucci da Fermo, e Giulio Sanfrèo da Urbino: alli nove febbrajo
diputò ajutante del Capizucchi il capitano Aurelio Alavolino di
Macerata, e non guari dopo scrisse nel ruolo dei suoi capitani Andrea
Càrdoli da Narni, Vincenzo Olivieri di Pesaro, Orsino Ferrari e
Rutilio Conti di Roma, Marcello da Bologna, Filippo da Civitavecchia,
Flaminio Brandolini da Forlì, Pierjacopo da Nocera, don Cesare
Caraffa napoletano pronipote di papa Paolo, Vincenzo Galeotti di Roma,
Francesco Marcia Signorelli di Perugia, Bastiano Bandini, e Pellegrino
Sinibaldi di Osimo.[305]

La gioventù animosa intanto, ed i soldati che avevano già prima
militato, senza ripensare altrimenti alle durezze della passata
milizia, così prontamente concorsero a scriversi nelle nuove compagnie,
che in pochi giorni ebbero pieni i ruoli: non solo dell’armamento
papale, che era di duemila fanti e trecento nobili venturieri; ma anche
dei battaglioni che i Veneziani, come sempre, così allora traevano
dallo Stato.

A me piace ricordare che nel presente anno quasi dieci mila statisti
militavano all’armata sotto la bandiera di san Marco, guidati da
quattro colonnelli o mastri di campo, che erano Paolo Orsini di Roma,
Prospero Colonna di Roma, Claudio della Penna di Perugia, e Fabio
Pepoli di Bologna: oltre ai quali erano quivi pure i capitani Carlo da
Perugia, Gasparo d’Ascoli, Lorenzo Narducci di Macerata, Pier Filippo
da Scapezzaro, Signorello da Perugia, Nardo da Bevagna, Ferro Romano,
Costantino da Viterbo, Bartolommeo da Montesanto, Giovanni Brancadoro
da Fermo, Ruggero della Fara, Orazio Bordandini da Faenza, Francesco
Coppoli da Perugia, Baldassar d’Assisi, Angelo Romano, Giulio da
Spoleto, e Luigi Pepoli da Bologna.[306] Similmente il Contarini,
e in più luoghi anche il Sereno, ricordano i seguenti capitani da
unirsi a quelli che ho nominati avanti. Pasotto e Camillo Fantuzzi da
Pesaro, Cesare Crotti e Giammaria Riminaldi da Ferrara; il conte Cesare
Bentivoglio, conte Bonifacio Bevilacqua, Antonio Ercolani, Alessandro e
Paolo Zambeccari da Bologna; Ottaviano, Bonifacio e Annibale Adami da
Fermo, Alfonso Vitelli da Castello, Ortensio Palazzi da Fano, Roberto
Malatesta da Rimini, Soldatelli da Gubbio, Ascanio da Civitavecchia,
conte Jacopo da Corbara di Orvieto; Pietropaolo Mignanelli, e Ludovico
Santacroce di Roma.[307]

  [1 maggio 1572]

Al tempo stesso si trovavano già pronte al navigare in Civitavecchia
le tre galere quivi armate dai ministri del Papa, e se ne aspettavano
altre undici da Livorno. Le fanterie marciavano dai loro quartieri
verso la marina, e Marcantonio era sul punto di uscir di Roma,
quando Pio Quinto rifinito dalle lunghe molestie ed affannose cure
del pontificato, nè potendo oltre reggere il peso delle abituali sue
infermità, oppresso più dalle fatiche che dagli anni, dopo alquanti
giorni di acerbissimi dolori pazientemente tollerati, tra i conforti
della religione raccomandando agli astanti cardinali le cose della
Chiesa e della lega, santamente il dì primo di Maggio addormentossi nel
Signore. Uomo per innocenza di costumi, grandezza di animo, e studio di
pietà degno di esser a quei sommi Pontefici dei primi tempi comparato,
cui la riverente posterità per le virtù e santa vita tenne e terrà
sempre in venerazione.[308]


III. — Restò tutta la Cristianità e più d’ogni altro il popolo
romano compreso da tanto dolore quanto mai per molti anni innanzi
non se ne era sentito per morte di pontefice, o per qualunque altra
pubblica calamità. Così grande era la estimazione e l’amore in che
tutti l’avevano; e così pure cruccioso il perturbamento imminente
agl’interessi della lega. Cadevano le speranze, esultavano i nemici,
crescevano le gelosie, e don Giovanni, consapevole del fatto, che solo
per l’autorità di Pio stava in piedi l’alleanza, s’udiva esclamare:
Or ch’è morto mio padre (così per affetto pietoso chiamarlo soleva)
non ho speranza di far mai più nulla di bene.[309] Nel vero il grave
corpo della lega perduto avendo il suo capo, e quasi direi l’anima sua,
stava prosteso senza moto, senza disegni, e da ogni parte oppresso
da nuove difficoltà. Tuttavia i cardinali, fermi nel proponimento
di non mancare al debito loro nel favorire e mantenere la guerra,
giovandosi di quel denaro, che contro l’opinione di ciascuno aveva Pio
lasciato in Castello per la continuazione della medesima, ottocento
mila ducati di moneta coniata e il compimento di un milione e mezzo
in assegnamenti sicuri,[310] coll’autorità del loro collegio in Sede
vacante, confermarono Marcantonio nel generalato: e prima che nel
conclave si chiudessero, gli ordinarono di mettere in assetto le galere
di Civitavecchia, affrettare la venuta delle fiorentine, imbarcar le
fanterie, e partir per l’armata. Ma si aveva a trattar col Granduca: il
quale, sebbene avesse capitolato per la condotta delle galere con papa
Pio,[311] pure in Sede vacante stava dubbioso, e andavasi scusando di
non averle in ordine. Temeva la lunghezza del conclave, le qualità di
qualcuno dei papabili, segretamente se la intendeva con gli Spagnuoli,
e poco amava i Veneziani.[312] Di che i cardinali comandarono
a Marcantonio che scorresse di presente a Firenze per levare le
difficoltà: e scrissero a Cosimo eziandio più lettere per aver le
galere, confermandogli quanto da Pio gli era stato promesso; con
amplissima dichiarazione e firma di tutti loro, che chiunque fosse per
riuscir Papa sarebbe per fare il medesimo. Una di queste lettere, che
meglio d’ogni altro discorso mostra lo stato di questa bisogna, stimo
pregio dell’opera il produrre qui volgarizzata in questa forma.[313]

  [6 maggio 1572.]

«Al Granduca di Toscana. — Noi per divina misericordia Vescovi, Preti,
e Diaconi cardinali eccetera: Dilettissimo ecc. Abbiamo jer l’altro
spedite in diligenza per un corriere espresso le nostre lettere alla
Vostra Nobiltà, con molte ragioni e maggior premura pregandola a mandar
quanto prima in Civitavecchia quelle galere che può, e quante più ne
può; affinchè a noi sia dato il modo di imbarcar le fanterie della sede
Apostolica chè stanno già pronte, e nulla più aspettano che l’imbarco.
Poi per le lettere scritte dalla istessa Vostra Nobiltà al cardinale
Alessandrino collega e fratello nostro abbiamo apertamente veduta la
vostra buona volontà verso la felice memoria di Pio Quinto Pontefice
Massimo, e non dubitiamo che quella sia per durare al modo stesso verso
di noi e verso questa Apostolica Sede per tutto ciò che risguarda la
conservazione della sua dignità, massime negli affari di questa santa
spedizione contro gl’Infedeli. Noi certamente ci siamo ripromessi da
Voi gran cose ancor prima che le lettere di costì ci manifestassero
la cura e la diligenza che Voi mettete grandissima nell’aver tutto in
pronto. Nondimeno il pensiero di questo sommo e gravissimo negozio,
dal quale principalmente dipende la salute di tutta la cristiana
repubblica, tanto ci commove e sollecita che non possiamo quietarci
con le sole parole, ma ci bisogna vedere i fatti e le galere; se non
tutte almeno parte: e questo per molte e gravi ragioni che alla Vostra
Nobiltà per la sua singolar prudenza possiamo confidare. Primo, perchè
qui si tratta della dignità della Sede Apostolica, convenendosi che,
come fu la prima a guidar gli altri nel patto della sacra alleanza,
così ancor lo sia nell’eseguirlo. Di più il nostro dilettissimo nel
Signore Giovanni d’Austria, avendo già l’armata sua in ordine, scrive
lettere pressanti per avere senza indugio queste milizie e queste
galere. Similmente i Signori Veneziani non ristanno dall’adempiere
tutti gli obblighi loro, e già cominciano a chiamarsi gravati perchè
tante forze e così gran mole di guerra debba rimaner sospesa ad
aspettare le poche galere che mancano. S’arroge il sospetto che gli
stessi Veneziani pigliano di questo ritardo, come se non fosse a cuore
della Santa Sede il perseverare nella sacra alleanza; la qual cosa
a noi che vedemmo già l’ardore della felice memoria di Pio Quinto,
e l’ardor nostro sentiamo, riesce più che dir si possa molestissima:
e ci duole all’anima, che essi, o altri, ancorchè nel loro secreto e
per solo sospetto, pensino tale indegnità di noi. D’altronde però non
ci sembra aver modo a poterci scusare, essendo già passato il tempo
prescritto: e quando avrebbe l’armamento nostro dovuto esser fornito
nel mese di aprile, ci troviamo già valichi alcuni giorni di maggio
senza alcuna conclusione; e quel che è peggio menati a più lunghi
indugi. E neanche sminuisce il nostro cordoglio, nè resta salva la
nostra dignità, per quel che forse potrebbe dirsi degli altri principi
confederati; come se non fossero in punto, nè avessero adempiuto agli
obblighi loro: perchè, dato pur che ciò sia vero, ne avremmo gravezza
e molestia per cagione del pubblico danno: ma infinitamente più
molesto e più grave ci sarebbe se avessimo col nostro esempio a dare
agli altri un buon pretesto a cavarne le mani. Deve anche attendersi
provvedutamente a questo, che se le galere della Vostra Nobiltà
tardassero non diciamo pochi giorni, ma poche ore, eccoci sopra un
grave ed imminente pericolo che le armate degli altri collegati senza
aspettar la nostra si sciolgano, e se ne vadano ciascuna a suo talento
ad imprese di poco conto, e preparino quelle perniciose conseguenze
che alla vostra prudenza lasciamo considerare.[314] E nè anche si deve
preterire come tra pochi giorni ci avremo a chiudere nell’apostolico
conclave per la elezione del nuovo Pontefice; laddove impediti da più
alto affare non ci verrà concesso l’attendere a questo. Finalmente
l’istessa stagione ci fa sentire il tempo opportuno alle imprese, nè
ci permette di lasciarlo trascorrere a vantaggio dei nostri nemici e a
nostra ruina. Questa fatta incomodi e danni non possono ripararsi che
col rimedio della prestezza. Laonde noi non contenti delle lettere già
scritte alla Nobiltà Vostra (dappoichè la gravità ed importanza del
subbietto non ci consente di poterci chiamare abbastanza diligenti)
nuovamente con tutta quella maggiore efficacia di che siamo capaci,
richiediamo da Voi che senza aspettare le due vostre galere mandate
in Spagna, e ne anche le galeazze, se non sono in punto, onninamente
ne mandiate alcune galere per poche che siano, ma specialmente la
Capitana, affinchè quivi inalberar si possa decentemente lo stendardo
della Sede Apostolica, senza di che il felice proseguimento della
sacra allenza non avrebbe buono avviamento. Le altre galere, secondo
verranno, potrete comodamente mandarle appresso alle prime. Questo
favore in tal modo dalla Vostra Nobiltà chiediamo, e così quella
ne preghiamo che con più premura o maggior insistenza non ci è dato
nè chiedere nè pregare. Ancor questo desideriamo, che per lo stesso
corriero nostro voglia rispondere alla presente lettera; e significarci
espressamente il tempo quando le galere che manderà scioglieranno
le vele: imperciocchè tale notizia ci è necessaria avanti, per bene
ordinare i mezzi al fine. Dato a Roma a dì 6 maggio 1572 — Giovanni
cardinale Morone, Girolamo cardinal Simoncelli, Silvio.»

Questa lettera dei cardinali da una parte dimostra la premura loro
grandissima e l’importanza che mettevano nell’armamento delle galere;
mostra gli umori dei collegati, i loro sospetti, il pericolo di
separarsi e di mettersi a imprese di poco momento; e come don Giovanni
faceva le viste di chiamarsi malcontento del ritardo altrui. Dall’altra
parte fa toccar con mano il danno già patito alle Gerbe, quando fu
distrutta la marineria nostra; donde il bisogno di ricorrere a principe
tanto minore per aver il naviglio, che il sacro collegio avrebbe
altrimenti a suo talento potuto spedire. Quindi io penso che le lettere
di Cosimo passate attorno per le mani dei cardinali fino a quelle del
Perretti, che fu poi papa Sisto, facessero in lui nascere il disegno
di rifornir, quando che fosse, lo Stato d’una marineria sua propria,
talchè Roma in simili casi tornasse in grado di dare non di chiedere
soccorso altrui, secondo la qualità di sua grandezza.

E gli stessi cardinali prima di entrare in conclave, stretti dalla
forza di cotal ragionamento, non lasciarono di fare quel che allora
potevano intorno alle tre galere che Papa Pio aveva fatto armare
in Civitavecchia: per le quali mandarono monsignor Grimaldi, il
commissario della marina; e gli imposero di fornirle co’ migliori
cannoni, e con tutti gli schiavi che erano nella fortezza.

  [9 maggio.]

Ecco due lettere sopra questo subbietto.[315] «Al Castellano di
Civitavecchia. Noi per misericordia divina Vescovi, Preti, e Diaconi
cardinali, eccetera. Ti raccomandiamo che tu debba trarre da codesta
fortezza e consegnare nelle mani del reverendo Domenico Grimaldi
protonotario e dell’armata apostolica commissario generale, o vero
nelle mani di chiunque egli ordinerà, quattro cannoni: cioè due di
quella specie che chiamano mojane e due mojanette, secondo la scelta
che ne farà esso Commissario o altri da lui deputato, per uso e
servigio della marittima spedizione dell’anno presente nella sacra
alleanza: la qual consegna sarà da noi approvata, come di presente
l’approviamo. Dato a Roma eccetera a dì nove maggio 1572. G. cardinal
Morone. — G. cardinal Simoncello, Silvio.»

  [10 maggio.]

Similmente all’istesso castellano il dì seguente con la medesima
solennità di firme e di favella latina scrivevano:[316]

  «Nostro diletto nel Signore salute.

»Ti comandiamo di dare e consegnare al reverendo signor Domenico
protonotario Grimaldi, commissario generale dell’armata apostolica, o
vero a chiunque egli stesso deputerà, i Turchi prigionieri della Sede
apostolica quanti mai ne siano costà sotto la tua custodia: affinchè
egli l’adoperi in servizio della santa spedizione dell’anno presente:
e questo sarà approvato, come ora l’approviamo. Dato a Roma a dì dieci
maggio 1572.»

  [13 maggio]

Nè di ciò contenti replicarono con più lettere gli stimoli alla
corte di Toscana per mezzo del nunzio Brisegno, e del general
Sassatelli.[317] E perocchè da ogni parte richiedevasi che Marcantonio
fosse quanto prima spedito all’armata,[318] ordinarono che le fanterie
staccassero la marcia per terra verso Gaeta, da essere imbarcate o
sulle galere pattuite da Cosimo o sopra quelle dei confederati;[319]
e Marcantonio prima che si chiudesse il conclave uscisse da Roma, e
andasse in Firenze a pressare il Granduca. Laonde la sera del tredici
maggio l’istesso Marcantonio, dopo aver con poche e gravi parole
mostrato al sacro collegio la prontezza sua in tutto ciò che risguardar
potesse la sacra alleanza, raccomandando loro la famiglia e gli stati
suoi, partissi,[320] e i cardinali la stessa sera a tre ore di notte
chiusero il conclave. E sebbene gli Spagnoli avessero da ogni parte
trombato che i comizj volevano durare lungo tempo; e non senza ragione
si temesse che il cardinale Alessandro Farnese, sostenuto da molta
ricchezza e clientela, volesse ambiziosamente intorbidarli;[321]
ciò non pertanto a insinuazione del cardinal Bonelli, e per opera
dell’Altemps, la mattina seguente fu con prestissima elezione fatto
papa il cardinale Ugone Boncompagno, chiamato Gregorio XIII.[322]


  [15 maggio]

IV. — Di presente il nuovo Pontefice rivolse i suoi pensieri al grande
affare della lega; e mandò a richiamar Marcantonio, che partitosi il
dì innanzi non era molto lungi da Roma.[323] Allora il prudentissimo
uomo venuto alla presenza del Pontefice novello, genuflesso ai suoi
piedi depose il comando e le insegne del generalato, perchè Sua
Santità liberamente le conferisse a chi più stimava degno della sua
fiducia.[324] Seco stesso fin d’allora avvisava che niuno potrebbe mai
più essere tale per lui, quale era stato Papa Pio. Nondimeno Gregorio
rispose che non pur nel grado e nel luogo in che il predecessor
suo e gli altri collegati posto l’avevano il confermava, ma che
avrebbe voluto potergli tanto ampliare l’autorità e gli onori, quanto
stimava il suo merito e i suoi servigi. Intanto il Granduca, intesa
la creazione di Gregorio, aveva subitamente troncato le precedenti
difficoltà e fatto passare le sue galere a Gaeta: colà erano le tre di
Civitavecchia, e le fanterie pontificie;[325] colà Marcantonio, Pompeo,
Bonelli, Capizucchi e gli altri capitani con due mila fanti e trecento
venturieri tosto furono ad imbarcarsi per essere quanto prima in
Messina.[326]

  [2 giugno ]

Erasi don Giovanni tenuto alle stanze in Sicilia: e, passata in feste
e balli l’avversa stagione, ripreso pure con la primavera l’armamento,
apparecchiava nei porti di Palermo e di Trapani quel che bisognar
potesse per voltar la guerra in Affrica; avendogli fatto assapere i
ministri del fratello che ciò sarebbe stato risoluto ed approvato nel
congresso di Roma. Ma quando san Pio (secondo che avanti si è scritto)
ebbe tolto di mezzo questa e le altre scappatoie; e fatto vincere il
partito di continuare la guerra nella Grecia, allora don Giovanni
da Palermo era passato a Messina: e quivi a poco a poco riduceva
l’armata sua, intanto che alla corte di Madrid si annaspavano altre
filamenta.[327] I Veneziani dal canto loro, quasi mai non posando,
avevano nel cuor del verno coll’armi di Prospero Colonna e di Paolo
Orsini, guerreggiato in Albania, preso la fortezza di Margaritino,[328]
tentata Santamaura, e scosso Castelnuovo: ed avvicinandosi la buona
stagione con molto ardore si adoperavano a rifornire le provvigioni,
crescere il numero delle galere, e rinforzare di genti l’armata; per le
grandi imprese che meditavano.[329] Alle quali non volendo che portasse
impedimento benchè minimo la presenza di Sebastiano Veniero, vittorioso
e odiato dagli Spagnoli, per compiacere alle molte istanze del re,[330]
e di don Giovanni, volere o non volere, deliberarono privarlo del
generalato, sotto specie di fargli godere riposatamente nella patria
i meritati onori. In suo luogo posero Iacopo Foscarini, provveditor
generale in Dalmazia. Costui pochi anni prima era passato con
maravigliosa felicità dalle cose private al governo delle pubbliche; ma
per età e per temperamento frigido, e nullamente rinfocolato nè dalla
sorte dei suoi predecessori, nè dal favore della Spagna, languidamente
tenne il generalato. Stava col nervo dell’armata in Corfù aspettando
don Giovanni da Messina; e aveagli mandato incontro con venticinque
galere Iacopo Soranzo, nuovo provveditore dell’armata succeduto al
Barbarigo, perchè sotto colore di onorare il serenissimo capitan
generale, il dovesse invitare e stringere alla partenza.[331] Luccialì
già conciava col ferro e col fuoco i rivaggi dei cristiani.

Allora Marcantonio era in Napoli alle prese col cardinal Granuela.
Questi istantemente il richiedeva di sostare, e di menar seco le
galere del regno; perchè avendo sin allora pubblicato che stessero ad
aspettarlo, non aveva caro che dai fatti comparisse il contrario; cioè
di non averle ancora allestite. Ma quegli vedendo che i Napoletani
dovevano non poco tardare, e che la presenza sua sarebbe necessaria
a Messina, prese congedo e partissi. Poco onorato dagli Spagnoli, e
poco corrisposto dai castellani di Napoli; segni piccoli ma certi di
maltalento.[332] Giunto a Messina alli due di giugno, dava la destra
ai Veneziani, e trovavali come sempre suoi confidenti ed amorevoli.
Non così don Giovanni: anzi torbido e pensoso, tanto che pur dal
sembiante mostrava l’interno cruccio, ond’era afflitto. Freddo con
lui per le diffamazioni degli invidi,[333] riserbato co’ Veneziani
per gli ordini della sua corte,[334] ossequente ai consiglieri per
paura del fratello,[335] chiudeva in core un secreto, cui nè tacere nè
palesar poteva senza rossore. Restavagli il nome di generale, non più
l’autorità: soltanto doveva coprire coll’autorità e col nome le altrui
magagne.[336] Prima sdegnoso che i Romani e i Veneziani tardassero
a venire in Messina, dipoi inquieto che la venuta loro stringesselo
alla partenza, ora tutto ardore di guerre e di speranze, ora tutto
gelo di dubitazioni e d’indugi; e avendo più volte fermata e disdetta
la partenza, finalmente dopo diciotto giorni d’incertezza, chiese
in grazia al Soranzo ed al Colonna che per altri sei giorni non gli
dessero molestia, nè gli parlassero del partire. Le parole e i fatti di
don Giovanni sono di gran lume alla storia: quelle mostrano la ragione
e la sua buona indole; questi i falli a che lo conduceva la politica di
Filippo.[337]

Giunto a tale, lettor generoso, fa mestieri portar lo sguardo sino al
fondo di questi maneggi, è accinger l’animo a sofferenza. Imperciocchè
se tu detesti, come io penso, la frode dei tristi; e più se coperta
a studio col manto della pietà, grave ti parrà affrontare il corso di
tanti inganni, e giugnere sino alle arcane sorgenti.[338] Non potrai
quest’anno neanche per azzardo, come a Lepanto, vedere alcun felice
successo; nè ti rimarrà conforto di speranza, nè discolpa ai traditori,
nè sollievo ai derelitti: ma in ogni parte sconci, frode e ruina.
La storia che è ritratto fedele degli uomini deve mostrarteli quali
essi furono: e tu per le opere loro, non per le mie parole, ne farai
ragione.[339]


  [26 giugno 1572.]

V. — Stavano in grande aspettazione Romani e Veneziani e insieme
tutto il Cristianesimo di quando agli Spagnuoli piacerebbe muovere
da Messina: mossa in ogni parte ardentemente desiderata, e colà
istantemente richiesta dal general Colonna, dal provveditor
Soranzo, dal Nunzio Odescalchi, e da molti altri con loro. Se non
che il serenissimo don Giovanni, passati venticinque giorni, col
pretesto di spalmar galere, di armarne delle nuove, di mettere in
punto un’altra Capitana, tra le visite, le mostre, i conviti, le
processioni, e il giubileo, promettendo sempre di partire, non era
mai sull’eseguirlo.[340] Alcuni ne facevano grandi meraviglie, altri
pubbliche mormorazioni, e tutti sottili ricerche per saper che fosse
siffatta novità. Novità già da tanto tempo preparata che sin dai primi
di giugno n’era arrivato l’avviso secreto a Costantinopoli.[341]
Finalmente in capo ad altri sei giorni, quasi per forza, venne
don Giovanni a palesare l’ordine del Re che gli proibiva di cavare
l’armata regia dalla Sicilia. Egli se ne mostrava e n’era dolentissimo
a tale che il dolore consumavalo: nè per questo ardiva scolparsi,
nè dar ragioni, nè mostrar le lettere di Sua Maestà. Marcantonio,
insistendo sull’osservanza dei capitoli, indarno implorava di vedere
almeno la qualità e i termini delle medesime, se pur dessero luogo
a interpretazione, o temperamento.[342] Tacendo però don Giovanni,
parlavano i parziali suoi; e con tanto apparato di scuse quanto bastava
ad imporre altrui, a perturbare il giudizio dei meno veggenti, ed a
ridurre in disperazione i Veneziani. Dicevano sospettare Filippo,
che la Francia volesse movergli guerra; quindi trovarsi stretto a
tenere l’armata vicina, ed a smettere il pensiero di lontane fazioni.
Siffatto trovato uscì fuori di Madrid, e fu a un tempo ripetuto dagli
ambasciatori e amici loro in Roma, e in tutte le corti di Europa. Di
presente rispose un fremito generale d’indignazione contro a Filippo di
Spagna.[343] Il Papa, chiamandosi oltraggiato, acerbamente querelavasi
che nel principio del suo pontificato si rompessero per iniquo inganno
i patti dell’alleanza: e subitamente spediva un Nunzio a richiamarsene
col Re.[344] I Veneziani dolentissimi sclamavano, sempre a un modo
venir di Spagna parole buone e cattivi fatti:[345] falsa esser la
minaccia di Francia, falsi i sospetti di Spagna, falsa la pietà di
Filippo; vero soltanto che egli voleva abbandonare in man dei Turchi
la sorte del Cristianesimo, perchè i Veneziani non cavassero frutto
dalla vittoria.[346] I Francesi liberamente rispondevano, essere gli
Spagnuoli artefici eccellenti e maestri di menzogne: calunniare alla
buona mente del loro sovrano che aveva promesso, e manterrebbe la
tregua: ingiustamente adesso rivoltarsi contro ai Francesi l’accusa di
quella frode, che eglino stessi usavano sempre contro i Veneziani.[347]
I pubblicisti dimostravano che, data per vera la levata dei Francesi,
non cadevano per questo le obbligazioni degli Spagnuoli; massimamente
che le spese lor forniva la crociata e i beni del clero: anzi
troverebbero nella stessa lega la più sicura guarentigia per non essere
impunemente da chi che fosse molestati.[348] I Cortigiani ghignando
dicevano secretamente l’uno all’altro, che la fosse solenne astuzia
per tarpar le ali al pericoloso e troppo alto volo di don Giovanni, la
cui grandezza non poteva troppo piacere al fratello.[349] I curiali
di Roma, sottilmente considerando il caso, secondo la ragione dei
tempi e l’umore delle persone, pensavano che il Re volesse in tal modo
tentare la pazienza del nuovo Papa, per vedere come si passerebbe di
questa ingiuria, e quanto ardimento potrebbe con lui pigliarsi nel
tempo a venire.[350] Marcantonio, senza dissimulare sin da principio
a don Giovanni in presenza dei Veneziani la sua riprovazione, nè fare
cosa indegna di ministro di sua Santità,[351] vedeva nel fondo di
questo negozio, che i rumori di Francia non avevano fondamento, e gli
altri pretesti erano baje. E quantunque da buon feudatario nudrisse
e mostrasse gran riverenza al suo Re, pure non lasciava di scrivere
in cifra al Cardinale segretario di Stato in Roma «Che non si poteva
difendere il re di Spagna senza offenderlo; e che i Veneziani di niuna
cosa potrebbero mai più dolersi tanto che di essere stati allora
abbandonati.[352]» Mentre il popolo cristiano a gran dolore tutte
queste cose insieme ripetendo da ogni parte rammaricavasi, i ministri
del re, come se già fosse rotta la guerra coi Francesi, mostravansi
a un tratto spaventati: e ciascuno di loro, vicerè o governatore,
da Napoli, da Milano, da Genova, dalla Sardegna negavasi di mandar
più quel denaro, quelle munizioni, e quei soldati che avrebbe dovuto
dar per la lega.[353] Con questi disegni in capo ardiva Filippo di
Spagna dire al cardinal Bonelli, legato straordinario di san Pio, che
i Veneziani erano indegni di essere soccorsi; e che per colpa loro la
lega non sarebbe lungamente durata![354] Sapeva egli bene come far le
mostre di fedeltà, mancar di fede, e costringere altrui a romperla.

  [27 giugno 1572.]

Restavano pertanto i collegati in Messina pieni di confusione, e
Marcantonio in gran travaglio: faceva di confortare i Veneziani,
che non potevano darsene pace; e di rimediare con don Giovanni che,
quantunque afflitto, rispondeva non potersi muovere dal suo pensiero,
nè servire alla santa lega, e neanche entrare in discorsi e repliche
con Sua Maestà, per gli ordini precisi che n’aveva. Quando ecco il
dì seguente a questa solenne dichiarazione correre quivi appunto in
Messina pubblica voce, da tutti e Spagnuoli e Italiani ripetuta, che
Sua Altezza tra pochi giorni partirebbe per l’impresa di Tunisi.[355]
Ecco raunarsi il suo consiglio privato a trattare di questa partenza:
ed ecco escludersi, non già per il bisogno che avesse il Re di tener
vicina l’armata sua (perchè se questo fosse stato, non si sarebbe
fatta correr la voce nè raunare il consiglio) ma, come mostrò il
marchese di Santostefano, per non dare a vedere ai collegati ed a tutta
la Cristianità che i sospetti di Francia fossero ombre e colori da
nascondere l’abbandono dei Veneziani, e il mal talento di rivolgersi
a dispetto loro verso quelle parti che nell’inverno passato s’erano
escluse col parere comune dei collegati nel congresso di Roma.[356]

  [1º luglio 1572 ]

Fallito quel disegno, presero i consiglieri spagnoli a spiegarne un
altro, che tenevano in serbo. Tiro solenne a scusare il passato, a
blandire il presente, e a togliere ogni speranza nell’avvenire. Don
Giovanni, consigliato dal cardinal di Granuela e dall’ambasciador
di Zuñiga, chiamava a sè Marcantonio e Soranzo; e mostrando avere
a cuore la conservazione e riputazione della lega, offriva ventidue
galere del Re, e lor dava licenza di andarsene con esse in Levante.
Soccorso però, come ognun vede, tanto fuor di tempo e così misero,
che da una parte rivelava la falsità dei sospetti, e dall’altra
l’astuzia dell’adescamento. Si voleva che gli altri continuassero
a consumarsi nella guerra, e non potessero mai più godere i frutti
della vittoria.[357] I Veneziani dal canto loro, stanchi di tante
ripulse e sfiduciati di maggior sussidio, anzichè perdere il miglior
tempo inutilmente a piangere, fecero vista di contentarsene. Indi
a poco sfilarono da Messina per Corfù le ventiquattro galere della
Repubblica, che erano quivi sotto la condotta di Iacopo Soranzo; le
ventidue del re a carico del commendator Gil d’Andrada, cui fu dato
il voto deliberativo nei consigli; e le tredici galere del Papa, sotto
Marcantonio. Questi con lo stendardo della lega e con suprema autorità,
nell’assenza di don Giovanni, doveva a tutta l’armata comandare.


  [7 luglio 1572.]

VI. — Il periodo di tempo, che dal sette di luglio arriva sino
all’ultimo di agosto, entra a gran rilievo nella storia mia; perchè
allora Marcantonio Colonna tenne il primo luogo di autorità e di onore
sopra l’armata dei principi alleati in guerra viva contro l’imperador
dei Turchi. E quantunque quel bimestre mi si presenti intricatissimo
d’infinite difficoltà, pieno di contraddizioni, senza alcun successo
decisivo, e poco tocco dagli storici; nondimeno perchè sfolgori tutta
la luce della verità sull’argomento che tratto, e meglio si comprenda
l’arte della politica e della guerra nel cinquecento, io intendo
fermarmici alquanto, rincalzare il racconto co’ documenti, rilevare i
fatti, e mettervi il più che posso di chiarezza e d’ordine. Insomma
qui s’ha a vedere dopo la battaglia di Lepanto chi tra gli alleati
intendeva vederla feconda, e chi invece vederla sterile; e come alcuni
si adoperavano a mantenere la lega, altri a romperla.

Marcantonio in Messina avea posto mente a don Giovanni, che dopo
l’ultime lettere del Re s’era turbato con tutti; e più con lui dopo
il trionfo di Roma: aveva a chiari segni osservato il gran dispiacere
che egli mostrava nel mandare armata in Levante, senza andarvi esso
stesso, geloso di accrescere altrui la gloria:[358] prudentemente il
colonnese volle pigliare da lui medesimo in scritto gli ordini di quel
che avesse a fare; affinchè nè esso nè altri potessero di poi chiamarlo
mancatore.[359] E per maggior sicurezza ne mandò una copia al Papa,
e la pose eziandio ne’ suoi registri: talchè per quanto si adoperasse
poscia don Giovanni a sopprimerne la memoria, non potè fare che non ci
restasse quella scrittura che per la gravissima importanza sua oggi
qui produco.[360] «Messina, 7 luglio 1572. — Parere del serenissimo
signor don Giovanni d’Austria. — Quel che pare al serenissimo signor
don Giovanni d’Austria che potrebbe fare l’armata della lega che va
in Levante quest’anno condotta dal signor Marcantonio Colonna, è come
appresso. Quantunque sia sommamente difficile e pericoloso il dar
pareri intorno alle cose future, massimamente considerando che quelle
della guerra da un’ora all’altra si mutano per diversi accidenti,
tuttavia si toccheranno qui alcuni punti di ciò che Sua Altezza pensa
che debba esser fatto dall’armata della Lega, posta all’obbedienza del
signor don Marcantonio Colonna. È parere di Sua Altezza che il detto
signor Marcantonio si affretti quanto più sarà possibile di andarsene
con la detta armata a Corfù, e di unirsi con quella dei Veneziani che
sta quivi. Ma tal sollecitudine non deve impedire che prima vada al
capo Santamaria, e di là levi tutti i soldati di Sua Maestà che potrà
condurre seco nelle galere, perchè si è veduto coll’esperienza che la
moltitudine dei soldati è quella che combatte, e sopra di loro si deve
fare il maggiore assegnamento per vincere. E a questo proposito si
dice che niuna galera debba avere meno di cencinquanta soldati a bordo,
oltre la gente di capo e di remo del suo ordinario armamento.

»Sin da Corfù devesi pigliare la risoluzione del viaggio di detta
armata, secondo gli avvisi che si avranno dell’armata nemica: perchè le
cose da farsi devono dedursi dagli avvisi medesimi.

»Si fa conto che il predetto signor Marcantonio potrà unire insieme
almeno centottanta navigli grossi di guerra, in questo modo: sei
galeazze dei signori Veneziani, centoventi galere dei medesimi,
ventidue galere e due galeotte di Sua Maestà, tredici di Sua Santità,
diciotto o diciannove navi che si sa per lettere esser pronte in Corfù
a conto dei signori Veneziani: in tutto centottantadue.

»Laonde quest’armata è tale per numero e per qualità di vascelli che
non solo si eguaglierà a quella del nemico, ma ne sarà superiore; e
così Sua Altezza è di parere che con essa si vada a scorrere presso le
riviere dei Turchi, bruciando e distruggendo la roba loro; e ciò con
doppio intendimento. L’uno per vendetta dei danni che essi hanno fatto
nella presente stagione, e l’altro per provocarli a battaglia, che è il
fine principale a che si deve intendere. Nella quale se essi vorranno
affrontarsi, non può mancare che coll’aiuto di Dio non restino vinti,
per le molte ragioni che se ne potrebbero dire.

»Due cose voglionsi eziandio diligentemente osservare: l’una di non
mettersi all’assedio di alcuna piazza; perchè il nemico stando vicino
con tutta l’armata sua, e potendo caricare per terra con gran levata
di soldati, riuscirebbe facilmente a danneggiare l’armata nostra: e
l’altra di non cacciarsi troppo dentro nelle marine del nemico, senza
una buona provvisione di vettovaglia. E così non essendo conveniente
che l’armata della lega imprenda assedj, come si è detto addietro,
il principal suo fine deva essere combattere coll’armata del nemico,
sempre che si sappia che quella non sia troppo superiore alla nostra.

»Se però si vedesse che Luccialì, saputa la divisione dell’armata della
Lega, volesse venire a cercare la parte più debole, sembra che convenga
molto il tenergli dietro, dovunque egli si rivolti. Ondechè niuna cosa
tanto bisogna, quanto condurre uomini diligenti e pratici con alcune
galeotte o navigli leggeri; affinchè da un’ora all’altra possano
avvisare i progressi del nemico, secondo i quali dovranno pigliarsi le
risoluzioni.

»Messina, 7 luglio 1572.» «DON GIOVANNI D’AUSTRIA.»

In questi termini l’istesso don Giovanni dava le sue istruzioni allo
spagnuolo Gil d’Andrada, che doveva condurre le ventidue galere del Re,
sotto l’ubbidienza di Marcantonio: e in quel medesimo giorno, che non
era tempo sospetto, nè prevedeva le susseguenti sue contraddizioni,
scriveva al Papa di suo pugno dicendo:[361] «Ho ordinato che insieme
col predetto Marcantonio Colonna vadano in levante ventidue galere
e due galeotte, sotto il comando del commendatore Egidio d’Andrada;
con le quali, e con l’altra gente che anderà sull’armata (ma sopra
tutto con le sante orazioni di Vostra Beatitudine) spero in Dio signor
nostro che s’abbiano a fare nell’anno presente non meno buoni effetti
di quelli che si fecero l’anno passato.» Dunque non v’ha luogo a
dubitare che Marcantonio poteva e doveva condurre l’armata a far buoni
effetti, a soccorrere i Veneziani, e reprimere le correrie dei Turchi;
e principalmente a combattere coll’armata nemica, al paro e più che
nell’anno passato.

Fermo il qual disegno, e stando monsignor Odescalco sopra una fregata
alla bocca del porto in atto di benedire la partenza, Marcantonio
cavò fuori ad una ad una le cinquanta galere che dovevano seguirlo:
e sciolte le vele al vento, dette principio alla navigazione, usando
sempre il suo grado di supremo generale con amore, con valore e
con prudenza, da far concepire grandi speranze, se non lo avessero
attraversato.[362] Quando egli fu sopra capo dell’Arme, punto estremo
al mezzogiorno d’Italia, arborò sulla sua Capitana lo stendardo della
lega, come doveva farsi per vigore della capitolazione e dei ricordi
dati in voce da Sua Altezza; e poi rigirandosi da capo Spartivento
a quel di Stilo, e da Cotrone a capo Santamaria, trovò quivi alli
dieci del mese don Alvaro di Bazan, prese da lui le quattro galere
che mancavano al compimento delle ventidue, imbarcò qualche migliaio
di soldati italiani, spedì a Corfù ventidue navi armate in guerra che
si trovavano pur cariche di munizioni per la lega, e lasciati gli
ordini opportuni al general Sassatelli per le fanterie pontificie
che esser dovevano al campo d’Otranto, senza frapporre dilazioni e
con intendimento di conservare i Veneziani nella Lega e di dar loro
per questo ogni possibile soddisfazione, in due giorni per mezzo il
mare travalicò a Corfù, incontrato e ricevuto con ogni dimostrazione
d’onore da Iacopo Foscarini generale della Repubblica. Le galere, e
i cavalieri di Malta, subbillati dai ministri Spagnuoli, invece di
seguire lo stendardo della lega restaronsi oziosi a Messina: di che
quasi tutti si scandalizzarono, e ne fece poscia Gregorio XIII grandi
risentimenti.[363]

  [13 luglio 1572.]

Prima cura di Marcantonio in Corfù era il moderare la collera dei
Veneziani: avendoli trovati sopramodo sdegnosi, perchè impediti di fare
ciò a cui potere sentiansi prodi e valenti. Dopo tre anni di speranze,
e dopo la gloria della gran battaglia, si vedevano ogni giorno condotti
a peggior partito. E allora, messe in punto centoventi galere, scritti
ventimila soldati, spesi milioni di zecchini, pronti sin dal primo
d’aprile, si stavano ancora a mezzo luglio aspettando l’altrui venuta.
Nel qual nulla fare consumavansi, non solo di spese, ma anche di dolore
e letargo; di che l’armata loro s’era un’altra volta corrotta. Il
nemico rifattosi, impunemente li danneggiava: e il regno di Candia era
in pericolo di cadere da un giorno all’altro nelle rapaci sue mani;
non potendo più quei popoli abbandonati da tutti campar la vita, se
non gettandosi alla disperata dalla parte del Turco. Pur la sola vista
dell’armata cristiana sarebbe stata più che sufficiente a tenérli in
fede, e a liberarli dal continuo strazio.

Dopo la battaglia di Lepanto tra i pochi capitani di conto che tornar
poterono a Costantinopoli fu Luccialì re d’Algeri.[364] Costui al
primo giugnere rinfrancò gli animi abbattuti della plebe musulmana; e
a poco a poco rimise alquanto di fiducia nel Sultano, che principiò
a vedere in lui l’uomo da rialzare la prostrata potenza della sua
casa. I suoi consigli furono lodati a cielo; il non aver combattuto,
scritto a merito; la fuga, a bravura; ed il ritorno a salute. Insomma
commendandolo ciascuno, e da ogni parte raccogliendosi intorno a lui
le genti scampate dalla sconfitta, si trovò presto condotto alla
vacante dignità di capitan generale dell’armata ottomana.[365] Di
che a tutta diligenza adoperandosi, e non lasciando parte alcuna che
all’ufficio suo in quella necessità si convenisse, tanto seppe fare
nella invernata, che di qua rassettando le galere seco lui scampate,
di là richiamando le quaranta lasciate alla guardia di Cipro, di su
dal mar nero conducendone molte dei Tartari, di giù dall’Africa molte
più dei pirati, e da tutti i porti ed arsenali dell’imperio cavandone
quante mai ve ne avesse, sebben vecchie e logore; e con operosità
maravigliosa costruendone di legno ancor verde gran numero di nuove,
ebbe alla primavera allestite duecentoventi galere; cioè molto maggior
numero che non credeva don Giovanni.[366] Con queste, quantunque male
armate di gente raunaticcia, di marinari presi a forza, e di soldati
inesperti del mare, pure uscito dai Dardanelli si dette a scorrere in
ogni parte la Grecia, e le isole dei Veneziani. Non già ch’egli avesse
animo di guerreggiare coll’armata cristiana, perchè dopo la prova
dell’anno avanti non poteva presumerne buon effetto; e nè anche il
confortava la qualità del suo mal armato naviglio: ma bensì intendeva a
rintuzzar le speranze dei Cristiani, a consumar le isole, a tenere in
soggezione la Grecia, e sempre schivando la battaglia cogliere quelle
occasioni che l’altrui negligenza, o la sua fortuna e scaltrimento
potessero mettergli avanti. Era allora in suo potere, senza che alcuno
osasse contrastargli, condurre a compimento il disegno che da un
anno prima che si combattesse a Lepanto, aveva formato; di tirare in
lungo, straccare i Cristiani, consumarli nelle spese, dar campo alle
loro gelosie, talchè senza pericolo restassero i Turchi alla fine
superiori.[367] Dovea sapere di Fabio.

  [23 luglio 1572.]

Le forze però e i disegni del nemico non erano così ben conosciuti a
Corfù, come si richiedeva; nè gli avvisi del Foscarino si accordavano
insieme con quelli che da più parti giungevano a Marcantonio. Di qua
gli esploratori dicevano che Luccialì non aveva più di cencinquanta
galere; e queste mal conce e peggio armate: di là il bailo veneziano in
Costantinopoli (che, quantunque sin dal principio della guerra fosse
stato ritenuto prigione, pure aveva sempre per sue molte aderenze e
sottile ingegno secretamente mandato notizie ed avvisi) scriveva che
l’armata turca sarebbe di dugento e venti galere, sufficientemente
provviste, e di cinque maone da paragonarsi in grandezza ed armamento
alle galeazze cristiane. Delle quali notizie i generali della lega, che
avevano veduta la distruzione dell’anno avanti a Lepanto, non potevano
persuadersi; e le tenevano l’una più che l’altra esagerate. Ciò non
pertanto sapendosi di certo che Luccialì aveva in più parti disertato
il Cerigo, e minacciata Candia; e bisognando all’armata veneziana aria
e moto per rimetterla con quel beneficio in salute, e rinvigorirne le
genti infralite dal languore di così lunga oziosità, Jacopo richiese
Marcantonio di mettersi in mare; e di farsi vedere dai Greci già mossi,
specialmente nel braccio di Maina, a loro favore; e di là scorrere
a Candia per difenderla dagl’insulti ottomani: dappoichè la comune
disgrazia aveva portato che si dovesse allora provvedere a non perdere
i propri paesi, in cambio di andare a cogliere negli altrui il gran
frutto che si sperava della passata vittoria.[368]

Alla qual domanda, così ragionevole e tanto pur conforme al parere
di don Giovanni, avendo Marcantonio ed Egidio volentieri consentito,
l’armata della lega, lasciato addietro il funesto soggiorno di Corfù,
andò a sorgere presso l’Epiro, alle Gomenizze; che già ho detto essere
porto nel paese dei nemici, al paro di molti altri in quel tratto
di mare, aperto a tutti e disabitato. Di là Marcantonio con alcune
spalverate galere mandò spiare l’andamento di Luccialì: e intanto
forniva le provvisioni d’acqua e di legna, richiamava dal golfo
alquante galere restate addietro, faceva venire il compimento dei fanti
d’Otranto, e rassegnava l’armata che era quasi di centottanta vele;
cioè tredici galere, e due navi di sua Santità; ventidue galere, tre
navi, e due galeotte del Re; cento galere, sedici navi, e diciotto tra
fuste e galeotte dei Veneziani; con venticinque mila buoni soldati da
combattere.[369] Tutti confidavano che, qualunque fosse stata la forza
e il numero dell’armata nemica, avrebbero potuto, almeno congiunti con
le navi, combatterla.


  [29 luglio 1572.]

VII. — Alli ventotto di luglio Marcantonio uscì dalle Gomenizze:
e sarebbe stato uomo da conquidere Luccialì, e da render lieta la
Cristianità di vittorie più anche gloriose della precedente, sol
che gli Spagnuoli l’avessero lasciato andare. Ma quando in mezzo ai
lieti marinari era in punto di navigare con tutta l’armata verso la
Cefalonia, comparivagli innanzi una fregata con certi repentini avvisi
del Ragazzoni, ambasciator dei Veneziani presso don Giovanni; e poi una
galeotta con alcuni messaggeri di Sua Altezza. Costoro venuti a gran
pompa e spavalderia sul bordo della capitana pontificia, in presenza
di Marcantonio e degli altri generali, si fecero a dire: essere
all’improvviso caduti giù tutti i sospetti di Francia, e il Re per sua
bontà avere ordinato a don Giovanni che con tutta l’armata movesse da
Palermo per Levante. Però Sua Altezza quanto prima raggiugnerebbeli:
e sebbene contro sua voglia alcun tempo tardar dovesse, a fin di
spedire il bisognevole di così subita partita, tuttavia gli alleati si
rallegrassero, la buona novella ricevessero, la prossima venuta di lui
bandissero; e nel mezzo tempo si guardassero da niuna cosa imprendere:
ma anzi tornassero indietro, o almeno aspettassero quivi l’Altezza Sua,
per onorarlo e congiungersi seco.[370] Finissima malizia!

Poi trassero fuori una lettera assai rispettosamente; e consegnatala
a Marcantonio, lo invitarono a leggere in presenza degl’altri ciò che
quivi si conteneva in questa forma:[371]

  «Illustrissimo Signore.

»Ricuperata nel Belgio Valenziana, e cacciati di là i ribelli, sebbene
costoro siansi ristretti ai monti d’Haynau e molto ancora resti a fare
in quelle parti, nondimeno il Re mio Signore geloso di mostrare al
mondo di non aver giammai mancato ai capitoli della lega e che sempre
tiene in maggior conto il pubblico servigio della Cristianità che non
le private sue cose, per mezzo della galera che io spacciai da Messina
nei giorni passati ed oggi è ritornata, mi ha fatto scrivere essere
di suo servigio che io, lasciato ogni altro pensiero, me ne venga
con tutta l’armata in Levante; e porti la guerra al comune inimico.
Quindi io penserei partirmi da questa città per Corfù nel termine di
tre giorni, al più tardi: e nella mia grande allegrezza che V. S. può
bene intendere per infiniti rispetti ho subitamente scritto il presente
dispaccio che mando con una fregata in diligenza, affinchè V. S. udita
questa nuova che è stata per me di tanta consolazione e piacere possa
comunicarla a codesti signori; ed affinchè conforme a questa procedano
a pigliar quel partito che loro convenga, che io non perderò un momento
di tempo nel mio viaggio. Intanto mi piace che si divulghi tra i Greci
la mia venuta per tenerli in fede, tanto che arrivo; e che non si dia
principio ad alcuna impresa che possa aver pericolo, per conservare
la riputazione: ma solo s’intenda a preparare le cose necessarie,
e si provveda che il nemico non dipopoli le isole dei Veneziani.
Imperciocchè piacendo a Dio e congiunta tutta l’armata, spero in lui
che si abbiano a fare quest’anno effetti conformi al suo servigio.

»Scrivo con questa medesima fregata al marchese di Santacroce che,
ricevute le mie lettere in qualunque parte egli si trovi, passi subito
con tutte le galere e navi che ha seco a Corfù: e ciò per guadagnar
tempo, e togliere ogni ostacolo che possa ritardare la mia venuta.
Procuri V. S. con gran vigilanza di mantenere i soldati in disciplina,
ed impedire ogni questione tra gli Spagnuoli e gl’Italiani: perchè mi
dispiacerebbe di cominciar la guerra con la discordia di queste due
nazioni.

»Nostro Signore Iddio ammonisca la persona Illustrissima di Vostra
Signoria.

»Da Palermo alli 16 di luglio 1572.

»_P. S._ La Signoria Vostra partecipi da mia parte ai signori Generale
e provveditori la risoluzione che mi ha fatto prendere Sua Maestà, la
quale (credami Vostra Signoria) pospone gl’interessi suoi al pubblico
bene. E quantunque ho detto che partirò di qua per Corfù, dovrò
nondimeno trattenermi a Messina per condurre tutta unita quest’armata:
ma resterovvi il meno possibile. Io non scrivo a codesti signori per
non ritardare lo spaccio. Questo potrà servire eziandio per loro.

                                       »Servo di V. S. DON GIOVANNI.»

Ma il generale veneziano, indispettito che per sì belle mostre di zelo
e disinteresse, e servigio di Dio, si volesse mandare alla peggio la
causa della Cristianità; e con fondamento temendo che la venuta di
don Giovanni non sarebbe stata nè certa nè pronta, perchè i sospetti
ad un sol cenno potevano rinascere, e le galere di S. A. chi sa di
quanto fornimento e di quanto tempo aver bisogno per essere da Palermo
a Messina, e indi a Corfù; dopo aver aspettato inutilmente quattro
mesi, quando i Turchi a man salva davano il guasto ai possedimenti
della sua patria, udita la lettera e i messaggeri che lor suggerivano
di starsi a bada un altro mese, non poteva credere a tanto ardire.
Ma per sua buona fortuna in quelle stesse lettere che gli davano
travaglio era pur notato il rimedio, nè fu tardo Iacopo a coglierlo.
Imperciocchè la verità ha tanta forza che per quanto uno s’ingegni
non può mai vincerla tutta, onde avviene che chiunque le dà contro
in una parte, resti preso dall’altra, e cada nella contraddizione,
che è suggello a sgannare ogni uomo dalla frode. Tenevano allora gli
Spagnuoli quel sospetto di Francia a mo’ di spauracchio in mezzo al
giuoco della lega: ora tiravanlo su lungo e allampanato, affinchè
rimettessero i Veneziani la troppa baldanza; ora calavanlo alquanto,
perchè andassero pure a consumarsi nella guerra, senza speranza nè di
pace nè di vittoria; ora colcavanlo in terra, per richiamarli addietro.
E con siffatta fantasima potevano lungamente ripetere l’incanto ed
uccellare gli alleati, senza che lor non mancasse mai il modo di
scolparsene; nè di metterci per giunta certe altre lungàgnole, di che
parlerò più avanti. Non dico io già che don Giovanni guidasse cotal
maneggio; chè la sua natura non era da ciò: ma, stretto a servire il
fratello e la corte, doveva sostenere la sua parte.[372] Quindi da un
lato, per ubbidire a chi poteva comandargli, scriveva che gli alleati
non dessero principio a cosa alcuna: e dall’altro per sua natural
rettitudine, conoscendo la grande vergogna e il gran danno del tirare
indietro tutta l’armata dei Veneziani e del Papa che già fronteggiavano
il nemico, e dell’abbandonare nelle mani dei Turchi le terre dei
Cristiani e la causa dei Greci che avevano prese l’armi per lui,
voleva che Marcantonio li difendesse.[373] E tra le due, dello stare o
dell’andare, lasciava a lui di prender sopra sè il carico della scelta,
al punto di incontrare lo sdegno o dei Veneziani, o degli Spagnuoli.
Stando però gli ordini suoi nella predetta contraddizione, come a dire:
Eccomi, vengo io, non date principio a cosa alcuna; e insieme, fate
che il nemico non molesti nè Greci nè isole; ragionevolmente Iacopo si
attenne al secondo, dicendo: che per salvar Candia dal saccheggio, e i
Greci dall’oppressione, bisognava, secondo il parere di Sua Altezza,
andare avanti, cacciare da quei mari il nemico, e se non sgomberava
combatterlo, continuando nel già preso divisamento. E quantunque
Marcantonio in consiglio col Giacopo di Venezia e coll’Egidio di Spagna
proponesse di aspettare in quel luogo la venuta di don Giovanni, e per
sua parte ne facesse istanza, a fin di mostrare coi fatti la modestia
nel comando e la riverenza al supremo duce; ciò non pertanto ambedue
gli si opposero, ed esso dovette consentire con loro. Que’ signori
discorrevano sul proposito: che l’aspettare non veniva comandato, e
neanche ricordato da Sua Altezza; che anzi implicitamente faceva loro
intendere di andare avanti, non si potendo dar animo ai Greci e molto
meno salvare lo stato della Signoria restando fermi in Corfù, perchè il
bisogno di questi particolari stava cinquecento miglia più oltre.

E mostrando da una parte la vergogna di starsene neghittosi quando
il nemico insultava, dall’altra le infermità delle genti illanguidite
dall’ozio, e poi la stagione tant’oltre, e don Giovanni così lontano,
e la sua venuta tanto incerta, e le sue galere così disperse tra
Palermo e Messina, e tanto poco preparate a spedirsi; perchè l’anno
non passasse senza frutto nell’aspettarsi gli uni cogli altri a fin
di congiungersi poi quando non fosse più tempo, deliberarono i tre
generali con voto uniforme (al quale don Giovanni ancorchè fosse
stato presente avrebbe dovuto per le leggi della lega sottomettersi)
deliberarono, dico, di continuare il già preso cammino e scriverne le
ragioni a don Giovanni.[374] Questo fu il maggior beneficio che ebbe in
quest’anno la lega. Ecco la lettera e i ragionamenti di Marcantonio,
dall’originale spagnuolo in volgar nostro volti, così:[375] — «Al
Serenissimo signor don Giovanni d’Austria. Serenissimo signore: dalle
Gomenizze 29 luglio 1572. — Questa notte passata ventinove del presente
arrivò qui una fregatina del Ragazzoni, portando la nuova che Vostra
Altezza per ordine di Sua Maestà verrebbe in Levante. Ne abbiamo fatto
tanto grande allegrezza come non se ne sarebbe fatta più per la presa
di Costantinopoli e per la caduta dell’impero ottomano. Lodato sia Dio
che il buon animo di Sua Maestà ed il valore di Vostra Altezza non sono
stati impediti da gente malvagia.

»Eravamo già risoluti di partire in questa notte verso il Cerigo per
andar colà a pigliare le risoluzioni di quel che ci convenisse fare,
secondo gli avvisi dell’armata nemica. Sapevamo che Luccialì scorreva
il mare con cento quaranta galere ed altri bastimenti, sebbene le
galere assai meschine e mal armate; e pensavamo col tenere unita
tutta l’armata nostra andar contro lui a sicurtà di vittoria, quando
a lui fosse venuto in capo di opporcisi: imperciocchè abbiamo cento
ventisette galere, sei galeazze, ventiquattro navi, e venti fuste, di
più tra via abbiamo a trovare altre dodici galere di Candia, e due
galeotte; e quando a noi fosse parso che l’armata nemica si potesse
combattere senza le nostre navi, lasciarle, e andargli sopra con le
sole galere. E sappia l’Altezza Vostra che le nostre galere son ben
fornite di soldati, avendone presi altri due mila cinquecento da
Otranto. Pensavamo coll’andare avanti impedire il danno che l’armata
nemica potesse fare in Candia e nelle altre isole dei Veneziani,
lasciando che si contentasse di distruggere i paesi del suo dominio:
imperciocchè hanno bruciato tutte le isole di Nixsia e di Paros, e
venivano risoluti a scannare tutti li Greci insorti della Morèa, a
disertare la terra, e perderne le vittovaglie. Perciò questa mattina
ho richiesto Gil D’Andrada e il general veneziano del loro parere
rispetto alla notizia che corre della venuta di Vostra Altezza:
ed ambedue hanno detto che bisogna andare avanti, come è stato già
deliberato. Imperciocchè questo non impedisce che Vostra Altezza ne
venga appresso: e intanto importa molto assicurare la Grecia dai danni,
e confermare quei cristiani nella buona volontà. Che se Vostra Altezza
non venisse, io non so (per quanto se ne dice) sorte più miserabile di
quella che toccherebbe a questa povera gente. E così potremo ancora
difendere le nostre terre dagli insulti che potrebbe, come ho detto,
farci il nemico. E se noi con la nostra andata riusciamo a tenerlo
a bada, dandogli sospetto di sbarchi, sino alla venuta di Vostra
Altezza, sarebbe ben possibile che all’armata loro noi potessimo
tagliar la strada in guisa che, essendo gran parte di quelle galere
fiacche, non potessero più tornarsene ai Dardanelli; e quando in faccia
mia volessero farlo, avendo io qui ottanta galere sceltissime, si
potrebbero conciare con un bel tiro.

»Quanto al metterci in alcuna impresa di terra, dato pur che l’armata
nemica se ne fuggisse, io non sono di parere che ci convenga; sino che
non arrivi Vostra Altezza: perchè noi potremmo impegnare la riputazione
a cosa che l’Altezza Vostra nella sua molta prudenza non fosse per
approvare. Avevo già scritto sin qui sempre aspettando che dovesse
venire dopo l’avviso del Ragazzoni, alcuna fregata che ci portasse le
lettere di Vostra Altezza. Ed ecco che oggi a ventitrè ore la predetta
fregata è giunta. Io e Gil d’Andrada subitamente abbiamo fatto le
parti di Vostra Altezza con il Generale e provveditori di Venezia,
i quali se ne mostrano gli uomini più contenti di questo mondo: ed
a noi è sembrato, leggendo le lettere di Vostra Altezza, che la già
presa risoluzione è molto buona, e assai conforme ai suggerimenti
dell’Altezza Vostra. E così di presente noi partiamo, e ce ne anderemo
adagio, avendo a rimburchiare galeazze e navi.

