Racconti umoristici, vol. 2/2

By Achille Giovanni Cagna

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Title: Racconti umoristici, vol. 2/2

Author: Achille Giovanni Cagna

Release date: August 4, 2024 [eBook #74186]

Language: Italian

Original publication: Milano: Barbini, 1873

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI UMORISTICI, VOL. 2/2 ***


                              A. G. CAGNA


                          RACCONTI UMORISTICI


                                UN SOLDO

                          UN’AVVENTURA GALANTE

                           UNA CROCE MERITATA

                              LEI VOI E TU
                          (Saggio di Dialogo)


                                Vol. II.



                              MILANO 1873
                     PRESSO =Carlo Barbini= EDITORE
                          Via Chiaravalle N. 9




        Sotto la protezione della legge 25 giugno 1865 N. 2337,
              essendosi adempito a quanto essa prescrive.

                          Tip. Ditta Wilmant.




UNA CROCE MERITATA

STORIA DI TUTTI I GIORNI.


SPROLOQUIO

_Fu detto l’istinto essere la legge dei bruti. — Per quanto riserbata
sia questa sentenza, e favorevole agli uomini, non cessa però di essere
più un complimento che una definizione._

_L’istinto, checchè se ne dica è una legge universale. È un torto
marcio che si fa alle bestie chiamando_ istinto _le loro naturali
tendenze, mentre per l’uomo si distinguono col nome di_ passioni _e_
manìe.

_Tutto è istinto nell’animale in genere; tutte le azioni, tutti i
perturbamenti entrano nel dominio di questo autocrate che guida le
nostre aspirazioni._

_L’istinto spinge l’uomo alla meta, con tanto ardore quanto ne è più
difficile l’impresa, e la storia di Pomponio che prendo a narrare, è un
esempio che parla molto in favore di quanto sopra._


Manifestazioni d’un genio!

Pomponio sin dalla prima giovinezza tradiva le sue ambiziose tendenze.
I suoi genitori erano abbastanza agiati da poter soddisfare a tutti
i capricci del ragazzo, il quale prendeva gran gusto nell’appendersi
medaglie sul petto, e decorarsi come un generale.

A quindici anni questa sua smania si fece tanto potente da creargli
un bisogno, quello d’avere una medaglia d’oro per fregiarsene
arbitrariamente.

I genitori invece d’allarmarsi per questa tendenza troppo spiccata, se
ne compiacquero invece, parendo ad essi che un giorno o l’altro per la
smania di distinguersi, il figlio si azzardasse ad imprese non comuni.

L’idea era buona, ma non si rimarcò che a Pomponio bastava avere una
medaglia senza crucciarsi tanto sui mezzi di procurarsela.

A venti anni l’istinto ambizioso di Pomponio prese un notevole
sviluppo, e tale da non bastargli più il facile acquisto di una
medaglia. Ormai egli aspirava a qualche cosa di più, e si diede con
tutta lena alla caccia di un titolo.

Entrò all’università per addottorarsi in leggi, ma dopo sciupato
qualche anno, si accorse di non avere gran vocazione per la
magistratura.

E sì, che, per bacco, a giudicare dal numero stragrande dei laureati
in leggi, non mi sembra tanto straordinario il riuscirvi. La è tanto
comoda cotesta strada che financo i ricchi la battono, tanto per poter
col titolo di avvocato far velo ai loro placidi ozii. Eppure Pomponio
non trovò il fatto suo, e rinunziò alle baraonde universitarie.

Passò un anno meditando sulla carriera che dovesse sciegliere, ma una
sera dopo di aver assistito in teatro al trionfo di una commedia nuova,
si accorse di avere una pronunciata tendenza per la drammatica.

Ruminò per qualche giorno su cotesta manifestazione spontanea del suo
genio, e fattosi convinto della realtà, si ritirò nelle sue camere per
meditare nel silenzio la scelta del soggetto di una produzione.

Ma sia che il suo talento mal potesse informarsi alle angustie della
scena, o che il suo orgoglio di scrittore lo rendesse incontentabile,
dopo quindici giorni non aveva ancor trovato il filo d’un soggetto
qualunque.

Si lanciò nel mondo per studiare qualche argomento della vita sociale;
frequentò le conversazioni, i balli, i teatri, percorse alberghi,
taverne e bettole, ma con poco frutto, e dopo qualche mese non aveva
ancora trovato il fatto suo.

— Una sera, passando per una via un po’ remota, in cerca
d’inspirazioni, gli ferì l’orecchio un rumore confuso di voci e suoni
indistinti, si fermò di botto, e comprese che poco lungi all’ultimo
piano di una casa si ballava.

La necessità dà coraggio. Entrò nel portone, vide lumi sulla scala,
e salì animoso guidato dal fracasso che ingrossava man mano. — Trovò
gente su l’uscio, e chiese di che si trattasse.

— Prometto mia figlia, rispose un vecchiotto dalla faccia allegra.

— Ah! una festa di nozze, credeva... cioè... tante grazie; e
s’incamminava via.

— Venga avanti signore, si accomodi, venga a ballare, siam gente alla
buona ma...

— Non conosco alcuno, mormorò Pomponio.

— E che importa? fra galantuomini non si fa complimenti, venga con me.

Sì dicendo il vecchio prese Pomponio a braccetto, e lo introdusse in
una stanza attigua a quella in cui si ballava.

C’era calca di gente, tutti parenti ed amici degli sposi.

L’allegria non mancava fra quella gente alla buona, si sentiva
un chiaccherio assordante. Il vino correva per le tavole, e buona
parte dei convitati erano già brilli. L’orchestra era composta di un
trombone, un flauto e due violini. Anche i suonatori parevano ubriachi,
strepitavano coi loro strumenti in un modo orribile.

Frattanto la folla si accalcava urtandosi, e nel bel mezzo della
stanza, fra un crocchio di danzatori furibondi che ballavano come
dannati, c’era la sposa, una ragazzona solida con spalle erculee.

Si ballava quella ridda in cui tutti si prendono per mano formando un
cerchio, entro cui si alternano a vicenda coppie danzanti con lazzi più
o meno leciti. Pomponio passando presso quel cerchio turbinoso, vi fu
travolto dentro, ed abbenchè di mala voglia si pose esso pure a dimenar
le gambe, tanto per secondare gli sbalzi dei due che lo tenevano per
mano.

Il giochetto durava già da una mezz’ora, senza che alcuno pensasse a
riposarsi.

I suonatori tiravano dritto che l’era un piacere, e la ridda teneva
saldo, animata da urli e sghignazzate. Pomponio era mezzo morto, le
chiome scomposte gli cadevano sul viso madido di sudore, pur tuttavia,
timido com’era non osava svincolarsi dalle strette dei danzatori.
Tratto tratto spiccava sbalzi che erano più tentativi che successi,
giacchè le sue gambe si ribellavano a quella fatica inusitata. Oh!
quanto costa studiare il mondo, pensava fra sè sospirando, e frattanto
volgeva gli occhi supplichevoli a quell’inesorabile trombone che
continuava intrepido, con l’aria di mai più finire.

Ad un tratto si udì un grido assordante: evviva la sposa! Questa
difatti compariva allora sul limitare della stanza ed in men che
dicesi fu anch’essa travolta nel cerchio dei danzatori. Tutti se la
baloccavano a vicenda, chi le dava un urtone chi se la premeva al
seno in modo da farla schiattare; ma per fortuna la sposa era una
tarchiatella di tempra ferrea che resisteva a tutto. Anzi pareva che la
vertigine del ballo le svilupasse la forza musculare. Urlava anch’essa
e saltellava come un capretto, e se non si trattasse di una donna,
direi che la pareva brilla.

Pomponio intanto ballava sempre ed era acconciato in un modo orribile,
quando per soprasello gli capitò di esser tratto in lizza dalla sposa
che gli aveva buttato le braccia al collo.

Si rassegnò al destino, lanciò uno sguardo disperato al trombone, e si
abbandonò nelle braccia di quella nerboruta ragazza, la quale abbenchè
assai di lui più piccola, lo baloccava come un ninnolo. La sposina
lo faceva saltare in un modo orribile, ora gli balzava al collo e
glielo scrollava da scavezzarlo, ora si aggrappava alle falde della
sua marsina, cagionandogli lacerazioni. Pomponio trafelante, spossato,
metteva fuori un metro di lingua, e schizzava gli occhi dall’orbite.

Inconscio di quel che si facesse, e squilibrato dai mulinelli che
gl’imponeva la ballerina, si lasciò cadere quasi morto nelle braccia
di lei. Ma ad un tratto si rivenne dal suo svenimento, mercè un
potentissimo calcio amministratogli per didietro da un fratello della
sposa.

Per un equivoco, si era creduto che Pomponio avesse baciato la
ragazza. Egli si volse come per andarsene via da quel vortice.
Inutile tentativo, tutti gli furono addosso gridando _dalli a questo
aristocratico_.

Fu per un miracolo che il padre della sposa riuscì a trarlo di là e
rimessogli in testa il cappello tutto sdruscito e pesto, lo accompagnò
sulla porta augurandogli la _felice notte_.

Poverino, era tutto a sbrendoli.


Eureka!

La scrivo di cuore questa parola che riassume la gioia di uno
scienziato al dileguarsi della nebbia che gli nascondeva un secreto.

— Pomponio, come Galileo, come Archimede, e tanti altri, ebbe
finalmente il suo buon momento.

Dopo la salva di percosse ricevute al ballo della sposa, il povero
giovane fu per alcuni giorni obbligato al letto per calmare le doglie,
e guarir le lividure.

Eppure, malgrado tutto, il povero Pomponio dal suo letto di dolore
non pensava che al soggetto della commedia, e cercava nella sua mente
qualche episodio della vita per trarne argomento.

Frattanto dopo pochi giorni di riposo fu in grado d’alzarsi e
passeggiare per la camera; consultò parecchi libri di novelle,
riepilogò tutti i romanzi che aveva letto, ma nulla valse allo scopo.

Un mattino stanco di starsene in casa si decise di uscirne per far
una passeggiatina. Discese le scale, e mentre stava per fare il primo
passo nella strada, il cane del portinaio gli fu addosso saltellando
giocondamente per esprimergli la sua allegrezza.

Pomponio a quella vista mandò un grido di gioia, abbracciò il cane,
baciollo teneramente poi risalì di volo le scale, entrò nella sua
camera, aperse un cassetto, e trattone un grosso scartafaccio di carta
bianca, vi scrisse in cima a caratteri grossi:

                          L’AMOR DELLE BESTIE

                                 DRAMMA

Il soggetto era trovato!

La gestazione d’un dramma è sempre penosa, nondimeno Pomponio si adoprò
con tanto ardore che in un mese il lavoro era terminato.

— Parrà straordinario a taluni, ma la è così: un mese fu più che a
sufficienza pel neo-drammaturgo.

Lopez-Vega scriveva una commedia in ventiquattr’ore, e Pomponio che
aveva finalmente trovato il filo, potè in breve scrivere sul suo lavoro
la parola: _Fine_.

Osanna, il teatro italiano aveva un lavoro di più da aggiungere alla
già splendida corona. Veramente il titolo pare che presti poco soggetto
al dramma di Pomponio; e difatti si trattava di un solo episodio tirato
e trascinato per cinque atti, ma signori miei, la semplicità è una gran
cosa.

Dio fece il mondo con niente, dunque per poco che s’abbia si può fare
un dramma.

Il lavoro era bello e pronto, vi mancava solamente una compagnia
per recitarlo e Pomponio nella sua ingenuità credette cosa facile il
trovare un capocomico disposto in suo favore.

In paese c’erano due compagnie di commedianti, ed un bel mattino il
nostro giovane autore si prese sotto il braccio il suo dramma, ed andò
difilato a suonare il campanello in casa di uno dei direttori.

Una donna scarmigliata e brodolosa venne all’uscio chiedendo
ruvidamente!

— Chi cercate?

— Scusi, signora, mormorò Pomponio, abita il signor Capocomico Rinaldo?

— Sì.

— Ho bisogno di parlargli.

— Ripassi più tardi, non è ancora alzato, rispose la donna disponendosi
a chiudere.

— Perdono... madamigella, soggiunse tosto Pomponio, se anche fosse in
letto non fa nulla, due sole parole giacchè ho molta premura.

— Allora si degni di aspettare un momento.

La porta fu rinchiusa, e Pomponio se ne rimase sul pianerottolo, non
troppo edificato dell’accoglienza ricevuta.

Dopo dieci minuti d’aspetto, la porta venne riaperta, e la stessa
donna, collo stesso tono gli disse:

— Venga avanti.

La franchezza di Pomponio era già di molto scemata, e sentivasi in
cuore un certo turbamento che lo sconcertava.

Attraversò una stanzuccia tutta in disordine, entrò in quella da
letto, e fermandosi sulla soglia col cappello in mano, si rivolse al
commediante che stava ancora sotto le coltri, compose la faccia ad un
risolino molto imbarazzato e sclamò:

— Scusi signor Capocomico se...

— Niente, niente, rispose l’altro accennandogli di avanzarsi.

Pomponio arrischiò due passi, indi riprese con voce tremante:

— Mi perdoni la libertà, so che ella è tanto buono.

— Al fatto, favorisca di sbrigarsi chè non ho tempo da perdere.

— Eh capisco... studia sempre.

— Già, ma si faccia più vicino; ho un maledetto raffreddore che mi fa
sordo.

Pomponio fece altri due passi, ma era tutto convulsione, quando fu
proprio presso al letto riprese il filo.

— Dunque, signor Arcibaldo.

— Mi chiamo Rinaldo.

— Ah! è vero... ecco dunque; io ho scritto un dramma.

— Me ne rallegro.

— Grazie... vorrei vederlo rappresentato, epperciò lo portai a lei.

— Ih! Ih! sclamò Rinaldo tirandosi sugli occhi il berretto da notte:
bisogna vederlo questo lavoro, si fa tanto presto a scrivere un dramma!

Pomponio restò di stucco; il poverino aveva creduto che l’offerta di un
dramma facesse impressione sull’animo di un Capocomico, invece toccava
l’opposto. La poesia dell’arte che era già profondamente scossa per la
vista di quel primo attore scamiciato e sporco, entrò allora nella fase
del più atroce disinganno, il povero Pomponio se ne restò là impalato,
confuso, facendo girare fra le mani il suo scartafaccio senza trovar
parola di risposta. Infine, con un eroico sforzo disse:

— Volesse avere almeno la compiacenza di leggere questo lavoro.

— Va bene, mettetelo lì sul tavolo; se avrò tempo lo leggerò. Passate
poi per sentire il mio parere.

— Grazie. Quando verrò, domani?

— Che diavolo dite, credete forse ch’io abbia nulla da fare? Venite fra
una ventina di giorni.

— Sta bene, mormorò Pomponio tirando un sospiro, poscia se ne andò.

Il povero giovinotto aveva il cuore angosciato, ed era a poco per
piangere.

Egli non conosceva i commedianti che dal palco scenico, ed aveva quasi
creduto che costoro vestissero in casa la porpora e la corona.

La berretta del signor Rinaldo, ed il malarnese di quella donna,
avevano soffocato col loro strano contrasto le ingenue credenze del
giovane autore.

Trascorsero finalmente quindici giorni che parvero secoli, ed al
sedicesimo, Pomponio s’incamminò verso l’abituro del capocomico.

