La Tempesta

By William Shakespeare

The Project Gutenberg EBook of La Tempesta, by William Shakespeare

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Title: La Tempesta

Author: William Shakespeare

Translator: Diego Angeli

Release Date: August 1, 2008 [EBook #26169]

Language: Italian


*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LA TEMPESTA ***




Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Carla and
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                          SHAKESPEARE

                          LA TEMPESTA

                       COMMEDIA IN 5 ATTI



                        NUOVA TRADUZIONE
                               DI
                          DIEGO ANGELI



                 FRATELLI TREVES EDITORI MILANO

                              1911




                          SHAKESPEARE.

                               I.





           _A Emma Gramatica_

                           il traduttore




                             TEATRO
                               DI
                     GUGLIELMO SHAKESPEARE


                NUOVA TRADUZIONE DI DIEGO ANGELI




                               LA

                            TEMPESTA

                       COMMEDIA IN 5 ATTI




                             MILANO

                    FRATELLI TREVES, EDITORI

                              1911




               Riservata la proprietà letteraria
                   della presente traduzione.


                     Tip. Fratelli Treves.




                             TEATRO

                               DI

                     GUGLIELMO SHAKESPEARE.





Ragione dell'opera.


C'è stata un'epoca della mia vita in cui sono stato innamorato di
Titania. Io ero allora un ragazzetto appena settenne e vivevo in una
vecchia villa toscana, fra le giogaie petrose della Gonfolina e i
lecci medicei di Artimino. Ma appunto fra quelle pietre, nelle cui
fessure crescevano le linarie gialle e dentro i cui ginepri arsicci
zirlavano i tordi nei mattini di novembre, o sotto le ombre cupe
dell'antico parco dove s'intravedevano ancora gli avanzi dello
splendore d'altri tempi io ho ricercato invano la piccola regina delle
Fate con tutto il suo minuscolo corteggio di genietti invisibili.
Avevo imparato a conoscerla in un vecchio volume illustrato da uno di
quelli artisti che con lo Stoddart e col William Blake furono i
precursori di tutto l'idealismo letterario della pittura inglese.
Avevo imparato a conoscerla in quelle grandi illustrazioni, un poco
primitive, dove essa compariva sempre all'ombra dei tassobarbassi
vellosi o delle fragole gigantesche, mentre sopra ogni stelo d'erba si
cullava maliziosamente il piccolo «Cobweb» o l'inafferrabile «Pea's
Blossom», mentre Puck dall'alto di un cespuglio vigilava se Oberon non
si avvicinasse. Nella grande stanza deserta, il sole d'agosto entrava
a fiotti dalle vetrate senza tende, e gli armadii intorno sapevano di
resina, e i mosconi ronzavano contro i cristalli mentre lo stridio non
interrotto delle cicale sembrava arrecare su dalla valle il saluto
trionfale della terra feconda. Nella calma di quei pomeriggi estivi,
mentre tutta la casa dormiva nella siesta quotidiana, io sfogliavo il
vecchio volume trovato nella biblioteca paterna e imparavo a conoscere
Caliban, punzecchiato dagli spiriti maligni di Prospero, e il cane
bizzarro di Speed, e i cervi che scendevano ad abbeverarsi lungo il
ruscello nella foresta delle Ardenne dove il vecchio duca esiliato
ascoltava le bizzarrie filosofiche di messer Giacomo e i sospiri
amorosi di Rosalinda. Ma sopra tutti era Titania quella che attirava
il mio spirito infantile, Titania con le sue chiome disciolte, coi
suoi occhi attoniti, con le sue collane di corolle fiorite e con la
sua tenerezza per il bel somarello dalle lunghe orecchie pelose. Così
che molte volte io mi son ritrovato, su per gli scopeti odorosi di
funghi di Artimino o fra i pinastri di Villa Campi, a cercare
timorosamente in ogni campanella d'oro di tassobarbasso e in ogni
calice azzurro di fanciullaccia se non si nascondesse una di quelle
fate misteriose che andavano di notte ad appendere goccie di rugiada
sui fiori della loro regina.

Questa è stata la mia prima visione del mondo shekspiriano e se più
tardi ho cercato altre cose nei suoi volumi e ho trovato altre
emozioni fra i suoi eroi, nessuna certo è stata così pura e così
spontanea come quella di un amore infantile, nato nel tedio delle ore
di studio, dentro una grande villa toscana sui colli di Signa, arsi
dall'estate. E forse è in quel ricordo lontano che debbo ricercare il
senso quasi religioso che io ho avuto sempre per il grande poeta
inglese. Col crescere degli anni e degli studii la prima sensazione
puramente fantastica si è naturalmente modificata, ma anche oggi non
posso rileggere i versi divini del «Midsummer night's dream» senza
provare un poco l'antica nostalgia e ritrovare come in un angolo
riposto del mio cuore qualcosa dell'amore di altri tempi. Per questo
quando il Gaffuri di Bergamo mi propose di tradurgli quella divina
fantasia per una edizione italiana delle illustrazioni di Arturo
Rackham io accettai con gioia e mi accinsi al lavoro con tale un
impeto di entusiasmo che i versi della traduzione mi vennero quasi
naturalmente come in un accesso del «brevis furor» oraziano.

Pubblicato il volume io non pensavo certo a farlo seguire da altri,
quando sopravvennero due fatti nuovi che fecero nascere in me una
idea--ancora indeterminata--dell'opera a cui mi sono accinto. Il primo
fu un articolo di G. S. Gargano, sul «Marzocco» di Firenze, articolo
che oltre a parole fin troppo lusinghiere per la mia versione,
conteneva come un ringraziamento per avere con essa fatto conoscere ai
lettori italiani il capolavoro della fantasia shekspiriana nella sua
integrità; e in secondo luogo venne la rappresentazione che di essa fu
fatta dalla compagnia stabile all'Argentina di Roma, rappresentazione
che ebbe esito trionfale e che mi procurò l'onore di una lettera
dell'ambasciatore inglese sir Rennel Rodd--che è poeta tanto nobile,
quanto è sagace diplomatico--nella quale dopo di avermi detto il suo
piacere nell'aver assistito a quel trionfo del poema inglese che non
credeva possibile d'innanzi a un pubblico latino, m'incoraggiava a
proseguire e a dare agli italiani una intiera versione dell'opera
shekspiriana.

Debbo confessare che da principio l'impresa mi parve così ardua che
non osai concepirla. Ma le due voci diverse mi risuonavano
continuamente nel pensiero e mi spronavano a tentarla. L'Italia, in
fatti, non ha una vera e propria traduzione del Teatro di Guglielmo
Shakespeare. Sia in prosa che in versi i traduttori italiani, per
quanto valenti, non hanno mai avuto il coraggio di osare la semplicità
e spesso la ruvidezza shekspiriana: costretti dalla moda del tempo a
quella artificiosità ridondante che era propria della letteratura
italiana, essi hanno travisato il testo, travestendolo in uno stile
che non è lo stile del poeta inglese e spesso allontanandosene
totalmente, quando un passo oscuro e audace sembrava loro che fosse
insopportabile al pensiero italiano. D'altra parte, da che la poesia
nostra si è felicemente liberata da quelle pastoie accademiche, nessun
poeta aveva tentato di accingersi all'impresa non facile e non breve.
Il Gargano, alcuni anni or sono, aveva tentato di costituire una
società shekspiriana fra i varii letterati italiani, che si
accingessero alla desiderata versione, la quale--tra parentesi--doveva
essere in prosa e più documento letterario che lavoro d'arte. Ma il
tentativo fallì e non fu danno--io credo. Perchè un'opera di tal
genere deve essere compiuta da un unico individuo, che le dia
quell'unità e quella armonia di intendimenti e di stile senza la quale
non potrebbe riuscire degna dell'altissimo soggetto. D'altra parte,
altre nazioni avevano già risoluto il problema per opera di uno solo,
perchè non si sarebbe tentato di fare lo stesso in Italia? L'impresa è
ardua, ma lusinghiera, e a poco a poco divenne così prepotente in me
l'idea di attuarla, che decisi di accingermi al lavoro.

Nel qual lavoro io ho tentato sopra tutto la più scrupolosa fedeltà,
rispettando i metri e le rime, rispettando i concetti e le espressioni
anche là dove esse potevano sembrare meno tollerabili ad orecchi
latini. Ma Guglielmo Shakespeare è con Dante Alighieri una di quelle
forze vive della natura, da cui dobbiamo accettare tutto. D'altra,
parte, per quello che riguarda la struttura metrica dei suoi drammi o
delle sue commedie, essa ha una così profonda relazione con l'anima
dei suoi personaggi che non potrebbe esserne divisa senza grave danno.
Per questo, non solo ho lasciato la doppia forma prosastica e
poetica--come era naturale--ma nei versi ho voluto rispettare per fino
gli emistichi e quei distici rimati che quasi sempre chiudono il lungo
discorso in versi sciolti di un personaggio. E anche questa fedeltà
credo sia necessaria per rendere il pensiero shekspiriano, a punto
perchè egli è di quei poeti in cui nulla è trascurabile e in cui ogni
parola ha un significato profondo e immutabile.

Certo, ai primi passi di un'opera a cui dedicherò quanto oramai mi
resta di vita, io non mi dissimulo le difficoltà e spesso mi dimando
se veramente mi potrà bastare la forza per condurla a fine. Ma
ricordando gli esempi di altri popoli e le parole buone di chi volle
incoraggiarmi, so ritrovare la fiducia primitiva, confidando anche nei
lettori i quali vorranno perdonare le possibili manchevolezze e
incoraggiare anch'essi questo sforzo inteso a dare agl'italiani una
visione il più possibilmente precisa di quel mondo creato da uno dei
genii più alti che mai abbia onorato il pensiero umano.

    _Roma, Marzo 1911._

                            DIEGO ANGELI.




LA TEMPESTA.




NOTA BIBLIOGRAFICA.


Se bene non si sappia precisamente la data in cui fu scritta la
_Tempesta_, pure il Malone--che è fra i più attendibili--la fa
risalire al 1612, dandole così il penultimo posto nella serie delle
produzioni shekspiriane. Ma se bene il Chalmers e il Drake spostino di
un anno questa data--l'uno facendola risalire al 1611 e al 1613
l'altro--è oramai certo che fu una delle ultime opere teatrali scritte
da Guglielmo Shakespeare. Da dove abbia tolto l'idea di questa divina
fantasia lirica, non si può stabilire con precisione. Il Warton cita
un romanzo italiano--_Aurelio e Isabella_--che fu popolarissimo in
Inghilterra verso il 1588 e nel quale per fino il personaggio
principale di Aurelio o meglio Orelio, come apparve nella versione
inglese, poteva aver suggerito la figura di Ariel. Ma quello che si
può stabilire con precisione è da dove il poeta abbia tratto la parte
descrittiva della sua commedia. In quello scorcio del secolo XVI si
pubblicarono in Inghilterra molte relazioni di viaggi, che erano
avidamente lette dal popolo. Fra questi il naufragio di Henry May alle
Isole Bermude (1598) il _Reporte of the laste voyage of Capiteine
Frobisher_ (1577) la _History of travayle of John Barbot_ (1577) e la
_True relation of the travailes of William Davies barber and surgeon_.
Questa è del 1614, ma probabilmente correva già manoscritta fra i
lettori inglesi avidi di avventure marinaresche. In tutti questi
volumi si ritrovano particolari descrittivi che coincidono con quelli
della _Tempesta_. Così nel viaggio del Frobisher è fatta parola di
_Sycorax_, una povera selvaggia che egli trovò in un'isola e che
ritenne essere una strega; e in quello del barbiere-chirurgo Davies si
parla di _Setebos_ che era una divinità adorata dai Patagoni. Inoltre
tutti quei viaggiatori asserivano che le Bermude erano isole abitate
da diavoli, da spiriti e da streghe e questa loro asserzione trovò
tanto credito che la credenza se ne propagò fino agli ultimi anni
delle guerre civili.

Quello che Guglielmo Shakespeare non potè togliere da nessun volume fu
la festevolezza, la grazia e la poesia magnifica di questo lavoro che
ottenne subito un grandissimo favore. Tanto grande che il Fletcher si
affrettò ad imitarlo con un suo _The sea voyage_ e lo imitò Sir John
Sucling coi _Gobelins_, e per fino il Milton ne trasse non poche
ispirazioni per _The mask at Ludlow Castle_. Del resto, una conferma
del grande trionfo che dovette riportare questo lavoro si ha anche in
una velenosa annotazione che il Ben Jonson fece alla sua _Bartholomew
Fair_. «Se non vi è nella sua fiera un mostro servo» egli dice «chi
può aiutarla? L'autore ha in odio di mostrare la natura spaventosa,
nelle sue commedie come colui che inventa _Racconti_, _Tempeste_ e
simili scempiaggini del genere.» Ma i lettori contemporanei si
troveranno più d'accordo col Warburton il quale osserva che «_La
Tempesta_ e il _Sogno di una notte di mezza estate_ sono i più nobili
sforzi di quella sublime e miracolosa immaginazione particolare allo
Shakespeare, che si libra oltre i limiti della natura senza perderne
il senso o--più propriamente--trascina la natura fuori di quei confini
che ella stessa si era stabiliti».




                   PERSONAGGI RAPPRESENTATI.

    ALONZO, Re di Napoli.
    SEBASTIANO, suo fratello.
    PROSPERO, Duca legittimo di Milano.
    ANTONIO, suo fratello, usurpatore del Ducato di Milano.
    FERDINANDO, figlio del Re di Napoli.
    GONZALO, vecchio e onesto consigliere del Re di Napoli.
    ADRIANO   }
    FRANCESCO } Signori.
    CALIBANO, schiavo deforme e selvaggio.
    TRINCULO, buffone.
    STEFANO, servo ubriacone.
    Padrone della nave, Quartiermastro, Marinari.
    MIRANDA, figlia di Prospero.
    ARIEL, spirito aereo.
    IRIDE     }
    CERERE    }
    GIUNONE   } spiriti.
    NINFE     }
    MIETITORI }


             Altri spiriti al servizio di Prospero.

           _La scena è a bordo di una nave sul mare,
                  poi in un'isola disabitata._





                          LA TEMPESTA




                          ATTO PRIMO.


                          SCENA PRIMA.

 A bordo di una nave, sul mare. Una bufera con tuoni e fulmini.

       Entrano il PADRONE della nave e il QUARTIERMASTRO.


                          IL PADRONE.

Mastro....

                       IL QUARTIERMASTRO.

Eccomi, Padrone: che c'è?

                          IL PADRONE.

Bene. Parla ai marinari e manovrate alla spiccia: altrimenti
andiamo tutti a fondo. Presto! presto!

                                                           Exit.

                                          Entrano vari MARINARI.

                       IL QUARTIERMASTRO.

Su, cuori miei: presto, presto, cuori miei! Forza! forza!
Serrate il bompresso. Attenti al fischio del Padrone! Soffia
finchè tu non ne possa più, vento mio: finchè abbiamo
spazio!


                                   Entrano ALONZO, FERDINANDO,
                                   ANTONIO, SEBASTIANO, GONZALO.

                            ALONZO.

Bravo mastro: mi raccomando di stare attento.
Dove è il Padrone? Siate uomini!

                       IL QUARTIERMASTRO.

Fatemi la grazia di starvene giù, per ora!

                            ANTONIO.

Dov'è il Padrone, Quartiermastro?

                       IL QUARTIERMASTRO.

Non lo sentite? C'imbarazzate la manovra. Rimanete nelle
vostre cabine: così, aiutate la tempesta.

                            GONZALO.

Su, su, brav'uomo, un po' di pazienza.

                       IL QUARTIERMASTRO.

Quando l'avrà il mare. Via di qua! Che importa a queste
ondate il nome del Re? Alle vostre cabine! Silenzio e non
c'impicciate.

                            GONZALO.

Sta bene. Ma rammentati chi hai a bordo.

                       IL QUARTIERMASTRO.

Nessuno a cui voglia bene più che a me! Voi siete un
consigliere: se potete comandare il silenzio a questi
elementi e ricondurre la calma, non toccheremo più una
gomena. Fate uso della vostra autorità. E se non lo potete,
ringraziate il cielo di aver vissuto tanto e preparatevi
nella vostra cabina per la disgrazia presente,--se disgrazia
ha da esserci. Coraggio, ragazzi! Levatevi dai piedi, vi
dico!

                                                           Exit.

                            GONZALO.

Quest'uomo mi rassicura! Non ha nessun segno d'affogato
sopra di sè: il suo fisico è tutto per la forca. Serbalo per
l'impiccagione, o buona sorte! E fa che la corda del suo
destino sia la gomena della nostra salvezza: sulla nostra
c'è poco da contare! Se non è nato per finir sulla forca, il
nostro caso è disperato.

                                                         Exeunt.

                                      Rientra il QUARTIERMASTRO.

                       IL QUARTIERMASTRO.

Giù l'albero di maestra! Presto! Più giù! più giù! Cerchiamo
d'incappare la vela.

                                  Si odono grida dal di dentro.

La peste a quelli strilloni! Urlano più della tempesta e dei
nostri comandi.

                         Rientrano SEBASTIANO, ALONZO e GONZALO.

Da capo? Cosa venite a fare? Dobbiamo lasciare andare ogni
cosa e affogare? Volete proprio colare a fondo?

                          SEBASTIANO.

Un cancro alla lingua, cane bestemmiatore e senza pietà!

                       IL QUARTIERMASTRO.

E allora, manovrate da voi!

                            ANTONIO.

Alla forca, carogna, alla forca! Figlio di puttana!
insolente ciarlone! Abbiamo meno paura di te, d'affogare.

                            GONZALO.

Garantisco io che non affogherà: fosse pure la nave non più
forte di un guscio di noce nè più sfondata di una sfrontata
baldracca.

                       IL QUARTIERMASTRO.

Serrate le vele! serrate le vele! Ammainate le drizze. Di
nuovo in pieno mare: al largo.

                                Entrano alcuni marinari bagnati.

                          I MARINARI.

--Tutto è perduto!

--Preghiamo! Preghiamo!

--Tutto è perduto!

                                                         Exeunt.

                       IL QUARTIERMASTRO.

E che? È dunque necessario che le nostre bocche sieno
fredde?

                            GONZALO

    Sono in preghiera il principe ed il Re.
    Andiamo a unirci a loro: il caso nostro
    non è diverso!

                          SEBASTIANO.

                  Non ho pazienza!

                            ANTONIO.

    Siamo truffati delle nostre vite
    da ubriaconi! Quel brigante là
    dall'ampia gola! Possa tu giacere
    affogato e travolto da ben dieci
    maree!

                            GONZALO.

          E pure egli morrà impiccato
    se bene contro ciò giuri ogni goccia
    che quanto può s'apre per inghiottirlo.

                                    Rumori confusi dall'interno.

--Misericordia! Andiamo a fondo!

--Andiamo a fondo! Addio moglie!

--Addio figliuoli! Addio fratello!

--Si affonda! Si affonda! Si affonda!

                            ANTONIO.

Dobbiamo affondare col nostro Re!

                                                           Exit.

                          SEBASTIANO.

Dobbiamo congedarci da lui!

                                                           Exit.

                            GONZALO.

Darei volentieri mille iugeri di mare, per pochi metri di
nuda terra: sterpami, roveti e ogni altra cosa. Che la
volontà del cielo sia fatta! Ma io vorrei morire una morte
asciutta!

                                                           Exit.


                           SCENA II.

         Nell'isola: d'innanzi alla grotta di Prospero.

                  Entrano PROSPERO e MIRANDA.


                            MIRANDA.

    Se con vostra arte, o caro padre, avete
    l'onde selvagge in tal frastuono messe
    or le pacificate. Il cielo--sembra--
    ardente pece pioverebbe, se
    il mar salendo alla sua guancia, il fuoco
    non ne cacciasse. Oh come insiem con quelli
    che ho veduto soffrire, anch'io soffersi!
    Un vascel valoroso--e non vi ha dubbio
    che in lui non fosse qualche creatura
    nobile--messo in pezzi! E quali grida
    mi percossero il cuore! E son perite
    quelle povere anime! Se fossi
    stata una Dea possente avrei sommerso
    il mare nella terra, prima che
    il buon vascello esso inghiottisse insieme
    con quelli che recava seco!

                           PROSPERO.

                               Calmati!
    non più paura e al pietoso cuore
    di' che non vi fu danno.

                            MIRANDA.

                            O triste giorno!

                           PROSPERO.

    Non vi fu danno. Io non ho fatto nulla
    che non fosse per te. Per te mio bene,
    per te mia figlia che non sai chi sei
    e non conosci d'onde io venga, o s'io,
    io non sia meglio di Prospero, padrone
    di una povera grotta e nulla più
    del padre tuo.

                            MIRANDA.

                  Non ho pensato mai
    di sapere altra cosa.

                           PROSPERO.