»Bacio le mani a Vostra Altezza, desiderando presto servirla in sua
presenza. Dalle Gomenizze 29 luglio 1572. M. A. Colonna.»

Come don Giovanni ebbe ricevuta questa lettera, e sentito che
Marcantonio, il Foscarino e l’Andrada avevano continuato il viaggio
verso Levante, senza aspettarlo, ne prese mala soddisfazione: parendo
a lui che coloro gli avessero portato poco rispetto. Dissimulando
però lo sdegno, ed affrettandosi esso pure di giungere in tempo ove
il resto dell’armata andava con tante speranze, condusse cinquanta
galere del Re sull’istesso rombo tracciato già prima da Marcantonio, ed
arrivò alli dieci di agosto in Corfù. Laddove essendosi confusamente
allora divulgati i successi della Grecia, e lo scontro de’ nostri
co’ nemici, siccome or ora vengo a narrare, la stizza di lui e degli
altri suoi non ebbe più freno. Nè altro era a udirsi da loro che
diffamazioni e querele contro Marcantonio, perchè era andato avanti
senza aspettare. Gli adulatori di don Giovanni incolpavano Marcantonio
di emulare l’Altezza del regio principe, di sfuggirne l’imperio, di
usurparne l’autorità, ed altre molte fantasie, piene di maltalento e di
passione. Ondechè don Giovanni, già tocco di gelosia secreta verso di
lui pel trionfo dell’anno avanti, e immerso allora nel vortice di tanta
malevolenza, proruppe al paro d’ogni altro contro di lui e contro Gil
d’Andrada in parole oltraggiose e minaccevoli: dicendo pubblicamente
del primo, che il troverebbe una volta in parte da poterlo gastigare; e
del secondo, che gli farebbe tagliar la testa.[376]


  [4 agosto 1572.]

VIII. — Don Giovanni adunque aveva dato un gran colpo a coloro che
movevano dalle Gomenizze. Questi non altro volgevano nell’animo che
onorate imprese, ed egli con la sua lettera era venuto a turbarli,
perchè o non navigassero avanti, o il facessero paventosi e sospesi.
Chè sebbene don Egidio e Marcantonio non avessero udito i fieri suoi
propositi, non era però che non dovessero ambedue averli pensati, e
non sentirsi cruciare di vedere che senza colpa, anzi per voler fare il
debito loro, si avrebbero concitato contro lo sdegno dell’Altezza Sua e
della formidabile Maestà del Re. Egidio dissimulò l’interno rammarico:
e Marcantonio governossi con somma prudenza per non dare nè alla Spagna
ragionevol pretesto di risentimento, nè a Venezia alcuna ragione di
richiamo. Fece il segno della partenza, e l’istessa sera del ventinove
luglio con censettanta vele prese il vento. Fedele alle istruzioni di
sua Altezza, senza tentare nel passaggio nè la fortezza di Santamaura
nè i castelli di Lepanto, tanto dirittamente per mezzo il mare tenne
la prua, che la sera appresso raggiunse la Cefalonia, l’altro giorno
trapassò il Zante, e alli quattro d’agosto la mattina per tempo con
tutta l’armata diè fondo tra l’isola del Cerigo e quella dei Cervi,
rimpetto a capo Malèo, donde tutta insieme poteva fronteggiare l’armata
nemica, sostener i Mainotti, coprir Candia, e assicurare quando che
fosse la venuta di don Giovanni al congiungersi con lui. Di che i Greci
ripresero animo; e Luccialì, che aveva già disertato il Cerigo ed era
in punto di far peggio a Candia, e di tagliare a pezzi quanti Greci
troverebbe coll’armi in mano nel braccio di Maina, dovette deporre i
feroci disegni, e tirarsi indietro a Malvasia.[377]

Non aveva cessato Marcantonio da Corfù, e poi mano mano che andava
avanti, da più parti, spedire esploratori e galere a pigliar lingua
dell’armata nemica: e tanto gli uomini suoi, quanto gli schiavi che
spesso fuggivansi da quell’armata, rapportavano che Luccialì con
dugento e venti galere e sei maone stesse assicurato sotto la fortezza
di Malvasia, quaranta miglia quindi lontana: e che stimando esser don
Giovanni in rotta coi Veneziani, e conscio di aver armata più numerosa
della nostra, tra poco verrebbe ad assaltarla. Laonde in consiglio i
tre generali deliberarono che per l’onore della lega e per la difesa
dei Cristiani non dovessero partirsi di quel luogo, nè rifiutar la
battaglia, anzi ricercarla opportunamente; e che per mettere l’armata
della lega a paraggio della nemica bisognasse in ogni riscontro menar
seco loro le venti navi e la capitana, quantunque sapessero la gran
difficoltà che incontrata avrebbero nel tenere insieme durante la
navigazione navi e galere, chi a vela chi a remo. Quando ecco in quel
consiglio, già valico il mezzodì, venir l’avviso dalle guardie che
l’armata nemica compariva da greco; ed ecco a un cenno di Marcantonio
quella della lega uscire in mezzo al canale e farsi incontro ai nemici,
accostandosi quanto più poteva alle loro spiagge. Giudicavano che colà
sempre più valorosamente si combatterebbe dove la salute fosse solo
nel menar delle mani. Ma Luccialì contento di aver con alcune delle
sue galere sparso un falso all’arme, e fatto sperienza di ciò che gli
alleati ardissero, senza spuntar capo Malèo, oggi detto Santangelo,
rese il bordo verso le sue fortezze; laddove non poteva essere
molestato dai nostri.

  [5 agosto 1572.]

Ciò non pertanto Marcantonio restò là tutto quel giorno ed il seguente
in ordine di battaglia: ma non essendosi Luccialì arrischiato a
ritornare, egli per vie meglio fronteggiare contro a lui, e coprir
Candia, andossene a sorgere in capo alle Dragoniere, che sono
due isolette disabitate, donde meglio si domina il canale tra la
terraferma, il Cerigo e Candia.[378] Di là per mezzo degli esploratori
che da mare e da terra faceva scorrere attorno al nemico, procacciava
scoprire non solo il numero e la qualità dell’armata, ma più anche gli
intimi disegni del Tignoso, a fine di contrapporglisi in ogni parte.
E sempre più veniva chiarito che colui guidava tal numero di galere
quale niuno per l’innanzi pensato avrebbe: e che sebbene non fossero
tutte armate a dovere, pure non lascerebbe di combattere, posto che
a Marcantonio non venissero altri soccorsi da don Giovanni: e che,
se le galere cristiane si fossero alcun poco allontanate dalle navi,
senza dubbio le assalirebbe. Quindi Marcantonio e gli altri capitani
maggiormente si studiarono a tenersi quelle navi sempre vicine, ed a
sollecitare la venuta di Sua Altezza. Di che più volte Marcantonio
gliene scrisse, tenendolo avvisato d’ogni cosa che alla giornata
passava.

  [6 agosto 1572.]

Così le due armate stettero tre giorni: che nè Marcantonio poteva con
tanto svantaggio assaltar Luccialì sotto le fortezze di Malvasia;
nè questi voleva investir Marcantonio, tanto bene ordinato nel suo
squadrone con le navi alla fronte. La mattina del sei di agosto
accennando il nemico ad alcun movimento sul capo Malèo, e levatisi
i nostri ad incontrarlo, girò il vento a ponente. Per la speciale
giacitura della costa nè quelli poterono spuntare il capo, nè i
nostri oltrepassarlo; perchè il vento che agli uni e agli altri era
favorevole sino alla punta, veniva poi di prua, opposto a loro, quando
avevano a dar volta. Laonde Marcantonio se ne ritornò alle Dragoniere:
ma rinforzatosi il ponente, non giunse a rimetter le navi. Alcune
sferratesi ed altre sulle volte andarono quel giorno, senza che il
nemico osasse assalirle: la domane e bordeggiando e rimburchiate,
tornarono all’ordinanza.[379]


  [7 agosto 1572.]

IX. — Dopo queste prime avvisaglie le due armate tanto si accostarono
tra loro nel dì sette agosto, che finalmente vennero al fatto d’arme.
Ed io ripensando all’ordinanza bellissima dell’armata cristiana in quel
luogo e tempo, e dibattendo eziandio la fortuna dell’imperio turchesco,
quasi direi che allora per una seconda sconfitta avrebbe dovuto cadere
abbasso, e i destini della Grecia e dell’Europa in tutt’altro modo
allora comporsi, se proprio nel mezzo di quella giornata non fosse
mancato quel soffio di vento che quasi mai nell’estate non falla.
Tanto è vero che i grandi avvenimenti del mondo spesso dipendono da ben
piccole e per noi fortuite ragioni.

Era la mattina del sette agosto alto già il sole, quando tutta l’armata
turca, meno le maòne lasciate a Malvasia, spuntava da capo Malèo,
tanto noto nell’antichità per le fortune di mare.[380] Lentamente di
là vogando presso alla spiaggia, facea la prua all’isola dei Cervi,
dieci miglia lontana; e poscia virava di bordo in faccia all’armata
nostra. Di colà voleva attendere il fresco ponente, che nell’estiva
stagione suol mettersi al mezzodì; e con quel vantaggio venire
sopravvento ad investir l’armata nostra. Imperciocchè accertatosi
Luccialì dell’assenza di don Giovanni, ed avendo ordine dal Sultano
di combattere contro forze minori, deliberatamente divisava presentar
la battaglia, e prendere tal posta che potesse dargli più sicura la
vittoria.

Laonde Marcantonio che continuo teneva gli occhi sopra di lui, e ne
penetrava i disegni (dopo aver mandato a don Giovanni con la galera
del capitan Pietro Pardo le relazioni di quel che s’era fatto ed
era per farsi in quel momento) slargatosi dall’Isola, mutò la forma
dell’ordinanza. Perchè volendosi assicurare che i nemici attorniatolo
nol battessero da più lati, ma anzi restassero essi stessi da ogni
parte battuti, cercò miglior postura: e laddove prima aveva spartite
le navi alla fronte delle galere, le fece passare tutte al di là
dell’estrema sinistra, verso ponente: affinchè quando verrebbe il
nemico ad investirlo, dovesse di necessità difilar per prua avanti
alle navi medesime: alle quali comandato aveva che nel passaggio lo
fulminassero con tutto il loro cannone; e dappoichè fosse passato,
facessero vela sopra di lui, e così sopravvento assaltandolo per
poppa il ponessero tra due fuochi. Mirabile ed ingegnoso partito, onde
guarentì la salvezza dell’armata sua tanto inferiore di numero alla
nemica. Così Luccialì per dar sopra ai cristiani col benefizio del
vento, e Marcantonio per riceverlo fiancheggiato dalle navi, stettero
ambedue aspettando sino al mezzodì che si levassero i ponenti. Ma per
quanto ciascun di loro riguardasse alla mossa dei pennelli, questi
invece si restarono fermi a un po’ di scirocco e levante. Onde il
primo fu certo aver fallito il disegno; ed il secondo pensò che se ne
potrebbe vantaggiare: e che valendosi dell’occasione, la quale contro
il consueto gli si offriva, dove il vento non aveva permesso al nemico
di venirlo a trovare, poteva egli coll’aiuto del vento andare a lui.
La quale molto ben scaltrita mossa, allegramente accolta dall’armata
cristiana, fu di presente seguita. A un cenno tutti insieme spiegaron
le vele, e mossero contro il nemico. Sfilavano minacciose alla fronte
le navi e le galeazze; seguiva lo squadrone delle galere diviso in
tre corpi, alla diritta il Soranzo, alla sinistra il Canaletto, e nel
centro i tre generali; appresso la squadretta della retroguardia. E
governavano il cammino così che ciascuno sempre fosse all’ordine ed
alla posta sua: le navi con tutto il cotone al vento, le galeazze col
bastardo e alcune velacce, le galere coi soli trinchetti e qualche
palata, per superare coll’arte marinaresca la grandissima difficoltà
del tenere a giusto segno nel navigare le navi e le galere; e quelle
innanzi a queste: punto di somma importanza, massime allora che sopra
siffatta unione, e sopra cotest’ordinanza si posava tutto il fondamento
di salvar l’armata propria, di offendere la nemica, e di guadagnar la
vittoria.

Navigando ora Marcantonio a gran fiducia nell’ordine predetto, si turbò
Luccialì, vedendosi un’altra volta superato nell’arte e nell’ardire.
Onde cominciò a tirarsi indietro, senza però voltar le spalle: si
lasciava andare in giù verso ponente, come l’istesso corso dell’aria e
della corrente, coll’aiuto di qualche palata, leggermente il traeva. E
più incalzato dai nostri era sul volgere a manifesta fuga, di che già
allargandosi ed abbracciando tutto il canale con le dugento e venti
galere alla vista di ciascuno dava segno, se lo scirocco che portato
aveva sin là così bene l’armata nostra non fosse venuto mano mano
a mancare. Per la qual cosa sulle quattro pomeridiane, cessata ogni
benchè leggerissima bava di vento, Luccialì risolse di star fermo: non
più essendo possibile a Marcantonio andargli contro con altro che con
le sole galere, e per forza di remi; chè, quanto alle navi, sotto vela
cascante e sventata, non era da temer che si movessero. E perchè egli
aveva nell’armata sua settanta galere di più, faceva giudizio di dover
vincere certamente combattendo con le galere senza navi; e i nostri per
la stessa ragione di non poter vincere senza queste. Ondechè il primo
procacciava tagliar fuori le navi, e gli altri tenersele congiunte.
Armeggiando e schermendo il tempo passava.

In mezzo a siffatto adoperarsi v’ebbe chi tentò indurre Marcantonio a
lasciar le navi, e ad assalir il nemico con le sole galere, dicendo:
che si doveva contare più sulla virtù dei cristiani, che sulla
moltitudine dei barbari.

Ma il campione magnanimo che non voleva, nè per eccesso, nè per
difetto, nè per amici, nè per nemici, torcere dal cammin diritto
in quella circostanza, rispose: non temere già il numero grande
dell’armata nemica, ma la opinione pubblica della propria: perchè,
giudicandosi universalmente da tutti che non si poteva vincere senza
le navi, sarebbe stato temerità il tentarlo: dovendo un generale tener
gran conto dell’opinione pubblica della sua gente.[381]

Ma se per questo non gli conveniva lasciar le navi, nè anche poteva al
paro del nemico star fermo in battaglia: perchè le navi in balía della
corrente e del flusso andavano in deriva, o scadevano le une sulle
altre, e il mettevano in disordine. Laonde comandò che pur si andasse
avanti con le navi alla fronte. E quantunque tale ordinamento portasse
travaglio e pericolo, dovendosi rimburchiare ogni nave con quattro
galere, cioè le venti navi con galere ottanta; talchè non sarebbe
rimasta nell’armata della lega forma niuna di squadrone ordinato, e
quindi avrebbe potuto perdersi senza combattere; ciò non pertanto trovò
riparo all’uno e all’altro inconveniente, dando il capo del rimburchio
di ciascuna nave a due sole galere, ma queste sceltissime, e per ciò
tali da tirare innanzi i rimburchî, e nel bisogno tornare addietro
e rimettersi presto nello squadrone dell’ordinanza. Così Marcantonio
venne al segno di tener le navi sulla fronte, l’armata in ordine, e
la via sicura per andar, sebben lentamente, a trovare il nemico. Ma
costui che temeva della fatale ordinanza, vedendo i nostri accostarsi,
e le navi alla prima fila, non ebbe cuore a sostenerle: anzi quando
già venuti a tiro cominciava il cannoneggiare, egli ritraevasi. E per
non mostrar con brutta fuga le poppe, secondo che i nostri avanzavano,
secondo e’ stringeva la voga a rovescio; sempre in giù. Finchè venuta
la notte, sparò a un tratto a sola polvere tutte le artiglierie
dell’armata sua, e tra i vortici del fumo ricoprendo il rapido girar
di bordo, senza accendere i fanali vergognosamente si nascose tanto
che nè per la notte medesima nè pel giorno appresso non fu potuto
rivedere. Marcantonio restato padrone del campo, mantenne ai Cristiani
la superiorità sul mare.[382]


  [8 agosto 1572.]

X. — I nostri però allumati i fanali, e avendo già preso con la bussola
tra ponente e maestro la direzione dell’armata nemica, quando s’era
perduta di vista, verso quella governarono. Ma sempre guardinghi,
sempre ordinati, coll’armi in coperta e il buttafuoco alla mano:
potendo tra le tenebre avvenire, o una sorpresa di nemici, se ne
avessero fatto disegno; o di dare a caso sopra di loro, se per via
si fossero restati in giòlito. Al far del giorno si trovarono pronti
e all’ordine; ma per quanto riguardassero da ogni parte sul mare,
non videro traccia di Turchi: tanto studiosamente s’erano nella fuga
coperti. Per ciò Marcantonio, che quasi tutta la notte era stato
desto a sorvegliare le guardie e a scrivere gli spacci, come ebbe
la mattina seguente spedito la galera del capitan Vasquez a Corfù,
per dare conto a don Giovanni di quanto passava, e ricordargli, con
quella modestia che si doveva, quanto belle occasioni di vittoria
avrebbe Sua Altezza, qualora venisse prestamente a unirsi seco loro,
pensò ricondurre l’armata al Cerigo per le stesse ragioni di coprir
Candia e gli altri possedimenti veneziani, perchè vi era la prima
volta andato: bisognandogli ancora rinfrescare le provvigioni e
l’acquata, di che pativa difetto. Ma nel ritornare, alcuni capitani,
sia che non temessero più nè punto nè poco il nemico fuggitivo, o
vero che dopo due giorni di fatiche volessero allargare il freno e
sollazzarsi, sciolta l’ordinanza contro la disciplina, se ne andarono
con le galere lungi dall’armata ove meglio lor piacque; non solo in
diverse parti dell’isola, ma anche di terra ferma: e non obbedirono
alla chiamata. La qual contumacia fu presto punita: imperciocchè stando
coloro spensierati, ecco di repente giunger messaggio e correr voce
che Luccialì per di dietro all’Isola del Cerigo sopravveniva con tutta
l’armata, e che non era ormai di là più che otto miglia discosto. Al
primo annuncio si fece tumulto tra i dispersi, poi crebbe la calca
delle genti al rimbarcare, e finalmente montò tanto alto in tutti il
terrore, quanto era improvviso e non aspettato il pericolo. Nondimeno
Marcantonio da una parte rifacendo i segni, e dall’altra mandando
uomini di autorità a raccogliere e ordinare i capitani e le galere
sbandate, si mise per mezzo il mare in battaglia, con sessanta vele che
in quel punto trovossi attorno, pronto a coprire e difendere le altre.
E queste, secondo che giungevano disordinate e paurose, confortava e
rimetteva e spediva. A certuni pertinaci che mai non seppero nè per
messaggi nè per segni ridursi all’obbedienza, avrebbe certamente dato
quella punizione che meritavano, se di ciò non fossero stati trovati
in colpa certi Spagnuoli di grandi casate, rispetto ai quali bisognò
che Marcantonio e Gil d’Andrada se ne passassero, per non irritare di
più le passioni nazionali, e non avviluppare maggiormente le fila di
quell’intricata matassa.[383] Ma il mancamento per detto di tutti fu
grande, perchè non solo manifestò la poca disciplina degli ufficiali
e fece perdere poco dopo l’occasione di una segnalata vittoria; ma
avrebbe allora condotto l’armata a certa perdizione, se colà spinto si
fosse Luccialì a sorprenderla.

Costui però trovavasi per avventura ben lungi: e la voce sparsa
della sua venuta proveniva dall’essersi scoperte a ridosso alcune
galeotte turchesche di pirati o stracorridori che stavano appostati a
rapina.[384] E quando l’armata nostra rimettevasi, allora la guardia
della montagna per tutt’altra parte scopriva daddovero quella di
Luccialì, distante intorno a venti miglia, che essendosi nella notte
allargata per ostro se ne veniva alla vela verso il capo Matapan, dagli
antichi detto Tenario.

  [9 agosto 1572.]

Siffatto aggiramento dei nemici mise in pensiero Marcantonio: perchè,
essendosi coloro cacciati in mezzo tra lui e don Giovanni, potevano
all’improvviso, quando mai Sua Altezza, secondo l’invito, si fosse
deliberata di venire avanti, voltarglisi contro, opprimerlo, o
impedirgli la congiunzione. Quindi rifornitosi d’acqua e panatica, e
fatte quella notte riposar le stanche ciurme, la mattina del nove col
vento propizio levossi dal Cerigo, e prese a navigare a quella volta
per dove il giorno avanti si era visto il nemico. Ma per quanto il
ricercasse tutto il giorno in ogni riposto seno del golfo di Colochina,
non potè ritrovarlo, talchè dopo il tramonto navigò a secco verso il
capo Matapan.

Or mentre nel quieto silenzio della serena notte e sul mar tranquillo
l’armata lentamente moveva; nel salone di poppa della capitana
pontificia a lume dei doppieri, il Colonna, il Foscarino, l’Andrada,
il Soranzo, il Canaletto, il Bonelli, il signor Pompeo e più altri
capitani in molte questioni tra loro si dibattevano di ciò che si
dovesse fare. Marcantonio, spiegando sue carte, dimostrava la necessità
di congiungersi con le cinquanta galere di don Giovanni, per pareggiare
i nemici e combatterli con vantaggio. E da ciò, non essendovi alcuno
che dissentisse, deduceva come non potendo don Giovanni con la parte
minore dell’armata passare avanti al nemico per cercar la maggiore (al
che niuno lo avrebbe potuto indurre, massime considerata l’importanza
della sua persona) così convenisse loro andarlo a cercare. I Veneziani
però nè vedevano tanto pericolo al venire di don Giovanni, nè potevano
voler lasciare a discrezione di Luccialì tutte le isole loro; e di più
facevano toccar con mano e il danno di perder tempo, e la difficoltà
di correr tanto mare all’andata e al ritorno con quell’ingombro delle
navi. Marcantonio suggeriva che le galeazze e le navi potrebbero esser
messe in sicuro nel porto di Candia, e poi le galere speditamente
scorrere verso sua Altezza. Ma al Foscarino non sapeva così bene di
quel doppio andare dal Cerigo a Candia e da Candia al Zante, dovendosi
perder il miglior tempo in cercarsi l’un l’altro: e inoltre diceva
che le navi a Candia non le faceva sicure, e che avendo in quelle i
viveri dell’armata, era sempre costretto portarsele seco. Altri lo
sostenevano, temendo eziandio che in tanta vicinanza di così solerte
nemico le galere senza le navi non dovessero riuscir buone nè a
combattere, nè a fuggire; altri lo impugnavano, appellandosi alla virtù
dei capitani nostri ed allo sbogottimento dei nemici: e Marcantonio
dentro del cuore rodevasi che per quella difficoltà di congiunzione si
desse a don Giovanni ed a’ suoi consiglieri il pretesto per impedire
ogni impresa, e per mandare un altra volta deluse tutte le speranze di
quella campagna.[385]


  [10 agosto 1572]

XI. — Or mentre in diversi pareri i generali dubbiavano, venne
opportunissimo a troncar le questioni in mezzo a loro un prosperevol
vento di levante, che senza alcuna difficoltà poteva portarli tutti
insieme con le galere, le navi, e le galeazze verso ponente insino
al Zante, incontro a don Giovanni. E pensando tutti che in quel modo
fosse bene andarsene colà a pigliar tanto rinforzo, Marcantonio fermò
la deliberazione: e poco dopo, che era la seconda guardia della notte,
dato il segno dalla sua capitana, tutta l’armata fece vela e si lanciò
a dar volta attorno al capo Matapan. Ma come si furono avvicinati
là presso all’altura di porto Quaglio, quando già tutta intorno alla
luce dell’aurora imbiancavasi la marina, si vide ivi presso l’armata
nemica; e Luccialì, come se fosse stato la notte in consiglio con gli
alleati, e tutti i loro disegni avesse da sè stesso uditi, quivi al
varco aspettavali per assaltarli se mai fossero disordinatamente o
senza il presidio delle navi trapassati. Laonde a un tratto venne fuori
a vele gonfie, e con tanta baldanza che sembrava muovere non già a
riconoscere, ma ad investire. E Marcantonio con altrettanta prontezza
gli si fece incontro, mettendo alla fronte le navi, che per fortuna
aveva seco, a compensare il disvantaggio delle galere, il cui numero
appena montava a due terzi delle nemiche.

Ma avvicinandosi gli uni agli altri in mezzo al mare, cresceva la
fiducia in Marcantonio, e scemava in Luccialì; perchè l’ordinanza
nostra con quelle poderose navi sulla testa era fortissima. E
già il Tignoso rallentava a grado a grado la voga, quando un
improvviso accidente lo condusse contro sua voglia al punto della
battaglia. Veniva con molti danari da Venezia una nave all’armata,
che incontratasi quella mattina all’altura del capo, aveva preso
l’armata nemica per amica; e vedutala tranquillamente navigare in
giù senza dimostrazione di ostilità, l’aveva salutata ed erale stato
corrisposto. Ma quando si preparava a dare in mano a coloro il gherlino
del rimburchio, accortasi dei nostri e conosciuto l’errore, si pose
in difesa. Trovossi pertanto quella nave e il suo prezioso carico in
mezzo alle due armate come segno di lotta, ciascuno a gara dell’altro
facendo sua possa di tirarsela. Luccialì spiccava dodici galere a
sottometterla, Marcantonio quattro a soccorrerla. E già stavano le
due armate pronte ad entrar tutte insieme nel cimento, quando il
Turco temendo svantaggio ebbe con un tiro richiamate le sue galere,
e lasciata libera la nave, che poco dopo fu dai nostri menata a
salvamento. Alcuni gentiluomini veneziani venuti con quella credevano
sognare, ripensando all’errore ed al pericolo in che s’erano poc’anzi
lasciati cadere.

Marcantonio però, come animoso capitano, cavar volle da quel successo
il suo pro: e vedendo i suoi far cuore e gli inimici invilire,
levò in alto lo stendardo della battaglia, e con un tiro fece segno
di sfida. Alla quale avendo Luccialì risposto col contrassegno, e
mostrato consentire, le due armate forzarono di vela, come per volersi
investire. Giunte a tiro di cannone, manca il vento. Luccialì leva
remi, per non venire troppo avanti; e Marcantonio rallenta la voga,
per non oltrepassar le navi. Angoscioso momento. Ma durando nelle due
armate l’abbrivo, tanto si avvicinarono, che da una parte e dall’altra
presero a sbombardarsi colle più grosse artiglierie. Le colubrine
nostre traevano a furia, la mischia a grado a grado stringevasi:
cinque galere di Turchi erano colate a fondo, sette messe fuori di
combattimento: alcune galere di Luccialì, massime nel corno sinistro,
davano le spalle; altre più dalla grandine delle nostre cannonate si
ritraevano; e si vedeva manifestamente il nemico su tutta la linea
a balenare. Allora parve al Soranzo che guidava l’ala diritta di
perseguitare i fuggiaschi, ed a Marcantonio d’avanzar tutta l’ordinanza
dell’armata sottile, di caricar sopra il nemico, e di opprimerlo nel
suo disordine.

Stimarono i due prodi che le sole galere in siffatta congiuntura bastar
potrebbero. E fatto il segno di oltrepassar le navi, dieron la voga
nelle loro capitane, e mossero arrancati per serrarsi a corpo a corpo
con Luccialì. Ma come la fazione veniva senza disegno premeditato, anzi
del tutto improvvisa, e contraria alle deliberazioni primamente fatte;
così per la novità del caso nè le squadre loro con tutta la franchezza
si mossero, nè le altre li seguirono con quella prontezza che sarebbe
stata necessaria. Marcantonio ebbe seco alla pari soltanto tredici
galere, con le due capitane di Venezia e di Spagna; al Soranzo non fece
spalla più che il piccolo stuolo di nove galere; le altre a più riprese
avanzavano o facevano sosta; e il Canaletto nel corno sinistro, sempre
fermo dietro alle navi, non volle mai spiccarsi, lasciando a ridire di
sè tutta l’armata. Però ad un tratto mutarono le sorti: i Turchi ebbero
tempo a rimettersi, ed i Cristiani per quella opinione delle navi,
tra chi non voleva lasciarle indietro, e chi già l’aveva trapassate,
vennero a disordinarsi più che non fossero stati pocanzi i nemici.

Il qual fallo avrebbe certamente condotto a ruina l’armata cristiana,
se Marcantonio non fosse stato pronto a ripararlo nel miglior modo
che per lui si poteva. Là, nel mezzo ove era andato quasi solo un
buon miglio innanzi alle navi, intrepidamente ristette a mantenere
il campo; e senza mai retrocedere, nè esso, nè il Foscarino, nè
l’Andrada, nè il Soranzo, dettero tempo che avanzassero, sebben
lentamente, le galere e le navi restate addietro, sino a rimetterle in
linea. Che se là si fosse pur un momento peritato, tal rotta sarebbe
potuta toccare alla Cristianità quale l’anno avanti aveva data. Ma
il valore dei due generali e l’intrepidezza di Marcantonio, che in
quella giornata fu prodigiosa,[386] mise tanto terrore a’ nemici che
mai non ardirono prevalersi di una occasione che era tutta del caso
loro. Anzi avviliti a rincontro di così gran virtù, appena l’armata
nostra sul mezzodì si fu rimessa in punto di ripigliare con buon
successo il combattimento, cominciarono a ritirarsi. Luccialì nondimeno
ostentava coraggio, e mostrava la faccia; ma fingendo che le sue ciurme
vogassero avanti con qualche palata a fior d’acqua, faceva di ritorno
ponzare i remi a rovescio per dare indietro; poi legava il capo del
rimburchio alle galere che aveva da poppa, perchè il tirassero fuori,
e finalmente spargendo fumo di cannonate a sola polvere, voltava a
turpe fuga le spalle, e come disfatto cedeva un’altra volta il campo a
Marcantonio.[387]

  [11 agosto 1572]

In quella essendosi messi i Ponenti ordinarî, le armate dovettero
sempre più separarsi. Luccialì di gran pressa co’ trinchetti e co’
bastardi riducevasi a porto Quaglio, Marcantonio pel vento contrario
e per la stanchezza delle genti non potendogli tener dietro rendeva
il bordo verso il Cerigo. Stette la prima notte in mare, e la
mattina seguente sotto il castello, lasciando di fuori le navi alla
guardia. Ben si doleva grandemente di non esser stato ubbidito e
seguitato da alcuni capitani,[388] e che la loro pertinacia avessegli
tolto una certa vittoria. Moderando però le sue parole con quella
modesta circospezione che in mezzo al disordine di siffatta lega era
necessaria, senza eccitar tumulti, nè offendere i generosi, conduceva
i mancatori dolcemente a riconoscere l’errore e a farne l’ammenda.
Diceva, non volersi mettere a gastigare quei capitani che avevano
fallato per non imitare Luccialì, che nel sangue soleva lavare la viltà
dei suoi: ma invece lasciarli in vita perchè tra poco, venendo don
Giovanni, avessero agio a dar di sè miglior mostra, e con opere degne
sotto gli occhi di sua Altezza lavarsi dal viso la vergogna.

  [14-16 agosto 1572]

Tanto egli diceva perchè ormai tutti convenivano che senza il rinforzo
di don Giovanni non potevasi durare a quel modo. Troppo piccolo era il
numero delle galere: e le navi, sebbene per la fortezza loro portassero
molta sicurtà, pure altrettanto grande incomodo per rimburchiarle e
rimetterle; convenendosi poi dipender dalle fortune del mare, dal
capriccio dei venti, e dalla volontà del nemico, e star sempre in
pericolo o di abbandonarle, o di perderle, o di regolare i propri
pensieri secondo il volere e la comodità degli altri. Però sapendo che
don Giovanni con cinquantaquattro galere era in punto ed aspettavali,
piacque a tutti andarlo a ritrovare, e tirarselo seco loro alla
giornata; che per la giunta di così grande rinforzo non poteva riuscire
se non felicissima. Quindi la notte del quattordici agosto con vento
fresco di levante, che al parer dei marinai doveva durare, salparono
dal Cerigo. Con tutte le navi e le galere fecero vela pel Zante, la
mattina del sedici senz’altra novità vi dettero fondo, e trovarono
avvisi di sua Altezza che giunta a Corfù il dieci era per partirne il
quattordici, ed essere due giorni dopo alla Cefalonia per unirsi con
loro. Laonde Marcantonio sommamente rallegrandosene con tutti, massime
con don Alonso di Bazan che le buone novelle portato aveva, pensò
esser venuto in buon punto per veder ristorata la fortuna dell’armi
cristiane, e compiuti i suoi desiderî. Difese le isole dei Veneziani,
protetti i cristiani della Grecia, riconosciute le forze del nemico,
percosse le sue galere, e tutta sua armata messa in fuga due volte, era
pur colà ove sua Altezza il voleva, senza che per tutti questi servigi
resi alla lega non si fosse pure un’ora differita la congiunzione
dell’armata.


  [16 agosto 1572.]

XII. — Ma laddove sperava trovare unione e forza, quivi erano a
pubblico danno infinite discordie e biechi disegni, pe’ quali doveva
la congiunzione da due giorni differirsi ad un mese, poi rompersi
l’alleanza, e finalmente andarne l’autore innanzi tempo alla tomba.
Sapeva ben egli l’inflessibile rigore delle gelosie di stato, e non
ignorava i pensieri dei suoi nemici: ma forse non credeva che giunger
potessero a tanto, quanto egli ai fatti ne vide, e quanto a me per
intelligenza delle cose che quinci innanzi si racconteranno fa bisogno
ritoccare. Ho detto degli inganni tesi sul campo della lega per i
sospetti di Francia, ora vengo al resto, dopo un breve preambolo.

Al regio consiglio di Madrid era saputo male della vittoria di don
Giovanni,[389] i grandi della Spagna invidiavano alla sua gloria[390]
i ministri temevano la sua potenza:[391] e il Re geloso per infrenarlo
avevagli messo attorno due vecchi marchesi, due giovani cortigiani,
e altri sedici consiglieri; senza dei quali non poteva far nulla. I
Veneziani ed i Romani non solo dal re e da don Giovanni, ma anche dalla
balìa dei venti, dipender dovevano. Oneste apparenze, e soprusi alla
lega. Erano tra costoro principali don Gonsalvo Fernandez di Cordova,
duca di Sessa, e gran privato del re; Giannandrea Doria, principe di
Melfi, già notissimo ai miei lettori; Ferdinando Loffredo, marchese di
Trevico, e Antonio Doria marchese di Santostefano, stretti ambedue da
Filippo a lasciare le solite comodità dei vecchi soldati per essere
intorno al fratello; e finalmente il Davalos di quella consorteria
che dal porto di Tristamo non volle soccorrere Cipro, e da Corfù non
comparve mai con le navi della lega a Lepanto.[392]

Essi dovevano stringere don Giovanni, e siffattamente consigliarlo
che l’armata di sua Maestà fosse sempre salva, e quella de’ suoi
nemici depressa. Siccome però nel numero dei nemici erano i Turchi e
i Veneziani; e forse più questi che quelli;[393] così per deprimerli
tutti e due e salvar sè stessi bastava solo una cosa, cioè mostrare
animo alla battaglia e a ogni potere sfuggirla: perchè in tal modo
l’armata del Re conservavasi alle spese del clero: e le due armate
dei Turchi e dei Veneziani si consumavano.[394] Dell’armata romana,
maltese, savoiarda, fiorentina, e degli altri principi d’Italia,
niuna cura. Non già che avessero formato in questi precisi termini
il disegno, come io risguardando alle testimonianze ed ai fatti lo
svolgo, ma assai meglio e più secretamente facevano giucare secondo
gli intendimenti loro la persona certa che a tempo e luogo doveva
produrre effetti certi: don Giovanni era a far le mostre di guerra; i
consiglieri a impedir la battaglia;[395] i Francesi a metter sospetti;
il Re Filippo a levarli; i Turchi a ricevere le minaccie, i Veneziani a
esser consunti, il Papa e gli altri a restar gabbati.

Perciò, vivendo ancora san Pio, i negoziatori spagnuoli in Roma
tenzonavano a sviar la guerra in Africa; e don Giovanni obbligato a dar
calore alla pratica, se ne andava a Palermo; e là ammassava munizioni,
faceva gente, e stagiva navi; come se già fosse ferma l’impresa di
Tunisi.[396] Ma fatto il decreto di guerreggiare in Grecia contro il
gran Sultano e non in Africa contro i piccoli pirati, ecco don Giovanni
tornarsene a Messina e quivi far le viste di molta sollecitudine,
finchè fu Sede vacante. Eletto però il papa, venuto Marcantonio e il
Soranzo, e richiesto di far vela, pigliava tempo, copriva il secreto,
tentava Marcantonio;[397] e finalmente per liberarsi dalle molestie
pubblicava i sospetti di Francia e l’ordine che aveva dal Re di non
partirsi dalla Sicilia.[398] Non guari dopo consentiva a Marcantonio
di portare in Levante lo stendardo della lega, ed un piccolo soccorso
di galere spagnuole: se non che a talento dei suoi consiglieri tanto
assegnatamente gliene dava, quanto bastar potesse ad allettare i
Veneziani alla guerra, e insieme a non far possibile la vittoria.[399]
Partitosene Marcantonio ai sette di luglio, credevasi da ciascuno
ch’egli potrebbe liberamente condurre la guerra: ma don Giovanni
il faceva raggiugnere alle Gomenizze; annunciavagli il gran zelo
del Re nel posporre gli interessi suoi al pubblico bene, prometteva
di portargli il soccorso di tutta l’armata, scriveva a senno dei
consiglieri lettere d’ambigui concetti, e intimavagli di andare e
di restare, d’opporsi al nemico e di non far nulla; affinchè da sè
pigliasse quest’ultimo partito, e ne portasse il biasimo.[400] Appresso
sua Altezza moveva per Corfù a mostra di gran prontezza: ma lasciavasi
indietro in Messina le galere di Giannandrea, quelle del duca di
Sessa, e menava le sue sprovviste di vettovaglie.[401] Finalmente
sentendo che Marcantonio era scorso avanti a raggiugnere il nemico,
e parendo a lui (per quanto gliene dicevano i consiglieri) di essere
stato defraudato nell’onore, non sapea sì celare lo sdegno[402] che non
rompesse a parole ingiuriose contro il Colonna e l’Andrada, facendoli
segno a future vendette.[403] La diligenza di Marcantonio, e lo spedir
frequente delle lettere e delle galere, conturbava tanto il pupillo che
i tutori: e venendo dall’armata notizie o sinistre o prospere, sempre
era colpa o della temerità o della imprudenza di Marcantonio. A lui
tanto il perdere quanto il vincere tornava male:[404] ed ai Veneziani
noceva egualmente aver sua Altezza vicino che lontano.[405]

Arrivata poi a Corfù la galera spagnuola del capitan Pedro Pardo,
che Marcantonio aveva spedita per avvisare delle novità occorse sino
alla mattina del sette agosto, si riempì di turbamento l’animo di sua
Altezza, e dei consiglieri secreti: imperciocchè avendo Pietro dopo
la sua partenza per più ore sentito da lungi il rombo delle cannonate,
come ho detto addietro; e facendo giudizio che pel piccol numero delle
galere cristiane, per l’ingombro delle navi, e per la poca obbedienza
dei capitani, non potessero aver vinto; tanto erasi persuaso che
Marcantonio fosse stato rotto e l’armata perduta, che in secreto dette
l’una e l’altra cosa per certa al marchese di Santacroce, e dopo
in pubblico all’istesso don Giovanni.[406] Di che tutti gli altri
consiglieri, giucando di fantasia al paro del Pardo, menarono tanto
scalpore contro Marcantonio, e presero così gran paura di Luccialì, che
non sapendo ormai cosa più dire contro il primo, nè come salvarsi dal
secondo, restarono istupiditi a Corfù. Comparve da lungi in mare una
galeotta che prodeggiando se ne veniva in quel porto: era di messaggeri
mandati già molto tempo da Marcantonio a tenere avvisato don Giovanni
del suo viaggio. Invece la presero per antiguardo dell’armata nemica:
e dettero subito all’arme. Non solo don Giovanni con tutte le galere
tirossi in gran fretta sotto la fortezza; ma fece pur quivi accalcar le
navi: tutti insieme palpitanti aspettavano essere in breve dai nemici
assaliti. Erano in punto di bruciare le navi, e salvare le persone in
terra.[407]

  [18 agosto 1572.]

Così stettero per due giorni in varii e paurosi disegni. Ma non
vedendosi Luccialì, nè segno alcuno di armata nemica, quando si
disponevano a spedire uno stuolo di galere rinforzate per raccogliere
gli avanzi della supposta sconfitta, ecco sopraggiungere don Alonso
di Bozan dall’isola del Zante a dimostrare non solo la vanità di quei
timori, e le fallacie del Pardo, ma anche a riferire con tutta certezza
che Marcantonio, invece di esser stato disconfitto dai Turchi avevali
due volte con loro danno e vergogna battuti e cacciati in fuga; e che
tutta l’armata da lui condotta sorgeva vigorosa al Zante, nulla più
desiderando che congiungersi prestamente coll’Altezza sua per tornare
a più gloriosi cimenti.[408] Cadute le paure risursero un altra volta i
rancori.

  [20 agosto 1572.]

Stavano a mezzo agosto i nostri capitani così: Marcantonio, coll’armata
veneziana e la sua, più le ventidue galere di Spagna e le venti navi
della lega, in tutto censessanta vele, giù al Zante proprio sulla
fronte del paese nemico; don Giovanni, con cinquantaquattro galere
del Re e alcune navi da trasporto, dugento miglia addietro, e più
vicino all’Italia, nel porto di Corfù; in mezzo a loro la Cefalonia,
quasi egualmente dagli uni e dagli altri discosta. Con questo però
che, volendo andare avanti, doveva don Giovanni di necessità venire
oltre alla Cefalonia ed al Zante; ma non Marcantonio. Il quale, per
essere già al capo opposto, non poteva tirarsi addietro a Corfù senza
perder tempo in quella strada due volte, e senza lasciare sbrigliati
i nemici, e smarrirne la traccia. Ciò non pertanto vedendo per sua
prudenza come gli facesse mestieri dare anzi nel soverchio che nel
difetto sul fatto di onorar don Giovanni, perchè la lega si mantenesse,
persuase ai Veneziani che, lasciate le navi al Zante, con cento e
venticinque galere se ne venissero insiem con lui ad incontrare sua
Altezza sino alla Cefalonia. Nella qual cosa egli dovette travagliarsi
assai, sembrando duro a quei signori sobbarcarsi a tanto peso
inutilmente, e ristancar le ciurme già stanche da tante fatiche, e
lasciar senza difesa le navi al Zante, e le isole loro in preda al
nemico. Pure, non se ne potendo altrimenti, s’acconciarono a seguirlo:
ed il venti d’agosto approdarono ad Argostoli, fortezza e sorgitore
principale della Cefalonia. Di là spedirono più galere a far chiamate e
contrassegni, perchè don Giovanni a sicurtà vi si conducesse.[409]

  [26 agosto 1572.]

Sua Altezza intanto, dopo fatta una leggera prova di navigare verso
la Cefalonia, erasene ritornato a Corfù. Fosse timore di Luccialì,
o malizia dei consiglieri, o volontà di abbassare Marcantonio,[410]
scrissegli tal ordine che se voleva la congiunzione venisse con tutta
l’armata in quel porto, ove aspettavalo.[411]

Io lascio qui libero sfogo alla giusta indignazione dei Veneziani,
che sempre delusi a un modo e abbindolati a Messina, a Corfù, al
Cerigo, al Zante, alla Cefalonia, e ora da capo a Corfù in andirivieni
continui perdevano il tempo e ogni altra cosa; compensati soltanto dal
superbo dominio di quel garzone che a suo talento, quantunque assente,
arrogavasi il comando sopra gli altri due generali della lega, i quali
a lui stesso presente potevano coi loro voti dar legge.[412]

Lascio eziandio un secreto corso all’indignazione di Marcantonio che
vedeva ogni giorno farsi più difficile la mediazione sua a conservare
la lega per la quale aveva sostenuto tante fatiche.[413] Dirò soltanto
che Romani e Veneziani, stretti a chinarsi alle voglie altrui,
dovettero dalla Cefalonia tornare al Zante, levarne le navi, rivolgersi
un’altra volta alla Cefalonia, e colle navi appresso tirarsi a Corfù:
mentre Luccialì, libero da ogni freno disertava il Cerigo e riduceva
a disperazione i cristiani di Candia e di Morea. Sultano Selim non
avrebbe potuto fare risoluzione a sè stesso più utile di quella che
aveva fatta don Giovanni nel richiamare i Veneziani dalla Cefalonia.
L’armata ottomana ripigliava la padronanza; ed i collegati perdevano
il filo dei disegni incominciati, lasciavano la traccia dei nemici,
abbandonavano i cristiani d’Oriente, gittandosi tutto dietro le spalle
per trecento miglia di mare.[414]


  [1 settembre 1572]

XIII. — Arrivato pertanto Marcantonio a Corfù che era il primo di
settembre, trovò al di fuori allegrezza grande della sua venuta, e
salve d’artiglierie, e festa che i più facevano nel vedere finalmente
insieme tutta l’armata già da tanto tempo divisa: ma entrato dentro
nella galea di don Giovanni per dimostrare con le lettere di sua
Altezza che egli aveva eseguito quanto in esse si conteneva, conforme
al debito suo, don Giovanni senza alcun segno nè pur di cortesia le
lettere si ritenne, e gli intimò di ritirarsi, non volendo niente udire
da lui delle cose passate. Cui Marcantonio rispose che se non poteva
mostrar le sue ragioni a Corfù non gli sarebbe divietato portarle a
Roma e a Madrid, prima di essere prevenuto delle sinistre relazioni
de’ suoi nemici: lascerebbe all’armata in luogo suo Pompeo Colonna:
e poichè tornava non gradita l’opera sua, gli si desse licenza di
partirsene. A questo replicò don Giovanni fargli mestieri alcun tempo
a risolvere. E vedendo come il congedo di Marcantonio sarebbe suo
gran biasimo, la mattina seguente gli fece dire che non poteva dargli
licenza: e Marcantonio, rispondergli che non era d’animo a restare di
buona voglia senza potersi discolpare.[415]

Anche Gil d’Andrada commendatore dell’abito di san Giovanni
gerosolimitano, per le minacce avute nel capo, parlò di tal maniera
con sua Altezza che fu riputato magnanimo: perchè coraggiosamente si
offrì pronto alla pena quando si potesse trovare esserne in colpa; e
francamente gli disse che, per non servire più a lui, rinuncierebbe
ad ogni carico nell’armata del Re, tornandosene a servir privatamente
alla sua religione in Malta. E a Marcantonio profferse una lettera,
scrittagli di proprio pugno di don Giovanni negli stessi termini
dell’altra che sua Altezza si era ripigliata, affinchè non restasse
senza difesa; col dire che, potendo ajutare la verità in persona di
tanto merito quanto quello del signor Marcantonio, non avrebbe mai nè
per timore nè per qualsivoglia altro rispetto lasciato di farlo. Laonde
don Giovanni si trovò stretto a rispondere che non poteva consentire
ch’egli si partisse: e l’altro a soggiungere che resterebbe a servirlo
quindi innanzi per timore, laddove prima avealo servito per amore.

Raccolse adunque sua Altezza da ogni lato confusione: perchè al
postutto la reità di prendersi a gabbo la lega era in lui, e non in
quei due degni campioni che egli avrebbe voluto punire di aver fatto
quello che far dovevano non solo per debito loro, ma anche per ordine
scritto di sua mano. A tale fu condotto don Giovanni dai biechi
divisamenti della corte e da’ rei consigli dei tutori. Chè nell’armata
cristiana, se tu ne togli i promotori di siffatti disordini, non
restò alcuno il quale non ammirasse la magnanimità dell’Andrada e la
virtù del Colonna: intorno a loro crebbe sempre più la venerazione e
il rispetto di chiunque aveva sentimento di lealtà e di onore.[416]
Marcantonio in quella così ardua prova, vincendo sè stesso e temperando
lo sdegno (che tanto mai grande non si accende nei petti generosi
quanto al veder vilipese le opere magnanime da chi men dovrebbe) nelle
parole e nei fatti proseguì non solo coll’istessa fede e valore; ma,
quel che impossibil parrebbe se non si fosse da tutti veduto, con
maggiore virtù. Nè è da tacere che di questi brutti vezzi ricevuti da
don Giovanni, nelle secrete corrispondenze in cifra, e nei preziosi
codici Colonnesi, che io per cortesia del gentil cavaliero don Vincenzo
Colonna da un capo all’altro ho diligentemente studiati, non se ne
parla altrimenti, se non con eroica moderazione: segno manifesto che
l’anima di quel grande, usa a infrenar le private passioni per servire
agl’interessi comuni, non sentiva il basso livor della vendetta. Anzi
nelle lettere al cardinal di Como, segretario di Stato, scrivendo
in quello stesso giorno del primo di settembre, non fece motto di
risentimento, nè si querelò dell’oltraggio fatto nella sua persona
alla maestà del Pontefice; ma per non giunger esca al fuoco, in quanto
a don Giovanni se ne passò, toccò a pena il fatto il Gil d’Andrada,
e descrisse lo stato della lega con tanta gravità di sentenze, che io
senza uscir gran fatto dai confini della presente materia mi prenderò
licenza di qui recarlo colle sue stesse parole.[417]

«Io vedo quanto questo negozio della lega è a cuore di Sua Santità, e
però è bene che sappia che per volerlo conservare ci bisogna diligenza,
e non meno quella che qui si procura, quanto col negoziare in Spagna e
in Venezia e coll’Imperadore. E che Sua Maestà Cattolica si risolva se
questo negozio le sta bene, o no. Se le sta bene, lasci da parte quello
che meno importa: che certo ei fia glorioso con salute certissima de’
suoi stati. Se altramente la intendono, sarebbe molto meglio levar Sua
Santità da questa continua ansietà; e che ognuno faccia il fatto suo. E
certo qui hanno mal consigliato Sua Altezza a farci tornare con tanto
incomodo, lasciando in mano dei nemici il paese che con tanta fatica
avevamo conservato, per dover forse poi fare il medesimo d’andare
avanti: oltrechè noi (finchè Sua Altezza non si congiungeva) avevamo
pur l’autorità delle deliberazioni: ed egli non poteva commandare con
tanta autorità. Questo io non lo dico per me: chè l’ubbidir Sua Altezza
mi è felicità (che sono avvezzo ad andar sotto ogni spagnoluzzo) ma
per li capitoli e per li Veneziani. Ed hanno messo in disgrazia di Sua
Altezza Gil d’Andrada, il quale concorse in quel che si doveva. Sicchè
ci è pur troppo che fare a conservare questo negozio, ed alle volte
vorrei essere non solo qui, ma in Venezia, in Spagna, e per tutto.
Che è miserabil cosa veder perire una congiunzione già fatta, la quale
non vi essendo, nè si dovrebbe nè si potrebbe desiderare e procurare
altra, a beneficio della Cristianità. Io so ch’è superfluo entrar io in
questi particolari che nostro Signore sa e vede tutto: ma l’importanza
del negozio mi fà trascorrere, stando impiegato nel servizio di Sua
Santità. A Vostra Signoria illustrissima bacio le mani. Di Corfù al
primo di settembre 1572.»

Prudentemente in questa lettera Marcantonio toccava i punti
fondamentali della maggior causa che in quei giorni si trattasse
in Europa. Qui la necessità della lega per pubblico beneficio della
Cristianità; qui la doppiezza della corte di Spagna, di che dopo tre
anni ancor non si sapeva se la lega le piacesse, o no; qui il mal
governo che facevano i consiglieri di don Giovanni; l’oltraggio ai
Veneziani, le non meritate minacce a Gil d’Andrada, e qui l’animo
grande di Marcantonio che tace delle sue offese, che non ricusa
sottomettersi a chicchessia, sì veramente che non ne venga alcuno
sconcio al bene pubblico della Cristianità. Ed è per questo che a
me, come dal grave officio di storico viene imposto, conviensi tanto
più rendergli ragione quanto maggiore mi si mostra la sua virtù;
e senz’altro rispetto se non della pubblica moralità, biasimare
apertamente i soprusi, le doppiezze, e dirò pure i tradimenti onde i
cortigiani ruppero il corso alla prosperità delle armi cristiane, le
frodarono del frutto della gran vittoria, e ci abbandonarono a quei
lunghi disastri che avrò per molto tempo a descrivere nella storia
della mia marina.

  [6 settembre 1572.]

Quanto ai fatti, qui potrei finire: non avendone altro notevole. Ma
perciocchè non cessarono nè i disegni delle grandi imprese nè le arti
di ruinarle, ed io mi trovo avere in mano le secrete pratiche, e le
fila, e le ruote di quella macchina, stimerei troppo gran difetto
togliere agli studiosi tanta messe di ammaestramenti quanti se ne
possono quindi cavare. Perocchè il tanto negoziare di quell’anno per
la sua importanza era fondamento di salute o ruina alla Cristianità
ed all’Italia; e per le tanto sottili arti adoperativi ha potuto, tra
le accuse degli uni e le recriminazioni degli altri, tener sospeso il
giudizio del mondo sino ai nostri giorni.

Finite le difficoltà della congiunzione, cominciavano quelle dei
consigli. Chiunque aveva ad arte condotta la stagione tanto innanzi,
bisognava pur che se ne prevalesse e ne cavasse costrutto. Dicevano
non esser più tempo di imprese rilevanti, nè di liberare la Grecia,
nè di pigliare più fortezze ai nemici, e nè anche di combattere contro
Luccialì, perchè troppo più potente di quanto non si pensava; ma solo
di rimandare le navi in Sicilia, e con le galere inseguire e molestare
alla coda l’armata nemica; e le più grandi cose rimetterle all’anno
venturo. Alle quali induzioni contrapponevasi Marcantonio, dicendo:
troppo onore volergli fare il consiglio, che dopo aver lui potuto con
piccol soccorso due volte superare il nemico, non consentiva che con
tutto il nerbo della lega potesse farlo sua Altezza: ripensassero alla
vittoria dell’anno addietro e vedrebbero che quella ne darebbe questa,
se in Dio e in sè stessi quanto si doveva confidavano: risguardassero
in viso la marineria cristiana, e la mettessero al paragone delle
spaurite genti turchesche: noverassero gli archibugeri, e troverebbonli
tali di qualità e di numero da combattere non contro dugento, ma
contro trecento e più galere; attendessero finalmente alla stagione
che sollecitamente pressavali non a smettere le imprese perchè erano
venuti, ma a rompere gli indugi. Cacciassero una volta la paura dei
Turchi.[418]

Non potendosi trovar risposte a siffatte ragioni, senza rinnegare
l’evidenza e l’onore, il consiglio stava per assentire al parere del
General pontificio, sostenuto dal veneziano e dal suo luogotenente:
che eran quivi tutti i maggiori capitani soliti a intervenire, men
che Pompeo Colonna, escluso quel giorno dal consiglio per volontà di
don Giovanni, e a ingiuria di Marcantonio.[419] Se non che il marchese
di Trevico, gran privato di Spagna, rifacendosi sull’argomento della
speditezza, suggeriva di lasciare le navi, le grosse artiglierie, i
cavalli, ed ogni altro apparato di guerra campale, e con le sole galere
inseguire Luccialì: sforzandosi a dimostrare che assai ne avrebbero a
poterlo combattere; e che, alla fronte di così grossa armata com’era la
turchesca, non sarebbe possibile nè sbarcare in terra, nè adoperarsi
ad espugnar fortezze, nè a far conquiste. Freddi consigli di vecchio
cortigiano. Marcantonio però con caldi ragionamenti, e da valoroso
generale, rispondevagli: non doversi pensare che il nemico faccia
ogni cosa bene, perchè così non si verrebbe mai al punto d’assalirlo:
ma potendosi andare a sicurtà colle navi, sarebbe da vederlo in che
termini fosse: non essendo difficile incontrarlo in tanto disordine,
per la sollevazione dei Greci, per la debolezza delle sue piazze, e
per la perduta riputazione, da aversi a pentire di essere andati senza
le navi, e senza tutti quegli aiuti di vittovaglie, di soldati, e di
arredi che in esse si tenevano. Quindi richiedeva che di presente si
dovesse far vela; le galere a ritrovare l’armata nemica, e le navi a
seguirla: e quando non si potesse costringere il nemico alla battaglia
navale, s’imprendesse almen l’espugnazione di alcuna delle sue
fortezze.


  [7 settembre 1572.]

XIV. — Presa la deliberazione conforme al parere di Marcantonio, le
galere salparono da Corfù alli sette di settembre; e le navi sciolsero
verso il Zante, ove si era ordinato che dessero fondo ed aspettassero
gli ordini di Sua Altezza. Intanto don Giovanni s’era lasciato
intendere dai Veneziani come egli teneva che le galere loro non fossero
provviste a dovere di fanterie, e quindi dovessero rinforzarsi, con
ricevere a bordo soldati di sua Maestà. I Veneziani però, offesi
dall’incontrato loro per simil ragione l’anno avanti, non potevan pure
sentirselo ricordare; e di più tenevano ordine espresso del Senato
di non prenderne a niun patto. Quindi Iacopo Foscarino apertamente
si rifiutò, dicendo che la sicurezza del suo naviglio tanto a cuore
stava a lui medesimo, quanto a chiunque altro; che sentiva di non avere
alcun bisogno d’aiuto: ed in prova citava i fatti recenti, l’avere in
Grecia due volte combattuto e fugato il nemico; e nel ritorno eziandio
preso cinquecento fanti dalla fortezza di Corfù, altrettanti dalle
navi, e così provvisto anche meglio che non bisognava alle sue galere.
Ma don Giovanni replicando, e quegli persistendo, giunsero a tale
che niuno di loro poteva più ritirarsi dall’impegno. E chi sa come
sarebbesi terminata la contesa, se non fosse quivi stato a mediatore
d’ogni differenza quel sottile ingegno di Marcantonio, il quale
con una delle sue destrezze tolse ambedue d’impaccio. Don Giovanni
mettesse il rinforzo, ed i Veneziani non ne ricevessero da lui: cioè,
invece di soldati spagnuoli, andassero mille e seicento uomini delle
fanterie pontificie. Li rassegnò di presente sotto tredici capitani
al commissario Contarini, e ne prese nelle sue galere altrettanti di
quelli del Re.[420] L’intramessa dei Romani nell’armata della lega,
massime sotto a tal capitano qual era Marcantonio, nei maggiori bisogni
riusciva opportuna a riparare i disordini e a mantener la concordia.
Non poteva però rimediare alla perdita del tempo: chè in queste
pratiche se ne passarono cinque giorni.