Battevano le 11 quando egli tirava la corda del campanello. La solita
donna colla solita toeletta venne ad aprirgli, e lo introdusse nella
stanza del signor Rinaldo che terminava allora di vestirsi.

— Buon giorno, signore.

— Oh! sei tu! giovinotto, vieni, vieni innanzi; sei passato per quel
tuo lavoro.

— Proprio, rispose Pomponio un po’ mortificato per quel tuono
confidenziale del comico.

— Terminai ieri di leggerlo, abbiamo tanto da fare. Figurati tengo
una cinquantina di commedie nuove sul mio tavolo, devo trovar tempo di
leggerle tutte.

— Ebbene, che le pare?

— Senti amico, io sono schietto. Per un primo lavoro non c’è malaccio,
ci sono delle cosettine discrete; ma tu sei all’oscuro dell’intrigo
scenico, ti manca la conoscenza dell’effetto, eppoi è lungo, troppo
lungo, troppe ripetizioni, e basterebbero due atti invece di cinque.
Tuttavia ti ripeto che hai disposizione, ma bisogna fare e far molto.

Pomponio che aveva il cuore pieno di speranze, fu a poco per cadere in
deliquio, e se non l’avesse trattenuto l’amor proprio si sarebbe messo
a piangere.

Il signor Rinaldo intanto si annodava la cravatta, inconscio delle
torture che infliggeva alla sua vittima, e non sentendo alcuna
risposta, proseguì a trinciar precetti.

— Bada a me, ragazzo, studia la scena, e ricordati che non basta
scarabocchiare della carta per scrivere un dramma. Studiando di
buona voglia per qualche anno, potrai far bene. Oh Dio! io non vorrei
scoraggiarti, ma ti dico di aver pazienza; scrissi anch’io qualche
lavoro e sebbene dell’arte, ho dovuto rassegnarmi camminando adagino,
finchè son venuto quello che son venuto.

Infine sai, noi abbiamo un po’ di _praticaccia_, abbiamo mano in pasta,
insomma, oh Dio! io me ne intendo. Ti parlo da padre.

— Dunque, sclamò Pomponio dovrò rifare il mio lavoro?

— No no, il soggetto è puerile, sa del collegiale; bisogna farne tanti
finchè si riesca... ed in così dire, gli consegnò lo scartafaccio, e lo
accommiatò.

Se Pomponio avesse avuto del coraggio, si sarebbe buttato giù dalle
scale per rompersi il collo; ma non era del suo carattere una simile
risoluzione. Prese il suo dramma sotto il braccio, e se ne andò a casa
mortificato, avvilito come un cane vagante. Giunto nella sua camera
gettò il dramma in un cantone, poi si mise a letto, perchè aveva la
febbre!

Poverino! egli credette sul serio alla cicalata del Capocomico, e non
s’accorse che il suo dramma nonchè leggerlo, colui non aveva neanche
slegato.

Un simil genere di critica può parer strano a prima vista, ma per poco
che si sappia delle consuetudini odierne, è facile comprendere che le
son cose di tutti i giorni.

Io ho più volte sentito dei giudizii così stracchi su certi lavori
da individui che passano per gente seria, ed alla fine ho dovuto
persuadermi che giudicavano a mosca cieca. C’è un mio amico, un bravo
ragazzo che non ha altro difetto, tranne quello di essere avvocato, il
quale si crede in obbligo di conoscer tutto, e se gli si domandasse
se ha letto i romanzi di Adamo, egli ti spiffera lì su due piedi un
giudizio con un coraggio da leone.

Passata la crisi, Pomponio ricuperò un po’ di coraggio, e pensando che
forse il signor Rinaldo era stato troppo severo, si gettò nel campo
delle ricerche. Il suo dramma passò per mano di cento Capocomici sempre
coll’istessa sorte, e quello sciagurato manoscritto viaggiò tutta
l’Italia senza trovare un’anima caritatevole che l’accogliesse.

Disperato allora il povero autore, ricorse alla più vile risorsa, a
quella di pagare.

I comici, sordi sempre alla voce dell’arte, hanno in cuore una corda
sensibilissima che si scuote, agita e freme al suono del danaro.

Pomponio, dunque mediante il pagamento anticipato di cento lire, trovò
la compagnia per far recitare il suo parto.

Passo di volo sulle prove che costarono parecchie cene all’autore, e mi
limito a dire che un bel giorno comparve sulle cantonate della città
nativa di Pomponio un gran manifesto che invitava il pubblico per la
rappresentazione del Dramma di un _concittadino_, col titolo

                          L’AMOR DELLE BESTIE.


Nemo propheta in patria.

Per tutta quella giornata il povero Pomponio ebbe la febbre
dell’impazienza. Il momento decisivo non era lontano, e tutto lasciava
sperare bene.

Chi mi sa dire l’onda di speranza che cullava la fantasia del povero
autore? egli era certo, certissimo dell’esito, e già sognava una
pioggia di fiori sul suo capo, e quel che è più, quella benedetta croce
tanto desiderata.

Un’ora prima di cominciare, il teatro era zeppo di spettatori.

La curiosità aveva attirato molti amici e conoscenti dell’autore, e
l’avidità di sentire era tanta che non si volle aspettare più oltre, ed
il pubblico proruppe in unanime applauso per invocare la sollecitudine.

Si alzò finalmente il sipario fra un’esclamazione generale, e la prima
parte del primo atto passò sotto silenzio. L’autore era convulso,
febbricitante e trottolava dietro le quinte come uno spiritato.

Il primo atto terminò con una grande risata del pubblico, e certo
quell’ilarità non era troppo a proposito, giacchè il dramma accennava
allora ad un assassinio.

Una metà del secondo atto passò pure inosservata, ma poco dopo alcuni
sbuffi d’impazienza che venivano dalla platea indicavano che il
pubblico non s’interessava gran fatto. Però verso la fine dell’atto
parve che risorgesse un fil di vita, giacchè s’udirono per la prima
volta alcuni fischi che scoppiarono in vari punti dell’uditorio.

La pazienza è virtù dei somari; vero è che bene spesso il pubblico
non ischerza in fatto di tolleranza, ma quando per avventura la noia
comincia ad assalirlo è impossibile evitare una burrasca. Domandatelo a
Pomponio che fu costretto di svignarsela a metà del terzo atto, e buon
per lui che se la cavò senza peggio.

Difatti il pubblico dopo di aver sopportato mezza la produzione,
non ebbe il coraggio di portar più a lungo la sua sofferenza, ed il
fischio che proruppe ad un certo punto fu così spontaneo, unanime,
ed arrabbiato, che si credette prudente calar la tela, e troncare la
rappresentazione.

Io non tenterò certo di salvare il povero Pomponio, me ne guardi il
cielo! Il suo dramma non era cosa sopportabile, e ne fa fede lo stesso
titolo, e l’origine della produzione.

Mi prenderò ben guardia di raccontarvi l’argomento per non addossarmi
le ire della gente.

Basti sapere che il povero Pomponio invece di trionfo e croce, si ebbe
un’apoteosi di fischiate da togliergli la malinconia di scrivere per il
teatro.

Non è dunque sì facile diventar cavaliere? A sentir taluni basta
un raglio d’asino per procurarsi una croce. Alla malora dunque i
maldicenti, poichè infine noi vediamo quanto malagevole sia guadagnarsi
questa distinzione. Nossignori non basta esser ciuco per giungere
a tanto, e se anche così fosse, che prova? La parte dell’asino è
difficile a sostenersi; s’interroghi Lucio Apulejo e si vedrà che farla
da somaro, è spesso più arduo che non si pensi.

Nè va pure obliato l’asino di messer Domenico Guerrazzi, che se tutti
i cavalieri avessero un briciolo appena del senno di quell’arguto
somarello, l’umanità potrebbe andarne lieta.

Per me lo confesso, quando leggo l’orazione funebre che il Casti fa
recitare all’asino, penso che se tutti i discorsi di circostanza
fossero come quello, sarebbe meno penosa la situazione degli
ascoltatori.

Insomma anche farla da asino non è agevol cosa, e trovo che si abusa
troppo di questo epiteto applicandolo agli imbecilli.

La catastrofe toccata a Pomponio fu tale, da levargli la mania del
teatro, ma non valse a reprimere quella benedetta voglia di diventar
cavaliere.

La sola sua costanza si meritava la croce, ma sfortunatamente la
fermezza di proposito non è più una virtù in questo secolo del
progresso in cui tutto cammina fra le sfumature bizzare d’una varietà
senza fine.

Dopo alcuni giorni, smessa la vergogna, il povero drammaturgo si
azzardò ad uscire, ma correva a testa bassa come se fosse passato sotto
le forche caudine.

La più gran bestialità al giorno d’oggi si è quella di ricredersi di un
errore e confessarlo, oggimai ci vuol disinvoltura, e se tutti quelli
che fecero fiasco curvassero le spalle sotto il peso della vergogna, il
mondo andrebbe tutto a capo chino.

Se lo potessi vorrei tessere tutta intera la storia dell’infaticabile
ardore posto in opera da Pomponio per ottenere l’ambita croce; ma
tralascio, perchè il lettore assiste pur troppo giornalmente alle
fatiche d’Ercole, di tante nullità che si arrampicano in mille guise
per poggiare in alto. Dirò solo che il nostro eroe nulla lasciò
d’intentato, e che si fece perfino nominare capitano della guardia
nazionale.

Il fatto è che a ventotto anni Pomponio si chiamava semplicemente
signor Pomponio.

Il desiderio passò quasi allo stato di manìa, il poverino dimagrava a
vista d’occhio ed una profonda malinconia lo assalì sì fortemente, che
suo padre d’accordo col medico lo consigliò a viaggiare l’Italia per
distrazione.

Pomponio si arrese, ed un mattino partì per alla volta di Firenze,
ove contava di fermarsi un mese, e poi recarsi a Napoli per passarvi
l’inverno.


La forza del Destino.

Quando io penso ai casi fortuiti della vita, alle strane
sconfigurazioni dell’azzardo, non so più negare l’influenza del
destino.

Si ha bel dire, tutto è caso, ma signori miei, chiamate caso la
predestinazione e noi saremo d’accordo.

Si vedono delle cose sorprendenti, accadono nella vita certe
mistificazioni che sembrano il risultato d’una tendenza prestabilita.
Per me il caso è più maraviglioso delle leggi che regolano il mondo
anzi appunto perchè desso è l’antitesi della legge, la negazione
dell’ordine naturale, io lo trovo prodigioso.

Il caso che fece fare ad Apelle la spuma colla spugna, e che rivelò a
Galileo la teoria dell’isocronismo del pendolo, ha qualche cosa di sì
straordinario, che mi stordisce. — Ma torniamo a Pomponio.

Le meraviglie artistiche di Firenze, il delizioso clima, ed il cielo
sorridente valsero ben poco a lenire le sofferenze di quell’infelice
che già da qualche giorno vagolava per quelle vie terribilmente
annoiato.

Aveva colà uno zio, ma tanta era la sua apatia che non si curò neanche
di cercarlo.

Verso il tramonto di una bella giornata, Pomponio passeggiava
sbadatamente in Lungarno, quando girando gli occhi sui balconi di un
elegante palazzina incontrò lo sguardo di una bella signora che stava
godendosi lo spettacolo della passeggiata.

— È superfluo estendersi in descrizioni, la signorina in discorso
era di una rara bellezza ed aveva un paio d’occhi da ammaliare mezzo
mondo. Mi affretto a dichiarare che Pomponio era un discreto giovinotto
elegantemente vestito. — Arrogi quel suo pallore che lo rendeva molto
interessante, talchè la signorina del balcone, arrestò per qualche
tempo lo sguardo sopra di lui. Egli se ne accorse e fu assalito da
tanta confusione, che arrossì fin nel bianco degli occhi, ed il suo
cuore palpitò fortemente.

Il nostro giovinotto, rapito, entusiasmato da quello sguardo di fuoco,
stette a guardare la signora finchè la convenienza lo permetteva,
indi, sebbene a malincuore proseguì la sua strada volgendosi di tratto
in tratto all’indietro. Camminando in quella guisa colla testa quasi
sempre rivolta, non s’avvide di un signore dal grosso ventre che veniva
verso di lui con aria molto preoccupata.

Entrambi si urtarono, e con tanta violenza che il cappello di Pomponio
rotolò a molti passi lontano.

— Perdono, mormorò egli correndo dietro al suo cilindro.

— Diamine, badi ove manda le gambe! brontolò il grasso signore,
ma appena il giovane rialzò la testa, il panciuto mandò una grande
esclamazione.

— Pomponio, tu qui?

— Zio, siete voi!

— Oh lascia che t’abbracci, e sì dicendo lo zio senza curarsi di essere
sulla pubblica strada, saltò al collo del nipote, che rimase alquanto
confuso per quella eccessiva tenerezza.

— Come, birbo! tu sei a Firenze, ed io ne sapeva niente? — Oh Dio....
buono!

— Perdonatemi zio, aveva perduto l’indirizzo.

— E ci sei venuto senza accorgertene.

— Come?

— Io abito in quella palazzina.

— Là dove c’è quella signora?

— Precisamente, siamo vicini e buoni amici.

— Ah zio, conducetemi in casa vostra.

— Andiamo. E zio e nipote prendendosi a braccetto, rifecero la strada,
ed entrarono nel portone non senza che però Pomponio lanciasse uno
sguardo di soddisfazione alla bella signora, che era stata testimonio
della scena.

— Passo di volo su taluni incidenti di nessun rimarco. È facile
d’altronde supporre l’argomento della conversazione fra zio e nipote.

Pomponio dopo fatto l’elogio all’appartamento si avanzò timidamente
sul balcone, e trovossi a pochi metri distante dalla signora che aveva
tanto ammirato.

Arrossì a quella vista, e lo zio che era uomo di mondo, non durò fatica
a comprendere.

— Bella signora, n’è vero?

— Oh molto! rispose Pomponio.

— Se ti fermi farai la sua conoscenza... è tanto amabile; in così dire
lo zio fece un grand’inchino alla signora.

Pomponio per secondarlo, si scopri il capo, ma lasciò cadere il
cappello sulla strada.

— Ohè! sclamò lo zio, mio caro, patisci forse di nervi? poco fa mancò
poco che tu mi facessi stramazzare, ora butti il cappello giù dal
verone.

— Perdonate zio, la distrazione...

La signora intanto erasi ritirata, forse per uno sfogo d’ilarità.
Comunque fosse, è innegabile che Pomponio per un primo incontro aveva
già guadagnato terreno.

Se io volessi dir tutto per filo e per segno non la finirei più, ma non
essendo di quei cotali che scrivono a un tanto per pagina, così evito
amplificazioni inutili.

A che scopo narrare tutte le vicende per le quali il povero Pomponio
restò vittima inconsolabile di un amore ardentissimo? L’anima sua aveva
finalmente trovato la gemella; non più solitudine, sospironi sparati
al vento, non più malinconie, ma strette di mano espressive, sguardi di
fuoco, urti di ginocchio, pestate di piedi... con quel che segue.

Non occorre dirlo, l’oggetto di Pomponio era la signora del balcone,
la vezzosa vedovella per la quale aveva fiaccato il ventre dello zio e
buttato il cappello sulla strada.