                         Il tempo è giunto
    ch'io ti spieghi altra cosa. Or dunque dammi
    la mano ed il mio magico mantello
    or dalle spalle toglimi. Così.

                                         Si toglie il mantello e
                                         lo stende per terra.

    Quivi si giace la mia arte. Asciuga
    gli occhi e sii calma. Questa spaventosa
    vision del naufragio che percosse
    la virtù in te della compassione,
    con la sola potenza di mia arte
    comandata ho così sicuramente
    che non una sola anima--che dico?--
    non un solo capello di coloro
    che tu udisti gridare, che vedesti
    sprofondare nell'onde è andato perso.
    Siediti, è giunto il giorno in cui tu devi
    conoscere di più.

                            MIRANDA.

                     Spesso mi avete
    cominciato a narrar quel ch'io mi fossi
    ma mi avete interrotto ad una vana
    mia richiesta lasciandomi, col dire:
    "Basta, non è ancor tempo".

                           PROSPERO.

                               E il tempo è giunto
    ed il momento ne sospinge. Tendi
    l'orecchio e presta attenzione. Puoi
    tu ricordare gli anni, pria che in questa
    grotta fossimo giunti? Io non suppongo
    che tu lo possa però che compiuti
    non avevi tre anni.

                            MIRANDA.

                       E pur lo posso,
    o signore.

                           PROSPERO.

              Ma cosa? Una dimora
    diversa? Altre persone? Dimmi quale
    immagine il ricordo tuo rattiene.

                            MIRANDA.

    È così lunge! Ed è quel mio ricordo
    più come un sogno che una cosa vera.
    Ma, dite, non avevo allora cinque
    o sei donne d'intorno a me?

                           PROSPERO.

                               Ne avevi
    anche di più, Miranda. Ma in che modo
    tutto ciò vive nel pensiero tuo?
    E cosa vedi ancora entro l'oscuro
    baratro e nell'abisso alto del tempo?
    Se tu ricordi cose antecedenti
    al tuo giungere qui, puoi ricordare
    come qui tu giungesti.

                            MIRANDA.

                          No, non posso.

                           PROSPERO.

    Sono oramai trascorsi dodici anni,
    dodici anni, Miranda! Era tuo padre
    il duca di Milano e assai potente
    principe.

                            MIRANDA.

             O signor mio, non siete dunque
    mio padre?

                           PROSPERO.

              La tua mamma che fu in vero
    la virtù stessa, ti dicea mia figlia
    ed era certo, duca di Milano
    il padre tuo. L'unica erede tu,
    e non indegna principessa!

                            MIRANDA.

                              O cielo!
    Qual brutto inganno quivi ci ha condotti
    o benedizione è stato quello
    che ci fu fatto?

                           PROSPERO.

                    L'uno e l'altra, o mia
    fanciulla: per un brutto inganno, come
    tu dicesti, noi qui venimmo ma
    l'aiuto è stato benedetto.

                            MIRANDA.

                              Oh il cuore
    mi sanguina a pensar tutte le cose
    che sono ormai fuori del mio ricordo.
    Ma proseguite, ve ne prego.

                           PROSPERO.

                               Il mio
    fratello--era tuo zio--chiamato Antonio,
    te ne supplico, ascolta, e chi potrebbe
    pensare che un fratello esser potesse
    così perfido? E pur dopo me stesso
    nessuno amavo più di lui nel mondo.
    Tanto lo amavo che in sua cura detti
    tutto il mio Stato, ed era allora sopra
    le Signorie la prima e il primo Duca
    Prospero: in ogni dignità citato
    e nelle liberali arti pur senza
    paragone. Sommerso nello studio,
    su mio fratello il peso del governo
    tutto lasciai, sì che stranier divenni
    al mio paese, assorto nei segreti
    miei studii. Ma quel tuo subdolo zio....
    di', mi ascolti?

                            MIRANDA.

                    Oh sì molto attentamente.

                           PROSPERO.

    .... come ebbe appreso ad elargir le grazie
    od a negarle, come seppe quale
    dovea promuover quale radiare
    quale rinnovellar fra creature
    che furon mie o trasformarle, avendo
    ambo le chiavi degli uffici e degli
    ufficiali, a intonare si compiacque
    tutto lo Stato in unica armonia
    cara agli orecchi suoi, sì ch'egli fu
    l'edera avvinta al principesco mio
    tronco dal qual suggeva ogni verdura.
    Ma non ascolti....

                            MIRANDA.

                      Oh buon signore, ascolto!

                           PROSPERO.

    Sì, ascoltami, ti prego. Trascurando
    sì le cure mondane e tutto intento
    ai riposti misteri della mia
    mente, vivevo in così gran ritiro
    abbandonando ogni favore al mio
    falso fratello, che indole malvagia
    teneva sveglio. E quella mia fiducia
    come un buon genitore, produceva
    in lui tanta falsezza quanto più
    essa era grande. E questa non aveva
    limiti ed era una fiducia senza
    confini. Essendo in tal modo signore
    non solamente della mia ricchezza
    ma di quel che il poter mio consentiva
    di esigere, come uno che dicendo
    il falso sempre, fa di sua memoria
    tal peccatrice che finisce poi
    col creder vera la menzogna sua,
    egli credette d'esser duca e, inconscio
    di una tal finzione, ogni regale
    prerogativa fece sua, fin quando
    l'ambizione ognor crescendo.... Ascolti?

                            MIRANDA.

    Curerebbe la storia vostra i sordi!

                           PROSPERO.

    Non seppe più distinguer fra la parte
    ch'ei sosteneva e quegli per il quale
    la sosteneva, sì che pensò al fine
    d'essere di Milano l'assoluto
    signore. In quanto a me dovea sembrargli
    la biblioteca mia ducato grande
    abbastanza, sì che mi giudicava
    ormai incapace d'ogni regal cura.
    Alleato--però che da sè solo
    mal dominato avrebbe--con il Re
    di Napoli, promisegli un tributo
    ogni anno e a fargli omaggio la corona
    mal sottomise a quella sua più grande,
    ed il Ducato--ahi povera Milano!--
    libero fino allora, rese schiavo
    in un servaggio vergognoso.

                            MIRANDA.

                               Oh cielo!

                           PROSPERO.

    Pensa alla sua condizione e a questo
    avvenimento e dimmi s'egli possa
    pur essermi fratello!

                            MIRANDA.

                         Peccherei
    pensando mal dell'avola: cattivi
    figli han recato buoni ventri.

                           PROSPERO.

                                  Ed ecco
    la fine. Il Re di Napoli che mi era
    acerrimo nemico, prestò orecchio
    alle richieste del fratello mio.
    Sì che in compenso del promesso omaggio
    e di non so quale tributo, fuori
    del ducato mi avrebbe egli bandito
    con i miei tutti e la bella Milano
    con ogni onore a mio fratel ceduta.
    Fu così che un esercito, di notte,
    a tradimento penetrò la cinta--
    e forse avea le porte di Milano
    aperte Antonio--e favoriti dalle
    tenebre ci cacciarono i ministri
    te piangente e me stesso.

                            MIRANDA.

                             Ahimè pietà!
    Non ricordando come allora piansi
    ora di nuovo piangerò. Son gli occhi
    costretti a ciò da un tal racconto.

                           PROSPERO.

                                       Ascolta
    ancora un poco e porterò il tuo spirto
    agli affari che ci occupano. Senza
    questi la storia mia sarebbe troppo
    fuori di luogo.

                            MIRANDA.

                   Ma perchè non hanno
    profittato--a distruggerci--dell'ora?

                           PROSPERO.

    Dimanda giusta e ben doveva il mio
    racconto provocarla. Essi non hanno
    o cara figlia osato--così grande
    era l'amore che il mio popol tutto
    mi portava--segnar con sanguinosa
    impronta il lor misfatto, ma abbellirlo
    vollero con più bei colori. In breve,
    caricati che ci ebber sopra un barco,
    ci spinsero nel mare. Aveano scelto
    una vecchia carcassa di battello
    non attrezzato, senza vele, senza
    albero, senza sarte: per istinto
    l'avean già tutto abbandonato i sorci.
    Quivi ci hanno imbarcati e ai nostri pianti
    solo rispose il mare ed i sospiri
    ci rese il vento!

                            MIRANDA.

                     Ahimè quale imbarazzo
    dovetti esser per voi!

                           PROSPERO.

                          Tu, Cherubino,
    fosti invece la mia salvezza. Il tuo
    sorriso infuse in me come una forza
    celeste e come il mare ebbi cosparso
    delle più amare lacrime, un novello
    cuore si fece in me, per sopportare
    quel che avverrebbe.

                            MIRANDA.

                        E in che modo giungemmo
    a terra?

                           PROSPERO.

    Per divina provvidenza
    un po' di cibo e un poco d'acqua che
    un nobil uom di Napoli--Gonzalo,
    addentro nel disegno--tutto preso
    dalla sua carità volle lasciarci.
    E insiem coi cibi i bei vestiarii, i ricchi
    tessuti, i lini e tutto il necessario
    che tanto ci ha giovato. Per sua grande
    gentilezza, sapendo il molto amore
    che per i libri avea, dalla mia stessa
    libreria seppe sceglier quei volumi
    che amavo più del mio ducato.

                            MIRANDA.

                                 O possa
    veder quest'uomo un giorno! Ora mi levo.

                           PROSPERO.

    Sta' ferma: e dell'errar nostro marino
    l'ultima parte ascolta. Quivi, in questa
    isola siamo giunti, e quivi io stesso
    fui tuo maestro e ti giovai pur tanto
    quanto nessuna principessa che abbia
    maggior tempo e più libero, ma certo
    non il divoto precettore.

                            MIRANDA.

                             Il cielo
    vi ringrazi per questo. E ora o mio
    signore--ve ne supplico, è un pensiero
    che non mi sa dar pace--qual ragione
    aveste a suscitar tale tempesta?

                           PROSPERO.

    Ecco: tu lo saprai. Per uno strano
    evento, la munifica fortuna
    or mia sola signora--ha in questa spiaggia
    condotto tutti i miei nemici ed io
    con la mia prescienza ho appreso come
    il mio destino sottostasse ad una
    ben augurante stella il cui potere
    s'io non lo afferro subito si perde
    ed ogni mia fortuna è fatta vana
    per sempre. Or cessa con le tue dimande.
    Tu sei presa dal sonno: è una propizia
    stanchezza a cui tu cederai. D'altronde
    so ben che non hai scelta.

                                          MIRANDA si addormenta.

                              Vieni, o servo
    mio, vieni! Io sono pronto. Fatti dunque
    vicino, o mio Ariel. Vieni!

                            ARIELE.

                               Salute
    o possente maestro, o gran signore
    salute! Io venni qui per obbedire
    ad ogni tuo comando: per volare,
    per nuotar, per piombare in mezzo al fuoco
    o galoppar sulle chiomanti nubi.
    Ariele e il valor suo tutto è pronto
    al voler tuo possente.

                           PROSPERO.

                          Hai suscitato
    la tempesta che--o spirito--ti dissi
    di suscitare?

                            ARIELE.

                 In ogni più minuto
    particolare. Ho sconquassato tutta
    del Re la nave, or sullo sprone alzandola
    or sulla poppa e in ogni sua cabina
    o sopra il ponte suscitai l'incendio.
    Spesso mi son diviso ardendo in luoghi
    diversi e sopra l'albero e fra mezzo
    ai pennoni così distintamente
    per poi di nuovo unirmi in uno. I lampi
    di Giove precursori del tremendo
    fulmine, non son così spessi; il fuoco,
    lo scoppiettio di solforose fiamme
    sembravano assediar l'alto Nettuno
    e, per virtù del suo tridente, l'onde
    sue piene d'ira far tremare.

                           PROSPERO.

                                O bravo
    spirito! Chi potrebbe esser sì forte
    e sì costante che la sua ragione
    non smarrirebbe in tale inganno?

                            ARIELE.

                                    Credo
    non un'anima sola abbia potuto
    resistere a una febbre di follia
    o a non dar segni di sgomento. Tutti
    --i marinari eccettuati--dentro
    le spume si gettarono, la nave
    con me in fiamme lasciando. Ferdinando,
    il figliuolo del Re, con i capelli
    irti--più che capelli erano stecchi--
    a lanciarsi fu il primo e strepitava:
    "L'inferno è vuoto e i démoni son qui!"

                           PROSPERO.

    È lo Spirito mio questo! Ma dimmi:
    non avveniva tutto ciò vicino
    alla spiaggia?

                            ARIELE.

                  Vicino, o mio signore.

                           PROSPERO.

    Ma son salvi, Ariel?

                            ARIELE.

                        Non un capello
    si è perso e sulle vesti lor che a galla
    li sorreggean, non una macchia sola.
    Son più fresche di prima. Ed in quel modo
    che hai comandato, nei diversi punti
    dell'isola gli ho sparsi in varii gruppi.
    Il figliuolo del Re trassi alla spiaggia
    io stesso e lo lasciai mentre coi suoi
    sospiri l'aria rinfrescava, assiso
    e con le braccia in triste nodo avvinte:
    così.

                           PROSPERO.

         Ma dimmi, che facesti della
    ciurma del Re e della rimanente
    flotta?

                            ARIELE.

           Quella del Re salva è nel porto:
    io l'ho celata dentro la profonda
    baia, dove una notte mi chiamasti
    affinchè ti recassi dalle sempre
    tempestose Bermude una rugiada.
    I marinari sotto i boccaporti
    stan rannicchiati, immersi in un gran sonno
    che il mio incanto aggiungendosi alle molte
    fatiche ha suscitato. E il resto della
    flotta che avea disperso, ho nuovamente
    unito ed ora voga sopra l'onde
    mediterranee raggiungendo il porto
    di Napoli, dolente tutta e certa
    d'aver visto affondar del Re la nave
    e quel gran principe.

                           PROSPERO.

                         O Ariele, il tuo
    ufficio hai ben compiuto. Ma ancor altro
    ci resta a fare. In quale ora del giorno
    siamo?

                            ARIELE.

          È trascorsa la metà.

                           PROSPERO.

                              Di due
    clessidre almeno. Il tempo che ci resta
    fra l'ora sesta e adesso, noi dobbiamo
    sagacemente spenderlo.

                            ARIELE.

                          V'è ancora
    da lavorare? Poichè tu mi dai
    tante fatiche lascia ch'io rammenti
    la tua promessa ancor non mantenuta.

                           PROSPERO.

    Che c'è di nuovo, spirito bizzarro,
    e che puoi dimandarmi ora?

                            ARIELE.


                              La mia
    libertà!

                           PROSPERO.

            Prima ancora che sia giunto
    il tempo? Basta!

                            ARIELE.

                    Te ne prego, almeno
    rammenta i degni uffici che ti ho fatto,
    nè ho mai mentito nè ho sbagliato mai.
    E ti ho servito senza brontolare,
    senza rancori! Tu mi promettesti
    di condonarmi un anno intiero.

                           PROSPERO.

                                  Hai forse
    dimenticato da qual mai supplizio
    ti liberai?

                            ARIELE.

               No.

                           PROSPERO.

                  Sì! Per questo credi
    far grandi cose sol perchè calpesti
    il fango dell'amaro abisso e scorri
    sull'aspro vento settentrionale
    e--per il mio servigio--entro le vene
    della Terra ti chiudi allor che il gelo
    la stringe tutta.

                            ARIELE.

                      Non è ver, signore!

                           PROSPERO.

    Tu mentisci, o maligno spirto. Hai dunque
    dimenticato Sicoràx, l'infame
    strega che gli anni e che l'invidia al pari
    di un cerchio avean ricurva? Dimmi, l'hai
    dimenticata?

                            ARIELE.

                No, signore.

                           PROSPERO.

                            L'hai
    dimenticata! Ove era nata? Dimmi!

                            ARIELE.

    In Algeri, o signore!

                           PROSPERO.

                          Ah sì? Da vero?
    Ben una volta al mese è necessario
    ch'io ti ripeta quel che fosti. E tu
    l'hai già dimenticato. Quella strega
    malvagia, Sicoràx, come tu sai
    fu bandita da Algeri per delitti
    innumeri e incantesimi capaci
    di spaventare umano orecchio e pure
    le salvaron la vita in prò di certa
    sua azione. Non è vero?

                            ARIELE.

                            Sì,
    o signore.

                           PROSPERO.

              Cotesta fattucchiera
    dall'occhio cispellino fu condotta
    quivi col figlio e abbandonata dalla
    ciurma. E tu, schiavo mio, come sovente
    mi hai narrato, eri suo servo e perchè
    eri uno spirto troppo delicato
    per compiere le infami e obbrobriose
    sue volontà, ti rifiutasti ai gravi
    ordini che ti dava e allor nell'impeto
    dell'implacabil ira ella ti chiuse
    --di possenti ministri con l'aiuto--
    nello spacco di un pino e dentro quelle
    strette pareti dodici anni intieri
    crudelmente restasti prigioniero.
    E in questo tempo ella morì lasciando
    te a gemere là dentro, con sospiri
    più rapidi dei gemiti che fanno
    le ruote di un molino. Allora questa
    isola--se n'eccettui quel figlio
    ch'ella avea partorito, un mostricciuolo
    lentigginoso e degno di sua stirpe--
    non era anco onorata da un'umana
    forma.

                            ARIELE.

          Sì, Calibàno, il figlio suo.

                           PROSPERO.

    È quel che dico, spirto mentecatto!
    Ed è appunto quel Calibàn che tengo
    al mio servizio. Tu sai bene in quali
    tormenti ti trovai. Faceano urlare
    i lupi le tue grida e i furiosi
    orsi a pietà muovevano. Un tormento
    di dannato. E non era più presente
    Sicoràx per disfar l'opera sua.
    Fu l'arte mia che ben costrinse il pino
    a riaprirsi e ti lasciò partire
    allorchè quivi giunto io ti sentii.

                            ARIELE.

    Grazie, o signore.

                           PROSPERO.

                       Se tu gemi ancora
    io squarcerò una rovere e sì dentro
    ti chiuderò nel suo nodoso ventre
    che resterai ben dodici anni a urlare.

                            ARIELE.

    Perdonami, o signore, ai tuoi comandi
    obbedirò di buona grazia e tutto
    farò da buono spirito.

                           PROSPERO.

                          Sta bene
    e fra tre giorni ti libererò.

                            ARIELE.

    Ecco di nuovo il mio nobil padrone!
    Che debbo fare? Dimmelo, che debbo
    fare?

                           PROSPERO.

         Va' con l'aspetto di una ninfa
    del mare a tutti gli occhi occulto e solo
    visibile alla tua vista e alla mia.
    Va': prendi questa forma e poi ritorna
    così cambiato qui. Sii diligente.

                                                    ARIELE exit.

                                                      A Miranda.

    Svegliati, cuore mio, svegliati, hai bene
    dormito ed ora svegliati.

                            MIRANDA

                                                   svegliandosi.

                             Lo strano
    vostro racconto mi assopiva.

                           PROSPERO.

                                Scuoti
    quel tuo torpor. Vieni: visiteremo
    Calibàno il mio schiavo che nessuna
    buona parola ha mai per noi.

                            MIRANDA.

                                Signore,
    è un villano costui nè mai lo veggo
    volentieri.

                           PROSPERO.

               Ma ancora non possiamo
    così com'è farne di meno. Accende
    il nostro fuoco, il legno spacca e in molti
    uffici egli ci serve che ci sono
    utili.

          Olà! Su Calibàn, su schiavo!
    Olà fango, rispondi!

                            CALIBANO

                                                      di dentro.
                         C'è abbastanza
    legno qua dentro.

                           PROSPERO.

                     Vieni qua ti dico.
    C'è ben altro da fare. Vieni dunque,
    testuggine.

                           Rientra ARIELE: in costume, di ninfa.

               O gentil vista! O mio dolce
    Ariele, m'ascolta in un orecchio.

                                         Gli parla all'orecchio.

                            ARIELE.

    Sarà fatto, o signore.

                           PROSPERO.

                          O velenoso
    schiavo che fece il diavolo all'infame
    tua madre, vieni qui!

                                                 Entra CALIBANO.

                           CALIBANO.

                         Che una rugiada
    malefica qual mai mia madre trasse
    con la penna di un corvo da palude
    putrida, cada sopra voi. Che il vento
    d'Oriente v'investa e vi ricopra
    di pustole ambedue!

                           PROSPERO.

                        Sta' pur sicuro
    che per questo sarai stretto dai crampi
    stanotte e ai fianchi avrai dolori tali
    che il respiro ti tolgano. I folletti
    nell'ore della notte allor che meglio
    possono lavorare, i loro sforzi
    rivolgeranno contro te. Sarai
    coperto di punture così strette
    come sono le celle d'alveare
    e più cocenti che l'avesser fatte
    gli aculei delle api.

                           CALIBANO.