  [11 settembre 1572.]

Erano pertanto alle Gomenizze tredici galere, e due navi del Papa;
settantasei galere, e ventiquattro navi del Re; cento cinque galere,
sette navi, e sei galeazze dei Veneziani; più due galeazze del
granduca di Toscana: che unite insieme facevano grossa armata di cento
novantaquattro galere, trentatre navi, e otto galeazze, tutte acconce
e corredate d’ogni cosa necessaria a navigare e a combattere. Allora
parve a don Giovanni di metterle in ordinanza, divise in squadre,
e contrassegnate da pennoncelli di diversi colori. Nella battaglia
galere settanta di giallo al calcese, condotte dai tre generali della
lega; nell’ala diritta quarantacinque galere, di verde alla prua,
sotto il marchese di Santacroce; nella sinistra altrettante d’azzurro
all’osta, sotto il Soranzo; e nel retroguardo di bianco alla poppa,
con più di trenta galere, don Giovanni di Cardona: le galeazze, guidate
dall’intrepido e veterano comandante Francesco Duodo, all’antiguardo;
due per ciascun corno, tre sul fronte della battaglia, ed una alla
coda; le navi finalmente, a carico di don Rodrigo di Mendoza e di
Adriano Bragadino, alla vela tutte in un corpo sino al Zante, e là
pronte ad ogni cenno di sua Altezza.

  [11-16 settembre 1572.]

Con quest’ordine salparono dalle Gomenizze agli undici di settembre,
la sera dettero fondo presso all’isola Ericusa, oggi detta il
Paxò; e la mattina, levatisi per andare verso la Cefalonia, ebbero
incontro due galere che per ordine di Marcantonio avevano spiato i
movimenti dell’armata nemica, e venivano a riferire trovarsi buona
parte di quella in Portogiunco presso a Navarino, e il resto sotto la
fortezza di Modone; ma tutta stremata di vettovaglie, oppressa dalla
infermità, e piena di terrore.[421] Però crebbe a dismisura l’ardire
delle nostre genti; e tanto maggiore allegrezza si faceva, quanto
che la cosa tornava quasi fuor d’aspettazione: giudicando ciascuno
che i Turchi, avuto avviso della congiunzione dell’armata cristiana,
senza dubbio si dovessero esser fuggiti a Costantinopoli, paghi di
aver ricuperato molta riputazione coll’essersi mostrati presti alla
battaglia. Saputo però che Luccialì era venuto così vicino, quasi a
cercar le busse, non altro desideravano che dar dentro, e rivedere
un’altra giornata a Navarino, come quella dell’anno avanti a Lepanto.
Ma ora la contrarietà dei tempi, ora quella degli uomini, fece ritardo:
perchè la sera del dodici pel vento contrario bisognò ritornarsene
a Paxò; la mattina del tredici dar fondo alli Guardiani fuor del
porto di Argostoli, il quattordici passarlo a far acqua e legna, e il
quindici a veder l’armata in battaglia; rodendosene i Veneziani, che
per violenza trovavansi stretti a patire quel perdimento di tempo.
Il qual cruccio tanto più cresceva quanto che, messosi alla sera il
ponente freschissimo, si sarebbe potuto giungere improvvisamente sopra
Portogiunco, ed avere certissima vittoria. Don Giovanni però contro il
parere del generale di Roma e di Venezia (che nel corso della notte
tre volte, e sempre con maggior premura il sollecitarono) non volle
scorrere avanti: anzi, avendo divietato ogni mossa di remo ed ogni
scossa di vela, per consiglio di don Giovanni di Cardona e de’ suoi
marinari, navigò tutta la notte a secco. Avrebbe potuto essere all’alba
sopra Navarino, e pur non giunse che ben tardi alle Strofadi, oggidì
chiamate Stanfane, isole picciolette e deserte in mezzo al mare, quasi
egualmente dal Zante che da Navarino lontane.[422]

Qui già trapela l’accordo secreto tra i consiglieri e i marinari per
arreticare i movimenti dell’armata. Si naviga a secco, cioè senza
vela, si arriva a mezza strada, si dà fondo, e si chiamano i capitani
a consiglio. Però il Foscarino, afflitto nell’animo, e condotto
dall’istessa freddezza del temperamento suo a mostrare una volta che
poteva risentirsi di così lunga sofferenza, liberamente rivoltosi a
don Giovanni ed ai suoi, prese a dire:[423] Che fa per noi, signori,
metterci ogni giorno in consiglio per vedere il modo di combattere e di
navigare, se navigare e combattere non vogliamo? A che tante parole?
Questa notte si poteva filar dodici nodi all’ora, col vento fresco
di ponente, e non si è fatto vela: ecco, quest’oggi si poteva dar la
battaglia, e ci troviam qui fermi a perder tempo in consigli perpetui.
Non basta? Vogliam noi che il nemico si prepari meglio a resistere?
Vogliamo che si riduca in parte più sicura? Che sappia l’arrivo nostro
in quest’isola? Stiamci due giorni; ed egli il saprà. Ma che dico due
giorni? E non basta forse a quest’ora per averci discoperti il gran
fuoco che si è da certuni acceso alla spiaggia? Son questi i nostri
consigli? Queste le glorie della Cristianità? Questa la liberazione
della Grecia? E già era in procinto di non attendere risposta, ma da
sè stesso e di buon peso far ragione alle domande sue; allorquando
Marcantonio, colto forse il momento d’un suo sospiro, interrompevalo
dicendo: Esser quello il tempo da concludere con poche parole la grande
impresa; si spegnessero i fuochi, si calmassero gli animi, l’armata si
apprestasse a combattere: la notte si leverebbero copertamente di là
per esser prima dell’altro giorno sopra l’isola della Sapienza, innanzi
alla fortezza di Modone: da quell’isola potrebbero a oltranza assalire
l’armata nemica, tutta o parte, che fosse in Navarino, e troncarle la
strada perchè mai più non potesse fuggire. Escluso Luccialì da Modone,
avrebbero gli alleati a loro posta l’armata sua.[424] Il qual partito
sebbene fosse in consiglio da tutti abbracciato e fermo, come tale che
poteva dare gloriosa vittoria, ciò non pertanto tornò vano. Sulle rive
di quell’isola, ove i poeti avevano posto il seggio dell’Arpie, non
doveva essere che il marzial congresso, a che i prodi si convitavano,
non fosse da sconce mani e guasto e corrotto.


  [17 settembre 1572.]

XV. — Imperciocchè venuta la sera assai quieta e serena, senza niun
vento, l’armata cristiana levossi; e celatamente prese a navigare
secondo il convenuto. Ma nel silenzio della notte, quando i soldati e i
capitani immersi nel sonno riposavano le stanche membra a invigorirle
pel combattimento imminente, allora fu sconvolto onninamente l’ordine
del navigare, e tolta non solo una gran vittoria alla Cristianità, ma
per altri tre secoli aggravato il servaggio dei Greci, e mantenuti
i barbari a flagellar l’Europa. Di che, mentre io scrivo, la
penna in mano mi trema pel fremito che sento nel ripensare come la
frode a pubblico danno e perpetuo delle genti usa vestire il manto
dell’innocenza, e la menzogna sfacciatamente mostrarsi sotto l’aspetto
della verità. Il Caracciolo, il Sereno, il Graziani e l’Adriani,[425]
che ho sempre innanzi, autori di somma fede, concordi fra loro, e con
quanto v’ha di recondito negli archivj; tutti contemporanei, i due
primi capitani assennati e presenti all’armata, gli altri due uomini
di stato e di quell’ingegno che tutti sanno, temono dir troppo, e
si tengono tra l’errore di qualche piloto, e il maltalento di alcun
comandante, lasciando alla posterità scevra di paure e di speranze
il risolvere. Ed io senza passione, che nulla temo e nulla spero,
stretto solo dall’evidenza dei fatti, mi fo coscienza a gettar via quel
tormento dei dubbi, ed a parlare la sincera verità, perchè la storia
sia qual esser deve maestra della vita, ritratto fedele della virtù, e
flagello del vizio.

Tuttavia prima di mettere in chiaro l’arcano di quella notte, mi fa
bisogno descrivere in brevi tratti i contorni delle costiere ove il
fatto avvenne. Un vago disegno, dipinto a colori per mano del tanto
celebre capitan Francesco de Marchi, svolge il prospetto della costa
occidentale di Morea, le isole del Prodano e della Sapienza, il porto
di Navarino, la rada di Modone, e le posizioni delle due armate di
Cristiani e di Turchi, come furono in questo giorno diciassette
settembre 1572. È alla Magliabecchiana tra le tavole e piante di
fortezze disegnate dal De Marchi, il quale fu presente a questi fatti,
come si rileva dalla scrittura posta al margine del disegno.[426]
Da quella e da altre carte marine si rileva che la spiaggia di Morèa
rimpetto alle Stanfane, donde si è mossa l’armata cristiana, scorre
tra la foce del fiume Achelòo e la punta di capo Gallo, quasi per
diritta linea da settentrione a mezzogiorno; ed offre ai navigatori nel
picciol tratto di quindici miglia due porti capacissimi di qualunque
armata: su verso tramontana è Navarino, la cui fama risuona nel
mondo per moderni e per antichi avvenimenti, di che avrò più volte a
parlare; ed all’ingiù, verso ostro, è Modone, fortezza, città e porto
principalissimo della Grecia. Presso a ciascuno di questi luoghi è
un’isoletta: la prima, sei miglia al di sopra di Navarino, è chiamata
il Prodàno, o isola di Proteo; e l’altra, per tre miglia sotto Modone,
è detta oggidì la Sapienza, e presso gli antichi Enusa: quella scopre
Navarino da lungi, e non lo domina, per la troppa lontananza; questa
però tanto sovrasta sull’angusto canale di Modone, che gli è tutt’uno
il mettersi alla Sapienza ed il bloccare questa città, senza che niuno
possa più uscirne od entrarvi. E siccome nel fatto presente l’armata
nemica stava divisa tra i due porti or ora nominati, così la venuta
improvvisa degli alleati sopra la Sapienza doveva disunirla per sempre,
tenerne deboli e soggette le divisioni, e quasi senza alcun risico
aprir la strada a disfarle ambedue.

Con questa deliberazione l’armata nostra sciolse dalle Stanfane, con
questa navigò a remo tacitamente nella oscurità della notte, con questa
in dodici ore avrebbe potuto filare le quaranta miglia, con questa
all’alba presero l’armi capitani e soldati.[427] Ma, tra le maraviglie
che ne fece ciascuno ignaro del secreto, invece di trovarsi la mattina
alla Sapienza, quinci distante quarantun miglio nel rombo di scirocco
per due gradi a mezzogiorno, l’armata della lega (condotta secondo
la tattica dal Piloto della real galera di don Giovanni), fatte non
più che ventisei miglia, e nel rombo di scirocco per quindici gradi
a levante, trovossi fuor di strada! Non alla fronte ma alla coda dei
nemici, non alla Sapienza ma al Prodàno! Non a vittoria segnalata, ma a
perdere la riputazione e il frutto di tante fatiche![428]

Io non coprirò questa enormità con magre scuse. Non dirò che fu errore
involontario del piloto di sua Altezza.[429] Perchè questo non potrebbe
supporsi senza ingiustizia o follia: ingiusto io dico dar taccia di
così grande reità ad un piloto reale, senza alcuna prova; anzi quando
si sa che non fu nè punito nè rampognato, nè dal suo generale nè
dal suo sovrano: follia sarebbe supporre nell’arte di navigare, in
una notte tranquillissima di mare e di vento, per un tragitto così
breve e tanto conosciuto, tal fatta errori che in un negozio di tanto
rilievo menassero alla differenza di diciassette gradi per rombo e
di quindici miglia per distanza; quandochè (volendo pur concedere
qualche errore al piloto) doveva essere tutto nell’allargarsi a mare
e nel tirar oltre a gradi ed a miglia, anzi che nel troppo stringersi
a terra e nel trattenersi tutta la notte per via: e ciò perchè di
suprema importanza era sorprendere il nemico, comparirgli di fronte
ancorchè tardi, tagliargli la strada, invece di lasciarsi vedere
prima del tempo, e alla coda. Nè pure dirò che i ministri spagnuoli
per loro private passioni si opponessero in ogni incontro alla buona
volontà del re Filippo;[430] perchè tanta contumacia e perpetua di tre
anni non era possibile contro un sovrano di quella tempra, che aveva
poc’anzi per disubbidiente fatto morire il figlio nella prigione.
E nè anche mi sento di seguire il terribile salto di certuni che,
sfiduciati di trovare altra scusa qui in terra, sono andati a cercarla
nei cieli:[431] perchè troppo enorme bestemmia mi parrebbe attribuire
all’altissima Maestà di Dio i peccati degli uomini i quali gli si
opponevano, allora appunto che tanta bella occasione di vittoria
metteva loro innanzi. Dirò dunque che questo fu tiro maestro di quelli
stessi personaggi che alla Prevesa, a Cipro, a Lepanto, a Navarino
non volevan battaglie; di quelli che a Roma intrigavano i capitoli, a
Messina mettevano sospetti, a Corfù richiami, per tutto mala frode e
false scuse.

Chi ne dubitasse, senta gli effetti, e legga il resto. Appena i Turchi
che erano in Navarino ebbero scoperta a levata di sole tutta l’armata
cristiana venirne da tergo verso il Prodàno, conosciuto il precipizio
sull’orlo del quale s’erano quella notte trovati, con la fretta maggior
che potevano o salparono i ferri, o troncarono a furia le gomene, per
ridursi in salvo a Modone, prima che i nostri giungessero a chiudere
il passo. Ma dovendo ad una ad una quelle galere mettersi in mare,
tra la confusione che in ogni repentino caso suole incontrarsi, non
poterono tanto presto smucciare, che gli alleati non le avessero
già quasi raggiunte.[432] Don Giovanni però non dava loro che poca
caccia, quasi per mandarle più presto a ricoverarsi in Modone, anzichè
per assalirle nella fuga. Marcantonio tutt’armato com’era, fattosi
tragittare di presente dal suo palischermo alla galera di don Giovanni,
con franchezza e libertà pari al bisogno, dicevagli: Che, se pure si
era navigato a rovescio, contro la risoluzione fatta, e già il nemico
se ne fuggiva, ordinasse almeno venti galere delle migliori, perchè
l’inseguissero alla coda, tanto per provocarlo a battaglia, quanto
per ghermirgli qualche galera grave e tarda che dietro all’altre,
come sempre succede, si rimanesse. Ed avendolo l’Altezza Sua con molto
sussiego interrogato, se egli stesso che proponeva il partito l’avrebbe
voluto eseguire; Marcantonio sull’atto fece scorrere il suo palischermo
a cavar fuori le venti galere che, dopo la sua capitana, stimava più
leggiere e ben armate: ed era già sul muovere, quando don Giovanni
facevagli dire che si rimanesse nell’ordinanza con tutti gli altri,
perchè l’armata nemica non fuggiva altrimenti, ma se ne veniva in tre
squadre a presentar la battaglia. Allora Marcantonio, cui non poteva
parer vero tal mutamento, a voga arrancata passò col battello sotto la
poppa della sua Capitana, e domandò più volte alla guardia del calcese:
qual vista facesse l’armata nemica; e quegli sempre a rispondere: Di
fuggire.

Il perchè tornò alla reale ripetendo come per certo il nemico fuggiva,
e don Giovanni fermo a negare. Finalmente per levarsi dinanzi il
testimonio importuno della verità, ed il tacito riprenditore della
maligna e codarda politica, gli comandava che andasse con sola la
sua capitana dietro ai nemici per vederli da vicino: e se venivano
a combattere, ne desse segno con un tiro; altrimenti con due, se
fuggivano.

E quantunque ciascuno vedesse in ciò l’oltraggio manifesto alla
capitana, allo stendardo, ed al generale del Papa nel mandarlo a mo’ di
stracorridore, e senza dignità di accompagnamento, a spiare i nemici;
pure Marcantonio di presente acconsentì, e spiccò senz’altro la sua
capitana. Alla cui vista molte galere mossero dalla posta per seguirlo,
specialmente la padrona e le sensili del Papa, parendo a tutti che
non si dovesse patire di lasciarlo andar solo.[433] Ma per ordine
di don Giovanni furono tutte, loro malgrado, ritenute; salvo che la
galera del Quirino, il quale, giudicando che il suo Generale veneziano
per la ragione di più alta giustizia e di comune utilità gliel
consentisse, volle contro il divieto di don Giovanni andare appresso a
Marcantonio.[434]

Così il generale romano, e luogotenente della lega passò avanti
di tutti gli altri tre miglia; laddove vedendo con gli occhi suoi
manifestamente che il nemico fuggiva, sparò li due tiri: e non per
questo don Giovanni si mosse. Voltarongli però la faccia nove galere
turchesche, sdegnose di vederselo appresso così solo in mezzo al mare
a sparare cannonate: e sarebbesi quivi fatto disperato combattimento,
perchè Marcantonio intrepido aspettavale, se il Quirino, rimandato
indietro da lui, non avesse ottenuto da don Giovanni che si avanzassero
seco due galere di Malta e cinque del Re, alla vista delle quali le
turchesche ripigliarono la fuga, inseguite sempre e cannoneggiate da
Marcantonio sin sotto la fortezza di Modone.

Io lascio a voi il ripensare da questi fatti quale esser dovesse
l’animo di sua Altezza e dei suoi consiglieri contro i Turchi in
quel giorno e nella notte precedente: e, toccando di volo i minori
incontri per non tenervi a tedio, ometto le prove di egregio valore
che Marcantonio dette nell’affrontarsi là sotto Modone con alcune
galere nemiche, e nel farle investire in terra, ed anche nel tentare
di pigliarsene due incagliate sotto la stessa fortezza, donde i Turchi
sfolgoravano di tutte le loro artiglierie contro lui solo. Concludo
però che la giornata del diciassette settembre tale doveva essere per
la lega quale era stata quella del sette d’ottobre.[435] Ma arcani
ordinamenti, traendo l’armata di don Giovanni nella notte fuori di
via, e nel giorno fuori di senno, permisero al nemico d’andarsene,
di ricongiungersi e di mettersi in salvo. Or prenda cui tocca a suo
carico il lento movere, il simulato navigare, il falso vedere, e il
non inseguire; che quanto a Marcantonio bisogna concedere che mostrò
come sempre, così quel giorno, esser schifo di simulazione e di
vigliaccheria.


XVI. — Ritirate che furono le galere dei nemici a Modone, sopravvenne
lenta lenta presso al medesimo porto tutta l’armata con don Giovanni,
che in quel giorno, come ne dicono il Caracciolo ed il Sereno, aveva
fatto sempre vogare a quartieri.[436] La qual parola quartieri non
è stata quivi messa a caso dagli esperti capitani, ma pensatamente:
perchè fosse intesa da chi si conviene. Laonde ben fecero gli editori
di Montecassino a fiutare che quivi il loro Sereno abbisognava di
chiosa, ma andarono fuori del seminato nel volergliela fare mal a
proposito.[437] Perchè il vogare del testo non tocca nè al fil del
timone, nè al vento tra la perpendicolare o il traverso, come essi
dicono, fermandosi alle prime parole del dizionario. Vogare è dar
dei remi in acqua, non di vele al vento, nè di filo al timone. Perciò
con buona loro licenza mi bisogna ricordare che quartiero significa
propriamente la quarta parte, e spesso per analogia la terza o la
quinta di ogni cosa: quindi i tre scompartimenti d’una galera, presa
per lo lungo da ruota a ruota, chiamavansi quartieri di prua, di
poppa, e di mezzanía. Onde, vogare a quartieri significava remigare con
sola una parte del palamento; ora con quello di prua, ora coll’altro
di poppa, ora col terzo di mezzana;[438] tanto che riposandosi gli
uni di qua, travagliavano gli altri di là; a vicenda toglievano e
lasciavano il remo, ed a vicenda aveano riposo e fatica. Insomma era
un vogar lentamente con pochi remi. Ed usavasi tanto per dar fiato
alle ciurme a fin di mantenersele vigorose in procinto di battaglia,
quanto per non essere troppo presto in alcuna parte ove non mettesse
conto. Dunque dicendo quei maestri che don Giovanni il diciassette
settembre aveva fatto vogar a quartieri, vogliono farci intendere
che veniva senza fretta, e che copriva la lentezza sotto colore di
riposar le ciurme pel caso della battaglia. Spiegano eziandio (tanto
è feconda la verità) le opere dei navigatori coll’arte del navigare; e
viceversa l’arte coll’opere. Anzi mi si permetta che dal detto innanzi
ne deduca per conseguenza necessaria che quella notte e quel giorno
fu bonaccia, o poco vento: perchè altrimenti nè la notte sarebbero
andati a remo, nè il giorno a quartieri, nè il piloto a trattenersi
per via, nè Marcantonio a raggiugnere tanto da vicino i nemici, nè
questi a voltarglisi contro, nè il Quirino avanti e indietro, nè i
Turchi fuggirsene lasciando altri a dubitare se si movessero in su o in
giù: segno certo che niuno alzava la vela, e notizie bellissime che al
bisogno si possono cavare da quei diligenti scrittori, perchè viemeglio
si confermi l’impossibilità dell’errore, e la certezza che si adoperava
a malizia.

Giunti a Modone, indarno Marcantonio rappresentò che, senza dar tempo
ai nemici, si dovesse di presente a viva forza entrar nel porto, e
tra quelle angustie opprimerli siffattamente che non ne scampasse pur
uno. Indarno si offrì d’esser il primo alla prova, e indarno promise
certissimo effetto. Coloro che sempre erano a schifare i cimenti,
veduto quel luogo, cominciarono a chiamarlo invincibile: a diritta la
rocca sopra una rupe circondata dal mare, a sinistra le batterie sur
una collina, e in mezzo galere, soldati e cannoni a guardarne la bocca.
Altro non vollero per dire che pareva cosa piena di pericolo e quasi
impossibile entrare là dentro. E facendo conto don Giovanni, per esser
vari i pareri e l’ora già tarda, che non si potrebbe in quel giorno
pigliare alcun partito, ordinò che l’armata si ritraesse, e ne andasse
a dar fondo alla Sapienza: e che Marcantonio, pigliate otto galere
di vanguardia, codiasse il nemico, e si mettesse a suo piacimento
sulle vedette tra quell’isola e la Capraia. Nel qual tempo, disfatta
l’ordinanza e navigando ogni altro a suo talento, egli col predetto
antiguardo volle accostarsi a Modone per viemeglio riconoscere il
porto, la piazza e l’armata nemica. Se non che scontratosi là presso
con quattordici galere turchesche, prese a inseguirle: e con tutto che
quelle disperatamente fuggissero, era per raggiungerne qualcuna, e già
cominciava a bersagliarle col cannone, quando Luccialì, che stava in
punto per uscire, si mostrò con ottanta galere, non tanto a ricoverare
le sue quattordici, quanto a dar vista di coraggio, e a confondere
vieppiù i Cristiani che senza aver fatto nulla procedevano chi qua chi
là disordinati.

Ondechè don Giovanni fu costretto a voltar la faccia, ma il fece con
tanta confusione che Luccialì l’avrebbe rotto se fosse stato pronto
ad assalirlo.[439] Avendo però costui tardato, per la paura che
soppanno agghiadavalo, sapendo che la ruina sua sarebbe certa se i
Cristiani pigliassero ardire, contento di averli con siffatto badalucco
sgomentati, prese a ritirarsi in quella che i nostri si rimettevano:
e non lasciando mai di trar cannonate, rientrò nel porto che erano due
ore di notte.

  [18 settembre 1572.]

Don Giovanni allora si allargò sino a venti miglia da Modone, e aspettò
in giolito il nuovo giorno. Venuto il quale, si rifece innanzi al
porto, provocò in più modi il nemico alla battaglia; non ebbe risposta.

Chiaro era che Luccialì, secondo si legge di Fabio Massimo, intendeva
a temporeggiare, a confondere gli alleati, e far le viste non le prove
della guerra, insomma a vincere senza combattere. Ciò non per tanto
sua Altezza e i suoi si lasciarono prendere a quelle arti: e quando
avrebbero dovuto tirarlo per forza alla giornata, in quella vece se ne
andarono a rinfrescar l’acquata.

Una delle grandi necessità che spesso stringeva le galere, era la
provvisione dell’acqua: imperciocchè questa specie di navigilio non
potendo imbarcar vasi di gran capacità, doveva usare i barili. Che
sebbene industriosamente ripartiti, senza ingombrare nè il ponte di
sopra nè le camere di sotto, ma in quella vece allogati a tre a tre
sotto ai banchi dei remieri, giungessero al numero di quasi dugento
barili in ciascuna galea; tuttavia per la gran moltitudine delle genti,
e l’arsura che provavano nella fatica, non fornivano bevanda più che
per dieci o quindici giorni: dopo i quali, fosse pure in paese nemico,
bisognava accostarsi a terra, e da qualche ruscello o fontana attigner
acqua: e sovente battersi ancora con quelli che venivano ad opporsi.
Perciò si sbarcavano primamente drappelli di archibugieri più o meno
numerosi, secondo il bisogno; e quando di qua e di là della sorgente,
spiegatisi alla campagna avevano abbracciato le alture circostanti,
allora scendevano le ciurme per acqua.

Così il diciotto settembre l’armata della lega mosse verso la fortezza
di Corone, salutolla di buon mattino con alcune volate d’artiglieria,
e, scorsa dieci miglia più oltre ad un fiumicello, sbarcò quasi tre
mila fanti spagnuoli sotto il conte di Landriano, e cominciò l’acquata.
Ma avendo il conte svolte le maniche degli archibugieri sul piano,
attorno alle siepi e alle macerie di certi giardini, e non avvertito
di guadagnare una villa che da presso gli sovrastava, ecco venirvi
speditamente per la via di terra con tre mila giannizzeri e cento
cavalli l’istesso Luccialì, diligentissimo a cogliere l’occasione
che gli si offriva. Dì là caricò più volte sui nostri, e sempre
mantenne viva la scaramuccia, che per essere il luogo pieno d’alberi
durò sei ore. In capo alle quali, avvisato don Giovanni che gli
Spagnuoli cominciavano a cedere, vi mandò Paolo Sforza con una mano
d’Italiani a sostenerli sino a notte, che si terminò il travaglio degli
acquatori.[440] Morirono in questa fazione da una parte e dall’altra
molti soldati e capitani, tra i quali Alessandro Strozzi e il cavalier
di Bazan; avendo pur corso pericolo Alessandro Farnese, che con molti
cavalieri del suo seguito vi fece prove di gran valore.

  [19 settembre 1572.]

Rimbarcate le genti nella notte, rimenò don Giovanni l’armata a Modone;
donde le galere nemiche non s’erano punto mosse. Rivide alla prima luce
del giorno la gran selva d’alberi e d’antenne che là sorgevano, e il
prese vaghezza di accostarvisi e considerarne da presso la postura.
E perchè la capitana di Marcantonio s’era mostrata in tanti riscontri
agile, sicura e forte più ch’ogni altra dell’armata, volle sua Altezza
montare in quella, col general veneziano e cogli altri del consiglio,
e senza galere d’accompagno scorrere sin quasi alla bocca grande del
Porto, tra l’isola della fortezza e la spiaggia.[441] Colà stette
alquanto a riguardare le dugento galere ottomane ormeggiate in tre
file, colle poppe a terra, la tenda fatta, e la fronte difesa dalle
stesse loro artiglierie; egualmente che i fianchi dalla fortezza sulle
rupe di ponente, e dai ridotti sulla collina di levante. Sua Altezza e
i consiglieri sclamavano, che l’armata nemica era bene alla posta.

Stando adunque in queste ed altre molte considerazioni, ecco uscir
dalla punta del molo quindici galere, che guizzando fuor fuori venivano
per metterlo in mezzo e tagliargli la ritirata: ondechè sua Altezza
diè volta indietro, dicendo che prima di mettersi al pericolo di
assaltar là dentro un nemico così bene afforzato si doveva deliberare
l’impresa co’ voti di tutti. Così fece chiamare a consiglio nella
sala dell’istessa capitana[442] oltre i generali di Venezia e del
Papa, i consiglieri privati, i provveditori, i condottieri, e insieme,
il principe di Parma e il duca di Bracciano: e dette principio al
parlamento con quella diversità di pareri stata sin allora consueta.

Gli Spagnuoli tenevano per impossibile assaltare l’armata ottomana nel
porto di Modone: e in quella vece proponevano di tornare al Zante,
ripigliar le navi, rinfrescar le vettovaglie, e governarsi poscia
secondo che metterebbe conto.[443]

I Veneziani chiamavano codardia la ritirata al Zante, non acconcia
se non a crescer baldanza ai nemici e a dar pretesti a chi cercava
di non far altri conti. Niuna battaglia navate, dicevano, potersi
combattere ove non era l’armata nemica; nè alcuna impresa di terra
tentare ove quella poteva da un momento all’altro sopraggiugnere.
Come difenderebbero l’armata senza soldati? e come piglierebbero le
fortezze senza sbarcarli? Venissero adunque le navi dal Zante a Modone;
troverebbero la via sicura ed aperta. Basterebbe un messaggero ed
una lettera, senza che capitani, generali, soldati, e tutta la lega
andassero a chiamarle. E dappoichè il nemico era stretto e bloccato in
Modone, si deliberasse non il modo di abbandonarlo, ma di offenderlo.

Marcantonio risolutamente affermava che le batterie e le difese di
Modone in altri tempi e con altra gente potevano forse credersi
difficili a superare; non allora con quei Turchi che dentro vi
stavano fuggitivi, pieni di paura, invalidi, e trepidanti alla fresca
memoria di tante sconfitte; non allora che all’incontro stavano uomini
prodi, esperti di guerra, usi a vittorie, e pieni di grandi speranze.
Mostrassero gli alleati coi fatti più che colle parole il poco conto
in che si doveva tenere quella gente raunaticcia ed inesperta, che non
mai ardiva venire a battaglia. Si provassero ad assalirla nel porto:
e vedrebbero che coloro, non avendo nè animo di combattere, nè modo di
resistere, ma solamente comodità di fuggire in terra, al primo abbordo
lascerebbero in abbandono i loro vascelli, e metterebbero la piazza in
tal disordine, che i vincitori, come già a Tunisi, piglierebbero a un
tratto l’armata e le fortezze.[444]

E tale senza fallo sarebbe stato l’effetto del suo consiglio quale
egli prediceva: perchè gli esploratori e i rinegati sin d’allora
rapportavano quel che dappoi meglio si venne a risapere, che Luccialì
disperava di salvar l’armata sua, essendo di soldati e di remigi
mal provvista, piena di avvilimento, e oppressa dalla fame: e che
quantunque richiamato dal Sultano, non ardiva partirsi, temendo non
forse gli alleati il raggiungessero per via. E più volte pensato aveva
o di abbandonar secretamente l’armata e con pochi ripararsi in Algeri,
o di fuggire in terra con tutti i suoi e lasciare i vascelli in poter
dei Cristiani, cui pensava vedere più anche in quell’anno che nel
precedente vittoriosi.[445] E mentre egli seco stesso tenzonando in
grande amarezza deplorava la sua trista sorte e l’imminente pericolo
che gli sovrastava o dai nemici o dal padrone,[446] allora la stoltezza
o malizia dei consiglieri venne in suo soccorso e il rese fuor d’ogni
sua opinione vincitore.

Perocchè quasi tutti, per sino i Veneziani, impensieriti al pericolo,
e trepidanti per l’autorità e pel numero degli oppositori, esclusero
il partito di Marcantonio.[447] Grande sventura! Non era pari alla
potenza degli Spagnuoli la sincerità; nè pari alla prudenza dei
Veneziani l’ardire. Per manco di sincerità e d’ardimento, non vi ebbe
chi sostenesse il partito salutifero del romano campione. Nè questi
sel recò ad offesa: anzi sommesso alle leggi dell’alleanza, ed ai
voti degli altri due generali, smise il primo disegno; e, riguardando
alla pianta della città, del porto e dei rivaggi di Modone, un altro
ne svolse da produrre ugualmente buon effetto. Far campo attorno
alla terra; ed espugnata la piazza, impadronirsi dell’armata. Per la
qual fazione bisognandogli avere un giusto esercito alla campagna, e
l’armata in punto sul mare, fece seco le ragioni del condurre l’una e
l’altra bisogna; così che sbarcando dodici mila uomini ne avrebbe assai
per l’assedio, e gliene resterebbero ventimila sull’armata (cento per
galera) bastevoli a sostenerla. Che se si volesse condurre l’armata
medesima quivi presso nel porto di Navarino, chiusa la bocca colle
galeazze e colle navi, starebbe sicura da qualunque insulto di nemici
e da ogni fortuna di mare; e darebbe eziandio calore all’assedio.
I dodici mila, traendo seco vittovaglie e artiglierie, andrebbero a
porsi sul colle di Santaveneranda, vicino o per dir meglio a cavaliero
sulla fortezza e sul porto; donde già prima combattendo avevano i
Turchi tolta la terra ai Veneziani, e donde (come altrove si dirà)
Romani e Veneziani la ritolsero ai Turchi. Quivi avrebbero acqua
in gran copia, che da inesauste sorgenti vi rampolla, vittovaglie
abbondanti dall’armata, e più anche dai Greci del contado; con che
risparmierebbero le proprie e torrebbero quel sostentamento ai nemici.
E venendo al modo di eseguire il suo disegno, prese a considerare
che, sbarcando i dodici mila nel porto di Navarino, resterebbe sicura
l’armata; ma l’esercito avrebbe a camminar quindici miglia di strada
difficile all’artiglieria, e sovente aperta agli assalti dei cavalli
nemici: e in quella vece, sbarcandoli alla spiaggia sotto il colle di
Santaveneranda, l’esercito andrebbe sicurissimo a campo; ma le galere
correrebbero pericolo di essere in mal punto assalite da Luccialì.
Perciò schivando l’uno e l’altro inconveniente si dovrebbe pigliare
una via di mezzo: metter prima l’armata a Navarino; e all’improvviso
venire con cinquanta galere delle migliori e con tutti i palischermi
e fregatine a sbarcare il detto numero di soldati a due miglia da
Modone, in una valletta chiamata Mauria: ma di notte, in silenzio e
con prestezza tale, che fatto lo sbarco in un ora, quando pur Luccialì
se ne addasse, non potesse aver tempo nè d’impedire che l’esercito non
salisse a Santaveneranda, nè che le cinquanta galere non ritornassero
sicure a Navarino.[448]

Mirabile fecondità di mente! A lui tanto era facile trovar sempre nuovi
ed ingegnosi partiti, quanto ad altri l’udirli raccontare. Egli in un
giorno, e son già tre secoli, spiegò a Modone quella tattica sublime
onde crebbe la rinomanza di Bonaparte a Tolone, di Nelson ad Abukir, e
dei tre grandi ammiragli quivi stesso a Navarino. Ma non per questo se
ne contentavano i prudentissimi consiglieri privati: anzi, dopo aver
impedito l’assalto del porto, non potendo opporsi all’assedio della
piazza, prendevano a ridir sul modo proposto da Marcantonio, e gli si
contrapponevano col voto del marchese di Santostefano. Questi divisava
che di pieno giorno tutta l’armata si dovesse mettere tra l’isola della
Sapienza e della Capraia; di là muovere e sbarcare i dodici mila, non
sulla diritta di Modone per a Santaveneranda, ma sulla sinistra al
piè della Collina fortificata; e quivi presso rimanere schierata in
battaglia: le fanterie dalla spiaggia dovessero assalire la Collina; e,
potendola pigliare, fortificarsi in quella: quindi scorrere sul Monte
appresso; e di là, scoprendo a giusto tiro l’armata nemica nel porto,
prendere a offenderla. Che se altrimenti non riusciva lo sbarco, nè
l’assalto della Collina e del Monte, allora si richiamerebbero a bordo
le fanterie, e si darebbe volta per l’Italia.[449]

Se non che il General veneziano, non tanto commosso dal finale
proposito di ritirarsi in Italia, quanto dalla vanità del progetto del
Marchese, prese a parlare, dicendo: Che ben si poteva salvar l’armata
a Navarino, sbarcar di notte i dodici mila, ricoverar le cinquanta
galere, mettersi a Santaveneranda, e di là pigliar Modone, secondo
l’avviso del signor Marcantonio; ma che non sarebbe mai possibile di
pieno giorno, sopra spiaggia aperta, in faccia al nemico, sbarcare
senza ostacoli dodicimila uomini, e il parco dell’artiglieria; e
quandochè riuscisse, per fortuna dei Cristiani o per negligenza
di Turchi, restavano troppe Colline e Monti a superare, troppe
fortificazioni a vincere, e troppa sete a patire in quella parte priva
d’acqua, e solo guarnita di bocche a fuoco: e che nè anche l’armata
cristiana potrebbe a piacer del Marchese fermarsi in battaglia
a rimpetto di Modone, perchè discacciata di là al primo scirocco
dovrebbe andarsene, lasciando l’esercito disperato di ritirata e di
soccorso.[450] Tra questi e molti altri ragionamenti, dibattendosi
lunga pezza i capitani, n’andò la giornata, e si sciolse il consiglio,
senza aver ferma alcuna deliberazione. Don Giovanni o non seppe o non
volle concludere, nè troncare il filo alla diversità delle sentenze.


  [25 settembre 1572 ]

XVII. — Quando ecco, per dar tregua alle altrui ed alle nostre
melanconie, un cotal architetto di oscura fama, per nome Giuseppe
Buono, messo all’armata dal duca Cosimo (gran partigiano della corte
di Spagna)[451] offerirsi di costruire alcune batterie galleggianti
con che facilmente piglierebbe Modone. Approvò don Giovanni che
si fabbricassero le macchine, e dette il carico di sopravvederle a
Marcantonio, come a colui che pel desiderio di buoni effetti si metteva
volentieri ad ogni travaglio. Primamente il Buono richiese sei galere
per farne tre batterie, e Marcantonio propose che si piglierebbe
secondo la rata di ciascuno nella lega: tre di Spagna, due di Venezia,
ed una del Papa. Ma i grandi personaggi che per parte del Re stavano
con don Giovanni, dopo aver consentito al disegno delle macchine,
cominciarono a farne poco conto; ed a volere che prima se ne tentasse
la prova con due sole galere dei Veneziani.[452] Contentandosene
il Foscarino, le due galere vennero in mano al Buono: disarmate,
disalberate, rase di tutta l’opera morta, strettamente incatenate l’una
coll’altra; sopra la coperta da poppa a prua gran piazza di tavole
massicce; attorno il parapetto di gabbioni e fascinotti terrapienato
per di dentro, dodici palmi alto, quattordici profondo; la piattaforma,
e sopra quella otto cannoni in batteria, sei di fronte e due per
fianco. Ed affinchè la macchina al gran peso non profondasse, il Buono
vi metteva sotto e di costa due file di botti vuote; e similmente
dentro nella stiva da poppa a prua altre botti quante più ve ne
capissero: talchè se mai l’artiglieria nemica rompesse in qualche parte
la macchina, non per questo affondasse.

Con tuttociò pesava tanto, che appena reggevasi a galla: e quando
ne sparavano i pezzi immergeva il rostro nel mare. Laonde quel gran
successo che si sperava, e che erasi pur veduto venti anni prima nella
espugnazione d’Afrodisio,[453] non era a vedersi in quel di Modone.
E ritirandosene ciascuno, come per vergogna, restava là soltanto
Marcantonio a sorvegliare il lavoro, secondo l’ordine di sua Altezza;
ed a beccarsi la taccia di intendere alle vanità, e di mettere a
pericolo la gente del Re: quando dall’altra parte i Veneziani in
peggior condizione si dolevano di aver perduto due galere, e patito
altri danni, e vista l’opera abbandonata alla metà da chi non voleva
metterci nè tavole, nè corde, nè portar la terra, nè dar mano a
compirla o a ripararla.[454]

  [27 settembre 1572.]

Passati col pretesto di siffatto lavoreccio nove giorni, arrivarono dal
Zante le ventotto navi che don Giovanni aveva mandato a richiamare.
Crebbe con esse la forza dell’armata, ma non il sostentamento della
guerra. I marinari si aspettavano guazzare nell’abbondanza della
Sicilia, unico granaio donde si potessero trarre i viveri dell’armata;
i capitani per le promesse del provveditore di Spagna don Giorgio
Manriquez si aspettavano sette mila soldati, e vittovaglia per due
mesi: ma non erano più che due mila fanti, parte del Re, parte della
Signoria, e tanto poca e così cattiva panatica quanto malamente poteva
bastare cinque giorni: tutta roba di mazzamurro.[455] Sicchè alla
diversità dei pareri, al non potersi far macchine, e a tante altre
difficoltà, aggiungendosi a grado a grado la penuria del vivere, e
la stagione facendosi di giorno in giorno più trista, tutti colà
fluttuavano. Più d’ogni altro don Giovanni: che smarritosi nelle
contraddizioni, nè sapendo più tra que’ suoi consiglieri cui credere,
dubbioso tra lo stare e l’andare, tra il desio d’aver Modone e la
vergogna di non prenderlo, qua mormorazioni delle genti, là querele dei
Veneziani, non trovava loco a risquitto. Gran testa quel re Filippo,
che sapeva confonderli tutti; da vicino e da lontano, in vita e dopo
morto.

  [30 settembre 1572.]

Finalmente parendo a don Giovanni ed al General veneziano che per
allora non si poteva far altro a Modone, essendosi troppo nei pubblici
e privati discorsi inaspriti gli animi, e non avendo ardimento nè di
seguire Marcantonio nè di opporsi al gran consiglio, pensarono operare
per diversione, e mettersi all’assedio di un castello che i Turchi
avevano al lato destro del gran porto di Navarino, di che portava il
nome.[456] Era Navarino in quel tempo una piccola terra, malamente
fortificata, senza fossi e senza baluardi, con solo un muro attorno,
e qualche torre e qualche fianco all’antica; non aveva altro vantaggio
che di sorgere sopra una rupe a guardia della bocca minore del porto,
senza poter impedire il passo a chi vi entrava per la maggiore. Tale
era questo luogo, prima che Luccialì lo fortificasse alla moderna, e
in onta a don Giovanni vi costruisse quella nuova fortezza di che avrò
con miglior successo altra volta a trattare. Ora dico che, alla prima
parola di Navarino, tutto il Consiglio fece plauso. Non v’ebbero più
nè Colline, nè Venerande, nè scirocchi, nè altra difficoltà: si fece
pressa a partire. Alli trenta di settembre don Giovanni sbarcò quattro
mila Spagnuoli del Padiglia e del Moncada, cinquecento Papalini del
Bonelli, cinquecento Veneziani di Paolo Orsini, quasi mille nobili
avventurieri sotto Girolamo Acquaviva duca d’Atri; e postili tutti al
comando di Alessandro Farnese (che tanto poi rese chiaro il romano suo
nome nelle campagne di Fiandra e nell’assedio di Parigi), mandolli
con diciannove cannoni a pigliar Navarino. Il Padiglia, ordinato a
guidar l’antiguardo e ad investir la piazza, se le accostò nella notte:
con poca fatica occupò una tra le due strade: ma non avendo atteso
all’altra, e ciò contro al parere del conte di Sarno, fu cagione che
il giorno seguente per quella via entrasse nella fortezza l’istesso
Luccialì. Il quale, cavatine i vecchi, le donne, i fanciulli, empito
tutto di vittovaglie, e postivi dentro sceltissimi soldati, sventò
a un tratto il disegno della lega.[457] Indarno si dette mano agli
approcci, indarno a far salir l’artiglierie, indarno ad aprire il
fuoco delle trincere: i difensori con arditissime sortite e col
trar continuo li rimboccavano. Alle quali cose aggiungendosi tristi
tempi, e dirottissime piogge, e per tutto il campo una voce, che si
dovesse levare l’assedio, altrimenti sarebbe succeduto qualche gran
sinistro, tanto più che i Turchi si facevano vedere alla campagna con
grande assembramento di fanti e cavalli, don Giovanni deliberava di
abbandonare l’impresa, quantunque vi fosse impegnata la riputazione
sua, e l’onore delle armi cristiane. Sempre le discordie dei capitani
confondono, e i timidi consigli conturbano la mente dei soldati.

  [5 ottobre 1572.]

La notte dopo il quattro di ottobre si cominciò a ritirar
l’artiglieria, appresso il bagaglio, l’esercito, i capitani. E parendo
bene a don Giovanni che quei signori fossero aiutati a scendere,
fece venir in terra Marcantonio a dar loro la mano. Egli che per
natura odiava le fazioni non compite, ed allora sentiva vivissimo
il dispiacere di trovarsi testimonio di tanta vergogna, dovendosi
così grande armata ritirare da sotto una roccaccia, pur si mise alla
coda delle colonne nella loro contrammarcia; sempre difendendole e
sempre combattendo contro la cavalleria nemica che lo accompagnò sino
alla spiaggia, sino ai palischermi, sin quasi sotto al tiro delle
galere.[458]


  [7 ottobre 1572.]

XVIII. — Fatta l’acquata a Portogiunco, che è l’uno dei sorgitori
dentro il golfo Navarino, e terminato l’imbarco con quell’avvilimento
che a siffatti disastri va sempre congiunto, si trovarono per
soprassello quasi affamati. Tanto di vittovaglia per le piogge, pel
trasporto, e per lo sciupío s’era consumato in sei giorni al campo,
quanto sarebbe bastato per venti giorni in mare. Di che sgomentandosi
ciascuno, massime gli Spagnuoli, cominciavano a parlare del ritorno:
e don Giovanni stava già per mettere il segno di far vela con tutta
l’armata verso l’Italia, quando gli rammentarono la mattina del sette
ottobre, che quello era il primo anniversario della gran vittoria: e
che si doveva con qualche prova di valore celebrare. Il perchè deliberò
rivolgersi un’altra volta a Luccialì, appunto allora che costui, reso
ardito dalle nostre miserie, e dal niun frutto della lega in quella
campagna, era uscito di Modone, e se ne veniva codiando alla larga
l’armata cristiana. Nel qual tempo essendo comparsa in alto mare una
nave veneziana che, partita dal Zante col pieno carico di vittovaglie,
era stata prima spinta dal vento al Cerigo, e di là se ne veniva a
Navarino, entrò Luccialì nella speranza di poterla predare, avanti
che don Giovanni avesse tempo a difenderla. Per ciò spinse a quella
vôlta venticinque delle sue migliori galere, ed egli stesso con tutta
l’armata si mise in punto per sostenerle. La qual cosa divulgatasi a
Portogiunco, e riferita a don Giovanni, fece nascere un subito e pronto
movimento delle galere cristiane, che alla sfilata, come meglio si
trovavano, uscivano fuori, e arrancavano verso terra per cacciare al
largo le venticinque galere nemiche. Marcantonio divisava affrontarle,
e tanto trattenerle che il marchese di Santacroce potesse tagliarle
fuori dell’armata loro. E don Giovanni si ordinava appresso per essere
pronto alla giornata, qualora Luccialì si fosse avanzato a proteggere
i suoi. Ma il corsaro che non voleva perdere con una battaglia ciò che
aveva fin allora guadagnato senza far nulla, richiamò di presente le
venticinque galere; e si rivolse a fuggire verso Modone.

In quello scompiglio dei nemici le migliori nostre galere, la capitana
di Marcantonio, del Cardona, del Caneletto, del Santacroce, e di Malta
si misero in caccia, gareggiando tra loro per ghermirne qualcuno:
ma tanto erano lontani e così prestamente smucciavano e tanto da
presso avevano il porto, che sarebbero i nostri tornati addietro
senza alcuna presa, se in una di quelle galere, capitanata da Mahamud
nipote di Barbarossa, gli schiavi cristiani in numero di duecento,
rivoltandosi contro di lui non avessero gettato i remi e fermato il
naviglio, perchè il marchese di Santacroce, che davagli la caccia, se
lo pigliasse. Mahamud resistette combattendo sino alla morte, alcuni
degli schiavi cristiani restarono massacrati al primo rumore, gli altri
ricuperarono la libertà, ed il Marchese ritornando con quella preda
fu ricevuto a sommo onore da don Giovanni e con infiniti applausi dai
cortigiani.[459] Gran miseria sfamarsi di briciole.

Allora dalla concorde testimonianza di dugento persone si venne meglio
a confermare come Luccialì era pien di spavento, e non fidava rimenare
l’armata a Costantinopoli, per quanto il Sultano lo richiamasse,
temendo esser nel viaggio sopraggiunto dai Cristiani. Di più che se
i nostri lo avessero assaltato la sera del diciassette settembre,
certamente pigliato avrebbero l’armata sua; perchè egli, pensando
non poter resistere, aveva fermo di salvarsi a terra, e fuggire. La
stessa deliberazione dicevano aver fatta il giorno diciannove, quando
gli si presentò la battaglia nel canale della Sapienza. Riferivano
inoltre che durante l’assedio di Navarino egli ogni dì entrava nella
fortezza e ne dirigeva le difese. E che sebbene gli fosse arrivato
alcun rinforzo di gente e rinfreschi di provvigioni, non per questo
si trovava fornito a dovere; ma anzi in molta penuria, e più pieno di
timore che di speranza. E per tutte queste ragioni essi, sebben schiavi
alla catena, avevano preso animo a rivoltarsi. Donde era a concludere
che con alquanto più d’ardire, secondo il parere di Marcantonio, si
sarebbe potuto già molto prima per terra e per mare aver finita la
guerra. Tuttavia, tanto erano gli animi oppressi dal letargo e dal
privato consiglio, che senza cavar profitto da tutto ciò, non altro
ardimento prese don Giovanni se non di condurre l’armata davanti a
Modone, e di farla quivi vedere terribilmente al nemico. Là stette con
gran valore fermo alla mostra per tutta la giornata; finalmente stanco
di tanta bravura, per non aver più che mangiare, propose di tornarsene
in Italia. Marcantonio eziandio persuaso che a quel modo non si poteva
far nulla di bene, ma soltanto accelerare lo scioglimento della lega,
consentì alla domanda:[460] e il Generale veneziano, lieto altresì
di potersi ritirare senza aver colpa nella deliberazione, chinò la
fronte e si mise cogli altri; dicendo che il voto dei due era legge
per tutti. Di che l’Europa restò maravigliata, il Papa offeso, la
Repubblica oppressa, e l’armata piena di confusione. Grande il trionfo
di Luccialì. Intorno a costui furono in festa tutti i mussulmani, con
quella schiuma di malvagi cristiani, specialmente di Dalmatini e di
Spagnuoli che gli si presentavano ogni giorno per farsi, se forse già
prima non erano, turchi.[461]

Or non sarà che io lasci di trascrivere qui, almeno in parte, il
dispaccio di Marcantonio al cardinal di Como nel quale si contiene il
suo giudizio sopra questi successi, in questa forma:[462] «Per una mia
lettera delli due diedi conto a Vostra Signoria Illustrissima come si
era concluso di pigliar questo luogo di Navarino, et come se n’era data
la cura al signor principe di Parma. Vi è stato tanto poc’ordine nel
piantar dell’artiglieria, e nel munire il campo, et in ogni altra cosa
necessaria, et quel che più importa si è lasciato il transito libero
all’inimico di potere a sua posta di giorno e di notte rinforzare il
presidio, che stante il suddetto, et il mancamento delle vittovaglie,
si fece jer sera deliberazione di ritirare l’artiglieria et l’esercito,
con grandissimo dispiacere di tutti.... Parse anche conveniente che
il signor Principe fosse ajutato a ritirar l’artiglieria, et così
vi andai io; dove sono stato la notte passata et questa mattina....
Non si tenterà altro per quanto vedo in queste parti.... Ed ancorchè
si aspettino alcune navi di vittovaglie non può essere bastante;
dovendo esser molta quella che abbia da rimediare un’armata come
questa, quando viene a restarne del tutto sprovveduta, come questa
ora si trova.... Dio perdoni a chi da principio non ha voluto che
fosse possibile di offendere il nemico, e sono andati dando tempo
al tempo, con far macchine e aspettar navi, acciò il mancamento del
pane ci abbia poi escluso il tutto. La volontà di sua Altezza non può
migliorarsi.» _Cifra_. «Siamo stati sempre uniformi li tre voti, ed
in questa ritirata avendo parlato il signor don Giovanni ed io che per
la necessità del vivere il partito era forzato, il generale veneziano
disse: la risoluzione è fatta perchè li due voti bastano. Io replicai
che se le altre deliberazioni si erano prese sempre di comune accordo,
questa doveva essere più di tutte, perchè era forzata dalla necessità;
e che avendo io ordine da sua Beatitudine non solo di tardare ma
anche di procurare che sua Altezza sverni in Levante, dicevo che mi
pareva che stessimo: e che se loro avevano vittovaglie ce ne dessero,
che io per il mio voto dicevo che si stesse fermi. Rispose che egli
non replicava, nè contraddiceva. Io soggiunsi che giacchè non poteva
contraddire, doveva consentire: et non volere buttare in faccia ad
altri il carico del bisogno che era comune a tutti: perchè li soldati
di Nostro Signore che io avevo nelle sue galere si morivano dalla fame.
Et così afflosciò. Et oggi è stato da me a scusarsi mostrandomi la
terribilità della sua Republica; et dicendomi, che se io non venivo a
Corfù con quelle galere di Sua Santità, et del Re cattolico, lui aveva
ordine di andare a combattere l’armata del Turco, et che si sarebbe
perso in un tratto. Mi è parso che Sua Santità sappia la verità di
questo fatto.[463]

»Quello di che li signori Veneziani si possono dolere (levato il
passato)[464] è, che sua Altezza ne fece tornare a Corfù; che si venne
pigramente a trovar quest’armata, et che risolvendosi di dare all’alba
sopra l’isola della Sapienza (quando l’armata turchesca era in questo
Porto) dessimo in quella del Prodano. — Da Porto-Giunco la sera del 7
ottobre 1572.»

Or dunque, messe anche da parte le ingiurie del tempo passato in tre
anni di guerra, e prese sol queste più recenti degli ultimi due mesi,
avevano pur di che dolersi i Veneziani. La volontà di sua Altezza non
poteva migliorarsi. Vedi destrezza nello scegliere la sua frase: non
dice con questo che la volontà di lui sia cattiva, non dice che sia
buona; soltanto dà per impossibile che si muti in meglio. Dunque non
aveva più volontà. Soltanto doveva patire che a libito altrui andassero
per sempre le cose al modo stesso; che si lasciasse la briglia sciolta
al nemico, e che gli amici fossero abbindolati dal Cerigo sino a
Corfù; che il tempo migliore si perdesse; che fosse offeso Marcantonio,
minacciato Gil d’Andrada, dispregiato il generale di Venezia; patire
che pigramente si andasse a cercar la battaglia, che invece di aver
la vittoria alla Sapienza si andasse a perdere ogni cosa al Prodano;
che a Navarino si accattasse vergogna; che a lui venuto per ultimo dai
granai della Sicilia mancasse dopo un mese la vittovaglia, non mancata
agli altri nell’anno; patire di venir tardi e mal provvisto, che i suoi
commissarj entrassero col vanto dell’abbondanza e poco dopo scoprissero
i cenci della miseria; che i suoi consiglieri promettessero vittorie
senza battaglie, e tutti insieme mettessero difficoltà in ogni cosa,
men che nel ritorno. E così lasciare abbandonati i Veneziani innanzi al
nemico cresciuto di potenza e di riputazione.[465]

  [18 ottobre 1572.]

Con questi patimenti dell’una e dell’altra parte in broncio navigarono
di ritorno. Ed al turbamento degli animi rispondendo le tempeste del
mare, tra le dirotte piogge, il fragor dei tuoni, ed il folgorar delle
saette, andarono afflitti e dimessi dal Zante al Viscardo, e più oltre
alle Gomenizze, ed a Corfù. Mancò la galera san Pietro del Papa: che
scorrendo alla vela, menata da gagliardo scirocco, sulla prima guardia
dopo la mezza notte del giorno diciotto di ottobre, investì sulla secca
che è presso l’isola di Paxo.[466] Metà della galera salì di prua sul
banco, metà di poppa si sommerse, e nel mezzo si sdirenò: affogarono
più che cento persone. Il cavalier di Sangiorgio che n’era capitano,
tutti gli ufficiali, e trecento altri si salvarono sulla prua: passando
di là due galere furono tirati a salvamento. La mattina seguente
Marcantonio dalle Gomenizze mandò monsignor Grimaldi commissario con
tre bastimenti a ricuperar ciò che avanzava del naufragio: ma il mare
grosso, lo scirocco gagliardo, e lo sfacelo della nave non permisero
che si ricoverasse altro se non l’artiglieria, e qualche parte degli
armeggi: il resto andò in mano ai rapaci che poco dopo quivi si
gittarono per bottino.[467]

Raccoltasi finalmente l’armata nel porto delle Gomenizze, ecco
sopraggiungere il Morillo, regio provveditore, con cinque navi spagnole
cariche di vettovaglie, ecco nove galere di Spagna col cavalier Vasquez
de Coronado, e insieme Giannandrea Doria con cinque galere sue, il duca
di Mondragone, Gabrio Serbelloni, il Figueroa, tre mila soldati,[468]
e sopra ogni altro il signor don Gonzalo Ferrante di Cordova duca di
Sessa, venuto colà con tutta quella provvisione e compagnia non già
per confortare i collegati alla guerra, nè per reprimere i nemici, nè
per mettersi ad alcuna impresa, nè per unirsi, o come essi dicevano
incorporarsi all’armata; ma per disciogliere l’unione, e per sollecitar
don Giovanni a tornarsene presto in Sicilia.[469]

Il perchè, reclamando indarno i Veneziani, e indarno offerendosi
Marcantonio a svernare in Levante se restassevi l’Altezza sua, o almeno
qualche squadra di galere spagnole, perchè vi si vedesse la forma
di Lega, don Giovanni con poco onore, senza salva, e senza segno di
allegrezza, molto diversamente dalle altre volte, partissi da Corfù.
Alli venticinque entrò in Messina. Marcantonio poco dopo ricondusse
le genti del Papa a Civitavecchia.[470] I Veneziani restarono soli
a fronte dei nemici. Niuno mai avrebbe nell’ottobre del settantuno
pensato che tale sarebbe stato l’anno appresso il ritorno dell’armata.


  [Novembre-Dicembre 1572.]

