Ricordi di gioventù : Cose vedute o sapute - 1847-1860

By Visconti Venosta

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Title: Ricordi di gioventù
        Cose vedute o sapute - 1847-1860

Author: Giovanni Visconti Venosta

Release date: July 31, 2025 [eBook #76598]

Language: Italian

Original publication: Milano: Cogliati, 1925

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RICORDI DI GIOVENTÙ ***


   [Illustrazione: Giovanni Visconti Venosta]


                       GIOVANNI VISCONTI VENOSTA


                               RICORDI DI
                                GIOVENTÙ

                          COSE VEDUTE O SAPUTE

                               1847-1860


                            QUINTA EDIZIONE



                                 MILANO
                       CASA EDIT. L. F. COGLIATI
                                 1925.

                           G. MAGGIONI. 1925




                     PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA

           Industrie Grafiche A. NICOLA & C. — Milano-Varese.




CAPITOLO I


  _Sommario:_ Lettera ai miei nipoti. — Primi anni infantili. — Mio
  padre e mia madre. — Il bisnonno e il nonno. — Moti in Valtellina
  alla fine del secolo XVIII. — Prima annessione della Valtellina
  alla Lombardia, decretata da Napoleone. — L’invasione Austro-russa
  e il brigantaggio. — Il Governo Napoleonico. — La ristaurazione del
  Governo Grigione dinanzi al Congresso di Vienna. — La Valtellina
  definitivamente riunita alla Lombardia nel 1815. — Usi e costumi
  a Milano nel 1848. — Il colera in Lombardia nel 1836. — La venuta
  nel Lombardo-Veneto dell’Imperatore d’Austria Ferdinando I successo
  a Francesco I. — Primi insegnamenti politici. — Un accidente
  pericoloso. — Divertimenti e feste in casa Trotti, episodi. —
  L’Istituto Boselli. — Il maestro Pozzi. — Mio fratello Enrico. — I
  miei primi compagni di scuola nell’Istituto Boselli e nel Ginnasio
  Pubblico. — Il direttore Boselli e una scappatella di Emilio. — La
  morte del direttore Boselli. — Le lezioni che ci dà nostro padre.
  — Giuseppe Revere. — Le vacanze a Tirano. — I miei parenti di
  Valtellina. — Il congresso scientifico di Milano. — La monografia
  di mio padre sulla Valtellina. — La Società d’Incoraggiamento.
  — Il conte Carlo Porro. — La signora Anna Tinelli. — Caso
  disgraziato avvenuto a mio padre in viaggio. — Mio padre ci toglie
  dall’Istituto Boselli. — Si va in Valtellina per le vacanze. — Mio
  padre, colto da grave malore, muore in tre giorni. — Con mia madre,
  e coi fratelli, si va in casa del cugino don Luigi Quadrio. — Tutta
  la popolazione di Grosio accompagna la salma di mio padre. — Note
  storiche.

  AI MIEI NIPOTI

  CARLO, ENRICO, GIOVANNI.

                                               _Tirano, agosto 1900._


Nel leggere i libri di storia ho avuto più volte la curiosità di sapere
che cosa facesse, che cosa dicesse, durante i principali avvenimenti,
tutta quella parte di pubblico che non ha l’onore di essere ricordata
nei libri.

Nel leggere poi qualche libro di storia patria, e specialmente
di storia valtellinese, ho avuto anche un’altra curiosità, tutta
domestica. Conoscendo la parte presa, da parecchi della nostra
famiglia, negli avvenimenti della loro valle nativa, ero tanto più
curioso di sapere quali intendimenti avessero guidato quei nostri
antenati, quale fosse stato l’animo loro, quali le loro costumanze, e
quali vicende avessero attraversato, essi e le loro famiglie.

Quando mi venivano questi pensieri, se mi trovavo a Tirano, passavo
delle ore nello studio, che conoscete, a frugare tra le vecchie carte
d’archivio; e parecchie volte ho potuto rivivere in mezzo ai nostri
buoni vecchi, leggendo dei fasci di lettere, o qualche loro scritto,
e riuscendo così a sapere, con mio grande interesse, quello ch’essi
avessero pensato, o avessero fatto, durante certi tempi fortunosi in
cui erano vissuti.

Se voi avete ereditato questa mia stessa curiosità, avrete di certo
anche quella di sapere che cosa pensassero, e che cosa facessero,
vostro padre e i vostri zii in quegli anni, che resteranno famosi nella
storia italiana; gli anni che corsero tra il 1848 e la proclamazione
del nuovo Regno d’Italia.

Ho pensato perciò di riandare nella memoria i miei ricordi di gioventù,
e di narrarveli, dolente di non averci pensato prima tenendone nota
giorno per giorno. Non è una storia completa di quei tempi che io
vi scriverò; molte ne furono già scritte, altre se ne scriveranno, e
non arriverete a leggerle tutte. Io m’accontenterò d’esporvi quegli
avvenimenti in mezzo ai quali mi sono trovato, o ai quali presi una
qualche parte. Vi dirò quello che ne ho veduto io, e quello che ne ho
sentito dire, e le impressioni che me ne sono rimaste; vi condurrò in
mezzo ad alcuni fatti grandi e a molti fatterelli; vi farò conoscere
qualcuna delle persone che ho conosciute allora, gente d’importanza e
gente oscura, qualche parente, qualche amico; insomma cercherò di darvi
un’idea dell’_ambiente_ in cui sono vissuto a quei tempi.

Ho pensato anche a condurvi con me a dare una breve occhiata agli anni
che precedettero il 1848, gli anni della mia prima giovinezza, per
dirvi qualcosa di mio padre, di mia madre, di mio nonno, e delle nonne,
conducendovi in seno della nostra famiglia d’allora. Saranno poche
pagine intime, che scriverò soprattutto per voi; e così, se qualcuno
all’infuori di voi leggerà questo libro, può saltare il primo capitolo.

Se poi, tra questi lettori, qualcuno che fosse di quei tempi scoprisse
che nel libro ho commesso delle dimenticanze, cosa probabilissima,
spero che mi vorrà essere indulgente, pensando che quei nostri tempi
sono assai lontani, e che è già molto se la mia memoria non siasi
affievolita di più.

Ho fiducia che scrivendo queste pagine non avrò sprecato del tutto la
fatica. Forse vi interesseranno, e un poco me ne divertirò anch’io,
perchè è sempre piacevole il riandare i tempi della propria gioventù,
che, s’ha un bel dire, sono quasi sempre anche i più belli della vita.

Nei miei, poi, ce ne furono di veramente belli, e di veramente grandi.

Nascere in una patria schiava e divisa, avere in cuore l’ideale della
sua libertà, e vederne raggiunta la meta, è una di quelle fortune che
hanno rari esempi nella storia.

Ed ora, ai giovani l’ideale di renderla grande e felice! Il compito non
sarà meno glorioso, perchè non sarà meno grande, nè meno arduo.

                                                         Lo zio GINO.

                                 * * *

Incominciando queste pagine proprio dagli anni della mia prima
giovinezza, dico subito che furono anni per me sereni e felici; quando
ci ritorno col pensiero non so staccarmene, e ne ritrovo ancora vivi
nell’animo i ricordi dolcissimi.

C’era nella mia famiglia un’atmosfera di amorevolezza e di confidenza
tra genitori e figliuoli, che non era comune a quei tempi. Fra le
pareti domestiche non sentivo che massime virtuose, non vedevo che
buoni esempi, resi tanto più persuasivi e tanto più attraenti perchè
accompagnati da una bontà indulgente e serena.

Certe massime, pur buonissime, che sentivo da qualche mio parente, da
qualche maestro, o da padri di altri fanciulli, pronunziate con quel
tono burbero e severo col quale alcuni credono di far impressione sui
fanciulli, a me sembravano precetti disgustosi, o per lo meno noiosi.
Quanto mi parevano diverse dalle massime e dai consigli dei miei
buoni genitori, i cui avvertimenti erano sempre pronunziati con tanta
dolcezza! erano così ragionati, e tanto persuasivi!

Quando, più tardi, coi compagni del Ginnasio o del Liceo, tutti dal
più al meno birichini, si evocavano certe massime domestiche severe,
e parecchi le mettevano in ridicolo, il mio pensiero correndo ai miei
buoni genitori, trovava un freno, o per lo meno un rimorso.

Oh, nel giudizio finale non potrò davvero accampare la mancata
educazione quale circostanza attenuante!

Mi vedo ancora dinanzi agli occhi, dopo tanti anni, vive e parlanti le
figure di mio padre e di mia madre, quando erano nel fior degli anni,
e mi pare ancora di sentire la loro voce e i loro discorsi; i discorsi
che facevano con le persone grandi e con noi ragazzi.

Eravamo tre fratelli; Emilio che aveva tre anni più di me, ed Enrico
che ne aveva tre di meno. Un fratellino maggiore di tutti, Nicoletto,
era morto ancor bambino, prima ch’io nascessi.

Mio padre aveva la persona alta ed elegante; aveva il contegno distinto
e riservato. Sul suo viso, una certa mestizia che sovente lo adombrava,
quasi fosse il presagio d’una fine immatura, si mutava facilmente in un
sorriso pieno di dolcezza e di bontà. Aveva l’animo retto e calmo, in
lui era altissimo il sentimento della giustizia e dell’equanimità. La
sua intelligenza era forte e serena; amava gli studi, ed aveva molta
coltura, specialmente in materie giuridiche, economiche e letterarie.
Conosceva bene anche le matematiche.

Mia madre, Paola Borgazzi, era una donnina bella, piacente, elegante,
piena di brio e di spirito. Aveva una religiosità convinta e profonda;
rigida per sè, ma indulgente e amabile, direi, verso gli altri. Soleva
dire che anche tra i santi preferiva quelli miti e indulgenti a quelli
accigliati e severi. Era una sua massima, che se una persona aveva
commesso un fallo non bisognava sfuggirla, ma cercarla, per rialzarne
l’animo, e facilitarle la redenzione. Voleva che anche la virtù fosse
attraente, e ci diceva sempre che tra le virtù la _carità_ è la più
bella.

Con noi figliuoli era affettuosissima, e come metodo d’educazione non
conosceva che la mitezza e l’indulgenza.

Quando noi tre fratelli facevamo troppo chiasso, cosa che succedeva
di frequente, essa andava a rinchiudersi nel suo gabinetto; per cui
il babbo soleva dire che, quando eravamo cattivi, la mamma invece
di castigar noi castigava se stessa. Eppure anche quello era per noi
un castigo, perchè allora ci mettevamo dietro l’uscio a piangere e a
supplicare finchè la porta si aprisse. Emilio, ch’era molto tenero,
si metteva a capo di tutti a piangere. Coi lunghi capelli biondi
inanellati che gli scendevano sulle spalle, e cogli occhi celesti,
pareva l’angelo del dolore.

Dunque, figliuoli, immaginatevelo così vostro padre, quand’era bambino.
All’occorrenza però era un bel diavoletto anche lui.

Mia madre aveva lo spirito pronto e arguto, e per di più un talento
d’imitazione quale non vidi mai in nessuno. Essa alle volte si
metteva a rifare un’intera conversazione, a ripetere un colloquio, una
discussione tra parecchi, imitando le voci, e rispecchiando le persone,
con una tale verità d’osservazione e in un modo così perfetto, da dar
proprio l’illusione d’udire quelle persone stesse.

Accanto a queste qualità piacevoli e brillanti dello spirito, c’erano
in mia madre anche delle solide e profonde virtù, che in lei vivevano
nascoste, ma che nei giorni del dolore furono la sua guida e la sua
forza.

In casa nostra, poi, dagli amici e dai nostri vecchi contadini sentivo
spesso parlare del bisnonno e del nonno, che avevano lasciato lunga e
grata memoria di sè.

Il mio bisnonno, Francesco, lo vedevo dipinto su un quadro, in un
salotto della nostra casa di Tirano, con una bella giubba rossa, e con
delle carte in mano, che indicavano il tempo del Governo Grigione in
Valtellina e di quand’egli era Gran Cancelliere della Valle. Di lui era
rimasta la fama d’uomo di molta rettitudine e di alta autorità.

Del nonno, Nicola, le memorie, naturalmente più recenti, parlavano come
d’un personaggio che in Valtellina aveva avuto una parte importante
durante gli avvenimenti fortunosi della Rivoluzione francese.

Mio nonno aveva fatto gli studi a Roma, in un Collegio di Gesuiti, e
c’era rimasto parecchi anni, pur ritornando in famiglia ogni anno per
le vacanze. Il viaggio dalla Valtellina a Roma, a quei tempi, e cioè
intorno al 1770, non era un affare da poco. Si faceva la Valtellina a
cavallo ed il lago di Como in barca; poi a Milano c’era un vetturale
all’albergo dei Tre Re, che con un legno a quattro cavalli conduceva a
Roma, impiegandoci circa due settimane.

Il nonno, durante gli anni del collegio, era stato molto attorniato
perchè entrasse nella Compagnia di Gesù, e s’avviasse alle Prelature.
Da principio si era dimostrato non alieno, giovanetto qual era, e
lusingato dai superiori, che ne apprezzavano il forte ingegno. Egli
era poi amantissimo degli studi di cultura classica ed archeologica,
che gli rendevano seducente il soggiorno di Roma. Ma i suoi genitori,
di cui era l’unico figlio maschio, si mostrarono vivamente contrari a
quella sua idea giovanile; e forse l’avrebbe smessa egli stesso. Ma a
troncare ogni incertezza venne la Bolla di Clemente XIV, che sopprimeva
la Compagnia di Gesù.

Allora lasciò Roma, e ritornò in famiglia. I Padri del Collegio, sparsi
con altri Gesuiti per tutta Europa, continuarono per qualche tempo a
tenere con lui una corrispondenza, nella quale parlano della ferma
fiducia che la _Compagnia_ (alcuno di loro la chiama _la Madre_),
risorgerà infallibilmente, e riferiscono gli affidamenti che ricevono
da personaggi e da Governi.

Pare che il mio nonno a questa risurrezione non ci credesse molto,
e che intanto abbandonasse il pensiero di ritornare a Roma. Passano
circa dieci anni, e la corrispondenza langue; poi mio nonno, nel
1783, si marita a Milano con donna Francesca, figlia del conte
Fabio Castiglioni, che morì in età ancor fresca. Qualcuno dei Padri
sopravissuti si lamentò con mio nonno del suo matrimonio, meno un certo
Padre Mezzi di Bergamo, che gli scrive una lettera scherzosa, la quale
finisce col dirgli: «Se non te ne è venuta la vocazione, compensa la
Compagnia col mettere al mondo molti gesuitini, futuri Padri».

Le raccomandazioni del Padre Mezzi non ebbero fortuna.

Mio nonno, appena ritornato in famiglia, riprese i suoi studi storici,
avviando in Valtellina e nella Valle Venosta profonde ricerche sulla
traccia di un albero di famiglia che andava documentando. Raccolse
documenti e numerose pergamene, che conserviamo, illustrando con
indagini, non prima fatte, molti punti della storia valtellinese,
riguardanti specialmente i secoli XII e XIV.