                         Il pranzo debbo
    mangiarmi! È mia quest'isola. Mia madre
    Sicoràx me la dette e tu l'hai presa!
    Quando giungesti qui la prima volta
    mi accogliesti benigno e gran carezze
    mi facesti amichevoli. Mi davi
    da bere un'acqua ove spremevi bacche
    e m'insegnavi il nome della grande
    luce e dell'altra piccola che il giorno
    e la notte rischiarano. Ed allora
    io ti amavo e cercavo di mostrarti
    i pregi di quest'isola: le fresche
    sorgenti, le saline, gli opulenti
    terreni e quelli sterili. Sia sempre
    maledetto di aver fatto così.
    Che le malie di Sicoràx, le vespe,
    i rospi e vipistrelli su di voi
    si abbattano. Però che sono il solo
    vostro suddito e prima ero sovrano
    di me stesso! E mi date come cuccia
    quell'aspra roccia, e tutta quanta l'isola
    mi togliete!

                           PROSPERO.

                O bugiardo schiavo, i colpi
    ti commuovono e non le gentilezze.
    Se ben marcio tu sia, con una umana
    attenzione io ti ho trattato e nella
    mia stessa grotta ti ho tenuto, fino
    al giorno in cui tentasti violare
    l'onore di mia figlia!

                           CALIBANO.

                          Oho! lo avessi
    potuto fare! Se non lo impedivi
    l'isola tutta avrei ripopolato
    di Calibani!

                           PROSPERO.

                O schiavo maledetto
    cui nessuna bontà lascerà impronta
    chè sei capace d'ogni male! Ho avuto
    pietà di te, mi sono imposto il grave
    compito di farti parlare. Ogni ora
    ti ho insegnato una cosa o l'altra. E quando
    non sapevi, o selvaggio, disbrogliare
    il tuo pensiero e mugolavi acute
    strida sì come un bruto, a quelli oscuri
    tuoi sentimenti ho dato una parola
    che li rese palesi. Ma la tua
    vile stirpe--quantunque tu imparassi--
    aveva in sè tali funesti germi
    che non poteano i buoni sopportarne
    il contatto. È così che giustamente
    ti ho chiuso in questa roccia, meritata
    assai più che una carcere.

                           CALIBANO.

                              Mi avete
    insegnato a parlare e ne profitto
    per maledire. Che la peste rossa
    vi uccida per avermi appreso il vostro
    linguaggio.

                           PROSPERO.

               Mal seme di strega, via
    di qua! La legna arrecaci e sii pronto,
    se mi credi, che c'è nuovo lavoro.
    Scuoti le spalle, o maligno? Se mostri
    trascuratezza o mal voler nel fare
    quel che ti ordinerò, tutto ti voglio
    torcer con vecchi crampi, empirti l'ossa
    di spasimi e ruggire in tal maniera
    io ti farò, che all'urla tue le belve
    tremeranno!

                           CALIBANO.

                 Ti prego, no, ti prego!

                                                        A parte.

    Debbo obbedire e sì potente è l'arte
    sua che saprebbe Setebos, il dio
    di mia madre, far servo.

                           PROSPERO.

                            Orsù, via schiavo!

                                                  Exit CALIBANO.

                             Rientra ARIELE invisibile, suonando
                             e cantando. FERDINANDO lo segue.

                             ARIELE

                                                       cantando.

                _Su queste sabbie gialle
                prendetevi per mano
                dopo la riverenza
                farete il baciamano.
                Poi con piede leggero
                --taccion l'onde ribelli--
                danzate, e dolci spiriti
                cantano i ritornelli.
                Ascoltate! ascoltate!_

                                  Si ode abbaiare dal di dentro.

                _abbaiano i cani di guardia!_

                                       Si ode di nuovo abbaiare.

                _Ascoltate! ascoltate: si udì
                lanciar Cantachiaro
                il prosuntuoso suo chicchirichì!_

                          FERDINANDO.

    Dove saranno questi canti? In cielo
    o sulla terra? Io più non gli odo e pure
    vigileran su qualche Dio di questa
    isola. Ch'io mi segga anche una volta
    e pianga anche una volta il naufragato
    mio padre. Sopra l'onde furiose
    mi colpì questa musica addolcendo
    l'impeto loro e insieme il mio dolore
    con sua dolcezza. Allora io l'ho seguita
    o meglio quella mi condusse qui.
    Ora è cessata. No, di nuovo ancora
    ricomincia.

                             ARIELE

                                                       cantando.

             _A ben cinque braccia nel mare
                  tuo padre si giace sepolto:
                  coralli son l'ossa,
                  son gli occhi due perle nel volto.
                Ma niente di lui sarà vano
                  che per un incanto del mare
                  dovrà trasformarsi in qualcosa
                  di ricco e di strano._

             _O ninfe del mare intonate
                  per lui, d'ora in ora il lamento._

                                        Si ode suono di campane.

                  _Din-don le campane--le sento
                  Din-don le campane!_

                                   Di nuovo il suono di campane.

                          FERDINANDO.

               Quel canto di mio padre
    annegato racconta. Non è cosa
    mortale e non è suono che alla terra
    appartenga. Or lo sento sopra me!

                            PROSPERO

                                                      a Miranda.

    Le infrangiate cortine dei tuoi occhi
    solleva e dimmi quel che vedi.

                            MIRANDA.

                                  È mai
    uno spirito? Come egli si guarda
    tutto intorno! Credete a me, signore,
    nobile forma egli ha, ma senza dubbio
    è uno spirito.

                            PROSPERO

                  No, bambina, ei dorme
    e mangia ad ha li stessi sensi tutti
    che abbiamo noi; li stessi. Quel galante
    che vedi là fuor del naufragio, quando
    non fosse dal dolor battuto--il duolo
    della bellezza è il cancro--tu potresti
    bel giovine chiamarlo. I suoi compagni
    ha perduto e qua e là tenta cercarli.

                            MIRANDA.

    Posso chiamarlo un essere divino,
    che mai di naturale ho visto tanto
    nobile!

                            PROSPERO

                                                          da sè.

           S'incamminano le cose
    come l'animo mio sperava. O Spirito,
    lieve Spirito! in meno di due giorni,
    per questo fatto, libero sarai.

                          FERDINANDO.

    Certo, quella è la dea che questo canto
    accompagnava. I miei voti ascoltate:
    posso sapere se abitate questa
    isola? E mi potete dar consiglio
    del come debba quivi comportarmi?
    Ma la prima dimanda è questa ch'io
    v'indirizzo per ultima: O portento,
    siete fanciulla o no?

                            MIRANDA.

                         Non un portento,
    signore, ma fanciulla certo.

                          FERDINANDO.

                         Il mio
    stesso linguaggio! O cielo! E pur sarei
    primo fra quelli che un linguaggio tale
    parlano, se ancor fossi nel paese
    dove si parla.

                           PROSPERO.

    Come il primo? E cosa
    diverresti mai tu se ti sentisse
    parlare il Re di Napoli?

                          FERDINANDO.

                            Lo stesso
    di quel ch'io sono, pien di meraviglia
    nell'udirti di Napoli parlare.
    Egli mi udiva ed è per questo ch'io
    piangevo. Il Re di Napoli son io
    oramai, che ho veduto con questi occhi
    --d'onde non più cessò l'alta marea
    delle lacrime--il padre naufragare.

                            MIRANDA.

    Ahimè che pena!

                          FERDINANDO.

                   Sì, sulla mia fede!
    E insiem con lui tutta la Corte e il Duca
    di Milano col suo nobile figlio.
                            PROSPERO

                                                        a parte.

    Il Duca di Milano con la sua
    più nobile figliuola ti potrebbe
    smentir, se lo credesse. A prima vista
    si son scambiati i loro sguardi. O dolce
    Ariel, sarai libero per questo!

                                                   A Ferdinando.

    Signore, una parola, con i vostri
    discorsi io temo non vi siate fatto
    qualche danno. Ascoltate: una parola.

                            MIRANDA

                                                          da sè.

    Perchè mio padre sì scortesemente
    gli parla? È questo il terzo essere umano
    ch'io vidi mai, ma il primo per il quale
    io mi sospiri. La pietà sospinga
    mio padre dalla mia parte.

                          FERDINANDO.

                              Se siete
    vergine ancora e il vostro cor non sia
    impegnato, di Napoli regina
    io vi farò!

                           PROSPERO.
               Piano, signore, ancora
    una parola!
                                                        A parte.

    Entrambi sono presi
    da uno stesso potere, ma bisogna
    questi rapidi eventi ritardare
    perchè una troppo facile vittoria
    non renda il premio troppo lieve.

                                                   A Ferdinando.

    Ancora
    una parola: ascoltami, t'impongo
    di seguirmi. Tu, certo, usurpi un nome
    che non è il tuo: come una spia venisti
    in quest'isola e tenti d'usurparla
    a me che sono il suo sovrano.

                          FERDINANDO.

                                 No!
    come è vero ch'io sono un uomo!

                            MIRANDA.

                                   Nulla
    di male può abitare un simil tempio.
    Se dimora sì bella avrà il cattivo
    spirito, i buoni spirti cercheranno
    di abitarla con lui.

                           PROSPERO.

                         Seguimi!

                                                      A Miranda.

                                 Smetti
    di chieder grazia! È un traditore.

                                                   A Ferdinando.

                                      Vieni!
    Il collo ai piedi t'incatenerò,
    l'acqua del mar sarà la tua bevanda,
    conchiglie d'acqua dolce avrai per cibo
    e disseccate radiche ed i gusci
    delle ghiande. Su, vieni!

                          FERDINANDO.

                             No! Che prima
    di subir tale trattamento voglio
    aspettare un nemico più possente.

                  Sfodera la spada e resta immobile per incanto.

                            MIRANDA.

    O caro padre nol tentar con prova
    troppo imprudente: è nobile e non è
    timido!

                           PROSPERO.

           Cosa? Il mio piede diventa
    mio maestro?

                                                   A Ferdinando.

                 Rinfodera la spada,
    traditore che tenti di colpire
    ma che non osi, tanto la certezza
    di tua colpa ti aggrava. Smetti dunque
    di stare in guardia! Con la mia bacchetta
    io posso disarmarti e far cadere
    la tua spada.

                            MIRANDA.

                 Vi supplico, o mio padre!

                           PROSPERO.

    Via di qua, non appenderti alle mie
    vesti.

                            MIRANDA.

          Pietà, signore, io sarò il suo
    ostaggio!

                           PROSPERO.

             Basta! Ancora una parola
    e mi cruccerò teco, per non dire
    che ti odierò. Per simile impostore
    guarda quale avvocato! Zitta! Credi
    forse che non ci sieno altre figure
    come questa, perchè non ne vedesti
    all'infuori di Calibàno e della
    sua? Folle bimba, al paragone d'altri
    uomini, Calibàno egli è; son tutti
    angeli al suo confronto.

                            MIRANDA.

                            Umili molto
    son dunque i sentimenti miei: non cerco
    di vederne migliori.

                           PROSPERO.

                        Or dunque, andiamo.
    Obbedisci! I tuoi nervi son di nuovo
    in infanzia e non hanno più vigore.

                          FERDINANDO.

    Ed infatti è così! Tutti i pensieri
    come in un sogno son paralizzati.
    La morte di mio padre, la stanchezza
    ch'io sento, e quella perdita di tutti
    gli amici miei, per fino le minacce
    di quest'uomo a cui sono sottomesso,
    saranno lievi cose a me se dalla
    mia prigione potrò solo una volta
    al giorno, contemplar questa fanciulla.
    La libertà tenga ogni più riposto
    angolo della terra: in tal prigione
    avrò spazio bastante.

                           PROSPERO.

                                                          da sè.

                          Bene!

                                                   A Ferdinando.

                                Andiamo!

                                                          Da sè.

    Buon Ariele, ben oprasti!

                                                   A Ferdinando.

                              Andiamo!

                                                      Ad Ariele.

    Ascolta quel che devi fare.
                            MIRANDA.

                                Abbiate
    coraggio: assai migliore è il padre mio
    di quel che il suo parlar non lo dimostri.
    Quello che ha fatto è fuor del suo costume.

                            PROSPERO

                                                      ad Ariele.

    Tu libero sarai siccome il vento
    delle montagne, ma il comando mio
    in ogni punto devi esattamente
    adempiere!

                            ARIELE.

              Alla lettera!

                            PROSPERO

                                                      A Miranda.

                            Su, via
    seguimi e non parlarmi in suo favore.




                         ATTO SECONDO.


                          SCENA PRIMA.

                   Un'altra parte dell'isola.

         Entrano ALONZO, SEBASTIANO, ANTONIO, GONZALO,
                  FRANCESCO, ADRIANO, ARIELE.


                            GONZALO.

    Ve ne prego, o signor, siate contento:
    per voi come per noi c'è ben ragione
    d'essere lieti: poi che di gran lunga
    la salvezza ogni perdita sorpassa.
    È comune il dolor nostro: ogni giorno
    la moglie di un marino, l'armatore
    di un mercantile ed il mercante stesso
    hanno un egual dolore. In quanto al nostro
    miracolo--che tale è l'esser salvi,--
    fra milïoni d'uomini ben pochi
    posson parlare come noi. Ponete
    dunque sulla bilancia, o mio buon sire,
    la tristezza e il piacere.

                            ALONZO.

                              In grazia: basta!

                          SEBASTIANO.

Riceve le consolazioni come una minestra fredda.

                            ANTONIO.

Il consolatore non lo lascerà per così poco.

                          SEBASTIANO.

Guardatelo: sta caricando l'orologio della sua intelligenza.
Fra poco, suonerà.

                            GONZALO.

Sire....

                          SEBASTIANO.

E una: parla.

                            GONZALO.

    Quando ogni afflizion che si presenta
    in tal maniera, al suo ospite apporta....

                          SEBASTIANO.

Un dollaro.

                            GONZALO.

Un dolore: è giusto. Avete parlato meglio di quel che non
credevate.

                          SEBASTIANO.

E voi lo avete interpretato meglio di quello che non mi
fossi proposto.

                            GONZALO.

    Ed è perciò, signore mio....

                          SEBASTIANO.

Uff! Come è prodigo della sua lingua!

                            ALONZO.

                                 Ti prego,
    risparmiami.

                            GONZALO.

                Ho finito. Ma pertanto....

                          SEBASTIANO.

Continuerà a parlare.

                            ANTONIO.

Scommettiamo: chi gracchierà prima, lui o Adriano?

                          SEBASTIANO.

Sarà il vecchio gallo.

                            ANTONIO.

Sarà il galletto.
                          SEBASTIANO.

Accettato. E la posta?

                            ANTONIO.

Una risata.

                          SEBASTIANO.

Tengo.

                            ADRIANO.

Se bene quest'isola sembri deserta....

                          SEBASTIANO.

Ah! ah! ah! ah! -- Eccovi pagato.

                            ADRIANO.

.... inabitabile e quasi inaccessibile....

                          SEBASTIANO.

Pure....

                            ADRIANO.

.... pure....

                            ANTONIO.

Non poteva tralasciarlo.

                            ADRIANO.

.... pure sembra che debba essere di clima leggero, sottile
e di delicata temperanza.

                            ANTONIO.

Temperanza era infatti una delicata donzella.

                          SEBASTIANO.

Già: e sottile anche, come l'ha saggiamente annunciato.

                            ADRIANO.

L'aria alita sopra di noi molto dolcemente.

                          SEBASTIANO.

Come se avesse polmoni e--per di più--marci.

                            ANTONIO.

O come se fosse profumata da una palude.

                            GONZALO.

Qui c'è ogni cosa giovevole alla vita.

                            ANTONIO.

Giusto: salvo però la maniera di vivere.

                          SEBASTIANO.

Di questa ce n'è poco o punto.

                            GONZALO.

Come l'erba apparisce folta e rigogliosa! E come è verde!

                            ANTONIO.

Il suolo però è gialliccio.

                          SEBASTIANO.

Con una punta di verde.

                            ANTONIO.

Non si è sbagliato di molto.

                          SEBASTIANO.

No: non fa che sbagliare intieramente la verità.

                            GONZALO.

Ma la rarità di tutto ciò, che è quasi oltre ogni
credere....

                          SEBASTIANO.

Come tante altre notorie rarità....

                            GONZALO.

.... è che le nostre vesti, bagnate dal mare come furono,
hanno non ostante conservato la loro freschezza e il loro
splendore e sono più tosto rinnovate che macchiate
dall'acqua salata.

                            ANTONIO.

Ma se una delle sue tasche potesse parlare, non direbbe
forse che mentisce?

                          SEBASTIANO.

Già: o per lo meno s'intascherebbe molto falsamente la sua
affermazione.

                            GONZALO.

Mi sembra che le nostre vesti siano così fresche come il
giorno che le indossammo per la prima volta, in Africa, al
matrimonio della figlia del Re, la gentile Claribella, col
Re di Tunisi.

                          SEBASTIANO.

Fu un bel matrimonio, che ci ha profittato molto nel
ritorno!

                            ADRIANO.

Tunisi non era mai stata onorata, prima di adesso, con un
modello di perfezione simile alla sua Regina.

                            GONZALO.

No: dal tempo della vedova Didone.

                            ANTONIO.

Vedova? La peste a lei! Come c'entra questa vedova? La
vedova Didone!

                          SEBASTIANO.

E così? Se egli avesse anche detto il "Vedovo Enea", Signore
Iddio, come ve la prendete, per questo!

                            ADRIANO.

Vedova Didone, avete detto? Ora mi ci fate pensare: ella era
di Cartagine, non di Tunisi.

                            GONZALO.

Questa Tunisi, o signore, era un tempo Cartagine.

                            ADRIANO.

Cartagine!

                            GONZALO.

Ve lo assicuro: Cartagine.

                            ANTONIO.

La sua parola val più di un'arpa miracolosa.

                          SEBASTIANO.

Egli ha innalzato le muraglie e le case tutte insieme.

                            ANTONIO.

Che cosa impossibile sta ora per rendere facile?

                          SEBASTIANO.

Suppongo che si porterà via quest'isola in tasca e che la
darà a suo figlio come una mela.

                            ANTONIO.

E che ne butterà i semi in mare per far nascere altre isole!

                            ALONZO.

Che c'è?

                            ANTONIO.

Arriva in buon punto.

                            GONZALO.

Sire, dicevamo che le nostre vesti sono fresche come quando
eravamo a Tunisi, per il matrimonio di vostra figlia, ora
regina.

                            ANTONIO.

E la più rara che sia mai veduta là.

                          SEBASTIANO.

Eccettuata, vi prego, la vedova Didone.

                            ANTONIO.

O la vedova Didone! Già: vedova Didone!

                            GONZALO.

Non è forse, sire, il mio giustacuore fresco come il primo
giorno che lo indossai? Intendo, sotto un certo punto di
vista....

                            ANTONIO.

Ecco un "punto di vista" pescato opportunamente.

                            GONZALO.

.... quando lo indossai al matrimonio di vostra figlia?

                            ALONZO.

    M'impinzate le orecchie con parole
    oltre la fame dei miei sensi. Il cielo
    volesse ch'io mia figlia non avessi
    maritato costà: chè nel ritorno
    ho perduto mio figlio e se non erro,
    ora che dall'Italia ella è sì lunge,
    io non potrò più rivederla. O erede
    di Milano e di Napoli, di quale
    strano pesce sarai stato pastura?

                           FRANCESCO.

    Sire, forse egli è vivo. Io l'ho veduto
    domare l'onde e cavalcarne il dorso.
    Egli sottometteva l'acque e d'ambo
    i lati respingea quei loro attacchi
    nemici e le più aspre ondate contro
    di lui sospinte a sè stringea. L'ardita
    fronte oltre i flutti irosi sollevando
    con buone braccia in vigorosi colpi
    remigava così verso la costa
    che, dal flutto minata, reclinava
    sopra lui, quasi ad aiutarlo. Salvo
    giunse a terra.

                            ALONZO.

                   No, no, perito è certo.

                          SEBASTIANO.

    Sire, potete ringraziar voi stesso
    per questa grande perdita. L'Europa
    favorir non voleste con la figlia
    vostra, che preferiste abbandonare
    a un africano e quivi ella è bandita
    dai vostri occhi che giustamente ormai
    lacrime versan di rimpianto.

                            ALONZO.

                                Basta,
    ti prego.

                          SEBASTIANO.

             Supplicato foste e tutti
    c'inginocchiammo innanzi a voi con ogni
    genere di preghiere e quella stessa
    bell'anima divisa fra disgusto
    e obedienza, esitò a lungo incerta
    da qual lato propendere. Perduto
    per sempre abbiamo vostro figlio, io temo,
    e Napoli e Milano avran per questa
    avventura più vedove che noi,
    uomini non rechiamo a consolarle.
    La colpa è vostra.

                            ALONZO.

                      Ed è la mia più cara
    perdita!

                            GONZALO.