XIX. — Or io non voglio mettermi appresso a ciascun di quei capitani,
nè raccontare minutamente i viaggi e le pratiche in che si occuparono.
Bastimi per sommi capi raccogliere la venuta di don Giovanni a Napoli,
laddove nelle delizie, da altro fuoco che non di guerra nel giovanil
petto acceso, aspettava e temeva essere richiamato dal fratello.[471]
Brevemente ancora raccolgo il viaggio che Marcantonio per commissione
del Papa fece a Madrid, con animo non tanto di scolpare sè stesso
delle accuse di che gli invidiosi caricavanlo presso il Re, quanto
di convenire del modo col quale avesse l’anno venturo a trattarsi la
guerra. Nel suo passaggio ricevette grandissimi onori, tutti vollero
vederlo e festeggiarlo, per fino i suoi contrarj. Tanto la verità
vince sopra le menzogne, e la virtù sopra le passioni. In Genova ogni
ordine di cittadini, e l’istesso Giannandrea, quasi da occulta forza
condotti, furono a visitarlo.[472] Dal Re poi gratissimamente ricevuto
ed onorato, dopo spediti i negozii pubblici, e giustificata benissimo
la sua causa, fu confortato a tornarsene in Italia, ed a procurare
che l’armata per tempo potesse uscir fuori.[473] Al modo stesso il
principe di Parma, Paolo Giordano Orsini, il duca di Sessa, e gli altri
personaggi principali, in modo differente delle cose fatte e da farsi
discorrendo, si ridussero a Madrid. E il re Filippo, sì di tutti loro
che di Marcantonio e di Giannandrea lodandosi, ebbe a dire che: Quei
signori avevano molto sentito la passeggiata.[474] Cioè che menavano
gran rumore, non avendo per tutto l’anno fatto altro più che andarsene
a spasso.

Ma il passeggio delle armate, che al re Filippo dava materia di giocose
parole, quello per appunto rimescolava la bile dei Veneziani. Intesi i
successi della campagna ed i disgusti ricevuti del loro Generale, non
più secretamente ma in pubblico, per le piazze, domandavano qual mai
fine aver dovesse la loro miseria, da qual rabbia fosse compreso il
Senato, e per punizione di quali peccati nella mente dei consiglieri
fosse venuta tanta pazzia, che paresse loro di far cosa bella a
mostrarsi invitti contro tutte le avversità e contro tutti i mali, sol
che potessero mantenere la cara amicizia di quella corte che già tante
volte avevagli derisi, straziati, e traditi.[475] Da uomini prudenti,
com’erano, si guardavano dal suscitarsi contro l’ira personale del
Re terribile, menavano per buone più le parole che i fatti suoi, e
rovesciavano la colpa, gli sdegni, e le maledizioni sopra i ministri.
Dimostravano con molte ragioni che si troverebbe la Signoria meglio
d’accordo coi Turchi, che non con loro.[476] Di che inteso secretamente
il Senato, fu scritto a Marcantonio Barbaro, ambasciadore in
Costantinopoli. Costui, uomo di molte lettere e di molta virtù, sebben
dai Turchi sul cominciare delle ostilità posto in custodia, pure aveva
saputo per destrezza sua molto bene accomodarsi al tempo, e non ostante
la guardia e la prigionia, potuto sempre mandare e ricevere avvisi e
lettere anche in cifra per salvezza della sua patria: egli medesimo
ricevuta la commissione prese daddovero a trattar la pace col Sultano.

Ciò non pertanto i Veneziani si apparecchiavano più che mai alla
guerra, per esser pronti ad ogni successo nella nuova stagione. In Roma
il Papa disegnava accrescere il numero delle sue galere: già n’aveva
per opera di Marcantonio messe assieme da varie parti diciassette, e ne
cercava delle altre.[477] Per mezzo di Pompeo Colonna duca di Zagarolo
e di Concetto Matteucci da Fermo scriveva le nuove fanterie.[478] Da
Madrid il re Filippo, fermo ne’ suoi principi e fedele osservatore
delle formalità di corte, rinnovava solennemente con tutti i suoi
titoli le lettere di credenza per il congresso di Roma a quelli stessi
deputati Granuela, Pacheco e Zuñiga che avevano negli altri anni più
volte, massime nella chiesa della Minerva, cavato le lacrime a san
Pio.[479]


  [Gennaio-Marzo 1573.]

XX. — Con siffatti animi si ripigliarono in Roma le sedute; alla prima
delle quali volle esser presente il Pontefice. Ciascuno tornò al filo
di quelle ragioni, e di quegli scaltrimenti che aveva già altre volte
adoperati. Gli Spagnuoli a levar la guerra dalla Grecia ed a tirarla
in Africa, i cardinali a mantenerla contro il Sultano, ed i Veneziani
a chiedere che le forze degli alleati si dovessero accrescere, come
per certo crescerebbero quelle del nemico, che don Giovanni smettesse
il vezzo dell’assoluta padronanza, osservando o assente o presente il
voto degli altri due generali; e che nel mese di marzo, non più tardi,
l’armata del re e del Papa fosse pronta a Messina per mettersi in
campagna a guerra guerreggiata con forza e diligenza in tempo debito
secondo l’uso delle nazioni e la dignità del nome cristiano.[480] Le
quali proposte essendo in ogni parte conformi ai capitoli della Lega,
per quanto venissero contrastate dai cavilli degli Spagnuoli, e messe
a troppa tortura dalla minutezza dei Veneziani,[481] dovettero in
fine essere approvate da tutti: deliberandosi di comun consenso che
innanzi al primo d’aprile dovrebbe l’armata del Re e del Papa essere
a Messina, e di là senza indugio unirsi a Corfù coi Veneziani, per
cacciare di Grecia il nemico: le galere sino al numero di trecento si
accrescessero, e la guerra non secondo l’arbitrio di un solo, ma col
voto dei tre si governasse.[482]

  [4 aprile 1573.]

Ferme queste ed altre utilissime deliberazioni, uscito il mese di
marzo, ed entralo l’aprile, senza essersi ancora eseguito dagli
Spagnuoli nulla di ciò che era promesso:[483] ecco la sera del due
arrivare a Venezia il figliuolo dell’ambasciatore Marcantonio Barbaro,
e portare da Costantinopoli al Senato i capitoli della pace promessi
dal Sultano a suo padre, sotto la malleveria dell’ambasciatore di
Francia,[484] quando il doge volesse firmarli. Ai Francesi non piaceva
che Venezia si consumasse inutilmente nella guerra, nè che con essa
cadesse l’ultimo baluardo d’Italia in mano degli Spagnuoli.

Alli tre il consiglio dei dieci, ponderata da una parte la infedeltà
perpetua di Filippo, l’ingiuria di Andrea Doria alla Prevesa,
l’abbandono di Giannandrea a Cipro, la diserzione di quest’istesso
a Lepanto, le difficoltà del Granuela a Roma, le opposizioni del
consiglio privato a Messina, gli inganni della navigazione al Prodàno,
e le continue dilazioni, soprusi e menzogne; e dall’altra le condizioni
quantunque si voglia gravose, che il Sultano come se fosse vincitore
imponeva, deliberò piuttosto alla pace col Turco che alla perfidia
degli Spagnuoli affidarsi. La mattina del quattro il Doge, fatto venire
il nunzio del Papa, con lui in questa sentenza parlò.[485]

«Iddio onnipotente scrutator de’ cuori sa quanto noi sino al dì d’oggi
con ogni sforzo abbiamo procurato di mettere un freno alla prepotenza
del Turco. Egli pur sa che la grande giornata del settantuno non è
stata proseguita dalla Lega, e non ha prodotto l’effetto che doveva.
Egli sa che l’anno passato quando le forze marittime del nemico erano
ancor fiacche e noi pronti, il Re cattolico non ha fatto la parte sua:
e prima dette ordine a don Giovanni che non andasse in Levante, poi che
tardi venisse; e questi a vista dei nemici, o per deliberazione de’
suoi consiglieri, o per mancamento di biscotto, si ritirò senza aver
fatto cosa alcuna.

»Oggi il Turco si è riavuto, ha armato quattrocento galere, e fa sforzo
estremo d’esercito in terra a’ nostri danni. Cattaro, Zara, Traù,
tutta la Dalmazia è in pericolo; il nemico ha devastato le campagne;
noi non abbiamo che città assediate: Candia, il Cerigo e Corfù esposte
ai nemici; e quei popoli in stato di disperazione per le continue
molestie, il poco soccorso e la mancanza del pane. Noi dovremmo essere
già in campagna a fin di marzo: pure si vede col fatto che non giovano
ad assicurarci nè i capitoli della lega giurata, nè le deliberazioni
del congresso a Roma. Eccoci alli quattro di aprile, senza vedersi
eseguita cosa alcuna. Ne duole affliggere maggiormente Sua Beatitudine.
Di essa non possiamo dolerci, anzi ce ne teniamo, e terremo sempre
obbligati. Ma l’infedeltà degli Spagnuoli, il non poter più reggere a
tante spese, la manifesta ruina di tutto lo stato nostro, ci ha sciolto
da ogni impegno, e ci ha sforzati ad accettare dal nemico una misera
pace, che ora vi annunciamo conclusa.

»Non erano queste le nostre speranze; ma ci scusa la forza che ci ha
stretti a chinare il capo e ad acconciar i nostri pensieri alla qualità
delle cose.»

La pace fu trattata con tanta segretezza che, avanti di saperne il
principio, se ne sentì la conclusione. Restò la Repubblica tra molte
angustie per l’aggravio dei capitoli; ma al tempo stesso in grande
sicurtà per la fede con che la corte ottomana prese ad osservarli.
Per quasi un secolo non vi fu più guerra tra loro. Ma il Pontefice
che, dopo tanti pensieri e così gran travaglio abbandonato, perdeva la
speranza di veder riscossa dalle usurpazioni ottomane la cristianità
di Oriente; gli Ungheresi, i Pollacchi, i Tedeschi che rivedevano il
Turco sbrigliato in atto di gittarsi nuovamente sulle loro terre; gli
ambasciatori di Spagna, che sempre davan voce contro i Veneziani;[486]
tutti quelli che senza muovere un dito zelavano le vittorie sopra i
nemici della fede; i capitani di ventura che perdevano il soldo, i
mercadanti che scadevano nelle tratte, i novellieri che non avevan
più pascolo, e infiniti altri che per innumerevoli rispetti credevano
scapitarci, ne menarono scalpore incredibile: tutti contro i Veneziani.
Di che io mi passo assai quietamente; rivolgendo lo sguardo al re
Filippo di Spagna che fu il primo a quietarsene. Quando seppe della
pace, senza mostrare risentimento e senza alcuna apparente amarezza,
disse:[487] Che se i Veneziani tanto prudenti avevano conosciuto
che lor mettesse conto la pace, stimava che avessero fatto bene di
provvedere ai casi loro; nè egli potrebbe offendersi che la guerra
fosse finita ad arbitrio e piacimento di quelli per utilità dei quali
era cominciata. Ciò non pertanto egli continuerebbe a combattere
contro i Turchi, ancorchè solo; e basterebbegli in premio che il mondo
conoscesse come alla prontezza sua nel pigliar l’armi corrispondesse
sempre la costanza nel mantenerle.

Parole magnifiche: che riportate da tutti, anche dai suoi parziali, gli
tolgono ogni scusa. Filippo non si era messo nella lega per ricuperare
i paesi perduti, non per riscuotere la Grecia, non per rimettere la
civiltà in Oriente, nè per restituire a quei cristiani gli usurpati
diritti; ma perchè il mondo lo chiamasse costante nel mantenere i
suoi sudditi, i suoi nemici, e i suoi alleati tutti insieme in guerra
perpetua, senza battaglia, senza compenso, senza fine: perchè il Turco
sempre ci fosse, e l’Italia sempre palpitasse in quello strazio in
che per tanto tempo fu tenuta dai barbari, massime co’ ladronecci
e scorrerie perpetue sui paesi littorani. Il mondo non si piglia a
gabbo per più di tre secoli. Oggi il mondo chiama perfidia quella che
esso chiamava costanza: oggi dice che la lega fu rotta da lui, non
dai Veneziani.[488] Che se egli fosse stato sincero, e avesse voluto
da senno ciò che tutti i popoli di Europa ed i Pontefici altresì
s’aspettavano dalla lega, egli al paro d’ogni altro si sarebbe sdegnato
della rottura.

Nel tempo istesso l’ambasciador suo in Roma spediva un corriero
a don Giovanni d’Austria, proponendogli di far grandi promesse ai
Veneziani, sol che si rompessero un’altra volta col Turco. Allora,
diceva, oltre agli aiuti che la corte di Spagna avrebbe da Venezia, le
toglierebbero per sempre la speranza di pacificarsi, e la ridurrebbero
a suo dispetto schiava di sua Maestà: il Papa eziandio quinci innanzi
con maggior sommissione guarderebbe le cose del Re; e sua Altezza
don Giovanni farebbe la guerra a suo modo, senza stare ai capitoli
dell’alleanza, e senza dover osservare il voto del generale del Papa e
dei Veneziani.[489]

  [Maggio 1573.]

Non si lasciarono però a siffatta tresca condurre i Veneziani. Il
general Foscarino rimise l’armata nell’arsenale; don Giovanni sul
molo di Napoli abbattè lo stendardo della lega; e Marcantonio sapendo
come il Pontefice aveva a gran fretta rimandate indietro le galere, e
sciolte le milizie, andò, come aveva già fatto dopo la morte di san
Pio, a chiedere licenza.[490] Senza replica l’ottenne.[491] Di là a
pochi giorni fu eletto governator generale delle armi pontificie, e
supremo comandante di terra e di mare, Jacopo Boncompagni consanguineo
del papa.[492]

Così ebbe fine il generalato che Marcantonio Colonna tenne con tanto
decoro del Papato e di Roma, quanto mai se ne sappia degli antichi e
dei moderni capitani. Per la virtù sua non solo trionfò dei nemici e
riempì d’ammirazione i popoli; ma, quel che parrebbe impossibile ad
ogni altro, restò egualmente nella stima delle emule corti di Venezia
e di Madrid, con le quali mantenne sempre corrispondenza di lettere e
d’uffici. Il Doge sovente il ricercò dei suoi consigli. E il Re, dopo
la terribile disfatta che andò costantemente cercando in Africa, e ve
la trovò l’anno dopo, temendo troppo della Sicilia, e bisognandogli
governatore tale che fosse in terrore agli Ottomani, pregò Marcantonio
a pigliarne come vicerè il governo: egli resse per nove anni quei
popoli con lode di giusto e di prudente reggimento. Or io avendomi a
dividere da questo eroe, non mi proverò di compendiarne qui gli elogi;
perchè sì grandi sono e tanto li ho discorsi, che nè io saprei meglio,
nè egli a venire in maggior fama ne abbisogna.[493]

Nell’altezza però di tanta gloria, onorato dai principi, riverito
dai popoli, superiore a qualunque offesa aperta, non fu già sicuro
dalle arti vilissime dell’invidia, con che alcuni pochi ma potenti
travagliarono il resto della sua vita, e procacciarono oscurarne
la fama. Il Litta con poco accorgimento, e per volersi mostrare
imparziale, si mise in ponte tra la verità e gli inganni di costoro.
Marcantonio scrivendo al re di Spagna, a cose finite, e con l’usata sua
circospezione, di sè e di loro parlava così:[494]

«Le contrarietà che mi sono state fatte nel tempo della guerra che
per tre anni si fece in lega col Papa e co’ Veneziani vennero da tre
cagioni. Primo, perchè vi furono alcuni che non giudicavano utile, nè
avevano piacere della lega: secondo, perchè non potevano persuadersi
che si potesse combattere contro i Turchi sul mare: terzo, la grande
invidia e rabbiosa che mi portavano, perchè col favore di Vostra
Maestà io tenevo in quella spedizione un luogo tanto principale. E
questo maledetto peccato tanto più andò crescendo quanto meglio le cose
succedevano al rovescio della loro opinione. Il frutto che ho cavato io
fino al dì d’oggi dalla grande giornata sono state persecuzioni.»

La rabbia dei persecutori, non sazia mai di calunnie, spinse innanzi
tempo l’eroe di Lepanto al sepolcro. Chiamato dal re Filippo alla
corte l’anno mille cinquecento ottanta quattro, se ne venne con dieci
galere di Sicilia a Civitavecchia: e dopo essere stato in Roma sua
patria per riveder la famiglia, quasi presago della triste sua sorte,
da tutti affettuosamente accomiatandosi, passò per mare a Barcellona,
e di là con molto seguito prese le poste verso Madrid. Ma come fu
giunto a Medinaceli, colto da violentissimo male, morissi: lasciando
a tutti gli storici sospettare che il veleno di alcun possente ed
invido nemico spegnesse nella fresca età di anni quarantanove questo
luminare di gentilezza e di virtù romana.[495] Le sue spoglie mortali,
ricondotte tra noi, si posarono con quelle dei suoi maggiori nella
chiesa di sant’Andrea del castello di Paliano. Io però, tra le mura
del chiostro e sulle carte dell’età trascorse dolorosamente ripensando
all’ingratitudine degli uomini, che fa più grande e mesta la mia
solitudine, non ho cessato fatica per rinverdire nella memoria e nella
estimazione dei posteri la fama dell’altissimo campione. L’ho seguito
ne’ suoi viaggi, ho narrate le sue geste, l’ho accompagnato alla tomba.
Qui mi fermo, qui oro, qui poso alquanto la penna a ritemprare l’animo
stanco del passato, e fiducioso dell’avvenire.


  FINE.




INDICE ALFABETICO

DELLE PERSONE, DEI LUOGHI E DELLE COSE.


N. B. _Il numero arabico indica la pagina, tanto per il testo quanto
per le note._


Accoramboni Camillo, 19, 256.

Acquata, 194, 401, 445.

Adami Bonifacio, Ottaviano, Annibale, 304.

Africa (in) sviamento di guerra, 298, 299, 325, 370, 427, 433.

Alavolino Aurelio, 303.

Alba (d’) duca, 300.

Alberici Alberico, 49.

Alciati Giambattista, 20.

Alticozzi Muzio, 197.

Aly, 211, 217, 222.

Ammiraglio, 197.

Ancona, difetta di storici, 15. — Suoi capitani. Vedi Benincasa,
Bonarelli, Ferretti, Fontana, Regio, Tommasi.

Andrada (d’) Gil, 193, 194, 326. — Minacciato, 349, 372. Vero cuore di
Spagna, 379.

Andreotti Francesco e Gregorio, 158.

Angelici Guido, 150.

Appiano (d’) Alfonso, 159, 239, 244.

Araceli, 275.

Archivio Caetani, 159. — Capitolino, 150. — Colonna, 13, 434. —
Corsini, 42. — Doria, 47. — Massimi, 105. — Di Perugia, 21, 197. — Di
Stato in Firenze, 25, 44, 122, 241. — Vaticano, 120, 146 ec.

Armamenti in Roma, 13. — In Ancona, 15. — In Civitavecchia, 153, 157,
206, 310, 386.

Armata cristiana in ordinanza, 190, 204, 208, 211, 350, 357, 363, 387.
— Numero e forza, 211, 338, 386. — Mortalità, 253. — Preda, 255. —
Sciolta, 433.

Armata romana, 151, 152, 153, 157, 261, 264. — Lodata, 67, 185, 194,
235.

Armata spagnuola, lodata, 222. — Restía, 48, 92, 174, 183, 213, 216,
229, 232, 254, 422. — Le navi, 184, 210, 253, 257. — Paventata dai
Principi italiani, 171.

Armata turchesca invincibile e perchè, 98, 100, 177, 179, 188, 311,
322, 383, 419, 434. — Contro Veneziani, 6, 54, 76, 163, 168, 195, 316,
330, 333, 347. — Contro Greci, 316, 337, 347. — Numero e forza, 212,
244. — Distrutta, 235. — Rifatta, 334. — Risparmiata, 394.

Armata veneziana, 26, 102, 168, 183. — Lodata, 225. — Molestata da
Spagnuoli, 37, 92, 183, 321, 324, 333, 370, 428. — Minacciata, 202. —
Mortalità, 26, 333. — Naufragi, 102, 169.

Ascanio da Civitavecchia, 158, 304.

Ascoli (d’) Antonio, 159, 196, 240.

Assedio di Navarino, 413. — di Modone, 407. — di Santa Maura, 256.

Assisi (d’) Baldassarre, 304.

Avvisi, gazzette, Mss., 157.

Austria (d’). — _Vedi_ Giovanni.


Baccio da Pisa, 159.

Bagarotto Annibale, 20.

Baglioni Manlio, 17, 150. — Paolo, 18. — Astorre, 52, 195, 196.

Bandini Bastiano, 303, 386.

Barbarigo Agostino, 165, 202, 225.

Barbaro Marcantonio, 6, 336, 426.

Bartoli Camillo, 150, 210.

Battaglia di Lepanto, 217. — Di Capo Malèo, 357. — Di Capo Matapan, 363.

Benincasa Cintio, 151. — Michelangelo, 21.

Bentivoglio Cesare, 304.

Berardetti Giampaolo, 150, 210, 239.

Berardi Francescantonio, 150, 216, 236, 237.

Bevagna (da) Nardo, 303.

Bevilacqua Bonifacio, 304.

Biffoli Angelo, 159, 231.

Boccaurati Filippangelo, 18.

Bocchieri Niccolò, 20.

Bologna e suoi capitani. — _Vedi_ Bentivoglio, Bevilacqua, Ercolani,
Guidotti, Malvezzi, Marcello, Paleotti, Pepoli, Zambeccari, Zane.

Bonarelli Gabriele, 151.

Boncompagni Iacopo, 433.

Bonelli don Michele, 150, 161, 175, 216, 236, 238, 244, 263, 271, 302.

Bonelli frà Michele per la lega, 42, 117, 264, 296, 324.

Bongiovanni Cornelio, 18.

Bordandini Orazio, 303.

Borgia san Francesco, 122, 181, 264.

Bragadino Marcantonio, 196. — Adriano, 387.

Brancadoro Giovanni, 303.

Brandolini Flaminio, 303, 386.

Bruni Gaspare, 17, 108.

Buffalo (del) Giambattista, 20.

Buonavoglia, 105.

Buono Giuseppe, 410.


Caetani Archivio, 159. — Duca don Michelangelo, 173. — Onorato, 149,
160, 209, 231, 240, 242, 244, 260, 262, 271, 302.

Cales Lucio, 20.

Calmanti Maurizio, 150.

Cambi Alfonso, 19.

Camerino. — Vedi Calmanti, Pierbenedetti.

Campana Orazio, 150.

Canaletto, 355, 365.

Candia, 57, 101, 334, 337, 350, 359.

Canèa, 101.

Cannoni per galee, 311.

Capitana del Papa perduta alle Gerbe, ricuperata a Lepanto, 153, 243,
245.

Capitana di Marcantonio, 25, 107, 403.

Capitani papalini, 17, 149, 151, 158, 303, 385.

Capitani di Roma co’ Veneziani, 79, 158, 195, 303.

Capitoli della Lega, 127. — Delle galere, 154.

Capizucchi Biagio, 19, 216. — Cencio, 17, 148, 209, 302, 314.

Cappuccini, 190, 245, 248.

Caracciolo Curzio, 20. — Ferrante, 176.

Caracossa, 204, 241, 243.

Caraffa Ettore, 159, 240, 244. — Cesare, 303, 386.

Cardoli Andrea, 302, 386.

Cardona (di) don Giovanni, 60, 232, 387.

Carinci Giambattista, 159, 238.

Carniglia Pasino, 20.

Caro Ottavio, 20.

Castagna mons. Giambattista, 42.

Castelrosso, 75.

Cattaro, 107.

Cavaniglia Cesare, 20, 236.

Cecco Pisano, 205.

Cefalonia, 374.

Cerigo, 350, 359, 366.

Cerruti Tiberio, 196.

Cervantes Michele, 21, 100, 393, 405.

Cesarini Giangiorgio, 271.

Cipro, 7, 51, 76, 97, 195, 430.

Città di Castello. _Vedi_ Giustini, Vitelli.

Civitavecchia difetta di storici, 157. — Armamenti, 153, 157, 158,
262, 304, 306, 310, 386, 423. — _Vedi_ Andreotti, Ascanio, Filippo,
Giacometto.

Colonna Archivio, 13, 14. — Cavalier don Vincenzo, 14, 380. — Lucio,
20. — Muzio, 150, 314. — Prospero, 17, 256, 303, 315. — Pompeo, 17,
98, 149, 159, 216, 236, 244, 258, 271, 383. — Marcantonio, 11. — Per
tutto: specialmente, 47, 51, 61, 74, 83, 142. — Predice la vittoria,
143. — A Lepanto, 218, 221, 236. — Trionfo, 259, 265, 274. — Amato da
San Pio, 8, 110, 134, 177, 245, 274, 313. — Tentato dal re, 181. — Dai
ministri, 184, 299. — E da don Giovanni, 344, 371, 372. — In Grecia,
345, 350, 358, 363, 367, 387, 391, 414. — Ripieghi per armare, 15, 24,
151, 160, 262, 306. — Con Giannandrea, 49, 61, 75, 85. — Per Cipro,
74. — Per la lega, 137. — Pel danaro, 144. — Per le risse, 162, 170.
— Co’ Veneziani, 101, 162, 168, 178, 181, 185, 186, 333. — Con gli
Spagnuoli, 103, 181, 184, 318, 324, 434. — Per la battaglia, 178, 187,
337, 363. — Per la guerra intestina, 199. — Pel rinforzo, 186, 385.
— Con don Giovanni, 218, 221, 236, 380. — Con Filippo, 99, 103, 324,
369, 380, 434. — Per seguir la vittoria, 252. — Per la concordia, 324,
332, 333, 344, 372. — Co’mancatori, 359, 366. — Per Modone, 405, 407.
— Magnanimità, 48, 75, 380. — Sotto ogni Spagnoluzzo, 381. — Invidiato,
295, 301, 317, 327, 434. — Chiamato pazzo, 227, 237, 411. — Minacciato,
349, 372, 377. — Offeso, 181, 344, 372, 383. — Morto, 435.

Commendone cardinale in Germania, 296.

Compagni d’Albero, marinari di prima classe, 16.

Compagni di stendardo, gendarmi del mare, 197.

Concha Cristoforo, 20.

Congresso in Roma per la Lega, 117. — Alla Minerva, 129. — Al Vaticano,
147. — Per la seconda campagna, 297. — Per la terza, 426.

Consiglio in Otranto, 49. — Alla Suda, 57. — A Sittia, 69. — A
Castelrosso, 81. — A Tristamo, 85. — A Messina, 175, 187. — Alle
Gomenizze, 198, 344. — A Santa maura, 252. — A Capo Matapan, 361. —
A Corfù, 382. — Alle Stanfane, 389. — A Modone, 404. — Alla vela pel
ritorno, 418.

Consiglieri privati di don Giovanni, 172, 198, 317, 326, 369, 381. —
Contro la battaglia, 177, 187, 193, 204, 216, 227, 235, 237, 343, 368,
383, 388, 391, 394, 397, 399, 406. — Contro Veneziani, 297, 321, 326,
382, 385. — Della guerra intestina, 198, 284. — Con Giannandrea, 234
— Contro Marcantonio, 181, 184, 227, 237, 299, 301, 371. — Contro la
vittoria, 175, 177, 318, 323, 368. — Paura a Corfù, 373. — Pel ritorno,
254, 422.

Conti Torquato, 301. — Rutilio, 302, 386.

Contucci Gaudenzio, 130. — Filippo, 302.

Coppoli Francesco, 303.

Corbara (da) Iacopo, 304.

Corfù, disarmo, 104. — Alleati, 193. — Ritorno, 257. — Aspettar dei
Veneziani, 316. — Richiamo, 375. — Paura de’ Spagnuoli, 373.

Corsia, e cannon di corsia, 311.

Cortigiani spagnuoli, contro la lega, 118, 122, 133, 295, 318, 368,
380, 434. — Contro la battaglia e la vittoria, 175, 177, 188, 318, 323,
368, 373. — Contro don Giovanni, 323, 368. — Contro Marcantonio, 227,
237, 285, 301, 434 — Contro Veneziani, 37, 294, 343, 368. — Vedi Alba,
Corgnia, Davalos, Doria, Requesens, Toledo, Granuela, Zuñiga.

Corgnia (della) Ascanio, contro la battaglia, 176, 179, 184, 256. —
Prigione, 239. — Pel ritorno, 254, 256. — Rampognato dal papa, 179,
184.

Corona Orazio, 20. — Ottavio, 150, 216.

Corrotto Michele, 20.

Cortesi Giambattista, 241, 242.

Cosimo I granduca, partigiano di Spagna, 36, 43, 44, 410. — Assento per
le galere, 157. — Pretesti, 306. Costantino da Viterbo, 303.

Crescenzi Camillo, 270. — Stefano, 271.

Crotti Cesare, 304.

Curzolari (isole), 205, 206.


Dama di Nicosia (Arnalda de Roccas, secondo il Sagredo), 80.

Daneo, messer Nicolò, agente di Marcantonio a Madrid, 181, 285.

Davalos don Carlo, 84, 87, 184. — Restio, 210, 253, 257. — Consigliere,
369.

Davila Ferrante, 19.

Deposito di zecchini per Giannandrea, 66.

DOCUMENTI.

  Pio V a Marcantonio, 9.
  Marcantonio al Santacroce, 13.
  Ruolo di galea, 15.
  Marcantonio al Massimi, 16.
  Ruolo di nobili e venturieri, 19.
  Marcantonio ai capitani, 21,
  Provvisioni per una galea, 24.
  Filippo II a Marcantonio, 27.
  Il Doge a Marcantonio, 30.
  Il Grammaestro per M. A., 32.
  Novero delle galee, 64.
  Voto del general Zane, 65.
  Manifesto di Marcantonio, 70.
  Fede di Sforza, 88.
  Marcantonio a Giannandrea, 91.
  Precetto di Pio V, 95.
  Marcantonio al Re, 103.
  Codicillo di Massimi, 105.
  C. Colonna a s. Franc. Borgia, 122.
  Capitoli della Lega, 127.
  Articolo di Granuela, 131.
  Orazione di M. A. in Senato, 140.
  Marcantonio al Capizucchi, 148.
  Ruolo di venturieri, 150.
  Capitoli per le galere, 154.
  Spese di Marcantonio, 160.
  Presente di Messina, 165.
  Granuela a Pio V, 174.
  Marcantonio al Rusticucci, 180.
  M. A. a san Francesco Borgia, 181.
  Marcantonio a san Pio V, 183.
  Zuñiga a don Giovanni, 184.
  Marcantonio al Buonvicino, 227.
  Marcantonio al card. Spinosa, 237.
  Marcantonio al card. Caetani, 238.
  Marcantonio a san Pio V, 243.
  Un servo al padrone, 246.
  Nota de’ morti e feriti a Lepanto, 253.
  San Francesco Borgia a Marcantonio, 264.
  Marcantonio al Capizucchi, 302.
  I cardinali a Cosimo, 307.
  Detti al Castellano di C. V, 310.
  Detti allo stesso, 311.
  Nota di capitani e soldati, 314.
  Parere di don Giovanni, 328.
  Don Giovanni a Gregorio XIII, 331.
  Galere dei Turchi, 335.
  Don Giovanni a Marcantonio, 339.
  Marcantonio a don Giovanni, 345.
  Marcantonio a Gregorio XIII, 378.
  Marcantonio al Re, 378.
  Marcantonio al card. di Como, 380.
  Capitani e soldati, 387.
  Marcantonio al card. di Como, 418.
  Il Doge al Nunzio, 428.
  Marcantonio al Re, 434.

Domenicani della Minerva, 129. — All’armata, 190.

Doria S. E. il principe, 233. — Archivio e medaglie, 47. — Alessandro,
20. — Marcello, 48, 83. — Pagano, 45. — Pierfrancesco, consigliere,
173. — Antonio, consigliere, 369, 408. — Giannandrea, 46. — Difficoltà,
48, 49, 59, 66, 68, 85. — Ordini secreti, 44, 46, 99, 103. — Disordini,
85, 93, 94. — Biasimato da san Pio, 97, 233. — A Lepanto, 213, 216,
229, 233. — Contro la battaglia, 187, 193, 204, 213, 216, 233. —
Premiato dal Re, 97, 126, 184, 209, 234. — E da don Giovanni, 253. —
Consigliere, 369, 372, 422.

Dragoniere (isole), 351, 353.

Duodo Francesco, 217, 387.

Durante Paolo, 242.


Enèa cav. di Sassoferrato, 20.

Ercolani Antonio, 304.


Fabi Pietro, 20, 236.

Fabriano (da) Mancino, 20. — Giacomo, 196.

Fabrizio da Imola, 53, 79.

Faenza. — _Vedi_ Bordandini. Famagosta, 195.

Fanale (veneziano Fanò), segno di capitana, 239. — Acceso da
Giannandrea, 75. — Nascosto, 229.

Fano (da) Battista, 79. — _Vedi_ Mariotti, Palazzi, Speranza.

Fantuzzi Pasotto, Camillo, 304.

Fara (della), Ruggiero, 303.

Farnese Alessandro, 176, 209, 402, 413.

Fausto Vettore, e sua quinquereme a Marcantonio, 25, 107.

Fermo (da) Erasmo, 195. — Marchetto, 196. — _Vedi_ Adami, Brancadoro,
Matteucci.

Ferrara. — _Vedi_ Crotti, Riminaldi.

Ferrari Orsino, 302, 386.

Ferretti Alessandro, 17, 18.

Ferri da Roma, 303.

Fiamma Angelo, 20.

Filippo da Civitavecchia, 303, 314, 386.

Filippo II, sue ragioni, 35, 37, 39, 294, 343, 368, 393. — Nella Lega,
42, 295, 321, 343, 368, 370. — Promesse, 29, 44, 147, 324. — Parole
magnifiche, 340, 342, 431. — Ordini secreti, 44, 46, 99, 103, 181,
300, 312, 318, 324, 381, 388, 391, 394, 397, 399. — Non si combatta,
178, 321, 324, 343, 368, 370. — Diffida di Marcantonio, 27, 46, 181,
184, 299, 301, 371. — Premia Giannandrea, 97, 126, 184, 234. — E
Granuela, 131. — Ministri insolenti, 118, 122, 125, 168, 173. — Contro
il Veniero, 283. — Geloso del fratello, 175, 177, 318, 323, 368. —
Altro, 321, 324, 325, 369, 380, 381. — Gran testa, 412. — Dopo tre anni
si ignorava se la Lega gli stava bene, o no, 324, 369, 372, 380. — La
rompe, 321, 370, 412, 425, 430, 432.

Flad Angelo, 270.

Foligno. — _Vedi_ Gigli.

Fontana Jacopo, 19.

Forlì. — _Vedi_ Gaddi, Brandolini.

Foscarini Jacopo, 316, 389, 433.

Fracastoro Camillo, 20.

Francescani all’armata, 190.

Francia (corte di) co’ Turchi, 135 — Declina la lega, 296. — Accusa gli
Spagnuoli, 321, 322. — Per la pace, 428, 320.

Frangipani Antigono, 157. — Jacopo, 19, 216, 236. — Muzio, 17.

Fregata, piccolo vascello a remo, 106.

Fusta, piccola navicella da remo e da corso, 180.


Gabrielli Giulio, 19, 216, 236.

Gaddi Camillo, 53, 79.

Gaeta, 311.

Galerati Fulvio, 159, 240.

Galeazze, grandissime galee, incastellate a poppa e a prua, e munite di
trenta colubrine, 217.

Galere di Marcantonio, 12. — Dei Papi, 151, 153. — Prese a Venezia, 23.
— Armate in Ancona, 15. — In Civitavecchia, 153, 157, 262, 304, 306,
310, 363, 386. — Prese da Cosimo, 154. — Lutto, 169. — Naufragi, 102,
108, 422.

Galere abbandonate da Giannandrea, 229. — Prese da Luccialì, 230.

Galere di Turchi senza pavesate, senza rambate, con poca artiglieria,
57, 262, 311.

Galeotte, piccole galee, 180, 212.

Galeotti Vincenzo, 303, 386.

Gallo, secretario di Marcantonio, 18.

Gasparre Spagnuolo, 20.

Gennazzano (da) Belisario di Orlando, 20.

Gerbe (isole), rotta de’ Cristiani, 152. — Ricuperata la capitana del
Papa, 243, 245.

Gesuiti all’armata, 190.

Giacometto di Civitavecchia, 138.

Gigli Giannantonio, 150, 209, 240.

Giorgi Gianluigi, 17. — Pietrantonio, 20.

Giovanni (don) d’Austria, 172. — Generale, 125, 176, 283, 315. —
Senza potere, 173, 317, 368. — Ardore di guerra, 189, 215, 218, 222.
— Lentezze, 175, 315, 318, 375, 410. — Abbraccia il Veniero, 250.
— Lo perseguita, 186, 198, 283, 316. — Favorisce Marcantonio, 175,
250. — Contraria, 317, 318, 327, 349, 372, 377, 379, 383. — Feste a
Giannandrea, 184, 253. — Motto in morte di san Pio, 305. — Avanza, 189,
213, 216, 349, 370. — Indietreggia, 254, 257, 299, 315, 372, 423. —
Contraddizioni, 315, 317, 320, 343, 371, 412, 420. — Abbasso la lega,
433.

Giulio da Spoleto, 303.

Giustini Pompeo, 158.

Gomenizze porto nell’Epiro, 194, 237, 337. — Primo fuoco, 194. —
Richiamato Marcantonio, 338. — Richiamato don Giovanni, 422.

Granuela card, e ministro, 42, 117, 118, 122. — Cacciato da san Pio,
130, 132. — Premiato dal re, 131. — Lo stendardo, 174. — Inganni, 119,
316, 325.

Graziani Fabio, 150, 257 — Niccolò, 150. — Francesco, 216.

Grecia, guerra ivi deliberata, 300, 427.

Greci chiamati a levarsi contro Turchi, e difesi da M. A., 293, 337,
340, 341, 347, 350, 351, 359, 366.

Gregorio XIII conferma Marcantonio, 314. — Sdegnato con Filippo, 321. —
Disarma: nuovo generale, 433.

Grignietta Francesco, 20.

Grimaldi Domenico (mons.), 244, 247, 254, 261, 422.

Gubbio (da) Bernardino, 195. — Vedi Soldatelli.

Guerra intestina impedita da Marcantonio, 200.

Guidotti Obbizzo, 75.


Iacovacci Domenico, 268.

Imola (da) Fabrizio, 79.

Imperatore di Germania declina la lega, 296, 135.

Incontro di Marcantonio e Giannandrea, 48. — Ausiliari e Veneziani 56,
83. — Romani a Napoli, 161. — Romani e Veneziani a Messina, 166. — Don
Giovanni a Messina, 174. — A Corfù, 193. — Al ritorno in Messina, 258.
— Ultimo a Corfù, 423.


Landuga spagnuolo, 20.

Lanzi (de’) Teseo, 20.

Lecce (a), codicillo e morte del Massimi, 103.

Lega proposta da Pio V, 7. — Dai Veneziani, 5, 41. — Poco accetta a
Spagnoli, 38, 42, 369, 372, 324, 380, 381. — Menata in lungo, 118, 121,
126. — Rotto il trattato, 129. — Conclusa, 137, 144, 147. — Violata da
Spagnoli, 320, 326, 339, 375, 389, 394, 422, 428, 432. — Sciolta, 428.

Leiny (di) Provana, 209. — Cesare, 242.

Leonini Angelo, 20.

Lepanto golfo e battaglia, 194, 206, 213.

Lionbruno, 20.

Liutrecche, 20.

Lodi Francesco, 18.

Loffredo Ferdinando, consigliere, 369, 384.

Lotta Ercole, 159.

Luccialì, 212, 334. — Disegni, 228, 230, 235, 236, 335, 350. — Rimette
l’armata turca, 235, 334. — Vinto da Marcantonio, 355, 358, 363, 366, —
Vincitore di Giannandrea, 230, 232. — E di don Giovanni, 414, 418.


Macerata. — Vedi, Angelici, Alavolino, Narducci.

Macchina di batteria, 410.

Magliano. — Vedi Giorgi.

Maglieri Giannantonio, 20.

Magnenti Fabrizio, 20.

Malaguzzi cav. Alfonso, 17.

Malaspina Marchese, 19, 150, 244.

Malatesta Carlo, 53, 79. — Ercole, 195. — Jacopo, 335. — Ruberto, 304.

Malèo capo (oggi Santangelo), 351, 353. Battaglia, 357.

Malta (di) Cavalieri, istruzioni per Marcantonio, 32. — Pèrdono la
Capitana, 231. — Rispettosi degli Spagnuoli, 43, 333.

Malvasia fortezza per Luccialì, 353 — Vino per Giannandrea, 93.

Malvezzi Pirro, 149, 176, 216, 236, 240, 244, 258. — Roberto, 196.

Marca provincia dà due mila remieri, 16. — Vedi Boccaurati,
Bongiovanni, Lodi, Nelli, Tromba, Ranucci.

Marcello da Bologna, 302, 386.

Marchetto da Fermo, 196.

Marchi (De) cap. Francesco, e suoi disegni di queste guerre, 391, 413.

Marina (della) Storia, 151, 107, 153, 262, 310, 382. — Vedi Tàttica.

Marino, Vedi Magnenti.

Mariotti Girolamo, 49, 150, 302, 314.

Martelli Paolo, 105.

Martini Giovanni, 20.

Massimi Archivio e Principe, 105. — Domenico, 16, 17, 105. — Lelio,
150, 216, 236, 256, 271.

Matapan capo, e battaglia, 360, 363.

Matelica. — Vedi Contucci.

Matteucci Concetto, 302, 314.

Mazzatosti Angelo, 150, 160, 209.

Medaglie per la lega, 148. — Per la vittoria, 281.

Medici Tommaso, 150, 231. — Vedi Cosimo.

Mendoza don Rodrigo, 387.

Messina a Marcantonio 162, 163. — Ai Veneziani, 166. — A don Giovanni,
175. — All’armata, 190. — Al ritorno, 258. — Altre volte, 326, 332,
423.

Micara Pasquale, 150.

Mignanelli Pietropaolo, 304.

Minerva (alla) per la Lega, 130.

Ministri di Spagna contrari alla lega, 35, 37, 38, 42, 43, 118, 122,
306, 318, 319, 324, 326, 381, 435. — E alla vittoria, 177, 323, 368. —
E al frutto, 294, 301, 318. — E a Marcantonio, 227, 236, 284, 285, 299.
— Aizzangli gli Orsini, 285. — La guerra in Africa, 299, 427. — Di poco
momento, 308, 434. — Ingiusta, 299, 300. — Inganni, 324, 343, 368, 370.
— Per le lunghe, 47, 118, 130, 136, 382. — Senza panatica, 67, 372,
415, 421, 423.

Modone, città, fortezza e porto, 387, 391, 407.

Mojane, artiglierie di galea, 311.

Monte (del) Carlo, 150.

Montolmo. — Vedi Bongiovanni.

Montesanto (da) Bartolommeo, 303.

Morillo con la panatica fuor di tempo, 422.

Morone card. parla di Giannandrea, 97. — Alla lega, 117.

Mostra a Sittia, 67. — A Civitavecchia, 160. — A Messina, 185. — Alle
Gomenizze, 387.

Mureto, orazione, 276. — Primato a Marcantonio, 277

Muti Giampietro, 268.


Napoli (a) Marcantonio 162. — Don Giovanni, 174. — Rissa, 162. —
Ritorno, 258. — Sciolta la lega, 433.

Narducci Lorenzo, 303.

Narni. — Vedi Cardoli, Ridolfini, Tiburzio.

Naro Francesco, 19, 216, 236.

Navarino, porto, fortezza, assedio, 387, 391, 414.

Navarrino cavaliere, 19.

Naufragio a Candia, 102. — In Schiavonia, 105. — A Ragusa, 108. — Al
Paxò, 422.

Navi tonde a vela quadra, cominciate a usare per la guerra nel
cinquecento, donde i moderni vascelli. Avevano quei ducento uomini
d’armamento, e circa venti cannoni grossi. Condotte dal Davalos, 184. —
Non vedute alla battaglia, 210. — Trovate a Corfù, 253. — Alla seconda
campagna, 338. — Difficoltà e forza, 253, 355, 357, 364, 367.

Negroni Alessandro, 159, 240.

Nelli Dario, di Osimo, 18.

Nicosia assediata, 52. — Espugnata, 76.

Nobili (de’) cavaliere e ambasciadore di Cosimo I a Madrid, cifra sul
maltalento de’ Ministri, 122.

Nocera (da) Pierjacopo, 303, 386.

Nomi storpiati da Spagnoli e Veneziani, 19, 159.


Oddi Annibale, 19, 216. — Rugero, 150, 194, 209, 243.

Odescalchi mons. Paolo, 161, 176. — Per Marcantonio e per la battaglia,
167, 177, 178, 187, 247, 332.

Olivieri Vincenzo, 302, 386.

Olgiati cav., 159, 240.

Ordinanza dell’armata, 74, 190, 354, 357, 386.

Orlando (di) Belissario, 20.

Orselli Niccolò, 20. — Giovanni, 19.

Orsini aizzati contro Marcantonio, 255. — Flaminio da Stabia, 152. —
Francesco della Scarpa, 19. — Orazio di Bomarzo, 17, 150, 209, 216,
236, 237, 244. — Paolo, 303, 315. — Paologiordano, 176, 220. — Virginio
da Vicovaro, 216, 236, 237.

Orvieto. — Vedi Alberici, Corbara.

Osimo. — Vedi Gallo, Nelli, Sinibaldi.

Otranto, incontro di Marcantonio e Giannandrea, 49. — Campo alle
riserve, 301, 333.


Pace de’ Veneziani col Turco, 428.

Pacheco card. deputato alla lega, 117. — Parole di Giannandrea, 98.

Pagani Cesare, 20.

Palazzo, colonnello, 53, 79. — Ortensio, 304.

Paleotti Niccolò, 53, 79.

Palestrina (da) Giovanni, 20.

Pallavicino Sforza, diversioni, 58, 60. — Fede, 88.

Panatica (di) mancamento agli Spagnoli, 67, 372, 412, 415, 421.

Pardo Pedro, fallacie, 354, 373.

Parisani Livio, 150, 161, 209, 214.

Particappa Ottaviano, 21.

Passerini Pirro, 19.

Pavesata, specie di bastingaggio sul posticcio, tra le battagliole, per
cuoprire i moschettieri; anticamente formato di scudi o pavesi, 262.

Paxò isola, 387. — Naufragio, 422.

Penna (della) Claudio, 303.

Pepoli Fabio, e Luigi, 303.

Perinelli Camillo, 18.

Perpignano Iacopo, 159.

Perugia. — Vedi Baglioni, Bartoli, Coppola, della Corgnia, Graziani,
del Monte, Oddi, Parisani, della Penna, Perinelli, Ranieri, Signorelli,
Vermiglioli.

Pesaro. — Vedi Fantuzzi, Olivieri, Sassatelli.

Petalà, Platèa, porto nell’Epiro, 250.

Piccolomini Fabio, 19.

Pierbenedetti Matteo, 150.

Pieromari, 20.

Pio V per la lega, 7, 117, 147. — Integrità, 24, 296 — Alla Minerva,
129, 133. — Manda nunzi, 42, 134, 296. — Discaccia Granuela, 132. —
E Giannandrea, 98, 233, 234. — Gli mette paura, 234. — E ad Ascanio
della Corgnia, 178. — E ai consiglieri spagnuoli, 173, 284. Amorevole a
Marcantonio, 8, 110, 134, 177, 245, 274, 313. — Consigli al medesimo,
159. — Arbitro tra gli alleati, 129, 297, 300. — Perchè non ebbe
in principio galere proprie, 153, 157. — Ne arma a Civitavecchia,
262, 304, 306, 310. — Delibera la guerra di Grecia impugnata dagli
Spagnuoli, 300. — Visione, 249. — Medaglie, 148, 280. — Muore, 304. —
Parole di don Giovanni, 305. — Di Marcantonio, 313.

Poeti della vittoria, 279.

Politica dei cinquecentisti. Vedi Cortigiani, Congresso, Consiglieri,
Filippo, Ministri, Lega, Vittoria.

Portogallo (di) il Re si offre alla lega, 265. — Nulla, 297.

Portogiunco. — Vedi Navarino.

Pizzuolo, pei Veneziani, lo scannetto di poppa, 89, 92.

Prede fatte alla battaglia, e loro divisione, 255.

Presagî, 192.

Puccini Giammaria, 100, 209, 231.


Quaglio, porto di Morèa, presso al Capo Matapan, 362, 366.

Quirino, 396, 399.


Ragazzoni, ambasciatore dei Veneziani presso don Giovanni, 338.

Ragusa, naufragio di Marcantonio, 109.

Ranieri (cav.), 21.

Rambate, due castelli a prua, congiunti in alto, per coprire la
batteria, e per dare piazza rilevata ai moschettieri nelle galere, 262,
311.

Rappresaglie nell’arcipelago, abuso, 95.

Recanati, Vedi Lionbruno, Pietrozzo e Priamo, 20.

Regio Marcello, 150.

Religione all’armata, 22, 159, 190, 215, 274, 279.

Remieri, mantenuti dai municipi, 13. — Due mila dalla Marca, 16. —
Sforzati, ivi. — Buonevoglie, 105. — Schiavi turchi, 311.

Requesens don Luigi, Consigliere di don Giovanni, 172. — Scusa
Giannandrea, e minaccia, 234. — Adizza Orsini e Colonnesi, 283. — Per
le lunghe, 296.

Ricordi di san Pio a Marcantonio, 159.

Ridolfini Eraclio, 20, 216, 236.

Riminaldi Giammaria, 304.

Rimini (da) Ottavio, 196. — _Vedi_ Malatesta. Rinforzo di Spagnuoli
alle galere Veneziane, 187, 197, 385. — Di Romani, 385.

Rioni di Roma e loro stendardi, 270.

Ripatransone. — _Vedi_ Brandimarte. Rinegati, 418.

Rissa di Spagnuoli e Romani a Napoli, 162 — a Messina, 169. — Di
Spagnuoli e Veneziani alle Gomenizze, 197.

Roma, Archivî, 5. — Cavalcata di Marcantonio, 12. — Armamento, 13. —
Ritorno, 110. — Feste per la lega, 148. — Per la vittoria, 259, 265,
275. — _Vedi_ Congresso. — _Vedi_ Accoramboni, Bagarotto, Berardi,
Bonelli, del Buffolo, Caetani, Campana, Capizucchi, Cerruti, Colonna,
Conti, Corona, Cortesi, Durante, Fabi, Farnese, Fiamma, Frangipani,
Gabrielli, Galeotti, Massimi, Mazzatosti, Mignanelli, Naro, Leoncini,
Odescalchi, Olgiati, Orsini, Pagani, Ruspoli, Salviati, Santacroce,
Sereni, Sforza, Savelli, Timotelli, Valignani, Virgili, Vitozzi,
Zoccoli. Romegasso cav. Maturino Le Scut, 161, 236, 244, 245, 258, 271.

Romoli Giovanni, 20.

Rossolini Felice, 150.

Rovere (della) principe d’Urbino, 176, 209.

Ruspoli Fabrizio, 150.


Sanfrèo Giulio, 303, 314.

Sangiorgio cav., 238, 244, 314. — Naufragio, 422.

Sanseverino. — _Vedi_ Micara, Boccaurati. Santacroce, di Roma, Fulvio,
15. — Ludovico, 304.

Santacroce, di Spagna, don Alvaro di Bazan, marchese, lodato, 60. — Sua
bravura, 222, 332, 387, 416.

Santamaura, Isola, 206, 256, 257.

Santis (de) Silvestro, 20.

Sassatelli Gentile, 301, 312, 333.

Sassoferrato (da). — _Vedi_ Enèa, Liutrecche, Valentino. Savelli
Troilo, 238.

Scapezzano (da) Pierfilippo, 303.

Scarpanto, isola, 83, 92.

Schiavi, abuso nel pigliarli, 93. — Turchi nello Stato, 105, 254, 260,
264, 310. — Di Massimi, 106.

Schiavi cristiani liberati a Lepanto, 256. — Rivoltati contro Turchi e
presa una galera, 416.

Schirazzi, navi da carico dei Levantini, 72.

Scommessa di Pagan Doria, 45.

Selim, imperadore dei Turchi muove guerra a Cipro, 5. — Spavento dopo
la battaglia, 293. — Rimesso da Luccialì, 233, 334. — Non poteva fare
tanto per sè, quanto per lui fecero gli Spagnuoli, 376. — Sapeva che
questi romperebbero i patti, 320. — E che don Giovanni era in rotta
co’ Veneziani, 320, 350. — Fa pace co’ Veneziani, 428. — Rompe gli
Spagnuoli a Tunisi, 434.

Serbelloni Gabrio, 161, 176, 193, 256, 423.

Sereno Bartolommeo, 25, 150. — Per documento, 189.

Sessa (di) duca, e consigliere, 369, 372, 422.

Settimio cav. di Malta, 20.

Sforza Carlo, 152. — Paolo e il conte di Santafiora, 176.

Signorelli Luca, 21. — Francesco Maria, 303, 386.

Signorini Girolamo, 20.

Simeoni archivista, 264.

Sinibaldi Pellegrino, 303, 386.

Sisto V, rileva la marineria, 153, 262 264, 310.

Sittia città e porto in Candia, 68, 74.

Socchini Camillo, 20.

Soldatelli di Gubbio, 304.

Soldati romani al primo fuoco, 194. — Generosi, 245. — Maltrattati, 260.

Soldati statisti co’ Veneziani, 79, 158, 195, 303.

Soldati romani, spagnoli e veneziani. — _Vedi_ Rinforzo, e Risse.

Soldato di Velletri, 194.

Soranzo Giovanni, aggiunto all’Oratore Veneto per la Lega, 117, 130,
137, 147, 197, 300. — Iacopo provveditore, 316, 355, 364, 387.

Soriano Michele tratta la Lega, 117, 119, 130, 137, 147, 297, 300.

Spagnuoli soldati e nazione, mia protesta, 35, 222, 235. — Vedi
Andrada, Santacroce.

Spagnoli cortigiani. — Vedi Ministri e Consiglieri, Filippo, Giovanni,
Granuela, Zuñiga.

Spagnuoli, alcuni capitani non puniti e perchè, 359, 360, 366.

Spannocchi Francesco, 268.

Spello (da) Giannandrea, 79.

Speranza Ottavio, 150.

Spinelli Piergiovanni, 19.

Spinola Ettore, 176, 209.

Spinosa card., 237.

Spoleto. — Vedi Berardetti e Giulio.

Spuntoni Marzio, 150.

Stanfane Isole, 388, 391.

Stendardo di Marcantonio, illeso, 238, 239, 244. — Della Lega, 174.
— Per la battaglia, 215. — Dato a Marcantonio, 332. — A don Giovanni,
174. — Abbattuto, 433.

Stendardi di Roma, 270.

Strozzi Pandolfo, 150. — Alessandro, 402.

Suda, golfo e porto in Candia, 56, 67.


Tàttica. Vedi M. A. Don Giovanni, Giannandrea, Luccialì, Acquata,
Armata, Assedio, Battaglia, Galere, Mostra, Navi, Ordinanza.

Tebaldini Ipolito, 150, 210, 240.

Terni. — Vedi Lanzi, Pieromari, de Santis, ed altri a pag. 20.

Tiburzio da Narni, 21.

Timotelli Giulio, 20.

Tivoli. — Vedi Zucconi.

Tolentino (di) Trattato, 279. — Vedi Orselli.

Tommasi Matteo, 20. — Il cavaliere d’Ancona, 150.

Toledo (di) don Garzia, consigliere, 172. — Non si combatte a nome di
S. M., 178.

Tolfa (della) Cencio, 268.

Torres mons. Luigi a Madrid, 42.

Trionfo di Marcantonio a Roma, 265.

Tristamo porto nell’isola di Scarpanto, 83, 92.

Tromba Guido, 18, 314.

Tullio da Velletri, 209, 231, 246.

Tunisi (a), rotta di Spagnuoli, 433.

Turchi per invadere l’Italia assaltano Malta, ribattuti a Lepanto, 4. —
Invadono Cipro, 6. — Nicosia, 54, 76. — Famagosta, 195. — Le isole de’
Veneziani, e il loro dominio, 163, 166, 168, 188, 335, 347, 350, 429.
— La Grecia, 316, 337, 347, 351, 367. — Stimati invincibili, 98, 100,
177, 180, 188, 311, 383, 384, 419, 434. — Muovono contro i nostri, 194,
207, 354, 363. — Disfatti, 244. — Gran mortalità, 251. — Rifatti, 334.
— Voluti conservare, 39, 98, 311, 322, 370, 390, 419, 431. — La pace
co’Veneziani, 428.


Urbino. — Vedi della Rovere, Sanfrèo.


Valignani Vincenzo, 18.

Veniero Sebastiano, 164. — A Messina, 166. — Vorrebbe partirsi,
168. — Chiede battaglia, 178, 187. — Impicca soldati del re, 197. —
Minacciato, 198. — Bravure, 220. — Abbracciato da don Giovanni, 230. —
Deposto da don Giovanni, e dal re, 315.

Velletri (da). — Vedi Soldato, Orazio, Tullio.

Veneziani per la Lega, 6, 7, 41, 117, 137, 146, 295, 300, 427. —
Diffidenza e timori, 123, 134, 425. — Armata, 26, 164. — Mortalità, 26,
333. — Naufragi, 102, 169. — Prontezza alla guerra, 41, 65, 82, 178,
187, 389 — Bravura, 225. — Vanno soli, 326. — Impediti dai regi, 339.
— Richiamati, 375. — Contrarietà, 37, 294, 369. — Abbandonati, 94, 183,
321, 324, 333, 370, 390, 394, 428. — Pace col Turco, 428.

Venturieri nobili con Marcantonio, 19, 150.

Vermiglioli Traiano, 21.

Vetreschi Vetresco, 20.

Villani Fabrizio, 18.

Virgili (de) Adriano, 242.

Vitelli Alfonso, 304.

Viterbo. — Vedi Costantino, Rossolini, Signorini, Spuntoni, Vetreschi.

Vittoria di Lepanto non gradita alla corte del re, 175, 177, 283, 318,
323, 368.

Vittovaglie. — Vedi Panàtica.

Vitozzi Muzio, 20.


Zambeccari Alessandro e Paolo, 304, — Flaminio, 18, 130, 209, 236, 240.

Zane Girolamo di Venezia, 26. — Accoglienza a Marcantonio, 56. — La
battaglia, 65, 82. — Turbato, 81. — Ritorno, 82. — Abbandonato da
Giannandrea, 94. — Prigionia e morte, 35.

Zane Marcantonio di Bologna, 152.

Zante isola, 374.

Zoccoli Angelo, 20.

Zucconi Francesco, 150.

Zuñiga don Giovanni ambasciatore di Spagna a Roma, 117. — Insolenze
118, 122, 133. — Contro Marcantonio, 184, 285, 299. — Cacciato da san
Pio, 284.




INDICE.