Poi dal 1786 al 1815 lo vediamo rivolgere tutta la sua attività agli
avvenimenti politici di cui fu teatro la sua valle nativa.

La cospirazione contro il Governo Grigione[1], l’invasione francese[2],
l’annessione della Valtellina alla Lombardia, la reazione austro-russa,
il Regno italico, la restaurazione coi trattati del 1815, avvenimenti
ricchi d’episodi anche in Valtellina, lo ebbero attore attivissimo in
servizio della patria[3].

Dopo questi avvenimenti, di cui vi do un cenno sommario nelle note in
fine di questo capitolo, mio nonno si ritirò da ogni pubblico uffizio;
più tardi fu eletto dai Comuni Deputato Nobile alla Congregazione
Centrale in Milano.

Osservando le carte e i documenti di quell’epoca, che dimostrano
l’integrità e l’energia del suo carattere, e la sua vasta cultura, è a
deplorarsi che i casi non abbiano condotto mio nonno a spiegare tante
doti in un campo più vasto.

Egli venne a stabilirsi a Milano nel 1823, quando si maritò suo figlio;
morì l’anno 1828.

                                 * * *

Se spingo il mio pensiero, lontano, nei tempi, della mia infanzia a
cercarvi qualche fatterello, o piuttosto qualche impressione, mi si
affacciano dei vaghi ricordi, che mi dicono quanto fossero diverse
le abitudini e la vita di quei tempi. La prima e massima linea di
separazione tra quei tempi e i tempi nuovi fu segnata dal 1848.

Da allora tutto mutò rapidamente, nelle abitudini domestiche, nella
vita cittadina, nelle usanze, nelle menti, direi quasi come se fosse
passato un secolo, non un breve tempo. Ripensando ai tempi di prima,
tutto mi si affaccia come in un mondo diverso; un mondo più semplice,
più rispettoso, e più uniformemente tranquillo, come uno stagno. Noi
ragazzi, nella nostra famiglia, come dissi, eravamo educati con una
grande dolcezza, ma nelle famiglie degli altri fanciulli, nostri amici,
l’educazione era più severa; si ragionava poco, e si ubbidiva molto. In
una famiglia di quel tempo non si sarebbe mai udito «si fa tal cosa,
o non si fa, perchè nostro figlio, od anche solo la nostra bambina,
vogliono o non vogliono!» Una simile pretesa avrebbe fatto ridere come
una incredibile stranezza. I balocchi, i divertimenti, erano pochi
e semplici. Nelle famiglie signorili si pranzava tra le quattro e le
cinque del pomeriggio, e dopo pranzo si andava in carrozza al Corso,
che si svolgeva tra la Porta Orientale, ora Porta Venezia, e i bastioni
vicini, sotto la direzione d’un Commissario di polizia a cavallo,
seguìto da due ussari. Le carrozze che vi intervenivano erano molte,
e tutte a due cavalli. Una signora non sarebbe andata mai in un legno
a un sol cavallo, e non usciva a piedi che seguita da un domestico in
livrea.

Non c’erano vetture pubbliche, come ora; c’erano solo dei fiacres a
due cavalli in alcune piazze della città, e servivano specialmente pei
forestieri. I così detti _broughams_ non comparvero che dopo il 1850, e
gli _omnibus_ assai più tardi.

La prima signora che a Milano sfoggiò un elegante _brougham_, a un
cavallo, venuto da Parigi, fu la marchesa Ippolita d’Adda Salvaterra
Pallavicino. Di questo fatto allora si parlò molto a Milano.

Alle ville, in campagna, ci si andava coi cavalli proprî, perchè non
c’erano ferrovie, all’infuori del breve tronco di dodici chilometri
tra Milano e Monza, aperto nel 1842. Noi andavamo nelle nostre case
in Valtellina, distanti da Milano da 160 a 170 chilometri, col nostro
legno e coi nostri cavalli, impiegandoci tre giorni. L’illuminazione a
gaz per le vie di Milano non principiò che nel 1845.

Alle volte il babbo e la mamma ci conducevano al teatro _alla Scala_,
ove si diceva che c’erano dei grandi maestri e de’ grandi cantanti;
ma ciò che m’interessava soprattutto era il _balletto comico_, che
chiudeva lo spettacolo dopo il _ballo grande_[4].

Qualche volta poi nostro padre ci conduceva a sentire il Modena, e,
ci diceva: «Quando sarete grandi, vi farà piacere ricordarvi di questo
attore.»

Una delle impressioni, che mi rimase viva per parecchi anni, fu lo
spavento che aveva messo in tutti la prima invasione del colera in
Lombardia. Mio padre si conservava calmo, come di solito, ma mia madre
era spaventata, e volle lasciare Milano. Si andò a Torino, ma prima di
passare il Ticino si dovette fare una quarantena di parecchi giorni in
una villa, che mise a nostra disposizione il conte Francesco Annoni,
amico e parente di mio padre. Alcune stampe di quel tempo raffiguravano
il colera in forma d’un diavolo, anche più brutto del solito, che
percorreva i paesi spargendo un veleno. Per me dunque il colera non
era altro che quel diavolo, e mi guardavo sempre in giro per scansarlo,
caso mai comparisse.

Dopo il colera, ci fu nel 1838 l’ingresso solenne in Milano di
Ferdinando I, il nuovo Imperatore d’Austria, ch’era successo al
padre. Fui condotto anch’io su un terrazzino del corso di Porta
Orientale a vedere lo spettacolo della fastosa sfilata di cavalieri
in ricchi costumi, di araldi, e di cocchi dorati. Quando arrivò la
carrozza, tutta oro e cristalli, nella quale c’erano l’Imperatore e
l’Imperatrice, parecchi lungo la strada incominciarono ad applaudire
ed a sventolare i fazzoletti. Io guardavo con tanto d’occhi e
bisogna dire che in quel momento avessi levato di tasca il fazzoletto
anch’io, perchè a un tratto mi sentii prendere fortemente pel braccio
da un giovinetto più alto di me, che mi era vicino, e che mi disse
bruscamente: «Guardati bene dall’applaudire quando l’Imperatore passerà
qui sotto!»

Fissai quel giovane stupefatto, e senza capire nulla, ma mi guardai
bene dall’applaudire. Poco dopo domandai alla mamma la spiegazione
di quel comando; essa mi rispose che quel giovanotto aveva avuto
ragione, ma che certe cose le avrei capite più tardi. Era questa una
risposta che sentivo sovente, e non chiesi altro. Quel giovanotto si
chiamava Guido Susani, che rividi molti anni dopo, e col quale entrai
in amicizia; un’amicizia che fu spesso attraversata da nuvole e da
temporali, poichè quell’arroganza, sotto i cui auspici avevo fatto la
sua prima conoscenza, lo accompagnava sempre, sia che avesse torto, sia
che avesse ragione, come in quel giorno dell’entrata dell’Imperatore.

Ma siccome i bambini molte volte vanno ruminando tra sè nel pensiero
sulle cose udite e non capite, soprattutto quando si dice loro che son
cose che capiranno più tardi, così ho poi ruminato anch’io sulle parole
del Susani, e a poco a poco, pigliando a volo una parola qua, una
parola là, sentendo parlare da mia madre della storia pietosa di Teresa
Confalonieri, e del Pellico da mio padre, imparai che gli austriaci
erano una cosa detestabile. In casa nostra non erano mai venuti nè
uffiziali, nè alti funzionari austriaci.

Bisogna dire che la parola _diplomatico_ avesse colpito, a quei tempi,
la fantasia di mio fratello Emilio, poichè ricordo che quando gli
domandavano, come si fa coi bambini «Che cosa vuoi fare quando sarai
grande?» rispondeva: «Voglio fare il _diplomatico_!» e si rideva. Una
volta però, quando fu più grandicello, il babbo gli disse: «Sta bene,
se tu dici ciò come un proposito di studiare seriamente; ma ricordati
che nel nostro paese c’è un governo che non dobbiamo servire!»

L’anno dopo la venuta dell’Imperatore fui mandato a scuola per far la
prima classe elementare, ma un caso disgraziato, che poteva essermi
fatale, mi fece interrompere le lezioni per alcuni mesi. Un giorno
fui preso dalla curiosità di sapere cosa ci fosse nell’armadio di una
stanza di servizio, che vedevo sempre chiuso: l’apersi, e in mezzo
a molte bottigliette ne trovai una sulla quale era scritto _Malaga
vecchio_: ne tracannai un sorso; mi sentii come una fiamma in bocca, e
caddi a terra. Era acido solforico.

Fui in grave pericolo per parecchi giorni, soffrendo molto; guarii
lentamente, e ne risentii per un pezzo.

Mio fratello Emilio, che andava a scuola già da tre anni, aveva i suoi
piccoli amici, ch’eran parecchi, ma i tre intimi erano i figli del
marchese Antonio Trotti, Lodovico e Lorenzo, che poi morì giovane,
e Saule Mantegazza. Queste amicizie erano naturalmente accompagnate
da quelle dei rispettivi parenti; in casa Trotti poi ci andavano
altri ragazzi, e di carnevale c’erano delle lezioni di ballo, delle
belle festicciuole anche in costume, e delle recite. Era un grande
divertimento, e i miei genitori conducevano anche me. Una sera però
Emilio ebbe un dispiacere, ed uno lo ebbi anch’io. Emilio ballava con
una bambina d’Azeglio, vestita alla Bernese con una gran cuffia; urtati
nel ballare, caddero tutt’e due; fecero per rialzarsi, ma in grazia del
cuffione della bambina e delle maglie strette che aveva Emilio, non ci
riuscirono; ruzzolarono sotto una tavola, e ci volle un po’ di tempo
per levarneli.

Emilio, da quel giorno, non volle ballar più.

Il mio dispiacere l’ebbi alcune sere dopo. Mia madre aveva combinato
con la marchesa Fanny d’Adda De Capitanei ch’io ballassi una quadriglia
con la sua bambina, Lauretta. La quadriglia andò disastrosamente, e
non seppi più neanche dove fosse andata a finire la mia ballerina.
Per un pezzo, anche dopo quella sera, io continuai a incolparne quella
bambina, mentre essa continuò a prendersela con me.

Chi mi avrebbe detto allora che quella bambina sarebbe un giorno
diventata mia moglie! Eppure la nostra prima conoscenza è datata da
quella sera, e cominciò con un disaccordo che doveva essere il primo e
l’ultimo.

Da bambini, noi tre fratelli eravamo gracili, nervosi, vivacissimi.
Perciò nostro padre non volle mandarci a scuola, e neanche farci
insegnar l’alfabeto, che dopo i sette anni compiuti. Così, fino a
quell’età, non si fece che giocare, saltare e passeggiare, accompagnati
dal babbo, ch’era sempre con noi, e prendeva occasione da ogni piccola
cosa per interessarci a tutto ciò che si vedeva.

Allora non c’erano scuole di ginnastica, ed in casa nostra non c’era
un giardino; perciò nostro padre ne aveva preso uno in affitto, dove
ci conduceva ogni giorno a far il chiasso, mentre lui se ne stava sotto
una pianta con un libro in mano.

Le scuole pubbliche elementari a quei tempi erano scarse, e non buone.
Nei Ginnasi e nei Licei c’era qualche bravo professore, e anche
celebre, ma si studiava poco, e superficialmente. A Milano c’erano
diversi Istituti d’insegnamento privato, e tra questi il _Boselli_ e il
_Racheli_ erano i due più importanti, che accoglievano i figliuoli di
molte tra le migliori famiglie.

Noi fummo mandati all’Istituto Boselli, ove c’erano alcuni tra
i migliori professori d’allora, tra i quali Achille Mauri, noto
letterato, e che più tardi nella Camera Piemontese, nel Senato italiano
e nel Ministero della Pubblica Istruzione, lasciò un nome caro ed
onorato.

Nell’istituto Boselli la prima classe elementare era tenuta da un certo
maestro Pozzi, uomo di moltissimo ingegno, il quale, dopo aver fatto
il professore di matematica in un Liceo, aveva voluto dedicarsi ai
fanciulli, per esperimentare certi suoi metodi che dovevano condurli a
imparare rapidamente il leggere, lo scrivere, un po’ d’aritmetica, ed
altre belle cose.

I metodi del maestro Pozzi, davvero ingegnosissimi, consistevano in
una serie continua di giochi traverso i quali si imparava in fretta,
senza fatica, anzi divertendoci moltissimo. De’ suoi sistemi alcuni
sono rimasti, e sono in uso, senza che alcuno rammenti chi primo li
introdusse. Tra i suoi scolaretti il Pozzi poi ne sceglieva alcuni, e,
sempre a furia di giochi, insegnava loro cose che facevano sbalordire
i buoni genitori, quando presentava i suoi piccoli allievi agli esami,
come cagnolini ammaestrati.

Ma non c’erano solo i giochetti, c’era di serio nella scuola del Pozzi
che l’insegnamento diventava facile, attraente, rapido, senza stancare
mai la mente tenera dei bambini, e senza far nascere quelle ripugnanze
precoci che ispiravano molte volte le vecchie scuole.

Il maestro Pozzi lasciò la scuola pochi anni dopo, e morì giovane. Tra
gli ultimi suoi scolari ci fu mio fratello Enrico, a cui prodigò cure
affettuose e pazienti, che non dimenticherò mai.

Mio fratello Enrico, a cagione d’una malattia cerebrale avuta da
bambino, era giunto fino agli otto anni senza quasi poter profferire
le parole. Si temette da principio che fosse muto; ma non era sordo,
e dava segni d’intelligenza svegliata. Mio padre s’intese col maestro
Pozzi, il quale a poco a poco, in un paio d’anni, riuscì a snodar
la lingua ad Enrico, e a farlo parlare, con un seguito di espedienti
ingegnosi e amorevoli.

Mio fratello Enrico diventò un uomo di mente svegliata e acuta; ebbe
l’animo buono e giocondo, lo spirito pronto e arguto.

Tutto amore pei suoi fratelli, le sue preoccupazioni, i suoi pensieri,
eran tutti, e sempre, rivolti a loro, con un affetto quasi figliale.
Finchè visse, le abitudini mie furono le sue; eravamo sempre insieme,
in casa, in campagna, nelle conversazioni, nei divertimenti; non ci
lasciavamo mai.

Il suo carattere aperto e leale, la grande bontà del suo animo lo
rendevano caro ai molti che lo conobbero e che ne cercavano con premura
l’amicizia. Morì a 46 anni, nel 1881, e la sua perdita, che rimpiango
ogni giorno, mi lasciò privo quasi d’una parte di me stesso.

Il maestro Pozzi aveva per assistente un chiericotto, che pareva
avviato a divenir prete; ma quel chierico abbandonò presto il collare
e l’insegnamento dell’alfabeto. Più tardi lo ritrovai, quando fui alla
Università; si chiamava l’avv. Antonio Mosca e fu mio professore di
legge. Dopo il 1859 diventò deputato, e fu un’illustrazione del Foro
Lombardo.