            O Sebastiano, o mio signore,
    il vero che narrate manca forse
    di gentilezza e di opportunità.
    Irritate la piaga quando invece
    voi dovreste arrecar l'impiastro.

                          SEBASTIANO.

                                     È giusto.

                            ANTONIO.

    E chirurgico molto.

                            GONZALO.

                       O mio buon sire
    è tempo nero per noi tutti, quando
    siete rannuvolato.

                          SEBASTIANO.

                      Tempo nero.

                            ANTONIO.

    Nerissimo.

                            GONZALO.

              E dovessi io coltivare
    quest'isola, o signore....

                            ANTONIO.

                              Pianterebbe
    l'ortica.

                          SEBASTIANO.

             O pur la malva.

                            GONZALO.

                            S'io mi fossi
    il Re, cosa farei?

                          SEBASTIANO.

                      Vi provereste
    a non ubriacarvi per mancanza
    di vino.

                            GONZALO.

            Nel mio Stato ordinerei
    le cose alla rovescia: non un nome
    di magistrato ammetterei; commerci
    d'ogni genere esclusi; ignote tutte
    le lettere; ricchezza, povertà,
    usi di servitù nessuno; niente
    contratti, eredità, siepi, poderi
    chiusi, terreni coltivati e vigne;
    proibito l'uso di metalli, d'olio,
    di frumento, di vino; alcun lavoro:
    gli uomini tutti in ozio ed anche tutte
    le donne, ma innocenti e pure; alcuna
    supremazia regale....

                          SEBASTIANO.

                         Ma vorrebbe
    essere il Re!

                            ANTONIO.

    La fine della sua repubblica si dimentica del
    principio!

                            GONZALO.

              Senza sudori e senza
    sforzi tutte le cose produrrebbe
    la Natura; vorrei fossero ignoti
    il tradimento, la bassezza e l'uso
    di spada, di coltello, di fucile,
    di picca e d'ogni altra arma; la benigna
    Natura produrrebbe in abbondanza
    quanto basti a nutrire il popol mio!

                          SEBASTIANO.

    E nessun matrimonio fra i suoi sudditi.

                            ANTONIO.

    Nessuno: tutti in ozio, puttane e farabutti.

                            GONZALO.

    E vorrei governar, sire, con tanta
    perfezione, che l'età dell'oro
    sarebbe sorpassata.

                          SEBASTIANO.

                        Salva sia
    Sua Maestà!

                            ANTONIO.

               Evviva il Re Gonzalo!

                            GONZALO.

E--mi ascoltate, o sire....

                            ALONZO.

Basta, ti prego; le tue parole non mi dicono niente.

                            GONZALO.

Credo facilmente a Vostra Altezza e se le ho dette è stato
per divertire questi gentiluomini i quali hanno una milza
così sensibile, che si mettono a ridere per la minima
sciocchezza.

                            ANTONIO.

Questa volta abbiamo riso di voi.

                            GONZALO.

Il quale io, in questo genere di allegra pazzia sono un
niente in confronto a voi. Così potete continuare e ridere
ancora di nulla.

                            ANTONIO.

Che colpo ci avrebbe dato!

                          SEBASTIANO.

Se non fosse caduto come uno straccio.

                            GONZALO.

Voi siete gentiluomini di fegato, capaci di tirar giù la
luna dalla sua sfera, se stesse cinque giorni senza
cambiare.

                                      Entra ARIELE invisibile.
                                      Si ode una musica solenne.

                          SEBASTIANO.

Lo faremmo infatti e ci andremmo a caccia servendocene come
lanterna.

                            ANTONIO.

Su via, mio buon signore, non vi arrabbiate.

                            GONZALO.

O no, ve lo garantisco io, non comprometterei la mia serietà
per così poco. Volete ridere di me mentre dormo? Mi sento
molto stanco.

                            ANTONIO.

Andate a dormire e cercate di sentirci.

                               Tutti si addormentano, eccettuati
                               ALONZO, SEBASTIANO e ANTONIO.

                            ALONZO.

    Come sì presto addormentati? Ahi fosse
    possibile che gli occhi miei con loro
    si chiudessero sopra i miei pensieri!
    Sento che a ciò sono proclivi.

                          SEBASTIANO.

                                  Sire,
    non ricusate questa offerta, il sonno
    ben di rado il dolor visita e quando
    lo faccia, è di conforto.

                            ANTONIO.

                             Ambo, o signore,
    vi guarderemo mentre riposate
    e veglieremo alla salvezza vostra.

                            ALONZO.

    Io vi ringrazio. Oh sonno portentoso!

                                           ALONZO si addormenta.
                                           Exit ARIELE.

                          SEBASTIANO.

    Quale strano sopor tutti li tiene!

                            ANTONIO.

    Forse è il clima.

                          SEBASTIANO.

                     Perchè, se gli occhi vostri
    non si aggravan così? Non sento affatto
    bisogno di dormire.

                            ANTONIO.

                       Ed io nè meno.
    Son vigili i miei spiriti. Assopiti
    essi sono nel sonno, tutti insieme
    quasi per un accordo e son piombati
    a terra come fulminati! Quale
    buona fortuna, o Sebastiano. Quale
    buona fortuna! Ma non più, mi sembra
    però di legger sul tuo volto, quello
    che vorresti: l'occasion ti parla
    e la mia ardente fantasia già scorge
    una corona alla tua fronte....

                          SEBASTIANO.

                                  Cosa?
    Sei tu sveglio?

                            ANTONIO.

    Non odi il mio parlare?

                          SEBASTIANO.

    L'odo: ma questo tuo parlare è certo
    d'uomo assopito e tu nel sogno parli.
    Cosa dicevi? Assai strano riposo,
    dormir con gli occhi aperti! Tu ti muovi,
    e stai in piedi e discorri e pure dormi
    profondamente.

                            ANTONIO.

                  Nobil Sebastiano,
    tu, la fortuna tua lasci dormire
    o morire più tosto! E chiudi gli occhi
    pur essendo ben sveglio.

                          SEBASTIANO.

                            È certo, russi
    distintamente e v'è nel tuo russare
    pur qualche senso.

                            ANTONIO.

                      Più che mio costume
    io son serio e voi pur lo diverrete,
    se mi darete ascolto, triplicato,
    in questo caso.

                          SEBASTIANO.

                   Io sono un'acqua ferma.

                            ANTONIO.

    E a scorrer io v'insegnerò.
                          SEBASTIANO.

                               Sì, fatelo:
    un'indolenza ereditaria, forse
    m'indurrà a rifluire.

                            ANTONIO.

                          O se sapeste
    quanto questo proposito voi stesso
    pur irridendo accarezzate e quanto
    più lo spogliate e più lo fate bello!
    Gli uomini del riflusso, veramente
    sono vicini, molto spesso, al fondo
    per il loro timore e per la loro
    indolenza.

                          SEBASTIANO.

              Ti prego, spiega meglio.
    La durezza del tuo sguardo e del tuo
    volto proclama un non so qual pensiero
    che vuol manifestarsi, ed il cui parto
    grandi sforzi ti costa.

                            ANTONIO.

                           Ecco, signore:
    questo messer di debole memoria
    --che lascerà fra gli uomini un ricordo
    anche più lieve quando sia sepolto--
    quasi convinto ha il Re (perchè costui
    è l'uomo del convincere e soltanto
    a questo scopo è nato) che suo figlio
    sia sempre vivo. Che non sia affogato
    è impossibile, come non sarebbe
    possibile che nuoti ei che qui dorme.

                          SEBASTIANO.

    Non ho alcuna speranza ch'egli sia
    salvo.

                            ANTONIO.

         Quanta speranza in quella "alcuna
    speranza"! Alcuna speme è un'altra strada
    che adduce a una speranza così alta
    qual l'occhio dell'ambizione appena
    può raggiungerla e dubita pur anco
    di poterla scoprire! Convenite
    con me che Ferdinando è morto?

                          SEBASTIANO.

                                  È morto.

                            ANTONIO.

    Dunque qual'è l'erede più vicino
    al trono?

                          SEBASTIANO.

             Claribella.

                            ANTONIO.

                        La regina
    di Tunisi, colei che abita a dieci
    leghe oltre il poter nostro; colei che
    da Napoli non può ricever nuove
    (se non le faccia da corriere il sole
    chè l'_Uomo nella luna_ andrebbe troppo
    lento) prima che il mento del fanciullo
    appena nato sia peloso e pronto
    ad esser raso; quella per cui tutti
    fummo preda del mare e solo alcuni
    rigettati alla spiaggia. Ma son questi
    predestinati a compiere un tal fatto
    di cui il passato è il prologo e il futuro
    sta nelle vostre mani e nelle mie.

                          SEBASTIANO.

    Che vaniloquio! Cosa dite? È vero
    che la figlia di mio fratello regna
    su Tunisi ed è vero ch'ella sia
    la sola erede al trono e che fra i due
    paesi corra un qualche spazio.

                            ANTONIO.

                                  Un tale
    spazio, che ciascun cubito ci sembra
    debba gridare: "Come Claribella
    può dettar leggi a Napoli? Rimanga
    a Tunisi e si svegli Sebastiano".
    Dite: se quel sopor che ora li tiene
    fosse la morte, non sarebber peggio
    di quel che sono. E può qualcun regnare
    su Napoli, così come costui
    che dorme. Ci sarebbero signori
    che potrebber parlar con altrettanta
    inutile abbondanza al par di questo
    Gonzalo. Io stesso potrei far discorsi
    così vani. Ah perchè voi non avete
    un'anima alla mia pari! Qual sonno
    sarebbe questo al salir vostro! Udite?

                          SEBASTIANO.

    Credo di sì!

                            ANTONIO.

                Con qual senso accogliete
    questa vostra fortuna?

                          SEBASTIANO.

                          Mi rammento
    che soppiantaste Prospero, il fratello
    vostro.

                            ANTONIO.

           È vero. E guardate come bene
    mi stanno addosso queste vesti: molto
    meglio di prima. Mi erano compagni
    di mio fratello i servi, ora mi sono
    sottomessi.

                          SEBASTIANO.

               Però la coscienza...

                            ANTONIO.

    Ahi, signore, dov'è? S'ella pur fosse
    un gelone potrebbe trattenermi
    dentro le mie pantofole: ma io
    non sento quella Dea dentro il mio seno.
    Ci fossero fra me e Milano venti
    coscienze potrebbero gelare
    e liquefarsi prima che una qualche
    molestia mi recassero. Il fratello
    vostro qui giace e non varrebbe meglio
    di questa terra su cui dorme s'egli
    fosse quello che sembra: morto. Io posso
    con tre pollici sol di questo ferro
    obbediente stenderlo per sempre
    sul suo letto e nel tempo stesso, voi
    rivolgete lo sguardo a questo vecchio
    straccio di ser Prudente, che in tal modo
    non sarebbe più là per giudicare
    quel che facemmo. In quanto agli altri tutti,
    accetteranno, come un gatto beve
    una tazza di latte, quel che noi
    vorremo suggerire e obbedienti
    orologi quell'ora suoneranno
    che diremo esser utile all'impresa
    del momento.

                          SEBASTIANO.

                Sarà mio precedente
    il tuo passato, caro amico, e come
    acquistasti Milano io farò mia
    Napoli. Fuori la tua spada; un colpo
    e ti libererai da quel tributo
    che paghi, ed io, Re, ti amerò.

                            ANTONIO.

                                  Snudiamo
    le spade insieme e quando la mia mano
    si alzerà, faccia la vostra altrettanto
    per Gonzalo.

                                      Rientra ARIELE invisibile.
                                      Si ode una musica.

                          SEBASTIANO.

                Ma ascolta una parola.

                                Lo trae da un lato, parlandogli.

                            ARIELE.

    Ha preveduto il mio signor per mezzo
    dell'arte sua questo periglio in cui
    l'amico suo si trova e qui mi manda
    che tu viva e non muoia il suo disegno.

                              Parlando negli orecchi di Gonzalo.

           _Mentre giaci addormentato
        la congiura dall'occhio sbarrato
            non perde un momento.
            Se la vita ti sta a cuore
        scuoti dunque cotesto torpore.
            Attento! Attento!_

                            ANTONIO.

    Siamo rapidi entrambi.

                            GONZALO

                                                   svegliandosi.

                          Angeli buoni
    salvate il Re.

                                         A Sebastiano e Antonio.

                  Che cosa c'è?

                                                       A Alonzo.

                               Su! Sveglio.

                                         A Sebastiano e Antonio.

    Perchè le spade sguainate? E cosa
    vogliono dire quei sinistri sguardi?

                             ALONZO

                                                   svegliandosi.

    Che c'è di nuovo?

                          SEBASTIANO.

                      Mentre vegliavamo
    sopra il vostro riposo, in un istante
    medesimo un rumore udimmo come
    ruggir di tori o di leoni. È questo
    che vi ha svegliati? Assai terribilmente
    mi ha colpito l'orecchio.

                            ALONZO.

                             Io non ho udito
    nulla.

                            ANTONIO.

          Era uno strepito che avrebbe
    spaventato l'orecchio anche di un mostro
    e il suol fatto tremare. È stato certo
    il ruggire d'un'orda di leoni.

                            ALONZO.

    Tu l'udisti, o Gonzalo?

                            GONZALO.

    Sul mio onore
    udito ho come un mormorio bizzarro
    che mi ha svegliato: ed io vi ho scosso allora
    e vi ho svegliato e mentre aprivo gli occhi
    visto ho le spade loro ignude. Certo
    vi fu rumore, e questo è vero. Meglio
    faremo a stare in guardia o pur lasciamo
    questa contrada. E sfoderiam le spade.

                            ALONZO.

    Lasciamo pure questo luogo e il figlio
    mio misero cerchiamo.

                            GONZALO.

                         Il ciel lo tenga
    lungi da tali belve, ch'egli è certo
    in quest'isola!

                            ALONZO.

                   Andiamo.

                                             Exit con gli altri.

                            ARIELE.

                           Il mio signore
    Prospero, ben saprà quel che ho compito
    e tu, Re, cerca il figliuol tuo smarrito.

                                                           Exit.


                           SCENA II.

                   Un'altra parte dell'isola.

            Entra CALIBANO con un fastello di legna.
                 Si ode rumoreggiare il tuono.

                           CALIBANO.

    Tutte le infezioni che dai botri,
    dalle paludi, dalli stagni sugge
    il sole, possan ricadere sopra
    Prospero ed ogni pollice del suo
    corpo coprir di pustole! Gli spiriti
    suoi m'odono e pur debbo maledirlo.
    Ma s'ei non lo comanda non verranno
    a pungermi nè a spaventarmi in loro
    visioni di démoni nè a farmi
    cader nei fossi, o come fuochi erranti
    a condurmi di notte fuori della
    mia strada. Per la più piccola cosa
    eccoli addosso a me! Simili a scimmie
    qualche volta m'irridono col loro
    stridere e mi perseguono ed al fine
    mi mordono; altre volte prendon forma
    di porcospini che sul mio cammino
    si arrotolano sì che le lor punte
    mi feriscono i piedi, e spesso ancora
    son circondato da serpenti, i quali
    con la forcuta lingua sibilando
    mi rendon pazzo. Ahimè, questo che viene
    è uno dei suoi spiriti che certo
    mi vorrà tormentar perchè son lento
    a portare la legna. Vo' cadere
    disteso al suol, che forse non mi scorge.

                                                 Entra TRINCULO.

                           TRINCULO.

Non c'è nè un cespuglio nè un alberello qualunque per
ripararsi dalle intemperie ed ecco che si prepara una
tempesta: la sento brontolare nel vento e c'è laggiù una
nuvola nera--quella grossa là--che sembra un vecchio oltre
il quale sia per spandere il suo liquido. Se tonasse, come
ha già fatto, non saprei nè meno dove nascondere il capo:
quella nuvola là non ci risparmierà certo l'acqua a secchie!
Cosa c'è, qui per terra? Un uomo o un pesce? È morto o è
vivo? È un pesce: per lo meno puzza di pesce, un puzzo
rancido di pesce passato; una specie di baccalà che non
dovrebbe essere nè meno tanto fresco. Che pesce buffo! Se
fossi ora in Inghilterra, come ci sono stato un tempo, e se
avessi questo pesce solamente dipinto, non un baggiano, nei
giorni di fiera, mi rifiuterebbe la sua moneta d'argento per
vederlo. In quel paese, questo mostro arricchirebbe il suo
uomo: ogni strana bestia arricchisce il suo uomo laggiù.
Certo, non darebbero un centesimo per soccorrere un povero
stroppiato, ma ne sborserebbero dieci per vedere un Indiano
morto. Piedi come un uomo e natatoie per braccia! In parola
d'onore, è caldo! Abbandono la mia prima opinione: la
congedo definitivamente: non è un pesce ma un isolano che
sarà stato colpito dal fulmine.

                                   Si ode rumoreggiare il tuono.

Povero me, ecco la bufera che ritorna! Non ho di meglio da
fare che nascondermi sotto il suo gabbano: non c'è altro
riparo tutto intorno! La sventura vi fa trovare curiosi
compagni di letto! Mi nasconderò là sotto finchè non sarà
passato il tramestìo della tempesta.

                         Si nasconde sotto le vesti di Calibano.

                                      Entra STEFANO cantando
                                      con una bottiglia in mano.

                            STEFANO.

        _Non andrò più al mare, al mare,
        sulla spiaggia vo' morir...._

È un ritornello adattatissimo per il trasporto di qualcuno:
ma ecco la mia consolazione.

                                                           Beve.

        _Il Padrone, il nostromo, io stesso, i marinari
              il cannoniere e il servente
        Megg, Moll e Marietta amavano del pari
              ma non si curavan niente
        di Cate che un linguaggio aveva spudorato
              e al marinar diceva di sovente
                    "Sii appiccato".
        Il gusto del catrame non le piaceva punto
              nè della pece il sapore
        sì che un sarto qualunque potea graffiarla appunto
              dove sentisse il prudore.
            Dunque su, ragazzi, al mare
            e lasciatela impiccare!_

Anche questa è una canzone poco allegra: ma ecco la mia
consolazione.

                                                           Beve.

                           CALIBANO.

Non mi tormentate.... oh....

                            STEFANO.

Cosa c'è? Ci sono dei diavoli qui? È per farci qualche
burletta che vi travestite da selvaggi e da uomini
dell'India, eh? Non mi son salvato dall'affogamento per aver
ora paura delle vostre quattro zampe; già che è stato detto:
"L'uomo più forte che mai sia andato su quattro gambe, non
cederà il terreno" e si ripeterà di nuovo, finchè Stefano
respirerà col suo naso.

                           CALIBANO.

Gli spiriti mi tormentano, oh....

                            STEFANO.

Questo deve essere un qualche mostro a quattro zampe
dell'isola, che avrà acchiappato la febbre. Dove diavolo può
avere imparato la nostra lingua? Non fosse che per questo
gli vo' recare qualche aiuto. Se mi riescirà a guarirlo lo
addomesticherò e lo condurrò a Napoli con me: sarà un regalo
degno di ogni imperatore che avrà messo i piedi nel cuoio di
vacca.

                           CALIBANO.

    Non tormentarmi, te ne prego, il legno
    a casa porterò presto.

                            STEFANO.

Deve avere un accesso perchè quello che dice non è molto
ragionevole. Gli farò assaggiare la mia bottiglia: se non ha
mai bevuto vino, questa bevuta sarà capace di levargli la
febbre. Se potrò guarirlo e addomesticarlo, non lo curerò
mai abbastanza già che farà rientrare il suo padrone nelle
spese e presto, ve lo garantisco io.

                                          Dà da bere a Calibano.

Non sapreste dire chi è il vostro amico: apri bocca un'altra
volta.

                                        Gli dà di nuovo da bere.

                           CALIBANO.

                         Un gran male
    non mi farai, ma ancora un poco certo:
    lo veggo al tuo tremor; Prospero agisce
    sopra di te.

                            STEFANO.

Vieni qua: apri bocca. Ecco qualcosa che ti snoderà la
lingua, gatto mio. Apri bocca: ecco una cosa che ti leverà
di dosso i brividi, te lo garantisco io.

                                                 Gli dà da bere.

Su, apri bocca.

                           TRINCULO.

Riconosco questa voce: dovrebbe essere.... ma è affogato
quello. Questi sono diavoli. Aiuto!

                            STEFANO.

Quattro zampe e due voci: un mostro straordinario! La voce
davanti è per dir bene del suo amico, senza dubbio, e quella
di dietro per maledire e dire delle oscenità. Fosse pur
necessario tutto il vino della mia bottiglia, lo guarirò.
Vieni qua.

                                        Gli dà di nuovo da bere.

Amen. Voglio versarne un poco anche nell'altra bocca.

                           TRINCULO.

Stefano!

                            STEFANO.

L'altra tua bocca mi chiama per nome? Aiuto! Aiuto! Questo è
un diavolo e non un mostro.