  LIBRO PRIMO. — Il principio della Lega e la
    guerra di Cipro.                                       Pag.   1
  LIBRO SECONDO. — Conclusione della Lega e
    battaglia di Lepanto.                                       111
  LIBRO TERZO. — La guerra di Grecia, e lo
    scioglimento della Lega.                                    287

  Indice alfabetico delle persone, dei luoghi e delle cose.     437




NOTE:


[1] PII PAPÆ V, _Præceptum quod Christiani apud Turcas servi reperti
libere cum suis bonis abire permittantur_. BIBL. CASANAT., _Collez.
di Bolle, Editti ec._, t. I, anno 1570, nº 4. Parla il Pontefice con
queste istesse parole qui dette nel testo. Vedi appresso nota nº 80.

[2] ARCHIVIO COLONNA, Da una pergamena e parecchie copie. «_Dilecto
filio nobili viro Marco Antonio Columnæ, domicello romano, classis
nostræ et apostolicæ Sedis adversus Turcas præfecto et capitaneo
generali. Pius Papa quintus. Dilecte Filii, nobilis vir, salutem
et apostolicam beneditionem. Cum his difficillimis periculosisque
temporibus Præfectus Classis nostrae et hujus sanctæ Sedis contra
Turcas ingens bellum ad Venetorum omniumque Christianorum perniciem
molientes esset deligendus, ut coniunctis viribus illorum furorem et
conatus facilius repellere possimus, ad nobilitatem tuam potissimum
inter alios animum nostrum convertimus, sperantes ob ejus nobilissimæ
familiæ splendorem in tua virtute, prudentia, fide, reique in primis
militaris usu ac disciplina, nos conquiescere posse. Itaque in Dei
omnino potentis nomine, et ad Sanctæ Ecclesiæ, christianæque reipublicæ
defensionem et conservationem, te Praefectum et Capitaneum generalem
totius ejusdem classis nostræ et dictæ Sedis adversus Turcas cum
omnibus et singulis facultatibus, iurisdictionibus præminentiis,
prærogativis, honoribus et oneribus solitis et consuetis: necnon
cum stipendio menstruo pro te scutorum sexcentorum (paullis decem
pro quolibet scuto computatis) et provisione ordinaria pro duodecim
electis militibus_ Lancie spezzate _vulgo nuncupatis, et vigintiquinque
stipatoribus corporis tui_ Alabarderiis _vocatis, auctoritate
apostolica tenore præsentium ad nostrum et ipsius apostolicæ Sedis
beneplacitum, eligimus, creamus, constituimus et deputamus, mandantes
quibusvis triremium aliorumque navigiorum nostrorum ductoribus,
capitaneis, officialibus, militibus et personis sub pœnis arbitrio
nostro, atque, etiam tuo imponendis, ut te debito cum honore et
obsequio suscipientes tibi prompte reipsa praesto sint, mandatisque
tuis sine ulla mora atque exceptione pareant, et obediant, omniaque
imperata tua faciant et exequantur, non secus ac si nos ipsi ea
juberemus. Tu ergo, Fili, ita te geras, munusque ipsum hoc tibi per
nos libenter demandatum, sic diligenter ac strenue obire studebis ut
nostrae omniumque de te expectationi cumulate respondeas. In quo Deo
in primis, cujus causa nunc praecipue agitur, deinde desiderio nostro
maxime satisfacies, unde felicis perennisque vitae præmium a Domino,
a nobis autem bene navatae operæ laudem ac commendationem procul dubio
consequeris_.

»_Datum Romæ apud Sanctum Petrum sub anulo Piscatoris, die XI junii
MDLXX, Pontificatus nostri anno V._

                                                  »CÆSAR GLORIERIUS.»

[3] ANTONIO COPPI, _Memorie Colonnesi_, in-8. Roma, 1855, p. 349.
«_Marcantonio Colonna nacque a Civitalvinia il 26 febbraio 1535._»

I ritratti di Marcantonio possono vedersi nella Galleria colonnese,
donde furono ricopiati dal LITTA, _Famiglie celebri_, in-fol. Milano,
tav. IX; e da POMPILIO TOTTI, _Ritratti et elogi di capitani illustri_,
in-4. Roma, 1635, p. 256.

MARCANTONIO COLONNA in tutte le sue lettere a Pio V, a Gregorio XIII,
a Filippo II re di Spagna, al doge di Venezia, ai cardinali Rusticucci
e di Como, al Granduca di Toscana, agli ambasciadori di Venezia e di
Spagna, e in tante altre sue scritture dipinge sè stesso in questo
modo. Specialmente nelle due lettere a Filippo II, che sono nel t.
I, p. 272 e 277: l’ultima delle quali finisce così: «_Attendo dunque
a portar sì grave salma di soddisfare al pubblico ed al particolare
di tutti, che certo sa Iddio quanto travaglio. Et alla fine per
ricognitione et riposo mi resta sempre il giustificarmi di quello donde
meriterei honore et ricognitione. Lodato sia Dio del tutto, et a Vostra
Maestà bacio la mano. Da Corfù, li 6 di settembre 1572. Humile et
devoto subdito et servo di Vostra Maestà M. A. Colonna._»

[4] ANTONFRANCESCO CIRNI, _Commentari della guerra di Francia, soccorso
d’Orano, impresa del Pegnone e assedio di Malta_, in-4. Roma, 1567, p.
19.

AUGUSTINUS THUANUS, _Historia sui temporis_, in-fol. Londra, 1733
all’anno 1564, p. 411.

BOSIO, _Storia de’ Cavalieri di Malta_, in-fol. Roma, 1602, t. III, 482.

DAL POZZO, _Storia del Sacro ordine gerosolimitano_, in-4. Verona,
1703, t. I, p. 383.

ARCH. COLONNA, t. III, 176, 269, 270, 275; t. IV, per tutto, e codice
segnato col numero 150. Strumenti, perizie, caratazioni, spese, e
viaggi delle galere e del signor Marcantonio. Strumenti di compra delle
galere del cardinal Carlo Borromeo, vendita delle medesime al duca di
Firenze, tratta dei grani concessa dal re di Spagna per le medesime.

Non so se il chiarissimo signor don Aristide Sala abbia pubblicato
l’istrumento con che san Carlo Borromeo vendette a Marcantonio Colonna
tre galere della sua casa: mi ricorda avergliene parlato in Roma.

[5] CORNELIUS FIRMANUS, Magister Cæremoniarum, _Diarium MS. Bibl.
Chigiana_, L. I, 27: «_Die II junii dominica in festo Santi_ Barnabæ.»

[6] NATAL CONTI, _Storia de’ suoi tempi_, tradotta dal Saraceni, in-4.
Venezia, 1589, t. II, p. 68 in fine.

BARTOLOMMEO SERENO, p. 46: si veda la nota 18.

[7] MARCANTONIO COLONNA, _Scritture dell’armata navale_, MSS.
nell’Archivio di essa eccellentissima casa. Sono volumi 4, in-fol.
Incomincia il tomo primo: «A dì 11 giugno 1570. _Noi Marcantonio
Colonna duca di Paliano semo stato spedito capitan generale della
Santità di Nostro Signore contro Turchi, come appare per il breve di
Sua Beatitudine. Favorisca nostro Signore Iddio il suo santo servitio
a desiderata vittoria. In questo libro si annoteranno tutte le
expeditioni che giornalmente si faranno._» — Questo codice e tutti gli
altri dell’archivio intorno a queste materie, per cortesia somma del
gentilissimo cavaliere signor don Vincenzo Colonna, sono stati messi
a disposizione dell’Autore che, avendoli studiati in sua camera con
ogni comodità, stima suo debito rendergliene qui pubblico e solenne
ringraziamento.

Si noti che molte delle predette scritture sono autografe di
Marcantonio, il quale non pertanto quasi sempre in persona terza parla
di sè stesso.

In detto Archivio si conservano, oltre ai volumi legati, molte filze e
carte sciolte relative a questi successi.

[8] ARCH. COLONNA cit., t. I, p. 2 e 3, e t. III, p. 226. Nota delle
spese fatte da Marcantonio in Ancona.

BOSIO cit., t. III, p 850.

GIAMBATTISTA ADRIANI, _Storia de’ suoi tempi_, in-fol. Venezia, 1583,
p. 860.

ANTONII M. GRATIANI, _De bello Cyprio_, libri quinque, in-4. Roma,
1624, p. 54.

UBERTUS FOLIETTA, _De sacro fœdere in Selymum turcarum tyramnum ap.
Burmannum in Thes. Hist. Ital._, t. I, p. 970.

PAOLO PARUTA, _Historia della guerra di Cipro_, in-4. Venezia, 1718, p.
64.

Tutti questi ed altri molti, parlano dell’armamento delle galere
fatto da M. A. Colonna nell’anno 1570 in Ancona. Ondechè la pietà quel
Saracino il quale tronfio e paffuto nella sua storia di essa città, a
pagina 368, scrive così: «_Dall’anno 1567 al 1574, che sono anni sette,
non ho notizia alcuna di Ancona._»!! Donde attendeva costui le sue
notizie?

[9] ARCH. COLONNA cit., t. I, p. 14, 19, 24, 42. Quivi sono gli
specchietti degli uomini necessari ad ogni galera, e dei soldi mensili
di ciascuno; che io stimo doversi pubblicare con alcune noterelle per
chi apprezza i bei lavori archeologici del chiarissimo A. Jal, fatti
per ordine del Ministro della Marina di Francia:

  Numero          Qualità delle persone.               Soldi
  delle                                                complessivi
  Teste.                                               a scudi per
                                                       mese.

    1       _Comito_. (Il primo de’ bassi
              ufficiali)                                7. —
    1       _Sotto Comito_.                             5. —
    1       _Scrivano_. (Ragioniero)                    5. —
    1       _Peota_. (Piloto)                           3.50
    3       Maestranze (calafato, mastro d’ascia,
              e remolaro) a due scudi                   6. —
    3       Loro fanti, a paoli quindici                4.50
    2       Capi bombardieri, a scudi 4                 8. —
    4       Bombardieri, a paoli venticinque           10. —
    1       Cappellano                                  2. —
    1       Barbiero. (Cerusico)                        3. —
    8       Compagni d’albero (Marinari di prima
              classe) a scudi 3,75                     30. —
   30       Marinari, a scudi 2,50                     75. —
  100       Soldati, a scudi 4,57                     457. —
            Pane ai medesimi                           50. —
            Vino e companatico                        165. —
  200       Remigi (mantenuti dalle Comuni)            »   —
    1       Capitano della galera                      30. —
    1       Capitano delle Fanterie                    30. —
    1       Alfiero                                    10. —
    2       Gentiluomini di Poppa, a scudi 8           16. —
  ———                                                 ——————
  361                                                 917. —

ARCH. COLONNA, t. II, p. 266. «_Marcantonio ebbe dalla Marca circa
duemila uomini da remo, pagati da quella provincia per sei mesi._»

[10] ARCH. COLONNA cit., t. I, p. 9.

[11] ARCHIVIO COLONNA cit. t. I, p. 1 a 13.

VINCENZO ARMANNI, _Storia della nobile ed antica famiglia de’
Capizucchi, baroni romani_, in-4. Roma, 1668.

Id., _Ragguaglio_ per appendice alla predetta istoria. Roma, in-8. 1680.

ANNIBALE ADAMI, _Elogi storici di due marchesi Capizucchi_, in-fol.
Roma, 1685.

FERDINANDUS UGHELLIUS, _Genealogia nobilium de Capizucchis_, in-fol.
Roma, 1653.

PETRUS ALOYSIUS GALLETTI, _Inscriptiones Romanæ_, Classis X, nº 22, 29,
36.

TEODORO AMEYDEN, _Le famiglie romane_, autografo del secolo XVII, MSS.
Casanat., E. III, 11.

GAMURRINI, CRESCENTIO, ZAZZERA, IMHOFF, CRISPOLTI, MARCHESE, LITTA ed
altri genealogisti.

[12] CARLO PROMIS, Le _Opere_ di Francesco di Giorgio Martini, in-4.
Torino, 1841, t. I, p. 317, parla del Fontana in una nota.

JACOPO FONTANA, Capo bombardiere ed ingegnere propose a Papa Sisto
V il ristauro del porto e fortificazioni d’Ancona. MSS. Vaticano nº
del codice 5463. — Quivi dà egli stesso notizia della sua vita e de’
servigi prestati nell’armata sotto Marcantonio Colonna.

ARCH. COLONNA, t. III, p. 212, lin. 4.

ARCH. COL., t. I, p. 153: «_Scriverò con questa cifra che tiene il
Gallo mio secretario._»

[13] ARCH. COL. cit., t. III, p. 164, e t. II, p. 141.

GIAN PIETRO CONTARINI, _Historia delle cose successe dal principio
della guerra sino al dì della gran giornata_, in-4. Venezia, 1645.
p. 15, 16. Esso ed altri scrittori veneziani e spagnoli ripetono e
storpiano orrendamente i nomi. Per esempio: capitan Cortesi, Baccio
da Pisa, e Pandolfo Strozzi, nei MSS. e in qualche stampa si leggono
Pamiolfo Atroci, Bazza da Pista, e capitan Cortes. — Avvertenza
necessaria per comprovare alcune volte l’identità delle persone.

[14] In tutte le scritture del cinquecento il nome della città di Terni
nell’Umbria si poneva Terani, sincopato dal latino _Interamna_, poi
più speditamente rivolto a Terni, come oggi si dice: per non ripetere
questa avvertenza e per togliere gli equivoci, userò in seguito sempre
la moderna ortografia che dice Terni, ogniqualvolta nell’originale
si trovi Terani. Così pure io scriverò Ripatransone quando leggo ne’
codici della Ripa.

[15] CRISPOLTI, _Annali di Perugia_, MSS. alla Comunale, C. 33, t. II,
p. 254, 260.

[16] ARCH. COL., t. I, p. 201 e t. III, p. 43.

[17] ARCH. COL., t. I, p. 13.

Lettera di M. A. Colonna a Monsig. reverend. Alessandrino d’Ancona, 20
giugno 1570.

Similmente t. II, p. 461 e, t. III, p. 1.

[18] ARCH. COL., t. I, p. 49.

«_Signori sopraccomiti delle galere di Nostro Signore in Ancona, per
ciascuna vostra galera farete caricare l’infrascritte robbe, cioè:_

  _Biscotto migliara_      30
  _Vino, some_             50
  _Riso, migliara_          1
  _Fave, some_             10
  _Oglio, otri_            15
  _Aceto, some_             8
  _Sardelle, barili_       12
  _Salami, migliara_        2½
  _Formaggio, migliara_     1
  _Sale, libbre_          200
  _Stoppa_                300
  _Pece, libbre_          200
  _Sevo, libbre_          300
  _Sacchi, numero_         50
  _Polvere, migliara_       3

_Dalla galera Capitana in Ancona, a dì 6 di luglio 1570._»

                                                       M. A. COLONNA.

ARCHIVIO Centrale in Firenze, Arch. Mediceo Codice 2979. Lettera del
Bartoli ambasciadore di Toscana a Venezia. Al Granduca, del 10 Giugno
1570. «_Pel signor Marcantonio Colonna fanno rinfrescare una galea
quadrireme del Fausto, che sono trent’anni che mai non fu in mare._»
Ecco per gli archeologi una notizia di più intorno alla celebre
quadrireme del Fausto.

[19] ARCH. COL. t. I, p. 55.

BARTOLOMEO SERENO, _Commentari della guerra di Cipro e della lega dei
Principi cristiani contro il Turco_, in-8. Montecassino, 1845, p. 46.

Il Sereno, come quivi nel prologo dimostrano gli eruditi editori,
fu cavaliero romano e capitano nell’armata pontificia. Dopo aver
combattuto in più guerre e sostenuto un carico principale nelle
galere del Papa alla battaglia di Lepanto, si rese monaco: e portò
a Montecassino la storia delle cose per lui fatte e vedute nel tempo
della Lega.

Qui vuolsi notare l’errore di alcun bibliografo, che vedendolo così
facilmente da capitano convertito in monaco, prese da romano a farlo
napolitano.

FERRANTE CARACCIOLO, conte di Biccari, _Commentari delle guerre fatte
coi Turchi da Don Giovanni d’Austria_, in-4. Firenze 1581, p. 6.

GIO. PIETRO CONTARINI, _Storia delle cose successe dal principio della
guerra mossa da Selim Ottomano ai Veneziani sino alla gran giornata di
Lepanto_, in-4. Venezia, 1572, ristampata nel 1645: cito quest’ultima.

[20] ROSELL CAYETANO, _Historia del combate naval de Lepanto_. Obra
premiada por voto unanime de la real academia de la historia, in-8.
Madrid, 1853, p. 19 e 22.

SERENO cit., p. 253.

ARCH. COL. per totum.

GIAMBATTISTA CASTAGNA, arcivescovo di Rossano e nuncio apostolico alla
corte di Spagna (fu poi Papa sotto nome di Urbano VII). _Lettere_, cod.
507, t. II, p. 175. Mss. alla Corsiniana in Roma.

[21] ARCH. COL. t. I, per totum.

FRANCESCO LONGO, _Successi della guerra con Selim_. ARCH. STOR. ITAL.,
Appendice, t. IV, 17, p. 19.

FERRANTE CARACCIOLO, _I commentari delle guerre fatte da Don Giovanni
d’Austria_, in-4. Firenze, 1581, p. 6.

FORESTI, _Mappamondo storico_, in-4. Venezia, 1736, t. XII, p. 10.

IL SAGGIATORE, _giornale romano di storia e documenti_, in-8. 1844, t.
II, p. 289; III, p. 27.

[22] ARCH. COL. cit. t. II, p. 161. «_Illustre Marco Antonio Colona
primo. Vuestra carta de nueve de junio he recibido en que me dais
cuenta como Su Santitad os habia nombrado por Capitan general de sus
Galeras, y he holgado yo mucho de ello por la particular voluntad que
as tengo, y confiança que hago de vestra persona de que terreis la
misma cuenta con las cosas de mi servicio que siempre habeis tenido en
las que se os han encomendado._

_A Don Juan de Zuñiga mi ambaxador (a Roma) escrivo que os de cuenta de
la resolucion que he tomado en que Juan Andrea se vaya a juntar con las
galeras de Su Santitad y con las de la Ill.ma republica de Venecia con
las que antes se le habia ordenado que tuviesse juntas en el nuestro
Reyno de Sicilia_, y os obedesca y siga el estendarte de Su Santitad.
_Y os encargo y ruego mucho que en la jornada os valgais en todo
del parecer de Juan Andrea que entiendo que os aprobecherà mucho su
asistencia para que se acierte por la platica y experiencia que tiene
de las cosas de la mar; y que tengais cuidado de avisar nos de todo lo
que se ofreciere, y asi mismo que tengais advertencia que si l’armada
del Turco tomase otra determinacion de la que hasta ahora se ha dicho
en daño de nuestras tierras vos hagais acudir con todas las guleras a
la necessidad como es de razon i yo de vos confio._

  _Del Escurial a XV de julio 1570._

  _Yo el Rey_

                                                         ANTº PEREZ.»

COLLECCION _de Documentos ineditos para la historia de España_, in-8.
Madrid, 1843, t. III, p. 356.

«_Carta de Filipe II a don Garcia de Toledo. Escorial, 15 de julio
1570. — Y quanto al punto de juntarse las dichas nuestras galeras con
las de Venecianos, aunque a los principios se representaron algunos
inconvenientes, habiendo tornado a mirar en ello, me he resuelto de que
Juan Andrea se vaya a juntar con las que tiene juntas en el nuestro
reyno de Sicilia con las de Su Santitad y con las de Venecianos, i
obedezca a Marco Antonio Colona como a general de las galeras de Su
Santitad y siga su Estendarte el tiempo que durare la dicha junta._»

[23] DU MONT., _Corps diplomatique_, in-fol. Amsterdam, 1738, t. V, P.
I, p. 192.

SURIANO, _Negotiato et Conclusione della Lega_, Append. al SERENO, p.
411.

[24] ARCH. COL. cit., t. II, p. 9; t. I, p. 78.

SAGGIATORE, giornale romano, in-8. 1845, t. III, p. 170. — La sola
intestazione latina: «_Aloysius Mocenigus Dei gratia Dux Venetiarum
etc., illustrissimo Domino Marco Antonio Columnæ Pontificiæ classis
Capitaneo generali, filio nostro carissimo salutem et sinceræ
devotionis affectum._»

[25] BOSIO cit., t. III, p. 863, E.

[26] CABRERA. HERRERA. SEPULVEDA. LAFUENTE. ROSELL.

CONTARINI. LONGO. DIEDO. MOROSINI. ROMANIN.

WILLIAM H. PRESCOTT, _History of the Reign of Philip the second_,
in-8. Londra, 1859, t. III, p. 247. «_Fortunatly the chair of S. Peter
was occupied by Pious the fith, who seens to have been called forth
by exigencies of the times to uphold the pillars of Catholicisme;_»
e p. 310: «_He was the true author of the league. He the only of the
confederates Who acted solely.... for the interest of the faith._»

[27] ROSELL cit., p. 46: «_Doria procediò, quando menos, con
indolencia.... España hizo quanto podia.... Sobre su gobierno deben
recaer las culpas._»

Ib., p. 133: «_La inaccion de don Juan era efecto de los ordenes de la
corte._»

Ib., p. 150: «_Culpa fue de nuestra Corte, o per mejor decir del Rey
Felipe._»

Ib-, p. 156: «_No se imputò la culpa ni a don Juan ni a Venecianos....
Pendiò exclusivamente de los recelos de Felipe.... que pospuso la
obligacion de las estipulaciones que habia firmado._»

CABRERA, VANDER HAMEN, SEPULVEDA, LA FUENTE.

[28] MAUROGENUS ANDREAS, _Histor. venetæ_, lib. IX, in-4. Venezia,
1719, p. 333: «_Ex quo tandem eo deventum est ut Hyeronimus Zannius
imperator Venetias vocatus inter reos referretur. Novi classis Legati
crearentur._»

GIACOMO DIEDO, _Storia veneta_, in-4. Venezia, 1751, lib. VII, p. 256:
«_Partì il generale Zane per Venezia obbligato a discolparsi da molte
imputazioni._»

PARUTA, _Guerra di Cipro_, in-4. Venezia, 1718, p. 167: «_Il general
Zane a Venezia era di molte colpe accusato.... e, prima che giustificar
potesse la sua causa, morì_.»

[29] SERENO cit., p. 91: «_E chi non sa che la sete maggiore degli
Spagnoli è l’impero assoluto di Italia, il quale altra potenza non è
che lor vieti che i soli Veneziani?_»

CABRERA, _Vida de Felipe II_, in-fol. Madrid, 1619, p. 667. «_Los
Venecianos decian hasta quando serian burlados par les Españoles con
engaños entretenidos: porque, despojados por et turco de su señorio,
faltasse a Italia el principal fundamento de su libertad: a cuyo
imperio con desenfrenado deseo ya aspiraban._»

ROSELL cit., p. 19: «_Repatabase la monarquia de Felipe II dominadora
de entrambos mundos.... Rodeabase el mundo todo, y el ambito siempre
alumbrado por el sol del dominio de los españoles._»

[30] GRAZIANI, p. 243: «_Inter Venetos Hispanosque cum palam
amicitia societasque esset, secreto acrioribus quam cum hoste odiis
certabatur._»

FRANCESCO LONGO per totum.

ROSELL, p. 49: «_Tratabase de que coadiuvassen a un mismo fin
voluntandes opuestas, e interesses encuentrados.... Los politicos
tenian la allianza per punto menos que irrealizable._»

MODESTO LAFUENTE, _Historia de España_, in-8. Madrid, 1854, t. XIII, p.
486: «_Viose luego lo difficil que era traer a comun acuerdo potencias
que obraban impulsadas per diversos interesses i fines.»_

NICOLÒ DA PONTE, _Orazione al Senato Veneziano contro la Lega_, ext.
ap. SERENO cit., p. 105.

[31] PHILIPPI II, _Hispaniarum regis epistola ad Gabrielem a Cueva,
ducem Albuquercium, Status Mediolanensis gubernatorem generalem_,
XVII kal. junii 1570. — «_Qua de re te commonefaciendum putavimus ejus
item juris quod principatus noster Mediolanensis in venetos eorum que
dictionem sibi esse prætendit._» Ap. LADERCHI, Ann. Eccl. in-fol. Roma,
1737, t. III, p. 17.

[32] GRAZIANO, 245: «_Hispani veteri consilio, atteri atque debilitari
rem venetam præoptabant._»

LADERCHI, t. III, p. 516: «_Perspecta hispanorum mens et ratio
consiliorum qui reipublicæ venetæ semper infensi eam ab initio semper
frustrati fuerant._»

RAYNALDO, ann. 1538, nº 26: «_Comodum Cæsaris; qui Venetos turcico
bello implicitos, atque a præpotente hoste viribus et opibus
exhauriendos, terrestris imperii urbibus expoliare posset._»

AUGUSTINUS THUANUS, _Hist._, in-fol. Londra, 1733, lib. 54, nº 21, p.
206: «_Hispanorum id consilium esse ut Venetos inutilibus et insanis
sumptibus absumant: eorumque ditionem bello attritam, inde turcis
exponant, hic propriæ ambitioni._»

MARCANTONIO COLONNA, _Pensieri sulla Lega_, t. II, p. 195: «_Per le
suddette ragioni potevano i Veneziani dubbitare che dai ministri di
Sua Maestà cattolica, così poco amorevoli non fossero dati quegli aiuti
che erano necessari.... Tanto maggiormente tenendo che il consiglio di
Spagna non desideri totalmente la grandezza di essi signori Veneziani
per raggione di Stato_....»

VILLEMAIN, _Rapports de la poésie avec l’histoire politique, — dans la_
Revue des deux mondes, 28.e année, seconde période, t. XVII, 1 octobre
1858. — 3.e livraison in-8. Parigi, 1858, p 650: «_Rien n’arrêta le
zèle du généreux Pontife, pas même les lenteurs égoïstes et la froide
astuce du monarque dont il devait le plus espérer le secours. Philippe
II, en effet, impitoyable pour les débris du Mahométisme épars encore
dans ses états, hésitait à lutter contre la puissance des Turcs, et
surtout à défendre contre eux Venise._»

[33] BOSIO cit., t. III, p. 114.

PETRUS BIZARUS, _Historia Januensis_, in-fol. Anversa, 1579, lib. 20,
p. 493.

PAOLO GIOVIO, _Storie_, tradotte dal DOMENICHI, in-4. Venezia, 1608. t.
II, p. 271.

[34] SERENO cit., p. 253.

[35] MURATORI, _Annali_, 1570.

ROSELL cit., p. 23.

MARCANTONIO COLONNA, _Lettere al Cardinale Alessandrino_. Da Venezia,
27 giugno 1570. ARCH. COL. cit., t. I, p. 16: «_Dico che Vostra
Signoria Illustrissima può assicurar nostro Signore che i Veneziani
son tanto inanimati che più non si potria dire, tanto nella guerra,
che nella lega. E di pace col Turco non hanno alcun pensiero, et
solo il non essere ajutati potria esser causa di questo.... Dubitano
che il signor Giannandrea non vada a Corfù, il che dispiacerebbe
a questa Signoria, e li metterebbe in tant’ombra che più non si
potrebbe dire.... Confidano infinitamente in Sua Santità et sperano
che Ella resterà soddisfatta di loro nel particolare della Lega
e che coll’autorità sua leverà ogni dubbio che potesse nascere
et cavillatione che venisse interposta..... Et sono risoluti di
combattere: et certo io che gli ho parlato et visti in faccia, et li
tratto ogni hora ne resto tanto soddisfatto che più non si potria._»

Item, p. 23: _Lettera al señor Gusman de Silva, ambaxador por S. M. en
Genua_. Desde Venecia, el ultimo de junio 1570: «_Los que tratan la
liga la quieren tanto particularizar que dudo daran lugar i occasion
a estos señores venecianos de passalle la gana de la guerra: tanto
mas que han gastado hasta ahora cerca de dos miliones, y dudan que las
galeras de su Majestad ne se junten cen ellos: y haber perdido este año
en el qual se huvieran echo grandes cosas._ Dudo que la mucha sabiduria
del Cardenal Granuela lo ha de hechar a perder todo. _I asi verà S. M.
que cosa es perder una occasion como esta._» Parole di profeta.

[36] MICHELE BONELLI cardinale Alessandrino, _Istruzioni particolari
e private a Monsignor de Torres per trattare la Lega con Sua Maestà
cattolica_, pubblicate in appendice al SERENO cit., p. 427, 431.

GIAMBATTISTA CASTAGNA, nunzio alla corte di Spagna, _Lettere e
corrispondenze Mss._, BIB. CORSINIANA, Cod. 506 e 507, p. 175.

MONSIGNOR LUIGI DE TORRES, _Relazioni della sua nunziatura
straordinaria in Spagna l’anno 1570_, Ms. presso i marchesi Torres
all’Aquila.

ARCH. SECRET. VAT. Venezia, C. E., 2492. — Spagna, CXV, E. 2503.

[37] SERENO cit., p. 253.

ROSELL cit., p. 20: «_Pues, quando Venecianos tenian a la memoria que
en occasiones parecidas a la presente no habian querido acceder a los
ruegos del rey catolico que les pedia ayuda, tenian per certisimo su
desamparo._»

[38] PARUTA, _Guerra di Cipro_, in-4. Venezia, 1718, p. 294: «_Dicevano
avere il Re di Spagna in questa Lega avuti innanzi i suoi propri
interessi._»

ROSELL, p. 19: «_Felipe tampoco anteponia les escrupulos de la
conciencia a los oficios de rey.... en todo preferia los interesses
de su corona_; p. 21: _El genio de Filippe II despacible, reservado,
astudo y rincoroso, como en toda Europa se la suponia_; p. 150: _Culpa
fue de nuestra corte, o par mejor decir del rey Filippe II_.»

LONGO cit., p. 21: «_Li Spagnoli avevano opinione che se la Republica
avesse avuto una stretta dal Turco si avrebbe resa più facile a
soddisfargli di quello che avessero voluto._»

M. ANTONIO COLONNA, _Lettera al cardinal Rusticucci_, Da Venezia, 16
luglio 1570; ARCH. cit., t. I, p. 43: «_Son venuti da me tre di questi
Signori de Pregadi et mi hanno pregato che io faccia ufficio con nostro
Signore che oltre alle galere di Malta, Sua Santità si procurasse
quelle della Signoria di Genova, et del Gran Duca, delle quali io li
ho risposto che le devono domandar loro: al che si stringono nelle
spalle._» Cioè dire che non isperavano soccorso da chi seguiva la
politica di Spagna; nè anche contro il Turco, quando pur ne avessero
obbligo per istituzione e per voto.

ARCHIVIO Centrale di Firenze. Arch. Mediceo Cod. 4905. Lettera di
Cosimo I al cavaliere de’ Nobili suo ambasciatore in Spagna, data del 5
novembre del 1570. Domanda consiglio al Re sopra il concedere o no le
sue galere al Papa: e si lagna di S. M. perchè tratta con artifizio e
velame.

[39] FRANCESCO LONGO, _Guerra di Selim_. — ARCH. ST. IT., Append., t.
IV, p. 19. «_Giannandrea disse a Candia che nella commissione del Re
v’era una riga di suo pugno._»

Idem, p. 21: «_Giannandrea aveva ordine di non combattere._»

COLLECCION DE DOCUMENTOS, t. III, p. 9, _Lettera di don Garzia di
Toledo a don Luigi de Requesens_: «_No sepan Venecianos que_ Su
Majestad tracte de que no se pelee.»

ARCH. COL., t. II, p. 158: _Lettera di M. A. al Re_: «_Pareciendo a
Marcantonio que no era razon que ni a Venecianos ni al mundo se diesse
a creer que da un Rey tan grande y de tanta bondad, hubiessen salido
ordenes contrarios, per un mismo negocio._»

MARCANTONIO COLONNA, _Relazione al Re cattolico di quel che avvenne
nell’armata l’anno 1570_. ARCH. CASSIN., append. SERENO cit., p. 437
e 438: «_Veda Vostra Maestà quanto male a proposito Giovannandrea_,
allegando di aver comandi particolari _di Vostra Maestà, disgustasse i
Veneziani.... Mi dolse che Gioannandrea mi desse a credere che V. M.
intorno a quest’affare avesse a lui affidato_ segreti _che a me non
palesò_.»

MARCANTONIO COLONNA, _Lettera al cardinal Rusticucci da Corfù_,
novembre 1570. Arch. Col., t. II, p. 412: «_Il generale veneziano mi
ha mostrato uno scritto venuto da Ragusa, che in somma Pagan Doria,
fratello di Giannandrea, disse offerendosi a farci scommessa che non si
sarebbe combattuto coll’armata nemica, perchè Giannandrea haveva ordine
di Sua Maestà di non lo fare in quest’anno. Hor io spero esser alli
piedi di Sua Santità, e li darò contezza._»

ARCH. COL., _Lettera di Marcantonio al vicerè di Napoli_, Da Corfù,
28 novembre 1570: «_Qui mostrano una fede fatta da certi gentiluomini
veneziani in Ragusa dove dicono che Pagan Doria voleva scommettere
che non si sarìa combattuto coll’armata del Turco perchè Sua Maestà
così aveva ordinato a Giannandrea, e che per quest’anno non voleva Sua
Maestà si facesse niente.... Pagano era malato in Ragusa con Vincenzo
Vitelli quando li venne voglia di far questa gentile scommessa._» T.
II, p. 420.

ROSELL cit., p. 133, nº 13: «_La inaccion de don Juan era_ effecto de
las ordenes _de la Corte_.»

[40] MARCO ANTONIO COLONNA, _Relazione di quanto è successo all’armata
il 1570_, pubblicata nel SAGGIATORE, giornale romano di storia e
documenti, t. III, p 29 e 30: «_Giannandrea disse che non faria quel
che gli ordinasse il signor Marcantonio, eccetto in quello che paresse
a lui._»

[41] MICHEL SORIANO, _Trattazione della Lega tra N. S. Pio V, il Re
cattolico e la Repubblica di Venezia contro il Turco nell’anno 1570_,
Appendice (non pubblicata dai Cassinesi) MS. CASANAT., XX, I, 32, p.
328: «_Intanto si ebbe avviso della ritirata dell’armata cristiana, e
delli dispareri nati tra il signor Marcantonio ed il signor Giannandrea
Doria, donde fu data imputazione al Doria che havesse mancato
abbandonando gli altri e messo in disordine l’impresa. La qual cosa
turbò grandemente l’animo di tutti, et il Pontefice entrò in sospetto
che la Signoria venuta in diffidenza delli regi non fosse per attendere
alla Lega. Et fu confermato in questo dalle parole dell’Ambasciador
Soranzo, il quale aggravando il fatto comparavalo con quello che seguì
l’anno 1538 nell’altra guerra._»

[42] Nella Galleria della eccellentissima casa Doria in Roma non è
ritratto di Giannandrea: ma bensì sopra due medaglie d’argento scolpita
la sua fisonomia. Ambedue simili nel diritto e nel rovescio, quantunque
l’una alquanto più rozzamente lavorata. Quivi è il busto di Giannandrea
a capo nudo, con sulle spalle e sul petto un gran manto: attorno si
legge: IO. AND. AUR. COMES. LODANI.

Nel rovescio si vede la galera sua capitana, le bandiere al vento, e
sopra il molto: DEI. ET. REGIS. MVNERE.

Niuna biografia, a mia notizia, parla di Giannandrea, men che quella di
BRANTOME: il quale in un capitoletto lo loda per gran marino, lo chiama
brusco, e non entra in altri particolari.

AGOSTINO OLIVIERI, _Monete, medaglie e sigilli dei Principi Doria_,
in-8. Genova, 1859, alla tavola IIª nº 3, produce la medaglia sopra
citata, e nº 4 ne aggiugne un’altra, nelle quali si vedono i medesimi
tratti.

[43] ROSELL cit., p. 34: «_En el retraso del Doria intervinieron
circumstancias de diversa indole. Lo primero que la corte d’España
abituada a mirar con certa desconfianza la amistad de los Venecianos, e
no creiendo, hasta venir formalizadas las hostilitades, que el Senado
dejase de intentar alqun medio de accomodamiento con la Porta, anduvo
remisa en dar a Doria las istrucciones, que le mandò mas adelante._»

LODERCHI, _Ann. eccl._, t. III, p. 18 a 22. Tratta di tutte le
dilazioni precedenti, e susseguenti di Giannandrea e delle varie
opinioni circa la causa.

ARCH. COL., _Lettera di Marcantonio al card. Rusticucci, da Otranto il
20 agosto 1570._ T. 1, p. 63: «_Il signor Giannandrea partì alli 12 da
Messina senza saper ch’io l’aspettassi. Poi al capo della Colonna ebbe
la mia fregata; e sebbene il tempo buono l’aveva portato qui vicino, se
ne tornò indietro a Taranto per pigliare alcuni soldati: e questa fu
giovedì a sera del 17: e non è ancora comparso. Talchè quando pareva
che si havesse da usar maggior diligenza, sapendosi ch’io aspettavo,
si è andato più ritenuto. E tutto questo negozio verrà a battere in
questo che (come saremo a Candia tardi) si metta in difficoltà il
passare avanti, et la impresa si converta in util privato di alcuni
danni che si possono fare al nemico: che non sono di sostanza al fatto
presente._»

Item, _Lettera all’ambasciadore di Spagna_, da Otranto, 21 agosto, ib.
p. 64. »_Il signor Giovannandrea fa molta difficoltà non solo di passar
Candia, ma d’arrivarci._»

[44] ARCH. COL. cit., t. I, p. 65; t. II, p. 3 e 155.

ARCH. CASSINESE, Pubblicazione nell’appendice del SERENO cit., p. 431.

[45] ARCH. CASSINESE cit., p. 432.

FERRANTE CARACCIOLO cit., p. 6 in fine.

ARCH. COL., _Relazione al Re_, t. II, p. 155 e p. 256.

MARCANTONIO COL., _Lettere al cardinal Rusticucci_. Da Otranto, a dì
20 agosto; e dalla Suda in Candia, a dì 5 settembre. ARCH. cit., t. I,
p. 64 a 67. Nella prima dice così: «_Alli 17 d’agosto capitò qui vicino
il signor Giannandrea, e tornò indietro fin in Taranto.... io vedo che
quest’allungamento è la ruina di questo negotio._» In data del 21 dice:
«_Questa notte giunse il signor Giannandrea, e se ne restò fuori del
porto._»

[46] MARCANTONIO COLONNA, _Relazione al re di Spagna_: «_Por mucho que
Marco Antonio importunase a Juan Andrea, no teniendo alli negocio de
dos horas, no lo pudo arrancar de Otranto en dos dias._» T. II, p. 155.

[47] STEFANO LUSIGNANO di Cipro, lettore dell’Ordine dei Predicatori,
_Chorografia et breve historia universale dell’Isola di Cipro_, in-4.
Bologna, 1573.

ANGELO CALEPIO di Cipro, dell’ordine de’ Predicatori e vicario generale
in Terrasanta, prigioniero de’ Turchi a Cipro, _Vera et fedelissima
narratione del successo della espugnatione et defensione del regno di
Cipro_, ext. in præced.

GIAN PIETRO CONTARINI, _Historia delle cose successe dal principio
della guerra di Cipro, sino alla giornata di Lepanto_, in-4. Venezia
1572 e 1645.

PAOLO PARUTA, cavaliere e procuratore di San Marco, _Storia della
guerra di Cipro_, in-4. Venezia, 1718.

EMILIO MARIA MANOLESSO, _Historia nova nella quale si contengono tutti
i successi della guerra turchesca_, in-4. Padova, 1572.

PETRUS BIZARUS, _Cyprium bellum_, ext. int. Aulæ Turciæ script. ab
GEUFFRÆO et GODELEVEO, editos in-8. Basilea, 1577, p. 678.

ANTONIUS MARIA GRATIANUS, _De bello Cyprio_, libri quinque, in-4. Roma,
1624.

LADERCHI, BZOVIO, TARCAGNOTA, CATENA, SPONDANO, GABUSSI ed altri.

[48] SERENO cit., p. 32 e 54.

CAPITAN ANGELO MARIA GATTI da Orvieto. _Successi della guerra di
Famagosta nell’isola di Cipro, e della presa di essa_, MS. alla
CHIGIANA in Roma, G. IV, 102, ed alla CAPPONIANA e MARUCELLIANA in
Firenze. Quivi sono i nomi di più altri capitani statisti.

[49] CALEPIO cit., p. 95, verso, linea 17, 19.

[50] SERENO cit., p. 54.

[51] CALEPIO cit., p. 96 e 97.

[52] SERENO cit., p. 56.

[53] GIANNANDREA DORIA, _Primo manifesto al sig. Marcantonio Colonna
dato da Secthia li 16 settembre 1570_. ARCH. COL., t. IV, p. 119. Ed
altra copia legata in pelle verde presso don Vincenzo Colonna.

Quivi l’autore medesimo, giustificando la sua condotta, confessa d’aver
nel consiglio parlato in questo modo. Il documento si trova nell’ARCH.
COL. Fu anche pubblicato dal SAGGIATORE, giornale romano del 1844, t.
II, p. 289, come se fosse inedito: ma era per la sua grande importanza
publicato già prima da CESARE CAMPANA, _Historie del mondo_, in-4.
Pavia, 1602, t. I, p. 56, come ben avvisano gli editori Cassinesi del
SERENO a p. 385, nella nota. Ed io per mostrar la grande importanza
che i contemporanei mettevano in questa confessione generale del Doria
aggiugnerò essere stato pubblicato pure dal BOSIO nella sua storia dei
Gerosolimitani più volte citata al t. III, p. 865.

FRANCESCO LONGO cit., ARCH. STOR. ITAL., t. IV, app. p. 19.

FERRANTE CARACCIOLO cit., p. 6.

SERENO cit., p. 67.

ADRIANI cit., p. 861.

ROSELL cit., p. 37 e 38, e 171 e 175.

ARCH. COL., t. I, p. 68. _Lettera di M. A. al sig. Antonio Tiepolo_.
Data dalla Sada, 7 settembre 1570: «_Il signor Giovanni Andrea teme di
noi come dell’inimico._»

E t. II, p. 9, verso il fine: «_Il signor Giannandrea non concorreva
nè all’uno nè all’altro partito: ma all’andar a far dei danni e pigliar
degli schiavi._»

[54] ARCH. COL. ut supra.

ARCH. CASS. ut sup., p. 434, lin. 11.

[55] ARCH. COL., t. I, p. 79, _Parere di Sforza_; item, t. III, p. 130,
e t. II, p. 10.

[56] MARCO ANTONIO COLONNA, t. I, Diverse sue _Lettere e manifesti_
conservati nell’Archivio e qualcuno pubblicato dal SAGGIATORE cit., t.
II, p. 294, 336 e 337.

[57]

  Galere del Papa   12
  Del Re            49
  Della Signoria   126
  Galeone            1
  Galeazze          11
  Navi               6
                  ————
                   205

[58] ARCH. COL., t. I, p. 75.

[59] MARCANTONIO COLONNA, _Relazione dell’armata al re cattolico_,
ARCH. COL., t. II, p. 158. «_Es de notar que los dichos Venecianos
estaban con el animo tan impreso que Juan Andrea en esta jornada no
tenia voluntad de hacer nada con l’armada de Vuestra Majestad, que el
General vino a terminos que dixo a Marcantonio que el queria ofrecer a
Juan Andrea, para securidad de su persona y de sus galeras, un deposito
de doscientos mil cequines de Venecia: y Marco Antonio lo estorbò que
no lo hiciesse, diciendole que se hiciera agravio a la armada de V. M.
y a sus Ministros._»

MARCANTONIO COLONNA, _Relazione alla Maestà del Re nostro signore
di quel che avvenne nell’armata_: pubblicato dall’ARCH. CASSINESE.
Appendice al SERENO, p. 435: «_Onde mi fu mestieri parlare per togliere
le male intelligenze e sì calmai gli animi già troppo annuvolati.
Ma non siffattamente che il generale veneziano, come per disprezzo,
non offrisse polizze di cento scudi_ (l’una, sino alla somma di
dugentomila zecchini che sono due milioni e mezzo di franchi) _con
che Giovannandrea potesse soccorrere ai danni che dalla battaglia gli
venissero._»

[60] ARCH. COL., t. I, p. 85, t. II, p. 269, 331 e 380.

ARCH. CASSINESE ut sup., p. 435. «_Giovanni Andrea richiese, tre cose
al general veneziano: la prima che desse biscotti ec.»_

[61] BOSIO cit., p. 864, D.

CARACCIOLO cit., p. 6.

ADRIANI cit., p. 860.

SERENO cit., p. 67, 68.

MARCANTONIO COLONNA, _Manifesto_, edito nel SAGGIATORE cit., t. II, p.
337.

GIOVANNANDREA DORIA, _Secondo Manifesto_ nel SAGGIATORE, t. II, p.
358. Il numero era piuttosto maggiore che minore, e tutti presso a
poco concordano: avvertendo che le piccole differenze provenivano dal
continuo arrivare e partire, armarsi o disarmarsi di alcuni legni, come
suole sempre succedere in grande armata.

[62] Se ne è parlato già sopra alla nota 51: e si osservi come il
Codice che riporta detto manifesto è presso Sua Eccellenza Don Vincenzo
Colonna, legato in mezza pelle verde, col titolo _Manoscritti_, t. IV,
a p. 119. Indi fu copiato dal SAGGIATORE.

[63] ARCH., presso S. E. Don Vincenzo Colonna, volume legato in mezza
pelle verde, col titolo _Manoscritti_, t. IV, p. 127; di qui fu copiato
e pubblicato dal SAGGIATORE, t. II, p. 336.

[64] Navi da carico usate dai Veneziani e dai Levantini.

Il SAGGIATORE legge _con tibazzi_. Laddove l’originale dice _xiv
schirazzi_.

[65] Questo disse Marcantonio per modestia (si veda la nota 4), e per
fare intendere copertamente a Giannandrea che da lui si fosse lasciato
sempre guidare, come da maestro di pratica marineria, conforme alle
istruzioni ricevute nella lettera del re, prodotta sopra alla nota 21.

[66] SERENO cit., p. 68.

PARUTA cit., p. 115. Queste quattordici navi sono nel manifesto di
Marcantonio chiamate schirazzi, mettendosi là il genere e qua la specie
per la cosa medesima.

[67] ANDREAS MAUROCENUS cit., p. 366, B.

GRATIANUS cit., p. 61: «_Auria quo Columnæ æquari videretur idem in
sua navi per noctem lumen ardere voluit.... tamen Columnæ animum tam
contumax dignitatis suæ contentio incredibiliter urebat: quamquam eam
injuriam insigni moderatione, rei publicæ condonare se, Venetis rem
acclamantibus, respondebat._»

ARCH. COL., t. II, p. 258.

[68] L. S. BAUDIN, _Manuel du pilote de la mer méditerranée_, in-8.
Tolone, 1833, t. II, p. 382.

MAGLOIRE DE FLOTTE D’ARGENÇON.

JOSEPH LE ROUX, _Cartes Hydrographiques_.

CAV. OPIZIO GUIDOTTI, logotenente generale delle galere del Papa nel
1622: Portolano ms. nell’ARCH. COL., segnato _Armata navale_, nº 79,
p. 84: «_Il Caccamo è un freo che dura da quattro miglia e corre da
Ponente a Levante, e dalla banda di Ponente vi sono due bocche: la
prima è netta; la seconda ha una brutta seccha la quale non veglia,
e nell’entrare ti resta a banda sinistra che vi è sicuro cammino. E
quando sarai dentro, darai fondo a 30 passa, e darai li provesi a certi
scogliotti, starai sicuro. All’isola di fuori per mezzogiorno vi è un
porto per Galere, il quale si domanda porto Caracollo; e quando ci sei
dentro, no vedi da qual banda tu ci sia intrato. Dentro al detto freo
del Caccamo ci sono parecchi altri porti per vascelli da remo; vi è
un molo antico, e tutta l’isola ripiena di case dirupate, e vi sono
cisterne d’acqua bonissima._»

[69] PARUTA cit., p. 116. Quivi egli dice porto Vathi et Calamiti, dei
quali non si trova alcun indizio nè tra le carte geografiche antiche
e moderne, nè tra i portolani. Ma sapendosi che l’armata procedette
dodici miglia a Levante di Castelrosso, non può essere altro quivi che
la gran rada di Caccamo. BAUDIN cit., p. 383.

ANDREAS MAUROCENUS, _Hist. venet._, in-fol. Venezia, 1615, p. 375:
«_Venetæ et Pontificiæ triremes portum Vathim inter continentem et
Chelidonias cæpere. Eumdem occupare quoque Auriam potuisse fertur,
nisi aperto mari detineri ea nocte maluisset, non absque periculo
ut infensiore vento in Occidentem abstractus, nostros deserere
cogeretur._»

[70] SERENO cit., p. 61 e 62.

LONGO cit., p. 18.

M. A. COLONNA, Discorso e Manifesto, come alle note 54 e 59.

[71] LONGO cit., p. 19.

CALEPIO cit., p. 96 e 97, 105 e 106.

SERENO cit., p. 63.

[72] SERENO cit., 64.

CALEPIO cit., 109.

CAMPANA cit., p. 74.

[73] LAFUENTE cit., t. XIII, p. 498 e 502 nel testo e nelle note
procaccia per via di sentenze, scusar Giannandrea; confessa però che
«_Juan Andrea Doria tuvo que hacer una justificacion publica con la
qual quedan desvanecidos los cargos que en algunas historias italianas
se leen contra esta conducta del gefe de la armada auxiliar espanòla_.»
Vedremo appresso anche altri fatti, ed il giudizio che ne dette san
Pio.

ROSELL, _Memoria sobre el combate naval de Lepanto premiada por la
real Academia de la historia en el certamen de 1853_, in-8. Madrid,
1853. _Imprenta de la Real Accademia_, p. 171 a 180. Quivi si
riproducono i pareri, giustificazioni e manifesti di Giovannandrea
già prima pubblicati dal SAGGIATORE e da altri. Tali documenti non
che discolparne l’autore, contengono quel che potrebbe chiamarsi la
confessione generale delle sue colpe fatta per bocca sua e sottoscritta
di sua mano.

[74] ARCH. COL., t. II, p. 259 e 382.

MARCANTONIO COLONNA, _Relazione al Re di Spagna_, app. al SERENO cit.,
p. 436 e 437. Suo parere, t. II, 477, 479 e 520.

GIOVANNI ANDREA DORIA: _Secondo Manifesto del 5 ottobre_, pubblicato
dal SAGGIATORE cit., t. II, p. 360.

CODICE presso don Vincenzo Colonna, t. IV, 131.

ROSELL cit., 43, pare che contradica al documento che egli stesso
pubblica a p. 176, col. 2ª, linea 11ª, laddove Giannandrea scrive
così: «_Conchiusi che avrei tenuto che fosse stato molto più facile
far qualche buon effetto nella Morèa, verso Castelnuovo, Durazzo, la
Vallona ed altri luoghi di quella costa, come in parte più vicina, et
nella quale ... io ancora avrei potuto trattenermi di più._»

[75] MARCANTONIO COLONNA, _Informazione di quanto è successo all’armata
l’anno 1570_. MSS. COLONNESI. — SAGGIATORE, t. III, p. 30.

GIANNANDREA DORIA, nel secondo _Manifesto di Candia, 5 ottobre 1570_.
ARCH. COL., pubblicato dal SAGGIATORE cit., t. II, p. 363. Il dialogo
che io qui metto non è di mia fattura: ma traggo le parole da questo
documento, col quale concordano gli storici: e ne cito

FRANCESCO LONGO cit., p. 20.

NATAL CONTI cit., p. 89.

SERENO cit., p. 69.

MAMBRINO ROSEO cit., p. 370.

FORESTI cit., t. XII, p. 10 a 13.

Il DOCUMENTO qui appresso alla nota 75.

[76] Principalmente la lettera pubblicata da me alla nota 21.

[77] LUIS CABRERA, _Vida de Felipe II_, in-fol. Madrid, 1619, p. 653.

MODESTO LAFUENTE cit., t. XIII, 497. Racconta il fatto, i dissapori, la
rottura, come se fossero colpa di tutti e non di chi l’avea causata.

CAYETANO ROSELL cit., p. 44: «_Esto confirma que las tres potencias
unidas obraron sin reciproco accuerdo, que cada qual pretendiò
ser independiente, y aun sobreponerse a los otos dos, y que en los
titulos e instrucciones dadas a sus generales no se precavieron las
difficultades que pudieran originarse de aquellas emulaciones._»

WHILLAM H. PRESCOTT cit., t. III, 251: «_No one had authority enough
to enforce compliance whit his own opinion. The dispute ended in a
rupture. The expedition whas abandoned; and the several commanders
returned home with their squadrons without having struck blow for the
cause._»

Si noti che chiunque ha scritto sulle carte spagnole, non potendo
pigliar per sè la ragione, si contenta di levarla agli altri. Non fu
mancanza d’accordo, nè difetto di autorità, nè gelosia dei generali di
Venezia e di Roma, ma gli ordini secreti e contraddittori, del Re di
Spagna a Giannandrea.

[78] _Fede di Sforza Palloncino e di Giacopo Celsi, di quel che avvenne
tra M. A. Colonna e Giannandrea Doria il di 26 settembre 1570 all’Isola
di Tristamo._ — ARCH. COL., _Armata navale_, Carte sciolte, nº 99.

«_Essendo stati ricercati dall’Illustrissimo signor Marc’Antonio
Colonna Generale di Santa Chiesa noi Sforza Pallavicino marchese di
Cortemaggiore et governator generale dell’armi del serenissimo Dominio
Veneto, et Giacomo Celsi provveditor dell’armata di esso serenissimo
Dominio che siamo contenti di far fede in scrittura di quanta hieri
passò fra sua Signoria eccellentissima et l’illustrissimo signor
Giovann’Andrea Doria nel pizzuolo dell’eccellentissimo Generale nostro
d’intorno alla proposta che esso signor Giovann’Andrea fece a detto
eccellentissimo Generale nostro alla nostra presenza di volersene
andare: nè potendo noi mancare di riferir la verità come siamo
obbligati, diciamo che a noi pare d’haver inteso et di ricordarci
che la sostanza di questo successo sia tale. Che havendo detto signor
Giovann’Andrea proposto che, poichè credeva che per hora non si haveva
d’andar a trovar l’armata nemica nè da far altro, dovendo egli andare
a svernare tanto lontano, desiderava di partirsi et andare al suo
diritto cammino; al che l’eccellentissimo Generale nostro rispose
che poteva sua Signoria far quello che voleva; ma che li saria ben
gran commodo et che ne la pregava d’andar di compagnia sino al Zante
dove saria provvisto all’armata di biscotto: et ciò per il dubbio
che poteva esserci che l’armata nemica non ci venisse alla coda et
non ci facesse qualche danno per trovarsi buona parte dell’armata
nostra in non molto buon termine per esserci alcune galee deboli et
per doversi anco lasciare la maggior parte dei soldati d’essa armata
in Candia. Il detto signor Giovann’Andrea replicò che non bisognava,
et che l’armata nemica non vanirebbe. Et io Sforza Pallauicino dissi
ad esso signore ch’el s’era già contentato di star tutto questo mese
andandosi in Cipro et che del mese ne restavano quattro giorni et
quelli di più che s’havesse a tardar nel ritorno, et che questo che
se li domandava era meno; poichè soli doi giorni si fermerebbe in
Candia per dar ordine alla difesa di quell’Isola. Et che siccome sua
Maestà cattolica aveva mandato sua Eccellenza con questa armata per
la conservatione delle cose di questo serenissimo Dominio, ancorchè
non si fosse potuto conservar Nicosia, si haveva a credere che non
li saria men caro che sua Eccellenza ajutasse la conservatione di
questa armata. Alle quali cose il detto signor Giovann’Andrea non
cessò di replicare con molte parole. Allora poi il signor Marc’Antonio
disse: Il signor Giovann’Andrea ha fatto tanto sin hora; non mancarà
in quello sarà possibile, nè ci sarà scarso di doi giorni. Il signor
Giovann’Andrea replicò che esso sapeva molto bene gli ordini ch’havea
da sua Maestà cattolica el che però faria quel che meglio li paresse
per conservatione di quest’armata. Il signor Marcantonio soggiunse che
sapeva che sua Maestà li commanda che egli li possa ordinare quello
che conviene al suo servitio; et che se sua Maestà havesse commandato
a lui che l’ubbidisse lo farebbe volentieri, et lo farà sempre che
glielo commanderà. Replicò il signor Giovann’Andrea che non lo haveva
per generale di sua Maestà cattolica, la qual non commandava questo,
ma diceva come ad uomo del Papa; et che facesse portar la lettera.
Il signor Marc’Antonio fece portare et leggere la lettera, et disse,
che non credeva che sua Maestà havesse ordinato questo, come se il
Papa ci havesse messo un Vescovo o un Patriarca a’ quali si sogliono
dar questi honori; ma che essendosi sua Santità servito di lui, sua
Maestà havesse voluto confidar questo carico ancora nella sua persona:
et che se per avventura egli havesse altro ordine in contrario lo
mostrasse. Alle quali cose il signor Giovann’Andrea rispose con molte
parole, et in somma concluse che havrebbe fatto quello che li fosse
parso meglio dell’armata di sua Maestà cattolica nella quale lui solo
ci haveva l’autorità. Il Signor Marcantonio disse che haveva questo
per bene, che egli commandasse tutta l’armata di sua Maestà, et che a
lui bastava ordinarli quello che havesse giudicato servitio di detta
Maestà; et se non l’havesse voluto fare non lo facesse: et che lui
havria ben potuto commandare al Signor Marchese di Torremaggiore et
a tutte le sue genti che così lo commandava l’illustrissimo Vicerè di
Napoli, et che non l’haveva fatto perchè gli era bastato haver ordinato
a lui quanto gli era occorso. Replicò il signor Giovann’Andrea che
il Marchese non havria fatto quello che esso signor Marc’Antonio gli
havesse commandato, ma quello che gli havesse commesso lui solo. In
questo disse il signor don Carlo Davalos, che si trovava presente,
che nè lui manco haveria obbedito il signor Marc’Antonio, ma sì
bene il Signor Giovann’Andrea, et che lui ancora havea pur gente in
quell’armata. Il signor Marc’Antonio li disse che non dovea parlar
così con un suo fratello maggiore, che voleva che sapesse che havea
commandato a maggiori huomini di lui. Il signor Giovann’Andrea ordinò
al detto signor Carlo che se ne andasse; et lui se ne andò. Tornando
a dire il signor Giovann’Andrea che esso farà quanto li fosse parso
meglio, et che sapeva gli ordini di sua Maestà. Il signor Marc’Antonio
li replicò, che poichè egli voleva far quel che gli pareva, et esso non
lo poteva sforzare, che lui si liberava da questo carico, et che se
ne resteria coll’armata di questo serenissimo Dominio solo come homo
di sua Santità: et che il signor Giovann’Andrea facesse quello che
meglio li paresse. Et li disse ancora che dovea cavar dalla sua galea
et dall’armata di sua Maestà il signor don Carlo per haverli parlato
con tanto poco rispetto. Al che esso Signor Giovann’Andrea rispose che
faria quanto dovea._

»_Et questa è la sustanza di quello che a noi pare di haver inteso,
et di recordarci (come dicemmo di sopra) di questo successo: il quale
forse è passato con qualche altre parole di più che noi o non abbiamo
udite o non ne sono restate così bene a memoria._

»_In fede di che, ec._

»_Di Galea, alli_ XXVIJ _di settembre_ MDLXX.