Il direttore, Antonio Boselli, aveva dato molta riputazione al suo
Istituto circondandosi sempre di ottimi professori. Quanto valesse
lui non lo so, ma ne’ suoi alunni non destò l’impressione simpatica
lasciataci dai suoi maestri e professori. Ne avevamo paura; era duro,
severo, e distribuiva con grande facilità ingiurie e scappellotti,
specialmente a quelli che teneva in pensione.

Le prime confidenze su queste abitudini manesche del Boselli le
ebbi da alcuni condiscepoli della prima classe ginnasiale. Eravamo
in tre sul medesimo banco, e io ero nel mezzo. Fin dal primo giorno
feci una grande amicizia coi miei due compagni, e incominciarono
le confidenze, mentre si mangiavano i due panini concessi nella
mezz’ora della ricreazione. Due panini, nulla di più; i regolamenti
scolastici, allora, non permettevano altro, e la concessione d’un po’
di companatico era un affare non facile. Il mio vicino di sinistra
era un giovanetto magruccio, pallido, timido; aveva due gran mani,
gonfie, rosse pei geloni, e sanguinolenti. Era un convittore, e mi
raccontava che il Boselli li faceva alzare col lume nell’inverno prima
di scuola, e li metteva a studiare in camerotti freddi, distribuendo
poi con facilità fior di ceffoni senza economia; e mi diceva che
quando i convittori erano irrequieti, il Boselli, chiamando _morbosa_
l’irrequietudine, somministrava loro dei purganti.

Non so dei purganti, ma dei ceffoni ne pigliava parecchi anche il
mio povero compagno. Poverino! e infatti aveva l’aria intimidita e
malinconica. Ma non lo era di natura, poichè quando più tardi, divenuto
io amico in casa sua, ci ritrovammo, in mezzo ai suoi fratelli, lo
rividi vispo, allegro, e tutt’altro che timido. Ma allora mi faceva
tanta compassione! Solo mi pareva che un giovinetto così mingherlino,
così timido, avesse un nome troppo solenne, troppo da uomo grande; si
chiamava Malachia De Cristoforis.

Il mio compagno di destra era molto diverso; aveva dodici anni, era
tarchiato, aveva il fare risoluto, e lanciava anche qualche bestemmia,
specialmente contro il latino. Suo padre l’aveva messo nella _Pensione
Boselli_ solo per alcuni mesi, cioè mentre era assente con parte
della famiglia, lasciata in Spagna. Però, diceva questo mio compagno,
se nel frattempo il signor Boselli mi somministrasse un qualche
ceffone, allora farei una «_conspiracion_ in collegio, e poi un
_pronunciamento_, e occorrendo una _revolucion_, come si fa in Spagna.»

«Sei spagnuolo?» gli domandai.

«No, sono di Val Seriana, ma mio padre è cittadino onorario di
Saragozza, ove è chiamato _el Dio del do di petto!_»

Io non capivo niente. Ma il mio amico mi raccontò che suo padre in
tre _piazze_ dove fece tre _stagioni_, in Spagna, era ricevuto come un
_Rey_.

Basti dire che a Toledo gli studenti gli staccarono i cavalli e
trascinarono essi la carrozza; a Valladolid illuminarono la città per
lui. Quando poi c’era la sua serata, allora fioccavano inviti, poesie,
serenate, regali, e si lanciavano pel teatro dei canarini: e il mio
amico non la finiva più nel raccontare cose meravigliose, intanto
che si sbocconcellavano que’ due panini. Io e gli altri compagni lo
ascoltavamo pieni di meraviglia e quasi d’invidia; ci pareva proprio il
figlio d’un Re.

Due mesi dopo venne a prenderlo un bell’uomo, senza barba, che
cantarellava, intanto che il signor Boselli gli faceva vedere
l’Istituto.

Era il cittadino di Saragozza, che veniva a prendere suo figlio per
ricondurlo in Spagna. Tutti salutammo affettuosamente il nostro amico,
facendo mille propositi per l’anno dopo. Ma l’amico non ritornò più, e
non seppi più nulla di lui.

Si andava alla fine d’ogni mese al Ginnasio di S. Alessandro (ora
Beccaria) a fare un breve esame, chiamato _esperimento_, su qualcuna
delle materie della classe, insieme agli alunni del Ginnasio pubblico.
Ci trovavo press’a poco sempre gli stessi scolari, ch’erano molto
biricchini e insolenti, soprattutto con noi delle scuole private;
per cui correvano spesso delle busse. Parecchi mi canzonavano perchè
avevo i capelli rossi, e mi lanciavano dei proverbi popolari poco
lusinghieri. Per un po’ fingevo di non badarci; poi ne pigliavo
qualcuno, e gli davo una buona strigliatina. Mi dicevano in milanese:
_Guardet de la toss e di cavei ross; Qui ross in difficil de conoss_.

Tra questi scolari ne avevo notato specialmente due, che stavano sempre
tra loro, col fare brusco e con la faccia accigliata. D’uno seppi più
tardi ch’era il figlio d’un Commissario di Polizia; l’altro; ch’era
anche il più altezzoso dei due, per un pezzo non sapemmo chi fosse;
ma qualcuno tra noi disse che doveva essere il figlio d’un generale,
perchè una volta venne a prenderlo suo padre con in capo una feluca.

Un giorno, nell’uscir di scuola, gli domandammo: «E tu chi sei?
Chi è tuo padre?» — «Mio padre» rispose in tono fiero il ragazzo «è
Commissario di Sanità del Municipio.»

Ma siccome noi avevamo l’aria di non aver capito, e si rideva, il
ragazzo replicò, con fare d’importanza e di compassione per la nostra
ignoranza: «Mio padre è il Capo che sta al di sopra di chi accalappia i
cani!»

Rammento ancora un grosso guaio ch’ebbe una volta mio fratello Emilio
nella scuola Boselli. Non so per qual ragione, la sua classe era
stata un giorno messa tutta in castigo e privata della ricreazione.
Che fecero allora gli scolari? C’era su una stufa grande, e fatta a
colonna, un busto in gesso dorato, ch’era il ritratto dell’Imperatore
d’Austria; gli scolari, approfittando d’un momento in cui il professore
era uscito dalla classe, buttarono una corda al collo del busto, e con
una forte tirata lo rovesciarono a terra, mandando tutto in frantumi
l’infelice Imperatore[5].

Apriti cielo! I sospetti più gravi caddero su mio fratello Emilio,
come ispiratore e principale esecutore del delitto. Boselli, a buon
conto, gli diede una terribile lavata di capo, accompagnata da parole
ingiuriose; mio fratello allora mise i suoi libri sotto il braccio, e
se ne andò a casa. Il giorno dopo, mio padre accomodò la faccenda alla
meglio.

Boselli, quando ci strapazzava, soleva dedurre dalle nostre scappatelle
le più terribili conseguenze: «Si incomincia colla disobbedienza, poi
di questo passo si finisce sulla forca!»

Molti anni dopo, nel 1853, vennero i processi di Mantova, le forche
furono rizzate davvero, e mio fratello Emilio corse un grave pericolo.
«Che Boselli l’avesse indovinata?» mi disse un giorno Emilio. Infatti
c’era mancato poco.

Ma i vecchi alunni del signor Boselli dovevano presto perdonargli
le strapazzate, gli scappellotti, i purganti, e i suoi pronostici,
poichè venute le _Cinque Giornate_, egli fu tra i primi ad accorrere
al Broletto, che fu uno dei punti di ritrovo dell’insurrezione, e vi
rimase ucciso.

Devo però dire che, a quei tempi, il migliore dei miei maestri è stato
mio padre. Egli ci faceva, dopo la scuola, delle ripetizioni, ch’erano
vere lezioni, e con grande amorevolezza e chiarezza c’insegnava ben più
di quanto avevamo sentito, e talvolta non capito a scuola.

Con mio fratello Emilio, maggiore di me, come dissi, e che era
dotato di molta precocità d’ingegno e di molta volontà di studiare,
le lezioni eran lunghe, ed erano seguite poi da discorsi istruttivi
durante le passeggiate che si facevano dopo le lezioni. Molte volte ci
accompagnava nelle paseggiate il poeta Giuseppe Rèvere, anzi ricordo
che parecchi de’ suoi bei sonetti li scrisse in casa nostra.

Uno dei modi di educazione di mio padre era quello di stare co’ suoi
figli più che poteva, di esigere da noi una confidenza illimitata,
ricambiandocene molta, e di considerarci come persone un po’
superiori alla nostra età; così ispirava in noi il sentimento della
responsabilità e del dovere. Eravamo trattati da piccoli uomini,
cosa che ci lusingava assai; per cui era grande il nostro impegno per
tenerci a quel livello.

In Valtellina, ove passavamo le vacanze, mio padre alle volte
interrompeva i miei spassi, non di rado un po’ sfrenati, coll’affidarmi
qualche incombenza campestre, in cui ci volesse dell’assiduità e
dell’attenzione. Non è a dire come ne fossi superbo, e con quanta
serietà mi ci mettessi. Ciò avveniva specialmente nel tempo delle
vendemmie, che mio padre, buon agricoltore e buon enologo, dirigeva in
casa sua diligentemente, introducendo metodi allora nuovi, e prendendo
Emilio e me come suoi aiutanti.

Mio padre amava i contadini e ne era fortemente riamato; volontieri
s’intratteneva con loro, s’occupava dei loro affarucci, e il suo studio
era sempre frequentato da contadini che venivano a chiedergli aiuti
e consigli. Specialmente affezionata gli era l’intera popolazione di
Grosio, colla quale la nostra famiglia aveva avuto da parecchi secoli,
tradizionali legami di interessi e di affetti.

Sentimenti riaccesi anche più vivamente da non lontane memorie:
quelle che si riannodavano al mio avo, don Nicola, il quale, anche
in mezzo alle gravi occupazioni della sua vita operosa, non aveva mai
dimenticato i suoi Grosini, ed era stato in ogni occasione difensore e
consigliere amorevole degli affari loro e del Comune.

C’erano in quel tempo in Tirano parecchie buone e distinte famiglie,
ora in parte scomparse; e noi ci avevamo anche dei parenti, poichè mio
padre aveva tre sorelle che si maritarono in Valtellina, nelle famiglie
Cattani, Quadrio e Merizzi. Tra i parenti voglio ricordare specialmente
due, che lasciarono nel mio animo una cara e indelebile memoria; e
questi furono un cognato di mio padre, don Antonio Merizzi; e un suo
cugino germano, don Luigi Quadrio, prete e parroco nel paesello di
Bianzone.

Don Luigi Quadrio era un sacerdote severo nella condotta, dignitoso
nella persona; aveva ingegno, coltura, idee larghe e liberali, come
molti a quel tempo nel clero lombardo. Modestissimo, nemico di ogni
rumore mondano, non volle cariche, che lo avrebbero condotto a diventar
Vescovo, e passò la maggior parte della sua vita nei paeselli di
Bianzone e di Mazzo in Valtellina, amatissimo dal popolo, venerato dal
clero, dedito ai suoi studi e alle cure intelligenti e solerti della
sua piccola parrocchia; spendendo tutto il suo in beneficenza. Tra lui
e mio padre c’era un grande accordo di sentimenti e di pensieri; c’era
un legame d’affetto quasi fraterno, che il buon sacerdote continuò con
noi pure, fin che visse.

Dopo il 1840, una prima e lieve aura di risveglio nazionale aveva
cominciato a spirare in Italia coi Congressi scientifici, ch’erano
stati avviati in alcune città.

Al Congresso, che si doveva tenere in Milano nel 1844, si voleva dare
una speciale importanza, e perciò se ne cominciarono i preparativi
fin dall’anno prima. Vi prendevano parte le persone più notevoli e
più colte di Milano; si preparavano temi e studi di argomenti patrî e
cittadini. C’era in tutti un ridestarsi di attività, di intendimenti
patriottici, e di vaghi presentimenti.

Il Cattaneo, che preparava il suo libro sulle _Condizioni morali e
civili della Lombardia_, s’era rivolto a parecchi studiosi per avere
delle notizie economiche, statistiche, morali, riguardanti le diverse
provincie lombarde. Si rivolse a mio padre per aver quelle della
provincia di Sondrio.

Mio padre si mise al lavoro, e fece una completa monografia della
Valtellina, che per la sua importanza non fu trasfusa nel libro del
Cattaneo, ma fu per intero pubblicata negli _Annali di statistica_.
Presentata al Congresso, ne ebbe grandissime lodi, e mise allora in
vista mio padre, che viveva di solito in un modesto riserbo, e gli
diede molta notorietà. Fu allora che entrò in relazione più intima con
quel gruppo di studiosi, fra i quali Cesare Correnti, che poco dopo
dovevano diventare uno dei nuclei più importanti dell’azione e della
lotta politica.

Mio padre era socio, e assiduo frequentatore, della Società
d’Incoraggiamento delle scienze, lettere ed arti, che aveva una ricca
biblioteca, ed era un ritrovo di studiosi, ma che, per la natura
dei tempi, limitavasi ad essere poco più d’un casino di lettura.
Nell’occasione del Congresso si pensò di risollevarla e di farne un
centro di studi attivi e fecondi. Si nominò una Commissione incaricata
di stendere il programma; mio padre ne fu il presidente, e lesse una
prima relazione sull’argomento. Io allora ero un giovanetto, e non
saprei dire quali fossero gli intenti di mio padre e della Commissione;
solo ricordo ch’egli ne discorreva calorosamente col Correnti, col
Rèvere, e col conte Carlo Porro, in un locale municipale ove il
Porro si occupava dei primi ordinamenti del nascente Museo di storia
naturale. Vi si radunavano parecchi, che non conoscevo, e mio padre,
che ci aveva sempre con sè, vi conduceva Emilio e me. Più volte vi
sentii parlare della Società Palatina, onore in passato di Milano, e
augurio di speranza per l’avvenire.

Il conte Porro doveva morire subito dopo le Cinque Giornate, come
vedremo, ucciso da un soldato, mentre era condotto prigioniero ed
ostaggio. E ben presto doveva morire mio padre.

Mio padre era pure tra i frequentatori della casa di donna Anna
Tinelli, signora colta, e nota a Milano pel suo talento artistico
e per le sue belle miniature. Nel suo salotto conveniva un piccolo
mondo politico, quale era compatibile coi tempi, ed erano avanzi di
gente complicata nei movimenti del 1831. Il marito di lei era stato
processato e condannato in contumacia, e s’era riparato in America.
Anche donna Anna era stata inquisita dallo Zaiotti, e se n’era liberata
con fermezza e con presenza di spirito. Durante il processo Paride
Zaiotti soleva interrompersi con qualche storiella, poi ripigliava
il filo, per confondere gli inquisiti. Una volta avendo ricevuto una
lettera, s’interruppe ridendo: «Ecco uno che mi scrive — al Signor
Adone Zaiotti; — le pare che io sia un Adone Zaiotti; — le pare che
io sia un Adone?» E donna Anna prontamente: «Non è un Adone, ma non è
neanche un Paride!» Zaiotti riprese il fare brusco.