Si chiamava Allegra, aveva ventisette anni, una bella faccia, due
grand’occhi bruni, una taglia provocante, un piedino d’angelo, una dote
di cinquantamila lire, ed una gran voglia di rimaritarsi.

Cospettone! con tanta roba in vetrina non mancano avventori; ed
Allegra ne aveva molti, e fra questi un cugino alquanto attempato, ma
personaggio importante influentissimo nei circoli diplomatici.

A questo punto mi tocca far violenza alla mia verecondia per vincerla
su certi scrupoli che mi inceppano la penna; già si sa che la coscienza
non deve far pressione sull’animo dello scrittore, ma io poveraccio non
ho ancora quel coraggio civile che è necessario in questi casi.

Mi dà una gran pena questo dover ad ogni tratto sollevare il velo di
qualche mistero, ma mio Dio! quelle buon’anime di lettori sono così
curiosi! Tant’è, prima dello scrittore il mondo ha già menato la
lingua; prima della maldicenza scritta c’è la maldicenza parlata che
vola sommessamente di bocca in bocca, ed alla fine scoppia come il
colpo di cannone di Don Basilio.

Questa volta però non si tratta di calunnia, ma sibbene d’un fatto che
se non si può giurare, si può per altro credere.

La _buona gente_ di Firenze aveva già scagliato la pietra sulla
vedovella che si lasciava troppo proteggere dall’influente cugino. Si
diceva che costui dalla morte del marito aveva spiegato un’assiduità
rimarchevole colla moglie. Furono veduti parecchie volte a spasso nei
dintorni della città, fuori di porta, ed infine una cameriera di madama
avrebbe confidato al suo damo che il cugino aveva libero accesso nella
stanza da letto della signora.

Ci credete voi signori?

Questo scellerato mondo è tanto perfido, che davvero non so come
regolarmi, quando lo sento mormorare.

Notisi inoltre che se la vedova si lasciava consolare, era nel suo
pieno diritto di farlo. Oh che! perchè il marito muore, dovrà la
consorte vestire il lutto eterno? dovrà essa legare la sua gioventù e
sacrificarla alle magre reminiscenze di un passato che è passato? No
certo. Si piange per un anno, qualche visita al cimitero colla serva,
e forti sospiramenti quando si parla del defunto; intanto la vedova
ingrassa, e poco dopo passata la furia del dolore di circostanza, si
riaprono le sale agli amici del defunto marito, i quali si credono
tutti in diritto di dar dei consigli alla vedova.

Oh! l’amicizia. Gli scettici la dicono una parola vana, ed è ancor poco
se non la chiamano addirittura un’ipocrisia.

Consolare gli afflitti è uno dei doveri del buon cristiano, ed in fede
mia, non saprei trovare opera più generosa e piacevole di quella di
asciugare le lagrime ad una giovane vedovella.

Ma andate mo’ a far sfoggio di questi buoni sentimenti, vi rideranno
sul muso. Mi ricordo d’aver visto i funerali di un povero marito
accompagnato da un corteo di pietosi amici tutti in lagrime, e ricordo
ancora che mi sentii profondamente commosso. Uno poi fra gli altri
tanti che accompagnavano il feretro, aveva un’aria così addolorata
che era una pietà il vederlo. Ebbene, mentre me ne stava pensoso ad
osservare, sentii dietro di me il seguente dialogo:

— Veh! il signor B.... che aria afflitta.

— Ah! che ridicolo!

— Che impostore. Figurati che colui fa una corte spietata alla vedova;
è l’ombra del suo corpo, e giurerei che presto farà le veci del
defunto.

È una birbonata, non è vero? — eppure se io non fossi più che
ottimista, ora, dopo passato qualche tempo, sarei tentato di credere
che quel briccone avesse ragione.

La signora Allegra, dunque versò le sue lagrime d’obbligo sulla memoria
del marito, gli pose in Camposanto una lapide col solito epitaffio: _la
vedova inconsolabile e desolata vivrà nel lutto eterno..._ con quel che
segue, eppoi fece come fanno tutte le altre.

Cercò di distrarsi, e ridiventò civetta, voglio dire una dama del bel
mondo.

Tutto passa quaggiù, tutto finisce in questo basso mondo, e la
vedovella riprese ben tosto le sue abitudini, anzi ne contrasse delle
altre, frutto del suo stato libero.

Non ci mancava la _réclame_ sulla sua disponibilità; la signora Allegra
andava sempre vestita a lutto, ma la gente che mormora trovava in
quelle gramaglie più un richiamo che non l’espressione di un dolore.
Fin qui io sto col mondo, giacchè il lutto delle signore mi fa sempre
l’effetto della quarta pagina d’un giornale.

È facile immaginare che Pomponio fissò la sua dimora in casa dello
zio. L’amore aveva operato un vero prodigio, e dopo pochi giorni
l’ipocondriaco giovinotto non era più riconoscibile.

— Passava tutta la giornata alla finestra per spiare le mosse della
vedova, e quando lo zio gli disse che l’avrebbe presentato a quella
signora non seppe trattenersi di dare un calcio alla cagnolina per
sfogare la gran gioia. A quella vista lo zio si persuase che la cosa
era urgente, e temendo che quegli slanci di allegrezza degenerassero
in manìa, lo prese per il braccio, e trascinollo subito in casa della
signora.

Il primo colloquio, e le relative cerimonie di presentazione sono
sempre cose noiose, e non vale la pena di descriverle. Per altra parte
poi nulla vi avvenne d’importante, se si eccettua un po’ di batticuore
di Pomponio, e qualche grulleria scivolatagli dal labbro. Passo sulla
seconda visita, sulla terza, e su varie altre, e salto addirittura a
quindici giorni dopo l’arrivo di Pomponio a Firenze, vale a dire alla
quattordicesima visita che egli fece alla vedova.

Oh! l’amore! vengano gli scettici a negarlo, vengano a dirmi che
questa corrente elettrica è un sogno dei poeti. Pomponio ed Allegra in
quindici giorni erano ubbriachi fradici d’amore.

Sarei quasi tentato di spifferarvi la storia di quell’affetto nato
così rapidamente; ciò mi fornirebbe occasione per sfoggiare le mie
cognizioni in materia, ma siccome parmi già di sentire gli sbuffi
impazienti del lettore, volo... vale a dire, salto altri quindici
giorni e mi porto verso il tramonto di quel purissimo amore.

Dissi purissimo, e ciò sembrerà strano, giacchè la purità delle
vedovelle si può sempre discutere, tuttavia qui l’espressione fa al
caso.

Pomponio non era per nulla uno scapestrato, un altro al suo posto
avrebbe finito dove finiscono sempre siffatti intrighi, ma egli tenne
duro. I mediocri d’intelligenza sono spesso i più onesti. Ne volete
una prova? Pochi giorni dopo il suo arrivo a Firenze egli scrisse alla
famiglia dicendo che desiderava ammogliarsi, e chiedeva un consiglio al
padre.

Quel buon uomo non desiderava di meglio, ed a volta di corriere rispose
al figlio che egli era soddisfattissimo; anzi lo pregava a sollecitare
le nozze.

Questa lettera fruttò un bacio a Pomponio. Fu il primo, ve lo posso
giurare, giacchè la vedovella seppe sempre tenerlo alla dovuta
distanza; ma quando vide la lettera del papà si commosse, pianse, ed
abbracciando il suo Pomponio lo baciò teneramente in fronte.

Ah! le vedove sanno ottimamente l’_Arte d’amare_. Il primo matrimonio
è per esse una scuola di perfezionamento, e quando hanno perduto il
marito diventano insuperabili negli artifizi amorosi.

Un bacio dato a tempo ne vale cento dati alla rinfusa, come costumano
certi innamorati allorchè la buona stella li mette in colloquio intimo.

Evvivano dunque le vedove che sanno farsi desiderare. Mi viene però
alla memoria una certa sentenza in versi, che dice:

    Oh tu che hai scorse tante dotte carte:
    Qual’è l’arte d’amar? — L’amar senz’arte.

Questa laconica risposta tornerebbe tutta a favore degl’ingenui, dunque
come sempre avviene c’è ragione per ambe le parti, epperciò mentre
ammiro il bacio unico e speculativo delle vedove, batto le mani ai
mille che si danno i giovani amanti; e che Dio gliela mandi buona!

L’amore non si discute, o si sente, o non si comprende, e Pomponio che
lo sentiva molto fortemente, non indugiò gran fatto ad assecondare il
desiderio del padre.

Senza tanti arzigogoli, saltiamo ancora un mesetto, e gli sponsali sono
fatti.....

                             . . . . . . .

Qui lascio una lunga fila di puntini che danno fede della mia
verecondia nel non voler sollevare il velo di una soavissima luna di
miele.


Il sole entra in Capricorno.

«Datemi un punto d’appoggio, ed io vi metto sossopra il mondo» — Così
disse il matematico di Siracusa; ma niuno meglio di lui sapeva di
domandar l’impossibile.

Ormai si sa per lunga esperienza che tutto ubbidisce a certe leggi
inalterabili della natura. Chi nasce cavolo non morrà garofano; e le
tendenze degli uomini per far che si faccia non si ponno violare.

Non mi si venga fuori coll’onnipotenza dell’educazione, giacchè per
conto mio domanderei l’abolizione del vocabolo onnipotenza il quale
esprime una cosa che non esiste.

È provato che Dio stesso non può essere onnipotente perchè non saprebbe
fare un circolo quadrato, dunque restiamo d’accordo che le tendenze
insite nell’uomo sono immutabili. Anche la luna di miele subisce come
tutte le altre le sue fasi di decrescenza, colla sola diversità che
quando è tramontata non ritorna più mai sull’orizzonte. Luna fatale!

Il suo splendore durò poco per Pomponio, che dopo qualche mese cominciò
ad abituarsi alla felicità, e poscia se l’ebbe di peso.

La vedovella avea dei piccoli grilli, le piaceva d’esser corteggiata,
voleva feste, teatri, balli e con che cuore poteva Pomponio presentarsi
in pubblico, senza essere nemmeno cavaliere! Ecco il tarlo che rose le
sue gioie coniugali.

L’amore aveva assopito solo per poco lo stimolo dell’ambizione, ma
passato il fuoco dell’entusiasmo per la moglie, Pomponio ricadde nella
sua cupa malinconia.

Con grandissimo rammarico leggeva giornalmente quel foglio malvaceo
che è la _Gazzetta Ufficiale_, e ad ogni nuovo cavaliere annunziato il
poverino si sentiva come stretto al cuore.

Oh la croce, egli la voleva, la sognava, e frattanto la sua dolce metà
gli ne faceva portare una e ben grossa.

Debbo dirlo perchè si disse, ma io dichiaro come al solito che non
credo alle ciarle del mondo. La vedovella convinta d’aver sposato un
baggèo, pensò tosto a darsi buon tempo. I sogni ambiziosi del marito
le davano agio a fare ciò che le piaceva, e siccome le piaceva un
ufficiale di cavalleria, si lasciò spesso accompagnare da costui al
teatro, al caffè, e si disse perfino d’averli veduti in una strada di
campagna....

Siamo d’accordo che cotesta è un’altra infamia del mondo che vitupera
l’innocenza, ma prima di condannare addirittura il mondo, è bene
riflettere come talvolta egli non abbia tutta la colpa de’ suoi errori.

La mia nonna, buon’anima, mi diceva:

— Figlio mio, la maldicenza è come un lago, se tu vedi il tranquillo
specchio che si turba, è segno che vi è caduto dentro il sassolino. Al
fondo di tutte le dicerie, c’è sempre un po’ di vero.»

Non voglio certo disconoscere i savii ammaestramenti di quella buona
vecchia, ed ogni qualvolta sento il mondo che mormora, mi rammento
sempre la storia del sassolino.

Insomma pigliatela come si trova; se è vero che l’ufficiale se
la spassasse romanticamente con Allegra, ci avrà trovato la sua
convenienza. In questi casi è prudente sposare la gran massima che
dice: le colpe della moglie sono colpe del marito. Tiro innanzi.

Lo sventurato Pomponio struggevasi per ambizione, e dopo appena sei
mesi di matrimonio non era più riconoscibile; era sempre preoccupato,
distratto, come un banchiere alla vigilia del fallimento. La gente
pensava che ei la facesse da uom di spirito, e taluni vedendo che la
sua fronte andava facendosi più ampia per lo sfrondarsi dei capelli,
osservavano malignamente com’egli covasse qualche protuberanza al
cranio.

Ma la provvidenza è grande, e non tardò a sorridere a Pomponio
prendendolo sotto le sue pietose ali.

Se vi ricordate, quando la moglie di Pomponio era vedova (Dio che giro
di parole!) godeva la protezione di un cugino alto-locato. Costui ebbe
una parte attivissima in quel matrimonio, aveva fatto dei grandi regali
alla sposa, e quando ella stava per lasciar Firenze ei chiese licenza
al marito di darle un bacio.

Era una cosa innocentissima, e se vogliamo anche un onore per Pomponio.

D’allora in poi Allegra mantenne sempre un discreto carteggio col
cugino di Firenze, ed un giorno ricevette da lui una lettera in cui
le notificava la sua nomina ufficiale ad un consolato estero. Inoltre
per _post-scriptum_ eravi che appena sbrigati alcuni affari, egli
passerebbe a salutarla prima d’abbandonar l’Italia.

Allegra comunicò la lieta novella a Pomponio, il quale sentì slargarsi
il cuore per la gioia. È facile comprendere che un barlume di speranza
era riapparso nell’animo suo, facendo egli gran calcolo sull’influenza
del cugino diplomatico.

Una sera stando chiuso nella camera da letto e mentre la moglie già si
spogliava, Pomponio prese a dire:

— Senti Allegra. Se viene il cugino bisognerà pensare a dargli un
conveniente alloggio.

— Certo.

— Non si canzona mica un personaggio così.

— Oh, disse la moglie, non pigliarti tanti fastidi, già lo sai, egli è
fatto alla buona.

— Tutto va bene, ma bisogna fargli l’onore che si merita. Si fermerà
molto?

— Chissà! Secondo l’urgenza, può darsi anche che non si fermi più di un
giorno.

— Ne sarei dolentissimo.

— Ed io pure, è tanto tempo che non lo vediamo!

— Tanto più, mormorò Pomponio, tanto più che aveva un certo progetto in
mente...

— Che progetto?

— Oh Dio, un’inezia, massimamente se tu t’impegni in mio favore.

— Puoi dubitarne! Di’ pure.

— Già lo sai, Allegra mia, io sono piuttosto ambizioso.... tutto per
te; mi piacerebbe farti fare bella mostra nel mondo. Non già che io ci
tenga gran fatto a corte cose, sono minuzie, tuttavia non si può negare
che un titolo fa sempre qualche effetto in società.

— Ma spiegati meglio, sclamò Allegra piantando due occhioni addosso al
marito.

— Ecco... cioè, il cugino è molto influente al ministero, e se mercè il
suo intervento potessi guadagnarmi una croce...

— Ah! vorresti esser cavaliere!

— Ecco, rispose Pomponio, ed arrossì fin sulla punta del naso a tal
segno che la moglie se non rise fu perchè ebbe pietà di quella miseria.

— Per farti cavaliere occorre un titolo.

— Qual titolo migliore esser suo cugino!