  »SFORZA PALLAVICINO. (Firma autografa.)

  »JACOMO CELSI, _Provveditor dell’Armata_. (Firma autografa.)

» _Io Domenico Vico secretario coll’Eccellentissimo Signor Capitano
Generale dell’armata della Serenissima Signoria di Venetia fui
presente et mi sottoscrivo alla soprascritta scrittura d’ordine di Sua
Eccellenza._»

[79] ARCH. COL., t. I, p. 76. (Firma originale.)

SAGGIATORE, Copia pubblicata nel t. III, p. 170.

[80] Vedi appresso la nota 81, e quelle del lib. II, sul generalato.

[81] MARCANTONIO COLONNA, _Informazione di quel ch’è successo
all’armata_ ec. Ms. colonnese pubblicato pur dal SAGGIATORE cit., t.
III, p 30, linea 20.

[82] MARCANTONIO COLONNA, _Relazione al Re di Spagna data dal porto
di Tristamo il_ 1º _ottobre_ 1570, pubblicata ancora dai Cassinesi in
appendice al SERENO cit., p. 437, linea 11 e 28.

ARCH. COL., _Relazione storica di questi fatti_, t. II, p. 259, b. in
med.

Item, t. II, p. 471, noterella: «_E tutto questo nasceva per il
desiderio che haveva di pigliar gente nell’Arcipelago, che pur sono
christiani_.»

[83] GIANNANDREA DORIA, _Manifesto secondo dato da Candia il 5 ottobre
1570_. — Pubblicato dal SAGGIATORE, t. II, p. 362 e 364.

[84] «_S. D. N. D. Pii Pp. V. Præceptum quod Christiani apud Turcas
servi reperti, libere cum bonis suis abire permittantur._» _Pius Papa
V._

»_Motu-proprio etc. Licet omnibus notissimum sit bellum hoc quod
cum impio Turcarum tyramno geritur, non ea tantum de causa geri, ut
imminens ab illius viribus nobis periculum dimoveamus, sed ut etiam
plurima Christianorum millia, quæ sub dira illius tyramnide servilem
ac miserabilem vitam ducunt, in libertatem, ac ad Christi nomen
libere profitendum, ac excolendum vindicemus; non defuerunt tamen
qui christianæ fraternitatis obliti, loca Turcarum hostium nostrorum
invadentes, Christianos ibidem repertos in servitutem redegerunt, bonis
ac fortunis spoliarunt, triremibus alligarunt, ac taleam imposuerunt.
Quo fit ut Christi sanguine redempti, qui cumulatis votis Christianorum
adventum, et victoriam exoptaverunt, ea a victoribus fratribus suis
patiantur, quibus paulo pejora a Turcis expectare potuissent. Nos
igitur ejus locum licet immerito tenentes in terris, qui de Cœlo
ad liberandum nos venit, ut de manu inimicorum nostrorum liberati
deinceps sine timore serviamus illi, verentes ne si iniunctæ nobis ab
eo erga filios nostros caritatis et dilectionis immemores simus, ipsius
omnipotentis Dei contra Nos Classemque nostram iram provocemus, malis
hujusmodi obviare cupientes tenore præsentium decernimus et mandamus
ut nullus deinceps sive sacri fœderis miles, sive alius Christianos
capiat, aut præter eorum voluntatem, etiam data mercede, remigare
cogat, taleam imponat, aut ejus bona diripiat: quinimmo fraterne et
amicabiliter ut christianam pietatem decet, tractet, ac libere cum
liberis, conjugibus, bonis abire permittat. Illos autem omnes et
singulos qui huic constitutioni contraire præsumpserint, declaramus
ipso facto in pœnam excomunicationis latæ sententiæ incidisse, a qua
non possint nisi a Nobis aut a Successoribus nostris, præter quam in
mortis articulo, absolvi: et ulterius volumus eos a superioribus suis
ad quos spectabit, severe et graviter juxta contraventionis qualitatem
puniri. Mandantes omnibus et singulis tam ipsius classis, quam locorum
ipsorum superioribus quibus spectat, et in futurum spectabit ut pro
quanto student divinam gratiam, nostramque benevolentiam promereri,
hoc Nostrum, immo vero potius Dominicum præceptum et mandatum in locis
suæ jurisditionis, sive iis ad quæ christianos principum fœderatorum
Præfectos tam generales quam particulares appellere contigerit, ea
lingua cujus ejus loci habitatores intelligentes fuerint, et in ipsa
etiam Classe publice æditæ, affigi, et sub pœnis sibi bene visis
faciant ab omnibus inviolabiliter observari ut, a Deo opt. max. præmia
æterna et a nobis de re diligenter gesta laudem reportare mereantur._

»_Volumus autem ut præsentis nostri Motus-proprii sola signatura
sufficiat, et ubique fidem faciat in judicio et extra, quacumque
regula seu constitutione apostolica contraria non obstante: quodque
illius exempla etiam impressa edantur, eaque Notarii publici manu,
et cujuscumque Curiæ ecclesiasticæ, aut Prælati sigillo obsignata,
eandem prorsus fidem ubique faciant, quam ipse præsens Motus-proprius
faceret, si esset exhibitus, vel ostensus. Contrariis non obstantibus
quibuscumque. — Placet Motu-proprio M._

»_Romæ apud Hæredes Antonii Bladii impressores Camerales.»_

BIBLIOTECA CASANAT., Collezione di Bolle, Editti ec., t. I, nº 4. — Per
errore del legatore messo all’anno 1567.

[85] COLECCION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p. 184. _Cedula de Felipe II
declarando que Juan Andrea deberà preceder i mandar a los generales de
Napoles, Sicilia y España. Data del 1 maggio 1571_.

[86] FRANCESCO LONGO cit., p. 20. «_Il Cardinal Morone diceva: Piacesse
a Dio che Giannandrea non si fosse mai congiunto coi Veneziani: perchè
ha fatto più male che bene_.»

[87] FRANCESCO LONGO cit., p. 21.

[88] ANTONIO DE HERRERA, _Historia general del mundo_, in-4.
Vaglialodi, 1606, par. Iª, p. 801, col. 1 in fine: «_Marco Antonio
embiò adelante a Pompeo Colonna que era su lugarteniente, a dar cuenta
al Papa de lo que havia pasado: de que pesò al Pontifice, y se quexò al
Rey catolico del principe Doria_.»

[89] LADERCHI, _Ann. Eccles. post Baronium_, t. III, p 53. Quivi è
il Breve di san Pio a Filippo II, di credenza piena alle parole di
Pompeo Colonna, latore del medesimo: pregando Sua Maestà che «_Loquenti
Pompeio eamdem fidem adhibeat quam nobis ipsis, si cum eo præsentes
loqueremur_.»

[90] ARCH. COL., t. II, p. 288, b. lin. 21; e p. 260, b. lin. 4.

CABRERA cit, p. 654 col I, B: «_El Doria embiò a disculparse con el
Pontefice de las caluñias del Colona i fue a España a tratar de lo
sucedido en a quel verano, i responder a las quexas de Pio V_.» Buono
che riconosce le lagnanze del Pontefice, e bisogna ringraziarlo che non
le abbia pur chiamate calunnie di san Pio come le chiamò calunnie di
Marcantonio.

Meglio procede il ROSELL cit., p. 45, nota 40: «_Se ha tenido hasta
ahora por un echo inegable, en que convienen casì todos los escritores
que Doria procediò en el mando de nuestra expedicion auxiliar de
Chipre, cuando menos con indolencia.... pero España hizo entonces a
favor de Venecia quanto podia, y que sobre les gefes que mandaban sus
esquadras, o sobre su gobierno deben recaer las culpas._»

[91] MIGUEL DE CERVANTES, _Don Quixote_, libro IV, capit. 39, in-8.
Amberes, 1683, t. 1, p. 451: «_Se desengaño el mundo i todas las
naciones del error en que estavan, creyendo que los Turcos eran
invencibles por la mar_.» Questa paura dei Turchi finì quando fu
vinta la battaglia di Lepanto: ma prima durava per la vergognosa fuga
del principe Andrea Doria alla Prevesa, per la imbecillità del duca
di Medinaceli alle Gerbe, per la lentezza del don Garzia di Toledo a
Malta, e pei fatti di Giannandrea a Cipro. Tutti effetti della istessa
politica della corte di Spagna.

[92] LADERCHI cit., t. III, p. 47 ...: «_Uterque tamen, Gratianus
scilicet et Maurocenus cum scriptoribus cœteris, Pontificiæ classis
præfecto Columnæ egregium perhibent testimonium, quod non minus
consilio quam animi moderatione publicæ utilitati prospexerit_.»

Item, p. 53: «_Cumque Marcus Antonius omnia muneris sui officia venetis
ipsis comulate persolvisset ab eis discessit, ingentes gratias ipsi et
Pontifici agentibus ob egregiam novatam operam et fidem et constantiam
ad extremum præstitam_.»

[93] ROSEL. cit., _Documento_, p. 117, col. II, lin. 42, e p. 179, col.
II, lin. 39, opposto a quel che si legge a p. 45, lin. 15.

SAGGIATORE cit., t. II, p. 362 e p. 364.

[94] MARCO ANTONIO COLONA, _Carta a la Majestad del rey Catolico «En
toda esta jornada M. Antonio non ha tenido en fin niuguna diferencia
con Juan Andrea de que a el se le diesse nada; sino per estas dos
causas: la una de que no entendissen jamas los principes del mundo que
V. M. huviese dado ordenes contrarias por un mismo negocio, como no
las ha dado; y la otra, que teniendo el la misma voluntad, y deseo que
habia Juan Andrea por la conservacion de la armada de V. M. se havia
de hacer de que se conservase tambien la reputacion de ella; y que en
ningun tiempo se pudiese dar tacha a los ministros de V. M. de haber
dexado de ayudar y favorecer una causa tan cristiana como esta. Esta
es la sumaria relacion i sustancia de lo que se ha pasado; y aunque
bien s’entiende que semejantes platicas se pueden adobar y colorar
con muchas palabras y colores, todavia a M. Antonio ha parecido con su
Rey y señor hablar desnudamente la pura verdad con pocas i verdaderas
palabras_.» ARCH. COL., t. II, p. 159.

Si veda pure la nota nº 37, e più altre di questo Libro.

[95] BOSIO cit., p. 869, 870.

ADRIANI cit., p. 862, 864.

ARCH. COL., t. II, p. 260, 288.

[96] UBERTUS FOLIETTA, _De sacro fœdere_, ap. BURMANN. in _Thesaur_.,
t. I, p. 995: «_Cæterum breve illud iter in Italiam ita infestum
fuit ut nemo in multorum annorum longissimis itineribus pluribus
asperitatibus conflictatus aut atrocioribus casibus jactatus fuerit:
nullumque fuerit genus pestis a cœlo, a ventis, a tempestatibus, ab
undis, ab igne, ab hominibus cui prope non fuerit._»

ANDREAS MAUROCENUS, _Hist. Venet._, lib. VIII, in-4. Venezia, 1719, t.
II, p. 332 e 333.

PAOLO PARUTA, _La guerra di Cipro_, in-4. Venezia, 1718, p. 135.

ARCH. COL., t. II, p. 260.

[97] ARCHIVIO de’ Massimi in Roma. Il testamento è fatto in Roma l’anno
1570 prima che Domenico partisse per l’armata, il codicillo in Lecce.
L’originale è presso S. E. il principe D. Camillo Massimo nell’Arch.
segnato Armadio A, mazzo E, numero 24; che per gentilezza di esso
signore ho copiato, e conservo presso di me.

[98] Le fregate nel secolo decimosesto erano battelletti velocissimi
a vela e a remo, di che i capitani usavano per trascorrere dall’una
all’altra galera, per far le scoperte, praticare in terra e cose
simili. Quella di Domenico de’ Massimi non poteva valer più, come egli
ne dice, che cinquanta o sessanta scudi. A poco a poco questa maniera
di bastimenti, ritenendo sempre l’istesso nome ed ufficio, è stata
ingrandita in quel modo che tutti or sanno.

[99] GALLETTI, _Iscript._, Rom., Class. X, nº 22. Quindi erra il Litta
che lo pone alla battaglia di Lepanto, essendo morto un anno prima nel
ritornare dalla guerra di Cipro. Nel vero il suo nome non si trova più
nei codici Colonnesi dopo il 4 decembre 1570, giorno della sua morte; e
la sua donna Vittoria Naro nel 1571 era già passata all’altre nozze.

[100] Molti hanno parlato e più cose si son dette della quadrireme
costruita a Venezia dal Fausto. Il professore STRATICO ed il barone
PARRILLI devono dirne qualcosa ne’ loro Vocabolari di Marina:
certamente ne parla A. JAL nel Dizionario poliglotto di Marina, e nella
Archeologia navale. Che la quadrireme del Fausto fosse dai Veneziani
tenuta molti anni nell’arsenale, e tratta fuori nel 1570 per Capitana
di M. A. Colonna si prova con la testimonianza citata alla nota 17, e
con molti riscontri dell’Archivio colonnese: ma ora non li ho a mano.
Sono certo che la detta galea, comechè di primaria grandezza, non era
a quattro ordini di remi quando l’ebbe M. A.; ma a un ordine solo,
sopra un solo posticcio, come tutte le altre. Il numero unito al nome
non prova altro nella bireme, trireme e quadrireme se non la maggiore o
minore grandezza. Che se la galea del Fausto avesse avuto quel miracolo
di quattro ordini, nè i codici colonnesi l’avrebber taciuto, nè io
mancato di appuntarmelo.

[101] ARCH. COL., t. II, p. 384.

BOSIO cit., p. 870.

CONTARINI cit., p. 21.

SERENO cit., p. 72.

MOROSINI cit., p 332.

PARUTA cit., p. 135.

[102] ARCH. COL., t. II, p. 288.

Questo termine non faccia ombrar niuno, perchè si usava nella marina
italiana del secolo XVI. L’ho tratto dai codici Colonnesi. Si accosta
molto all’indole della nostra lingua, e può esser grande il bisogno di
usarlo in marina.

[103] ARCH. COL. cit., t. II. Da molte lettere e dalle due relazioni
poste in principio, e nel mezzo di detto tomo a p. 288 e 289.

[104] SERENO cit., p. 333.

CABRERA, _Don Felipe II, Rey d’España_, in-fol. Madrid, 1619, p 747.

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 534.

[105] PII PAPÆ V, _Allocutio habita in Palatio Apostolico Vaticano
coram oratoribus Serenissimi Regis catholici et Illustrissimi Domini
Veneti pro fœdere_, Ap. LADERCHI, _Ann. eccl_. cit., p. 55.

GABUTIUS, _Vita Pii V_, in-fol. Roma, 1605, p. 130.

[106] DU MONT., _Corps diplomatique_, in-fol. All’Aja, 1728, t. V, P.
I, p. 184.

LUINIG, _Codex Italiæ diplomaticus_, in-fol. Francoforte e Lipsia,
1735, t. IV, p. 262 e 305.

COMIN VENTURA, _Tesoro politico_, in-4. Milano, 1600, t. I, p. 510.

MICHELE SORIANO, _Negotiato et conclusione di Lega contro il Turco; tra
Pio V, Re cattolico, et Signoria di Venetia: l’anno 1570 e 1571_, app.
al SERENO cit., p. 392.

[107] SORIANO cit., seconda edizione dei Cassinesi, p. 391, lin. 30:
«_Dipoi fu detto da Granuela che saria stato conveniente che fossero
mandati al Re li partiti che s’avevano da proporre, perchè averia
potuto dar ordine più risoluto, ma che loro dariano a sentir quello che
gli fosse domandato et responderiano_.»

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 486: «_Viose diesde luego lo dificil
que era traer a comun acuerdo potencias que obraban impulsadas por
diversos interesses y fines. Las dificultades nacian principalmente
de la republica de Venecia, que en vez de pedir, puesto que era la mas
directamente interessada y habia de ser la mas favorecida, aspiraba a
imponer condiciones_.»

LORENZO VANDER-HAMMEN Y LEON, _Vida de don Juan de Austria_, in-4.
Madrid, 1627, p. 146: «_Esperaban los del rey catolico que los
Venecianos pidiessen.... ellos por contrario no querian humiliarse a
nada_.»

CABRERA, _Vida de Felipe II_, in-fol. Madrid, 1619, p. 666.

ROSELL cit., p. 50: «_Para dar principio a las discussiones aguardaron
a que el embajador veneciano hiciesse sus peticiones en forma_.» Vedi
appresso nota 7.

[108] ARCH. SECRET. VATICANO, _Plenipotenze, Congregazioni e Scritture
della Lega tra i principi contro il Turco_, C. 33. Quivi è la predetta
bozza dei capitoli, postillati di mano di san Pio.

ARCH. SECRET. VATIC., _De fœdere et speditione Classis Pii Papæ V_.
143, p. 24 a 29.

MOROSINI, _Hist. venet._, cit. p. 336.

[109] SORIANO, edit. cit., p. 404, lin. 4, et p. 413, lin. 33.

[110] ARCH. COL., t. II, p. 260.

SORIANO cit., p. 411 in fine.

PARUTA cit., p. 127.

ANTONIO DE HERRERA, _Historia del mundo, quinze años del tiempo del Rey
Filipe II_, in-4. Vagliadolid, 1605, P. II, p. 2: «_Causas per que los
Ministros del Rey catolico no querian la liga_.»

LUIS CABRERA, _Vida de Felipe II_, in-fol. Madrid, 1619, libro IX, cap.
20, p. 666: «_Dificultades en hacer y confluir la Liga_.»

NICCOLÒ DA PONTE, _Orazione contro la Lega_, ext. ap. SERENO cit., p.
105.

ARCH. COL., t. II, p. 289: «_Il Cardinal Granuela aveva negoziato
sempre con parole gravide e pregne di significati atti a insospettire,
sì perchè è stato ajutato, al solito della sua natione, dalla natura
che l’ha aspera et altiera, sì perchè parendoli che i Veneziani
venissero alla Lega per necessità e non per virtù avriano sostenuto
ogni grave condizione_.» E a pag. 290: «_Dalle parole e dai modi di
Granuela fu giudicato da ognuno che egli non desiderasse la Lega_.»

ARCHIVIO CENTRALE DI STATO IN FIRENZE. Arch. Mediceo, Vol. 4903. Al
granduca Cosimo, cifra del cav. de Nobili suo ambasciatore di Spagna,
con la data del 5 Febbraio 1571. «_Quanto a la Lega chi la fomentasse
non piaceria a costoro (di Spagna) che n’hanno poca voglia.... La
perdita di Cipro, et l’alterazione che possino avere i Vinitiani
in Levante costoro non la sentano.... Et se quella Repubblica havrà
travaglio manco hanno da temere_.»

CARDINALE M. A. COLONNA, Lettera al reverendissimo padre Francesco
Borgia, con minuti ragguagli delle arti indegne usate dai ministri
spagnoli. La publicherò: importantissima scrittura di quattordici
pagine.

Si legga inoltre il successo qui appresso del 7 marzo.

[111] SERENO, p. 75.

[112] SERENO cit., p. 81.

ARCH. COL., t. II, p. 260, 261.

[113] ARCH. COL. cit, t. II, p. 261.

[114] SERENO cit., p. 110.

Ibid., App., p. 419.

DU-MONT, cit., t. V, Par. I, p. 203.

FOLIETTA, _De sacro fœdere_ cit., p. 1018.

MAFFEI, _Vita di san Pio V_, in-4. Roma, 1712, lib. IV, Cap. VI, p. 281.

MSS. CASANATENSI XX, I, 32.

LADERCHI JACOBUS, _Ann. Ecclesiast. continuat._, p. 404, 414, ann. 1571.

[115] LADERCHI cit., ad ann. 1571, p. 396.

FRANCESCO LONGO cit.; ARCH. STOR. ITAL., t. IV, app., p. 22.

ARCH. COL., t. II, p. 261.

SERENO cit., p. 89.

CORNELIUS FIRMANUS, _Magister Cæremoniarum_, Ms. Bibl. Chigiana, L. I,
27, p. 201: «_Die Mercurii, 7 martii. Sanctissimus Dominus vectus in
lectica hora XI, ivit ad Ecclesiam S. M. S. Minervam, audivit missam
planam in sacello, deinde expectavit in Conventu donec cardinales
accederent, tunc venit ad sacellum, accepit paramenta et cruce ac
cardinalibus præcedentibus accessit ad altare.... Completa missa ivit
cum cardinalibus ad orandum ante cappellam S. Thomæ, et postea fuit in
conventu pro_ quadam Congregatione.» Cornelio per vergogna non volle
dirne di più.

[116] MSS. ARCH. SECRET. VAT., Codice segnato. — Venezia, C. Lettera E,
nº 2492, p. 99.

MSS. ALL’ARCH. SECRET. CAPITOLINO, Credenza XIV, cod. 8, carte 258.

ARCH. COL., t. II, p. 291, 357.

ARCH. GENERALE DI VENEZIA, Ai Frari. Lettera di Michiel Suriano et
Giovanni Soranzo ambasciatori al serenissimo principe di Venezia, data
da Roma, 8 marzo 1571. Ne ho copia presso di me.

SERENO cit., p. 90.

LORENZO VANDER-HAMMEN Y LEON, _Historia de don Juan de Austria_, in-4.
Madrid, 1627, p. 147: «_Los Senadores de Venecia eran alterados con el
papel que el cardenal de Granuela dio en la junta proponiendo nuevas
condiciones, con poca reputacion de su republica._»

JACOBUS LADERCHIUS, _Annales Ecclesiastici post Baronium et Raynaldum_,
p. 397.

ANTONIUS MARIA GRATIANUS, Episcopus Amerinus, _De bello Cyprio_, in-4.
Roma, 1624, p. 115: «_Itaque icti re nova Veneti et execrantes tam
perfidiosam ludificationem respondent; misi pactis conditionibus stetur
Senatum se consulere velle._»

CABRERA, _Vida de Filipe II_, in-fol. Madrid, 1619, p. 667: «_Turbo
la junta un papel en que Grunela propuso nuevas condiciones, con poca
reputacion de Venecianos, i alterò su republica._»

LAFUENTE e ROSELL tacciono questo fatto del card. Granuela.

[117] GRATIANUS, _De bello Cyprio_, p. 116: «_Ea res Pii pontificis
animum vehementer offendit et maxime a Granuellano alienavit, quem ad
omnia evertendo, veluti insidiatum publicæ causæ gravissimis verbis
objurgatum ab se repulit._»

Del cardinal Granuela e del suo dispotismo parlano in più luoghi gli
Annalisti RAINALDO, LADERCHI e THEINER, ed i cardinali BENTIVOGLIO e
PALLAVICINO nelle loro _Storie e Memorie_.

[118] ARCH. COL., t. II, p. 262: «_Et il Pontefice se ne tornò a
palagio mal contento._»

SERENO, p. 90: «_Et il Papa non senza lacrime e grave afflizione al
Palazzo tornossene_;» e p. 92: «_Il Papa con lacrime e infinito dolore
si querelava._»

LADERCHI cit., ad ann. 1571, p. 397: «_Sed præ aliis inopportunum illud
scriptum Pontificis animum vehementer offendit._»

[119] GRATIANUS, _De bello Cyprio_ cit., p. 115: «_At Veneti
incessantes Hispanorum perfidiam.... tam ancipitis belli cura levare
civitatem aliqua pacis conditione cupiebant, animumque a belli
consiliis ad paciscendum cum hoste convertere._»

[120] MARCANTONIO COLONNA, _Orazione al Senato di Venezia per la Lega_.
ARCH COL., t. II, p. 186 e 307. Sono quattro pagine di bozzetto,
scritte di sua mano, nelle quali il sentimento procede a salti ed
incisi da essere poi spianati e svolti col discorso estemporaneo come
si usava a Venezia, e come si deve tenere che Marcantonio abbia fatto.
Io pubblico il bozzetto medesimo, come è nel codice, perchè si veda
qual fosse il modo suo di argomentare; e non vi introduco se non quanto
è necessario per legare i periodi e compiere l’andamento naturale del
discorso.

[121] ARCH. SECRET. VATICANO, volume segnato _Plenipotenze,
Congregazioni e Scritture per la Lega contro i Turchi_, C. 33. Atto
del dì 11 giugno 1571, dichiarazione di certi articoli e dubbi tra i
confederati, dice pure così: «_Che fatta dai Generali la rassegna e
mostra di tutte le armate, e soldati che sono all’armata; trovandosi
che l’illustrissima Signoria di Venezia non abbi nella spedizione di
quest’anno più spesa della portione che, secondo la capitulazione della
Lega gli tocca_, DEBBA PAGARE LI GRANI ET TRATTE CHE HA IN MANO _al
prezzo che da Sua Santità sarà arbitrato: così di detti grani, come
delle tratte di essi. Ma ritrovandosi che l’illustrissima Signoria
havesse più spesa della detta sua portione, debba essere rifatta da Sua
Maestà Cattolica._»

L’istessa cosa si ripete nel medesimo volume a p. 174.

ARCH. COL., t. II, p. 277.

E quivi pure t. I, p. 224, è una lettera di M. A. onde si vede che nel
1572 ai 12 di giugno i grani non erano ancora stati pagati, con gran
danno dei particolari: e che M. A. essendo stato di mezzo in questo
negozio insisteva col cardinal di Como che si diciferasse il dare e
l’avere, e si pagasse a chi di ragione.

[122] ARCH. COL. cit., t. II, per totum. Confermano brevemente queste
notizie gli storici seguenti:

NATAL CONTI cit., p. 110, B.

FRANCESCO LONGO cit., p. 51.

FERRANTE CARACCIOLO cit., p. 8.

BARTOLOMEO SERENO cit., p.

LORENZO VANDER-HAMMEN, _Historia de don Juan de Austria_, in-4. Madrid,
1627, p. 147: «_Colona con su eloquencia acabò quanto quiso en el
consejo de Venecia._»

[123] CORNELIUS FIRMANUS, in _Diariis Mss._, Bibl. Chigiana, L. I, 27,
p. 206: «_Die Veneris 25 maji in Consistorio Liga conclusa._»

WILLIAM H. PRESCOTTP, _History of the Reign of Philip the second king
of Spain_, in-8. Londra, 1859, t. III, p. 254.

[124] PHILIPPUS BONANNI, _Numismata Rom. Pontif._, in-fol. Roma, 1699,
t. I, p 295.

RODULPHINUS VENUTI, _Numism._, in-4. Roma, 1744, p. 124 e 125.

— FŒDERIS. IN. TURCAS. SANCTIO. — PIUS. V. PONT. MAX. ANN. SAL. MDLXXI.
— Ve n’ha un’altra medaglia in tutto simile alla presente, salvo che di
minor modulo.

Questo stesso concetto ha tenuto Giorgio Vasari nel suo affresco della
sala regia al Vaticano, come tuttora vi si vede. Egli stesso ne diè
la descrizione in una lettera al principe Francesco di Toscana, data
di Roma, 23 febbraio 1572, e pubblicata dal GAYE, _Carteggio degli
Artisti_, in-8. Firenze, 1839-40, t. III, p. 307.

[125] FERDINANDUS UGHELLI, _Genealogia nobilium romanorum de
Capizucchis_, in-fol. Roma, 1653, p. 12.

ARCH. COL., t. I, p. 202. V’ha un’altra patente egualmente onorevole
per lui.

[126] MSS. COLONNESI t. I, p. 118 e seguenti, e t. II, p. 141.

BARTOLOMEO SERENO, _Commentarj della guerra di Cipro e della Lega
contro il Turco_ in-8. Montecassino, 1845, p. 115 e 197; e nel Prologo,
p. XVII e XXIV parla di sè stesso.

NORES, _Guerra di Paolo IV_. ARCH. ST. IT., t. XII, p. 149 del Conte
Berardi.

CRISPOLTI, _Annali di Perugia_, t. II, p. 254, 260. Mss. alla Comunale
C. 33.

[127] Vedi sopra la nota dei gentiluomini e venturieri postisi nella
Compagnia di M. A. Colonna, lib I, nota 13, p. 19.

[128] Si veda sopra la nota 18 del Libro I.

[129] P. ALBERTO GUGLIELMOTTI, _Storia della Marina Pontificia
dall’anno 727 al 1500_, libri quattro, in-8. Roma, 1856 (pag.
XXVIII-522).

[130] Questi della famiglia Zane di Bologna, di che parla il DOLFI.

[131] MURATORI, _Annali d’Italia, all’anno 1561_.

[132] P. ALBERTO GUGLIELMOTTI, _I bastioni di Antonio da Sangallo
disegnati sul terreno per fortificare e ingrandire Civitavecchia,
l’anno 1515._ Lettera al chiarissimo signor cavaliere e professore
Salvator Betti, in-8. Roma, 1860. Edizione di cento esemplari, estratta
dal t. XVII della nuova serie del giornale Arcadico.

[133] P. ALBERTO GUGLIELMOTTI, _Della rocca d’Ostia, e delle condizioni
dell’architettura militare in Italia prima della calata di Carlo VIII_,
Dissertazione letta in Roma alla Accademia di Archeologia. È agli atti
per la stampa.

[134] Sul forte di San Michele nella marina d’Ostia copiai alli 3 di
maggio 1859 la seguente lapida: «_Pius. V. Pont. Max. Et. Benignus.
Turrim. Hanc. S. Michaelis. Cum. Aliis. Quindecim. In Lettere. Maris.
A. Fundamentis. Erigi. Muniri. Et. Custodiri. Mandavit. Ann. Sal.
MDLXVIII._»

[135] Sopra Lib. I, cap. III, p. 13.

[136] Sotto Lib. II, cap. XVIII in fine, e Lib. III, cap. II.

[137] AUGUSTINUS THEINER, _Ann. ecclesiastici post Baronium_ etc.,
in-fol. Roma, 1856, t. I, p. 464.

ARCH. SECRET. VAT., _Armata_, cod. 3139, p. 477. Quivi per altra mano
fu aggiunto di essere stata la medesima capitolazione rinnovata da
Gregorio XIII.

ARCH. COL. cit., t. I, p. 114.

[138] IL MARCHESE ANTIGONO FRANGIPANE nella _Storia di Civitavecchia_
alla pag. 153 si dimostra gemello del SARACINO d’Ancona (vedi sopra
lib. I, cap. III, nota 8). Esso eziandio ignorava le notizie di quella
stessa città di che scriveva la storia, e in vece di fatti imbrancava
una tirata di congetture sue, tutte vane. Avrebbe egli pur dovuto
leggere almeno gli storici stampati, come tra molti basterà citare i
seguenti:

GIAMBATTISTA ADRIANI, _Storia de’ suoi tempi_, in-fol. Firenze, 1583,
p. 877.

GIORGIO VIVIANO MARCHESI, _Galeria dell’Onore_, in-4. Forlì, 1735, t.
II, p. 82.

AVVISI DI ROMA. Sono gazzette mss. che circolavano nel secolo XVI e
XVII, prima delle stampate. Ve ne sono più centinaia di volumi alla
Vaticana, dall’anno 1534 fino al 1716; di che mi sono frequentemente
giovato. Qui cito il Codice Urbinate 1042, data del 13 giugno 1571.

ARCH. CAETANI, _Lettera di Onorato Caetani al Capocci in Roma_, data da
Corneto il 13 giugno 1571.

Altra lettera dello stesso al cardinale di Sermoneta, data da
Civitavecchia li 21 giugno 1571.

Vedi sopra il documento e la nota nº 34.

[139] ARCH. COL. cit., t. IV, p 36. Jacometto da Civitavecchia,
marinaio premiato da Marcantonio.

THEULI, _De romana provincia_, in-8. Velletri, 1628, p. 84: ricorda i
due capitani Francesco e Gregorio Andreotti di Civitavecchia.

ARCH. COL. cit., t. IV, p. 148, nella rassegna fatta in Corfù l’anno
1572 è nominato il capitan Filippo da Civitavecchia, con la sua
compagnia di centotrentanove soldati.

[140] SERENO cit., p. 118, racconta il fatto delle tre compagnie
assoldate dai Veneziani nello Stato papale sotto il colonnello Pompeo
Giustini di Città di Castello; una delle quali era del capitan Ascanio
di Civitavecchia. ARCH. COLONNA t. IV, p. 115.

[141] ARCH. COL. cit., t. II, 60 a 90.

GIAN PIETRO CONTARINI cit., p. 37 e seguenti.

GIROLAMO CATENA, _Vita di Pio V_, in-4. Roma, 1586, p. 319 e seg.

BARTOLOMEO DAL POZZO, _Storia della Religione di Malta_, in-4. Verona,
1703, p. 13.

DON JUAN DE AUSTRIA, _Orden que la armada de la Santa Liga ha da tener
en el caminar_. MSS. CASANAT., X, VI, 41. post med. — Vi sono nominate
al posto loro tutte le galere ed i capitani delle medesime.

ARCH. CAETANI, Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Peranda in Roma,
data da Napoli 24 luglio 1571.

Si noti che il Catena enumera tredici galere, senza nominar l’Elbicina:
questa poi è ricordata dai mss. Caetani e Casanatensi, e dal Codice
urbinate 1042 della Vaticana sotto la data del 28 agosto 1571: donde
risulta il numero totale di quattordici galere. I nomi poi dei capitani
sono generalmente da tutti riportati al modo stesso, salvo le continue
varianti ortografiche degli Spagnuoli e dei Veneziani; che in vece
di scrivere Strozzi alcune volte scrivono Atroci, Caracollo per
Caracciolo, Bazza per Baccio, e simili.

[142] ARCH. CAETANI, Lettere di Onorato Caetani, date da Civitavecchia
li 14 e 15 giugno 1571. — Grazie all’archivista Carinci.

[143] ARCH. COL., t. IV, p. 12. — Quivi sono le note di ogni minuta
spesa. Eccone un saggio per giorni otto in Civitavecchia.

«_A dì 13 giugno 1571. Spese fatte da S. E. al partir di Roma per
condurre le robe a Civitavecchia_:

  _Per trentaquattro muli, a doi scudi l’uno Scudi._           68. —
  _Per trentacinque cavalli._                                  55. —
  _Per le casse della Messa e credenza._                       15.50
  _Per il magnare in Cerveteri._                               12.16
  _Per il magnare in Civitavecchia il dì 14._                  21.50
            _alli 15 detto._                                   12.27
            _alli 16 detto._                                   13.52
            _alli 17 detto._                                   25.32
            _alli 18 detto._                                   28.32
            _alli 19 detto._                                   33.84
            _alli 20 detto._                                   27.36
            _alli 21 detto._                                   18.09
  _Per due botti di vino bevute nel sopraddetto._              27.20
  _Per quattro some di biada lograte nel detto tempo._          7.20
  _Per tredici vitture di cavalli quando s’andò a Corneto._     3.25»

[144] ARCH. GAETANI, Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Peranda,
data da Civitavecchia a dì 20 giugno 1571.

[145] ARCH. CAETANI, Lettera di Onorato Caetani al cardinale di
Sermoneta, da Civitavecchia, 21 giugno 1571.

[146] ARCH. CAETANI, Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Peranda,
data da Napoli, 7 luglio 1571.

[147] AVVISI DI ROMA, Cod. urbinate alla Vaticana, 1042, data del 24
giugno 1571.

SERENO cit., p. 116: «_Non si potria narrare con quanta festa e
allegrezza fosse Marco Antonio Colonna ricevuto a Napoli._»

[148] SERENO cit., p. 117.

[149] ARCH. COL., t. IV, p. 82.

Quivi è la nota origliale dei doni ricevuti da M. A. a Messina, che
nella sua ortografia e dialetto presento ai lettori perchè considerino
i costumi di quel tempo.

Noterò soltanto che i doni si traevano pubblicamente a processione da
gran numero di donzelli in livrea, i quali portavanli sulle stanghe
o sopra carri coperti di drappi, di fiori, di targhe e di bandiere: e
innanzi a loro i trombatori che bandivano al popolo la magnificenza dei
donatori e la dignità degli ospiti che si volevano onorare.

«_Memoriale del presente si manda per la città di Messina
all’Eccellenza dell’illustrissimo signor Marco Antonio Colonna._

  _Primo. Confettione blancha, Scatoli dodichi_        12
  _Intorchi de chera biancha mazi dichidotto_          18
  _Candiloni de chera blanca mazi dichidotto_          18
  _Zuccaro fino pani ventiquattro_                     24
  _Capponi venticinque_                                 5
  _Gallini venticinq_                                  25
  _Galluzzi chento_                                   100
  _Anatri num. ventiquattro_                            4
  _Papari dudichi_                                     12
  _Galli d’India cinque et una Gallina malta_           6
  _Pavoni, tri mascoli e tri fem_                       6
  _Genchi dui_                                          2
  _Crastati sei_                                        6
  _Dui Butti di vino_                                   2
  _Pani blanco, cofini tri_                             3
  _Quattro cofini di frutti_                            4
  _Uno carrico di nivi_                                 1

                                  »MATTHÆUS CASALAYNA _Secretarius_.»

[150] GRATIANUS, _De bello Cyprio_ cit., p. 154: «_Interea dum
Christiani jungendis fœderibus altercandoque de singulis tempus terunt,
Turcæ, ingenti confecta classe, Venetorum insulas orasque maritimas
immaniter vastabant_.»

ROSELL cit., p. 63: «_Selim justò a sus capitanes que no estuviesen
ociosos un solo dia: por lo que echaron a tierra soldados a Candia....
arrasaron pueblos_ ec.»

[151] NATAL CONTI, _Storia de’ suoi tempi_, volgarizzata dal Saraceni,
in-4. Venezia, 1579, t. II, p. 72: «_Sebastiano Veniero uomo di chiaro
e prestante ingegno (quantunque nelle cose forensi piuttosto che nelle
militari controversie esercitato)_»

GRATIANUS cit., p. 104 et 139: «_Prima ætas ejus expers honorum
fuit; causas mercede aclitavit. Parta re, privatis omissis causis,
magistratus urbanos cœpit. Militari potius animo inter cives,
quam peritus militiæ usu aut scientia ulla. Concitus atque audax;
inimicitias rixasque et ipse exercuit, et alienis se miscuit; in quibus
et accepit vulnera haud indecora, et fecit._»

[152] ARCH. COL. cit.

ARCH. CAETANI cit., Lettera di Muzio Manfredi a Monsignor Gianfrancesco
Peranda, data da Messina, li 24 luglio 1571.

[153] ARCH. CAETANI cit., Lettera 24 luglio.

[154] SERENO cit., p. 130 e 134: «_Il Veniero, che non poco dubitava
dell’animo del re di Spagna, cominciò a dire.... che avrebbe procurato
di far da sè._»

[155] ARCH. CAETANI cit., Lettera di Onorato al Cardinale di Sermoneta,
data da Messina 30 luglio 1571.

SERENO, p. 130.

ARCH. COL., Lettera di M. A. al cardinale Spinosa in Spagna, data da
Messina 25 agosto 1571, t. I, p. 152.

[156] ARCH CAETANI cit., Lettera di Onorato al Cardinal di Sermoneta,
da Messina, 6 agosto e 6 settembre 1571.

[157] SERENO cit., p. 133.

[158] BARTOLOMEO SERENO, pag. 118.

ARCH CAETANI cit., Lettera di Onorato al Cardinale di Sermoneta, data
da Messina 10 agosto 1571.

ROSELL cit., p 79. Si noti che il tumulto successe alli 7 di agosto:
la lettera del Gaetani, che ne parla, è delli 10: don Giovanni
arrivò a Messina, alli 23: onde non fu frenato da don Giovanni, ma da
Marcantonio.

[159] LADERCHI cit., p. 480: «_Columna vero et Venerius interim in
Sicilia cladium Dalmatiæ spectatores Joannem Austrium expectabant....
Quod Pius moleste ferens, ut Joannes maturaret summum studium adhibuit,
ad eumque sollicitandum literas et nuncios misit_.»

[160] SERENO cit., p. 132. — Quando passavano armi spagnole tremavano
le piccole potenze italiane. Che lode! che lega!

JEAN DE FERRERAS, _Histoire générale d’Espagne_, in-4. Parigi, 1571,
t. X, p. 250: «_Don Juan d’Autriche arriva heureusement le vingt-six
juillet à Gênes, où cette République le reçut avec beaucoup de
magnificence, quoique avec quelque crainte_.»

ROSELL cit., p. 78: «_Refieren que toda Italia se sobresaltò con la
venida de don Juan, temerosa de su opresion y ruina_.»

[161] ROSELL cit., p. 73: «_El Rey mismo se felicitaba de que occupase
el lugar supremo una persona allegada a si; que siendo por otra parte
echura suya, y docil a su voluntad, en nada se excederia_.» Idem, p.
83, e a p. 54: «_Don Juan no era dueño ni aun del titulo que se le
daba, su voluntad su mismo ser dependian del Rey a quien amaba como
hijo, y obedecia como vassallo_.»

FAMIANO STRADA, _Hist. Belg._, in-fol. Roma, 1632, t. I, p. 364. Don
Giovanni nato a’ 24 febbraio 1545.

PRESCOTT, III, 103, a’ 24 febbr. 1547.

Altri più variano.

[162] SERENO cit., p. 132, 133 e 134.

CARACCIOLO cit, p 64 e 99.

ROSELL cit., p. 83, lin. 15.

THEINER, ANN. ECCL., t. I, p. 481, col. 2, lin. 20 a 36.

COLLECION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p. 357. _Carta del Rey a don
Garcia de Toledo, e p. 185. Carta de Rey a don Juan para que embarque y
lleve con sigo a don Pedro Francisco Doria pora que asista cerca de el
como uno de las demas consejeros_. V. Lib. III, nota 100.

PRESCOTT cit., t. III, p. 269, 270. Confonde i tre consigli che
erano all’armata: uno deliberativo, secondo i capitoli, composto di
tre persone Don Giovanni, Marcantonio e Veniero, in guisa che i due
dovevano far legge al terzo: uno consultivo, al quale per convenienza
si chiamavano tutti i comandanti superiori per udirne il parere: uno
abusivo di soli Spagnoli e partigiani messo dal Re per tenere a freno
don Giovanni, e con lui eziandio i Veneziani e i papalini. Fatto questo
preambolo, e levati gli equivoci, rimane che a rispetto di quest’ultimo
consiglio: «_Had been strenously urged on him by the king ever afraid
of his brother’s impetuosity_.» Anche a san Pio dispiaceva questo
consiglio privato «_di che soltanto il Papa temeva_» come dice il
SERENO, 155.

[163] ARCH. CAETANI, _Antonii cardinalis Granuellani epistola Pio V P.
M._ L’autografo latino mi fu gentilmente mostrato dal riverito duca di
Sermoneta, don Michelangelo Caetani, noto ai cultori de’ buoni studi,
il dì 23 novembre 1855. Ne ho copia presso di me.

[164] ARCH. CAETANI cit., Lettera del Signor Onorato al Cardinale di
Sermoneta, data da Messina il 24 agosto 1571.

SERENO cit., p. 136.

Si noti che il re Filippo, geloso di questo suo fratello, non voleva
che gli si desse titolo di Altezza, ma solo di Eccellenza: nondimeno
quasi tutti, meno i ministri e il vicerè, trattavanlo d’Altezza come si
vedrà per continui documenti.

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 529 e 530.

ROSELL, p. 73.

[165] Vedi sopra, lib. I, nota 87.

SERENO cit., p. 137, lin. 21, e p. 233, lin. 4: «_Anzi quando nella
corte di Spagna s’intese la gran vittoria navale, non mancò di quel
consiglio chi dicesse che, quantunque bene fosser succedute le cose,
era nondimeno degno don Giovanni di severa riprensione; poichè intento
solamente alla gloria sua, come giovane troppo volenteroso, non aveva
avuto riguardo di porre a rischio tutte le forze che il Re si trovava
in mare_.»

E p. 142 in fine: «_Ma dava cagione di temere l’ostinazione dei
consiglieri spagnuoli, che apertamente si facevano intendere che si
doveva sfuggir di combattere; di che tante ragioni allegavano, che
quando un men risoluto animo di quello di don Giovanni avessero avuto a
trattare, senza dubbio avrebber avuto l’intento_.»

E p. 144. Altre ragioni dei consiglieri spagnoli contro la battaglia.

E di don Giovanni a p. 277.

E p. 155: «_Monsignor Odescalchi fu eletto dal Papa, perchè persuadesse
a don Giovanni e al suo consiglio spagnolo, di cui solo il Papa temeva,
che a nessun’altra impresa si volgessero le forze che ad espugnar
quell’armata con la quale principalmente il Turco nuoceva_.»

CARACCIOLO cit., p. 15, e 22: «_Hassi per cosa indubitata che
Marcantonio antivedendo le discordie intorno al combattere si fosse
fatto fare un motuproprio dal Pontefice, che sotto scomunica non
potesse dir altro mai intorno a questo, eccetto che si combattesse: e
perciò si scusava con don Giovanni che non poteva per dette ragioni dir
altrimenti, benchè tutto ciò tenesse egli segreto con altri, mostrando
che nei consigli consultivi avrebbe consentito a quanto don Giovanni
li comandava, ma come si veniva nel consiglio decisivo intorno a detta
deliberazione, non poteva dir altro che conforme all’ordine del Papa_.»

PAOLO PARUTA, _Storia veneziana_, in-4. Venezia, 1718, p. 277.

«_Perocchè andavano molte voci attorno che alla corte cattolica da
persone principali fosse stato biasimato il consiglio di don Giovanni
d’arrischiare le forze del Re pari a quelle dei Veneziani: però che
dovevano essere le cose di lui maneggiate con diversa ragione e con
separati consigli_.»

THUANUS cit., lib. 54, nº 21: p. 201: «_Felicitas præinopinata et
tanta victoria tantum abest ut lætitiam in Regia et hispanorum procerum
animis excitaverit, ut aperte plerique Austrii consilium improbarent,
nonnullique temeritatem ejus puniendam censerent_.»

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 511 e 512.

COLECCION DE DOCUMENTOS INEDITOS PARA LA HISTORIA DE ESPAÑA, in-8.
Madrid, 1843, t. III, p. 9: «_Carta de don Garcia de Toledo a don
Luis de Requesens_. Pisa, 1 de agosto 1571: «_Por amor de Dios que se
considere mucho, como se que se harà, negocio tan grande, como es el
que se trata; y de que tan gran daño puede suceder: y pareciendome que
es bien que no sepan venecianos, por buen respecto, que ministro ni
en à donde_ Su Majestad tracte de que no se pelee. _Suplico a Vostra
Signoria Illustrissima mande, despues de haber leida de mi parte esta
carta al Señor don Juan, rasgalla luego si asi le pareciere, y que
no vaya en otras manos sino en las del secretario Soto._» Ecco come i
ministri del re e i consiglieri di don Giovanni trattavano a nome di
Sua Maestà perchè non combattesse.

PRESCOTT, t. III, p. 270: «_Even Doria thought it was not advisable to
attack the ennemy_.»

[166] SERENO, cit., p. 138, e 234.

[167] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al card. Rusticucci, data di Messina
2 settembre 1571 in cifra. ARCH. COL., t. 1, p. 157.

[168] ARCH. COL., t. I, p. 154. M. A. al Doge: da Messina, 28 agosto
1571: «_Intendo che stancati i maligni di volermi far tanto veneziano,
intendano hora che io non ho procurato il servigio della Serenità
vostra_.»

E p. 155, Lettera a M. Niccolò Danèo che trattava i suoi negozi in
corte di Spagna. Cifra del 3 settembre 1571: «_Don Giovanni mi ha detto
liberamente che con lui sono stati fatti contro di me cattivissimi
uffici. Vedo ancor che in tutte le lettere che mi scrive Sua Maestà mi
mette avanti l’obbligo; che pare si dubiti della mia volontà: cosa che
mi dà dispiacere_.»

E p. 154. Marcantonio al padre Francesco Borgia, già duca di Gandia, da
Messina li 4 settembre 1571. L’originale in lingua spagnuola.

Ibid., p. 163, Lettera dello stesso a nostro Signore Papa Pio V, da
Messina li 15 settembre 1571.

[169] ARCH. CAETANI, Lettera del Signor Onorato Caetani al Cardinale di
Sermoneta, da Messina 6 settembre 1571.

[170] ROSELL cit., p. 206, _Carta de don Juan de Zuñiga a don Juan de
Austria_. Roma, 28 novembre 1571: «_Su Santitad nunca me ha dado a mi
otra queja sinò la de la nominacion de Ascanio de la Cornia por maestre
de campo general de la liga, sin consulta de los otros generales._»
Item, p. 216, _Carta del mismo_, 29 noviemb.: «_Ascanio de la Cornia
esta en muy poca esperanza de vida: si muere vea V. E. que persona sera
conveniente para el uficio de Maestre de campo general de la liga. Y
aunque serà muy bien con consulta de los otros generales, por que no
se quejen, conviendra que V. E. prevenga a Marco Antonio (Colonna) de
manera que no ose hacer sino lo que V. E. fuere servido._» Ecco come si
servivano questi signori.

ARCH. COL., t. II, p. 282: «_E di già erano passate tra il Veneziano e
don Giovanni alcune male soddisfazioni come furono, far don Giovanni
patente ad Ascanio della Cornia di maestro di campo generale, e
capitano generale delle navi di tutta la Lega a don Cesare Davales,
senza comunicarlo con lui e col general del Papa._»

[171] ARCH. COL., t. II, _Relazione_, scritta in piccol foglio, legata
in mezzo a detto tomo.

ARCH. CAETANI, Lettera al Cardinal di Sermoneta, da Messina, li 6
settembre 1571.

[172] ARCH. COL., Lettera cit. del 6 settembre.

COLECCION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p. 16, _Carta de don Juan a don
Garcia de Toledo: «Hallè a qui a Marco Antonio Colona con las doce de
Su Santitad, que estan a su cargo, bien en orden._»

ROSELL, p. 80: «_Seguian luego las doce galeras i seis fragatas del
Papa, puestas asi mismo muy en orden_.»

[173] SERENO cit., p. 143, lin. 24.

COLLECION DE DOCUMENTOS, t. III, p. 20. Lettera di don Giovanni
d’Austria a don Garzia di Toledo del 9 settembre: «_Estos Señores
venecianos a la fin se han acabado de resolver en tomar en sus galeras
quatro mil infantes de los de Su Majestad, es a saber mil quinientes
españoles, i dos mil quinientos italianes: i asi se quedan consignados
a esta hora_.»

[174] ROSELL cit., p. 78: «_Porque el encerrarse la escuadra de Veniero
en al puerto de Messina, dominio del Rey d’España, i que fue si no
muestra de confianza, en que no se trasluce el menor recelo?_»

[175] SERENO cit, p. 151 e 152.

COLECCION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p. 11.

ROSELL, p. 91.

CARACCIOLO cit, p. 21.

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 511. «_No faltaban en el consejo quienes
asustado antes el gran poder del Turco, recordando el desastre de
los Gelbes, propusieran empresas que denotaban su timidez_.» Questi
timorosi non erano nè Romani nè Veneziani. Il chiarissimo autore li
nomina generali di don Giovanni: «_Tambien los generales de don Juan,
i entre ellos se cuenta a Andrea Doria a Ascanio de la Cornia.... se
mostraban temerosos de entrar en la lid: i hubolos que qualificandola
de temeridad avanzaron a decirle que convendria retirarse_.»

[176] SERENO cit., p. 151.

Il Sereno che scriveva senza speranza e senza timori, ritirato in
Chiostro, che era stato attore e testimonio di questi fatti, che non
aveva interesse a mentire, e le cui parole pienamente s’accordano con
gli originali documenti degl’archivi romani, merita fede grandissima;
ed io quasi più come documento che come storia cito le sue sentenze.

[177] La condotta di don Giovanni fu anche dopo la vittoria giudicata
degna di severa riprensione dalla corte di Madrid. Vedi sopra la nota
nº 61.

[178] SERENO, p. 191.

[179] BARTOLOMEO DAL POZZO, _Storia della sacra Religione militare di
san Giovanni gerosolimitano, detta di Malta_, in-4. Verona, 1703, t. I,
p. 14.

GIOFFREDO, _Storia delle Alpi marittime_, int. MONUMENTA HIST. PATRIÆ
Scrip., t. IV, p. 1551, in-fol. Torino, 1839. Grazie a S. E. signor
conte Federigo Sclopis, per cui sollecitudine, e per introdotto del
cav. Pier Alessandro Paravìa e del conte Ferrero di Ponziglione ebbi in
dono a vantaggio degli studiosi nella nostra biblioteca Casavatense una
copia di questa insigne raccolta di monumenti.

[180] SERENO cit., p. 160.

CARACCIOLO cit., p. 17.

[181] ARCH. CAETANI, Lettera del Signor Onorato al Cardinal di
Sermoneta, data dalla galera Grifona nel canal della Cefalonia, a dì 4
ottobre 1571.

[182] Il gran numero di quei soldati era dello Stato romano, donde i
Veneziani, come da ricca miniera, sempre ne traevano. Tra i capitani
statisti che morirono a Famagosta, affinchè presso ai posteri la virtù
loro non resti frodata delle debite lodi, ricorderò Bernardino da
Gubbio, Ercole Malatesta da Rimini, Erasmo da Fermo, Antonio da Ascoli,
Giacomo da Fabriano, Roberto Malvezzi da Bologna, Marchetto da Fermo,
Tiberio Cerruti da Roma, Ottavio da Rimini e il Governatore generale
della Piazza Astorre Paglioni da Perugia ucciso a tradimento dai Turchi
dopo la capitolazione.

[183] SERENO cit., p. 251.

CALEPIO cit., p.

MAMBRINO ROSEO, _Storia del mondo in continuazione del_ TARCAGNOTA,
lib. XIII, in — 4. Venezia, 1585. p. 395.

CESARE CAMPANA, _Storia del mondo_, t. I, lib. II, in-4. Pavia, 1602,
p. 123.

PAOLO PARUTA, _Storia di Venezia_, in-4. 1718, p. 229.

GIACOMO DIEDO, _Storia della repubblica di Venezia dalla sua fondazione
sino all’anno 1747_, in-4. Venezia, 1751, t. II, p. 271.

CRISPOLTI, _Annali di Perugia_, t. II, Ms. alla Comunale C. 33.

ANONIMO PERUGINO, _Vita di Astor Baglioni_, alla Comunale Ms. D. 24,
in fine: «_Fu Astorre di statura mediocre, di pelo e colore più tosto
negro, d’occhi vivacissimi, di corpo robusto, e dalla fanciullezza
allevato a sostenere ogni fatica. Di ingegno acuto et expedito,
in tutti gli esercizi militari agilissimo; si dilettò di poesia,
scrisse i commentari della sua vita, che poi non furono trovati. Fu
nel conversare di maniere gravi e piacevoli, onde da tutti amato e
riverito. Nel parlare di parole acute e brevi, ma piene di sugo: e
molti detti si raccontano dei suoi da agguagliare a quelli dei primi
uomini che stati mai siano_.»

[184] ARCH. COL. cit., t. II, p. 285.

SERENO cit., p. 166.

CARACCIOLO cit., p. 25.

CAMPANA cit., p. 136.

PARUTA cit., p. 237.

FRANCESCO LONGO cit., p. 31.

ADRIANI cit., p. 883.

GIROLAMO DIEDO, Lettera a Marcantonio Barbaro, Bailo in Costantinopoli
tra le LETTERE DI PRINCIPI, in-4. Venezia, 1583, t. II, p. 242.

Queste testimonianze provano nome, cognome, patria e bandiera del
capitano che fu impiccato. Dopo ciò vuolsi correggere il PRESCOTT,
t. III, 271 che dice: «_A Roman Officer named Tortona_ etc.» Nè era
romano, nè ufficiale, nè si chiamava Tortona, nè menava ciurme, nè
altri equivoci.

[185] ROSELL cit., p. 92: «_Don Juan encolerizose tanto, que estuvo a
punto de imponer a Veniero castigo igual a aquel de Muzio_.»

ARCH. COL., t II, p. 446: «_Tutti li consiglieri del signor don
Giovanni, che non havevano voglia d’andare avanti, lo consigliavano che
per il meno castigasse il general di Venezia: cosa che non si havrebbe
potuto fare senza una battaglia tra noi invece di farla coll’inimico_.»

E p. 285, 286. Autografo di Marcantonio: «N_el consiglio la maggior
parte furono di voto che per sua dignità et per ogni rispetto doveva
don Giovanni far dimostratione notabile et rigorosa contro la persona
del General veneziano_.»

SERENO, p. 166: «_Don Giovanni di tanto sdegno si accese contro il
Veniero, che avendo risoluto in ogni modo di volerne far risentimento,
vide quel giorno un chiaro preparamento d’aversi a combattere fra sè
stessa l’armata_.»

[186] Marcantonio aveva feudi nella provincia di Napoli, ed era gran
contestabile del regno.

[187] Dopo la grande vittoria a Lepanto, don Giovanni abbracciò il
Veniero, e rimiselo in sua grazia: tuttavia la corte di Madrid il volle
privato del comando, e la Repubblica ubbidì. Ma poco dopo fu eletto
doge e principe della patria.

[188] ARCH. CAETANI cit., Lettera del Signor Onorato al Cardinal di
Sermoneta, data dal Porto delle Fighere a dì 9 ottobre 1571.

SERENO cit., p. 170.

CARACCIOLO cit., p. 29.

Questo corsale si trova anche nominato Caracossa, e Caracoggia,
Caracuse, e Cara-Jussuf. Era calabrese rinegato.

[189] SERENO cit., p. 181 e 188.

ROSELL cit., p. 91: «_Consejos eran estos de animos apocados o
cobardes._»

Item, p. 94: «_Doria representaba difficultades_ ec.»

[190] SERENO cit., p. 188.

[191] TOMMASO PORCACCHI, _Le isole_, con le giunte, in-fol. Venezia,
1604, presso gli eredi del Galignani, p. 85. Quivi è l’armata in
ordinanza.

L. S. BAUDIN, _Manuel du Pilote de la Mediterranée_, in-8. Tolone,
1838, t. II, p. 114.

MAGLOIRE DE FLOTTE D’ARGENÇON.