                           TRINCULO.

Stefano! Se tu sei Stefano toccami e parlami perchè io sono
Trinculo: non aver paura, sono il tuo buon amico Trinculo.

                            STEFANO.

E se tu sei Trinculo, vieni fuori. Ti tirerò per le gambe
più corte: perchè se fra tante gambe ci sono le gambe di
Trinculo, quelle sono le più corte.

                                    Tira fuori Trinculo di sotto
                                    il mantello di Calibano.

Sei proprio Trinculo per davvero! Come diavolo hai fatto a
servire di sedile a questo vitello? O che forse peta
Trinculi?

                           TRINCULO.

Credevo che fosse stato fulminato. Ma tu non sei affogato,
Stefano? Io spero che tu non sia affogato. Mi ero nascosto
sotto il gabbano di quel vitello, per paura della tempesta.
E tu sei vivo, Stefano? O Stefano, due Napoletani salvi!

                            STEFANO.

Ti prego, non mi girare così intorno: il mio stomaco non è
troppo solido.

                            CALIBANO

                                                          da sè.

                Sono esseri assai belli
    se pur non sono spiriti. È un gran Dio
    costui che reca un suo liquor celeste.
    Mi voglio inginocchiare.

                            STEFANO.

E come te la sei scampata? Come sei arrivato qui? Giurami su
questa bottiglia come sei arrivato qui. Io mi son salvato
sopra un barile di Xeres che i marinari avevano buttato in
mare: lo giuro per questa bottiglia che mi son fabbricato
con la scorza d'albero appena giunto a terra.

                           CALIBANO.

                        Ed io su questa
    bottiglia giurerò d'esserti fido
    suddito: che non è cosa terrena
    il suo liquore.

                            STEFANO.

Su via: raccontami come ti sei salvato.

                           TRINCULO.

Nuotando come un'anitra, ragazzo mio. Io posso nuotare come
un'anitra: te l'ho giurato.

                            STEFANO.

E allora, qua: bacia il vangelo.

                                                 Gli dà da bere.

Se bene tu possa nuotare come un'anitra, non vuoi dire che
tu non sia fatto come un'oca.

                           TRINCULO.

O Stefano, ce ne hai dell'altro?

                            STEFANO.

Tutto il barile, ragazzo mio. La mia cantina è in una
grotta, sulla spiaggia del mare dove ho nascosto il mio
vino. Come va, vitello, ti è passata la febbre?

                           CALIBANO.

                Sei sceso dal cielo?

                            STEFANO.

Dalla luna, te lo dico io. Ero io che facevo l'_Uomo nella luna_.

                           CALIBANO.

    Io ti ho visto e ti adoro. La padrona
    mia m'insegnò a vederti ed il tuo cane
    e il fastello di spine.

                            STEFANO.

Vieni qua: giuramelo e bacia il vangelo. La riempirò di
nuovo. Giura.

                                          Dà da bere a Calibano.

                           TRINCULO.

Per questa buona luce: ecco un mostro di poca intelligenza.
Io aver paura di lui? Un mostriciattolo da niente! L'_Uomo
nella luna_! Un mostro credulone, via! Bravo mostro, succhi
bene.

                           CALIBANO.

                             Ogni più breve
    spazio fertile in questa isola, io voglio
    mostrarti. Ecco, ti bacio il piede: sii
    mio Dio.

                           TRINCULO.

Per la luce: un mostro ubbriacone e pieno di perfidia.
Quando il suo Dio si sarà addormentato gli ruberò la
bottiglia.

                           CALIBANO.

            Ti bacio il piede e d'esser tuo
    suddito giuro.

                            STEFANO.

Vieni dunque qua: in ginocchio e giura.

                           TRINCULO.

Questo mostro dalla testa di cane mi farà morir dal ridere.
Un mostro spregevole: sentirei quasi la voglia di
picchiarlo.

                            STEFANO.

Vieni qua: bacia.

                                                 Gli dà da bere.

                           TRINCULO.

Il povero mostro è briaco: un abominevole mostro.

                           CALIBANO.

                  Le più fresche fonti
    ti mostrerò, ti coglierò le bacche,
    saprò pescar per te, per te bastante
    legna metterò insieme. Che la peste
    venga al tiranno che ora servo! Invece
    verrò con te che sei meraviglioso.

                           TRINCULO.

Un mostro ridicolissimo, che trasforma un povero ubbriacone
in una meraviglia!

                           CALIBANO.

    Lascia, ti prego, ch'io ti porti dove
    sono i frutti selvatici; con l'unghie
    mie lunghe ti saprò scavare i bulbi;
    ti mostrerò dove la gazza ha il nido;
    t'insegnerò come si prenda al laccio
    la marmotta e saprò condurre te
    nei folti d'avellane e poi per te
    sniderò l'alche. E tu verrai con me?

                            STEFANO.

Su via: apri il cammino senza più chiacchierare. Trinculo,
siccome il Re e tutto il resto della compagnia sono
affogati, noi ereditiamo quest'isola. Qui, portami la
bottiglia: compagno Trinculo, fra poco la riempiremo.

                            CALIBANO

                                  cantando con voce da ubbriaco.

        _Addio padrone! padrone addio...._

                           TRINCULO.

Un mostro cialtrone: un mostro ubbriaco!

                           CALIBANO.

        _D'ora in avanti non più penare
            per pescare
        non più fardelli pe'l focolare.
        Piatti e stoviglie messi in cantone
            ban, ban Caliban
        ha nuovo servo nuovo padrone._

    Libertà hey-dà; hey-dà libertà, libertà hey-dà-libertà...

                            STEFANO.

Da bravo, mostro, apri il cammino.

                                                         Exeunt.





                          ATTO TERZO.

                          SCENA PRIMA.

               D'innanzi alla grotta di Prospero.

          Entra FERDINANDO recando un ceppo da ardere.


    Son faticosi certi giuochi e pure
    l'incanto lor compensa la fatica
    e bassezze vi son che sopportare
    si posson nobilmente. Spesso a ricche
    conclusioni tendono le imprese
    più miserande. L'opera ch'io compio
    essere mi dovrebbe tanto grave
    quanto odiosa, ma colei che servo
    quel che è sterile fa vivo e trasforma
    le mie fatiche in contentezza. Oh dieci
    volte ella è più gentil di quel che sia
    burbero il padre suo, che pure è fatto
    d'asprezze! Per un suo tristo comando
    gli debbo accatastar mille di questi
    ceppi e la mia dolce signora piange
    quando mi vegga lavorare e dice
    che mai lavor sì vile ebbe un cotale
    lavoratore. Ecco io mi scordo e pure
    questi dolci pensier fanno più lieve
    il lavor mio, sì che quanto più penso
    tanto meno fatico.

                                              Entra MIRANDA e
                                              in fondo PROSPERO.

                            MIRANDA.

                       Ahimè, vi prego,
    non lavorate sì aspramente. Avesse
    arso il fulmine questi ceppi che ora
    dovete accatastar. Lasciate questo,
    vi prego, e riposatevi. Allorquando
    brucerà dovrà piangere d'avervi
    fatto stancare. Immerso nello studio
    è mio padre: vi supplico, lasciate
    di lavorare; per tre ore, almeno,
    ei non verrà.

                          FERDINANDO.

                 Dolcissima signora,
    il sol tramonterà prima ch'io m'abbia
    compiuto il mio lavoro.

                            MIRANDA.

                           Se vorrete
    sedervi i ceppi io porterò per voi.
    Datemi quello, ve ne prego, io stessa
    lo recherò sulla catasta.

                          FERDINANDO.

                             No,
    o creatura preziosa, meglio
    spezzarmi i nervi e rompermi la schiena
    che lasciarvi compire un disonore
    simile mentre rimarrei seduto
    senza far nulla.

                            MIRANDA.

                    Assai meglio che a voi
    mi converrebbe un tal lavoro. Il mio
    cuore lo anela e ben ripugna al vostro.

                            PROSPERO

                                                        a parte.

    Avvelenato sei, povero verme:
    lo prova questa tua visita.

                            MIRANDA.

                               Avete
    l'aspetto stanco.

                          FERDINANDO.

                     O nobile signora,
    non è vero: per me siete un mattino
    fresco anche quando è notte. Ma vi prego,
    ditemi il nome vostro ch'io lo possa
    pronunziar nelle mie preci.

                            MIRANDA.

                               Miranda.
    O padre mio, dicendolo, ai comandi
    vostri ho disobbedito ora.

                          FERDINANDO.

                              O ammirata
    Miranda, o vetta d'ammirazione
    degna di quanto è più caro nel mondo!
    A molte dame il mio sguardo migliore
    ho rivolto e ben spesso l'armonia
    di lor parole ha reso schiavo il mio
    udito troppo pronto. Per diverse
    virtù, diverse donne ho amato e mai
    con anima sì piena, poichè sempre
    qualche difetto in lor si combatteva
    con le grazie più elette, rimanendo
    vittorioso. Ma, per contro, voi,
    oh voi, così perfetta e senza pari
    siete l'eccelsa d'ogni creatura!

                            MIRANDA.

    Io non conosco alcuna del mio sesso
    nè rammento alcun volto femminile
    all'infuori del mio visto allo specchio.
    E fra quelli che posso nominare
    uomini, solo ho visto voi--l'amico
    mio buono--e il caro padre. Come sono
        gli umani volti, fuor di qui, lo ignoro,
    ma la modestia mia, solo gioiello
    della mia dote, non vuol altro al mondo
    compagno fuor di voi, nè il mio pensiero
    immaginar potrebbe un'altra forma
    a voi diversa ch'io potessi amare.
    Ma forse troppo follemente io parlo
    ed i precetti di mio padre oblio.

                          FERDINANDO.

    Principe io son--Miranda--per la mia
    nascita e--non lo voglia Iddio--fors'anco
    Re; nè vorrei questo portar di legna
    sopportare così come a una mosca
    delle carogne, non permetterei
    di pungermi le labbra. Ora ascoltate
    parlar l'anima mia: dal primo istante
    ch'io vi scorsi, il mio cuore in servitù
    vostra si venne e quivi esso è rimasto
    a farmi schiavo ed è solo per voi
    che qui rimango a trasportar la legna
    con pazienza.

                            MIRANDA.

                 Voi mi amate?

                          FERDINANDO.

                              Oh cielo,
    oh terra, siate testimoni a queste
    parole e coronate con felice
        evento quel che sto per dir, se dico
    il vero e se menzogna è quello ch'io
    esprimo, sia pur quanto di fortuna
    m'è riserbato, convertito in duolo.
    Oltre tutti i confin di ciò che è il mondo
    io vi ho cara e vi venero e vi adoro.

                            MIRANDA

                                                         piange.

    Sono folle di piangere per cosa
    che mi rende felice.

                            PROSPERO

                                                          da sè.

                        O buon incontro
    di due nobili cuori. Il cielo piova
    la grazia sua sul sentimento nato
    fra loro due!

                          FERDINANDO.

                 Ma perchè mai piangete?

                            MIRANDA.

    Perchè non sono degna d'offerirvi
    quel che darvi vorrei, nè prender quello
    che morirei di perdere. Ma questi
    son futili discorsi e più la mia
    affezione vuol celarsi e più
    gigantesca si mostra. Indietro, o vana
    timidezza! mi sia guida soltanto
        l'innocenza mia semplice ed onesta.
    Sarò la moglie vostra se vorrete
    sposarmi o morirò vostra fantesca.
    Che compagna vi sia, voi ben potete
    ricusare ma pur vi sarò serva
    che lo vogliate o no.

                          FERDINANDO.

                         La mia più cara
    signora e come sono adesso, sempre
    umile innanzi a voi.

                            MIRANDA.

    Dunque, mio sposo?

                          FERDINANDO.

    Sì e con tal volonteroso cuore
    quanto la servitù mai non è stata
    di libertà. Prendi la mano.

                            MIRANDA.

                               Ed ecco
    la mia con tutto il core in essa. Ed ora
    addio per poco.

                          FERDINANDO.

                   Mille e mille dolci
    cose!

                                          Exeunt da vie diverse.

                           PROSPERO.

        Certo, non posso esser sì lieto
    quanto lo sono loro due colpiti
    da egual stupore in uno stesso tempo:
    ma il mio contento è grande quanto più
    essere non potrebbe. Al libro mio
    ritornerò, che prima della cena
    molto da oprar mi resta.

                                                           Exit.



                           SCENA II.

                   Un'altra parte dell'isola.

         Entrano CALIBANO, STEFANO e TRINCULO che reca
                         una bottiglia.


                            STEFANO.

Non mi seccare: quando il barile sarà vuoto
beveremo l'acqua: ma non una gocciola prima.
Per conseguenza: fermi e all'abbordaggio. Servo-mostro:
bevi alla mia salute.

                           TRINCULO.

Servo-mostro! La pazzia di quest'isola! Dicono
che non abbia che cinque abitanti e siamo
in tre: se gli altri due hanno delle zucche come
le nostre, addio stato!

                            STEFANO.

Bevi, servo-mostro, te l'ordino io. Hai quasi
gli occhi nella testa.

                                                  Calibano beve.

                           TRINCULO.

E dove vorresti che gli avesse? Sarebbe,
da vero, un bel mostro se gli avesse sulla coda.

                            STEFANO.

Il mio mostro-domestico ha affogato la sua
lingua nel vino. In quanto a me il mare non
mi potrebbe affogare: prima di toccare la spiaggia
ho notato trentacinque leghe in lungo e in
largo, quanto è vera la luce! Tu sarai il mio
tenente-mostro, oppure il mio alfiere.

                           TRINCULO.

Meglio il vostro tenente: non può essere un
alfiere.

                            STEFANO.

Vogliamo correre, _Monsieur_ Mostro?

                           TRINCULO.

Nè correre nè andare al passo: vi accuccerete
come cani e non saprete dire nè meno
una parola.

                            STEFANO.

Parla almeno una volta in vita tua, mio bel
vitello, se sei un vitello davvero!

                           CALIBANO.

    Come stai, Signoria? Lascia ch'io lecchi
    le tue scarpe. Costui, non vo' servirlo:
    egli non è valente.

                           TRINCULO.

Tu mentisci, o mostro ignorante: mi sento
capace di fare ai pugni con uno sbirro. Ma,
dimmi un poco, pesce svergognato, un uomo
che ha bevuto tanto vino quanto ne ho bevuto
io può essere un codardo? Vuoi proprio dirci
una mostruosa bugia, tu che sei mezzo pesce
e mezzo mostro?

                           CALIBANO.

                          Ahimè, si burla
    di me? Lo lascerai dire, o signore?

                           TRINCULO.

Ti ha chiamato _signore_: si è mai visto un
mostro così ingenuo?

                           CALIBANO.

    Ahimè, di nuovo, ahimè: mordilo fino
    a che ne muoia, te ne prego.

                            STEFANO.

Trinculo, cerca di aver in bocca una buona
lingua, se non vuoi conoscere il primo albero
come ribelle! Il povero mostro è mio suddito
e io non permetterò che sia insultato.

                           CALIBANO.

                                Grazie,
    mio nobile signore. Vuoi tu ancora
    udire quello che ti ho già narrato?

                            STEFANO.

Ma certo: mettiti in ginocchio e ripeti la
tua storia. Starò in piedi, con Trinculo, ad
ascoltarti.

                                        Entra ARIELE invisibile.

                           CALIBANO.

    Come ti ho detto,
    son sottomesso ad un tiranno, mago,
    che per l'incanto delle sue malie
    di quest'isola mia m'ha derubato.

                            ARIELE.

Tu mentisci.

                           CALIBANO.

    Mentisci tu, pagliaccio
    di uno scimmione, tu! Vorrei che il mio
    valoroso signor ti sterminasse.
    Io non mentisco.

                            STEFANO.

Trinculo, se lo interrompi un'altra volta, ti
farò saltare qualche dente con questa mano.

                           TRINCULO.

Ma se non ho detto nulla!

                            STEFANO.

Zitto dunque e non una parola.

                                                     A Calibano.

Tira avanti.

                           CALIBANO.

                      Con le sue malie
    mi ha rubato quest'isola, dicevo
    me l'ha rubata. Se la tua grandezza
    vuol di lui vendicarmi--io so che osarlo
    tu puoi, ma non costui....

                            STEFANO.

Questo è vero.

                           CALIBANO.

                             Sarai signore
    di tutto quanto ed io ti servirò.

                            STEFANO.

E come si potrà fare? Mi ci puoi condurre tu?

                           CALIBANO.

    Sì, sì, signore mio: mentre ch'ei dorme
    te lo farò vedere e nella sua
    testa potrai ben conficcargli un chiodo.

                            ARIELE.

Tu mentisci: non lo puoi fare.

                           CALIBANO.

    Che scemo quel fantoccio! O tu pagliaccio
    rognoso! Io prego vostra signoria
    di picchiarlo e di togliergli la sua
    bottiglia. Non potrà più bere quando
    non ce l'avrà, se non l'acqua marina,
    chè non gli mostrerò le fresche fonti.

                            STEFANO.

Trinculo, non scherzare col pericolo! Se interrompi
un'altra volta questo mostro, lascio da parte
la compassione e con le mie proprie mani ti
riduco come un baccalà.

                           TRINCULO.

Ma cosa ho fatto? Se non ho fatto nulla! Me
ne vado via, ecco.

                            STEFANO.

O non hai detto che mentiva?

                            ARIELE.

Tu mentisci!

                            STEFANO.

Ah mentisco? E tu prendi questo.

                                         Dà un pugno a Trinculo.

Se ti è piaciuto, smentiscimi un'altra volta.

                           TRINCULO.

Io non ti ho smentito. Hai perduto il cervello
e le orecchie? Maledetta la vostra bottiglia, è
tutta colpa del vino e della ubriachezza. Che
la peste si prenda il vostro mostro e il diavolo
le vostre dita.

                            CALIBANO

                                                        ridendo.

Ah! ah! ah! ah!

                            STEFANO.

E ora tira avanti, col tuo racconto. Allontanati,
ti prego.

                           CALIBANO.

    Picchialo ancora un po': fra qualche tempo
    anch'io lo picchierò.

                            STEFANO.

                          Più in là: prosegui.

                           CALIBANO.

    Ecco, come ti dissi, è suo costume
    di dormire nel pomeriggio. Allora
    quando i libri gli avrai tolti, potrai
    schiacciargli il cranio o rompergli la testa
    con un ceppo, o sventrarlo con un palo,
    o tagliargli la gola con il tuo
    coltello. Ma però, prima, rammenta
    d'impossessarti dei suoi libri. Senza
    di quelli ei non è altro che uno sciocco
    al par di me, nè ha più spirito alcuno
    al suo comando: l'odian tutti come
    io l'odio. Ma brucia soltanto i libri
    e serba i suoi belli utensili--in questo
    modo li chiama--con i quali ei vuole
    adornarsi una casa quando l'abbia.
    Ma più di tutto pensa alla bellezza
    di sua figlia: egli stesso la proclama
    "senza eguali". Non ho mai visto donna
    all'infuori di Sicorax, mia madre,
    e di lei: ma però questa sorpassa
    Sicorax, come una cosa più grande
    sorpassa una più piccola.

                            STEFANO.

                             Ella è dunque
    una ragazza così bella?

                           CALIBANO.

                           Certo,
    signore mio: ti garantisco ch'ella
    ti sarà di buon letto e ti darà
    bellissimi figliuoli.

                            STEFANO.

Mostro! io ammazzerò quell'uomo. Sua figlia
ed io, saremo il Re e la Regina--Dio salvi
le nostre Maestà--e Trinculo e tu stesso sarete
i miei vicerè. Ti piace la congiura, Trinculo?

                           TRINCULO.

Eccellente.

                            STEFANO.

Dammi la mano: mi dispiace di averti picchiato.
Ma finchè vivi, rattieni la lingua.

                           CALIBANO.

                        Fra mezz'ora
    si sarà addormentato: hai tu deciso
    di ucciderlo?

                            STEFANO.

                  In parola mia d'onore.

                            ARIELE.

Lo dirò al mio padrone!

                           CALIBANO.

    Tu mi rendi felice, io sono pieno
    di gioia: ci vogliamo divertire.
    Volete un po' riprendere quel canto
    che poco fa mi insegnavate?

                            STEFANO.

Voglio accordarti tutto quel che mi chiedi,
mostro: tutto quanto, tutto. Vieni qua, Trinculo,
cantiamo.

        _Canzoniamoli e snidiamoli,
        sì, snidiamoli e canzoniamoli:
        il pensiero è libero...._

                           CALIBANO.

                               Questa
    non è la stessa musica.

                                       Ariele suona la musica
                                       col flauto e col tamburo.

                            STEFANO.

Cos'è quest'eco?

                           TRINCULO.

È l'aria della nostra canzone, suonata dal
ritratto di Nessuno.

                            STEFANO.