Allegra si fece alquanto seria, e stette fissando di sottocchi il
marito che appunto allora si aggiustava la berretta da notte. Aveva una
figura stolida, messa assai bene in rilievo da una tinta di timidezza
che apparivagli ogni qualvolta si trovava in colloquio intimo colla
moglie...

— Dunque Allegra mia, hai pensato?

— La signora aggrottò le ciglia, guardò il marito con un’aria di
superiorità quasi sprezzante, e rispose seccamente con una sola parola
che poteva essere una rivelazione.

— Vedremo! — Io spero che non ti dirà di no... ti vuol tanto bene.

— Se dipenderà solamente da lui.

— Basta che ei lo voglia, è un affar fatto. La danno a tanti la croce e
si può ben compiacere un cugino. È da qualche tempo che ho quest’idea,
ma tu mia cara mi tieni in gran soggezione. Infine se sono ambiziosetto
è per te sola, capisci che se io sarò cavaliere tu diventi _donna_...

— D’altri, mormorò Allegra fra i denti voltando le spalle al marito che
poco dopo si addormentò sognando la realtà delle sue speranze.

Dopo tanto, sfido io il lettore se avrà cuore ancora di scagliar
la pietra su quella povera donna. È vano sofisticare sui doveri del
matrimonio quando trattasi d’avere alla cintola un marito di quella
fatta. Io sono sincero, e dico francamente che in simili casi come
in tanti altri metto le infedeltà coniugali nella schiera dei più
sacrosanti doveri.

Ognuno ha quello che si merita, ci vuole una testa apposta perchè vi
possano germinar le corna; e qui mi arresto con un’altra osservazione.
Le corna non mi sembrano troppo a proposito per raffigurare la
posizione sociale di certi mariti.

Oh perchè non mettervi invece delle corna le orecchie? Starebbero assai
più acconcie. Narra la favola che Atteone per aver veduto Diana al
bagno fu dannato a portar sulle cervice il blasone dei cervi... sin qui
sta bene, ma qui non ci trovo relazione col becco dei mariti. Atteone
s’ebbe le corna in pena d’aver visto, mentre i mariti le hanno appunto
perchè non ci vedono niente. Cito il fatto puro e semplice, ma per
conto mio me ne lavo le mani, e poichè ci vogliono le corna, prendo il
mondo co’ suoi usi, e tiro dritto.

— Mi preme unicamente di stabilire che madonna Allegra era quasi in
diritto, per non dire in dovere, di seminare sul capo del marito quei
nobili fregi. Veniamo al punto, cioè al giorno in cui doveva arrivare
il cugino. La fu una vera baraonda in casa di Pomponio, si trattava di
assegnare una camera degna dell’ospite, ed infine dopo discussi cento
progetti, Pomponio aderì a quello della moglie che volle il cugino in
una camera prossima alla sua.


La dabbenaggine alla prova.

Il cugino fu d’una esattezza diplomatica, ed arrivò proprio col
convoglio fissato.

Pomponio e la moglie erano ad aspettarlo, nè qui è caso di rimestare
tutte le galanterie del ricevimento.

Due righe per il ritratto del nuovo personaggio.

Era oltre la quarantina, ma pareva assai più giovane. Portamento franco
e spigliato proprio delle persone avvezze al vivere del gran mondo. Una
figura discreta, occhio penetrante; era insomma un bel uomo degno al
tutto di far capo ad una legazione.

Pomponio lo pressava lo stringeva fra mille gentilezze, e quando seppe
che il cugino si fermava qualche giorno in casa sua, non ebbe più
limite alla gioia.

Dopo cena il cugino si dichiarò stanco, e chiese di ritirarsi; Pomponio
lo accompagnò nella sua camera, e ritornando poscia alla moglie le
rinnovò la solita raccomandazione.

All’indomani il cugino non aveva ancora aperto gli occhi che si vide
parato innanzi Pomponio inchinevole e sorridente; a pranzo poi il
nostro diplomatico doveva schermirsi in mille modi per non fare delle
indigestioni. Era insomma una specie di tirannia esercitata a furia di
gentilezze, ma il cugino ne aveva a macca delle cortesie del marito,
tanto più che costui lo perseguitava siffattamente che non ci era
mezzo di abboccarsi da solo colla cugina. Si sa, i parenti hanno sempre
alcuna cosa a dirsi.

Allegra, vedendo che un tale stato di cose non poteva più oltre durare,
e pressata sempre dal marito per l’affare della croce, gli rispose un
giorno:

— Capirai, caro mio, che fino a quando tu starai ai fianchi del cugino,
non potrò mai aprir bocca. Non sono queste cose che si possano dire su
due piedi; lasciaci in libertà per qualche ora, e parlerò per te.

Pomponio non domandava di meglio, ed una sera, manifestando desiderio
d’andare al teatro, lasciò la felicenotte alla moglie ed al cugino e se
n’andò....

                             . . . . . . .

Lasciate o benevoli lettori, lasciate che io segni con tanti verecondi
puntini il colloquio intimo dei due cugini; se così non facessi verrei
tacciato di lesa morale.

Siamo in epoca rigeneratrice, tutti caricano la croce al povero
scrittore che per essere verosimile trovasi bene spesso costretto
a rivelare certe verità disgustose. Mio Dio! il vero non s’inventa,
epperò bisogna adattarsi e pigliarlo dov’è.

Infine vogliasi o no, tutto concorre al grande scopo umanitario e
riformatore, ed anche l’umile scrittore colla sua pietruzza qualunque
sia, porta il tributo all’immenso edifizio sociale.

È curiosa però cotesta sete di morale che invade il nostro secolo
cadente, si direbbe che tende a purificarsi delle magagne riportate in
giovinezza. Ma ohimè! anche il concetto della morale che si sente oggi
è puramente una smania della moda, e più spesso la cuccagna di tanti
filosofi moralisti ad un tanto per pagina.

Oh perchè, signori miei, si pretende che lo scrittore pel primo entri
nella palestra per infarinarsi di un trascendentalismo sociale che
esiste nelle idee, ma non nel fatto?

La morale sarà buona se vera, ma finchè le generazioni proseguiranno
per questa via di lubriche costumanze, la parola dello scrittore sarà
buttata al vento.

È la moda! Giacchè la virtù va via sloggiando dalle nostre case
giacchè la corruzione entra per tutte le fessure, si pretende che il
senso morale resti almeno sui libri come se si volesse ingannare la
posterità.

Di questo passo la letteratura non sarà altro che un museo destinato
a custodire una collezione di ipocrisie che non sono per nulla
l’espressione dei nostri tempi.

La missione della letteratura non è tale; ella è di ritrarre e
correggere, non di simulare e mentire. Si pratichi la morale, si
facciano le buone azioni, ed allora lo scrittore avrà soggetti d’onestà
da studiare sul vero.

I libri d’un secolo sono lo specchio de’ suoi costumi......

Intanto, i puntini mi hanno fornito una digressione che m’ha tutta
l’aria di una predica, ma se a caso la pigliaste sul serio vi dirò per
scarico di coscienza: Fate quel che dico... non quel che faccio.

Il lettore non sarà certo così curioso da voler sapere quello che passò
fra i due cugini, e si appagherà di sentire le ultime parole di quel
colloquio.

Supponiamo che siano trascorse due ore dacchè li lasciammo soli...
Supponiamo quel che si vuole le argomentazioni sono libere; riferisco
le ultime parole.

(Allegra è un po’ commossa, il cugino fuma uno sigaro).

— Mia cara Allegra, tu sai se per farti un piacere mi lascio tanto
pregare, ma in questo caso mi trovo imbarazzato.

— Non intendo di crearti imbarazzi. Se tu potrai contentarlo mi farai
libera d’una gran seccatura. È un buon uomo, ma ha le smanie ambiziose.

— Del resto è proprio un buon uomo.... non è geloso.

— Niente, niente.

— Io, al suo posto, con una moglie come te...

— Eh, mi ricordo benissimo che eri terribilmente geloso.

— Te lo ricordi?

— Certo, non si dimentica sì presto un passato tanto bello.

— Davvero cugina, che quando ci penso, sento di aver perduto gran cosa.

— E non era forse in tua mano far sì che noi non ci separassimo mai più?

— Hai ragione Allegra, oh quanto me ne duole! Ora fra la rigida
freddezza degli affari, sento proprio il bisogno di avere al fianco una
persona affettuosa. Ti ricordi dei bei giorni che si passava insieme,
nella mia villetta fuori di Firenze?

— Ah! ci penso sempre.

— Fra pochi dì parto, e chissà quando ci rivedremo. Prima di lasciar
l’Italia, pagherei non so cosa per godermi ancora alcuni giorni di
felicità; ma ciò non è possibile, a meno di allontanare tuo marito....

Allegra non rispose, ma sorrise, ed il cugino corrugando la fronte
con quell’atto proprio delle persone avvezze al pensiero, si fece a
meditare in silenzio, indi come colpito da un’idea sclamò vivamente:

— Ah! l’ho trovata.

— Cosa? chiese l’Allegra fissandolo.

— Ho trovato il mezzo di far rivivere alcuno di quei bei giorni.

— In che modo?

— Ascolta: Tu dici che tuo marito farebbe qualunque cosa per
guadagnarsi la croce.

— Ne sono sicura.

— Si tratterebbe di farlo viaggiare sino a Firenze con una mia lettera
da consegnare al segretario di gabinetto. Forse, chissà, è probabile
che si riesca a crocifiggerlo.

— Ma ci vuole un motivo.

— Si troverà, lasciane a me la cura. Questa sera tu parli a tuo marito,
domani lo faremo partire...

Pomponio ritornando dal teatro, trovò la moglie già in letto, e mentre
calzava la berretta da notte, Allegra gli parlò del viaggio a Firenze
progettato dal cugino.

A tale annunzio, il baggeo si mise a saltare per la gioia, e ci mancò
poco se non corse in mutande a ringraziare il cugino. Si pose a letto,
ma non chiuse occhio, il viaggio per Firenze gli trottolava per la
mente togliendogli ogni quiete.

All’indomani si alzò per tempo, fece la valigia, abbracciò il cugino,
strinse la mano alla serva, diede uno scudo alla moglie, schiacciò
la gattina, ruppe un vetro, e dopo quel parapiglia, si avviò alla
stazione.

È gran cosa sentirsi gravato di un incarico diplomatico; la lettera pel
segretario, eccitava la vana gloria del suo portatore.

Non sembrava più il Pomponio d’una volta; il miserello era
ringalluzzito e posava proprio come un uomo d’affari.

E dire che di simili stolidi è ripieno il mondo.

Quando ci penso mi vengono i brividi, e mi persuado sempre più che
ormai si vive fra infiniti pericoli; accade di noi come dell’agnello,
che scappato dagli artigli dell’aquila, cade nell’ugne del leone.

Se non la si fa agli altri, gli altri la fanno a noi, e credo che alla
fin fine sia miglior consiglio prendere il bene dove si trova, come
Molière, e non curarsi del resto.

Guai a colui che ascoltando la voce degli scrupoli di coscienza si
lascia sfuggire la più piccola occasione di godersi la vita. Mentre tu
disputi per una cosa, un altro te la contende.

— Se tu osi, un altro ardisce, se desideri, un altro brama, un terzo
agogna.

Col progresso di cui è satura l’atmosfera, fa d’uopo essere risoluti e
pronti a tutto. Evviva il progresso!

Guardatevi attorno, e vedrete adolescenti che fumano la pipa e guardano
procacemente in viso alle signore.

Vedrete le giovani popolane attillate, profumate come tante marchese;
fantesche che fraternizzano colla truppa.

Vedrete delle coppie di sposi che sommano trent’anni in due, delle
civettone attempate, che invece di riconciliarsi con Dio si lasciano
corteggiare da uno sciame di studenti di primo pelo. La morale del
giorno non ha più scrupoli, e la si vede andar di conserva colla
più spudorata sfrontatezza, che con altro nome si chiama ardire...
coraggio.

Vedrete delle ragazzine sgusciate appena dal collegio che portano
ancora le gonne corte, e leggono gli amori del cavaliere di _Faublas_.
Le vedrete nascoste dietro le persiane in atto di agitare un fazzoletto
che a sua volta agita il cuore di un damerino che si stira i baffi
nella strada.

Varcate la soglia dei nostri _salons_, Dio mio! un moralista del
secolo passato cadrebbe come tocco dal fulmine. Ivi vedrete il sublime
dell’assurdo, la quintessenza del ridicolo, una mostruosità comica.
Vedrete là un turbine di donne spensierate, sciocche, pettegole,
impudenti che sotto l’artifizioso apparato di un’educazione ipocrita
ostentano una pudicizia sommamente ridicola.

Eppure le sono tutte oneste. Oramai questa santa parola esprime
tutt’altro che quel sentimento virtuoso che anima la donna. L’onestà
dei nostri giorni non impedisce ad una madre di mostrare le spalle ed
il seno a tutto il pubblico d’un teatro.

Ora si usa un certo modo di velare le membra che val peggio che
mostrarle; il velo è una specie di richiamo che simulando un onesto
pudore segna agli sguardi dei curiosi i misteriosi confini del vero.

Chiudetevi gli occhi, acciecatevi come il fringuello se volete cantar
l’amore anime candide dei poeti! Se voi vedeste queste beltà di
moda, queste damigelle discinte e spudorate, perdereste d’un tratto
il sentimento della poesia. Torcete lo sguardo da queste giovani
sacerdotesse d’amore che immolano il loro candore alla voluttuosa
tendenza dei costumi. Non potrete più sognarlo il seno d’una vergine, o
poeti! essa lo espone senza reticenze.

Quell’anima delicata del Tasso, non potrebbe più dire delle nostre
signorine:

    Parte appar delle mame acerbe e crude
    Parte altrui ne ricopre invida vesta;
    Invida, ma se agl’occhi il varco chiude,
    L’amoroso pensier già non s’arresta
    Che non ben pago della bellezza esterna,
    Nelle pieghe secrete anco s’interna.

Ma ci vuol altro che velo ai dì nostri! che parte! venite e vedrete
tutto senza usare il telescopio dell’_amoroso pensiero_.

Dopo tutto questo impasto di sciocchezze, vanità, spudoratezza, riesce
ben poca cosa la dabbenaggine d’un marito che si lascia civilmente
incoronare.

Per me lo confesso mi vien poca voglia di ridere al pensarvi, perchè un
giorno o l’altro potrebbe accadermi la stessa cosa, e chi mi legge, se
ha moglie, pensi due volte a casi suoi prima di ridere sulle spalle di
Pomponio.


Diplomazia dell’asino.

Madama de Staël nella sua CORINNA dice che la dissimulazione è
un’abitudine degli italiani. Per conto mio passo liscio su questa e
sulle tante altre sentenze tirate a nostro dosso, e dirò alla mia volta
come Cristo: Perdonate a coloro che non sanno quel che si dicano! Ma se
l’illustre scrittrice avesse incontrato il nostro Pomponio, si sarebbe
subito ritrattata, giacchè colui nonchè dissimulare, tradiva con ogni
moto la sua gran soddisfazione.

Aveva l’aria d’un avvocato dopo una gran vittoria, o meglio, d’un
deputato eletto a gran maggioranza.

Sdraiato in fondo al vagone guardava con occhio tenero il plico che
doveva consegnare al segretario. Chissà cosa contiene? pensava fra sè;
ma c’era tanto di suggello.