CAPTAIN W. H. SMITH, _Carte marine_: Isole di Santamaura, Cefalonia,
Itaca e Zante, da Parga al Katakolo, 1825. Londra.

ARCH. CENTRALE di Stato in Firenze, Codice segnato nº 259 delle carte
Strozziane. Una grande stampa; e la veduta del golfo e delle due
armate.

[192] CATENA cit., p. 192 e 319.

CONTARINI cit., p. 35.

SERENO cit., p. 153 e 184.

Di più i documenti citati nella nota nº 38.

L’ORDINE che ha tenuto l’armata della Lega, dal dì che si partì da
Messina, con i nomi di tutte le galere e di tutti i capitani di essa
ed altre notizie. Roma, in-4. 1571. Foglietto volante nella BIBL.
CASANATENSE, Miscellanea in-4. t. 776, nº 25.

DON JUAN DE AUSTRIA, _Orden que la armada de la santa Liga hade tener
en el caminar_. Ms. Casanatense, X, VI, 41.

COLECCION _de documentos ineditos_, in-8. Madrid, 1845, t. III, p.
204. _Relacion del numero de toda la gente que va en esta armada
de Su Majestad, y de la manera que se ha echo su embarcacion y
repartimiento_.

ARCH. COL., t. II, foglio 60 a 90, i nomi e i segni di tutte le galere.

ARCH. DI STATO in Firenze, nº 259 delle carte Strozziane. Nomi di tutte
le galere e capitani a stampa, Firenze, 1571 per Antonio Padovani.

[193] Nel determinare le forze della Lega, come suole sempre avvenire,
non convengono tra loro gli scrittori. Alcuni producono il numero
delle galere, senza noverare le galeazze e le navi: altri scrivono le
fanterie soltanto di questa o di quella nazione: altri il numero dei
soldati, senza far ragione ai marinari: altri mettono gli Italiani nel
numero degli Spagnuoli, senza avvertire che gran parte della gente
e delle galere del Re erano galere e genti napolitane, siciliane e
genovesi. Volendo esatta contezza di tutto, sembra potersi formare
sopra documenti sicuri, come alla nota 88, il seguente

  SPECCHIO ANALITICO
  DELLA FORZA DELLA LEGA NELL’OTTOBRE 1571.

                |      =MATERIALE=.       |       =PERSONALE=.
                +-------------------------+---------------------------
                | GALERE.                 | SOLDATI.
                |     | NAVI.             |        | MARINARI.
                |     |    | GALEAZZE.    |        |        | REMIERI.
  =Italiani=.   |     |    |   | CANNONI. |        |        |
                +-----+----+---+----------+--------+--------+---------
  sotto le      |     |    |   |          |        |        |
  loro          |     |    |   |          |        |        |
  bandiere.     |     |    |   |          |        |        |
                |     |    |   |          |        |        |
  Venezia       | 105 | 10 | 6 |   905    | 11,200 |  7,000 | 22,800
  Papa          |  12 |  . | . |    60    |  2,200 |    700 |  2,400
  Savoia        |   3 |  . | . |    15    |    500 |    180 |    600
  Genova        |   3 |  . | . |    15    |    500 |    180 |    600
  Malta         |   3 |  . | . |    15    |    600 |    200 |    900
                |     |    |   |          |        |        |
  sotto le      |     |    |   |          |        |        |
  bandiere      |     |    |   |          |        |        |
  del Re.       |     |    |   |          |        |        |
                |     |    |   |          |        |        |
  Napoli        |  19 |  . | . |    95    |  1,900 |  1,100 |  3,800
  Sicilia       |   4 |  . | . |    20    |    400 |    240 |    800
  Giannandrea   |  10 |  . | . |    50    |  1,000 |    600 |  2,000
  Niccolò Doria |   2 |  . | . |    10    |    200 |    120 |    400
  Lomellini     |   4 |  . | . |    20    |    400 |    240 |    800
  Negroni       |   4 |  . | . |    20    |    400 |    240 |    800
  De Mari       |   2 |  . | . |    10    |    200 |    120 |    400
  Grimaldi      |   2 |  . | . |    10    |    200 |    120 |    400
  Imperiali     |   2 |  . | . |    10    |    200 |    120 |    400
  Sauli         |   1 |  . | . |     5    |    100 |     60 |    200
                |     |    |   |          |        |        |
  =Spagnoli=    |  31 | 20 | — |   555    |  8,000 |  1,700 |  6,200
                +-----+----+---+----------+--------+--------+---------
  TOTALE        | 207 | 30 | 6 | 1,815    | 28.000 | 12,920 | 43,500

[194] CATENA cit., p. 325.

CONTARINI cit., p. 44. Quivi è il novero delle galere ottomane e i nomi
di ciascun capitan turco.

ARCH. DI STATO in Firenze, Codice 259 delle carte Strozziane. Novero
delle galere ottomane con questi ed altri documenti, si può formare il
seguente:

  SPECCHIO ANALITICO
  DELLA FORZA DELL’ARMATA TURCHESCA NELL’OTTOBRE 1571.

            |       MATERIALE.          |          PERSONALE.
            +---------------------------+---------------------------
            | GALERE.                   | SOLDATI.
            |      | GALEOTTE.          |        | MARINARI.
            |      |        | CANNONI.  |        |         | CIURME.
            +------+--------+-----------+--------+---------+--------
  Centro    |  94  |     «  |    300    | 12,500 |  5,000  | 18,000
  Diritta   |  53  |     «  |    160    |  8,500 |  2,500  | 10,000
  Sinistra  |  65  |     «  |    200    | 10,000 |  3,000  | 12,000
  Riserva   |  10  |    60  |     90    |  3,000 |  2,500  |  1,000
            +------+--------+-----------+--------+---------+--------
  Totale    | 222  |    60  |    750    | 34,000 | 13,000  | 41,000

[195] ROSELL cit., p. 91: «_Hubo algunos que.... renovarian la infamia
de los Gelves y de la Prevesa.... Però Marcantonio Colonna Barbarigo, i
don Juan infundieron a los demas su ardimiento generoso._» E p. 95: «_Y
como algunos preciados sin duda del voto que el Rey les hubia otorgado
dijesen al Principe que convendria retirarse, y no seguir en proposito
tan temerario, señores, replicò este con eroico spiritu, ya no es hora
de consejos, sino de combates._»

[196] CARACCIOLO cit., p 33.

SERENO cit., p. 194 e 201.

ADRIANI, 886, F.

CONTARINI, 49.

LONGO, 26.

CATENA, 197.

DIEDO cit., t. II, 275, 279, 280.

GABUTIUS, _Vita Pii V_, ap. _Bollandianos_, die 5 maij, § 284.

THUANUS, lib L, nº 4.

ROSELL cit., p. 99: «_Delonte la seis galeazas de Venecianos.... detras
en una linea las dos alas o cuernos con la battalla; que por haberse
hecho mucho a la mar la de Juan Andrea, occupaban una extencion de tres
millas_.»

Item, p. 103: «_Juan Andrea habia de alejarse largo trecho, tanto que
se dice que les Turcos llegaron a sospechar que huia: y don Juan le
enviò a advertir que no se extendiese tanto, porque dejaba la battalla
desabrigada_.»

PRESCOTT, t. III, p. 282: «_Doria extended his line so far....
that don Jhon was obliged to remind him that he left the center too
much exposed..._» E p 290: «_Uluch-Aly profited by Doria’s error in
extending his line so far as greatly to weaken it_.»

[197] SERENO cit., p. 192.

[198] NATAL CONTI, _Storie de’ suoi tempi_, tradotte dal Saraceni,
in-4. Venezia, 1589, t. II, p. 143.

[199] DIEDO cit., p. 275.

SERENO cit., p. 188.

LAFUENTE cit, p. 511 e 512.

[200] CARACCIOLO cit., p. 36.

[201] ARCH. COL., t. II, più volte.

ARCH. CAETANI, Lettera del signor Onorato al Cardinale di Sermoneta,
data dal porto delle Fighere, 9 ottobre 1571: «_La Capitana del Papa
investì quella del Turco (Aly) al focone: e quella del Turco, dove era
il Bascià di terra (Pertaù) investì quella del Papa allo schifo_....
eccetera.»

DAL POZZO cit., p. 24

ERCILLA, _La Araucana_, canto 24, stanza 44:

    «_No estavan las Reales aferradas_,
      _Quando de gran tropel sobrevinieron_
      _Siete galeras turcas bien armadas_
      _Que en la Christiana subito envistieron_.
      _Però no de menor furia llevadas_
      _Al soccorro sobre ella succudieron_,
      _De la derecha y de la izquierda mano_,
      _La general del Papa, y Veneciano_.
    _Do con secunda autoridad venia_
      _Por general del Summo Quinto Pio_
      _Marco Antonio Colona; a quien seguia_
      _Una esquadra de mozos de gran brio_. ec.»

[202] PARUTA cit.

ADRIANI cit., p. 887.

CARACCIOLO cit., p. 38.

CATENA cit., p. 196.

[203] UBERTUS FOLIETTA, _De sacro fœdere in Turcas_, ext. ap.
BURMANN in _Thesauro_, t. I, p. 1066 A: «T_riremis quæ duos filios
Halys vehebat cum rostro dexterum pluteum pontificiæ Pretoriæ
percussisset.... capitur_ etc.»

DAL POZZO cit., p. 24, 25: «_Marcantonio sottomise più galere, e quella
dei figli d’Aly, che fuggì dalle sue mani, trovò la sua disgrazia col
commendator maggiore_.»

SERENO cit., p. 199: «_Due giovanetti figli d’Aly, presa la loro galera
dal Colonna, restarono prigioni_.»

CARACCIOLO cit., p. 38.

CATENA cit., p. 196.

SERENO cit., p. 198.

[204] Vedi a pag. 35 la mia protesta da essere sempre presente ai
lettori.

[205] SERENO cit., p. 199.

ARCH. CAETANI cit., Lettera del signor Onorato al Cardinale, 9 ottobre
1571, dal porto delle Fighere: «_La reale di Spagna, e la capitana di
Sua Santità, pigliarono quella del Turco_.»

ARCH. cit., Lettera di Marcantonio all’istesso Cardinale di Sermoneta:
«_Ho sostenuto il maggior impeto dell’armata nemica che seguiva la
loro generalizia, combattuta da don Giovanni e da me, e giuntamente
conquistata_.»

ADRIANI cit., p. 885.

BOLLANDISTI, 5 maij, ex GABUTIO, § 282: «_Marcus Antonius Columna cum
triremem qua cum diu admirabili contentione dimicaverat in potestatem
redegisset, aliasque vicinas velut tempestas, pari virtute disjecisset,
quacumque pergeret magnam hostium stragem faciebat; ac demum in
Turcarum regiam sese insinuavit_.»

LADERCHI cit., p. 503.

GABUTIUS cit., lib. V, c. IV, p. 173 e 174.

COLECCION DE DOCUMENTOS para la historia de España, in-8. Madrid, 1843,
t. III, p. 220. _Relacion de la battalla de Lepanto: «Los generales
del Papa i de Venecia ayudaron sin duda mucho a la real del señor don
Juan_.» Ibid., altra _Relazione_, p. 265: «_Los capitanes del Papa i
Venecia, y las otras demas galeras que habian estado cerca de ellas sin
duda habian ayudado mucho a la real de Su Majestad_.»

POMPEO LITTA, _Le famiglie celebri d’Italia_. Tra le tavole dei
Colonnesi dà il disegno del Gerardi.

GIORGIO VASARI, Lettera a Vincenzo Borghini, da Roma, 1º marzo 1572, e
del 23 febbraio al principe dei Medici. Parla del suo dipinto alla sala
regia. GAYE, _Carteggio d’Artisti_, in-8. Firenze, 1839-40, t. III, p.
307, 311.

[206] ROSELL cit., p. 104: «_A qui asistian principalmente los
Venecianos, i bien mostraron serlo en el encarnizamiento con que
peleaban: el encono y hasta el brio tanto tiempo en sus pechos
comprimidos, se desahogaban entonces, saciandose en la obborrecida
sangre de los verdugos de sus hermanos._»

[207] CARACCIOLO cit., p. 37.

SERENO cit., p. 205.

PARUTA cit.

GIROLAMO DIEDO, Lettera a Marcantonio Barbaro. Tra le lettere dei
principi, in-4. Venezia, 1575, t. II, p. 250 b.

MARCANTONIO COLONNA loda il Barbarigo, narra i successi passati, e
accenna i futuri disastri della Lega nella lettera al Buonvicino,
secretario dei Veneziani. ARCH. COL., _Armata navale_, carte sciolte,
nº 85.

[208] DAL POZZO cit., t. I, p. 26, lin. 9.

BARTOLOMEO DIONIGI da Fano, Giunte al Tarcagnota, _Storie del mondo_,
in-4. Venezia, Par. III, t. II, p. 409, lin. 28.

SERENO cit., p. 200.

Vedi sopra la nota 92, e la pagina 40.

[209] DIEDO cit., p. 280.

[210] SERENO cit, p. 201: «_L’accorto Luccialì vide quelle galere
separate dall’altre, conobbe anche nel Doria poca voglia d’andarlo
a trovare; e vedendo che quandanche impedirlo avesse voluto, tanto
lontano se lo trovava, che non poteva a tempo più arrivare a sturbarlo,
con tanto furore si volse contro di quelle che avendone in un attimo
guadagnate dodici.... troppo miserabil danno vi fece._»

[211] ERCILLA, _La Araucana_, canto 24, stanza 76.

    «_Però el Virey de Argel, cossario experto,_
      _Que a la mira hasta entonces havia estado,_
      _Hallando al cuerno diestro el passo abierto,_
      _Que del todo no estava bien cerrado,_
      _Antes que se pusies en en concierto_
      _Furioso se lançò por aquel lado._»

[212] DAL POZZO cit., p. 27.

SERENO, p. 201.

[213] MARCHESI, _Galleria dell’onore_, in-4. Forlì, 1735, t. I, p. 322,
e t. II, p. 83.

_Successo dell’Armata della santa Lega_, foglio volante stampato in
Roma l’anno 1571. BIBL. CASANAT., Miscell., in-fol. Volume 157, nº 16.

[214] SERENO cit., p. 204.

DAL POZZO, p. 26.

MARCHESI cit., ut supra.

[215] ADRIANI cit., p. 886.

CONTARINI, p. 49.

CATENA, p. 197.

PARUTA, p. 257.

THUANO, L. L, nº 4.

DIEDO, p. 280.

CAMPANA, p. 151.

CARACCIOLO, p. 40.

GRAZIANO, 243: «_Ausiam ante omnes pene proditionis insimulabant, quod
longius in altum... seriusque inde cum posset et ex disciplina deberet,
noluerit persequi Uluccialium fugientem; sed victas captasque a nostris
hostium naves diripuerit ipse, praedator potiusquam bellator._»

ROSELL cit, p. 112: «_Juan Andrea que no habia tropezado con Uluch-Aly
(por mucho que hizo para lograrlo!!!) conosciendo que consumia el
tiempo inutilmente, diò la vuelta._»

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 516, lascia incerti i lettori di quel che
facesse Giannandrea in quel giorno.

[216] ANTONIO DE HERRERA, Historia general del mundo, in-fol.
Vagliadolid, 1606, t. II, p. 32.

LORENZO VANDER HAMMEN Y LEON, _Vida de don Juan de Austria_, in-4.
Madrid, 1627.

ROSELL cit., p. 120.

[217] UBERTUS FOLIETTA, _De sacro fœdere_, ap. Burmann., in Thesaur.,
t. I, p. 1064.

[218] AGOSTINO SAGREDO, nella dedica al marchese Gino Capponi
dell’opera di Messer Francesco Longo intitolata: _Successo della guerra
fatta con sultan Selim._ — ARCH. STOR. ITAL., t. XII, p. 5, 8, 28.

[219] Niuno storico si è mai ardito a farne elogi per ciò che
riguarda il fatto della guerra di Cipro e battaglia di Lepanto. Anzi
è rimarchevole che nelle Biografie più celebri di questo nostro secolo
neanche il suo nome si trova.

[220] LONGO cit., p. 28.

[221] PARUTA, _Storia di Venezia_, in-4. 1718, p. 257.

FORESTI, _Mappamondo_, in-4. Venezia, 1736, t. XII, p. 20.

LONGO, p. 28.

Io che vivo in Roma, ammirando la virtù e i meriti del Principe Doria
e della sua eccellentissima Casa, tanto amata e riverita nella città
e fuori, non posso qui tacere come io al paro d’ogni altro in quella
gran famiglia e nell’eccelso suo Capo ravviso il riflesso e i pregi
dei molti e valorosi suoi maggiori, non il difetto di qualcuno. Di che
fia pegno a me ed a tutti la cortese e giusta risposta onde l’istesso
Principe volle onorarmi, per la bocca del padre Saccheri professore
all’Università romana, facendomi dire: Scriva pur liberamente; perchè
la storia esser dee maestra di verità.

[222] DON LOUIS DE REQUESENS, _Carta a D. Juan de Austria_, Roma, 15 de
dicembre 1571, pubblicata dal ROSELL cit., p. 233.

[223] ROSELL, p. 150: «_Culpa fuè de nuestra Corte, o per mejor decir
del rey Felipe II._» E p. 56: «_Harto imparciales nos mostramos
en causa propria; pues pudendo culpar a los extraños, nos hacemos
responsables de todos aquellos yerros._» — Bravo! —

Vedi sopra le mie proteste, p. 35, e 223.

[224] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al cardinale Spinosa (originale).
ARCH. COL., _Armata navale_, carte sciolte, nº 85:

«_La victoria que Dios ha dado a la Christianidad y a Su Majestad creo
que habrà obrado que Su Majestad vea que el año pasado no fue yo loco
del todo: pues teniamos quarenta vaxeles de ventaja al enemigo, y ahora
se ha ganado a la par. Tambien creo que la conclusion de la Liga no
aportò daño a la Xndad ni al servicio de Su Majestad. Assi mismo el
parecer, que yo este año en todas las occasiones he dado al Señor don
Juan; el qual con mucha prudentia i valor ha guiado este negocio. V. S.
Illustrissima crea que si Su Altezza siguiera la opinion de algunos se
volviera con poca honra.[225] Loada sea la bondad de Dios para siempre.
Supplico a V. S. Ill[=m]a se acuerde de la protecion que de mi tomò y
ha tenido, pues yo no dexo de hacer lo que devo. Y con este le beso las
manos. Dios nuestro Señor guarde i prospere su Ill[=m]a persona._

  _De Petalà, 9 de octubre 1571._

_Su major i mas aficionado servidor de V. S. Ill[=m]a que B. S. M._

                                                       M. A. COLONNA.

[225] Queste poche parole son pregne di senso, e mostrano a che
tendevano i consiglieri di Sua Altezza.

[226] GRATIANUS cit., p. 221 et 223.

LADERCHIUS cit., p. 503 e 512.

PARUTA cit., p. 256.

ADRIANI cit., p. 885.

SERENO cit., p. 207.

CARACCIOLO cit., p. 38.

ARCH. CAETANI cit. in più relazioni. Vedi sopra, note 88, 91, 92, 99 e
101.

ROSELL cit., p. 120: «_Colona se distinguiò entre los demas por su
firmeza i serenidad._» E p. 107: «_Colona resistiò con fortaleza digna
de sus antepasados._»

[227] MARCANTONIO COLONNA al Cardinal di Sermoneta, lettera scritta
dal porto di Dragomestre, 11 ottobre 1571. ARCH. CAETANI cit. Di questa
lettera ne produco solamente un brano per non togliere nulla di pregio
alla pubblicazione che intende a fare il diligentissimo signor Giovan
Battista Carinci, archivista meritissimo di casa Caetani. Si noti che
quel _giuntamente conquistata_ è spagnolismo d’uso in quel secolo, per
significare, insieme, a un tempo, da ambedue conquistata.

[228] MONALDO MONALDESCHI, _Commentarj storici e cose notabili di
Orvieto_, in-4. Venezia, 1584, lib. XIX.

[229] THUANUS AUGUSTINUS, _Historiarum sui temporis_, in-fol. Londra,
1733, t. III, lib. L, nº 4, p. 48, lin. 32.

ADRIANI cit., p. 886, in fine.

MARCHESI, _Galleria dell’onore_ cit.

RITRATTO d’una lettera scritta all’ambasciador cesareo dell’armata.
Foglietto volante di quel tempo, stampato in Roma. BIBL. CASANAT.,
Miscell. in-4. vol. 776, nº 26.

ARCH. CAETANI cit., Lettera del 9 ottobre.

[230] SUCCESSO dell’Armata cit. alla nota 109, p. 3, lin. 45.

BIBL. CASANAT., Miscell. in-fol., vol. 157, nº 16.

[231] ARCH. CAETANI cit., Lettera del signor Onorato Caetani al
Cardinal di Sermoneta del 9 ottobre.

RITRATTO di una lettera scritta all’ambasciador cesareo dall’armata,
in-4. Roma, 1571, e p. 3 in med.

BIBL. CASANAT., Miscell. in-4. vol. 776, nº 12.

SERENO, p. 227 in principio.

[232] NICOLÒ DOGLIONI, _Historia Venetiana_, in-4. Venetia, 1598, p.
869.

BARTOLOMEO DIONIGI, _Storie del mondo_, continuazione del TARCAGNOTA,
in-4. Venetia, 1598, t. V, p. 408.

[233] ADRIANI cit., p. 885, C.

THUANO cit., p. 48, in med.

SERENO cit., p. 197, 200, 204.

ARCH. CAETANI cit., lett. del 9 ottob.

RITRATTO cit., p. 3.

SUCCESSO cit., p. 3.

COLECCION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p. 218, _Relacion de la batalla
de Lepanto_: «_La Grifona del Papa imbistiò con Caracosa; y aunque
tenia una galeota de soccorro fue entrada i Caracosa muerto.»_

ARCHIVIO CENTRALE di Stato in Firenze, carte Strozziane, Codice 1027,
Lettera di Fortunato Scipione Corbinelli a suo fratello, da Porto
Candela alli 10 ottobre 1571. Conferma il fatto che Caracossa fu vinto
dalla nostra Grifona.

Appresso nota 130 e 134.

ROSELL, p. III. Si noti che il capitan Cortesi era romano, e stava
sulla Grifona. Non già spagnuolo, nè di nome Cortès.

[234] SERENO cit., p. 103 in fine.

[235] GIOFFREDO, _Storia delle Alpi marittime_, ext. int. MON. HIST.
PATRIÆ, in-fol. Torino, 1839. Script., t. II, p. 1552.

ADRIANI cit., p. 892.

SERENO cit., p. 204.

ARCH. CAETANI, Lettera del 9 ottobre cit.

[236] SERENO, p. 204.

[237] ARCH. CAETANI, Lettera citata del 9 ottobre, e la seguente.

[238] ARCH. COL., Minuta originale di Marcantonio Colonna che scrive a
Papa Pio V l’istesso giorno della vittoria. Carte sciolte, nº 85. — V.
sopra, p. 152.

[239] ROSELL, cit., p. 111: «_No havia hombre que se preciasse de
gastar moneda de plata, si no cequines; ni curase de regalear en nada
que comprase_.»

TORRES Y AGUILERA, _Chronic_., in-fol., p. 19.

PRESCOTT cit., t. III, p. 390.

[240] VITALE CASOLO al Cardinale di Sermoneta, dal porto di Santa
Maura, 8 ottobre 1571, autografo nell’ARCH. CAETANI.

Vedi appresso, p. 261, nota 151.

[241] UGHELLI, _Ital. Sacra_, t. I, p. 1151.

SERENO cit., p 155.

Vedi sopra, nota 61, e 64.

[242] AUGUSTINUS OLDOINUS, _Athenæum Ligusticum_, in-4. Perugia, 1680,
p. 157. Quivi si dice che le sue lettere d’affari stavano in un codice
del card. Bernardino Spada. Indarno da me ricercate.

UGHELLI, t. IV, p. 743, vescovo di Savona, di Cavaglione, e vice-Legato
di Avignone.

SERENO cit., p. 209.

SAMMARTANI, _Gallia sacra_ etc.

[243] ZACHARIAS BOVERIUS, _Ann. Cappuccinorum_, in-fol. Lione, 1632, t.
I, p. 714.

IL GENERALE DE’ CAPPUCCINI, Lettera originale a M. A. Colonna, con che
gli raccomanda i suoi frati messi per ordine di S. Pio all’Armata. ARCH
COL., carte sciolte, nº 110. — Copia presso di me.

[244] SERENO, 213.

[245] BOVERIO, 714.

[246] BOLLANDISTI, _Acta Sanctorum_, die 5 maij, _Vita beati Pii Papæ
quinti_, cap. IV, § 291, p. 688, edizione di Anversa.

CATENA, _Vita del beato Pio V_, in-4. Roma, 1586, p. 195.

CARACCIOLO cit., p. 54.

[247] ARCH. COL., Lettera di M. A. al doge di Venezia, t. III, p. 4:
«_Nel 1571 che fu il secondo anno della guerra, credo che non solo io
concorsi al combattere, ma che per me non si mancò di seguitare la
vittoria: et questo è certo, e lo sanno ancor quelli che v’erano_.»
Item, t. II, p. 430.

FABIO MUTINELLI, _Storia Arcana_ ec., in-8. Venezia, 1855, t. I, p
103, Dispaccio dei 26 novembre 1571: «_Marcantonio Colonna confessò
all’ambasciador Soranzo che le cose erano ridotte dopo la vittoria
in tanto disordine et rovina, che di certo era impossibile far cosa
alcuna: perchè non v’era più obbedientia, nè si faceva più giustizia, e
tutto andava male_.»

[248] ROSELL cit., p. 118, CONTARINI, p. 55.

ARCH. COL., _Armata Navale_, carte sciolte, nº 89.

ARCH. SECRET. VAT., Codice segnato _De fœdere et speditione Classis Pii
V contra Turcas_, p. 67. — Quivi è la seguente:

  =NOTA=
  DEI MORTI E FERITI NELLA BATTAGLIA.

                              | =MORTI=. | =FERITI=.
                              +----------+-----------
  Sull’armata di Sua Santità  |    800   |   1000
  Di sua Maestà               |   2000   |   2200
  De’ Veneziani.              |          |
      Capitano di Fanò        |      1   |     —
      Governatori di Galee    |     17   |     20
      Nobili di poppa         |      8   |      5
      Padroni                 |      5   |     20
      Cappellani              |      5   |      3
      Comiti                  |      6   |     20
      Scrivani                |      6   |      4
      Piloti                  |      7   |     10
      Bombardieri             |    113   |     79
      Maestranze              |     32   |     38
      Compagni d’Arboro       |    124   |    118
      Scapoli                 |    925   |    681
      Remieri                 |   2274   |   2499
      Soldati                 |   1333   |   1087
                              +----------+-----------
               TOTALE         |   7656   |   7784

[249] SERENO cit., p. 219.

PRESCOTT, III, 307.

ROSELL, Append., nº 15, _Carta del Rey a su hermano_.

[250] CARACCIOLO, p. 47.

[251] CARACCIOLO cit., p. 51.

ARCH. CAETANI cit., Lettera del signor Onorato al Cardinale, da Corfù
25 ottobre 1571.

[252] SERENO cit., p. 221.

CARACCIOLO cit., p. 51.

CATENA cit., p. 200.

CONTARINI cit., p. 55 b.

ARCH. CAETANI cit., lett. 25 ottobre.

ARCH. COL. cit., t. II, 227-248.

COLECCION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p.

ARCH. COL., t. III, da p. 40 a p. 73. Nomi, cognomi e patria di tutti i
Turchi presi prigioni dalle galere di M. A.

[253] Dai citati autori e documenti, massime dalla nota 88, 90 e 145,
si può formare il seguente:

  SPECCHIO DELLA DIVISIONE TRA GLI ALLEATI DOPO LA VITTORIA.

                   _Armata nemica._

                 Prima della battaglia.
                 ---------+----------
                  GALERE. | GALEOTTE.
                 ---------+----------
                     222  |   60

                  Dopo la battaglia.

  Fuggite         |   25  |   20  |
  Arse o sommerse |   80  |   27  |
                  +-------+-------|
  Totale perdute  |  105  |   47  |
                  +-------+-------|
  Totale prese    |  117  |   13  |            Da dividersi.
                  +-------+-------|
                                  | GALERE.
                                  |     | GALEOTTE.
                                  |     |    | CANNONI.
                                  |     |    |     | PETRIERI.
                                  |     |    |     |    | SAGRI.
                                  |     |    |     |    |     | PRIGIONI.
                                  +-----+----+-----+----+-----+----------
  Al Papa, un sesto               |  19 |  2 |  19 |  3 |  42 | 1200
  Ai Veneziani, due               |  38 |  4 |  38 |  6 |  84 | 2400
  Al Re, tre                      |  57 |  6 |  57 |  9 | 126 | 3600
  A don Giovanni                  |   3 |  1 |   2 |  — |  —  |  —
                                  +-----+----+-----+----+-----+----------
                                  | 117 | 13 | 116 | 18 | 252 | 7200

[254] CARACCIOLO cit., p. 48.

SERENO cit., p. 220.

[255] Vedi sopra, p. 87, e 184.

[256] SERENO cit., p. 223.

ROSELL, cit., p. 99.

[257] CARACCIOLO cit., p. 48.

ADRIANI cit., p. 892 E.

POMPEO LITTA, _Famiglie celebri d’Italia_, Casa Colonna, Pompeo, tav.
XIII.

[258] SERENO cit., p. 227. Vedi appresso a p. 302.

Vedi sopra la lettera di Vitale Casolo, e i bottini degli altri soldati
alla nota 133.

[259] ARCH. CAETANI cit., Lettera del signor Onorato al Magnifico
Gian Francesco Peranda, da Corfù 26 ottobre 1571. Il Caetano sin di là
scriveva a Roma per avere almeno un paio di quelle galere, e di cuore
si raccomandava al Peranda che le chiedesse per lui.

[260] SERENO cit., p. 208 e 211.

[261] AVVISI DI ROMA, codice Urbinate alla Vaticana nº 1043, data del
23 febbraio, 5 e 15 marzo 1572.

ARCH. COL. cit., t. III, p. 4, Lettera di Marcantonio al Doge di
Venezia, ove parla di due galere che Pio V aveva sue proprie per
l’armata del 1572.

CARACCIOLO cit., p. 60, lin. 6, ne fa pur menzione.

[262] PII PAPÆ V, _Præceptum de notificandis et non relaxandis
captivis: sub die 22 decembris 1571_. BIBL. CASANAT., _Collezione di
Bolle, Editti_ ec.

[263] AUGUSTINUS THEINER, _Ann. Eccl. continuat._, in-fol. Roma, 1856,
t. I, p. 462. Quivi è tra i documenti la nota dei nomi, età, patria e
segni di ciascun dei quaranta.

[264] ARCH. COL., _Armata navale_, carte sciolte, nº 120. Lettera
di San Francesco Borgia a M. A. Colonna, data da Lisbona 10 decembre
1571. Firma autografa e sigillo del santo. Grazie al signor Simeoni,
archivista di Colonna.

[265] CANCELLIERI dei possessi de’ Romani Pontefici. Roma, in-4. 1802,
p. 119, e molti altri cronisti ricordano la singolare e maravigliosa
invernata che fu quella del 1571 quando oltre all’essere l’aria
temperatissima, si videro con stupore di tutti fiorire gli alberi nel
decembre.

[266] Sull’arco della porta:

«_M. Antonio. Columnae. Pontificiae. Classis. Præfecto. De.
Apostolica. Sede. Sociorumque. Salute. Ac. Populi. Romani. Dignitate.
Optime. Merito. S. P. Q. R._»

[267] FRANCESCO ALBERTONIO, L’entrata che fece l’Eccellentissimo Signor
Marc’Antonio Colonna in Roma alli 4 di decembre 1571, dove minutamente
si narra il viaggio, il numero delle genti, l’ordine, e le livree, et
altre cose simili che v’intervennero. Con l’avviso della solennità che
fu poi fatta in Santa Maria d’Aracœli il giorno di Santa Lucia, in-4.
Viterbo, senza data, ma certamente di quel tempo. BIBL. CASANATENSE,
Miscell. in-4. vol. 776, nº 14.

Item, la stessa Relazione con alcune varianti, e la giunta di
SEBASTIANO TORELLO, pubblicata dal tanto notissimo FRANCESCO
CANCELLIERI. _Storia dei solenni possessi dei Romani Pontefici_, in-4.
Roma, 1802, p 112.

Dopo di ciò, il 1837 nell’ALBUM, giornale letterario e di belle arti.
Roma, in-fol. 1837, anno III, vol. III, 14 gennaio 1857, p. 357, è
stata riprodotta, tal quale è nel CANCELLIERI, con la giunta di una
sola noterella che dice: «_Per la prima volta pubblicata_.»

[268] Un quadro in casa Colonna rappresenta al vivo, in sette
scompartimenti o gironi, tutto l’ordine, le persone, le vestimenta e
i luoghi del passaggio trionfale, dalla porta al Campidoglio. Pompeo
Litta, scrivendo di casa Colonna tra le famiglie celebri d’Italia, ne
ha pubblicata fedelissima copia, di che mi sono anche giovato nella mia
descrizione.

[269] Sull’arco di Druso:

«_Exultans . In . Domino . Clarissimum . Civem . Suum . Victorem .
Amplectitur . Roma._»

[270] Sull’arco di Costantino:

«_Cogita . Aditum . Iam . Patefieri . Ad . Costantini . Urbem . Juvante
. Deo . Recuperandam._»

[271] Sull’arco stesso a diritta:

«_Primus . Romanorum . Imperatorum . Costantinus . Crucis . Vexillo .
Usus . Cum . Acerrimis . Christiani . Nominis . Hostibus . Felicissime
. Certavit._»

[272] Ivi, a sinistra:

«_Primus . Romanorum . Pontificum . Pius . V . Cum . Rege . Catholico
. Et . Republica . Veneta . Societate . Inita . Eodem . Salutari .
Signo . Fultus . Victoriam . Contra . Maximam . Turcharum . Classem .
Consequutus . Est . Lætissimam_.»

[273] Sull’arco di Tito:

«_Lætare . Ierusalem . Quam . Olim . Titus . Vespasianus . Captivam .
Duxit . Pius . V . Liberare . Contendit._»

[274] Sulla fronte dell’arco di Settimio Severo:

«_Stat . Etiam . Nunc . Vetus . Parthicæ . Victoriæ . S. P. Q. R.
Monumentum . Ut . Novos . De . Parthis . Triumphos . Deo . Approbante .
Excipiat_.»

[275] Ivi, a diritta:

«_Prisci . Illi . Duces . Romanum . Imperium . Parthorum . Armis .
Vastatum . Fortiter . Pugnando . In Suam . Pristinam . Dignitatem .
Restituerant_.»

[276] Ivi a sinistra:

«_Nostri . Insigni . Atque . Inusitato . Prorsus . Navali . Prælio .
Parta . Victoria . Turcarum . Furorem . A . Christianorum . Cervicibus
. Repulerunt_.»

[277] Sulla porta maggiore del palazzo Senatorio in Campidoglio:

«_Adhuc . Viget . Virtus . Flagrat . Amor . Pollet . Pietas . — Romanus
. Adhuc . Viget . Amor . Romana . Virtus . Emicat._»

[278] Sulla porta maggiore della Chiesa Senatoria:

«_Quas . Olim . Gentiles . Ductores . Idolis . Pro . Re . Bene . Gesta
. In . Capitolio . Stulte . Agebant . Eas . Nunc . Ad . Cœli . Aram .
Christianus . Victor . Ascendens . Vero . Deo . Christo . Redemptori .
Ejusque . Gloriosissimæ . Matri . Pro . Gloriosa . Victoria . Religiose
. Et . Pie . Agit . Habetque . Gratias._»

[279] MARCI ANTONII MURETI, _Oratio in reditu ad Urbem Marci Antonii
Columnæ post Turcas navali prœlio victos habita. Idibus decembris, anno
MDLXXI_. — Pubblicata da PAOLO A. MAFFEI, _Vita di San Pio V_, in-4.
Roma, 1712, p. 360.

[280] Sulla base della colonna rostrata:

«_Christo . Victori . M . Antonius . Ascanii . F. Pontificiæ .
Classis . Praefectus . Post . Insignem . Contra . Turcas . Victoriam .
Beneficii . Testandi . Causa._»

[281] Oltre ai dipinti del Tintoretto e del Zuccari, oltre alle
orazioni di Silvio Antoniano e di Marco A. Mureto, oltre al gran
numero di tutti quelli storici che ho già addietro citati, può vedersi
la raccolta di cento poeti di cui si ha il nome, e quasi altrettanti
anonimi stampati da Pier Gherardi, e da lui dedicati al card. Sirleto
con questo titolo: «_In fœdus et victoriam contra Turcas juxta sinum
Corinthiacum, nonis octobris partam, Poemata varia_,» in-12. Venezia,
1572, Bibl. Casanat. YY, XII, 33.

AL. CHRYS. FERRUCCII, Enchiridion Hist. Pontif. Lugo, in-8. 1855, p. 75.

[282] CÆSAR BARONIUS, _Martyrologium romanum cum notationibus._ Ad
diem 7 octobris: «_Fidelium Classis victoriam reportavit, fractosque
nostrorum animos in spem erexit: posse inimicos nostros nullo negotio
profligari (modo in unum Christianorum animi viresque conveniant)_»

Con questa parentesi: alla notarella del Martirologio il cardinal
Cesare toccò il centro della piaga; che gli inimici si potevano
vincere, ma gli animi dei collegati non si potevano unire, come il
fatto comprovò.

PAOLO A. MAFFEI, _Vita di S. Pio_, in-4. Roma, 1712, p. 334.

[283] BONANNI cit., t. I, p. 297.

VENUTI cit., p 125.

[284] Si raffronti l’incisione di questa medaglia pubblicata dal
Bonanni, come alla nota precedente, e facile ad aversi in qualsivoglia
Biblioteca, per comprendere le annotazioni che ho fatto alla medesima.

[285] Ecco le epigrafi delle medaglie:

«_Pius V Pont. Max. — Dextera. Domini. fecit. virtutem._» (Psalm. 117,
v. 16)

«_Pius V Pont. Opt. Max. Ann. VI. — Dextera. tua. Domine. percussit.
inimicum._» (Exod, XV, v. 6.)

«_Pius V Pontifex Maximus Ann. VI — A. Domino. factum. est. istud._»
(Psalm. 117, v. 23.)

[286] Vedi sopra la nota 184.

[287] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al cardinal di Como, da Corfù 1
settembre 1572, ext. ap. THEINER cit., t. I, p. 481.

Vedi i seguenti successi, e più la nota 45 del Lib. III.

[288] DON JUAN DE ZUÑIGA, Embajador del Rey en Roma, _Carta a D. Juan
de Austria, 29 de noviembre 1571_, Ap. ROSELL cit., p. 215.

[289] SERENO cit., p. 229: «_Ma come negli onori supremi rare volte
s’avverta che dall’atroce veneno dell’invidia non vengano contaminati;
con le lingue viperine della sua sferza fece ella asprissimamente
alcuni Spagnuoli mormorare: con dire che ad altri, che a don Giovanni,
il quale della Lega era principal generale, il trionfo non si doveva.
Onde quantunque desiderasse il Papa ogni onore ed ogni grandezza di
Marcantonio.... nondimeno moderò la pompa._»

CARACCIOLO cit., p. 54: «_Ma il Pontefice sotto colore di moderar la
spesa, moderò il trionfo per non isdegnare il Re e don Giovanni._»

MOTLEY JOH LOTHROP, _The Rise of the Dutch Republic_, in-8. New-York,
1857, t. III, p. 141: «_Had don John of Austria remained at Naples, the
issue of the battle of Lepanto might have easily been the same._»

[290] ANTONIUS M. GRATIANUS, Episcopus Amerinus, _De bello Cyprio_,
in-4. Roma, 1624, p. 231: «_Hispani derisi rejectique a Pio....
eo descenderunt invidis animis ut prohiberent ne quis hispanus
hispanorumque stipendiis obligatus. Columnæ aut occurreret venienti,
aut omnino spectatum prodiret ingressum ejus in Urbem._»

CAYETANO ROSELL, _Combate naval de Lepanto_, in-8. Madrid, 1853, p.
207. _Carta original del commendator mayor (Don Luigi de Requesens)
a d. Juan de Austria_, Roma, 14 diciembre 1571. «_Lleguè aqui a
los cinco de este, habiendo publicado que no llegaria hasta el dia
despues: por escusar un muy solemne y extraordinario recibimiento que
me tenian aparejado Paulo Jordan (Orsini) i todos los barones romanos
que no se quisieron hallar en el triunfo_.» Ecco come si manipolavano
le nostre discordie. E l’istesso scrive in altra lettera a p. 223:
«_El triunfador anda muy melancolico despues que llegò este corrèo
d’España: perque no tiene otra carta de allà, si no de su sulicidador;
teniendolas Paulo Jordan y otros del Rey, dandoles gracias per lo que
han servido. Dice que quiere dexar el cargo:... no sè que el lo haya
dicho al Papa, però halo dicho a algunos amigos suyos, que no lo son
tanto que le guarden secreto_.»

[291] LEOPOLD RANKC, _The ottoman and Spanish empire in the sixtheenth
and seventinth centuries_, in-4. Londra, 1843, p. 44: «_Victory so
glorious complete and dicisive, as had never before been achieved by
Christendom_.»

JOHN LOTHROP MOTLEY, _Rise of the Dutch Republic_, in-8. New-York,
1857, t. III, p. 141: «_The meagre result of the contest (of the battle
of Lepanto) is as notorious as the victory_.»

[292] GRAZIANI cit., p. 240.

SERENO cit., p. 218 e 270.

[293] GRAZIANO cit., p. 243: «_Inter Venetos hispanosque cum palam
amicitia societasque esset, secreto acrioribus quam cum hoste odiis
certabatur; irritaveratque iras ipsa victoria_.»

[294] GRAZIANO cit., p. 274: «_Monuisse secreto dicitur, ut rebus
suis veneti alia via consulerent, nec sibi præsidii aut spei quidquam
ponerent in Hispanis; quibus non victore sed attrito confectoque
turcicis armis Veneto opus esset_.»

Item, p. 245: «_Hispani veteri suo insistere consilio, et sustineri
Turcas satis habentes, atteri et debilitari rem venetam præoptabant._»

COLECCION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p. 63, _Carta de D. Garcia de
Toledo a don Juan de Austria_. Pisa, 23 decembre 1571: «_Quanto a lo
que V. A. me manda que yo avise al Comendador mayor i al embajador D.
Juan de Zuñiga mi parecer cerca lo que se ha de tratar en Roma, digo
en substancia que yo tenia por cierto, como arriba digo, que con tan
gran victoria. S. M. haria facilmente nuevos disignios, i daria nuevas
ordenes; y que hasta saber la voluntad de S. M. se fuere alargando lo
mas possible la platica en Roma_.»

ROSELL cit., p. 217, _Carta del Comendator major i de don Juan de
Zuñiga a su Majestad: «Respondimosle por los mismos terminos, que
aunque nos otros teniamos el poder y orden de concluir sin esperar otra
consulta.... deseavamos tener carta de Vuestra Majestad antes de la
ultima conclusion...._»

ARCH. COL., t. II, p. 169, Lettera di M. A. a san Pio V: «_Non si può
sapere quello che il commendator maggiore può trattare con la Santità
Vostra, et così non si può dir precisamente quello che convenisse
per l’universal servigio. Tanto più che questa vittoria di necessità
bisogna che abbia mutato l’animo di Sua Maestà.... et non sarà difficil
cosa che il commendatore si vada intertenendo al venir qua per aver
altri ordini per questa novità detta di sopra_.»

[295] SERENO, 253 e 255.

[296] Vedi sopra, p. 264, nota 157.

[297] COLECCION DE DOCUMENTOS por la Historia de España, in-8. Madrid,
1845, t. III, p. 49 a 58. Quivi sono undici capi di difficoltà che la
parte spagnuola doveva proporre contro i Veneziani al congresso di Roma
nel 1572.

Si vegga similmente la nota 4.

GRAZIANO cit., p. 244: «_Veneti igitur regiique legati disceptabant,
nulla de re conventuri nisi apud utrosque interposita Pii auctoritas
voluisset_.»

Item, p. 249: «_Cum hæ contentiones ipsos sexaginta dies tenuissent,
et neutri sua sententia moverentur res ad Pium delata est, atque ex
auctoritate ejus ita conventum_.»

Item, p. 250: «_Multis auctoritate, et diligentia Pontificis victis
atque oppressis difficultatibus, redierant hominibus spes gerendi
prospere belli in barbaros._»

ADRIANI cit., p. 901.

[298] DON JUAN DE AUSTRIA, _Despacho enviado a Felipe II en la_
COLECCION DE DOCUMENTOS cit., t. III, p. 42. Quivi don Giovanni
istesso dimostra che si farebbe contro la capitolazione della Lega a
lasciar da parte la spedizione generale contro il Turco per rivolgersi
in Barberia: «_Aunque convenga lo que todos sabemos, veo una gran
difficultad; porque el Papa i Venecianos no han da venir en ello. Y
a la verdad parece que no seria observar la capitulacion de la Liga
cuando venecianos fuessen invadidos en sus estados, como se ha de tener
por sin duda que lo ha de ser el año que viene. — Demas que, habiendo
perdido ellos a Chipre tan poco tiempo ha, tambien podrian tratar de
recobrarla, a lo cual añadiran lo que todos dicen comunemente que si el
año que viene se goza de la occasion, por hallarse el Turco desarmado
por mar, se le podrà hacer gran daño, lo que no serà si se le dà
tiempo que se arme. Y a si cuanto a mi tengo par sin duda que el Papa
i venecianos se han de ofender mucho en solo que se trate de otra cosa
que de la expedicion general_.» Fino giudizio.

[299] ARCH. SECR. VATIC., _De fœdere et speditione classis Pii Papæ V
contra Turcas_, p. 62, Cod. segnato M., 172.

ARCH. COL., t. II, p. 36.

PRESCOTT, III, 309.

DOCUMENTOS INEDITOS, III, 300, Lettera del duca d’Alba contro la
deliberazione di continuar la guerra in Levante, ridendosi di Pio V, e
di qualche altro: «_Que no pueden entender estas cosas._»

[300] DON JUAN DE ZUÑIGA a don Juan de Austria. Roma, 13 febraro 1572.
App. Rosell, p. 241: «_Se firmaran los capitulos por la orden de S.
M. que se dè satisfacion a venecianos por deseo de que estos no se
concierten._»

[301] LADERCHI, _Ann. Ecclesiæ_, in-fol. Roma, 1737, t. III, p. 437:
«_Ad hæc illud Pio pariter molestum accidisse quod de M. A. Columna
Philippo delatum esset.... quod igitur Pontifici pro sua in Regem
charitate gratiam conciliare vel augere debebat id Columnæ invidiam
conflasse. Sed quod gloriæ esse par erat, id vitio verti minime
oportere. Denique non ut Pii gratia Columnæ prodesset, sed ne obesset
Regem rogari_.»

GRAZIANI cit., p. 269: «_Columna quia particeps victoriæ fuerat, quia
redeunti domum honor ei a Pontifice habitus sit, prope eius rei invidia
apud Regem, criminantibus hispanis, deflagrasse_.»

[302] RATTI, _Della famiglia Cesarini, Sforza, Conti_ ec., in-4. Roma,
1794.

GENTILE SASSATELLI, _Al Card. di Como informazione e soldati_. ARCH.
SECRET. VATIC., _Armata del 1572_, Cod. 3439, p. 333.

[303] SERENO cit., p. 264. Forse per ciò che si è detto a p. 260.

[304] ARCH. COL. cit., t. I, p. 202.

[305] ARCH. COL. cit., t. I, p. 201 a 212, e t. IV, p. 118. Rassegna
fatta dal Commissario.

[306] ARCH. COL. cit., t. IV, Rassegna del 10 luglio 1572, p. 115.

[307] CONTARINI, cit. — V. sopra p. 79, 158, 195.

[308] Il corpo del santo Pontefice dalla basilica Vaticana, ove era
stato umilmente deposto nella cappella di Sant’Andrea, fu poi da
Sisto V trasportato a santa Maria Maggiore; e degnamente riposto in
un bel monumento ricco di marmi e di scolture. I fedeli concorrono
a venerarlo nell’annuale ricorrenza della sua festa alli cinque di
maggio. Sulla fronte del monumento sono tre bassi rilievi: la creazione
del Pontefice, il concistoro per il generalato di Marcantonio, e
l’ordinanza delle armate alla battaglia di Lepanto.

[309] MAFFEI cit., p. 399.

CATENA cit., p. 217.

GABUSSI, _Vita di san Pio_, in-fol. Roma, 1605, p. 191.

[310] GABUSSI cit., p. 192.

SERENO cit., p. 267.

[311] Vedi sopra, Lib. II, c. 6. p. 154.

[312] È cosa notissima, e di più risulta da due lettere di esso Cosimo
pubblicate dal padre THEINER cit., t. I, p. 356 e 357, nelle quali
ardisce tentar Gregorio XIII a lasciar la guerra di Grecia e rivoltar
le forze della lega in Africa, contro quel che aveva deliberato san
Pio.

[313] THEINER, _Ann. Eccles_., in-fol. Roma, 1856, t. I, p. 457.

_Epistola S. R. E. Cardinalium Magno Etruriæ Duci sub die VI maij 1572_.

[314] Si noti che l’imprese dell’Africa proposte dagli Spagnoli vengono
da tutti i cardinali chiamate di poco conto.

[315] THEINER cit., t. I, p. 460, _Epistola S. R. E. Cardinalium
Castellano Civitatis Veteris sub die IX maij 1572_.

[316] THEINER cit., t. I, p. 461, _Epistola S. R. E. Cardinalium
Castellano Civitatis Veteris sub die X maij 1572_.

Si noti che gli schiavi tenuti dal Castellano di Civitavecchia, di
che qui si parla, erano quei Turchi prigionieri che Marcantonio aveva
condotti da Lepanto. Le Mojane, dal francese _Moyenne_, erano cannoni
di mezzano calibro da dodici e da diciotto, usati sulle galere del
cinquecento. Le galere ponentine della Cristianità portavano più
artiglieria che le levantine dei Turchi. I nostri avevano copia di
falconetti o archibusoni da posta, alla spalliera, alla mezzanía e
alla poppa: ed oltracciò la batteria sotto le rambate sempre di cinque
pezzi. Il cannon grosso, chiamato pur cannon di corsía, da quarantotto;
due mojane da dodici, e due sagrì da sei e più libre di palle. I Turchi
non ne avevano che tre: il cannon di corsía, o petriero; e due sagrì.
Nondimeno, diceva Giannandrea, bisognava fuggire.

[317] EPISTOLA S. R. E. CARDINALIUM _Gentili Comiti Sassatelli sive
in ejus absentia Protonotario Brisegno Apostolicæ Sedis apud Magnum
Etruriæ Ducem nuntio_, ap. THEINER cit., t. I, p. 456 et 458.

[318] Conclave nella sede vacante di Pio V, nel quale fu creato Papa
il Cardinal Boncompagni detto Gregorio XIII, ap. THEINER cit., t. I, p.
444, col. I, lin. 15.

[319] EPISTOLA _S. R. E. Cardinalium, Vice-Regi Neapolis sive ejus
Locumtenenti et Nuntio Neapolis Alexandro Simonetæ et Comunitatibus
locorum per quæ milites Sedis Apostolicæ ad expeditionem sacri fœderis
destinatos a civitate Viterbii usque ad confinia regni neapolitani
transire contingerit_. THEINER cit., t. I, p. 458 e 459.

[320] CONCLAVE ut supra, p. 446, col. 1, lin. 45, — e p. 448, col. 1.

[321] GRAZIANO cit., p. 257: «_Cardinales conclavia intrarunt, et
Alexandro Farnesio magnis opibus ambiente summum honorem repulso,
Ugonem Boncompagnum pontificem appellarunt_.»

SERENO cit., p. 268.

[322] GIAMPIETRO MAFFEI, _Annali di Gregorio XIII_, in-4. Roma. 1742.

IGNATIUS BOMPLANUS, _Historia Pontificatus Gregorii XIII_, in-12. Roma,
1655.

CIACCONUS, _Vitæ Pontificum_.

[323] SERENO cit., p. 268.

[324] GRAZIANO cit., p. 270: «_Columna animo versabat: nullum esse nunc
Pium cuius auctoritate gratiaque tegeretur_.»

[325] CARACCIOLO, 60.

SERENO, 269.

GRAZIANO, 258.

ADRIANI, 907.

THUANUS, lib. LIV, nº 21, t. III, p. 200.

[326] ARCH. SECRET. VATIC., _Armata e diversi d’Italia nel 1572_, Cod.
segnato nº 3439, p. 209 e 207.

«_Paga delle fanterie Pontificie, a dì 25 giugno 1572._

              _Capitani._                  _Soldati._

                                        Malati  Buoni

  _Cencio Capizucchi_ (di Roma.)           20.   231
  _Mariotti._ (Girolamo da Fano.)          18.   142
  _Mutio Colonna_ (di Roma.)               12.   208
  _Tromba_ (Guido.)                        10.   160
  _Concetto._ (Matteucci da Fermo.)         9.   206
  _Urbino._ (Giulio Sanfrèo da.)           37.   152
  _Tuttavilla._                            13.   221
  _Sangiorgio._                            18.   178
  _Maso._                                   9.   151
  _Filippo_ (da Civitavecchia.)            10.   189
                                          ——————————
                                          156.  1838

»N. B. _Morti già venti, e infermi di malattia mortale dodici._» — Le
armate vanno soggette alla moria se oziose nei porti.

[327] CESARE CAMPANA, _Vita di Filippo II_, in-4. Vicenza, 1608, t.
III, p. 124 b.

CARACCIOLO, 66.

GRAZIANO, 258.

[328] PARUTA cit., 265.

[329] SERENO, p. 266.

PARUTA, p. 278.

[330] ROSELL cit., p. 215, Lettera di don Giovanni di Zuñiga a don
Giovanni d’Austria, da Roma 29 nov. 1571: Quivi è tutto il veleno
contro questo uomo risoluto che faceva paura alla corte di Spagna,
bisognandole uomo più arrendevole.

E p. 216: La risposta di don Giovanni d’Austria: e le proteste di non
poter vivere in compagnia del Veniero; e la minaccia di gastigarlo
senza aspettare che gliene dessero licenza, qualora venisse a far
spropositi simili a quelli dell’anno passato. Così (aizzato dai tristi)
parlava dopo la riconciliazione!!! Si raffronti con la nota 8, e con
ciò che si è detto a p. 172.

PRESCOTT, III, 299.

[331] GRAZIANO, p. 258 e 285.

SERENO, p. 270.

PARUTA, p. 289.

[332] ARCH. SECRET. VAT., _Armata e diversi d’Italia_, Cod. nº 3439,
p. 8, Lettera di M. A. Colonna al Cardinal di Como, da Napoli 26 maggio
1572.

ARCH. COL., t. I, p. 210 a 219.

[333] GRATIANUS, p. 274: «_Austrius alienatum a Columna animum non
dissimulavit_.»

Id., p. 269: «_Constat Columnam apud regem invidia, criminantibus
hispanis, deflagrasse_.»

[334] ARCH. SECRET. VATIC., _Armata e diversi d’Italia_, Cod. 3439,
p. 17, Lettera di M. A. Colonna al Card. di Como, da Napoli 28 maggio
1572: «_Sebbene si mostra da alcun dei Ministri regii stimar la
conservazione della Lega conforme alla volontà di S. Maestà, con gli
effetti poi mostrano il contrario.... Volesse Iddio che chi mette
il signor Don Giovanni in questo negozio avesse buon animo nella
conservazione della Lega, dalla quale al fine dipende la grandezza di
detto signore in particolare_.» E p. 30: «_Ho ben dispiacere che questo
signore non venga aiutato dai Ministri di Sua Maestà con altro che con
parole_.»

ARCH. COL., t. I, p. 212.

[335] ARCH. COL., t. I, p. 231. ROSELL qui appresso.

[336] ARCH. SECRET. VATIC. ut supra, p. 63 e 90, Lettere di Messina
del 16 e 17 giugno: «_Della volontà buona del signor don Giovanni io
ne sono certo ma della sua jurisdizione io non posso aver l’istessa
sicurtà.... Dio ispiri Nostro Signore al rimedio, che qui dubito non ci
è giurisdizione: sebbene credo sia bene mandare un corriero e scrivere
gagliardamente in Spagna. Il tempo è quello che mi smarrisce. Con i
ministri piaccia a Dio che giovi, et poco ajuto mi pare che questo
signore don Giovanni riceva da loro nella impresa; oltre che si crede
che questi ministri siano di parere interessato che queste forze vadino
ad altra impresa che a questa dove sono destinate e pronte. Et Dio
voglia ancora che detti loro pareri non vadino in corte_.» Figuratevi
più bella maniera per dire che venivano di là.

ROSELL, cit., p. 133, nota 13: «_La inaccion de don Juan era efecto
de los ordenes de la Corte_:» E l’istesso ROSELL a p. 154: «_Don Juan
enmudecia, en secreto se lamentaba de su situacion; no era dueño ni aun
del titulo que se le daba; su voluntad su mismo ser dependian del Rey,
a quien amaba como hijo y obedecia como vassallo._»

[337] ARCH. COL. cit., t. I, p. 233: «_D. Giovanni ci domandava in
gratia che per cinque o sei giorni non gli parlassimo della partita_.»

GRAZIANO, p 258: «_Ille nunc studium ingens eundi præseferre, nunc res
nondum paratas ad profectionem causari._»

Vedi sopra p. 299, nota 8, e p. 172.

[338] PARUTA cit., p. 282: «_Ma quale si fosse la più vera cagione è
cosa occultissima, tenendo gli Spagnoli i pensieri e disegni suoi in
modo celati che senza dimostrare che per timore dei Francesi o per
qual sia altro rispetto avessero l’animo alieno dal far unir l’armata
et imprendere le imprese di Levante affermavano continuamente il
contrario, temendo in continua speranza di passar presto a Corfù.... In
tal modo li Spagnoli non scoprendo l’intrinseco de’ suoi pensieri, ma
quando l’una quando l’altra causa di dilazione ritrovando, portavano il
tempo innanzi senta far nulla_.»

Però don Giovanni che ben sapeva come e perchè tutto questo venisse;
non per altro che per disegni e fini particolari della corte di
Spagna, ne scriveva ai 24 d’agosto di quest’anno ne’ termini seguenti
al duca di Sessa, gran confidente del re: «_Yo gracias a Dios tengo
salud: aunque mayor desgusto del que sabria encarecer en esta de haber
visto perder tan grande occasion como hemos perdido este año presente
de romper l’armada del Turco segunda vez, por designios y fines
particulares_.» ROSELL cit., p. 236.