Da donna Anna andavano pure assiduamente Arese, Belcredi, il marchese
Gaspare Rosales, i genitori miei e di mia moglie, e parecchie altre
persone appartenenti a famiglie cospicue, liberali ed anti-austriache.

Ai primi di settembre del 1846, finite le scuole, che allora duravano
tutto il mese d’agosto, si partì per Tirano.

Le vacanze di quell’anno incominciarono con auspici che si sarebbero
detti più lieti del solito. Mio padre aveva incominciato uno studio
economico sulla Beneficenza religiosa e la Beneficenza civile, e
correggeva le bozze d’una seconda edizione, di molto ampliata, del suo
libro sulla Valtellina. Queste occupazioni, le sue nuove amicizie, il
nuovo campo d’attività intellettuale che presentiva, erano argomento in
quei giorni d’una viva soddisfazione nell’animo suo, e lo distraevano
da una preoccupazione malinconica che lo turbava da parecchio tempo in
seguito a un caso disgraziato che gli era avvenuto.

Il caso era stato che nel ritornare dalla Valtellina, una notte,
la _Diligenza_ in cui si trovava era ribaltata da un’alta ripa, tra
Sondrio e Morbegno. Un certo Scala, di Grosotto, che si trovava nella
Diligenza, era rimasto morto; e a mio padre, in seguito alla scossa
avuta, era andata mano mano indebolendosi la vista d’un occhio, fino
ad offuscarsi completamente. Questo fatto lo impensieriva assai, e gli
aveva lasciato dei presentimenti dubbiosi e mesti.

Ora, il mutamento improvviso delle sue abitudini solite veniva con
molta opportunità a sviarlo dai pensieri molesti, e a ridargli la calma
serena dell’animo e l’attività geniale della mente.

Mia madre, che lo adorava, ne gioiva ed era in vena di vivacità e di
spirito più che mai.

Io poi avevo dentro di me una secreta gioia, che mi faceva parere
quell’autunno il più bello di tutti. Mio padre, per non so quale
disgusto che aveva avuto col direttore Boselli, aveva fissato di farci
continuare gli studi in casa, alla ripresa delle scuole.

S’era fatto intanto un programma di escursioni sui monti e di
scarrozzate, e si principiò con una gita a Poschiavo in una numerosa
compagnia. A Poschiavo allora s’andava per una strada appena
carreggiabile, a cavallo o su carrette. La brigata non poteva essere
più allegra; e ricordo che mia madre fu in quel giorno (e doveva
esserlo per l’ultima volta nella sua vita), della più gioconda
festività.

Nel ritornare, sulla sera, fummo sorpresi da un temporale e da un
forte acquazzone. Per un tratto di strada non breve non trovammo ove
ripararci, e intanto soffiava un vento gelato che veniva dalle gole del
monte Bernina.

Nella notte mio padre si sentì male; gli si sviluppò un violento
malore, e tre giorni dopo spirava, ai 24 settembre del 1846.

Presente a sè fino agli ultimi momento, volle salutarci tutti,
raccomandando i suoi figli a quanti erano accorsi in casa nostra. A
me disse: «Sii d’aiuto in ogni cosa alla mamma, e seguine sempre i
consigli... te ne troverai contento per tutta la vita».

I ricordi di mio padre e i consigli di mia madre dovevano essere
infatti una delle fortune della mia esistenza.

Mia madre era caduta in terra svenuta, e fu in delirio per parecchi
giorni. Io e i miei fratelli fummo condotti quella sera in casa di
mio zio Merizzi; il giorno dopo venne a prenderci il cugino don Luigi
Quadrio e ci volle presso di sè nel suo paesello di Bianzone, ove fu
condotta poi anche mia madre.

Saputasi a Grosio la morte di mio padre, tutta la popolazione in massa
scese a Tirano, che dista dodici chilometri, e volle averne la salma
per accompagnarla là, dove riposavano tanti della nostra famiglia.

Mio padre aveva da poco compiuti i 48 anni. Egli ebbe la sventura di
passare la maggior parte della sua vita nel periodo di quella morta
gora in cui visse l’Italia tra il 1815 e il 1848. La sua mente, i suoi
studi, la riputazione che s’era acquistata gli avrebbero certamente
riservata una parte politica importante nei grandi avvenimenti che
seguirono da poco la sua morte; ma questa immaturamente lo tolse alle
speranze del paese, e all’affetto di quanti lo conobbero. Di questi
sentimenti si rese interprete Cesare Correnti in una Commemorazione che
lesse alla _Società d’Incoraggiamento_, e che fu uno de’ suoi scritti
più ispirati e gentili.


  NOTE.

  [1] Prima ancora che cominciassero i tempi fortunosi della
  Rivoluzione Francese, mio nonno, unitamente alle persone più
  cospicue della Valle, prese parte attiva ad una agitazione legale
  contro il mal governo del Ducato di Milano, ossia all’Austria,
  quale garante dei patti che esistevano tra i Valtellinesi e i
  Grigioni; patti che poi il Governo dominante aveva continuamente
  violati. Il Governo Grigione, cominciato in Valtellina dopo la
  caduta del Ducato di Milano, nel 1512, era stato interrotto durante
  la guerra dei trent’anni, dalla rivoluzione del 1620, nota sotto
  il nome di _sacro macello_, seguìta da una lunga guerra, e poi
  ristabilito dalle Potenze nel 1639. Il Governo, detto delle Tre
  Leghe, risiedeva a Coira, ed era formato da una gerarchia, che
  dava le cariche pubbliche, specialmente in Valtellina, in appalto
  ai maggiori offerenti, i quali poi se ne compensavano facendo
  traffico della giustizia e dell’amministrazione nei paesi soggetti.
  Si comprende quanto fosse aborrito, e quanti odiosi ricordi avesse
  lasciato in Valtellina quel Governo.

  [2] Avvenuta nel 1706 l’invasione dei Francesi in Lombardia, la
  Valtellina poco dopo insorse contro i suoi dominatori Grigioni,
  e ottenne che il generale Bonaparte l’aggregasse alle provincia
  lombarde, con un decreto pubblicato il 7 brumaio anno VI (28
  ottobre 1797). In principio la Valtellina attraversò anni
  tristissimi, prima col governo giacobino, poi coll’invasione
  austro-russa; e allora si vide un tal Simeone Paravicini mettersi
  a capo della reazione e della guerra civile. Gli Austriaci
  entrarono nella valle, arrestando e mandando a Innsbruck quali
  ostaggi parecchie tra le persone più note, che erano alla testa
  del movimento liberale. Mio nonno, specialmente ricercato, riuscì
  a fuggire, traverso gravi pericoli. I paesi dell’alta Valtellina
  allora furono invasi da bande di disertori, di fuggiaschi dai
  paesi limitrofi, e di malviventi d’ogni specie, che inaugurarono
  un periodo di assassinii e di ladroneggi, chiamato poi il tempo
  dei _briganti_. Mio nonno, ritornato in paese dopo la battaglia
  di Marengo, e dopo il ritorno dei francesi, fu chiamato a diverse
  cariche pubbliche; e fu anche più volte preso di mira, lui e le
  sue case, dai briganti. Nell’esercizio dei suoi uffizi andava
  sempre armato, e seguìto da qualche famigliare parimenti armato. I
  fatti di brigantaggio si ripeterono poi in Valtellina nel 1809 in
  seguito a moti avvenuti in alcuni paesi, al riaprirsi della guerra
  tra la Francia e l’Austria. Le gesta dei briganti formarono poi
  una leggenda durata un pezzo, che sentivo raccontare dai vecchi
  quand’ero ragazzo; e nella leggenda i nomi di mio nonno e della sua
  famiglia erano frequentemente ripetuti.

  [3] Si pensi con quale terrore si temesse dai Valtellinesi la
  possibilità d’una restaurazione del Governo Grigione dopo il
  1815, alla caduta del Governo Napoleonico. Perciò il Consiglio
  Dipartimentale, anche a nome di tutte le Rappresentanze Comunali
  della Provincia, deliberava di mandare una missione a Vienna per
  scongiurare il pericolo, e per patrocinare presso il Congresso
  lo _statu quo_, cioè l’unione della Valtellina alla Lombardia.
  Furono eletti e mandati a Vienna due Delegati, il conte Diego
  Guicciardi, già ministro e Presidente del Senato del Regno
  Italico, e Gerolamo Stampa di Chiavenna. Rimasero a Vienna
  parecchi mesi, informando, nel frattempo, di quanto avveniva,
  il Consiglio, gli amici, e tra questi, specialmente, mio nonno,
  a cui diedero i protocolli della loro missione, ossia un diario
  in cui segnavano giornalmente le trattative ed i colloqui coi
  diversi Rappresentanti delle Potenze al Congresso. Da questi
  protocolli, conservati in casa nostra, si rilevano le brighe e
  gli sforzi dei Grigioni per riavere la Valtellina, le mosse dei
  Delegati per sventarli, i propositi politici, ed i vari progetti
  delle Potenze. L’Austria, naturalmente, accoglieva il voto dei
  Valtellinesi, che la loro Valle rimanesse provincia lombarda, ed
  aveva già occupato Chiavenna; il solo ambasciatore di Sardegna, San
  Marzano, appoggiava questa soluzione, dicendo che non bisognava
  lasciar aperte nuove porte agli stranieri traverso le Alpi. La
  Francia e l’Inghilterra propendevano a fare della Valtellina un
  Cantone svizzero autonomo. Altre Potenze, e parte dei Cantoni
  svizzeri stessi, non si mostravano da principio favorevoli a questa
  soluzione, per non ingrandire la Confederazione, specialmente
  con un Cantone Cattolico. Intanto acquistava favore, e stava per
  trionfare, una soluzione intermedia, quella di riunire ancora la
  Valtellina ai Grigioni, ma costituita in Quarta Lega. Così eravamo
  da capo, e si riapriva una nuova serie di discordie civili. Quando,
  improvvisamente, piomba in mezzo al Congresso, come una bomba,
  la notizia che Napoleone era fuggito dall’Isola d’Elba, ed era
  sbarcato il 1.º marzo a Cannes. Allora, in fretta e in furia,
  vengono decise varie quistioni pendenti, e il _lembo alpino del
  paese lombardo_ viene subito concesso all’Austria, che le Potenze
  volevano cattivarsi, ansiose di spingerla contro Napoleone. I
  Valtellinesi furono lieti d’avere scossa l’odiata signoria dei
  Grigioni; non avevano raggiunta l’indipendenza, ma erano ritornati
  lombardi ed italiani, ottenendo finalmente per sempre un governo
  civile e regolare. La Valtellina fu ufficialmente chiamata la
  Provincia di Sondrio.

  [4] Alla _Scala_ l’opera veniva interrotta a metà dal ballo, detto
  _grande_; finita l’opera c’era il ballo _piccolo_, o _balletto
  comico_. Di questi _balletti_ ne fu celebre uno, che rappresentava
  in caricatura tutti i giovani eleganti milanesi più noti a quel
  tempo.

  [5] Nella _Cronistoria_ di Alessandro Gianetti edita da L. F.
  Cogliati, si legge:

  «Il direttore dell’Istituto Boselli, in obbedienza delle ricevute
  ingiunzioni, dispose per l’insegnamento de’ suoi allievi del
  canto dell’inno austriaco. Ma non pochi di questi allievi vi
  si rifiutarono, e non lo cantarono. Tanto era il sentimento
  di italianità che quegli scolaretti avevano già assorbito
  nell’ambiente delle loro famiglie. Quei giovanetti erano i fratelli
  Mancini, i fratelli Guy, i fratelli De Cristoforis, i fratelli
  Visconti-Venosta, Carissimi, Emilio Bignami-Sormani, ed altri.»




CAPITOLO II.

1847.

  _Sommario_: Ritorno a Milano. — Io e i miei fratelli continuiamo
  gli studi in casa. — L’amicizia con Cesare Correnti. — Prime
  letture patriottiche. — Gli amici del Correnti, e i ritrovi in
  casa sua. — I funerali di Federico Confalonieri. — Una carestia
  in Lombardia, e una grande questua a Milano con intenti politici.
  — La morte dell’Arcivescovo Gaisruck, e l’elezione del Romilli. —
  L’amnistia data da Pio IX e le prime dimostrazioni. — Ricevimento
  e dimostrazioni al nuovo Arcivescovo. — Primi tafferugli e
  primo spargimento di sangue. — L’autunno del 1847 in Lombardia.
  — Gli inni a Pio IX. — Amici di Tirano, Giacomo Merizzi. —
  Ritrovi in casa Correnti. — Il _Nipote del Vesta Verde_. — Prime
  dimostrazioni e pubblica agitazione. — La dimostrazione del non
  fumare. — Il Governo Austriaco aumenta le guarnigioni nelle città
  Lombardo-Venete. — Metternich manda a Milano Ficquelmont, poi
  Hübner con una missione politica. — Le rimostranze del Consigliere
  Nazari di Bergamo al Governo.


La morte di mio padre aveva mutato interamente l’aspetto di casa
nostra. S’era partiti da Milano per la campagna, tutti lieti e felici,
ed ora si ritornava alla città in condizioni tanto diverse, e tutti con
la tristezza nell’anima.

Mia madre, accasciata da un dolore senza conforto, che le dava tratto
tratto delle crisi nervose acute, spasmodiche, s’era rinchiusa nelle
pareti domestiche, s’era allontanata da tutte le sue conoscenze, e
non vedeva più che i suoi fratelli, le sue sorelle, qualche parente, e
qualche vecchio amico. E così continuò finchè visse. La sua vita era
spezzata; la sua natura gioconda era scomparsa; e ben rare volte le
rividi sulle labbra il bel sorriso sereno di una volta.

Il mondo era finito per lei, come soleva dire; le sue cure non erano
rivolte che ai suoi figli; e sorretta da una fede ardente, una fede
pur sempre tutta indulgenza e bontà, non aveva altra speranza che di
rivedere suo marito in una vita senza fine.

Noi riprendemmo i nostri studi, con professori che ci davano le
lezioni in casa; e per non staccarsi, in quei giorni mestissimi,
dalla famiglia, anche Emilio incominciò in casa il corso degli studi
universitari di legge. Nostro padre, morendo, aveva fatto dire a Cesare
Correnti che gli affidava la direzione degli studi letterari de’ suoi
figli; sicchè s’incominciò subito a trovarci col Correnti con molta
frequenza, e con molta intimità.

Questa direzione degli studi, veramente, non fu molto assidua, nè
molto efficace; in quell’anno le menti erano distratte da ben altre
preoccupazioni, e gli animi cominciavano a commuoversi al soffio di
quelle vaghe aspirazioni, e di quei nuovi entusiasmi che preludevano
al quarantotto. Ma se nel Correnti non ho trovato il maestro de’ miei
studi, posso dire d’aver trovato presso di lui la mia prima educazione
patriottica.