Non importa, anche ignorandolo, egli sentiva in cuore che la sua
missione era d’una grande importanza.

Oltre al far da procaccino il nostr’uomo aveva nientemeno che
l’incarico di ordinare i bauli del cugino, e metterli in via di
partenza; per ciò fare era munito di altre lettere particolari per le
persone di casa.

Non vi dirò nè le vicende del viaggio, nè la scossa generale che sentì
il poverino quando giunse alla meta.

La parola _Firenze_, urlata dai guardiani del convoglio, rintronò nel
suo cuore come una lontana profezia.

Scese ed andò diffilato dallo zio che lo accolse amorevolmente
offrendogli un’ospitalità che venne subito accettata.

Pomponio voleva subito ricapitare il suo plico diplomatico, ma il
segretario era fuori di Firenze, e dovette attendere alcuni giorni
che gli parvero secoli. Frattanto diede mano ad ordinare le robe del
cugino.

Dopo quattro giorni seppe dal portinaio che il segretario era
ritornato; Pomponio si avviò subito al ministero, e noi lo
sorprenderemo mentre appunto sale lo scalone degli uffizi.

Entrò in anticamera con molto sussiego, ma nessuno gli guardò in
faccia. C’era una turba d’uscieri gallonati ed eleganti sì che Pomponio
li scambiò per tanti personaggi importanti.

A dir vero alla vista della confusione che regna nell’anticamera
di un dicastero, il poverino cominciò a dubitare alquanto della sua
individualità.

Stava incerto e titubante osservando quella turba di servidorame, ma
non ardiva muovere domanda ad alcuno. Guardò per un po’ di tempo le
carte geografiche che stavano alle pareti, aspettando che qualcuno lo
interrogasse, ma nessuno curavasi di lui, ed egli continuava a guardar
le carte coprendosi le natiche col cappello.

Visto che non si badava a lui, fecesi animo ed azzardandosi
rispettosamente verso un usciere, chiese con voce flebile se il
segretario era nel suo studio.

— È occupato, rispose sbadatamente l’usciere.

— Dovrò dunque ripassare?

— Come vuole, se attende toccherà dopo a lei.

Pomponio inchinossi profondamente, e fece ritorno alle carte
geografiche. Era la prima volta che si occupava sul serio di geografia.

Dopo una mezz’ora lo stesso usciere andò ad avvisarlo che il segretario
era libero.

— Dunque vado.

— Dove?

— Nello studio.

— Favorisca prima il suo nome.

— Non serve, se vado io.

— Mi dica chi è lei, riprese bruscamente l’usciere, non si va mica in
uno studio come in una piazza.

— Perdoni, mormorò Pomponio inchinandosi.

In quel mentre si spalancò la porta, e vi entrò un nuovo personaggio;
tutti fecero ala rispettosamente. Era il ministro. Pomponio restò solo
come un salame.

Passato il ministro, l’usciere tornò a lui e gli disse con aria di
ridere:

— S’accomodi signore per un altro poco.

— Perchè?

— Perchè c’è il ministro.

— Dovrò aspettare ancora?

— Se nol volesse è padrone d’andarsene.

— Tornerò quando?

— Domani.

— Impossibile, ho una lettera di premura.

— La porti alla posta.

— Ma no, è una lettera pel segretario.

— Allora attenda, non so che dirle.

Di geografia Pomponio ne aveva abbastanza, e tanto per variare si portò
alla finestra per vedere la gente che passava.

Poverino! nella sua ingenuità eragli parso facilissimo l’accesso nello
studio di un segretario del ministro.

Dopo qualche riflessione cominciò a persuadersi della sua poca
importanza ed infine come tutti i caratteri deboli finì per credersi
meno di quello che era.

Tanto è vero che quando l’usciere lo avvicinò per la terza volta egli
lo ricevette con un grande inchino che tradiva tutta l’umiltà delle sue
intenzioni.

L’usciere in vederlo così alterato n’ebbe quasi compassione, e con un
pietoso sorriso gli disse:

— Se il signore vuol passare.

— Vado, rispose Pomponio confuso.

— Mi favorisca il nome.

— Ah sì sono il cugino.

— Del segretario!

— No, dell’ambasciatore.

L’usciere lo guardò bene in faccia credendolo pazzo, indi riprese con
stizza:

— Ma che cugino! che ambasciatore! ci capisco un accidente... il suo
nome.

— Pomponio.

— E quello di battesimo?

— Pomponio.

— Ancora? mormorò l’usciere sorpreso per la combinazione dei nomi,
intanto avviandosi di pochi passi aperse il gabinetto del segretario
gridando con aria di motteggio:

— Il signor Pomponio Pomponio.... cugino dell’ambasciatore.

Pomponio entrò tremante e confuso; il segretario stava passando alcune
carte, alzò gli occhi, salutò il nuovo arrivato accennandogli di sedere
e si rimise a leggere.

Lesse per lungo tempo, e non finiva mai, certo si era dimenticato della
visita.

Pomponio stette alquanto in forse e dopo mezz’ora di riflessione decise
di soffiarsi il naso.

Il segretario si volse adagio, e disse colla freddezza d’un uomo che ha
compreso:

— Oh, mille perdoni... ero distratto.

— No, no, faccia pure, rispose Pomponio tutto rosso, io ho tempo, non
s’incomodi... sono servo.

— Tante grazie. Se vuol dirmi in che posso servirla.

— Ecco, signore illustrissimo, io ho un cugino...

— Me ne rallegro.

— E lei lo conosce.

— Io? Può darsi, ma venga al fatto.

— Ho una lettera da consegnarle.

— Me la dia.

— Eccola, e Pomponio barcollando come un ubbriaco, trasse la lettera e
la consegnò al segretario che frattanto inforcava le lenti.

— Ah! ora capisco, sclamò costui, è Felice, ella dunque è suo cugino?

— Ho questa fortuna.

— Bene, siamo tanto amici.

— Me lo ripete sempre

— Compermesso, leggo.

Non voglio tener sulle spine il lettore e trascrivo la lettera tal
quale.

      «_Carissimo amico_,

  «Tu mi dicesti tante volte che anelavi ad una buona occasione per
  ricambiarmi di quel poco che io feci per te. Si presenta ora il
  caso di giovarmi, ma se ricorro a te non è, credilo, a titolo di
  quella riconoscenza che per un eccesso di bontà tu vuoi serbarmi,
  ma sibbene in nome di quell’amicizia che ci lega da tanti anni.

  «Latore della presente è il sig. Pomponio, marito di mia cugina
  Allegra, che tu conosci, epperciò mio parente.

  «È un uomo eccellente, una vera perla. Prima di partire per la
  mia missione al Belgio, sono qui venuto per salutare Allegra, ed
  ho ricevuto tante gentilezze, che per sdebitarmi, pensai di farne
  cavaliere il marito.

  «Il poverino non ha che questo desiderio, e mi raccomando a te mio
  buon amico per questa bisogna, tu solo sei in grado di compiacermi,
  e non dubito che ti porrai tosto in impegno.

  «Questo buon cugino, è una pasta di zuccaro, e se gli dai la croce,
  c’è in lui la stoffa da farne un fanatico.

  «Occorre dunque trovare un merito ad ogni costo, e mi raccomando
  a te, è affar tuo codesto, ne hai inventate tante per distribuir
  croci, e sono certo che non risparmierai fatica per farmi piacere.

  «Mi preme inoltre, che tu trattenga per qualche giorno questo caro
  cugino... non ti dico altro.

                                            «_Tuo affezionatissimo_
                                                           FELICE.»

Quand’ebbe terminato, il segretario alzò gli occhi su Pomponio, lo
fissò con un certo sorriso, indi accennandogli di sedere, sciamò:

— Dunque quel caro Felice è suo ospite?

— Sì signore, da qualche giorno.

— Peccato che lo perderemo per molto tempo.

— Peccato davvero.

— Capisco che ciò le farà dispiacere.

— Oh certo!

— Ed anche alla sua signora. Egli le fece si può dire da padre durante
la vedovanza.

— Oh, so tutto, rispose Pomponio ringalluzzito.

— A quanto mi dice suo cugino, riprese il segretario, guardandosi le
unghie, ella sarebbe uomo di grandi aspirazioni.

— È tanto buono quel Felice!

— Ha qualche professione lei?

— Nessuna.

— Qualche titolo?

— No! mormorò il buon uomo sospirando.

— Il suo aspetto mi promette bene.

— Oh, signore!

— Conta di fermarsi a Firenze?

— Appena sbrigati gli affari del cugino, parto.

— E quando ciò potrà essere?

— Spero domani.

— Senta, signor Pomponio... ho un progetto per lei, ma converrà
aspettar qualche giorno per saperne qualche cosa di deciso.

— Sono a sua disposizione.

— Non le nascondo che il sospendere la partenza le potrebbe giovare.

— Allora mi fermo, sclamò Pomponio con gioia.

— Benissimo, fra due giorni si lasci vedere al caffè di Parigi, verso
le sette di sera.

— Non dubiti, ci sarò.

Il segretario l’accompagnò fin sulla porta, e Pomponio se n’andò tutto
giulivo.


Apoteosi.

Quando io penso che tutti i giorni accadono di tali cose, mi vien
la pelle d’oca, e credo che il pessimismo dei celibi abbia qualche
fondamento.

Se volessi far tutto il mio dovere, non potrei dimenticare il cugino e
la moglie di Pomponio, ma più che la tema di esser tacciato di pigro,
la vince su me lo scrupolo della coscienza. Certe cose bisogna che il
lettore si sforzi a comprenderle per evitare a chi scrive la noia di
farsi delle violenze......

                             . . . . . . .

Io mi valgo ancora dell’eloquenza dei puntini, e mi limito a dire
che Dafni e Cloe, Castore e Polluce, Tirsi ed Amarilli, Paolo e
Virginia impallidiscono davanti a quell’idillio di Allegra e Felice;
combinazione di nomi!

Li abbandono alla loro felicità che trascorre rapida, e ritorno, a
Pomponio che lasciai ebbro di gioia per le vie di Firenze. La roba del
cugino era già tutta all’ordine, ma egli si tratteneva solo per sentire
la risposta del segretario.

Venne finalmente l’ora desiderata, e recatosi al caffè di Parigi
s’incontrò nel suo protettore che gli disse:

— Per ora nulla posso dirle, parta sicuro però, che non lo dimentico, e
consegni questa lettera al caro cugino coi miei saluti.

— Oh! qual onore, sclamò Pomponio.

— Dunque, buon viaggio, signore.

Pomponio intascò la preziosa lettera, fece una gran cappellata al
segretario, ed all’indomani col primo treno si mise in marcia per casa.

Arrivò felicemente, e dopo sfogati i saluti colla moglie, consegnò con
molta gravità la lettera al cugino.

Era un procaccino ammodo!

                             . . . . . . .

E qui tiro le fila del racconto, perchè ormai la stella di Pomponio
volge al suo massimo splendore.

Dalla lettera del segretario che qui trascrivo, ognuno può farsi
un’idea del resto.

      «_Caro Felice_,

  «È venuto da me il tuo Pomponio, ed ho fatto quanto di meglio per
  compiacerti.

  «Spero che sarai soddisfatto di me, e ciò mi valga la tua
  riconoscenza; avrei potuto prolungare le tue ore d’ozio, ma mi
  trattenne il pensiero che tu hai una grave missione da compiere.

  «Tuo cugino è proprio un buon uomo; circa al farlo cavaliere, mi
  adoprerò per quanto posso, prima di tutto per farti piacere, poi
  perchè un uomo di quello stampo si merita proprio una distinzione.

  «Tanti saluti per me alla tua cara cugina, _che ha ben meritato
  dalla patria_, e lascia che nello stringerti la mano, e nel
  complimentarti per la tua ventura, mi auguri di trovare io pure un
  Pomponio che sia Pomponio come il tuo amabile cugino.»

Il cugino partì pel suo destino, e qualche mese dopo Pomponio fu per
decreto insignito dell’Ordine Equestre; siccome le fortune, come le
disgrazie, non vanno mai sole, così un bel giorno Allegra regalò un bel
maschiotto al marito.

Vi furono dei maligni che credettero di trovare nel neonato qualche
rassomiglianza col cugino Felice, tanto più che c’erano delle date che
combinavano stranamente.

Perfido mondo!

Dopo tutto, Pomponio era al colmo della felicità, e portava l’insegne
all’occhiello. Negatemi ora la forza dell’istinto, e dite se quella non
fu UNA CROCE MERITATA!


  FINE DELLA CROCE MERITATA.




LEI, VOI E TU

  Elegante camera da letto con alcova, a sinistra caminetto con
  fuoco acceso. Una poltrona. A destra, porta che comunica cogli
  appartamenti. Più in là una finestra. Una porta di mezzo con
  vetriata che mette sul balcone. Tavolino da notte presso l’alcova,
  con sopra un libriccino legato. Sedie, ecc.


SCENA I.

LUIGI (_Entra per la finestra con precauzione_) ...... Dieci e mezza!
— Sono venuto a tempo. Quel birbo di giardiniere non si stancava di
starsene fuori. — È una vera notte di gennaio; fa un freddo indiavolato
(_guarda verso gli altri appartamenti_).... La marchesa non tarderà
a venire, e qui bisogna studiare un modo per farsi vedere senza
spaventarla — mi nasconderò dietro ad una cortina, eppoi.... no, non
c’è grazia in questa trovata (_pensa_). Ah! eccola. — Le scriverò
un biglietto (_straccia un foglietto dal porta memorie e scrive col
lapis_)... posiamolo qui (_sul tavolino da notte_)... accanto a questo
libro (_apre il libro_). L’Aminta... ecco per esempio un libro che
è quasi una rivelazione!... Aminta, un povero diavolo d’innamorato
che perde il senno per una smorfiosa pastorella... ci sono dei segni
in questi versi. — Una donna che prediliga il Tasso dovrebbe essere
espansiva.

Diamo un’occhiata al campo. — Quando verrà la marchesa io sarò là sul
balcone. — Dio! mi vien freddo al solo pensarvi; gela del più buono. —
Questa porta mette nelle altre camere, e non c’è altra uscita. — Ecco
una camera onesta; anche la morale c’entra un poco nelle costruzioni...
ma intanto se si trattasse di scappare sarei fritto. — Viene
qualcuno... è lei! (_va sul balcone e chiude_).


SCENA II.

LA MARCHESA (_entra pensosa_). Io vorrei sapere chi sia quel saggio che
disse pel primo essere la donna una creatura debole! — Senza vantarmi,
ora che sono sola posso dirlo a me stessa, se quel tale si fosse
imbattuto in una donna quale io mi sono, avrebbe fatto eccezione. — Da
due anni che sono vedova, me la spasso liberamente e godo in vedere
questi _animali_ del sesso forte che si avvicendano a farmi proteste
d’amore senza che io prenda mai sul serio una parola (_si disadorna_).
Per me, a dirla vera, ci credo tanto agli uomini quanto agli spiriti...
E sì che fra i miei corteggiatori ve n’ha di quelli che si meritano
qualche riguardo; ma quando vengono ai soliti slanci sentimentali mi
prende gran voglia di ridere. — Già tutti usano le stesse frasi, e ciò
riesce sommamente ridicolo — tutti compagni.