[339] MATTHÆI, cap VIII, vº 10: «_Igitur ex fructibus eorum cognoscetis
eos_.»

[340] ARCH. COL., t. I, p. 234: «_Il signor don Giovanni, ci aveva
chiesto in grazia che per sei giorni non li dessimo molestia per conto
della partita_.»

[341] ARCH. COL., t. II, p. 118: «_Si è scritto oggi in cifra al
signor don Giovanni che si è inteso per lettera del Balio di Venezia
de’ quindici di giugno, che già il Turco aveva saputo che Sua Altezza
non veniva in Levante quest’anno coll’armata di Sua Maestà, et che
di questo pigliava occasione l’ambasciador di Francia per tornare a
trattare il negozio della pace_.»

[342] ARCH. SECRET. VATIC., _Armata_, Cod. 3439. Lettera di M. A. al
Card. di Como, da Messina 24 giugno 1572.

[343] DON GIOVANNI D’AUSTRIA, Lettera al duca di Terranova. Messina,
5 luglio 1572, ap. ROSSELL., 250: «_El Papa da voces y scrive breves
de fuego: Venecianos exclaman y dicen lastimas verdaderas, que
enternecerian las piedras._»

ARCH. COL., t. I, p. 226 a 241. Quivi è tutto il filo di questa matassa.

GRAZIANO cit., p. 259 e 260: «_Hispani literas Regis ad ipsum scriptas
Gregorium XIII proferunt.... His lectis concidere omnibus animi,
fremere homines in regem hispanosque._»

[344] GRAZIANO, p. 361: «_Gregorius XIII inique ferebat sui
pontificatus initio aperte falli fœderis leges._»

PRESCOTT, III, p. 310: «_Philip was not inclined to furnish the costly
armament to which he was pledged as his contingent._»

[345] GRAZIANO, p. 241, 261: «_Philippus diligentiam pollicitus,
rem omisit.... Erat in summa invidia apud omnes non Italiæ modo
sed reliquarum quoque gentium populos Philippi Hispanorumque nomen,
quod nullo fidei pudore contra fœderum pacta non tam Venetos quam
publicam christianæ reipublicæ causam, tempore tam indigno, deseruisse
viderentur._»

PARUTA, p. 294: «_Dicevano avere il re di Spagna in questa Lega avuto
innanzi i suoi propri interessi._»

[346] GRAZIANO, 260: «_Veneti cuncta querelis miscebant non juvare sed
prodere hostibus rem christianam esse clamitantes. Confictos Gallicos
metus; ut, dato Turcis spatio, victoriæ navalis fructum Veneti nullum
perciperent_.»

THUANO cit., lib. LIV, nº 2t, p. 201: «_Hispanorum id consilium esse
ut Venetos insanis et inutilibus sumptibus absumant; eorumque ditionem
bello attritam inde Turcis exponant hinc propriæ ambitioni_.»

LONGO cit., p. 36: «_Pareva agli Spagnoli che s’avesse fatto troppo
male al Turco con la rotta della sua armata, e troppo servigio alla
republica_.»

LEOPOLD RANKE, _Ottoman ad Spanish empire_, London in-4. 1843, p. 45:
«_Don John of Austria was forced to admit the conviction that there
was no hope of a well concerted erterprise on the part of Spain alone
against the Turcks, nor yet of a League. It has always been a prominent
tendency of European policy to preserve the Turks_.»

[347] GRAZIANO, 260: «_Idem testabantur Galli qui Romæ erant, Legatus
regis et cardinalis Lotharingius; hinc calumniam hispanorum acerrimis
confutare dictis, hinc eos egregios artifices occulendæ in aliena culpa
fraudis qua Venetos circumvenire studerent_.»

[348] MARCANTONIO COLONNA al Cardinal di Como, di Messina 20 giugno
1572, ap. THEINER, t. I, p. 466.

[349] PARUTA, p. 282: «_Nè mancavano di quelli che dicessero essere dai
grandi di Spagna invidiata la gloria di don Giovanni, e però aver posto
questi davanti al re la troppa grandezza di lui come cosa di travaglio
e pericolo_.»

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 529: «_Que era que movia a Phelipe II a
obrar d’esta manera?... Eran solo las difficultades de Francia?....
O eran tambien timores de su hermano?... Para nosotros es cierto
que Philipe no queria permitir que su hermano don Juan remontase mas
arriba.... Receloso del dictado de Alteza que daban a su hermano es
evidente que hacia lo posible porque no llegara a decorarse con el de
Majestad_.»

ROSELL cit., p. 134 e 135.

[350] GRAZIANO, 260: «_Fuere qui non metum a Gallis, sed tentationem
eam patientiæ Pontificis fuisse crederent: ausuro majora Philippo si
his non succensuisset_.»

PARUTA cit., p. 283: «_Fu questa elettione di Gregorio XIII molto
favorita dagli Spagnuoli e dal card. Granuela, perchè stimavanlo uomo
di così moderati pensieri da riuscir principe quale tornava comodo al
Re cattolico_.»

[351] M. A. COLONNA al Card. di Como, da Messina 20 giugno 1572, ap.
THEINER, t. I, p. 466, col. 1, lin. 36, col. 2, lin. 6.

[352] M. A. COLONNA al Cardinal di Como, Messina 6 luglio 1572, ap.
THEINER, t. I, p. 471.

[353] PAOLO ODESCALCHI al Cardinal di Como, da Messina 24 giugno 1572,
ap. THEINER, t. I, p. 467.

ROSSELL., Lettera di don Giovanni ai vicerè di Napoli e di Sicilia, p.
229 e 230.

[354] SERENO cit., p. 253.

[355] IL NUNZIO ODESCALCHI al Card. di Como, Messina, 28 giugno 1572,
ap. THEINER, 469.

M. A. COLONNA, cifra del 6 luglio cit.

COSIMO DE’ MEDICI a Gregorio XIII da Vallombrosa, 17 luglio 1572, ap.
THEINER, 357.

[356] IL NUNZIO ODESCALCHI al Card. di Como, Messina 3 luglio 1572 nel
proscritto, ap. THEINER, 470.

[357] GRAZIANO cit., p. 261: «_Austrius viginti triremes se daturum
ait si sibi legatus regis, et Granuellanus cardinalis auctores essent:
qui consilio inter se habito statuunt nec omnem classem, ne victoriam
darent, esse mittendam; nec nullam, ne necessitatem deponendi belli
Venetis facerent_.»

[358] SERENO, 274. Vedi sopra p. 317, 318.

[359] M. A. COLONNA al Cardinal di Como, da Capo Santamaria, alli 11
luglio 1572, ap. THEINER, t. I, p. 472: «_Al mio partire da Messina
supplicai Sua Altezza a farmi gratia di darmi il suo parere in scritto,
et così me lo diede, del quale mando la copia a Vostra Signoria
Illustrissima.»_

[360] ARCH. COL., t. II, p. 116.

Confermato dal CARACCIOLO, p. 65, lin. 9.

Dal SERENO, p. 276, che dimostra l’impegno di don Giovanni nel ritirar
questa scrittura, p. 294, e che una simile scrittura con la firma di
Sua Altezza era in mano del cavalier Gil d’Andrada, il quale la donò a
M. A., p. 295.

ARCH. SECRET. VATIC., _Armata e diversi d’Italia_, Cod. 3439, p. 212:
«_Parecer de Su Alteza de lo que podria hacer la armada de la Liga el
año presente que va en Levante a cargo del señor Marco Antonio Colona:_

»_Parezer del Serenissimo S. D. Juan de Austria._

»_Lo que Parece, Al Serenissimo señor don Juan de Austria que padria
hazer el año presente la armada de la liga quê ba en Levante es lo
siguiente._

»_A un que sea cosa muy difizil y peligrosa el dar parescer en las que
estan por venir, mayormente considerando que las de la guerra de una
ora a otra se mudan por diversos azidentes, todabia se dirà aqui algo
de lo que a su Alteza le pareze, que deve hazer la armada de la liga
que lleba a cargo el señor Marcantonio Colona._

»_Es Su Alteza de parezer, quel dicho Señor Marcantonio se dè toda la
mayor priesa que fuere posible en yrse con la dicha armada a Corfù, y
juntarse con la de Venecianos que alli està. Pero esta priesa sea de
manera que no por ella se deje de hir al cabo de Santa Maria a tomar
todos los soldados de su Majestad que pudiere llevar en las galeras;
por que, como se ha visto por experienzia, el numero de la gente es el
que pelea, y de lo que sobretodo se ha de hazer mucho caso. Y a este
proposito se dize que ninguna galera llebe menos de ciento y cinquenta
soldados, ultra de la gente que trae de hordinario._

»_Desde Corfù se ha de formar la resolucion del viaje que se habrà de
hazer, con la dicha armada; segun los avisos que se tuvieren de la del
enemigo: por que los efectos que se habran de hazer han de nazer de los
dichos avisos._

»_Hazese cuenta que el dicho señor Marcantonio podra juntar por lo menos
ciento y ochenta navios gruesos de pelear, en esta manera:_

  Seis galeazas de los SS. Venetianos                   6
  Ciento y veinte galeras de los mismos               120
  Veinte y dos galeras y dos galeotas de Su
    Majestad                                           24
  Treze de Su Sanctitad                                13
  Dieziocho a diezinueve naves, que escriven que
    havia en Corfù por cuenta de los SS. Venecianos    19
                                                      ———
                                                      182

»_Esta armada es de numero y cualidad tal de Vaxeles, que no solamente
se ygualarà con la del enemigo; pero le serà superior, y asì es Su
Alteza de parezer que con ella se vayan corriendo las costas de las
tierras del turco y quemandolas y destruiendolas a dos fines: el uno
por vengança de los daños que los turcos han hecho el año presente, el
otro para provocarlos a benir a batalla, que es el fin principal que se
ha de tener: a la qual si vienen no hay duda que con la ayuda de Dios
Nuestro Señor hayan de dexar de quedar venzidos por muchas razones que
para ello se podrian dezir._

»_A dos cosas pareze que se à de tener muy grande advertenzia la prima
a no ponerse sobre plaza ninguna; pues el enemigo stando con el numero
de baxeles que tiene y pudiendo cargar por tierra con mucho numero de
soldados, podria hazer fazilmente un notable daño a nuestra armada;
la otra a no entrar muy adentro en las mares del enemigo sin buena
provision de bitualla._

»_Y siendo asi que no convenga que la armada de la liga se ponga sobre
ninguna plaza, como arriba se dize, su fin principal ha de ser comvatir
con la del enemigo siempre que se entendiere no ser muy superior a la
nuestra. En caso que se tenga aviso que, por entender que la armada de
la liga sea dividida, Luchali quiesiere benir a buscar la parte mas
debil, pareze que convenga mucho seguirla a donde quiera que fuere;
Para lo qual de ninguna cosa hay mayor necesidad que de traer hombres
de esperienzia y diligenzia con algunas galeotas o otros navios ligeros
los quales puedan de ora en ora dar aviso de los progresos que el dicho
enemigo harà, conforme a los quales se han de tomar las resoluziones._

                            _»En Mezina a_ VII _de julio de_ MDLXXII.
                                               »DON JUAN DE AUSTRIA.»

[361] DON GIOVANNI D’AUSTRIA, Lettera a Gregorio XIII, Messina, 6
luglio 1572, autografa nell’Arch. Vaticano, pubblicata dal THEINER
cit., t. I, p 472, vol. I: «_He ordenando que vayan en Levante con
el dicho Marco Antonio Colona_ XXII _galeras i dos galeotas, a cargo
del comendador Gil d’Andrada.... con las quales i con el restante de
la gente che en la dicha armada ira (mas sobre todo con las sanctas
oraciones de Vuestra Beatitud) espero en Dios Nuestro Señor que sean
de hacer el año presente nò menos buenos effectos que el que se hizo el
pasado._»

[362] LONGO cit., _Arch. Stor. Ital_., app., t. IV, p.

[363] M. A. COLONNA, Cifra al Cardinal di Como, da Messina, 6 luglio
1572: «_Sappia Sua Santità che queste galere di Malta mi hanno
scandalizzato assai, lasciandomi in tale occasione_.» Ap. THEINER cit.,
t. I, p. 471, col. 1.

Ib., altre lettere, p. 478, 479, 488.

[364] Era Calabrese, rinegato e tignoso, come ho detto altrove.
Luccialì, Luzzalì, Louchalì, Lucalì, Locchialì, Uluch-Alì, e simili,
sono tutte varianti, presso diversi scrittori, dell’istesso nome; che
non ha riscontro in lingua turchesca. Si potrebbe dire che al battesimo
si chiamava Luca, ed alla circoncisione Aly: e che i due nomi congiunti
insieme davano Luccialì, come lo scrivevano i migliori del cinquecento.
Nativo di Cutro nel golfo di Squillace, di cognome Galeni, preso dai
Turchi mentre navigava per essere allo studio di Napoli, e messo al
remo, portò in pace qualche anno la sua sventura: poi rinegata la fede,
e preso il mestiero della pirateria, diventò per ricchezza ed ingegno
principe dei corsari e bey d’Algeri. Molte pratiche si fecero dai
cristiani per riguadagnarlo, ma inutilmente.

[365] GRAZIANO cit., p. 241 e 242.

SERENO cit., p. 270 e 321.

PARUTA cit., p. 279.

[366] ARCH. SECRET. VAT., _Armata e diversi d’Italia_, Cod. 3439, p.
362. Quivi è la seguente nota:

«_Numero delle galere del Turco secondo la relazione mandata dal Signor
Jacopo Malatesta nel 1572_:

  _Bei di Rodi_                                4
  _Idem di Cipro fatte per l’armata_           6
  _In Cipro passacavalli cinque per l’armata,
    accomodati in forma di galere da
    combattere_                                5
  _Idem Agà de Giannizzari ne menò forse
    cinque_                                    5
  _Dervis Agà_                                15
  _Cauralì ne ha condotte forse_              15
  _Un altro che non so il nome_               14
  _L’uccialì ne condusse_                    117
  _Da Gallipoli_                              15
  _Da Satalia ne son venute_                   3
  _Da Escanderia_ (Alessandria)               15
  _Quattro Maone_                              4
  _Quattro d’Algeri venute con Luccialì_       4
                                             ———
                                      Somma  222.»

[367] SERENO cit., p. 179 e 180.

[368] MARCANTONIO COLONNA, _Relazione di quel che avvenne nell’armata
della Lega nel 1572 prima della venuta del Signor don Giovanni_,
scritta dall’istesso Marcantonio a richiesta di Paolo Tiepolo
ambasciator de’ Veneziani in Roma, e ripetuta al Doge: come risulta
dalla lettera quivi alligata sotto la data di Paliano, 14 giugno 1573.

ARCH. COL. cit., t. III, num. 11, da p. 5 a 13, e t. II, 430 e 480.

Item, M. A. COLONNA, Lettera al Card. di Como, dalle Gomenizze, 27
luglio 1572, ap. THEINER cit., t. 1, p. 473.

[369] LONGO cit., p. 37.

SERENO cit., p. 276.

M. A. COLONNA, _Relazione_ citata, nella quale rassegna l’armata come
era alle Gomenizze il 23 luglio 1572:

  FORZA DELL’ARMATA CONDOTTA DA M. A. NEL 1572.

                |      =MATERIALE=.         |     =PERSONALE=.
                +---------------------------+--------------------------
                | GALERE.                   | SOLDATI.
                |      | NAVI.              |        | MARINARI.
                |      |    | GALEOTTE.     |        |       | REMIERI.
                |      |    |    | CANNONI. |        |       |
                +------+----+----+----------+--------+-------+---------
  Dei Veneziani |  100 | 16 | 18 |   838    | 15,700 | 6,700 | 20,000
  Del Papa      |   13 |  2 |  — |   105    |  2,300 |   880 |  2,600
  Del Re        |   22 |  3 |  2 |   172    |  7,000 | 1,620 |  4,440
                +------+----+----+----------+--------+-------+---------
      TOTALE    | 135  | 21 | 20 | 1,115    | 25,000 | 9,200 | 27,000

[370] GRAZIANO cit., p. 263.

SERENO cit., p. 279.

PARUTA cit., p. 310.

[371] GRAZIANO cit., p. 262, Lettera di don Giovanni d’Austria a
Marcantonio Colonna.

Della medesima parla l’istesso Colonna al Card. di Como, cui dice
averne mandato copia ap. THEINER, t. I, p. 475, col. 1 in med.

Ne parlano egualmente in più luoghi la relazione citata, ed i Codici
Colonnesi.

ARCH. SECRET. VAT., _Armata e diversi d’Italia nel 1572_, Codice 3439,
p. 267: _Carta de don Juan de Austria a M. A. Colona de Palermo, 16
julio 1582_, firma autografa di don Giovanni. Eccola:

                 «_Al Señor don Marco Antonio Colona_.

  »_Ilustrissimo Señor_.

»_Haviendo el Rey mi señor entendido que se havia recobrado el lugar
de Valencianas de los reveldes, aunque todavia quedava en su poder el
de mont de Henao, y handavan haziendo los enemigos grandes daños en
Flandes, teniendose zelo que por esperiencia se ha visto al beneficio
universal de la christiandad y en particular a la observancia de la
capitulacion de la liga, me ha mandado escrivir con un correo, que
llebò la galera que despachè los dias pasados de Mecina, la qual ha
buelto hoy, de que es su servicio, gue yo vaya en Lebante a daño del
comun enemigo, posponiendo sus cosas particulares al beneficio de la
Republica Christiana. Y asì pienso partirme d’esta ciudad para Corfù
dentro de tres dias a mas tardar. Y me he holgado d’esta resolucion lo
que V. S. puede bien considerar por infinitos respectos. Aqui despacho
el que la presente lleba con una fragata en diligencia para que V. S.
tenga entendida esta nueba que ha sido para mi de tanto gusto, y la
pueda comunicar a esos señores; y tambien para que conforme a ella
procedan en lo que habràn de hazer, que yo no perderè un memento de
tiempo en mi viaje. Entre tanto juzgo que sea muy conveniente que
se divulgare a los Griegos la nueba de mi yda, para tenellos en fèe
en quanto llego; y que no se emprenda cosa que pueda haver peligro,
por conservar la reputacion; sino que atendiendo preparar todo lo
necessario, se estè con miramiento para estorvar el daño que el armada
del Turco puede hazer en las tierras de Venecianos. Pues que, plaziendo
a Dios, como toda la armada estè junta, espero en el que se hayan de
hazer efetos muy conformes a su servicio._

»_Escrivo con esse mismo despacho al marquès de sancta Cruz, que de
donde quiera que le tomare se buelba con la armada de galeras y naves
que trae a Corfù, a tal que se gane tiempo en caso que llegue a aquella
Isla. Estando en ella V. S. procure y con gran vigilancia de que non
hayan renzillas entre los soldados Españoles y Italianos: por que me
pesaria de comenzar la jornada con desconformidad d’estas dos naciones.
Que nuestro Señor la Ilustrissima persona de V. S. amonesca. De Palermo
a 16 de julio 1572._

»_V. S. se alegre en mi nombre con los Señores, general y probeedores,
de la resolucion que Su Majestad ha mandado tomar: el qual, crea V.
S., que pospane lo que toca a sus cosas particulares por las publicas;
y aun que dixe que partirè de aqui a Corfu, siendome fuerza detenerme
algo en Mezina por llebar esta armada junta, pero sera todolomenos que
posible sea. Yo no escrivo a esos señores por no detener este despacho,
el mismo podra servir para ellos_.

                                                    »Serv.dr de V. S.
                                       (firma autografa.) »DON JUAN.»

[372] ROSELL, p. 154: «_A las difficultades de don Juan replicaban
los Venecianos.... y a las razones de Venecianos enmundecia don Juan,
aunque en secreto se lamentaba de su situacion: no era dueño ni aun del
titulo que se le daba, su voluntad su mismo ser dependian del Rey, a
quien amaba come hijo a quien obedecia como vassallo._»

[373] Gli eccitamenti di don Giovanni ai Greci, perchè si sollevassero
a scuotere il giogo dei Turchi, si possono vedere nelle sue lettere tra
la COLECCION DE DOCUMENTOS INEDITOS PARA LA HISTORIA DE ESPAÑA, in-8.
Madrid, 1843, t. III, p. 353: «_Carta de don Juan de Austria a los
Cristianos de la Morea y a su arzobispo. Mesina, 9 de junio 1572, item,
a los Cristianos de la isla de Rodos. Mesina, 15 de henero 1572_ etc.»
V. appresso la nota 85.

[374] MARCANTONIO COLONNA, _Relazione_ cit. ARCH. COL.

It., Lettera al Cardinal di Como, Dal Cerigo 5 agosto 1572, ap. THEINER
cit., p. 475 e 476.

PARUTA cit., 310.

[375] ARCH. COL. cit., t. II, p. 119.

ARCH. SECRET. VAT., _Armata e diversi d’Italia nel 1572_, Codice nº
3439, p. 265: _Carta del señor M. A. Colonna al Serenissimo don Juan de
Austria_.

  «_Se[=m]o Señor_.

                                      »_Gumenizas, 29 de julio 1572_.

»_Esta noche pasada 29 del presente llego una fragatilla de Ragazon con
nueva que Vuestra Altezza por orden de Su Majestad viendria en Levante.
Ha sido tan grande nuestra alegria que no fuera tal la tomada de
Costantinopla y de toda su tierra. Loado sea Dios que la buena voluntad
de Su Majestad, y valor de Vuestra Alteza, no ha sido impedido de gente
ruin._

»_Esta noche estavamos resueltos de partir para el Zerigo y de alli
tomar conforme a los avisos de los enemigos la resolution de lo que
haviamos de hazer, pues los avisos hèran que Luchali era fuera con
140 galeras y otros vaxeles: pero la mayor parte da las galeras muy
ruines y mal armadas; y pensabamos con traer junta toda nuestra armada
yr seguros de la vitoria quando el enemigo nos biniese a buscar;
pues tenemos 127 galeras, seis galeazas, 24 maos y veinte fustas, y
mas cobraremos en el camino 12 galeras de Candia, y dos galeotas: y
quando nos pareciera que la armada del enemigo se pudiera pelear sin
las naves, dexarlas; y hir a topalla con todo lo demas: y sepa Vuestra
Alteza, que las galeras vienen bien proveidas de gente que de Otranto
me truxeron 2500 soldados. Pensavamos con el ir adelante asegurar el
daño que la armada enemiga pudiera hazer en Candia y en las mas islas
de Venetianos, y que les bastase al enemigo de destruir su tierra,
como hazen: pues han quemado toda la isla de Nixia y Paros y venian por
degollar mucha gente de la Morea, y quitando tambien toda la vitualla
de la tierra. Però esta mañana quise el parezer de Gil de Andrada y
del General venetiano por la nueva que haviamos tenido de la venida
de Vuestra Alteza; y entrambos dixeron que convenia yr adelante, como
se havia tratado: pues esto no era de ningun embarazo a la venida
de Vuestra Alteza, y importava mucho asegurar la Morèa sin daño, y
la gente d’ella con su buena voluntad: que cierto si Vuestra Alteza
no viniera, no sè yo (por lo que acà entiendo) caso mas miserable de
lo que les acaeziera a esta pobre gente: y gardamos el daño tambien
como ariba digo, que nos podian hazer en nuestra tierra. Y cierto
si con nuestra yda los hazemos parar por sospecha que tomasen de que
no se hechase la gente en tierra hasta la benida de Vuestra Alteza,
cosa posible seria que esta armada cortandole el camino no pudiese,
siendo parte d’ella tan flaca, bolberse a los Castillos: y quando en
mi cara lo quisiese hacer tambien teniendo yo aqui ochenta galeras
muy escoxidas se les podria hazer tiro. El empeñarse en impresa en
tierra aun que el armada se huisse, yo no soy d’este parezer, hasta
la benida de Vuestra Alteza, porque podriamos nos otros obligarle
por la reputacion a lo que Vuestra Alteza con su mucha prudencia, no
concurriese en ello. Y teniendo escrito hasta a qui, pensando siempre
que havia de benir esta fragata con las cartas de Vuestra Alteza, ha
llegado a 23 horas la dicha fragata, y yo con Gil de Andrada hemos
hecho luego el oficio con el General y probeedor, los quales estan los
mas contentos hombres del mundo. Y nos ha parecido, biendo la carta de
Vuestra Alteza, que la resolution que es tomada, ha sido muy buena y
conforme al parezer de Vuestra Alteza: y asì en esta ora, nos partimos,
y sera muy a espazio con remorcho de naos y galeazas. A Vuestra Alteza
beso las manos, esperando en Dios presto servirle de presencia._

                                                     »M. A. COLONNA.»

[376] SERENO, 286, 287, 288, 295.

GRAZIANI, 274.

[377] ROSELL, cit., p. 138.

MARCANTONIO COLONNA, _Relazione_ cit.

Item, Lettera al Cardinal di Como, dal Cerigo 5 agosto 1572. Ap.
THEINER cit., p 476, col. 2 in princip.: «_Avendo inteso Luccialì che
io venivo con 140 galere, et che il Signor don Giovanni era in rotta
co’ Veneziani (dico così per dire appunto ciò che il cristiano fuggito
dalle mani dei Turchi ne dice) veniva a combatterci, ma che vedendoci
accompagnati dalle navi se ne era tornato indietro. Se Dio ci mandasse
Sua Altezza, tutta l’armata turca sarebbe presa; e per conseguenza
quasi tutta la Morea, perchè i Cristiani stanno in arme, et aspettano
il fine di questo negozio. Questo cane di Luccialì veniva a tagliar
molte teste nella Morea et bruciar tutte le isole dei Veneziani et
giungere a Lepanto. Ringrazio Dio che finora il nostro venire avanti
non è stato in darno: dica chi vuole_.»

[378] VINCENZO CORONELLI, _Atlante veneto in gran folio_, Venezia, 1691.

GIAN GIACOPO DE’ ROSSI, _Mercurio geografico_, in-fol., Roma, 1689.

TOMMASO PORCACCHI, _Le Isole_, in-fol., Ven., 1604.

L. S. BAUDIN, _Manuel du Pilote_, in-8. Tolone, 1838, t. II, p. 141 e
439.

[379] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al Cardinal di Como, dal Cerigo 5
agosto 1572. Ap. THEINER cit., p. 476, col. 1.

[380] VIRGILIO, _Æned_., lib V, ver. 193:

    «_Jonioque mari, Maleæque sequacibus undis_.»

[381] MARCANTONIO COLONNA, _Relazione_ citata in med. Sono sue proprie
parole.

Item, _Narrattiva dei fatti del sette e del dieci agosto_.

ARCH. SECRET. VAT., _Armata et diversi d’Italia_, nel 1572, p. 290.

[382] MARCANT. COLONNA, _Relaz_. cit.

GRAZIANO cit., p. 264 e 265.

SERENO cit., p. 285.

CARACCIOLO cit., p. 73.

PARUTA cit., p.

THEINER cit., Lettere di M. A., di Pompeo Colonna, e di Domenico
Grimaldi, p. 476, 478.

ARCH. COL., t. II, p. 390, 417.

[383] GRAZIANO cit., p. 266: «_Idque præfectis triremium earum impune
fuit, Columna Gildoque animadvertere non ausis, quia in eis nobiles
aliquot Hispani fuerant_.»

[384] CARACCIOLO cit., p. 71.

[385] GRAZIANO cit., p. 267: «_Sed illa magis Venetos movebat cura, ne
Austrio Hispanisque qui cum eo erant cupientibus, locus tergiversandi
frustrandique rursus eius anni spes præberetur_.»

[386] IL COMMISSARIO GRIMALDI, Lettera al Card. di Como, dal Cerigo 12
agosto 1572 Ap. THEINER cit., p. 478.

«_Il Signor Marcantonio a mio giuditio si è dimostrato in questi dua
giorni tanto valoroso et prudente, che se bene io lo riputava tale, mi
è stato molto caro veder questa confirmacione per maggior soa gloria_.»

[387] SERENO cit., p. 290.

CARACCIOLO cit., p. 75.

LONGO cit., p. 37.

PARUTA cit., p. 324.

GRAZIANO cit., p. 269.

[388] SERENO cit., p. 291 in princ.

CARACCIOLO cit., p. 75 in fine.

[389] MARCANTONIO COLONNA al Cardinal di Como, da Corfù 1 settembre
1572.

THEINER cit., p. 481, col. 2, lin. 5: «_Sappia Vostra Signoria
Illustrissima che in corte di Spagna, sebbene Sua Altezza pigliò l’anno
passato l’armata nemica, lo cacciorno_.»

SERENO cit., p. 253.

Vedi a pag. 175, 177, 318, 323.

[390] PARUTA cit., p. 282.

[391] TUANO cit., p. 201.

[392] MARCANTONIO COLONNA al Card. di Como, da Corfù, 1 settembre
1572, Ap. THEINER, p. 481: «_Questo signor don Giovanni lo tengono
tanto soggetto ed ha tanto consiglio che è cosa dannosissima in una
guerra che le determinazioni vanno ad ore; che certo sono venti li
suoi consiglieri: et poi bisogna far quello consiglio della Lega. Che
io prometto a Vostra Signoria illustrissima che da che si comincia a
consultare può un’armata nemica, prima che noi abbiamo risoluto, far
ducento miglia.... Domattina don Giovanni farà la sua Sinodo_....»

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 532: «_El consejo desaprobaba la idea de don
Juan, y el disgustado y cansado de ver el poco acuerdo.... atado ademas
por el Rey su hermano, y sujeto al voto de los otros capitanes, i no
pudiendo obrar por su cuenta, determinò dar la vuelta a Italia_.»

CABRERA cit., p. 708: «_Los Venecianos despacharon a España a Antonio
Tiepolo a saber si el Rey tenia gusto e proseguir la confederacion;
porque les parecia aspero estorbar los efectos, i no los gastos_.»

[393] GRAZIANO cit., p. 243: «_Inter Venetos Hispanosque cum palam
amicitia esset secreto acrioribus quam cum hoste odiis certabatur_.» Si
vedano le note precedenti.

[394] TUANO cit., p. 201: «_Hispanorum id consilium esse ut Venetos
insanis et inutilibus sumptibus absumant eorumque ditionem bello
attritam inde Turcis exponant, hinc propriæ ambitioni_.»

GRATIANUS cit., p. 245: «_Hispani veteri consilio atteri et debilitari
rem venetam præoptabant, satis habentes Turcas sustineri_.»

[395] PARUTA cit., p. 282: «_La cagione è cosa occultissima, tenendo
gli Spagnoli i pensieri et i disegni suoi celati.... coll’animo alieno
dal fare unire l’armate et imprender le imprese di Levante affirmavano
continuamente il contrario.... et non iscoprendo l’intrinseco de suoi
pensieri, ma quando l’una quando l’altra causa di dilazione ritrovando
portavano il tempo innanzi senza far nulla_.»

I fatti però parlano più verità che le parole: e di quelli se n’è già
veduti e se ne vedrà meglio tra poco.

[396] GRATIANUS cit., p. 258: «_Austrius expeditionem in Africam
paraverat sperans quod Pontifex et Veneti haud invisi paterentur....
Verum accepto decreto ut bellum in Turcas atque in Grecia fieret
Panormo Messanam cum tota classe transiit_.»

LORENZO VANDER HAMEN, _Vida de don Juan de Austria_, in-4. Madrid,
1627, p. 153.

[397] GRAZIANO cit., p. 259: «_Quod ille secreto Columnæ aperuerat, ac
petierat ab eo ut quod regis interesset Veneto verba daret_.»

SERENO, p. 270: «_L’ordine contrario del Re lo ritardava. Non restava
però egli_ (don Giovanni) _di mostrar d’affrettarsi per mantenere in
fede i Veneziani_.»

It., p. 272.

[398] CARACCIOLO cit., p. 62. «_Tutto il mondo mormorava del tardare
a Messina, dove consumati in queste pratiche intorno a venti giorni ai
ventisette giugno venne ordine del re che don Giovanni non si dovesse
muovere_.»

[399] GRATIANUS cit., p. 261: «_Nec omnem classem esse mittendam ne
victoriam darent; nec nullam, ne necessitatem deponendi belli Venetis
facerent_.»

[400] V. sopra al capo VII, la lettera di don Giovanni, le
considerazioni dei Veneziani, e la risposta di Marcantonio.

[401] MARCANTONIO COLONNA, _Relazione_ cit. in fine.

[402] CARACCIOLO, p. 80.

[403] SERENO, p. 287 in fine, 286, 288 e 295.

GRAZIANO cit., p. 274.

CARACCIOLO cit., p. 79.

[404] GRAZIANO cit., p. 269: «_Columna animo versabat Parem profecto
secundæ adversæque rei suam invidiam fore_.»

[405] ANTONIO DE HERRERA, _Historia general._ Valladolid, in-fol.,
1605, p. 64: «_Los Venecianos viendose muy cargados en tres años,
sin sacar fruto; y puestos en mayor peligro, que primero, dizian que
habiendo de ser las armadas per abril en Corfù, no fueron antes de
agosto: y que pudiendo don Juan yr a buscar al armada, quiso que se
bolviese por el a Corfù._»

[406] GRAZIANO cit., p. 272.

SERENO cit., p. 287.

[407] SERENO cit., p. 288.

CARACCIOLO, p. 70 e 71.

[408] SERENO cit., p. 293.

[409] CARACCIOLO cit., p. 77.

SERENO cit., p. 293.

[410] GRAZIANO, 273: «_Indignabantur Cytheris Zacynthum, inde
Cephaleniam, nunc Corcyram quoque evocari.... nec Columna dolorem
continebat in cuius contumeliam fieri id ab Austrio ferebatur_.»

[411] La lettera cavata dai codici Vaticani. ARCH. SECRET., Cod. 3439,
p. 353 con la firma autografa di don Giovanni, data di Corfù 26 agosto
1572: «_Sepan que conviene al beneficio comun de los collegados que
se vengan luego sin ninguna dilacion, y con la mayor brevedad a este
Puerto, donde los aguardo_.» Corfù! Beneficio comune!

[412] GRAZIANO, 274: «...._Cum Veneti stomachantes tam superbum
adolescentis imperium execrarentur_.»

[413] MARCANTONIO COLONNA al Cardinal di Como, dal Zante, 19 agosto
1572. Spedita per un servidore in posta, perchè lo spaccio andasse
sicuro senza essere intercetto.

THEINER cit., p. 479: «_Io fo molto mal giuditio di questo negotio, nel
quale a me è giovato tanto poco il servir così bene appresso i ministri
di Sua Maestà, che solo l’infinita affetione che porto al servitio
di nostro Signore.... mi fa passar questa croce.... Che potevo io far
più per gratia di Dio di quel che ho fatto?... Il giusto risentimento
mi trasporta.... Però bisogna aver patientia, e quietarsi della sua
coscientia, la quale tengo io tanto quieta quanto dir si possa_.»
Altra lettera del 1º settembre, ib.: «_Sicchè c’è troppo che fare a
conservare questo negotio et alle volte vorrei esser non solo qui, ma
in Venezia, in Spagna et per tutto; ch’è miserabil cosa veder perire
una congiuntione fatta, la quale non vi essendo, non si potria nè
dovria desiderar et procurare altro, a beneficio della Cristianità_.»

[414] FRANCESCO LONGO, _Successo della guerra fatta con Selim_. ARCH.
STOR. ITAL., Ap., t. IV, p. 40 e 41.

CARACCIOLO, p. 78.

[415] CARACCIOLO, 78.

SERENO, 294.

DAL POZZO, 55.

ADRIANI, 915 D.

ARCH. SECRET. VAT., _Armata e diversi d’Italia,_ Cod. 3439, p. 366.
In quei giorni Marcantonio dopo aver scritto di tutte queste cose
ampiamente al Cardinal Colonna mandava al Papa la seguente lettera di
suo pugno.

  _«Santissimo e Beatissimo Padre._

                                   _»Di Gomenizze, 7 settembre 1572._

_»Il Cardinal Colonna informato della persecutione che io ho havuto da
poichè servo la Sede Apostolica darà conto a Vostra Santità di quanto
io habbia necessità della sua protetione. A lui rimettendomi, resto
baciando li sui santissimi piedi.

»Humilissimo et fedelissimo suddito et servo di Vostra Santità_

                                             »MARCO ANTONIO COLONNA.»

Al re scriveva:

  »_S. C. R. M_.

»_Il signor don Giovanni in ultimo ne scrisse che tornassimo tutti in
Corfù. Ma non ci scrisse che non partissimo, come V. M. havrà visto
per la copia delle lettere che io le mandai. Havrà ancor saputo come io
mi governai trovando così grande et increduta armata di Turchi. Et non
ostante questo, et che li Venetiani tengono haver salvato Candia et le
altre isole per la nostra andata avanti, vengono alcuni ad impressionar
Sua Altezza che sia di me mal soddisfatta. Onde finora non ha voluto
che io parli, nè le dia conto delle mie attioni. Comechè se io havessi
fatto bene, non potesse essere che Sua Altezza ancora non si fosse
prudentemente governato. Supplico Vostra Maestà a serbarmi un’orecchio,
perchè qui in tutta questa armata chiare et honorate sono le mie
attioni. Solo desidero che la M. V. sia della verità informata, come
lo sarà Sua Altezza, visto che habbia solo le sue lettere. L’armata
inimica creda V. M. che si verifica esser di duecento galere, et che
sette se ne affondarono la seconda volta che ci incontrammo, et a V. M.
bacio le mani._

  »_Di Corfù, li 2 settembre 1572._

                               »_Hu[=m]o et De[=m]o suddito et servo_
                                                      »M. ANTONIO C.»

ARCH. COL., t. I, p. 272.

[416] SERENO, 296.

CARACCIOLO, 80.

ADRIANI, 915.

[417] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al Card. di Como. Da Corfù, 1
settembre 1572, Ap. THEINER cit, t. I, p. 481.

ARCH. COL., Due lettere di M. A. al Re di Spagna, t. I, p 272 e 277,
nelle quali presso a poco produce le stesse ragioni.

[418] Lettera qui sopra citata.

SERENO, p. 296.

CARACCIOLO, p. 80.

[419] GRAZIANO, p. 274: «_Austrius alienatum a Columna animum non
dissimulavit.... ut arcano trium ducum consilio, admisso Sorantio,
Pompejum Columnam, ante adhiberi solitum, in M. Antonii contumeliam
prohibuerit_.»

ARCH. COL., t. I, p. 279.

[420] THUANUS cit., lib. 54, nº 23 in fine.

CARACCIOLO cit., p. 80.

SERENO cit., p. 297.

ARCH. COL., t. I, p. 276, Lettera di M. A. al Card. di Como, e t. IV,
p. 118 è la Rassegna di 1614 soldati pontificii passati da M. A. al
commissario Contarini per rinforzo dell’armata veneziana. Eccone la
nota:

                                       Soldati     Feriti      Tristi
        «Compagnie e Capitani.         in essere.  o infermi.  cassi.

  1. Andrea Cardoli (di Narni)          122            7         4
  2. Vincenzo Olivieri (di Pesaro)       91           12         »
  3. Orsino Ferrari (da Roma)           148           18         1
  4. Marcello di Bologna                143           14         »
  5. Rutilio Conti (di Roma)            150           12         »
  6. Filippo da Civitavecchia           139            3         »
  7. Flaminio Brandolini (da Forlì)      93            5         »
  8. Pierjacopo da Nocera               159            3         »
  9. Cesare Caraffa                     108           17         »
  10. Vincenzo Galeotti (da Roma)        20            8         »
  11. Francesco M. Signorelli
        (di Perugia)                    115           13         2
  12. Bastiano Bandini                  108            7         »
  13. Pellegrino Sinibaldi (di Osimo)    78           11         3
                                       ————          ———        ——
                                       1474          130        10.»

[421] ARCH. COL., _Relazione_, t. II, p. 104.

[422] _Narratione di quanto si è fatto in armata da la partita de le
Gomenizze alli XI settembre sino alli XX detto, mandata con lettera dei
XXI settembre da porto di Giunco a Navarino._ Ap. THEINER cit., p. 482.

CARACCIOLO, 82.

SERENO, 299.

PARUTA, 330.

ARCH. COL., t. II, p. 104.

[423] SERENO, p. 299.

[424] CARACCIOLO, 82.

[425] ADRIANI, p. 916 F.

GRAZIANO, p. 276.

CARACCIOLO, p. 83, lin. 9.

SERENO, p. 300, lin. 3.

[426] CAP. FRANCESCO DE MARCHI, _Mss. Piante di città e fortezze_, alla
Magliabechiana, Classe XVII, Codice 37, tavola 162 e 165.

[427] CARACCIOLO cit., 83.

ROSELL cit., p. 142.

[428] MIGUEL DE CERVANTES, lib. IV, cap. 39, in-8. Amberes, 1673, t. I,
452: «_Halleme el setanta y dos en Navarino.... Vi y notè la occasion
que alli se perdiò de no coger en el puerto toda la armada turquesca._»

[429] SERENO cit., p. 300: «_E dissero che fu per errore del piloto
reale.... il quale tutta la notte si andò trattenendo_.»

[430] ROSELL cit., p. 135: «_Convencidos en Roma y en Venecia que nada
se adelentaria sin que condescendiese a sus proposito don Filipe,_
etc.»

[431] GRAZIANO cit., p. 276: «_Sed sive gubernatoris error fuerit, sive
infensum Christianis Numen, egregia quod omnes fatentur delendi hostis
occasio elapsa e manibus est._

CERVANTES cit., p. 453: «_Però el Cielo lo ordenò de otra manera_.»

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 531: «_Los Aliados intentaron estorbar la
reunion de las escuadras otomanus, que se verificò sin embargo_.»

[432] PARUTA cit., p. 331, in med.

[433] ADRIANI, p. 916 G.

[434] ARCH. COL. cit., t. II, p. 105.

NARRATIONE cit., Ap. THEINER, p. 482.

GRAZIANO, 276.

SERENO, 300 e 301.

CARACCIOLO, 83, 84.

Questi ultimi tre dicono in sostanza più o meno copertamente come le
cose passarono: niuno però poteva tanto saperne quanto il protagonista
che l’ebbe patite, vedute, e scritte nei primi due documenti qui
citati.

[435] GRAZIANO, p. 276 e 277: «_Plerique instinctu inimicorum Columnæ
(ne qua laus ex re bene gesta ad eum obveniret) factum crediderunt....
tum quoque bene gerendæ rei, ut plerisque videbatur occasione amissa_.»

PARUTA cit., p. 331: «_Così avvenne che lo tardare di pochissime
ore (cotanto nella guerra importa la prestezza) facesse perdere una
segnalatissima occasione di opprimere quasi senza alcun pericolo
l’armata turchesca, la quale cosa grandissima variazione apportò
nell’evento di tutta la guerra_.»

ROSELL cit., p. 142: «_Este plan era acertado, si con diligencia
i precaucion se llevaba a effecto. Se frustrò el calculo.... y la
esperanza de otro triumfo tal vez mas completo que el de Lepanto_.»

[436] CARACCIOLO cit., p. 83, lin. 35.

SERENO cit., p. 301, lin. 4.

[437] SIMONE STRATICO, _Vocabolario di Marina._ Milano, in-8. 1813.
Questi però alla voce _quartiere_, d’onde è cavata la nota dei
Cassinesi, si legga tutto, e senza confusione.

[438] PANTERO PANTERA, capitano di galera nella marineria romana,
_La Armata navale_, in-4. Roma, 1614. Vedi _quartiero_ e _vogare_
nel vocabolario nautico, e nel corpo dell’opera a pagina 221: «_Sarà
anche giovevole alcuna volta nei viaggi lunghi la voga a quartiero,
acciocchè, mentre una parte della ciurma s’affatica, l’altra pigli
riposo et cibo_.»

E a pag. 133: «_Quando si camina a quartiero alla mezzania.... quando
camina il solo quartier della prora_.»

BARTOLOMEO CRESCENTIO, ingegnero nelle navali spedizioni della
marineria romana, _La nautica mediterranea_, in-4. Roma, 1602, p. 96.
Ripete le stesse cose.

[439] SERENO, 302.

CARACCIOLO, 84.

[440] SERENO, 303.

[441] SERENO, 304.

GRAZIANO, 278.

CARACCIOLO, 87.

GIACOMO DE’ ROSSI, _Teatro della guerra_, dove sono le piante e le
vedute delle principali città e fortezze della Morea ec., in-fol. Roma,
1687. — BIBL. CASANAT., Y, I, 13, tav. 77 e 79.

[442] SERENO, 305, lin. 20.

[443] NARRATIONE cit. ap. THEINER, p. 403, col. 2, lin. 22 e 52.

ARCH. COL.

SERENO, 305.

[444] SERENO, 304: «_Instava Marcantonio che s’invesisse per due
cagioni promettendo certa vittoria.... La nostra armata meglio fornita
di combattenti, ed il nemico vicino al suo lido avrebbe comodità di
salvarsi in terra abbandonando i vascelli_.»

ARCH. COL., t. II, p. 106, Lettera di M. A. al card. di Como. Da Porto
Giunco li 28 settembre 1572. «_Io proposi potersi investire l’armata
nemica: la quale havendo la gente timida, stando nel suo porto, era da
sperare certo che la maggior parte si buttasse in acqua. Et fu tenuto
partito da non doversi accettare, come ho detto_.»

CERVANTES cit., lib. IV, cap. 39, p. 453: «_Vi y notè la occasion
que alli se perdiò de no coger en el puerto toda la armada turquesca.
Porque todos los leventes i genizaros que en ella venian, tuvieron por
cierto que les avian de envestir dentro del mismo puerto; y tenian a
punto su ropa para huyrse luego por tierra, sin esperar ser combatidos.
Tanto era el miedo que avian cobrado à nuestra armada_.»

Vedi appresso pag. 417.

[445] SERENO, 308, 324, 325.

CARACCIOLO, 99.

GRAZIANO, 282.

LONGO, 43.

[446] GRAZIANO, 283: «_Uluccialis qui adeo res suas deploraverat ut
de deserenda classe turpique consciscenda fuga cogitaverat, ei mox
vecordia nostra non in salutem modo, sed in tantam gloriam vertit
ut.... hostem nulla re bene gesta abire Græcia inglorium coegisset_.»

[447] GRATIANUS, 279: «_Consilium quoque classis turcicæ in Methonis
portu oppugnandæ... in nihil iam tendentibus Venetis, ancipiti periculo
deterritis, sua sponte effluxit_.»

[448] SERENO, 310.

MARCANTONIO COLONNA, Lettera al Card. di Como. Dal porto Giunco
(Navarino), 28 settembre 1572, t. II, p. 106, 107.

LETTERA del Card. di Como a M. A. Colonna. Da Roma 25 settembre 1572.
Importante, e firma originale. ARCH. COL., Carte sciolte, nº 109. — Ne
ho copia presso di me.

[449] SERENO, 311.

MARC’ANTONIO, Lettere cit., p. 107, 108 e 110.

[450] TUANO cit., lib. LIV, nº 24, p. 205, produce quasi a verbo la
lettera di Marcantonio, e questo racconto.

ARCH. COL., t. II, p. 107 in principio. Lettera di Marcantonio al
Cardinal di Como, data da porto Giunco, 28 settembre 1572.

[451] THEINER, _Annal. eccl._, t. I, p. 71, e _Documenti_, p. 356, 358.

Lettere del duca Cosimo e del principe suo figlio al Papa, senza
esserne chiesti, per iscusare la doppiezza di Filippo.

[452] CARACCIOLO, p. 91, lin. 16.

[453] Si vedano gli storici di detta spedizione nel 1550.

[454] ARCH. COL., Lettera di Marcantonio al Card. di Como. Data da
porto Giunco 28 settembre 1572, t. II, p. 108.

ADRIANI, 923.

CARACCIOLO, 91.

SERENO, 309.

[455] SERENO, 309, 311, 312.

CARACCIOLO, 91.

LONGO, 43.

M. A. al Cardinal di Como, da porto Giunco 28 settembre, t. II, p. 109:
«_Si credeva che queste navi dovessero portar vittuaglia.... ma non ne
hanno portato_.»

[456] SERENO, 313.

CAPITAN FRANCESCO DE MORCHI, _Disegni e piante di fortezze,_ Mss.
originali alla Magliabechiana, Classe XVII, Cod. 37, tavola 163;
_Navarino e l’assedio attorno postovi nel ottobre del 1572_. I
quartieri dei papalini, del sig. Pompeo Colonna, e del commissario
Grimaldi vi sono specialmente indicati.

[457] ROSELL cit., p. 144: «_Ademas se contentaron con tomar
los caminos que iban à aquel lugar por una parte, mas par otra
quedaban expeditos y entraban en la fortaleza quantos socorros se
necessitaban_.» Per colpa di don Padilla, contro gli avvisi del Conte
di Sarno.

[458] CARACCIOLO, 95 e 96.

BARTOLOMEO DAL POZZO, _Historia della sacra religione di Malta_, in-4.
Verona, 1703, t. I, p. 56.

[459] SERENO, 324.

[460] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al Cardinal di Como dall’Armata,
passato il Prodano alla vela verso Zante a dì 8 ottobre 1572. ARCH.
COL. et ap. THEINER cit., p. 486: «_Per il che noi astretti dal
mancamento del pane, come dal vedere di non potere in questa parte fare
altro effetto, havemo risoluto di venircene_.»

[461] SERENO, 308. «_Passarono ai nemici più di quaranta Spagnoli_.»

CARACCIOLO, 90 in fine.

[462] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al Card. di Como, data da porto
Giunco li 5 ottobre 1572, con una postilla in cifra della sera del dì
7 ottobre, pubblicata dal THEINER, t. I, p. 484 con qualche errore di
amanuensi nel fine.

E nell’ARCH. COL., t. II, p. 111.

[463] Qui si conferma che la gita di M. A. in Levante fu per quest’anno
il maggior beneficio della Lega.

[464] Dunque i Veneziani e pel passato e pel presente erano maltrattati.

[465] MARCANTONIO COLONNA al Cardinal di Como, 8 ottobre dal Prodano
alla vela pel Zante ap. THEINER, p. 486: «_I Veneziani sono restati mal
soddisfatti di due cose: l’una che da principio c’era più da magnare (a
detto dei ministri di Sua Altezza) che non si è detto di poi, e l’altra
che essendosi venuto tardi sia stato ancor con mala provvisione. Il
punto è che per l’anno a venire si abbia un’armata da combattere.... Mi
perdoni V. S. che è ordinario di chi non fa niente il discorrere, et
alienare il pensiero dalle cose presenti e passate, con trattar delle
future, ancorchè Dio sa se io ho colpa di così infruttuoso successo_.»

GRAZIANO, 280

PARUTA, 336, 338, 339.

[466] SERENO, 325.

CARACCIOLO, 99.

[467] ARCH. SECRET. VAT., _Armata e diversi d’Italia_, Cod. 3439, p.
440. Lettera del signor Michele Bonelli al Cardinal di Como, da Corfù,
20 ottobre 1572, e p. 445. Lettera di monsignor Commissario Domenico
Grimaldi all’istesso Cardinale, da capo Santamaria, li 22 ottobre 1572.

[468] SERENO, 325 in fine.

[469] MARCANTONIO COLONNA, Lettera al Card. di Como. Da Corfù, 19
ottobre 1572: «_Intendo che il Duca di Sessa è venuto per sollecitare
il signor don Giovanni, perchè ritorni in Sicilia, e non per altro:
il che ha causato che subito Sua Altezza ha fatto determinazione di
partire.... Avrei molto più che dire. Mi rimetto all’arrivo, se Dio me
lo concederà_.» Ap. THEINER, p. 488.

ROSELL cit., p. 145: «_A las Gomenizas encontraron trece galeras, y
Juan Andrea Doria, y el Duque de Sessa, que iban a incorporane con
l’armada. En aquel punto se dividieron las armadas. Les Venecianos a
Corfù, M. A. a Roma, y don Juan con los suyos a Mesina_.»

[470] ADRIANI, 923 D.

[471] SERENO, 328.

[472] MARCANTONIO COLONNA, Lettere al Card di Como, da Genova 19
decembre 1572. Ap. THEINER, p. 363: «_Qui sono stato visitato da tutta
questa città; ma quel che è parso nuovo a tutti è stato che ci sia
venuto il signor Giovanni Andrea Doria. Infatti è gran cosa che la
verità ha da venire a luce._»

[473] SERENO, 330.

PARUTA, 342, 343.

[474] GREGORIO LETI, _Vita del re Filippo II_, in-4. Coligni, per
Giovanni Antonio Chovet, 1679, t. II, p. 62.

[475] SERENO cit., p. 327, 328.

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 532: «_Tal fue la infructuosa espedicion del
1572, emprendida con indisculpable retraso, continuada con lentitud,
malograda por las difidencias i desacuerdos. Nadie hubiera creido en
octubre 1571, que los vencedores de Lepanto habian de regresar asi en
octubre de 1572_.»

Item, p. 538: «_El fruto que de la batalla naval de Lepanto se recogiò
no fue ni el que se debiò ni el que se pudo_.»

[476] PARUTA, 340.

SERENO, 328.

[477] MARCANTONIO al Cardinale di Como. Da Genova, 19 decembre 1572.
Ap. THEINER, 362.

GRAZIANO, 321.

[478] SEVERINO SERVANZI COLLIO, _I militi della casa Matteucci_, in-8.
Sanseverino, 843.

[479] PHILIPPI II Hispaniarum regis, _Literæ Gregorio XIII Pont. Max_.,
sub die 30 nov. 1572. Ap. THEINER, t. I, p. 358.

[480] GRAZIANO, 292.

[481] GRAZIANO, 293: «_Inter captiosos et cavillatores Hispanos, et
morose nimis atque minute omnia exigentes Venetos_.»

[482] GRAZIANO, 296.

[483] GRAZIANO, 322.

[484] GRAZIANO, 322.

PARUTA, 360.

[485] II Vescovo di Nicastro, Nuncio del Papa a Venezia, Lettere al
Card. di Como del 4 e 5 aprile 1573. Ap. THEINER, t. I, p. 405-407.

[486] D. JUAN DE ZUÑIGA, _Carta a d. Juan de Austria_. Roma, 6 aprile
1573; ap. ROSELL cit., p. 243: «_Yo serè en amaneciendo a Palacio, y
despues de haber dado a entender el Papa la maldad que estos Venecianos
hacen, y la obligacion que a el le queda de resentirse, hablar_ ec.»
(Peggio a p. 244 e 245).

[487] M. WATTSON, _Histoire du Regne de Philippe II_, in-12. Amsterdam,
1777, t. II, p. 108.

LOUIS CABRERA, _D. Filipe II Rey d’España_, in-fol. Madrid, 1619, p.
747.

GREGORIO LETI, _Vita di Filippo II_, in-4. Caligni, 1679, t. II, p. 64.

SERENO, 333.

PARUTA, 362.

GRAZIANO, 326.

CESARE CAMPANA, _Vita di Filippo II_, in-4. Vicenza, 1608, t. III, p.
138.

ANTONIO DE HERRERA, _Historia del mundo_, in-fol. Vagliadolid, 1605, t.
II, lib. II, in fine.

WILLIAM H. PRESCOTT, _History of the Reign of Philip the second_, in-8.
Londra.

LAFUENTE cit., t. XIII, p. 534.

ROSELL cit., p. 148: «_Filipe II oyò la notificacion sin mostrar la
menor sorpresa.... Asi a quel politico profundo desconfiando de los
hombres acertaba a cenocerlos_.» E p. 150: «_Culpa fuè de nuestra
Corte, o por major decir del rey Filipe II, alianza tan desvantajosa_.»
Documenti, p. 248.

[488] ROSELL cit., p. 156: «En 1572 no se imputò la culpa ni a don
Juan ni a los Venecianos: el primevo no veia la hora de volar a les
mares de Levante, los segundos se impacientaban con su tardanza. Pendiò
este exclusivamente de los recelos de d. Felipe, que... pospuso la
obligacion del cumplimento de las estipulaciones qae habia firmado.»
La lega fu rotta da Filippo non dai Veneziani: e per confessione della
Storia Spagnuola, approvata dall’Accademia reale di Madrid.

[489] D. JUAN DE ZUÑIGA a don Juan de Austria, Roma, 2 julio 1573;
ap. ROSELL, p. 247: «_Si podria ser que a Venecianos se les hiziese
romper con el Turco, demas de la ayuda que tendriamos en sus fueras,
V. E. crea que, aunque les pesara, havian de quedar SCLAVOS de S. M.: y
tambien miraria S. Sanlitad con otros ojos nuestras cosa, y V. E. haria
la guerra e su modo, sin haber de estar atenido a las condiciones de la
Liga, y votos de los generales del Papa y Venecianos.... y por parecer
este punto de tan grande importancia he querido luego despachar este
corrèo, poro que pueda V. E. pensar i platicar_.»

[490] D. JUAN DE ZUÑIGA al Rey. Roma, 8 april 1573: «_La flaqueza que
el Papa ha echo en desarmar tan presto.... Yo les he dado cargo sobre
esto a el y a sus ministros_.» ROSELL, p. 250.

[491] ADRIANI, 930 F.

SERENO, 333.

CARACCIOLO, 106.

[492] FRANCISCUS MUCANTIUS, _In Diariis_, Mss. Ad diem 20 mensis
aprilis 1573. BIBL. CASANAT., XX, III, 7.

[493] Iscrizione posta in Campidoglio sotto alla sua statua: «_Marco
Antonio Columnæ Civi Clarissimo Triumphali Debitum Virtuti Proemium
Utile Posteritati Exemplum. Grata Patria Posuit. Ex S. C. Anno MDXCV._»

[494] ARCH. COL., t. III, p. 1: «_La contrariedad que yo tuve en la
guerra, que se hizo por tres años en compañia del Papa y Venecianos,
nacio per tres causas. La primera porque huvo algunos que no les
parecia bien ni les entrava en gusto la Liga: la otra, que no podian
hacer que los Turcos se podiesen pelear en la mar: la tarcera, la
grande embidia i rabiosa que me se tubo en que con el favor de Vuestra
Majestad tuviese en a quel negocio luego tan principal. I este maldicho
pecado fue creçiendo tanto mas, quanto que los sucessos y estas cosas
suçedieron al revès de sus pareçeres. Y el fruto que yo he sacado hasta
haora de la batalla han sido persecuciones._»

[495] MURATORI, _Ann. d’Italia_, 1584.

ANTONIO COPPI, _Memorie Colonnesi_, in-8. Roma, 1855, p. 349.

TUANO cit., t. IV, p. 236.

ARCH. COL. cit., _Biografia del signor Marcantonio_, t. II, 338.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.

La notazione [=xx] indica che le lettere specificate sono sormontate da
una barra.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK MARCANTONIO COLONNA ALLA BATTAGLIA DI LEPANTO ***


    

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Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

This website includes information about Project Gutenberg™,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
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