Convenivano in casa sua molti studiosi, e sopratutto, molti giovani
in cui il sentimento della patria, raccolto dagli esempi dei primi
martiri italiani del 21 e del 31, e da scritti recenti che li avevano
infiammati nelle Università, cominciava a manifestarsi con un insolito
bisogno di attività e di azione.

Li sentivo parlare dell’Azeglio, del Guerrazzi, del Giusti, del
Gioberti, del Pellico, del Berchet, del Balbo, del Mazzini; e allora
m’affrettavo a procurarmi anch’io i libri di questi autori, e li
leggevo e rileggevo, riscaldandomi sempre più a questo nuovo fuoco
della patria ideale.

Ma l’autore che prediligevo sopra tutti era il Berchet. Ne sapevo
a memoria le poesie, le recitavo, le declamavo nella mia stanza, le
ripetevo ai miei compagni, e se ne prendevano tutti insieme delle vere
ubbriacature. Giovanetti e giovani s’infiammavano a quei versi, e nei
loro animi scendeva intanto profondo l’amore all’Italia e l’odio al
dominio straniero. Nel ripeterli, pregustavano la voluttà del farsi
uccidere per la patria; e questo sentimento rimase alto nei loro animi
fino al giorno in cui furono chiamati a farsi ammazzare davvero. Pochi
poeti ebbero il vanto d’avere così profondamente scossa la fibra dei
propri lettori, e d’avere avuto una così grande influenza patriottica
nel loro paese.

Non era poca l’influenza anche degli scritti di Giuseppe Mazzini, ma
però meno unanime e più discussa. Le idee mazziniane erano diffuse e
accolte con entusiasmo, soprattutto tra i giovani delle Università, ed
avevano molti seguaci anche in casa del Correnti. I suoi frequentatori
più assidui, di tanto in tanto, si passavano l’uno l’altro, di
soppiatto, e con fare un po’ misterioso, qualche foglietto manoscritto
o a stampa, e allora non sbagliavo nel pensare tra me ch’era uno
scritto del Mazzini. Io non ne conoscevo ancora gli scritti maggiori,
ma avevo per lui una vaga ammirazione, ch’era il riflesso di quella che
mi manifestavano, a parole tronche e misteriose, i giovani maggiori di
me.

In quei tempi, o poco prima, era stata fatta a Lugano un’edizione in
tre volumi, di scritti letterari del Mazzini: _Scritti letterari di un
italiano vivente. Quest’edizione era stata diretta in secreto, a quanto
mi si diceva_, da Cesare Correnti, e da qualche suo amico. Si diceva
che pure del Correnti fosse una prefazione ai versi del Giusti, che per
qualche tempo erano corsi manoscritti per Milano.

Tra gli amici più intimi del Correnti ce n’erano d’ogni classe sociale.
C’eran dei preti, come il Lega, il Mongeri, il Vignati, e qualche altro
valente; c’erano dei giovani del patriziato, come il Porro, Cesare
Giulini, Guerrieri, Giovanni e Carlo d’Adda, Giulio Carcano; c’eran
degli artisti, dei giovani ingegneri, medici, professionisti seri e
studiosi; e anche dei buontemponi compagni di Università, cacciatori
e bevitori, ma pieni di buona volontà, che venivano a prendere gli
ordini, e si incaricavano del contrabbando patriottico dei libri e dei
giornali e, alla fine, dei fucili.

Fu questa varietà di conoscenze che rese possibile a Cesare Correnti
di esercitare, in tempi difficili, una larga e forte influenza. La
coltura, la gentilezza dell’animo, l’ingegno immaginoso, che sapeva
trovare per ciascuno il linguaggio più affascinante, gli davano un
grande prestigio e una grande autorità su quanti lo avvicinavano.
Ed egli se ne valeva per infervorare tutti nell’amore all’Italia, e
per tenerli pronti a qualsiasi audacia allo scopo di liberarla dagli
stranieri. Queste varie sue amicizie gli resero possibile la molta
influenza ch’egli ebbe nel mantenere, nella diversità delle tendenze e
delle opinioni, la concordia per il grande intento comune. Anche in lui
stesso le tendenze erano diverse, e più volte si contraddissero; ma il
suo era uno di quegli ingegni larghi, critici, che d’ogni cosa vedendo
tutti i lati, non sempre sanno appigliarsi con fermezza a un lato solo.
Nella stessa vita giornaliera andava soggetto a mutamenti improvvisi,
rapidi, passando dalla attività all’inerzia, dall’entusiasmo alla
sfiducia.

I giorni più belli, più gloriosi, della sua vita furono quelli che
precedettero il quarantotto. Allora ebbe l’intuizione chiara, sicura,
della meta prima e immediata a cui si dovevano dirigere le aspirazioni
e l’opera di tutti, e ch’era la _Rivoluzione per l’Indipendenza, col
Piemonte e Casa di Savoia_.

Con questo programma egli cospirava in quei giorni, riunendo e
disciplinando i suoi giovani amici mazziniani e i suoi amici monarchici
del patriziato. In Milano c’erano parecchi altri gruppi di patriotti,
ma i più, direttamente o indirettamente, facevano capo a lui. Da lui
partivano consigli, istruzioni, parole d’ordine fino al gran giorno
della Rivoluzione.

Questa fu fatta da tutti i cittadini, e se non ebbe un generale-capo,
si può dire che nel prepararla ci fu un capo di Stato Maggiore, e fu
Cesare Correnti.

L’elezione di Pio IX, avvenuta nell’estate dell’anno antecedente,
e i primi atti del nuovo Pontefice avevano fatto vibrare anche
nelle persone più tranquille, più ignare o lontane da ogni idea
rivoluzionaria, come pure nelle persone più ardenti o meno religiose,
un nuovo sentimento ch’era comune; un sentimento di patriottismo
mistico e di vaghe idealità, che ravvolgeva e trascinava tutti.

Mio fratello Emilio ed io andavamo dal Correnti la sera, parecchie
volte per settimana. C’era sempre un andirivieni di gente, e una
conversazione talora animata, talora a bassa voce, a crocchi, e con
tutta un’apparenza cospiratoria. Io ero giovane assai, non capivo
tutto, tacevo, e sorbivo ogni parola con un’attenzione religiosa. La
mia mente, la mia anima intanto si informavano a quelle idee, a quei
sentimenti che mi aleggiavano intorno, e che infondevano in tutto
me stesso quell’idealità patriottica di cui dovevo sentir viva l’eco
durante tutta la vita.

Le acque tranquille, stagnanti da tanti anni, della vita milanese
andavano ora ogni giorno più increspandosi e sollevandosi. Il 1846 era
finito con una _dimostrazione_, in occasione dei funerali del conte
Federico Confalonieri, morto nel mese di dicembre a Hospenthal mentre
ritornava in Italia. La Polizia aveva voluto che i funerali fossero
modesti, e che sulla porta della Chiesa fossero scritte queste sole
parole: «_A Federico Confalonieri requiem_». Ma all’uffizio funebre
assistette una folla straordinaria di cittadini, che riempiva la
Chiesa e la piazza di S. Fedele, folla nella quale vedevansi le persone
più elette della cittadinanza, venute a rendere l’estremo omaggio al
martire illustre. Contro il Confalonieri s’eran fatte delle leggende
odiose, che facevano risalire a lui certe responsabilità nell’eccidio
del Prina, e su ciò erano stati diffusi dei libelli, che poi si seppero
provenienti dalla Polizia austriaca.

Far nascere sospetti, o diminuire il prestigio degli uomini che avevano
tenuto alto il patriottismo italiano, era un compito della Polizia,
contro cui cominciava a reagire il sentimento pubblico. E ora quelle
leggende poliziesche cominciavano a venire sfatate.

Nei primi mesi dell’anno c’erano stati agitazioni e tumulti di
contadini in molti paesi di Lombardia afflitti dalla carestia,
cagionata da inondazioni e da una straordinaria scarsità dei
prodotti. Ciò aveva promosso da parte dei proprietari molte misure di
beneficenza, con evidenti propositi di fratellanza e di patriottismo.
Anche in Milano il pane era rincarato, il lavoro era diminuito, e nelle
classi operaie c’era disagio e penuria. Si formò allora un Comitato
di signore, assai numeroso, nel quale erano rappresentate le famiglie
più note del patriziato e dell’alta borghesia, con l’intento di fare
una grande questua nella città, e di portar sussidi nelle famiglie
popolane. Il Comitato si radunava in casa del conte Vitaliano Borromeo,
ed era presieduto dalla contessa Maria Borromeo d’Adda.

Quelle signore andavano esse stesse, in commissione, in tutte le case
dove c’erano delle famiglie povere, e salivano nelle abitazioni. Si
faceva così un’opera di fratellanza, e si stringevano legami d’affetto
tra le varie classi sociali. Gli episodi di queste visite, e dei
colloqui che avvenivano, erano l’argomento di tutte le conversazioni di
quei giorni.

Quest’opera di carità avveduta e patriottica fece molto rumore; ognuno
ne comprese l’intento, ch’era quello di creare una viva corrente
di simpatia tra le classi povere, affratellandole e preparandole ad
incontrare concordi i grandi avvenimenti di cui gli animi cominciavano
ad avere un vago presentimento.

                                 * * *

Nella primavera di quell’anno venne a Milano Riccardo Cobden a
tenere dei discorsi sul libero scambio, e la parte più eletta della
cittadinanza gli fece una calorosa accoglienza con banchetti e con
discorsi. Gli animi avevano cominciato a risvegliarsi dal lungo sonno,
e alla notizia dell’amnistia politica data da Pio IX c’era stata una
prima dimostrazione al Teatro della Canobbiana, dimostrazione imponente
e clamorosa, nella quale si fecero ripetere più volte gli inni al
Pontefice, che si cantavano a Roma.

Era un’eco delle dimostrazioni che si andavano facendo in quei giorni
da un capo all’altro d’Italia, e che dovevano provocare presto una
prima e grave misura da parte dell’Austria, l’occupazione, cioè,
di Ferrara, quale minaccia al Papa; mentre poi nelle Provincie
Lombardo-Venete l’Austria cominciava a prendere una attitudine
sospettosa e rabbiosa.

Ma nessuno usciva ancora dalla legalità; e le autorità austriache
dovevano ogni giorno mandarne giù qualcuna, fingendo di non
accorgersene, o di pigliarsela in pace. Fra le più indigeste ci fu
la missione a Torino del conte Gabrio Casati, Podestà di Milano,
incaricato dal Consiglio Comunale di portare in dono alla sposa
di Vittorio Emanuele, figlia dell’Arciduca Raineri Vicerè del
Lombardo-Veneto, una coppa artistica che alcuni anni prima le era stata
destinata in occasione delle nozze. Carlo Alberto e Vittorio Emanuele
avevano accolto il Casati con distinzioni e con onori di cui s’era
parlato molto a Milano, e che avevano fatto saltar la mosca al naso al
conte Buol, ministro d’Austria a Torino. E poco dopo il conte Casati
conduceva a Torino il maggiore de’ suoi figli facendolo inscrivere
nell’Accademia militare.

Ma l’avvenimento più importante, che doveva fare scattare il governo
austriaco e condurre quelle prime avvisaglie a fatti più gravi, fu la
nomina del nuovo Arcivescovo di Milano. Nel novembre del 1846 era morto
l’Arcivescovo Gaisruck, nato a Klagenfurt l’anno 1769, che occupava
la sede di Milano da ventott’anni. Il Gaisruck era un uomo di costumi
semplici, illibati; schietto e gaio; non aveva la mente molto alta,
ma era di carattere fortissimo. Il suo spirito era abbastanza largo e
liberale, o piuttosto _giuseppino_, come dicevasi allora, e non amava
i frati e le monache, talchè, finchè visse, nella sua vasta diocesi non
ce ne furono.

Egli non voleva nella sua Diocesi un Clero _regolare_, non dipendente
da lui ma dai Generali di Roma. — «Cardinale ed Arcivescovo di Milano,
nella mia Diocesi comando io» — soleva dire.

Conosceva gli uomini, e sapeva sceglierli bene: nei suoi seminari
ci furono allora non pochi professori, sacerdoti, che emergevano per
ingegno e per dottrina. A lui si deve in gran parte se a quei tempi
si formò in Lombardia un clero colto, stimato ed amato, che seppe
più tardi immedesimarsi nella vita del popolo e nelle aspirazioni
nazionali. Nel primo quarto di secolo la Diocesi milanese era ingombra
di preti scagnozzi, avanzi di conventi laicizzati, e di frati sfratati
durante la rivoluzione e il governo giacobino; preti e frati che
diedero tanti argomenti alla vena inesauribile del Porta: onde si disse
più tardi che il clero milanese era stato purgato da Carlo Porta e
dall’Arcivescovo Gaisruck. L’Arcivescovo fu il solo alto funzionario
che a quei tempi sapesse resistere, all’occorrenza, e spuntarla,
dinanzi al potere centrale di Vienna; per questo correva la voce che
egli fosse figlio dell’Imperatore Leopoldo, e che da ciò gli venisse la
sua autorità e la sua forza.

Egli morì mentre si recava al Conclave del 1846 portando il veto
dell’Austria contro l’elezione al Papato del Cardinale Mastai Ferretti,
che fu poi Pio IX.

Dopo la morte del Gaisruck, vennero, per molte cause, tempi meno
buoni, e fu allora che anche il clero della Diocesi milanese andò mano
mano declinando e scemando nella cultura; salvo, si intende, nobili
eccezioni.

Gaisruck fu certamente un ottimo Arcivescovo, ma le sue qualità e la
sua azione non dovevano essere apprezzate che più tardi. Quando morì,
il sentimento pubblico cominciava a rivolgersi, in ogni cosa, verso le
aspirazioni nazionali; in lui non si vide che il Prelato austriaco,
e non fu rimpianto. Tutta Milano, da quel momento, non pensò più che
ad avere un Arcivescovo italiano. Passaron, peraltro, parecchi mesi
prima che questo desiderio fosse soddisfatto. Il Municipio, e molti
autorevoli cittadini, non avevano risparmiato ufficî, per riuscire
nell’intento. Il Governo austriaco voleva mandare uno dei proprii
prelati, ma trovò difficoltà e resistenze ne’ suoi stessi candidati,
sicchè non poteva venirne a capo. Finalmente Vienna e Roma si misero
d’accordo col nominare Arcivescovo di Milano il Vescovo di Cremona,
Bartolomeo Romilli, bergamasco. A Roma piaceva un Arcivescovo che non
seguisse le idee _giuseppine_ del Gaisruck, e Vienna si rassegnò alla
nomina d’un Arcivescovo italiano, sapendolo di carattere mite e debole.

Ma il pubblico non fece allora questi ragionamenti, e perchè l’eletto
era italiano andò in visibilio.