Per esempio, sarà follia, se fossi capace di qualche debolezza,
sarei portata per quel signor Luigi.... signor Luigi!... che povero
titolo!... non un grado, non una distinzione; eppure, se voglio
esser sincera, quei suoi modi franchi ed eleganti, quell’aria sempre
gioviale, quel fare senza affettature, mi va a genio. — Eppoi è uomo
di molto spirito; il più brillante de’ miei conoscenti... eppure non
mi ha mai corteggiata. — Cioè, è innamorato di me, ma non mi fa quelle
smorfie, e non mi lascia tempo di ridere del suo amore, giacchè ne
ride egli prima.... Fa tutto contrario degli altri. Figuratevi, la
settimana scorsa lo invitai ad accompagnarmi al teatro — più di cento
avrebbero accettato con gioia, egli si rifiutò perchè aveva impegno
per una partita a scacchi colla zia. — Questa sera si festeggiò il mio
onomastico, ed io mi sono vendicata rifiutandomi di invitarlo. Dio,
com’era in collera! giurò persino che sarebbe venuto a mio dispetto, ma
gli mancò il coraggio. C’era ordine alla porta di non lasciarlo passare
(_vede il biglietto sul tavolino_). Che è ciò? (_legge_) «_Signora
Marchesa, voi mi chiudeste la porta di vostra casa, ed io passai per la
finestra. Sono sul balcone, ed aspetto i vostri ordini_.»

                                                             «LUIGI.»

(_Indignata_). Oh! quale arditezza! ma io chiamerò gente (_riflette_)
no, non va bene.... nascerebbe uno scandalo. Ah, signor Luigi, voi
siete sul balcone con questo gelo, eccovi punito, stateci tutta la
notte (_chiude col catenaccio_). Ora sono sicura. Cioè, non mi metto
certo in letto; leggerò qui accanto al fuoco, e domani lo troverò
gelato (_siede sulla poltrona_). La è però una crudeltà; poverino, fa
un freddo dannato.... ebbene, se ne vada per la strada che è venuto.
Ma ora che ci penso, di là non c’è mezzo a discendere, non vi è il
pergolato sotto. Dunque resti, per me ci penso punto, faccia il suo
comodo e buona notte (_pausa_). Infine che vuole? cos’è venuto a far
qui?... Mio Dio! mi prende rimorso; potrebbe morirsi pel freddo. — Per
carità, è meglio aprire, e farlo ridiscendere dalla finestra (_va verso
il balcone_), mi tremano le mani. Ah, prima chiudasi questa porta che
mette nelle stanze di mia cognata; potrebbero sentirlo (_chiude l’uscio
a destra, poi apre il balcone_). Signore! venga fuori, e se ne vada
per dove è venuto (_siede sulla poltrona voltando le spalle a Luigi che
entra_).

LUIGI (_entra lentamente, rinchiude la vetriata e resta indietro_).

MARCHESA (_senza voltarsi_). Dunque, signore, se ne va, oppure debbo
farlo accompagnare da’ miei servi?... non risponde nemmeno? ha forse la
lingua gelata?

LUIGI. Eh! ci manca poco.

MARCH. Si sbrighi, apra la finestra, e buona notte. Fortuna per lei che
non ha trovato una donna di cuor duro.

LUIGI. Ci aveva contato prima sul suo buon cuore.

MARCH. Non ascolto verbo, vada via.

LUIGI. Ma prima... mi permetta...

MARCH. Signore! Io mi meraviglio di lei. Che fosse ardito, lo sapeva,
ma sino a questo punto... (_sempre senza voltarsi_).

LUIGI. Per carità, marchesa, non si alteri, ne avrei troppo dolore. Lo
depongo qui sul tavolo?

MARCH. Che cosa?

LUIGI. Il mio mazzolino che le offro pel suo giorno onomastico. Le pare
che io avrei potuto lasciarmi sfuggire una sì bella occasione senza
darle prova del mio profondo rispetto?

MARCH. Ah! ella intende darmi prova di rispetto passando per la
finestra?

LUIGI. Il rispetto si esprime come si può. Per la porta non c’era il
passo libero, e sarebbe stata dal canto mio una grave mancanza quella
di non rimediarvi alla meglio.

MARCH. Ho capito. Ora può andare.

LUIGI. Signora marchesa, non mi faccia quest’affronto; accetti i fiori
di mia mano, poi me ne vado. Poverini sono intirizziti.

MARCH. No. Le ho detto d’andare, e badi che se indugia ancora chiamo
gente.

LUIGI. Se avesse quest’intenzione l’avrebbe già fatto; ma ella è tanto
buona.

MARCH. Eppure le ripeto che...

LUIGI. Non si faccia cattiva; io non ci credo; tanto è vero che ella ha
persino chiuso quella porta.

MARCH. (_con stizza_). Ah!...

LUIGI. Dunque? (_con preghiera_).

MARCH. Dia qui quei fiori.

LUIGI (_avanzandosi lentamente_). Eccoli.

MARCH. Presto.

LUIGI. Gli è che non posso camminare, ho le membra irrigidite dal gelo.

MARCH. (_voltandosi a guardarlo_). Mio Dio, com’è stravolto!

LUIGI. Lo credo... se restava là un altro poco, era finita.

MARCH. (_con premura generosa_). Oh! mi perdoni, signore, sono una gran
trista! (_lo fa sedere sulla poltrona_).

LUIGI (_riscaldandosi al fuoco_). Grazie, signora marchesa, il cielo vi
restituisca altrettanto.

MARCH. (_ironica_). Spero che non ne avrò di bisogno, perchè certo non
vado ad arrampicarmi per le finestre come...

LUIGI. Come un furfante. Dica pure, signora. Ma io ho una gran
giustificazione.

MARCH. E sarebbe?

LUIGI. Sarebbe che io son venuto qui a cercare della cosa mia.

MARCH. Il giudizio forse?

LUIGI. Cerco la mia testa che si ostina a gironzarle intorno.

MARCH. Questo sarebbe un confessare che ella è senza testa. A lei,
eccole il mio Album, cerchi, e se la porti via.

LUIGI. Scusi, ma la mia testa non ci può stare lì dentro.

MARCH. Perchè? ce ne sono tante d’altri.

LUIGI. Saranno teste piccole.

MARCH. Certo la sua è più grossa; c’è tanto fumo!

LUIGI. È tutto quello mi resta del mio amor proprio.

MARCH. Basta; ora che si è riscaldato, spero che se ne vorrà andare.

LUIGI. Io, no certo.

MARCH. Oh!

LUIGI. Non già che io voglia, è lei che mi manda.

MARCH. Come le aggrada.

LUIGI (_alzandosi_). Se debbo dir il vero non avrei mai sperato di
trovare tanta indulgenza; ho scoperto in lei una dote superiore a
quella già grande della sua bellezza...

MARCH. Sentiamola.

LUIGI. La generosità.

MARCH. Ma siccome non bisogna dare negli eccessi, così nel ringraziarla
tanto della sua bontà, la prego di andar via.

LUIGI. Lo vuole proprio?

MARCH. (_affettando serietà_). Signor Luigi! se io non la conoscessi
per originale, direi che ella è...

LUIGI. Animo, me lo dica su.

MARCH. Un pocolino temerario...

LUIGI. È un sistema che adotto; dicono che così facendo s’incontra
fortuna colle donne.

MARCH. Questa volta però...

LUIGI. Fui fortunatissimo, perchè mi trovo qui a quest’ora, solo, colla
più amabile fra le donne.

MARCH. Ella si schermisce a complimenti.

LUIGI. Faccio come il cane, il quale lambisce la mano che gli tira le
orecchie.

MARCH. Ecco, per esempio, una similitudine mal trovata.

LUIGI. E perchè? l’atto di mandarmi via è per me assai più che tirarmi
le orecchie, e per conto mio le giuro che accetterei di restar qui
tutta la notte anche a costo di pagar domani la mia felicità colla
vita.

MARCH. Va bene.... ho capito, ma vada.

LUIGI. È troppo giusto. Signora marchesa, i miei rispetti. Ridiscendo
dalla finestra, come i gatti. È il caso di dire che l’amore invece
dell’ali, mi ha dato QUATTRO GAMBE (_verso la finestra_). Dunque buona
sera; mi perdoni l’audacia, e se domani sentirà dire che io fui trovato
morto sotto le sue finestre, pensi pure che mi sono scavezzato il
collo.

MARCH. Via, signore, non faccia pompa di eroismo. Scommetto che c’è una
corda alla finestra.

LUIGI. La signora s’inganna... venga a vedere.

MARCH. (_dopo aver guardato_). E come farà?

LUIGI. Mi provo.

MARCH. E se ruzzolasse abbasso?

LUIGI. Pazienza! siamo tanto in alto, che non avrei tempo di pensarci
sopra.

MARCH. Signore! Ella ha voluto rendermi complice di qualche disgrazia!

LUIGI. Starebbe a lei prevenirla.

MARCH. Allora scenda come può; già infine tutto è commedia; avrà preso
le sue precauzioni.

LUIGI. Le giuro che no, tanto è vero che era disposto a morir di freddo
sul suo verone. L’ho scritto nel mio biglietto.

MARCH. Nego. Sul biglietto non vi è nulla di tutto ciò.

LUIGI. Guardi meglio.

MARCH. (_riprende il biglietto_). Ecco qui. Non c’è altro.

LUIGI. Ma volti. (_legge_) «_Comprendo benissimo che la mia è temerità
eccessiva; se vorrà punirmene, mi lasci fuori per tutta la notte, e
colla presente, scritta di mio pugno, l’assolvo da ogni responsabilità
qualora diventassi sorbetto_.»

(_La marchesa resta sopra pensiero_). Dopo tutto, signora, mi sembra
d’essere stato poco indulgente con me stesso.

MARCH. Sì, ma infine avrebbe picchiato per farsi aprire.

LUIGI. No certo. Anzi, se madama la marchesa lo desidera, ritorno sul
verone, e vi starò a suo piacimento. Dal canto mio sarò ben lieto di
scontare un poco il mio peccato.

MARCH. Manco male che ne conviene.

LUIGI. Certo! e se mi fosse lecito proclamerei ai quattro venti la sua
grande indulgenza.

MARCH. Badi, signore, che non mi merito questa _réclame_, tanto è vero
che la costringo a scendere dalla finestra.

LUIGI. E che perciò? Ella fa il dover suo.

MARCH. Tuttavia se le accadesse qualche malore ne sarei desolata.

LUIGI. Grazie, bella marchesa! le sue parole mi danno coraggio.
Scenderei dalla luna per farle piacere. Però, una preghiera. Io scendo,
ma può darsi che invece precipiti, ed allora... felice notte.

MARCH. Ebbene?

LUIGI. Ebbene, mi rincrescerebbe passare all’altro mondo senza esser
certo del suo perdono.

MARCH. È perdonato.

LUIGI. Desidero altro, un bacio su quella graziosa manina.

MARCH. Oh!

LUIGI (_con grazia_). È la preghiera di un morente!

MARCH. (_tende la mano_). A lei (_Luigi la bacia, ma mentre fa per
andarsene ella lo trattiene serrando la mano_). Peraltro, signor mio,
non riesco a comprendere la cagione di questa sua eccentricità. Per
portarmi i fiori? non valeva la pena d’arrischiarsi a tanto.

LUIGI. La signora marchesa mi permetterà di tacere — preferisco scender
subito.

MARCH. Si tratta forse d’una scommessa?

LUIGI (_serio_). Signora, aveva pur detto d’avermi perdonato, ma quel
suo pensar così male sui miei propositi, mi addolora.

MARCH. Dunque dica su.

LUIGI. Signora, no. Se entro nella via delle confidenze ridivento
colpevole. Eppoi l’ora è tarda. Ella avrà forse bisogno di riposo.
(_Notisi che qui parla maliziosamente, e fingendo una riserva che non
ha)_.

MARCH. Chissà! forse non ci penso ancora, passerò qualche tempo
leggendo; anzi, se ella avesse qualche storiella in pronto, così tanto
per impiegare una mezz’ora...

LUIGI. E poi?

MARCH. Poi studieremo un mezzo per farlo scender con minor pericolo.

LUIGI. Accetto di cuore.

MARCH. Allora s’accomodi... racconti ed io lavorerò un poco. (_La
marchesa occupa la poltrona, Luigi siede presso di lei_).

LUIGI. Signora marchesa, io sono franco, e le dico sinceramente che se
domani dovessi morire, non mi lamenterei.

MARCH. Lo credo io, non ne avrebbe più il tempo.

LUIGI. Ah! mi dimenticava che ella è materialista.

MARCH. E lei?

LUIGI. Una volta lo era io pure, ma mi sono corretto; ho cambiato
dottrina.

MARCH. Evviva la fede.

LUIGI. Non mi parli di fede, tutto è convenzione a questo mondo; si
giudica sempre dal punto di vista delle convenienze.

MARCH. Se ne avessi il tempo, mi proverei a convertirlo.

LUIGI. Lo tenti, ma sarà fatica sprecata, ed anzi in questo momento mi
persuado viemmeglio delle assurdità del materialismo.

MARCH. Mi dica in grazia, perchè ha cambiato bandiera?

LUIGI. Non è cosa agevole il dirlo, ma quello che sento alla vista del
bello mi esalta, mi commove, e certo la materia non ha tanto potere.
Oh! io mi meraviglio altamente che ella non creda nell’ignoto! ma si
guardi, signora marchesa, si guardi nello specchio, cerchi ne’ suoi
occhi pieni di fuoco, e mi neghi se lo può la potenza del fascino. Io
poi che la vedo nel suo insieme, io che in guardarla mi sento acceso
d’entusiasmo non posso porre in dubbio l’esistenza di quell’anima
che si cela sotto forme sì vaghe; non posso negare che vi siano degli
angioli, se me ne vedo davanti uno tanto bello.

MARCH. (_con fino motteggio_). Molto bene. Ella si serve di tutto per
venire allo scopo. — Ha spezzato una lancia contro il materialismo per
farmi un po’ di corte.

LUIGI. No, proprio davvero, non c’entra la premeditazione; egli è nella
foga di parlare che mi sono tradito.

MARCH. Poverino, si è tradito! — Ella fa gran sfoggio d’ingenuità, ma,
caro mio, gli ingenui non vanno in casa delle signore passando per le
finestre.

LUIGI. Madama la marchesa si dimentica che per me la porta era chiusa.

MARCH. Eravi forse necessità di venir stassera?

LUIGI. Certo, passata la festa si spegne il moccolo, dice il proverbio,
domani era tardi per portare i fiori.

MARCH. Non era un gran male!

LUIGI. Comprendo benissimo che il mio omaggio è per lei cosa di poco
conto, e che altri migliori di me si meritano preferenze, tuttavia,
anche colla certezza di essere tenuto fra gli ultimi, non sarei stato
meno colpevole lasciandomi sfuggire l’occasione per dimostrarle che la
mia devozione per lei è tanto grande, quanto la sua degnazione per me.