Se sei un uomo fatti vedere come sei; se
sei un diavolo fatti vedere come ti pare.

                           TRINCULO.

Oh, perdono per i miei peccati!

                            STEFANO.

Quello che muore paga tutti i suoi debiti:
io ti sfido. Aiuto!

                           CALIBANO.

                      Hai paura?

                            STEFANO.

No, mostro, no.

                           CALIBANO.

    Non avere timor: l'isola è piena
    di rumori e di dolci arie che danno
    piacere e non fan male. Qualche volta
    di ben mille strumenti odono il rombo
    le orecchie mie: qualche altra volta sento
    voci, che se mi sveglio dopo un lungo
    sonno, mi fan riaddormentare e allora
    mi sembra di veder sognando nubi
    che squarciandosi mostran gran ricchezze
    pronte a piovermi addosso, tanto che
    se allora mi svegliassi, piangerei
    per sognare di nuovo.

                            STEFANO.

Questo prova che è un buon regno per me,
dove potrò avere la musica per niente.

                           CALIBANO.

Quando Prospero sarà ucciso.

                            STEFANO.

Lo sarà fra poco: mi rammento la tua storia.

                           TRINCULO.

Il suono si allontana: andiamogli dietro e
poi faremo il nostro affare.

                            STEFANO.

Facci la strada, Mostro, e ti seguiremo. Mi
piacerebbe di vedere il tamburino: Deve avere
una buona mano.

                           TRINCULO.

Vengo con te, Stefano.

                                                         Exeunt.

                           SCENA III.

                   Un'altra parte dell'Isola.

         Entrano ALONZO, SEBASTIANO, ANTONIO, GONZALO,
                  ADRIANO, FRANCESCO e altri.


                            GONZALO.

    Per nostra donna! o Sire, io più non posso
    andare innanzi: mi fan male l'ossa
    mie vecchie ed è in un vero labirinto
    che ci siamo perduti, in mezzo a strade
    diritte ed a meandri. Ho gran bisogno
    di riposare.

                            ALONZO.

                O mio vecchio fedele,
    non posso biasimarti. Anch'io son stanco
    fino a perderne i sensi. Siedi dunque
    e riposati. Quivi ogni speranza
    voglio deporre e non serbarla ancora
    presso di me quale lusingatrice.
    È affogato colui, che pur ci ha fatto
    perdere nel cercarlo e il mare irride
    alle nostre ricerche sulla terra.
    E sia! Che se ne vada!

                            ANTONIO

                                             piano a Sebastiano.

                          Io sono molto
    lieto, che sia così fuor di speranza.
    Ma non abbandonate, per un primo
    disinganno, il proposito che abbiamo
    deciso insieme di compire.

                           SEBASTIANO

                                                     ad Antonio.

                              Un'altra
    volta, anderemo a fondo.

                            ANTONIO.

                                                     come sopra.

                            E sia: stanotte
    ma non più tardi.

                                               Si ode una musica
                                               strana e solenne.

                            ALONZO.

                    Qual musica è questa?
    Udite, amici miei.

                            GONZALO.

Una musica dolce e meravigliosa.

                               Entra PROSPERO, in alto,
                               invisibile. Entrano sotto di lui
                               alcune strane forme che portano
                               una tavola apparecchiata. Danzano
                               con gentili atteggiamenti
                               di saluto e dopo aver invitato
                               il Re a mangiare se ne vanno.

                            ALONZO.

                     Ci mandi il cielo
    gli Angeli suoi custodi! Cosa sono
    quelli esseri?

                          SEBASTIANO.

                  Fantocci vivi! Adesso
    io crederò che esiston gli unicorni,
    che in Arabia v'è un albero pe'l trono
    della Fenice e che in quest'ora stessa
    la Fenice vi regna.

                            ANTONIO.

                       Io credo a entrambe
    le cose, e quando un fatto avrà bisogno
    di credenza da me venga e che è vero
    ben giurerò. Non dicon più menzogne
    ora i viaggiatori, non ostante
    che sieno condannati dagli inetti
    rimasti a casa!

                            GONZALO.

                   Ma se raccontassi
    quello che accadde, a Napoli sarei
    creduto? E se dicessi di aver visto
    tali isolani--perchè certo sono
    abitanti dell'isola--e che forme
    pur avendo di mostri, le maniere
    loro--notate--son gentili molto
    più che quelle di alcuni fra noi, anzi
    di tutti noi?

                            PROSPERO

                                                        a parte.

                 Onesto gentiluomo,
    hai detto il vero! molti dei compagni
    vostri son peggio dei demonî.

                            ALONZO.

                                Il mio
    pensier non può scordare quelle forme
    e quei gesti e quei suoni che sprovvisti
    di favella hanno espresso un eccellente
    discorso muto.

                            PROSPERO

                                                        a parte.

                  Aspettane la fine!

                           FRANCESCO.

    Sono svaniti stranamente.

                          SEBASTIANO.

                             Ebbene
    poco importa poichè le vettovaglie
    hanno lasciato dietro loro. Abbiamo
    buon appetito: non vi piacerebbe
    d'assaggiar queste cose?

                            ALONZO.

                            No.

                          SEBASTIANO.

                               Davvero,
    Sire, non c'è d'aver paura. Quando
    eravamo fanciulli, avremmo mai
    creduto che ci fosser montanari
    con un grugno di toro e con due borse
    di carne penzoloni ai loro colli?
    O che vi fosser uomini col capo
    nel torace? miracoli che pure
    potrebbe garantirci oggi un qualunque
    viaggiatore assicurato al cinque
    per uno.

                            ALONZO.

            E bene, sederò d'innanzi
    a questa mensa e pranzerò, fosse anche
    l'ultima volta. Che mi importa? Sento
    ora che tutto il meglio è già passato.
    Fratello, e voi duca, venite quivi
    a sedervi con noi.

                                  Si ode rumoreggiare il tuono:
                                  si veggono lampi. Entra ARIELE
                                  sotto la forma di un'arpia,
                                  batte le ali sulla mensa e
                                  questa sparisce rapidamente.

                            ARIELE.

    Voi siete tre uomini di peccato
    il cui destino--che governa questo
    basso mondo con quelli che vi sono--
    costrinse il mare insaziato a trarvi
    su quest'isola dove essere umano
    Abitare non deve, voi che siete
    ora indegni di vivere. Io vi ho resi
    pazzi. È con un valor simile al vostro
    che gli uomini si affogano e si appiccano
    da loro stessi!

                                       Alonzo, Sebastiano e gli
                                       altri sfoderano le spade.

                   O stolti! I miei compagni
    ed io siamo i ministri del Destino:
    gli elementi di cui le vostre spade
    son fatte, prima i venti dalla voce
    sibilante potrebbero ferire,
    o uccidere con vani colpi l'acque
    sempre in sè racchiudentisi, che all'ali
    mie togliere una sola piuma. Sono
    intangibili i miei compagni al pari
    di me: ma se potessero le vostre
    spade ferirci voi le sentireste
    troppo gravi alle vostre forze e invano
    tentereste di alzarle. Ma pensate
    --e questo è il mio messaggio--che voi tre
    da Milano il buon Prospero cacciaste
    insiem con l'innocente figlia e sopra
    il mar lo abbandonaste, su quel mare
    che del delitto vostro or vi ha pagati.
    Il potere del ciel, che se rimanda
    mai non oblia, per queste infamie vostre
    ha sollevato il mare e le costiere
    ed ogni viva creatura contro
    la vostra pace. Alonzo, di tuo figlio
    ti hanno privato ed ora con mia voce
    proclaman che una lenta ed incessante
    rovina, peggio d'ogni morte--almeno
    questa d'un colpo uccide--a passo a passo
    voi seguirà per ogni vostra impresa.
    Nè per salvarvi contro i loro sdegni
    che, in questa desolata isola, sopra
    di voi si verseranno, avrete scampo
    se non nel pentimento e in una vita
    pura!

                                                       Svanisce.

                            PROSPERO

                                                           da sè

    Bravo Ariele! Questa arpia
    hai ben rappresentato. Avevi, in vero,
    un aspetto vorace e in quel che hai detto
    non una delle istruzioni mie
    ti sei dimenticato. I subalterni
    miei ministri, hanno anch'essi recitato
    le loro parti con precisione
    singolare e vivezza grande. Agiscono
    ora gl'incanti e questi miei nemici
    sono presi nel laccio della loro
    demenza e sono in mio potere. Intanto
    alle lor febbri gli abbandono e torno
    dal giovin Ferdinando, che annegato
    credono, e da mia figlia a entrambi cara.

                                                           Exit.

                            GONZALO.

    Per quanto c'è di sacro al mondo, Sire,
    Perchè restate in tale abbattimento?

                            ALONZO.

    È atroce! è atroce! mi è sembrato udire
    parlare i flutti e dirmi questo e i venti
    cantar quest'altro e il tuono in suo profondo
    e cupo rombo, pronunciando il nome
    di Prospero, il peccato mio con quella
    sua voce bassa proclamare. Dunque
    è mio figlio sepolto entro la melma
    del mare? Voglio ricercarlo in fondo
    dove non giunse lo scandaglio e seco
    io giacerò nel fango!

                                                           Exit.

                          SEBASTIANO.

                          Un sol demonio
    alla volta e saprò batter le loro
    schiere!

                            ANTONIO.

            Ed io ti sarò secondo!

                                                         Exeunt.

                            GONZALO.

                                 Sono
    tutti e tre disperati! La lor grande
    colpa come veleno destinato
    ad agir molto tempo dopo, morde
    or gli spiriti loro. Ve ne prego,
    voi che avete le gambe più veloci,
    inseguiteli rapidi e cercate
    d'impedir quello che la loro furia
    può provocare.

                            ANTONIO.

                  Ve ne prego: andiamo.

                                                         Exeunt.





                          ATTO QUARTO.


                          SCENA UNICA.

               D'innanzi alla grotta di Prospero.

            Entrano PROSPERO, FERDINANDO e MIRANDA.


                           PROSPERO.

    Se vi punii con troppo aspro vigore
    quel che ne aveste in premio vi compensa,
    perchè vi ho dato qui della mia vita
    gran parte o almeno quello per cui vivo.
    Anche una volta alle tue man l'affido.
    Tutti i tormenti che subisti, io stesso
    in prova dell'amor tuo te li feci
    subire e tu mirabilmente hai dato
    degna risposta. Qui d'innanzi al cielo
    io ti confermo il mio ricco presente.
    O Ferdinando, a queste mie parole
    non sorridere: un giorno capirai
    Come ogni lode ella sorpassi e quanto
    dietro di sè la lasci.

                          FERDINANDO.

                          Io ben lo credo
    quasi oracolo.

                           PROSPERO.

                  Allora, come mio
    dono e come conquista tua, mia figlia
    prenditi. Ma se tu le romperai
    il nodo verginal prima che tutte
    le cerimonie nuziali in pieno
    e sacro rito sien compiute, dolce
    rugiada il ciel non pioverà su questa
    vostra unione a crescerla, ma il tristo
    odio e lo sdegno dallo sguardo obliquo
    e la discordia sì perfidamente
    semineranno sopra i vostri letti
    le loro velenose erbe, che entrambi
    li prenderete in odio. Or dunque bada,
    come ti accenderà la Face Imene.

                          FERDINANDO.

    Come spero l'accenderà, per colmi
    giorni ed ottima prole e lunga vita
    con un amore sempre eguale a questo.
    L'antro più cupo, l'opportunità
    più forte e la tentazion più grande
    che il nostro peggior genio possa mai
    consigliarci l'onor mio pervertendo
    nella lussuria, non potranno ch'io
    dimentichi quel giorno in cui le nozze
    dovranno celebrarsi, il giorno quando
    mi sembrerà che i raggi alti di Febo
    si sieno sciolti e che la notte avvinta
    sia di catene in basso.

                           PROSPERO.

                           Hai detto bene.
    Siediti dunque e con lei parla: è tua.
    Ariele, o gentil servo Ariele!

                                        Entra ARIELE invisibile.

                            ARIELE.

    Che vuoi, potente mio signor? Son qui.

                           PROSPERO.

    Tu ed i compagni tuoi l'ultimo vostro
    servigio avete ben compiuto: ed ora
    in altra impresa simile vi debbo
    impegnare. Conduci qui la banda
    su cui ti detti signoria: ma cerca
    di affrettarla: perchè d'innanzi agli occhi
    di questa giovin coppia debbo alcune
    vanità della mia arte mostrare.
    Io l'ho promesso ed essi ora lo attendono
    da me.

                            ARIELE.

          Subito?

                           PROSPERO.

                  In men d'un batter d'occhio.

                            ARIELE.

    Prima che possa dirsi _Vengo_ o _Vo_
    o respirar due volte e fare _oh oh_
    sulla punta dei piedi come sto,
    smorfeggiando verranno se verrò:
    mi amate sempre mio padrone? No.

                           PROSPERO.

    Caramente, o Ariel mio buono! Ed ora
    non comparir finchè non odi ch'io
    ti abbia chiamato.

                            ARIELE.

                      Bene: intendo

                                                           Exit.

                           PROSPERO.

                                   Guarda
    di non mentire, non lasciar le briglie:
    i giuramenti più tenaci, sono
    paglia se il fuoco entri nel sangue. Sii
    più continente o buona notte ai vostri
    voti!

                          FERDINANDO.

         Ve lo prometto, o mio signore.
    La bianca e fredda neve virginale
    ch'io stringo al petto, spegne entro le vene
    ogni ardore.

                           PROSPERO.

                Sta bene. E tu, Ariele,
    vieni e un rinforzo arreca. È meglio avere
    qualche spirito in più. Vieni. Le lingue
    trattenete ed aprite gli occhi. Attenti.


                    UNA RAPPRESENTAZIONE.

                          Entra IRIS.


                             IRIS.

    O Cerere feconda, lascia i tuoi vasti piani
    ricchi d'orzo, d'avena, di piselli e di grani;
    i tuoi monti ove il gregge fra l'erba atterra il muso;
    i pingui prati dove sta raccolto nel chiuso;
    le rive che l'aprile umido, al tuo comando
    di gigli e di peonie fiorisce in cima, quando
    di lor fredde ghirlande si voglion coronare
    le caste ninfe; l'ombre delle ginestre care
    all'amante tradito; le viti arrampicate
    sui pali e le tue spiagge marine, desolate
    e rocciose, ove aspiri l'aspra brezza fragrante;
    la Regina del Cielo di cui son lo stillante
    Arco e la messaggera, vuole che per un poco
    tu lasci quei soggiorni e venga in questo loco
    stesso, su questa erbosa radura a prender parte
    con sua Grazia Sovrana alle prove dell'arte.
    Con gran battito d'ale volano i suoi pavoni:
    Vieni a inchinarla, o Cerere, ricca di tutti i doni.

                            CERERE.

    Salute, o messo multicolore, che non hai
    alla sposa di Giove disobbedito mai,
    che con l'ali ranciate versi sopra i miei fiori
    benefici acquazzoni, di bene apportatori,
    e con l'azzurre punte del grande arco circondi
    le mie terre boscose e i pascoli fecondi;
    dell'orgogliosa terra, ricca ciarpa, perchè
    la Regina, fra questo verde, ti manda a me?

                             IRIS.

    Un contratto di vero amor per celebrare
    e di qualche ricchezza largamente dotare
    una coppia di amanti beati.

                            CERERE.

                               Dimmi, allora,
    o grande arco del cielo, se mai la tua signora
    seguono, a farle omaggio, Venere con suo figlio.
    Dal giorno in cui per loro tenebroso consiglio
    mia figlia si ritrasse nel regno inesplorato
    di Dite, l'amicizia ho per sempre lasciato
    della madre e del cieco fanciullo scandaloso.

                             IRIS.

    Non temere: ho incontrato la Dea nel nuvoloso
    regno di Pafo e il figlio con lei: credean fra tanto
    d'aver lanciato un qualche libidinoso incanto
    su questi amanti che hanno fra loro stabilito
    di non compier del letto nuziale alcun rito
    pria che Imene abbia acceso la face. Ma fu invano!
    se n'è andata la ganza di Marte e quel suo vano
    fanciullo ha rotto l'arco ed anche i dardi e giura
    che sarà d'ora innanzi una pia creatura
    e coi passeri solo scherzerà.

                            CERERE.

                                 La Regina
    Giunone--la conosco dal passo--si avvicina.

                                                  Entra GIUNONE.

                            GIUNONE.

    Salute alla opulenta sorella! Or meco vieni
    a render questa coppia ricca di tutti i beni
    e di onorata prole.

                                                          Canto.

        _Ricchezze, onori, nozze beate
        e figliolanze continuate
        gioie ad ogni ora sieno per voi,
        fa questo voto Giunone a voi._

                            CERERE.

        _Messi abbondanti, pingui terreni
        granai ed aie pur sempre pieni
        viti coi grappoli rigonfi e buoni
        alberi chini per molti doni,
        la primavera rechi ventura
        ad ogni fine di mietitura,
        miserie ed ansie lunge da voi,
        fa questo voto Cerere a voi._

                          FERDINANDO.

    Questa è una bella visione e un molto
    armonioso incanto. Dimmi, posso
    credere che sien spiriti?

                           PROSPERO.

                             Son spiriti
    che dai confini loro ho qui costretti
    per virtù di mia arte a recitare
    queste mie fantasie.

                          FERDINANDO.

                        Lascia ch'io viva
    pur sempre qui. Così mirabil padre
    e tal moglie faran di questo luogo
    un Paradiso.

                                     Cerere e Giunone si parlano
                                     tra loro e spediscono
                                     Iris a recare un messaggio.

                           PROSPERO.

                Taci, ora: Giunone
    e Cerere bisbigliano tra loro
    e v'è qualche altra cosa. Fa' silenzio
    o il loro dire perderemo.

                             IRIS.

    O voi, Ninfe, chiamate Naiadi dei correnti
    rivi, di giunchi cinte, dagli sguardi innocenti
    lasciate i vostri ondosi canali e fra le buone
    erbe giungete tutte: ve l'ordina Giunone.
    Venite, o caste Ninfe, non bisogna tardare,
    un contratto d'amore dobbiamo celebrare.

                                           Entrano alcune NINFE.

    Mietitori riarsi dall'agosto opprimente
    lasciate i vostri solchi e quivi lietamente
    a far festa venite, mettendovi i cappelli
    di grossa paglia d'orzo e in giocondi drappelli
    unitevi alle ninfe qui presenti e una danza
    intrecciate secondo la villereccia usanza.

                                Entrano alcuni MIETITORI e si
                                uniscono con le NINFE danzando
                                una danza piena di grazia. Prima
                                che questa finisca, PROSPERO
                                si alza in piedi di un tratto e
                                parla loro. Dopo le sue parole
                                essi vaniscono in cielo con uno
                                strano, basso e confuso rumore.

                            PROSPERO

                                                          da sè.

                               Avevo
    obliato l'ignobile congiura
    del bruto Calibano e dei compagni
    suoi contro la mia vita. È quasi giunto
    il tempo stabilito al loro inganno.

                                      Rivolgendosi agli spiriti.

    Bene, o spiriti, andate ora, non più.

                           FERDINANDO

                                                      a Miranda.

    È strano il padre vostro, è in preda a qualche
    emozion che lo commuove.

                            MIRANDA.

                            Mai
    fino ad oggi l'ho visto da una tale
    collera preso.

                           PROSPERO.

    Il vostro volto, o figlio,
    reca il riflesso di un interno affanno
    come se foste spaventato. Siate
    tranquillo. Sono terminati i nostri
    divertimenti. Erano quelli attori--come
    ho già detto--spiriti ed ormai
    svanirono nell'aria, nella lieve
    aria. Non altrimenti, gli edifici
    senza base di questa visione,
    le torri dalle nubi incoronate,
    i palazzi magnifici, i solenni
    templi e l'intero globo stesso e quanto
    dentro di sè contiene, svaniranno
    un giorno senza pur lasciare traccia
    più di quella che l'insostanziale
    vision nostra abbia lasciato. Noi
    siamo tessuti con la stessa trama
    dei sogni ed è la piccoletta vita
    nostra dal sonno circondata! Or sono,
    signore, un poco stanco ed è confuso
    questo vecchio cervello. Ve ne prego,
    andate nella mia grotta e là dentro
    riposatevi. Io voglio fare un giro
    o due, per trovar calma all'agitata
    anima mia.

                     FERDINANDO e MIRANDA.

              Ve l'auguriamo.

                           PROSPERO.

                             Vieni
    come il baleno!

                                         A Ferdinando e Miranda.

                    Grazie.

                                                         Exeunt.

                           O Ariele
    Vieni!

                            ARIELE.

          Sono presente al tuo pensiero.
    Quale è il piacere tuo?

                           PROSPERO.

                           Spirto, bisogna
    incontrar Calibano.

                            ARIELE.