Dopo la nomina, incominciarono tra il Governo e il Municipio, dietro
cui stava tutta la cittadinanza, delle difficili e minuziose trattative
circa gli onori da rendersi al nuovo Arcivescovo. Il Municipio voleva
nascondere sotto quelle onoranze molti sottintesi patriottici, e
fingeva che non ce ne fossero; il Governo fingeva di non capire, e
voleva delle onoranze minori, fingendo di crederle più consone ai
cerimoniali.

Con simili sottintesi, molto complicati, era facile che le cose
finissero male, e così avvenne, presto.

Il nuovo Arcivescovo entrò in Milano il 4 settembre, attraversando
mezza la città, da S. Eustorgio al Duomo, con un corteggio sfarzoso,
che non finiva più. Lungo la strada erano stati eretti tre archi
dedicati a S. Ambrogio, a S. Carlo e a S. Galdino, il Vescovo della
Lega Lombarda, e sui quali c’erano delle iscrizioni, scritte da Achille
Mauri, che avevano dato argomento a lunghe trattative colla Censura.
San Galdino, soprattutto, aveva trovato delle forti resistenze; ma alla
fine il Governatore, ch’era il conte Spaur, e il direttore di Polizia,
il barone Torresani, dovettero ingollarsi anche S. Galdino.

La sera tutta la città fu illuminata, e ci furono grandi dimostrazioni
all’Arcivescovo dinanzi al suo palazzo, in piazza Fontana. La
dimostrazione però aveva un carattere le cui intenzioni erano evidenti,
specialmente in uno dei punti della piazza, ove s’eran dato ritrovo
un gruppo di giovani amici del Correnti, tra’ quali mio fratello
Emilio. S’era gridato molto _viva Pio_ IX e anche _viva l’Italia_, ma,
all’infuori di qualche colluttazione colle guardie di polizia, non era
avvenuto nulla di grave.

La popolazione mostrò vivamente il desiderio che l’illuminazione
fosse ripetuta. Il Governo non voleva; il Municipio insisteva;
e alla fine l’illuminazione fu concessa, ma con un mal garbo che
mostrava la volontà di farla finita. La seconda sera le dimostrazioni
all’Arcivescovo furono più clamorose; e a un tratto una colonna di
giovani irruppe nella piazza del Duomo e nella piazza Fontana, cantando
gli inni a Pio IX. Allora il Bolza, ch’era un commissario di Polizia
feroce e odiatissimo, si gettò sulla folla alla testa di guardie con le
daghe sguainate.

Ne venne un grave parapiglia, nel quale i cittadini ebbero un morto,
certo Abate, e nove o dieci feriti.

Il dado era tratto. Con quel primo sangue versato incominciava la lotta
aperta tra i milanesi e il Governo austriaco; la lotta doveva essere
lunga e terribile, e molto sangue doveva essere versato ancora, prima
che si raggiungesse la vittoria.

La seconda sera della dimostrazione noi non eravamo a Milano. Dopo
le scuole e gli esami, che allora terminavano alla fine d’agosto,
si andava subito in campagna. Ma poco dopo avemmo a Tirano la visita
di Cesare Correnti e di Romolo Griffini, giovane medico, amicissimo
nostro, i quali ci narrarono tutto ciò che era avvenuto, ciò che
s’era fatto, e ciò che si voleva fare, per tener viva e allargare
l’agitazione patriottica.

Si fecero con loro parecchie gite, tra le quali una allo Stelvio,
fermandoci in tutti i paesi e paeselli che si attraversavano, entrando
nei casolari dei contadini, conversando, spiegando all’ingrosso la
quistione italiana, e distribuendo a profusione certe medaglie con
l’effigie di Pio IX e col motto _viva l’Italia_. Poi, se nessuno ci
vedeva, armati d’un pezzo di carbone si scriveva su qualche muro:
_viva l’Italia_, _viva Pio IX_, in alto, o in qualche punto ove le
cancellature non fossero facili. E devo dire che non lo furono in
fatti, perchè vedo ancora qua e là, con grande compiacimento, le
traccie di quei primi miei saggi calligrafici, dopo tante vicende e
dopo tanti anni.

L’autunno del 1847 fu lieto e festoso in tutta la Lombardia. In ogni
paese si cantavano continuamente gli inni a Pio IX, da per tutto si
vedevano archi a Pio IX, e su ogni muro c’era scritto _viva Pio IX_.
C’era in tutti una grande animazione, una festività, una fiducia
sicura, una speranza che non discuteva, e il vago presentimento di
grandi avvenimenti.

Anch’io e i miei fratelli quell’autunno si fece un gran cantare gl’inni
a Pio IX; mio fratello Emilio, e i nostri compagni di Tirano, studenti
e maggiori di me, li avevano imparati nelle scuole e li avevano diffusi
tra gli altri amici del paese.

Si cantava specialmente la sera, tenendoci al largo dai gendarmi.
Mi pare ancora di sentirle quelle stonature patriottiche; mi pare
ancora di vederli quegli amici, che a braccetto e pieni di entusiasmo
vociavano per le strade a squarciagola.

Tra quelli che ricordo di più c’erano i fratelli Ulisse e Giovanni
Salis, un Zanetti e un Ricetti, studente di medicina, che vedremo più
innanzi; due fratelli Della Croce, di cui uno, Benedetto, diventò poi
un valoroso colonnello d’artiglieria; un Carlo Visconti Venosta nostro
parente, che morì in fresca età; e un giovane rimpatriato da poco, e
che si faceva notare pel suo camminare impalato, per le sue cravatte
dure di crine, e pel suo accento italo-austriaco.

Questo giovane, di famiglia tiranese, si chiamava Giacomo Merizzi, e
veniva dal collegio Teresiano di Vienna, dove aveva passato molti anni
facendovi i suoi studi. Il Governo austriaco concedeva facilmente ai
giovani di famiglie nobili italiane dei posti gratuiti nel _Teresiano_,
ove si imparavano la lingua dell’Impero, la legislazione austriaca e
il diritto amministrativo. Poi, persuaso di averne fatto dei buoni e
fedeli funzionari, appena usciti dal collegio dava loro un buon impiego
negli ufizi governativi.

Così era avvenuto del Merizzi, il quale aveva avuto bensì l’anno
prima l’impiego a Milano, e aveva l’aria d’un perfetto austriaco,
ma era uscito dal collegio con la testa piena di astruserie
filosofiche-sociali, ed era un rivoluzionario. Ecco perchè ora, in
attesa di meglio, stonava con noi gli inni a Pio IX.

Venuto il 1848, il Merizzi lasciò l’impiego, fu nei volontari, poi si
ritirò a Tirano, e vi esercitò l’avvocatura. Visse sempre ritirato,
anzi solitario; e amava vegliare le notti lavorando, e dormire di
giorno. Durante il decennio della resistenza, delle cospirazioni, e nei
giorni della riscossa, non partecipò molto agli entusiasmi dei giovani
d’allora, forse perchè i suoi ideali si libravano in altre sfere.
Ebbe qualche ammirazione per Mazzini e per Garibaldi, ma nessuna per
Cavour. Odiò gli altri uomini principali del risorgimento, e dava in
escandescenze a nominargli il Sella, come a pestargli un piede.

Era d’animo buono e gentile, e parlava con molta mitezza; ma poi, di
tanto in tanto, usciva dalla sua solitudine, andava in qualche pubblica
riunione, e allora teneva dei discorsi d’una incredibile violenza.

I radicali, e i malcontenti valtellinesi fecero di lui, naturalmente,
un candidato alla deputazione, e lo opponevano di solito a mio fratello
Emilio; finchè, andata la sinistra al potere nel 1876, e fatte le
elezioni dal Nicotera, vinsero.

Fu eletto un paio di volte, andò all’estrema sinistra, pronunziò un
paio di discorsi a frecciate repubblicane e violenti, ma non trovò
molto favore, nemmeno fra i suoi vicini. La Sinistra era da poco al
potere, voleva rimanerci, voleva essere un partito di governo, e non
amava amici compromettenti e guastamestieri.

Si ritirò prestissimo dalla vita politica, e rientrò nella sua
solitudine taciturna.

Morì sui cinquant’anni, e sebbene la mia casa e la sua a Tirano fossero
vicine, non ci vedevamo che ad intervalli, e di parecchi anni. Allora,
siccome il tema dei nostri discorsi era, come doveva essere, limitato,
così ricordavamo qualche volta i tempi in cui si cantavano insieme
gl’inni a Pio IX.

                                 * * *

Finito l’autunno, e ritornati a Milano per riprendere gli studi,
le nostre visite al Correnti diventarono anche più frequenti e
interessanti. Ci si andava la sera, poichè di giorno egli era occupato
nel suo ufizio del Debito Pubblico, ove era impiegato. I discorsi vi
si andavano sempre più accalorando, e l’argomento principale era quello
delle dimostrazioni che si volevano promuovere con atti, o con scritti,
prendendo ogni occasione che si presentasse opportuna.

Tra i molti progetti messi innanzi dal Correnti ci fu quello di
pubblicare un almanacco popolare, per l’anno nuovo, nel quale si
parlasse molto dell’Italia, in quei modi velati, s’intende, che fossero
conciliabili con la Censura e con la Polizia.

Il progetto piacque a tutti, tutti ci si mise di buona volontà, e in
poche settimane l’almanacco fu pronto alla meglio. Anche il nome fu
presto trovato. C’era un vecchio almanacco, che dava le previsioni
del tempo e i numeri del lotto; era nelle mani di tutto il popolino
di Lombardia, e si chiamava il _Vesta Verde_. Il nuovo almanacco fu
chiamato dunque il Nipote del Vesta Verde, il nome fece fortuna.

Ci scrissero il Correnti, Pietro Maestri, Romolo Griffini, Giovanni
Cantoni, mio fratello Emilio, ed altri giovani studenti. Tra le cose
scrittevi da Emilio ci fu anche una certa canzone dello _Spazzacamino_
che, messa in musica, ebbe i suoi giorni di voga e di popolarità.

Il _Nipote del Vesta Verde_ uscì col finire dell’anno, ed ebbe uno
straordinario successo; successo che ora non si comprenderebbe. Ma
tutti ci lessero quello che c’era e quello che non c’era, e parve quasi
una parola d’ordine, un grido di guerra. La sua grande popolarità
indusse poi il Correnti, e l’editore Vallardi, a continuare la
pubblicazione per molti anni ancora.

Esso attraversò i dieci anni terribili che corsero dal 1849 al 1859; ci
scrissero press’a poco i medesimi, parecchi dei quali erano emigrati,
ed altri, tra cui Enrico Fano.

La parola del _Nipote del Vesta Verde_, dignitosa sempre, non era più
pronunziata che con quel filo di voce ch’era consentito dalla durezza
dei tempi; esso s’accontentava di tener vivo col suo nome la memoria
dei giorni in cui era nato.

Il grand’affare di tutti, nello scorcio del 1847, e sul principio del
1848, furono quelle dimostrazioni, che mano mano andarono crescendo
fino al giorno della rivoluzione. Alla rivoluzione però non ci si
pensava ancora.

Alle dimostrazioni tutto serviva di pretesto. Ogni giorno c’era una
parola d’ordine: _Tutti a Porta Romana!_ in omaggio alle riforme di
Pio IX; e il corso di Porta Romana diventava, fino a nuovo ordine,
il passeggio pubblico affollato, elegante, della città. Su quel corso
c’era, e c’è ancora, una vecchia casa, sul cui portone si vede scolpito
in caratteri antichi e rozzi: _tempo e pacentia_; la gente vi si
affollava dinanzi come a leggere una _parola d’ordine_. (Casa Noseda,
9).

Giungeva la notizia di moti rivoluzionari in Calabria; e la parola
d’ordine era che si portasse il _cappello alla calabrese_; e tutti lo
portavano, col dovuto pennacchio. La Polizia lo proibiva; e allora
si cercava di imitarlo, portando un cappello a tuba, che aveva una
fibbietta sul davanti e il pelo arrovesciato da una parte per fingere
il pennacchio. Poi venne la volta dei vestiti di velluto di fabbrica
lombarda, in odio al panno austriaco. Insomma ogni giorno ce n’era una;
e la Polizia, che il pubblico si divertiva a schernire in mille modi,
montava sulle furie, ed era sempre in grandi faccende, alla ricerca del
_Comitato_, poichè s’era messa in mente che tutto fosse misteriosamente
decretato da un Comitato segreto.

La dimostrazione più importante, che superò l’aspettativa di quelli
stessi che l’avevano pensata, e che doveva condurre a luttuosi
avvenimenti, fu quella del non fumare. Asteniamoci, si disse, dalle
contribuzioni volontarie; dunque col principio dell’anno nessuno
fumi. E al primo di gennaio non si fumò più. Non si fumò più nè per
le strade, nè in casa, per quanto il sacrifizio riuscisse duro a
moltissimi. I nostri nemici sulle prime ne risero, e la cosa parve loro
puerile; ma essa riuscì una così forte dimostrazione di disciplina, che
non tardò a impensierirli, a irritarli, come vedremo presto, e a far
loro perdere la testa.

Da Vienna intanto si mandavano nuove truppe nel Lombardo Veneto, e
si rafforzavano in ogni città le guarnigioni. Ma il Governo Centrale
non capiva che l’aria era mutata, e che i tempi cominciavano a
farsi minacciosi; colla pedanteria, che gli era abituale, non sapeva
staccarsi in nulla da quei sistemi e da quei metodi ch’erano il suo
dogma politico.

Il podestà Casati aveva fatto molte esplicite e coraggiose rimostranze,
ma gli era stato risposto con dei sermoni e con dei consigli
agro-dolci. Metternich aveva mandato a Milano nell’ottobre un suo
diplomatico, il conte di Ficquelmont, con la missione di osservare, di
persuadere i sudditi che avevan torto di lagnarsi, di distrarli, e di
riferire.

Alla fine Metternich, quando cominciò a impensierirsi per gli affari
d’Italia, nominava a Milano una speciale Commissione, chiamata
_Conferenza_, allo scopo di mantenere unità d’azione tra le autorità
politiche e militari. Appartenevano a questa _Conferenza_ il Vicerè
Raineri, il Governatore di Lombardia conte Spaur, il maresciallo
Radetzki, comandante supremo delle truppe del Lombardo Veneto, e il
conte di Ficquelmont per la parte diplomatica, soprattutto pei rapporti
coi diversi Stati italiani, in quei giorni pressochè tutti in fermento.

Ma il conte di Ficquelmont rimase poco a Milano. Richiamato a Vienna
sulla fine del febbraio 1848, gli succedette ai primi di marzo il
barone Hübner, il quale poi rimase prigioniero a Milano dopo le
Cinque Giornate, ed è quel medesimo che si trovò a Parigi nel 1859
ambasciatore d’Austria, a sentire le famose parole di Napoleone III che
furono il primo squillo di guerra.