MARCH. Signor Luigi! io non credo d’averle mai dato diritto ad un
rimprovero così acerbo. Se a mostrarsi sinceramente amica si guadagna
il compenso di essere mal compresa, ne sono dolente. — Ella non è per
nulla l’ultimo fra i miei amici, anzi se mi fosse lecito far delle
distinzioni, ne farei a suo riguardo. Lo sa più di quanto io possa
provarglielo. La mia condizione m’impone dei riguardi che io debbo
subire rassegnata, epperciò quando incontro un amico sincero, mentre
col cuore gli sono gratissima, debbo però usare seco lui quel fare vago
che non desta sospetti o maldicenze. Sa pure che io voglio mantenere
assoluta la mia libertà d’azione. Ho i miei capricci e dubito molto
degli uomini; sono vedova e voglio godermi in pace la vita; ma ciò non
impedisce che io possa degnamente apprezzare un sentimento d’amicizia
vera ed affettuosa. Ella dunque, signor mio, è un ingrato; perchè sa
tutte queste cose senza che io mi sforzi a provargliele, eppure si
diletta a metterle in dubbio.

LUIGI. In fede mia, ella ha tutte le ragioni (_stringendole la mano_).
Sono proprio un ingrato, giacchè se è vero che posseggo un poco della
sua amicizia, ho assai più che non mi meriti.

MARCH. Così va bene.

LUIGI. A dirla franca, mi pareva che il barone Calani occupasse un
posto distinto.

MARCH. Oh! Cielo, mi fa una corte ostinata, non trascura nulla, dai
mazzolini parlanti ai confetti colle cartoline amorose; ma io non sono
tanto ingenua da cader nelle reti per sì poco.

LUIGI. E quel marchesino?

MARCH. Mio cugino? Colui mi fa il galante colla certezza d’averne
diritto. È mio parente, e lo tratto come tale. Del resto è una creatura
molto noiosa.

LUIGI. Il conte Pollini però è uomo di spirito, e mi sembra degno di
occupare una sedia chiusa.

MARCH. Sì, il conte è meco molto amabile, ma anche lui ha il suo
difetto. Si figuri che dice di sognarmi tutte le notti, o colle corna
da diavoletto, o colle ali d’angelo.

LUIGI. E lei ci crede.

MARCH. Può chiedermelo? non credo agli uomini quando son desti, dovrei
fidarmi se dormono?

LUIGI. Peccato!

MARCH. Perchè mai?

LUIGI. Aveva io pure un sogno da raccontarle.

MARCH. Dica, sentiamo, per lei faccio un’eccezione.

LUIGI. Ma non crede?

MARCH. (_ironica_). Altrochè! e ci punterò sopra cento lire al lotto.

LUIGI. Allora ritiro il sogno; ma badi, signora marchesa, i sogni sono
rivelazioni divine, Giuseppe salvò l’Egitto.

MARCH. E lei sarebbe un nuovo Giuseppe?

LUIGI. Signora no, per quanto poco ci tenga al mio carattere d’uomo,
pure le confesso che non sarebbe necessario di lacerarmi il mantello
per trattenermi.

MARCH. Peccato che le manchi l’occasione.

LUIGI. Si provi lei a prendermi per i panni.

MARCH. (_alzandosi_). Invece la storia è alquanto modificata; madama
Putifarre manda via Giuseppe.

LUIGI. Dunque non vuol saperne del mio sogno? Ella è una donna senza
fede.

MARCH. Tutt’altro! di fede ne ho molta, quella che mi manca è la _buona
fede_.

LUIGI. Ecco una graffiata che non mi merito. Mandarmi via sta bene,
ma così bruscamente... Se non racconto il mio sogno, non morirò
tranquillo.

MARCH. Me ne rincresce tanto, ma la è proprio così.

LUIGI. In guardia, signora marchesa! questa sua repentina risoluzione
potrebbe contraddirla alquanto su quella indifferenza che vanta tanto.

MARCH. Vale a dire?

LUIGI. Vale a dire che mandandomi via ella confessa in certo modo che
la mia presenza le desta un po’ di turbamento.

MARCH. Oh! questo poi no. Ma ella è un gran briccone, e mi costringe a
darle prova del mio sangue freddo. Animo ritorni qui, e mi racconti il
suo sogno.

LUIGI. Così va bene! (_si siedono ancora_).

MARCH. Racconti pure.

LUIGI. Eccomi (_tossisce_), prima di tutto, dichiaro che trattandosi di
un sogno io non ci ho nessuna responsabilità. Quando si entra nel regno
di Morfeo, bisogna adattarvisi alla meglio.

MARCH. Questa è la prefazione.

LUIGI. Se la signora marchesa sel ricorda, pochi giorni sono, mi invitò
a scrivere dei versi nel suo album.

MARCH. (_con intelligenza_). Ah! sì.

LUIGI. C’è una strofa infine che dice:

    Talor sognando appagasi
    La brama che mi strugge,
    Mi desto allora... ahi misero!
    Il labbro tuo mi sfugge.

MARCH. (_sorridendo_). È una petizione quella poesia.

LUIGI. Quasi. Oh i poeti sono ben pazzi!

MARCH. Con tutta modestia ella si mette fra i poeti?

LUIGI. Mi permetterà almeno di stare fra i pazzi.

MARCH. Non lo contesto.

LUIGI. Il mio sogno s’attacca a quei versi. Si figuri che una notte
ella venne in casa mia, proprio nella mia camera. Io me ne stava al
tavolo leggendo il _Faust_ di Göethe, e vagolava colla mente per la
notte _Classica di Valburga_ sui campi di Farsaglia, e nei gorghi
dell’Egéo fra sirene, najadi, _sfingi_ e _gnomi_, quando ad un tratto
vidi proprio lei, signora marchesa, comparirmi innanzi... bella, bella
come Elena, avvolta in una lunga veste bianchissima. In vederla io
rimasi sorpreso, confuso, elettrizzato, e tratteneva il respiro per la
tema di turbare la dolce visione. Vi fu qualche minuto di silenzio per
ambe le parti, finalmente l’ombra sclamò con voce delicata:

«Signor Luigi, siete uno sciocco.»

MARCH. Aveva dello spirito quell’ombra (_ride_).

LUIGI. Era la vostra, poteva esserne priva?

MARCH. Continui pure.

LUIGI. Perchè? chiesi io, e l’ombra rispose:

«Perchè non avete coraggio; da un anno mi fate la corte, e non sapeste
trovare un momento buono.

«Ma, risposi io, marchesa mia, voi avete un’antipatia marcata per gli
uomini... diceste voi stessa di non creder più all’amore.

«Sono cose che si dicono, soggiungeste voi (_fingendo d’essersi
sbagliato_). Oh! perdono m’imbroglio, mi lasci che le dia del voi, sarò
più libero nella parola.

MARCH. Fate pure.

LUIGI. Signora marchesa, se io sapessi... se potessi... dunque vi do
del voi?

MARCH. Sentiamo cosa rispondeste all’ombra.

LUIGI.[1] Balbettai qualche parola, e poi facendomi animo sclamai: «Ma
io, cara marchesa, sono timido, non so dirvi l’animo mio... non l’oso;
voi avete delle tristi prevenzioni sugli uomini. D’altronde posso io
aspirare ad un vostro sguardo?... voi il fiore della nobiltà, voi così
bella, così vagheggiata, non trovereste neanche un sorriso di pietà
pel temerario che ardisse alzare gli occhi sino a voi. — Infine io
riconosco troppo bene la distanza che ci separa; voi mi stimate assai,
ma io valgo poco, perchè indegno della vostra amicizia come della
vostra stima, oso di volervi un po’ di bene, ed alimento in me una
passione insensata.»

MARCH. Per fortuna che siete timido... del resto chissà dove vi sareste
fermato.

LUIGI. La timidezza è il mio debole; sognando ho del coraggio, ma
quando vi sono vicino mi manca l’animo di aprir bocca.

MARCH. Allora continuate a sognare.

LUIGI. Quando ebbi finito, stetti aspettando una severa risposta; ma la
vostra ombra invece mi si appressò, e mi stese la mano che io baciai
sclamando: «Oh! signora voi siete la creatura più buona che io mi
conosca. La vostra anima generosa chiude in sè una scintilla divina, e
beato quegli che ne saprà comprendere le segrete aspirazioni!»

MARCH. E l’ombra?

LUIGI. Mi rispose: «Vedete, Luigi, non sono poi quella ritrosa
indifferente che mi credevate. Ho del cuore io pure, tutto sta saperne
trovare la strada. Nata col retaggio di un nome che porta corona
di nobiltà; non mi inorgoglisco d’un titolo che sarebbe vano se non
fosse accompagnato da prodigalità di cuore e squisitezza di sentire.
— Io vi ho compreso benissimo, e voi che siete tanto timido, voi solo
meritate un poco del mio affetto, e sì dicendo.... (_esita_).... e sì
dicendo....

MARCH. Avanti.

LUIGI. Io non ci ho colpa, marchesa, è un sogno.

MARCH. Ma infine! (_durante il racconto la marchesa ricama sempre
affettando indifferenza_).

LUIGI (_con fare elegante_). E sì dicendo, si abbassò su me, ed io la
baciai in fronte.

MARCH. (_indifferente_). Eppoi?

LUIGI (_sorpreso_). E poi... mi sono svegliato.

MARCH. E l’ombra?

LUIGI. Sparita! — d’allora in poi mi punge il desiderio di realizzare
il mio bel sogno, e da un mese tento tutti i mezzi, tutti i sotterfugi
leciti per venire allo scopo. Mille volte dissi fra me: oggi vado da
lei e le dico: Signora marchesa, io ho bisogno di farvi un bacio, del
resto morrò... non dormirò più, non mangerò... Siate tanto buona da
concedermelo... fate conto di far limosina... ma quando sono qui, mi
trema il cuore, divento timido come uno scolaretto, e succede di me
come di quell’Olindo che

    Brama assai, poco spera, e nulla chiede.

MARCH. Ammiro la vostra timida riservatezza... gli ardimentosi mi vanno
poco a genio.

LUIGI. Dunque?

MARCH. (_fingendo stupore_). Dunque che cosa?

LUIGI. È proprio un sogno?

MARCH. E sarà sempre tale.

LUIGI. Insomma, signora marchesa, se tanti mesi d’un’amicizia
disinteressata, se una devozione rispettosa si meritano qualche
distinzione, lasciate che io deponga un bacio sulla vostra bella
fronte... eppoi discendo di botto dalla finestra, anche colla certezza
che ho d’ammazzarmi.

MARCH. Io non mi altero punto, nè mi offendo; so che la indiscrezione
degli uomini tocca il sublime, ma vi giuro che se anche foste lì per
morire di questa voglia, mi rifiuterei ugualmente (_sempre con fare di
motteggio_).

LUIGI. Infine, marchesa mia, per voi non la è la gran cosa! vi lasciate
baciar la mano da chi lo desidera.

MARCH. Ma nella mano ho le unghie, e graffio.

LUIGI. E non avete lì due occhi che straziano assai più.

MARCH. Ah! poverino, fate sforzi da Ercole per trovare una goccia di
spirito, ma in questo momento non siete in voi...

LUIGI. È verissimo, sono _in voi_.

MARCH. Ci manca il mio permesso.

LUIGI. Non ne abbisogno, io sono nel mio diritto. La chiesa dice: _Non
desiderare la donna d’altri_, ma voi siete di nessuno. Siete vedova,
che è quanto dire in disponibilità.... dunque posso arrischiarmi.

MARCH. Bevete del papavero e sognerete ancora.

LUIGI. Signora marchesa, la vostra ombra è un po’ più arrendevole.
Infine poi non vi ha nulla di male in quello che chieggo. Un bacio
sulla fronte ha del paterno.

MARCH. Avrei un padre molto scapestrato.

LUIGI (_con qualche stizza_). Oh! sogno traditore! se non fosse troppo
vecchia la cavata esclamerei: (_comicamente_) Perchè mi risvegliai!?

MARCH. Davvero che se esamino bene, trovo in voi la solita presunzione,
eterno retaggio di questo _uomo_ che si chiama _forte_. Ah! la vi par
cosa facile realizzare un sogno! e con un coraggio degno di miglior
sorte, voi siete qui venuto per dirmi che sognate delle corbellerie...
ma, mio caro, andando di questo passo vi fisserete in mente qualche
giorno di abbracciare la luna. Avrete detto fra voi: m’è venuto il
ghiribizzo di fare un bacio alla marchesa, ho dello spirito, delle
risorse, e posso tentare il colpo. Colle vostre circonlocuzioni
viziose un giorno mi obbligaste a domandarvi dei versi, e voi subito
una stoccata per cantarmi in rima il vostro desiderio inqualificabile.
Oh le donne sono scioccamente ingenue, cascano presto nella rete!...
Quattro versi stirati alla meglio, alcune cadenze pescate nel Rimario,
fanno un grand’effetto. E lì giù a comporre e scrivermi sull’Album una
poesia ch’io leggo per esilararmi.

LUIGI. Oh!

MARCH. Ma sì, certo, credete forse che io presti fede al vostro
_struggimento?_ (_lo canzona_) poverino! se vi batte il cuore prendete
del _cloraglio_... oppure bagni freddi; vi gioveranno per la testa che
è un pochino guasta. Credete voi altri che bastino alle donne le vostre
affettature galanti, e le eterne frottole che andate snocciolando coi
soliti sospiri e contorcimenti d’occhi?... Ih! ih! ci vuol altro! cuore
e sincerità, non presunzione e frivolezza. Credete di ingannar noi,
ma quasi sempre siete voi gli ingannati. Ci vuol altro, caro signor
Luigi, ci vuol più spirito e più giudizio. Dopo tutto una cosa sola
mi dà pena, ed è quella di vedervi fare una figura molto comica in
quest’affare. (_ridendo_) Per carità non raccontate l’avventura ai
vostri amici, ne riderebbero un’eternità.

LUIGI (_sopraffatto_). Signora marchesa, felice notte.

MARCH. Dove andate adesso?

LUIGI. Mi butto di balzo giù dalla finestra, non mi resta a fare altro
per provarvi di non esser tanto _leggiero_.

MARCH. So benissimo che non mettereste le ali.

LUIGI. Ma se resto qui ancora mi spunteranno le orecchie.

MARCH. Non avete giustificazioni?

LUIGI. Sì, signora, ne ho una che vale per tutte. Se io caddi in errore
si fu per creder troppo nell’esperienza di uno dei nostri grandi poeti.

MARCH. Quale?

LUIGI. Il Tasso che scrisse nell’Aminta quei versi:

    Oh tu non sai com’è fatta la donna!
    Fugge, e fuggendo vuol ch’altri la segua.
    Nega, e negando vuol ch’altri si tolga,
    Pugna, e pugnando vuol che altri la vinca.

Io ci ho creduto; voi negaste ed io volli togliermi, pugnaste e volli
vincervi, e mi resto dopo tutto con un pugno di vento.

MARCH. Ma voi che siete poeta, come mai credete alle fanfaluche dei
vostri confratelli? pensate a tutte le bugie che diceste in rima, e
ditemi se avete ancor coraggio di credere. Però debbo riconoscere in
voi un abile strategico, avete esplorato il mio campo di battaglia,
studiato i miei libri. Davvero che siete assai previdente; duolmi che
abbiate sciupato la fatica per battagliare contro un mulino a vento.
Don Giovanni è diventato don Chisciotte! (_ride_).

LUIGI. Sono lieto di una cosa, ed è che se non altro riesco a mettervi
di buon umore.