                       O mio padrone,
    quando condussi Cerere, pensavo
    di parlartene, ma temetti allora
    d'irritarti, facendolo.

                           PROSPERO.

                           Ripeti:
    dove lasciasti quei marrani?

                            ARIELE.

                                Dove
    ti dissi, o mio signore. Erano tutti
    infiammati dal gran bere e sì pieni
    di coraggio che percuotevan l'aria
    se soffiasse sul loro volto e il suolo
    perchè baciava i loro piedi e sempre
    fantasticando intorno al lor disegno.
    Battuto allora ho il mio tamburo e come
    indomiti puledri hanno drizzato
    d'un subito le orecchia ed aguzzato
    gli sguardi e tese le narici quasi
    per respirar la musica ed il loro
    udito ho in tal maniera ammaliato
    che simili a vitelli si son messi
    a inseguirmi a traverso aspri roveti,
    a traverso taglienti erbe, a traverso
    spine che le lor gambe traballanti
    han lacerato. Gli ho lasciati al fine
    nel botro pien di fango oltre la vostra
    grotta e quivi affondavan fino al mento
    sì che il putrido lago per i piedi
    parea tenerli.

                           PROSPERO.

                  Hai fatto bene, o mio
    augello! Serba ancora quella tua
    invisibile forma e quivi arreca
    l'esca, dalla mia casa, per chiappare
    quei ladri.

                            ARIELE.

               Io vado! Io vado!

                           PROSPERO.

                                Egli è un demonio,
    un demonio la cui natura mai
    potrà modificarsi e sopra il quale
    tutte le umane mie cure son state
    perse. Il suo corpo, con l'età, più brutto
    diventa e la sua mente incancrenisce.

                                          Rientra ARIELE carico
                                          di oggetti luccicanti.

    In tal maniera castigar li voglio
    fin che debban ruggire!

                                                      Ad Ariele.

                           Vieni, appendi
    quei vari oggetti sopra questa corda.

                                           Prospero e Ariele
                                           rimangono invisibili.

             Entrano CALIBANO, STEFANO e TRINCULO tutti bagnati.

                           CALIBANO.

    Piano, vi prego, che la cieca talpa
    non possa udire i nostri passi. Siamo
    vicini alla sua grotta.

                            STEFANO.

Mostro, il vostro folletto, che dicevate inoffensivo,
si è condotto con noi come un fuoco fatuo.

                           TRINCULO.

Mostro, puzzo da capo a' piedi di piscio di
cavallo: per la qual cosa il mio naso è indignatissimo!

                            STEFANO.

E anche il mio. Hai capito, mostro? Se finisco
per prendervi a noia, vedete....

                           TRINCULO.

.... siete un mostro bello e perduto.

                           CALIBANO.

                         O buon signore
    serbami ancora il tuo favore ed abbi
    pazienza: chè il premio ch'io t'ho offerto
    compenserà questo incidente: ed ora
    parla piano; ogni cosa tace quasi
    fosse la mezzanotte.

                           TRINCULO.

Già! Ma aver perduto le nostre bottiglie nel
pantano....

                            STEFANO.

È non solamente una disgrazia e un disonore,
ma bensì una perdita senza riparo.

                           TRINCULO.

Più grande del mio bagno, per me. E tutto
per colpa del vostro folletto innocuo, Mostro!

                            STEFANO.

Voglio andare a ricercare le mie bottiglie,
dovessi per questo affondare fino alle orecchia.

                           CALIBANO.

                         O mio sovrano,
    te ne prego, sii calmo. Vedi bene?
    Questo è l'ingresso della grotta: fa'
    piano ed entra; compisci il buon misfatto
    che renderà quest'isola per sempre
    tua e me stesso, Caliban, tuo schiavo.

                            STEFANO.

Dammi la mano. Comincio ad avere pensieri
di sangue.

                           TRINCULO.

O Re Stefano! o Pari! o degno Stefano. Osserva
che guardaroba c'è qui per te.

                           CALIBANO.

    Lasciali stare, sono stracci, o pazzo!

                           TRINCULO.

O oh, Mostro, noi ce ne intendiamo di stracci!
O Re Stefano!

                            STEFANO.

Lascia stare quella tunica, Trinculo: per la
mia mano, voglio quella tunica!

                           TRINCULO.

E la tua Grazia l'avrà.

                           CALIBANO.

    L'idropisia possa affogar quel pazzo!
    Cosa intendete fare, a divertirvi
    con simile bagaglio? Andiamo prima
    a compiere il delitto. Se si sveglia
    dai piedi al capo coprirà la nostra
    pelle di lividure e in bello stato
    ci ridurrà!

                            STEFANO.

Sta zitto, Mostro. Signora corda, non è quella
la mia tunica? Ora ecco la tunica sotto la corda.
Tunica, siete capace di perdere il pelo e divenire
una tunica calva.

                           TRINCULO.

Fate pure: non dispiaccia a Vostra Grazia,
noi rubiamo alla corda e al palo!

                            STEFANO.

Grazie per la spiritosaggine: eccoti un vestito,
per questo. Lo spirito non passerà mai
senza ricompensa mentre io sarò Re di questo
paese. "rubare alla corda e al palo" ecco un
bello scherzo. Eccoti un altro vestito.

                           TRINCULO.

Mostro, vieni qui. Metti un po' di pania sulle
tue dita e via con tutto il resto.

                           CALIBANO.

    Non voglio niente! Noi
    perdiamo il nostro tempo e sarem tutti
    quanti cambiati in paperi od in scimmie
    dalla fuggevol fronte mostruosa.

                            STEFANO.

Mostro: porgete le dita. Aiutateci a portar
ogni cosa dove ho nascosto il mio barile di
vino, se no vi scaccio dal mio regno. Su via,
porta questo.

                           TRINCULO.

E questo!

                            STEFANO.

E questo!

                              Si ode il rumore di una caccia.
                              Entrano diversi spiriti sotto
                              aspetto di cani e li cacciano via.
                              Prospero e Ariele gli incitano.

                           PROSPERO.

Su Montagna, su!

                            ARIELE.

Argento! Qui, Argento, qui!

                           PROSPERO.

Furia! Furia! sotto! Qui Tiranno! Senti! senti!

                                     Calibano, Stefano e
                                     Trinculo sono cacciati via.

    Corri, e comanda ai miei spirti che i loro
    membri sien torti in spasimi crudeli:
    accorcia i loro tendini con crampi
    inveterati e d'aspre lividure
    coprili sì che il lor corpo apparisca
    di leopardo o di gatto selvaggio
    più maculato.

                             ARIELE

                 Ascolta il lor ruggire!

                           PROSPERO.

    Che sien cacciati a fondo! I miei nemici
    sono a quest'ora in mio potere. Presto
    le mie fatiche avranno fine e tu
    sarai nell'aria libero. Per poco,
    seguimi ancora e rendimi servizio.

                                                         Exeunt.




                          ATTO QUINTO.


                          SCENA UNICA.

                Davanti alla grotta di Prospero.

        Entrano PROSPERO vestito con la sua veste magica
                           ed ARIELE.


                           PROSPERO.

    Ora i disegni miei giungon la meta,
    non falliscon gl'incanti, i genii tutti
    m'obbediscono e il tempo alto nel cielo
    col suo carro s'inoltra. Come è il giorno?

                            ARIELE.

    Prossimo all'ora sesta. L'ora in cui,
    o mio signor, diceste che il lavoro
    vostro cessar dovrebbe.

                           PROSPERO.

                           È ver, lo dissi,
    fino da quando volli suscitare
    la tempesta. O mio spirito, rispondi:
    Dove sta il re coi suoi compagni?

                            ARIELE.

                                    Insieme
    tutti aggruppati, come mi ordinaste
    quando gli avete abbandonati. Tutti
    sono, o signore, prigionieri dentro
    la buca della vostra grotta, d'onde
    non si potranno muover fino a quando
    non li libererete. Il Re con suo
    fratello e tutti i vostri stan da un lato
    fuori dei loro sensi, mentre gli altri
    piangon su loro pieni di tristezza
    e di dolor. Ma più d'ogni altro, quegli
    che voi chiamate il "buon signor Gonzalo".
    Le sue lacrime cadon sulla barba
    come gocce d'inverno sulla paglia
    d'una tettoia e questo vostro incanto
    sì fattamente ora li tien che quando
    li vedeste il cuor vostro diverrebbe
    più mite.

                           PROSPERO.

             E tu lo credi in vero, o spirto?

                            ARIELE.

    Lo diverrebbe il mio se fossi un uomo,
    o signore.

                           PROSPERO.

              Ed il mio lo diverrà.
    Tu che pur sei di sola aria, commosso
    fosti ai loro tormenti ed io che sono
    di una stessa natura e che ogni loro
    dolore sento acutamente, forse
    più mite non debbo essere? Se bene
    i lor grandi misfatti abbian colpito
    il mio cuore, però contro la mia
    collera una più nobile ragione
    combatte: è la virtù più grande della
    vendetta e poichè tutti or son pentiti
    non un passo più oltre il mio disegno
    avanzerà. Vola, Ariele, e rendi
    libero ognuno: io romperò l'incanto,
    renderò i sensi a tutti sì che ognuno
    ritroverà se stesso.

                            ARIELE.

                        Io vo, signore,
    a rintracciarli.

                           PROSPERO.

                    O voi elfi dei colli
    e dei ruscelli e degli stagni e delle
    caverne, e voi che sulle sabbie senza
    lasciare impronta trascorrete dietro
    Nettuno quando si ritira e innanzi
    a lui fuggite se si avanza, e voi
    gnomi che al chiar di luna disegnate
    di quei cerchi, danzando, che fan l'erba
    amara dove più non bruca il gregge,
    e voi cui solo passatempo è fare
    nascere i funghi a mezzanotte e tutti
    vi rallegrate udendo il coprifoco
    solenne, siete assai deboli spirti
    e pur col vostro aiuto il sole ardente
    nel meriggio ho oscurato ed i ribelli
    venti evocando ho spinto ad aspra guerra
    il verde mar contro l'azzurro cielo.
    Ho la folgore urlante acceso e l'alta
    quercia ho colpito con la fiamma stessa
    di Giove e i saldi promontorii ho scosso
    ed il cedro e l'abete ho capovolto.
    Le tombe al mio comando hanno svegliato
    i dormienti e per virtù di mia
    arte si sono aperte e gli han lasciati
    liberi. E pure a questo incantamento
    rinuncio e dopo che avrò ancor richiesto
    qualche celeste musica--ed è quello
    che sto facendo--per oprar sui loro
    sensi che è quanto ha perseguito il mio
    aereo inganno, romperò per sempre
    la magica bacchetta, molte braccia
    sotto terra celandola e fin dove
    ancor non è disceso lo scandaglio
    affonderò il mio libro.

                            Si ode una musica solenne. Rientra
                            ARIELE e dietro di lui ALONZO
                            che fa gesti frenetici, aiutato da
                            GONZALO. SEBASTIANO e ANTONIO
                            anch'essi farneticanti sono
                            sostenuti da FRANCESCO e da ADRIANO.
                            Tutti entrano nel cerchio tracciato
                            da Prospero e rimangono
                            presi dall'incanto. Prospero gli
                            osserva un istante, poi prosegue:

    Una solenne musica, e il più buono
    consolatore ad un insano spirto
    curino il tuo cervello or fatto inane
    e quasi nel tuo cranio arso. Restate
    qui tutti fermi per l'incantamento!
    Sacro Gonzalo, onesto uomo, i miei occhi
    quasi compagni ai tuoi lascian cadere
    le medesime gocce. Si dissolva
    l'incanto e come i raggi del mattino
    rompono il tenebrore della notte,
    scaccino, i lor rinnovellati sensi,
    ogni torpido fumo che ravvolge
    la lor mente più limpida. E tu, bravo
    Gonzalo, salvator mio solo e a questi
    fedel compagno io pagherò le tue
    grazie e con opre e con parole. Molto
    crudelmente, o Re Alonso, verso mia
    figlia e verso me usasti. Tuo fratello
    più oltre ancor nell'azion si spinse
    ed or, Sebastian, sei fortemente
    castigato e nel sangue e nella carne.
    E voi, fratello mio, che a mantenere
    l'ambizion soffocaste il rimorso
    e la natura e con Sebastiano
    --i cui tormenti son forti per questo--
    uccider volevate il vostro Re,
    io ti perdono, per quanto tu sia
    fuori della natura. I loro sensi
    cominciano a destarsi e la crescente,
    marea tra poco invaderà la spiaggia
    di lor ragione che ora giace tutta
    sporca e fangosa. Non un sol fra loro
    che pur mi guarda mi conoscerebbe.
    Ariele! Qui portami la spada
    ed il cappello dalla mia caverna.
    Mi vestirò, per presentarmi come
    son stato un tempo: il duca di Milano.
    Spirito, presto! che fra poco ancora
    avrai la libertà.

                             ARIELE

                                           cantando mentre aiuta
                                           Prospero a vestirsi.

    _Là dove l'ape sugge a sugger debbo andare
    nel campanello d'una primula a riposare
    e quando urlano i gufi mi voglio addormentare
          sul finir dell'estate allegramente
        e viver d'ora innanzi allegramente
                    allegramente
    fra le corolle pendule d'un cespuglio fiorente!_

                           PROSPERO.

    Ahi questo è il mio buon Ariel! Ti debbo
    perdere, ma sarai libero. Sì,
    Sì, sì! Ritorna intanto sulla nave
    del Re sempre invisibile e là tutti
    i marinari, sotto i boccaporti
    addormentati troverai. Soltanto
    il padrone e il nostromo essendo svegli
    qua me li condurrai. Presto, ti prego.

                            ARIELE.

    Io bevo l'aria a me d'innanzi e torno
    prima che il vostro polso abbia battuto
    due volte!

                                                           Exit.

                            GONZALO.

    Tutti gli stupori e tutti
    i tormenti e le angosce ed i terrori
    sono qui radunati. Che un potere
    celeste, ora ci guidi pur da queste
    spaventose contrade!

                           PROSPERO.

                        Guarda, o Sire:
    Prospero il duca espulso di Milano.
    Per mostrarti che quei che ora ti parla
    è un principe vivente, ecco io ti abbraccio
    e a te, come ai compagni tuoi dal cuore
    v'auguro il benvenuto.

                            ALONZO.

                          Io non so dire
    se tu sia quello, o se non sei più tosto
    qualche incantato spirito, che debba
    trarmi in inganno anche una volta come
    già lo fui poco fa. Ti batte il polso
    qual di carne e di sangue e fin da quando
    ti ho visto, sento indebolirsi il grave
    tormento del mio spirito, che--temo--
    sia da follia percosso. Tutto questo
    se non è finzion, certo promette
    una assai strana storia. Il tuo ducato
    io ti rendo e il perdon chiedo al mio fallo.
    Ma come mai Prospero è vivo e come
    sì trova qui?

                            PROSPERO

                                                      a Gonzalo.

                 Prima, o nobile amico,
    lascia che abbracci la vecchiezza tua
    di cui nessun può misurar l'onore
    nè limitarlo.

                            GONZALO.

                 Non potrei giurare
    che tutto questo sia pur vero o falso.

                           PROSPERO.

    Ancor gustate qualche leccornia
    di quest'isola, quale non vi lascia
    le cose vere scerner dalle false.
    Benvenuti voi tutti, amici miei!

                                Piano a Sebastiano e ad Antonio.

    In quanto a voi, bel paio di messeri,
    potrei--se lo volessi--il guardo irato
    di sua altezza su voi volgere e quali
    traditori svelarvi. Per adesso
    non dirò nulla.

                           SEBASTIANO

                                                          da sè.

                    È il diavolo che parla
    in lui!

                           PROSPERO.

           No. Ma per voi degno signore
    che non posso chiamar fratello senza
    infettarmi la bocca, io ti perdono
    delle più gravi colpe: tutte quante.
    E il mio ducato ti richieggo, pure
    conoscendo che rendermelo devi.

                            ALONZO.

    Se Prospero tu sei, dacci notizie
    di tua salvezza e come ci hai trovati
    qui tutti, quando or fan tre ore appena
    naufragammo sopra questa spiaggia
    dove perdetti--come è acuto il male
    di un tal ricordo!--il figlio mio diletto
    Ferdinando.

                           PROSPERO.

               Ne son dolente, o Sire.

                            ALONZO.

    La perdita è senza riparo e dice
    la pazienza ch'è fuor d'ogni sua
    cura.

                           PROSPERO.

         Invece mi par che non abbiate
    l'aiuto suo richiesto, poi che il dolce
    favor mi presta di sovrano aiuto
    in una eguale perdita e mi accorda
    il riposo.

                            ALONZO.

              Una tal perdita voi?

                           PROSPERO.

    Tanto grande per me, quanto recente
    e contro cui, per sopportarla ho mezzi
    più deboli di quelli che potete
    invocare a conforto vostro: ho perso
    la figlia mia.

                            ALONZO.

                  La vostra figlia? Oh cielo
    perchè non sono a Napoli ed entrambi
    quivi regina e re? se questo fosse,
    starmi vorrei dentro il fangoso letto
    dove mio figlio giace. Quando avete
    perduto vostra figlia?

                           PROSPERO.

                          L'ho perduta
    nell'ultima tempesta. Io scorgo intanto
    questi degni signori sì colpiti
    da un tale incontro che la ragion loro
    divorano e che i loro occhi ministri
    dubitan siano di verità, nè vero
    alito le parole loro. Ma
    per quanto fuor dei vostri sensi usciti
    siate certi ch'io son Prospero, il Duca
    legittimo, scacciato da Milano
    il quale molto stranamente in questa
    spiaggia ove naufragaste, prese terra
    e il signor ne divenne. Ma di tali
    cose non più, però che questa è storia
    di lunghi giorni e non lieve racconto
    da farsi a mensa e quale si convenga
    a questo primo incontro. O Sire, siate
    il benvenuto. La mia corte è questa
    grotta. Ho là qualche servo, nè di fuori
    suddito alcuno. Ve ne prego, date
    uno sguardo là dentro. Poi che il mio
    ducato mi rendeste, compensarvi
    io cercherò con egual cosa o al meno
    tal miracol mostrarvi che vi faccia
    lieto così come lo son del mio
    ducato.

                                     Si apre la grotta e lascia
                                     vedere Ferdinando e Miranda
                                     che giocano a scacchi.

                            MIRANDA.

           O mio dolce signor, giuocate
    ingannandomi.

                          FERDINANDO.

                 No, mio caro amore:
    non lo farei pe'l mondo intero.

                            MIRANDA.

                                   Sì:
    ma venti regni mi disputereste
    ch'io pur direi che il vostro giuoco è buono.

                            ALONZO.

    Se un'altra visione è questa della
    Isola, ben due volte un caro figlio
    ho perduto!

                          SEBASTIANO.

               Un miracolo supremo!

                          FERDINANDO.

    Quantunque il mare ci minacci è pure
    pietoso ed in van l'ho maledetto!

                              S'inginocchia d'innanzi ad Alonzo.

                            ALONZO.

    Le benedizion tutte d'un padre
    felice, ora ti faccian grande. Sorgi
    in piedi e dimmi come qui venisti.

                            MIRANDA.

    O meraviglia! Quali creature
    mirabili! e come è bello l'umano
    genere! Oh dolce nuovo mondo, pieno
    di un tal popolo!

                           PROSPERO.

                     È nuovo a te!

                            ALONZO.

                                  Chi è dunque
    questa fanciulla con la quale stavi
    giuocando? Non può essere più antica
    di ben tre ore l'amicizia vostra.
    Forse è la Dea che ci ha salvati e tutti
    ci ha radunati qui?

                          FERDINANDO.

                       Sire, è mortale
    ma è mia per immortale provvidenza.
    Io la scelsi allorchè più non potevo
    chieder consiglio al padre mio, nè pure
    credea di averne ancora uno. Ella è figlia
    di quel ben noto duca di Milano
    di cui sì spesso ho udito, senza pure
    averlo visto prima. È da costui
    che ho ricevuto una seconda vita
    ed un secondo padre or mi procura
    questa signora.

                            ALONZO.

                   E sarà il suo! Ma come
    sembrerà strano che il perdono invochi
    da mio figlio!

                           PROSPERO.

                  Ora basta, Sire. È vano
    aggravare il ricordo con un peso
    già dileguato.

                            GONZALO.

                  Dentro me piangevo,
    se no parlato avrei di già. Volgete
    in giù li sguardi, o Dei! Su questa coppia
    una corona benedetta fate
    cadere dopo che la via tracciaste
    che ci ha condotti qui!

                            ALONZO.

                           Dico, o Gonzalo,
    Amen!

                            GONZALO.

         Così Milano fu cacciato
    da Milano perchè la discendenza
    sua regnasse su Napoli! Una gioia
    non comune vi allieti e questo in oro
    sopra salde colonne trascrivete:
    "Trovato ha Claribella, in un viaggio,
    a Tunisi il marito e suo fratello
    Ferdinando una moglie là dove egli
    si era perduto; Prospero, il ducato
    in una povera isola e noi tutti
    ritrovammo noi stessi, quando ognuno
    di sè non era più padrone".