Il conte di Ficquelmont, nel breve tempo in cui fu a Milano, aveva
fatto allestire un bell’appartamento nel palazzo Marino, ove ora
risiede il Municipio, e si preparava a tenervi dei ricevimenti e a
dare dei pranzi, per incominciare a risolvere la questione italiana.
Aveva con sè la moglie e una figlia, la contessa Clary, una bella e
simpatica signora, la quale doveva, circa vent’anni dopo, diventare la
suocera del conte di Robilant, ambasciatore d’Italia a Vienna. In quei
vent’anni quanti avvenimenti!

Il conte di Ficquelmont, la moglie e la figlia, prodigavano gentilezze
a quanti riuscivano a conoscere, ma questi eran pochi; andarono a far
visita a moltissime signore dell’aristocrazia milanese, ma queste
non si fecero mai trovare in casa. I ricevimenti e i pranzi non
accoglievano, e malinconicamente, che poche famiglie di austriaci e di
impiegati; e così anche questa parte della missione andò fallita.

Intanto le acque ingrossavano, e salivano ogni giorno più.

Nel 1815, quando era stato creato il Regno Lombardo-Veneto, venne
istituito un Corpo amministrativo, chiamato la Congregazione Centrale,
in cui erano rappresentate tutte le Provincie, simulacro d’una
autonomia che non esistette mai. Questa Congregazione avrebbe dovuto
essere l’interprete dei bisogni del paese. Essa però era stata sempre
tenuta in nessun conto, e quindi era placidamente rimasta in un lungo
sopore. Ma in quei giorni il rappresentante di Bergamo, l’avvocato G.
B. Nazari, sorse a un tratto a proporre che la Congregazione si facesse
interprete del pubblico malcontento, ne studiasse le cause, e ne
proponesse i rimedi.

Una tale proposta, che usciva da un corpo sempre umile e silenzioso,
mise il campo a rumore. I consigli delle Provincie vi fecero eco, e
la seguirono; alcuni persino misero innanzi chiaramente il concetto
dell’autonomia amministrativa. Il consigliere Nazari ricevette
congratulazioni e festeggiamenti da ogni parte; e intanto il Vicerè
Raineri, il Governatore conte Spaur, l’inviato straordinario di
Ficquelmont, il maresciallo Radetzki, il direttore della polizia barone
Torresani, e tutte le autorità austriache grandi e piccole, montavano
sulle furie, strepitavano, si affaccendavano, e cercavano invano il
bandolo di quella matassa che ogni giorno si ingarbugliava loro di
più nelle mani. E cercavano il _Comitato_ secreto, quello che, secondo
loro, dirigeva tutto.

Così finiva a Milano l’anno 1847.

Il Governo austriaco, pedantescamente fedele alle sue tradizioni, non
sapeva prendere nessuna di quelle grandi risoluzioni che sole possono
mutare il corso degli avvenimenti. E i suoi sudditi Lombardo-Veneti,
pieni di entusiasmo e di fede, avevano preso la rincorsa giù per una
china, in fondo alla quale c’era il precipizio o la salvezza.

La fortuna volle che i nostri nemici nulla capissero, e nulla
prevedessero.




CAPITOLO III.

1848.


I.

  _Sommario:_ La dimostrazione del non fumare. — La sera del 1.º
  gennaio. — In casa di mia nonna. — Provocazioni militari. —
  Feriti e morti. — Le riunioni continue in casa Correnti. — Il
  caffè della _Peppina_ e quello della _Cecchina_. — Carlo Cattaneo
  contrario alla rivoluzione. — L’attitudine dell’aristocrazia. — La
  rivoluzione di Parigi del 24 febbraio. — La rivoluzione di Vienna
  del 13 marzo. — Grande dimostrazione a Milano per chiedere le
  riforme. — Il 18 marzo incomincia la rivoluzione. — Ciò che vedo in
  via Monforte e presso la colonna di S. Babila. — Giovani armati. —
  Luciano Manara e i suoi amici. — Angelo Fava e Carlo Cattaneo.

Il Governo, le Autorità militari e la Polizia di Milano cominciavano
a perdere la bussola, e la pazienza. Da Vienna venivano alle Autorità
locali ordini rigorosi ingiungenti la resistenza e la forza; i militari
e la Polizia anelavano a menar le mani.

La prima occasione, o, meglio, il primo pretesto, l’ebbero dalla
dimostrazione del non fumare. Questa cominciò, come ho detto, il
primo gennaio. La prima giornata passò lietamente. La gente scendeva
in strada, passeggiava, per vedere la dimostrazione, e i cittadini
incontrandosi, si ammiccavano anche senza conoscersi, per congratularsi
reciprocamente che nessuno, proprio nessuno, avesse il sigaro o la
pipa in bocca. La sera, in tutte le case, in tutti i caffè non si parlò
d’altro; e non si fumò.

Ma il giorno dopo, ch’era una domenica, la faccenda cominciò a farsi
seria. Le strade erano percorse da ufficiali e da soldati in gran
numero, che fumavano, fin con due sigari in bocca per ciascuno, per
aver l’aria ancor più provocatrice; e una folla, che andava crescendo,
li seguiva, e tratto tratto li fischiava.

Un ufficiale, il conte Neipperg, figlio di Maria Luigia Duchessa di
Parma, il quale con aria provocante se ne stava fumando sulla porta
del caffè Martini, di fronte al Teatro la Scala, dopo una colluttazione
con alcuni aveva ricevuto uno schiaffo. Il Podestà Casati, che si dava
d’attorno per raccomandare ai cittadini la prudenza, e alle guardie di
Polizia la moderazione, s’era trovato in mezzo a un gran tafferuglio, e
sulle prime era stato arrestato anch’esso.

Quelle prime avvisaglie non dovevano essere che il preludio dei fatti
ben più gravi che seguirono poi.

La sera del 3 gennaio mi trovavo in casa della nonna, con mia madre.
Vi si discorreva del fumare, e delle dimostrazioni della giornata. Nè i
miei zii, nè altri, in casa della nonna, avevano mai fumato; la nonna,
che si avvicinava ai novant’anni, diceva di credere che due de’ suoi
figli avessero fumato quand’erano ufficiali nell’armata Napoleonica,
ma ne parlava come d’una scappata giovanile, scusabile tra gli orrori
della campagna di Russia: approvava quindi la dimostrazione del non
fumare, ma non capiva perchè mai il Governo non fosse dello stesso
parere. Quando entra mio fratello Emilio, col fare concitato, e con
gravi notizie. Veniva dal centro della città per avvisare la mamma, e
per tranquillarla, sul proprio conto, nel tempo stesso.

Bande di soldati si erano sparse per la città, ubbriachi, fumando e
provocando quanti incontravano. Qua e là la folla li circondava, ed
essi sfoderavano le sciabole, gettandosi sui cittadini inermi. C’erano
già stati parecchi feriti, e vicino alla Galleria De Cristoforis
era stato ucciso, con un colpo di sciabola sulla testa, il vecchio
Consigliere d’Appello Manganini. In ogni punto della città accadevano
atti di violenze soldatesche, e fatti di sangue; si parlava già di
parecchi morti, e d’un centinaio di feriti tra i cittadini.

Il giorno dopo si seppe che quella sera stessa, un gruppo di cittadini,
tra i quali c’erano Carlo d’Adda, Cesare Giulini, Enrico Besana,
Manfredo Camperio e il Podestà Casati, erano entrati nel Palazzo
Marino, dove alloggiava il Ficquelmont, per esporre lo stato della
città, e protestare con vive parole contro l’eccidio che vi accadeva.
Il Governatore, alla sua volta, ne incolpava le provocazioni, e
il d’Adda gli aveva risposto: «Forse che il cuoco del conte di
Ficquelmont, ch’è tra gli uccisi, era d’accordo con noi per provocare
gli austriaci?».

La città rimase sdegnata, ma non atterrita. Le proteste d’ogni
ordine di cittadini, e le dimostrazioni si succedettero con maggiore
insistenza e con maggiore entusiasmo, fino a che il 22 febbraio il
Governatore Spaur pubblicò la legge marziale, che iniziava un periodo
di severe repressioni e legalizzava le violenze militari.

Giovanetto qual ero, e di solito non uscendo di casa solo, avevo
però veduta qualcuna delle dimostrazioni, e m’ero trovato anche in
mezzo a qualche tafferuglio; ma poi tornavo a casa, per non tenere in
agitazione mia madre. Mio fratello Emilio ci prendeva invece una parte
attivissima. Egli faceva il primo anno degli studi legali universitari
privatamente in Milano; i suoi professori però solevano dire a mia
madre, e al nostro tutore, lo zio don Giovanni Borgazzi, che questo
loro scolare era un giovane di molto ingegno, ma che non aveva la testa
a casa, e che pensava molto più alla rivoluzione che alla filosofia del
diritto.

Le notizie di quei giorni, e i propositi pei giorni seguenti, le
discussioni sulle idee e sui fatti che si andavano svolgendo, li
sentivo in casa Correnti, dove andavo con mio fratello quasi ogni sera.
Ricordo ancora vivamente quelle serate interessanti, talora commoventi,
piene di entusiasmo e di fede, che furono la mia prima scuola di
patriottismo e di politica.

Nello studio del Correnti, in via della Spiga, ch’era tutto un
disordine di libri ammucchiati e di carte sparse, c’era ogni sera
un andirivieni di molte persone, che venivano a portar notizie,
a riceverne, a discutere sui fatti d’ogni giorno, a preparare le
dimostrazioni, e a raccogliere la parola d’ordine per gli altri crocchi
d’amici, che si radunavano in altre case o in altri ritrovi. In mezzo
a tutti Cesare Correnti era, come già dissi, un vero capo di Stato
Maggiore; era, nel gruppo de’ suoi amici, la mente direttiva, ed aveva
su tutti un assoluto predominio. Egli lo esercitava nello spingere
all’azione e nel mantenere la concordia tra le diverse correnti
d’opinioni che si agitavano intorno a lui. Occorreva che un’alta
idealità patriottica predominasse in tutti alle singole opinioni ed
ai partiti; e verso questa idealità il Correnti infiammava gli animi
costantemente.

In questo suo lavoro di propaganda e di disciplina, che possiamo dire
rivoluzionarie, aveva trovato un forte contradditore in Carlo Cattaneo.

Il Cattaneo era certamente, a quei tempi, uno dei cittadini più
cospicui di Milano. I suoi studi economici, studi non coltivati allora
da molti a Milano, e il suo _Politecnico_, gli davano notorietà ed
autorità; la sua casa era un centro di studiosi, filosofi, economisti,
giuristi, della scuola del Romagnosi. Aveva il carattere altero e
sdegnoso, e, per un certo orgoglio d’intelletto, si teneva lontano
dalle opinioni dei più. Pregato più volte di prender parte alle
manifestazioni patriottiche che si andavano apparecchiando nei primi
mesi del 1848, egli vi si era sempre rifiutato, considerandole quasi
come ragazzate. Le sue opinioni lo conducevano per una strada affatto
diversa, sulla quale, a dir vero, era pressochè solo.

Era repubblicano, federalista. Sognava un’Italia divisa in varie
repubbliche, per arrivare alle quali era disposto ad intendersi coi
Principi italiani, e anche forestieri, salvo a strappar poi loro a
una a una tutte le libertà. Credeva possibile di accomodarsi a questo
modo anche con l’Austria pel Lombardo-Veneto, e sognava un’autonomia,
amministrativa e in parte militare, come esiste oggi in Ungheria.
Seguendo questa utopia, egli aborriva soprattutto dall’idea di chiamare
Carlo Alberto a farsi condottiero della guerra per l’indipendenza
italiana, la cui conseguenza sarebbe stata la formazione di un forte
stato monarchico nell’alta Italia. Repubblicano e democratico,
non vedeva in tale concetto che una cospirazione di nobili e di
conservatori.

Udii dire in casa Correnti che Alessandro Manzoni, interrogato su
questo disparere, rispose: «Oggi tutto è utopia, ma tra l’utopia bella
dell’unità e quella della federazione, sto per l’utopia _bella_.»

Più volte il Correnti, col mezzo di amici comuni, aveva cercato di
persuadere il Cattaneo, e di smoverlo; ma sempre inutilmente. Egli
guardava d’alto in basso i giovani cospiratori, e questi, naturalmente,
se ne lagnavano, e non lo amavano. Molti anzi lo criticavano
aspramente, e il Cattaneo li chiamava _ragazzi_.

Le intelligenze colla parte aristocratica il Correnti le coltivava
col mezzo di amici suoi, ch’erano Cesare Giulini, Carlo Porro, Carlo
d’Adda, Anselmo Guerrieri. Vedeva di frequente il Podestà Casati,
essendo professore d’uno dei figli; l’altro figlio era all’Accademia
militare di Torino. Le adesioni erano larghe, e risolute. Le famiglie
aristocratiche milanesi, che nel 1815 avevano accolto con qualche
favore il governo austriaco, sia per la poca simpatia verso il
regime napoleonico, sia pei buoni ricordi tradizionali lasciati in
Lombardia dal governo di Maria Teresa, ora, disilluse ed irritate, se
ne staccavano sempre più, si schieravano risolute nell’opposizione, e
guardavano al Piemonte.

La rivoluzione di Parigi del 24 febbraio, e il movimento liberale che
andava manifestandosi in ogni punto d’Europa, spingevano anche Milano
alla rivoluzione.

L’eccitazione degli animi cresceva ogni giorno, e parecchie famiglie
di impiegati e di ufficiali austriaci, sbigottite, si disponevano alla
partenza.

Primi a partire, sul principio del marzo, furono il de Ficquelmont
e il Vicerè, colle famiglie, diretti a Bolzano. Ficquelmont, mandato
come un fine diplomatico, aveva scoperto che i Milanesi si annoiavano.
Era vero, ma non era tutto. Il Vicerè Raineri, zio dell’Imperatore
Ferdinando, aveva due figlie, di cui una era andata sposa al Principe
di Piemonte Vittorio Emanuele, e cinque figli maschi. Noi giovanetti
quando s’incontravano a passeggio i cinque arciduchi, impalati, seri,
con una gran tuba, e con un gran precettore, si rideva, e ci parevano
anche molto brutti.

In compenso era molto bella la madre, l’arciduchessa Elisabetta,
sorella di Carlo Alberto. Sulla bella Viceregina, e sul brutto Vicerè,
correvano vari pettegolezzi di Corte, di cui giungeva l’eco fino a noi
ragazzi.

Anche il Governatore Spaur, dopo aver proclamato la legge marziale, se
n’era andato.

«_Fanno fagotto, fanno fagotto_», diceva la gente, tutta ilare, e
fregandosi le mani. Ma rimanevano Radetzki, con l’Hübner, col Vice
Governatore O’Donnel e col barone Torresani, direttore della Polizia.
— Non avevano quindi fatto _fagotto_ i personaggi più importanti. A
Radetzky, che da parecchio tempo aveva dato l’allarme a Vienna, erano
stato a mano a mano rinforzati i presidi in Italia fino a 80.000
uomini, e con lui c’erano i generali Walmoden, Carlo Schwarzenberg,
Clam Gallas, Wohlgemuth, Wöcher, Schönhals. La guarnigione di Milano
era stata portata a diciottomila uomini.