MARCH. Sfido io a star seria con questi squarci di lirica che m’andate
tirando fuori. Ah voi siete della scuola del Tasso? vi compiango di
cuore, perchè se seguite in tutto il vostro maestro finirete voi pure
in un ospizio di pazzi, con molto minor gloria.

LUIGI. Se ciò accadesse, voi signora marchesa, dovrete averne rimorso.

MARCH. Oh! bella, e perchè mai?

LUIGI. È facile respingere una responsabilità, e certo a bella prima
sembra che voi siate la creatura più innocente del mondo. Pure non
è così, la bellezza, signora mia, in certi casi è un reato. Che ne
possiamo noi poveri uomini dalla fantasia accendibile se al fascino
d’uno sguardo, alle graziose movenze, al suono di una voce soave, non
sappiamo tener salda la ragione? Ma io mentre vi guardo mi sento capace
di tutto, non sono più padrone di me, e se mi comandaste di passarmi il
cuore vi ubbidirei!... E tutto ciò non è forse l’effetto di una malìa,
l’influenza del fascino che esercitate? Se domani venissi tratto in
giudizio, io vi citerei come mia complice, perchè colla vostra cortesia
_severa_ mi faceste dar di volta al cervello.

MARCH. Molto bene; ma è forse nostra colpa se gli uomini sono tanto
buoni da far pazzie per nostro conto?

LUIGI. Sì, e ve lo provo. Voi siete bella, lasciate che vel dica, so
che vi fa piacere; ostentate indifferenza per questa dote eccelsa
della vostra persona, ma il fatto vi contraddice. Perchè se non
badate agli uomini, perchè vi fate più bella coi ricci bizzarri della
capigliatura, con abiti provocanti, con pizzi e merletti che sfumano
misteriosi confini? Così facendo, tradite la vostra intenzione, quella
di piacere. Ecco la colpa, ecco il male. Noi poveri uomini alla vista
di tanta leggiadria andiamo in delirio; il tocco di una bella manina
ci desta dei fremiti, le movenze graziose ci esaltano, un’occhiata
ci fulmina... noi vediamo e siamo vinti. Supplichiamo per una grazia
ed eccoci un rifiuto; domandiamo un sorriso e ci si risponde con
un’occhiata torva. Dunque resta provato che tiranneggiate per progetto,
e la responsabilità dei nostri errori ricade tutta su di voi! — (_La
marchesa lo guarda con aria quasi di crederlo... Luigi dopo una pausa
si avanza dubbioso e sorridente_). — Dopo tutto, signora marchesa,
eccomi ancor qui umile e supplichevole; lasciate che realizzi il mio
bel sogno, eppoi farò quello che più vi piacerà.

MARCH. (_con malizia_). No, no. Ah! credete che io mi lasci persuadere
da dolci parole? Io non mi piego.

LUIGI. È la virtù delle canne deboli; si rompono.

MARCH. Dite quel che vi piace. In quanto al _vostro sogno_, farete
meglio giuocandolo al lotto.

LUIGI. È questa l’ultima parola?

MARCH. No, la penultima... eccovi l’ultima (_gli dà la mano_); felice
notte.

LUIGI (_risoluto_). E sia. Signora marchesa, io ricorderò quest’ora
passata insieme come quella più lieta di mia vita.

MARCH. Ciò è cavalleresco! Badate, nello scendere, con alquanta
precauzione, vi troverete sul pergolato. Domani, se siete ancor vivo,
venite a dirmi come ve la siete cavata.

LUIGI (_un po’ serio_). Mi rincresce, ma domani non posso, vado via.

MARCH. Ebbene dopo domani.

LUIGI. Nemmeno.

MARCH. Andate dunque molto lontano?

LUIGI. Oh molto... vado in America!

MARCH. (_colpita_). Oh! che dite?

LUIGI. Parto per Lima, ove raggiungo mio fratello.

MARCH. E poi?

LUIGI (_commosso_). E poi... mi fermo là.

MARCH. (_c. s._) Per sempre?

LUIGI. Chi sa!

MARCH. Necessità d’affari forse?

LUIGI. No, signora, disgusto di stare in questa vecchia Europa, terra
per me di fallaci lusinghe.

MARCH. (_con apprensione_). Che volete voi dire?

LUIGI. Voglio dire, signora marchesa, che quando si fanno dei bei
sogni, bisogna scontarli con un triste risveglio. Voglio dire che
quando si è tanto stolti da crescere nel seno delle false speranze,
bisogna sopportarne le delusioni. Ma io non ho la forza di restar qui
coll’eterno spettacolo dinanzi agli occhi di una felicità che sarà
sempre un sogno per me. Parto, il viaggio, e gli affari faranno forse
più di quanto non potè la ragione.

MARCH. (_commossa_). Luigi! giuratemi che questa partenza non è uno
stratagemma.

LUIGI. Sull’onor mio, signora!

MARCH. (_con qualche imbarazzo_). Ebbene, poichè andate tanto
lontano... e forse non ci vedremo più! non voglio certo lasciarvi
partire disgustato. Se veramente vi fa piacere... se lo desiderate
proprio di cuore, eccovi la fronte, fatevi un bacio!

LUIGI (_con slancio represso_). Matilde, voi siete un angelo!... (_la
bacia_).

MARCH. (_un po’ confusa_). Ricordatevi degli amici... e di me!

LUIGI. Sempre serberò di voi la più cara memoria (_la bacia ancora poi
fa per partire_).

MARCH. (_con tenerezza_). Luigi! restate in Europa?

LUIGI. È impossibile, soffrirei troppo.

MARCH. (_dopo breve esitanza_). Allora PORTAMI con TE in America.

LUIGI (_tornando a lei_). Che dite?

MARCH. (_con slancio stringendogli le mani_). Dico che un cuore nobile
come il TUO si merita assai più che non sia il meschino dono della mia
mano!

LUIGI (_inginocchiandosi_). Oh! grazie!

MARCH. (_rialzandolo_). Dunque, partirai ancora?

LUIGI. No, resto in Europa! (_l’abbraccia_).


  FINE DEL LEI, VOI E TU.




VERSI

ALLA BUONA


«IL CAVALIERE»

    _Mio carissimo Pipetto!_.....

    Già lo sai, mio gran difetto
      Sta nel fare il beccafico
      Sulle cose della gente,
      Schiettamente te la dico,
      Sono alquanto impertinente,
      Ma che vuoi? tacer non posso
      In veder certi asinoni
      Animali fino all’osso
      Che la fanno da padroni!

    Dimmi tu come ho da fare
      La mia tempra a raffrenare,
      Tu m’insegna a darvi passo
      Ed a starmene sul duro,
      Se m’incontro ad ogni passo
      Con quei ceffi da figuro. —
      Uno poi mi dà sui piedi,
      Cavalier de’ miei... stivali,
      E tu amico deh concedi
      Che con te la stizza esali.

    Se lo vedi andare a spasso
      Con quell’aria da gradasso,
      Tu lo pigli in buona fede
      Per un uomo d’importanza;
      Tutto serio e grave incede
      Pien di boria e tracotanza;
      Per costume veste in nero
      Porta guanti ed occhialino,
      E a vederlo sembra invero
      Alcunchè di sopraffino.

    Affettando negligenza
      Della croce ei ne fa senza,
      E portar si degna appena
      All’occhiello un picciol nastro.
      Tiene al collo gran catena.
      Un baston da borgomastro,
      Con sussiego guarda attorno,
      E si gonfia dal piacere,
      Se si sente dire intorno
      «Riverito, Cavaliere!»

    D’una bestia al paragone
      Nulla vale quel bestione,
      Ed andando a vero onore,
      S’egli è stato decorato,
      Si può far commendatore
      Anche un asino calzato.
      Consiglier municipale
      Ei fu eletto da diec’anni,
      Ma sua cura principale
      È dormire sugli scanni.

    Quando schiude quella bocca
      La sciocchezza vi trabocca,
      Dà consigli, dà sentenze
      Quello stolto babbuino,
      Dice tante incongruenze
      Da sgradarne Bertoldino.
      Sa poi leggere, ma come
      Nel latin di sacristia,
      E per scrivere il suo nome
      Fa un error d’ortografia.

    Ignorante consigliere,
      Petulante cavaliere
      Pien di fumo, pien di boria,
      Asinone in quintessenza,
      Star coi nobili si fa gloria
      Giacchè, a dirla in confidenza,
      Questo stolido baggeo
      Vero tipo dei COLOMBI
      Sdegna il sangue di plebeo
      Che gli scorre dentro ai lombi.

    Ei passeggia lungo i viali
      Pien di carte e di giornali,
      Sbircia attorno colle lenti,
      E se degna d’un saluto
      Crede far tutti contenti;
      Se poi sa d’esser veduto
      Atteggiandosi a sussiego,
      Tira fuori di scarsella
      Qualche carta qualche piego,
      Qualche lettera o parcella.

    Entra in casa gravemente,
      E ’l portiere immantinente;
      — _Ben tornato Cavaliere!_
      Batte all’uscio e il servo lesto:
      — _Riverisco Cavaliere,_
      _Di ritorno così presto?_
      _Forse l’aria è troppo fresca?_
      Ei si stempra pel piacere,
      Ed il servo alla fantesca;
      — _Colazione al Cavaliere!_

    Cavalier dovunque suona
      E per l’aria ognor risuona,
      Te lo abbaja la cagnina,
      E lo canta in grotta il gallo;
      Nelle sale ed in cucina
      Lo ripete il pappagallo,
      Ed ovunque ti rivolga
      Di scappar non hai potere,
      Non c’è santo che ti tolga,
      Suona sempre — Cavaliere. —

    Ha una faccia che dà ai nervi,
      Guarda tutti come servi
      Dir che è un asino, un villano
      Dir che è sciocco, è poco o niente;
      Egli è un fior di ciarlatano
      Ignorante impertinente.
      — S’è la polvere inventata
      Che distrugge insetti e bruchi,
      Oh perchè non fu trovata
      Polve tal per questi ciuchi?

    E di simil raffataglia
      Tanto è zeppa quest’Italia
      Che ne incontri ad ogni istante
      In ogni angolo di via,
      E in tal modo andando avante,
      Stammi a udir la profezia,
      Si faranno cavalieri
      Truffatori e burattini
      Gabbamondi, barattieri
      Stenterelli ed Arlecchini.


LA MORALE

    Sei fior del secolo
      Santa morale
      Sei fatta l’idolo
      Universale,
      Ed il tuo fascino
      Trascorre a volo
      Come l’elettrico
      Di polo in polo;
      Are t’innalzano
      Tutte le genti,
      E ti strombazzano
      Ai quattro venti.

    Tu sei l’immagine
      D’una speranza
      Bella ed eterea
      Nella sembianza,
      Tutti ti guardano
      Siccome un punto
      Inaccessibile
      Non mai raggiunto,
      Tutti t’ammirano,
      Ognun ti ha in bocca,
      Ma infin dell’opera
      Nessun ti tocca.

    Il prete in pergamo
      Ti canta lodi,
      E di te predica
      In mille modi;
      Ma spesso ipocrita
      Mentre si piega,
      In fondo all’anima
      Poi ti rinnega,
      E lodi e prediche
      Che a josa insacca,
      Non son che il trespolo
      Della baracca.

    Dall’alte cattedre
      Gravi retori
      D’austere regole
      Son banditori;
      Coll’arma facile
      Della parola
      Fan d’arzigogoli
      Confusa scuola,
      Ma infin gonfiandosi
      Con ciance vane,
      Fan nulla e gracchiano
      Come le rane.

    Tutti t’inneggiano
      MORALE Santa,
      Ognun discepolo
      Di te si vanta,
      Delle tue massime
      Si fa gran smercio
      Come d’articoli
      Messi in commercio;
      E ti conservano
      Nella vetrina
      La dama rigida
      E la sgualdrina.

    Severi giudici
      E magistrati
      Sempre si vantano
      Da te guidati;
      Di te si dicono
      Spezzata lancia,
      Ma moralissimi
      Son per la pancia;
      Di Temi cingono
      L’alma corona,
      E tengon moccolo
      Al Dio Mammona.

    T’han messa in musica
      In prosa e in rima,
      Ma il mondo sdrucciola
      Peggio di prima;
      All’ombra placida
      Di tua grandezza,
      Si cela un’intima
      Spudoratezza,
      Tutti ti espongono
      Con nobil gara
      Siccome il balsamo
      Di Dulcamara.

    Passi qual zeffiro
      Che lieve spiri,
      E ’l mondo visiti
      Per mille giri;
      Ascendi al culmine
      Di reggia aurata,
      E là rimani
      Mistificata;
      Trascorri rapida.
      Discendi all’are,
      Ma ti tradiscono
      Trono ed altare.

    Servi di maschera
      A una genìa
      Grama per cinica
      Ipocrisia;
      Se badi a chiacchiere,
      Sei vocazione
      D’ogni ridicolo
      D’ogni buffone;
      Tutti ti spacciano
      A piene mani,
      Pseudo-filosofi
      E ciarlatani.

    Gente da trógolo
      Sinistra e scura,
      Coscienze livide
      D’ogni lordura
      Di te s’adornano
      E vanno attorno,
      Alto acclamandoti
      E notte e giorno;
      Ma sotto all’egida
      Della tua maglia
      Il marchio celano
      Della canaglia.

    Quei contafrottole
      Leccastivali
      Che ti strascinano
      Su pei giornali,
      Son gente equivoca
      Che fa negozio
      Di buone massime
      Per stare in ozio;
      Anime tenere
      Fior di candore
      Che ai loro comodi
      Hanno il pudore.

    Codesti arcangeli
      Della grand’era
      Diventan nottole
      In sulla sera;
      Deposto l’abito
      Dell’apparenza,
      Si fanno lecita
      Ogni impudenza,
      E poi risalgono
      Sulla bigoncia
      E ti contrattano
      Un tanto all’oncia.

    Nuovi proseliti
      De’ tuoi dettati
      Lenoni e protei
      Son diventati;
      Di fede in pubblico
      Fan l’impresario,
      Trecconi ignobili
      Dietro il sipario,
      E da neofiti
      Di simil razza
      Povera vittima
      Sei tratta in piazza.

    Oh! dalle nuvole
      Sublime Dea
      Scendi terribile
      Nuova Adrastea,
      E la tua collera
      Più non si stanchi,
      Sulla combricola
      Dei saltimbanchi
      Che del tuo nome
      Fan triste scempio,
      E ti profanano
      Altare e Tempio!


  FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME




INDICE DEI DUE VOLUMI


  VOLUME PRIMO

  Prefazione                          Pag.   5
  =Un Soldo=                           »    15
  =Un’Avventura galante=               »    87

  VOLUME SECONDO

  =Una Croce meritata=                 »     5
    Sproloquio                         »     7
    Manifestazioni d’un genio!         »     9
    Eureka                             »    15
    Nemo propheta in patria            »    25
    La forza del Destino               »    31
    Il sole entra in Capricorno        »    43
    La dabbenaggine alla prova         »    51
    Diplomazia dell’asino              »    61
    Apoteosi                           »    71
  =Lei, Voi e Tu=                      »    75

  =Versi alla buona=

  Il Cavaliere                         »   111
  La Morale                            »   119




NOTE:


[1] Badi l’attore che il sogno è una finzione... un colpo di malizia
per dichiararsi. Tutto va detto leggiermente con scherzo.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI UMORISTICI, VOL. 2/2 ***


    

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