                            ALONZO.

                               Datemi
    le vostre mani. Ogni tristezza ed ogni
    dolore il cuor per sempre arda di quegli
    che non v'auguri bene.

    GONZALO.

                          E così sia
    Amen!


                                 Rientra ARIELE col PADRONE
                                 della nave seguito dal NOSTROMO
                                 e ambedue pieni di stupore.

         O guarda, Sire, o guarda, Sire,
    ecco ancor due dei nostri. Avea pur detto
    che se c'era potere in terra, questi
    non sarebbe affogato! Ora, o Bestemmia,
    che lanciavi da bordo tutte quante
    le tue imprecazioni, non ne hai dunque
    più sulla spiaggia? E non hai più la bocca
    a terra? E cosa c'è di nuovo?

                          IL NOSTROMO.

                                 Prima,
    e assai meglio di tutto, c'è che abbiamo
    trovato il nostro re salvo coi suoi.
    Poi che la vostra nave--quella stessa
    che or fa tre ore credevam perduta--
    è salda e forte e sopra i flutti ondeggia
    come quando nel mar la prima volta
    noi la varammo.

                             ARIELE

                                                     a Prospero.

                   Tutto questo, o mio
    signore, ho fatto da che son partito.

                            PROSPERO

                                                      ad Ariele.

    Spirito industre!

                            ALONZO.

                     Questi avvenimenti
    non sono naturali e d'ora in ora
    divengono più strani. Dite come
    veniste qui?

                       IL QUARTIERMASTRO.

                Sire, se mai credessi
    di essere sveglio, cercherei di dirlo.
    Morti eravam di sonno e tutti quanti
    distesi sotto i boccaporti, senza
    pur saper come, quando con rumori
    strani e diversi, come grida e rugghi
    e batter di catene ed urla ed altri
    varî frastuoni fummo risvegliati
    e per di più liberi tutti e il nostro,
    bravo, forte e regal vascello abbiamo
    in ordine trovato ed il padrone
    che saltava di gioia nel vederlo.
    In un battibaleno e, non vi spiaccia,
    sempre sognando forse, siamo stati
    di là tratti e condotti qui che ancora
    ci fregavamo gli occhi.

                             ARIELE

                                                     a Prospero.

                           Ho fatto bene?

                            PROSPERO

                                                      ad Ariele.

    Bene, o mio diligente, e tu sarai
    libero!

                            ALONZO.

           Ecco il più strano labirinto
    che un uomo abbia percorso. In tutto questo
    v'è più grande potere che non abbia
    la natura. Bisogna che la nostra
    scienza un qualche oracolo corregga.

                           PROSPERO.

    O Sire e mio Sovrano, il tuo pensiero
    non faticare sopra la stranezza
    di questi fatti. Quando avremo il tempo
    e fra breve sarà--saprò spiegarti
    in secreto ogni cosa ed ogni cosa
    ti sembrerà probabile. Ma in tanto
    siate felici e di ciascun evento
    pensate bene.

                                                      Ad Ariele.

                 O spirito, vien qua.
    Libera Calibano e i suoi compagni
    e disciogli l'incanto.

                                                    Exit Ariele.

                          O grazioso
    mio Sire, come va? Vi sono alcuni
    vostri vecchi compagni che perdeste
    e che non ricordate.


                                   Rientra ARIELE, trascinandosi
                                   dietro STEFANO, TRINCULO e
                                   CALIBANO con le vesti rubate.

                            STEFANO.

Che ognuno fatichi per tutti gli altri e che
nessuno si preoccupi di sè stesso perchè qua
giù non c'è che il caso.

    _Coraggio_, bravo mostro, _coraggio!_

                           TRINCULO.

Se quelle che porto in testa sono buone spie,
ecco un meraviglioso spettacolo!

                           CALIBANO.

                          O Setebos!
    Questi son bravi spiriti davvero
    e come è bello il mio padrone! Io temo
    ch'egli non mi castighi!

                          SEBASTIANO.

                           Ah, ah, che cose
    sono mai queste, o mio messer Antonio,
    e si potean comprare?

                            ANTONIO.

                         Certamente:
    uno è un semplice pesce e senza dubbio
    commerciabile.

                           PROSPERO.

                  I lor cenci guardate,
    o miei signori, e poi dite se sono
    onesti! Quel deforme farabutto
    è figlio di una strega che fu tanto
    forte, da controllar la luna e il flusso
    ed il riflusso regolare e senza
    il suo poter la sfera comandarne.
    Tutti e tre mi hanno derubato e questo
    mezzo demonio--perchè è pur bastardo--
    per togliermi la vita ha congiurato
    con loro. Due di questi voi dovete
    riconoscere come vostri ed io
    questa cosa di tenebre per mia
    riconosco.

                           CALIBANO.

              Sarò pinzato a morte!

                            ALONZO.

    Ma non è questo, Stefano il mio servo
    ubriacone?

                          SEBASTIANO.

    È ubriaco anche adesso. Ma dove ha
    trovato il vino?

                            ALONZO.

                    E Trinculo che in piedi
    non può reggersi più? Dove han trovato
    il gran Liquor che gli ha dorati in questo
    modo? E come ti sei messo in tal salsa?

                           TRINCULO.

Mi son messo in questa salsa dall'ultima volta
che vi ho veduto, e ho paura che non m'esca
più dalle ossa. Non avrò più timore delle punture
delle mosche.

                          SEBASTIANO.

E bene, Stefano, cosa c'è?

                            STEFANO.

Oh non mi toccate! io non sono più Stefano,
son un crampo.

                           PROSPERO.

Volevate essere re dell'isola, eh? birbante!

                            STEFANO.

Vi assicuro che in questo caso sarei stato
un re pieno di benevolenza.

                            ALONZO.

                                             indicando Calibano.

    La più bizzarra cosa che ho mai visto!

                           PROSPERO.

    Egli è nella figura e nei suoi modi
    egualmente deforme. Va', messere,
    nella mia grotta e reca teco i tuoi
    compagni. Per avere il mio perdono
    ordinatela a modo.

                           CALIBANO.

                      Certamente
    che lo farò, voglio esser d'ora innanzi
    sottomesso ed avere il tuo perdono.
    Ah tre volte imbecille fui, prendendo
    per Dio questo ubriaco ed adorando
    quest'altro pazzo ignobile!

                           PROSPERO.

                               Va' via!

                            ALONZO.

Via di qui! E rimettete quelli oggetti dove
gli avete trovati.

                          SEBASTIANO.

O meglio rubati.

                                             Exeunt Calibano,
                                             Trinculo e Stefano.

                           PROSPERO.

    Sire, invito l'altezza vostra e tutta
    la corte nella mia povera cella
    dove potrete riposarvi questa
    notte. Ma in parte impiegheremo il tempo
    in discorsi cotali che veloce
    ve lo farà trascorrere: la storia
    della mia vita e di quel che mi accadde
    fino dal primo giorno in cui son giunto
    in quest'isola. E all'alba al vostro legno
    vi condurrò che a Napoli vi porti,
    dove spero veder solennizzato
    il rito nuzial di questi due
    amanti e quindi nella mia Milano
    ritornerò, dove su tre pensieri
    uno alla tomba mia sarà rivolto.

                            ALONZO.

    La storia della vostra vita ho fretta
    di udire: certo deve stranamente
    prender l'udito.

                           PROSPERO.

                    Liberi vi rendo
    tutti! Ed a voi prometto calmi venti,
    onde propizie ed un viaggio tanto
    celere che possiate giunger presto
    la regal flotta.

                                                      Ad Ariele.

                    O mio Ariele, avanti!
    questo è incarico tuo: poi fa ritorno
    agli elementi e sii libero. Addio!
    Ed or di grazia fatevi da presso.

                                                         Exeunt.

                            EPILOGO

                       detto da Prospero.

        Qui ho deposto ogni magia
        e quel che ho di forza è mia:
        non è molto e sta in potere
        vostro farmi rimanere
        o mandarmi per incanto
        verso Napoli. Soltanto
        poi che il mio vecchio ducato
        io mi son riconquistato
        ed ho reso il mio favore
        all'indegno traditore,
        via da questi regni vani
        col favor di vostre mani
        mi traete e col fedele
        vostro soffio le mie vele
        sì gonfiate che altrimenti
        sono i miei divisamenti
        --ch'eran solo a voi piacere--
        tutti quanti per cadere.
        Ora ho d'uopo al tempo stesso
        d'arte e genii e vi confesso
        che la mia sorte è assai nera
        se non fosse la preghiera
        che a traverso ogni aspro assalto
        sa raggiungere nell'alto
        la divina grazia e rende
        puri di tutte le mende.
        Dunque come voi volete
        il perdono, concedete
        l'indulgenza che dovrà
        rimandarmi in libertà.


                             FINE.




                             NOTE.




                      NOTE DEL TRADUTTORE

                              ALLA

                    TEMPESTA, DI SHAKESPEARE


ATTO PRIMO.


SCENA II.--A pag. 26. _Calibano_. Con questo personaggio, l'autore ha
voluto senza dubbio personificare uno di quelli indigeni--di razza
rossa--che nei viaggi a cui si accenna nella prefazione assumevano
tanti e tanto fantastici aspetti. Il Farmer osserva poi come _Caliban_
sia metatesi di _Canibal_ e l'osservazione è tanto più giusta in
quanto gli anagrammi e i giuochi di parole erano di moda in
quell'epoca.


A pag. 34. _A ben cinque braccia nel mare...._ Questa canzone e
l'altra del quarto atto: _là dove sugge l'ape_, ecc.... furono
musicate da Robert Johnson e pubblicate a Oxford nel 1660 dal Dr.
Wilson, in una raccolta intitolata _Court Ayres or Ballads_.


A pag. 38. _Sei tu vergine o no_, ecc. Questa esclamazione di
Ferdinando si è prestata a molti comenti dovuti anche alle diverse
interpretazioni del testo. Secondo la maggior parte delle edizioni
inglesi il testo direbbe:

                   _O you wonder!
    If you be made or no!_

a cui Miranda risponde:

                   _No wonder, sir;
    But certaily a maid._

giuocando sul doppio significato di made-creatura, cosa creata, e
maid-vergine come aveva frainteso la figlia di Prospero. Ma secondo il
Malone, questo gioco di parole non doveva esistere nel testo originale
tanto più che le prime copie leggono _if you be maid or no_. Del
resto, l'interpretazione che ha suscitato grandi dispute fra i
comentatori ha valore relativo e secondo noi è bene concludere con le
parole del Mason il quale osserva giustamente che tutta la questione
si riduce a sapere se i lettori vorranno adottare un'espressione
semplice e naturale che non ha bisogno di comenti o meglio un'altra
che l'ingenuità di molti comentatori ha interpretato imperfettamente.


ATTO SECONDO.


SCENA PRIMA.--A pag. 49. _Temperanza era infatti una delicata
donzella...._ I puritani dell'epoca di Guglielmo Shakespeare usavano
di battezzare le loro figlie con nomi di virtù morali e religiose.
Così il Taylor nella descrizione di una meretrice, ha questi due
versi:

    _Though bad they be, they will not bate an ace
    To be call'd Prudence, Temperance, Faith and Grace._


A pag. 52. _Vedova Didone, avete detto_, ecc....

Il Malone suggerisce che questa insistenza sul nome di _Dido_ in
assonanza con la parola _Widow_--vedova--possa essere stata dettata
dal ricordo di una iscrizione copiata da Anserio e riportata tradotta
nei poemi di Davison:

                  _O nost unhappy Dido
    unhappy wife and mor unhappy widow!_

Ma forse più giustamente altri comentatori rammentano una ballata
_Queen Dido_ popolarissima ai tempi di Shakespeare e cantata in tutte
le taverne e in tutte le strade di Londra.


A pag. 57.

        _S'io mi fossi
    il Re cosa farei?_

Tutto questo passaggio, nel quale taluno potrebbe vedere un'acuta
satira del socialismo, fu ispirato dagli _Essais_ di Montaigne che
erano stati tradotti dal Florio e pubblicati in Inghilterra nel 1603.
Si può dire che l'intiero brano non sia che una traduzione del
capitolo in cui si parla della Francia Antartica, allora recentemente
scoperta.

Il lettore potrà confrontare gli Essais al capitolo XXX del libro I:
_Des Cannibales_.


SCENA II.--A pag. 74. _Trinculo_. Il nome di Trinculo deve essere
stato suggerito a Guglielmo Shakespeare da qualche canzone di marinaio
napoletano. Benedetto Croce mi faceva osservare, infatti, un vecchio
ritornello dialettale che suonava così:

    _Tríncule, míncule
    spilli e spillone...._

A pag. 75. _Non darebbe un centesimo per soccorrere un povero storpio,
ma ne sborserebbe dieci per vedere un indiano morto._

Verso la fine del secolo XVI era tornato dal Catay dove aveva compiuto
un avventuroso viaggio il Frobisher, e aveva portato con sè alcuni
indigeni di quel regno lontano, i quali destavano una grande curiosità
fra gli abitanti di Londra: ma per un raffreddore preso sulla nave che
li conduceva in Europa morirono quasi subito appena furono sbarcati in
Inghilterra. La relazione di quel viaggio e la descrizione di quelli
indiani con relativa storia della loro morte fu pubblicata in un
volume in-4° dal Frobisher, nel 1578.


ATTO TERZO.


SCENA II.--A pag. 95. _Sarebbe davvero un bel mostro se avesse gli
occhi nella coda...._

È un'allusione a una pubblicazione fatta ai tempi di Shakespeare a
proposito di una balena trovata morta sulla spiaggia di Ramsgate. In
questa pubblicazione era detto fra l'altro «si tratta dunque di un
pesce mostruoso, ma non così mostruoso come è stato detto, perchè ha
gli occhi nella testa e non sul di dietro». Vedi _Summary_, 1575.


A pag. 101

                        _... rammenta
    d'impossessarti dei suoi libri...._

Il Malone osserva che questo episodio è una probabile rimembranza
dell'incanto che Angelica fece sull'incantatore Malagigi, con l'aiuto
di Argalia. L'_Orlando furioso_ era stato pubblicato in Inghilterra
nella traduzione del Harrington l'anno 1591.


A pag. 104. _È l'aria della nostra canzone suonata dal ritratto di
Nessuno._

Allusione a una commedia anonima pubblicata in quei giorni: _at the
signe of No-Body_.


SCENA III.--A pag. 109,

    _Che in Arabia vi è un albero per Trono
    della Fenice...._

La favola della Fenice è raccontata da Plinio, dove Guglielmo
Shakespeare deve averla letta nella traduzione dell'Holland,
pubblicata appunto verso quell'epoca.


A pag. 111.

    _Che ci fosser montanari,
    con un grugno di toro,_ ecc,...

Questi _montanari_ sono i gozzuti della Val d'Aosta di cui si aveva
avuto in Inghilterra notizia fino dal 1503 in un volume di Wincken de
Wynck intitolato: _Maundeville's Travels_.


A pag. 111.

    _... Miracoli che pure
    potrebbe garantirci oggi un qualunque
    viaggiatore assicurato al cinque
    per uno...._

Era costume, all'epoca di Shakespeare, che ciascun viaggiatore il
quale partisse per una lunga spedizione, assicurasse la propria vita,
depositando una data somma di denaro che gli veniva restituita
aumentata da forti interessi quando fosse di ritorno.


ATTO QUARTO.--UNA RAPPRESENTAZIONE.


A pag. 121.

    _Le rive che l'aprile umido, al tuo comando
    di gigli e di peonie fiorisce...._ ecc.

Gigli e peonie erano simboli della castità. Così il Lyte nel suo
_Herbal_ ci fa sapere che «un genere di peonie è da qualcuno chiamato
_maiden or virgin peonie_». Se poi si vuol osservare che i gigli e le
peonie non crescono contemporaneamente, si risponderà che di queste
inesattezze botaniche molte se ne trovano nell'opera di Guglielmo
Shakespeare, come i «garofani che Aprile apporta» nella canzone del
_Measure for Measure_, i «gigli d'ogni qualità» che descrive nel
_Winter's tale_ come figli della primavera, contemporanei alle
giunchiglie, alle primole e alle violette, ed altre fantasie poetiche
del genere. Si aggiunga che alcuni comentatori antichi invece di
_lilied brims_ leggono _twilled brims_, cioè _margini ricamati o
trapuntati di peonie_.


A pag. 126.

        _Non altrimenti gli edifici
    senza base di questa visione...._

Tutto l'intiero brano, che è proverbiale nella letteratura inglese,
non sarebbe originale secondo lo Steevens, il quale lo fa derivare da
una scena della _Tragedy of Darius_ di Lord Sterline, tragedia che
sarebbe stata pubblicata l'anno della morte della Regina Elisabetta
(1603).


A pag. 130.

_.... si è condotto con noi come un Fuoco fatuo._

L'originale ha _has played the Jack with us_. «Jack of lantern» è il
nome popolare del fuoco fatuo che secondo la tradizione faceva deviare
i viaggiatori dalla via retta per precipitarli nei pantani su cui
ondeggiava.

A pag. 134.

            _.... sarem tutti
    guanti cambiati in paperi...._

Il testo ha barnacles che secondo lo Skinner sarebbe l'_Anser
Scoticus_. Voleva la tradizione d'allora quest'anitra nascesse da un
albero i cui frutti giunti a maturità si aprivano lasciando cadere
l'anitroccolo sull'acqua. Il Collins ci fa sapere che «Esistono in
alcune parti della Scozia settentrionale certi alberi su cui crescono
frutti a forma di conchiglia i quali cadendo sull'acqua si trasformano
in anatre e sono chiamate _barnacles_». L'errore, del resto, era
accettato dai più celebri naturalisti del tempo, così che non solo si
trova riprodotto nella _Cosmografia_ di Sebastiano Münster, ma anche
il nostro dottissimo Aldrovandi lo accoglie nella sua ornitologia,
dando per fino il disegno dell'albero portentoso!


A pag. 135. _Si ode il rumore di una caccia._

Era credenza comune che una muta di cani spettrali seguita da uno
sconosciuto cacciatore, scorrazzasse la terra seguendo qualche dannato
peccatore. Così ritroviamo la caccia selvaggia nel canto XIII
dell'_Inferno_ dantesco e nella novella di Nastagio degli Onesti del
Decamerone. Così venne accettata dagli scrittori di magìa come si può
vedere del _Treatise of spectres_ di Pietro de Loier, tradotto dal
francese e pubblicato in Inghilterra nel 1605.



ATTO QUINTO.


A pag. 139. _O voi elfi dei colli...._

Il Warburton fa notare che questa invocazione si trova
nell'invocazione ovidiana di _Medea_.

    _Auraeque et venti, montesque, amnesque, lacusque
    Diique omnes nemorum diisque omnes noctis adeste._

Egli l'aveva letta nella traduzione del Goldnig e il Malone osserva
che in alcuni punti ha trascritto letteralmente l'espressione del
traduttore inglese.


A pag. 145. _Ancor gustate qualche leccornia_, ecc.

Il testo ha:

    _do you yet taste
    sone subtilties._

Il vocabolo _subtiltie_, annota lo Steevens, è parola che si trova
nell'antica arte culinaria e significa uno di quei piatti che
raffiguravano cose diverse dalla loro sostanza, come castelli, alberi,
dragoni, ecc., fatti di pasta e di zucchero.


A pag. 155.--_Coraggio, bravo mostro, coraggio!_ La parola Coraggio è
in italiano nell'originale.


A pag. 157.--_Il gran Liquor che gli ha dorati_, ecc. Il Warburton
crede che lo Shakespeare avesse scritto _Il grande Elisir_, perchè è
evidente dalle parole che seguono--_che gli ha dorati tutti_--che egli
allude all'_Aurum potabile_ di cui in quei tempi era gran parlare.



EPILOGO.


A pag. 161. _.... la mia sorte è assai nera...._

Allude alla fine disperata dei negromanti, tratti nell'inferno dagli
spiriti maligni e salvi solo dalla preghiera dovuta a un sincero
pentimento.





              PREZZO DEL PRESENTE VOLUME: Due Lire.


                             TEATRO

                               DI

                     GUGLIELMO SHAKESPEARE


                NUOVA TRADUZIONE DI DIEGO ANGELI



    _A questo 1.° volume __La Tempesta__ succederanno
    immediatamente le seguenti opere di cui la traduzione
    è già compita:_

        Giulio Cesare.

        Coriolano.

        Come vi piace.

        Il sogno di una notte di mezza estate.

        Macbeth.




Dirigere commissioni e vaglia ai Fratelli Treves, editori in Milano.





End of the Project Gutenberg EBook of La Tempesta, by William Shakespeare

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