C’era da riflettere, ma per fortuna nessuno rifletteva. Non rifletteva
che Carlo Cattaneo, il quale ad alcuni amici che s’erano recati ancora
da lui la sera prima della rivoluzione perchè si unisse a loro, aveva
dato un reciso rifiuto[6]. Egli si disponeva invece a pubblicare un
giornale, il _Cisalpino_; nel nome c’era il programma.

C’era, invece, in tutti il presentimento di grandi novità e di grandi
avvenimenti, che nessuno sapeva precisare, ma di cui tutti parlavano.
A un tratto si sparse intorno la notizia d’una rivoluzione scoppiata
a Vienna il 13 marzo. La commozione fu grande e generale in Milano, e
sebbene non si sapesse nulla di preciso, pure tutti si agitavano e si
chiedevano: «E noi cosa si fa?» Ma poco dopo corse la parola d’ordine,
che si dovesse fare una grande dimostrazione per chiedere le riforme,
sostenendola, dicevano i più animosi, anche con le armi.

                                 * * *

Alcune sere prima del 18 marzo, essendo andato da Correnti ci trovai
qualcosa di insolito. Gli amici che vedevo a intervalli erano più
numerosi, anzi ce li vidi pressochè tutti, e tutti avevano il fare
misterioso, il piglio agitato, risoluto. Si scambiavano domande
e informazioni, poi se ne andavano, senza trattenersi un po’ in
chiacchiere, come facevano le altre sere. Pareva che ciascuno avesse
fretta di recarsi ad altri convegni, e sentivo specialmente nominare
due noti caffè, il caffè della _Peppina_ e il caffè della _Cecchina_.
Sapevo che il caffè della Peppina, situato in via del Cappello,
era un ritrovo di artisti, di professionisti e di cospiratori, che
chiamerei democratici. Tra quelli che ci andavano sentivo nominare
De Luigi, Maestri, Gerli, Cantoni, Tagliaferri, Pezzotti, Lazzati,
Gadda, Brioschi, Finzi. Il caffè della Cecchina era una specie di Club
situato in alcuni mezzanini del caffè Martini, di fronte al teatro la
Scala, frequentato da molti giovani tra i più noti, come i fratelli
Giovanni e Carlo d’Adda, Guido Borromeo, Cesare Giulini, Giovanni
Curioni, Carlo Taverna, Alessandro Porro, i fratelli Guy, i fratelli
Prinetti, i fratelli Jacini, Simonetta, Camperio, Manara, Besana, i
Mainoni, giovani eleganti e dell’alta società. Questi due caffè erano,
di solito, il quartiere generale delle dimostrazioni, soprattutto
da quando il Casino dei Nobili, situato ove ora c’è la Società
Patriottica, era stato chiuso per ordine della Polizia.

Nelle ultime sere che precedettero il 18 marzo non vidi il Correnti.
Mio fratello Emilio, che allora ci andava subito dopo pranzo, quella
sera aveva l’aria un po’ misteriosa anche lui. La mattina seguente
essendomi imbattuto in uno degli amici più fidi del Correnti, il
giovane ingegnere Angelo Tagliaferri, e avendogli domandato che novità
ci fossero, egli mi rispose sotto voce: Aspettiamoci per sabato un
grande avvenimento. Il sabato atteso era il 18 marzo[7].

Gli amici del Cattaneo vollero fare un nuovo tentativo presso di lui,
ma inutilmente; furono respinti di nuovo. Si separarono, e decisero per
la rivoluzione.

Intanto si venne a sapere che erano arrivati da Vienna dispacci al
governo con decreti che abolivano la censura, annunziavano una legge
sulla libertà della stampa, e convocavano pel 3 luglio gli Stati e le
Congregazioni Provinciali. Si seppe ancora che il Podestà e il Delegato
avevano convocato d’urgenza il Consiglio Comunale e il Consiglio
Provinciale.

Abbiamo veduto fin qui quali fossero le disposizioni dei più, nelle
classi dirigenti; ma che cosa ne pensava il popolo? Il popolo non aveva
modo d’esprimersi; non c’erano riunioni, non c’erano giornali che ne
manifestassero, anche velatamente, l’opinione. Eppure il sentimento
nazionale andava gradatamente svegliandosi, e faceva strada in tutti.
Gli ultimi fatti, il sangue sparso in settembre nelle dimostrazioni
per l’Arcivescovo, e in quelle del 3 gennaio, le dimostrazioni continue
che chiamavano il popolo ogni tanto in istrada, avevano fatto scendere
fino ad esso quell’agitazione contro gli austriaci che partiva dalle
classi superiori. Il terreno era buono; il governo poliziesco e
gretto, la diversità del linguaggio, mantenevano la divisione, creavano
l’impopolarità.

Dopo il 1815 era scomparsa quella vantata bonarietà, di cui c’era la
tradizione dai tempi di Maria Teresa, di fronte all’alterigia spagnuola
e alla prepotenza francese, e che aveva fatto parere ai nostri bisnonni
meno odioso il governo austriaco. Ma gli austriaci ora erano in uggia
a tutti, e su loro si riversavano tutti i motteggi popolari. Col nome
di _tedeschi_ si chiamavano gli oppressori, dal soldato semplice a
Radetzki, dal poliziotto all’Imperatore. _Abbasso i tedeschi_ voleva
dire tante cose, che coi tedeschi non hanno a che fare; la distinzione
venne più tardi. _Fuori i tedeschi_, voleva dire fuori il governo
dell’Austria, era il grido dell’indipendenza e della libertà. Era un
grido chiaro, accetto a tutti, senza distinzioni, nè discussioni; e in
quel grido stava il secreto dell’umanità e della fraternità.

Dunque _fuori i tedeschi_, ossia gli _austriaci_, e con questo grido si
scese in istrada.

La mattina del 18, tra le dieci e le undici, una gran folla, stipata in
piazza del Duomo, si metteva in colonna per recarsi al Broletto, sede
del Municipio, a chiedere al Podestà e alle autorità cittadine che si
mettessero alla testa del popolo per muovere insieme al palazzo del
Governatore, e chiedere le Riforme.

E la colonna, ossia un’innumerevole folla, si mosse, inondando le vie,
e levando un alto rumore, come un mare in burrasca.

Con questo primo atto incomincia la rivoluzione delle _Cinque
Giornate_; rivoluzione che ha i suoi episodi in ogni via della città,
già narrati e descritti da testimoni oculari e dai molti che hanno
scritto su quel grande avvenimento. Non è quindi la storia delle
_Cinque Giornate_ che io rifarò; io mi propongo soltanto di scrivere
alcuni episodi veduti da me, che, si noti, ero un giovanetto, e quello
che in quei giorni sentivo dire intorno a me.

Fin dalle prime ore del mattino mio fratello Emilio, ch’era ritornato
da Correnti, rientrando aveva detto alla mamma e a me che in quel
giorno ci sarebbe stata una grande dimostrazione, la quale avrebbe
potuto finire anche con la rivoluzione. La povera mamma raccomandò a
Emilio la prudenza, e le si velaron gli occhi di lacrime. Principiò da
quel giorno nel suo cuore, ch’era grande, la lotta tra l’amor di patria
e l’amor infinito per i suoi figli; lotta che per tanti anni doveva
essere piena di dolorosi contrasti e costarle molte ansietà e molte
lacrime. Povera mamma!

All’annunzio datomi da Emilio pensai di mettermi subito anch’io in
istato di guerra. Uscii di casa un po’ di soppiatto, poichè fino
allora, secondo gli usi del tempo, io non avevo che una libertà
limitata, e corsi a comperarmi due piccole pistole innocue, e un gran
cappello alla calabrese. Poi, rientrato, tolsi da un cassetto una
coccarda tricolore, alquanto vistosa, che mi aveva regalata pochi
giorni prima una cuginetta, e la cucii in secreto sul davanti del
cappello. Con ciò, dal canto mio, ero pronto agli avvenimenti. E gli
avvenimenti non tardarono a presentarsi.

Era mezzogiorno. Un rumore, da prima cupo e lontano, ma che
avvicinandosi pareva quello d’una folla in festa, che battesse le mani
e gridasse degli evviva entusiastici, clamorosi, ci chiamò tutti, noi e
i vicini, ai balconi e alle finestre, le quali si andavano spalancando
in ogni casa. Era la _dimostrazione_ che arrivava, preceduta dalle
carrozze dell’Arcivescovo, del Podestà e del Municipio, avviandosi al
palazzo del Governo.

Noi abitavamo in via della Cerva, al primo piano della casa che fa
angolo con quella parte di via Monforte che conduce alla chiesa di S.
Babila.

Spinto dalla curiosità e dal desiderio di far qualcosa anch’io, scesi
in istrada e mi avviai verso la folla che procedeva in colonna serrata.

Nell’uscire, m’ero trovato sul pianerottolo con un inquilino del
secondo piano, il dottor Restelli, il quale scendeva le scale insieme
ad un altro giovane medico, il dottor Angelo Tizzoni: l’uno e l’altro
avevano il fucile in ispalla, e furono i due primi armati che vidi
unirsi alla _dimostrazione_ così detta _pacifica_.

M’ero appena messo tra la folla, quando alcuni vedendo questo
giovanetto con una così grande coccarda tricolore (nessuno ancora
l’aveva al cappello), cominciarono ad attirare l’attenzione su me
con qualche _bravo ragazzo!_ e con qualche _evviva la coccarda!_
Detto fatto, parecchi tra quelli che m’eran vicini mi presero tra le
braccia e mi sollevarono in alto, provocando una piccola dimostrazione
speciale in mio favore. Anzichè stare in alto io mi sarei sprofondato.
Mi dibattevo, e pregavo mi si lasciasse andare. Ma fu inutile, e fui
portato in trionfo per un centinaio di passi. Una sola faccia riconobbi
in quel momento tra le moltissime che vedevo rivolte a me, ed era la
faccia di Carlo Tenca, che rideva e mi ammiccava con benevolenza.

Quando, ad un tratto, a liberarmi venne il rumore d’un colpo di fucile;
mi si lasciò cadere, e ruzzolai per terra. Il mio trionfo era finito;
ero salito e caduto precipitosamente, come succede nelle rivoluzioni.

La folla si era arrestata. Si sentì dapprima un rumore assordante
di voci, anzi di urli, che venivano dalle vicinanze del palazzo del
Governo; poi la folla cominciò a retrocedere, come presa da un panico;
poi quegli urli diventarono più vicini e distinti, e non s’udiva più
che il grido: _all’armi! all’armi!_

Mi tirai dietro la porta d’una casa, per non farmi travolgere dalla
folla. Poco dopo vidi rovesciare, presso il ponte di S. Damiano, un
carro di botti vuote che vi stava fermo, e si principiò la prima
barricata tra un baccano indiavolato. Poi sentii suonare a stormo
le campane della vicina chiesa di S. Damiano; poi il rumore secco di
alcune fucilate; poi un grido: _evviva i morti!_ alto, terribile, che
parmi ancora di riudire oggi mentre scrivo, dopo tanti anni.

In breve la via Monforte rimase deserta, e rasente al muro mi diressi
in fretta verso la chiesa di S. Babila, fino alla colonna da cui ha
principio il corso Venezia, chiamato allora di _Porta Orientale_, e
popolarmente _Porta Renza_.

Mi fermai alquanto a contemplare lo spettacolo così nuovo, e che tanto
entusiasmava, delle bandiere tricolori che ornavano ogni finestra.

Erano bandiere improvvisate quella mattina, bandiere fantastiche,
fatte di coperte, di scialli, di cenci, purchè fossero bianchi,
rossi e verdi. E dalle finestre le signore gettavano alla folla, che
applaudiva, coccarde e nastri tricolori.

Tra quella folla agitata parecchi erano già armati con fucili da
caccia; alcuni avevano delle carabine o qualche fucile militare
introdotto dal Piemonte. Tra quegli armati riconobbi parecchi giovani
miei amici, o di mia conoscenza, tra i quali Lodovico Trotti, i
fratelli Mancini, Emilio Morosini, i fratelli Dandolo, Luciano Manara,
Carlo De Cristoforis, e mio cugino Minonzio, che diventò poi, quasi
vent’anni dopo, colonnello e cap. di stato maggiore del generale
Cialdini.

Questi giovani, in unione con altri, sotto la guida di Luciano Manara,
avevano fatto venir secretamente dei fucili dal Piemonte, e durante
l’inverno si erano esercitati tutt’insieme e di nascosto al maneggio
delle armi ed avevano preparate munizioni e cartucce[8]. Quei giovani
valorosi, entusiasti d’amor patrio, ed ispirati nel tempo stesso a
idee mistiche e religiose, prima di scendere in istrada armati, erano
andati, circa in trenta, in una chiesa a ricevere l’assoluzione quali
_morituri_ da un buon prete, il coadiutore Sacchi. Li conduceva un
barnabita, il padre Piantoni, e il precettore dei Dandolo, il prof.
Angelo Fava. Corsero poi alle barricate, e furono primi tra i più
audaci nei principali combattimenti per cinque giorni.

Educatore ed ispiratore di alcuni di quei giovani, specialmente dei
Dandolo e del Morosini, era il Fava, che diventò poi, durante il
Governo Provvisorio, capo della pubblica sicurezza in Milano, e più
tardi Segretario Generale al Ministero dell’Istruzione Pubblica in
Torino. Quella mattina era sceso in istrada coi suoi alunni; io lo
intravidi dal piazzale di S. Babila in mezzo a una folla che ad un
tratto sbucò precipitosa dalla via Bagutta. Quella folla veniva dalla
via Monte Napoleone sospinta dalla truppa, che poco prima aveva fatto
fuoco su di essa.

Molti anni dopo, ricordando col Fava alcuni fatti delle Cinque
Giornate, e dicendogli che l’avevo visto sbucare da via Bagutta dopo
le fucilate di via Monte Napoleone, egli mi raccontò questo episodio:
«In via Bagutta mi ero imbattuto pochi minuti prima in Carlo Cattaneo.
Io ero stato tra quelli che nei giorni prima della rivoluzione avevano
cercato di persuaderlo ad essere con noi. Egli mi aveva opposto un
costante rifiuto. Avevo a lungo discorso con lui, rimanendo e l’uno e
l’altro nelle nostre opinioni e nei nostri propositi. La rivoluzione,
secondo lui, era un errore, e sopra tutto un’impresa impossibile. Ma
ora la rivoluzione era scoppiata, e non c’era più da discutere. — Dove
vai, Cattaneo? — gli dissi — vieni con me! — Dove vado? — mi rispose —
_Quando i ragazzi hanno il sopravvento, gli uomini vanno a casa!_ — e
mi voltò le spalle».

Ma a quello scatto improvviso seguì poi la riflessione: il Cattaneo
aveva la mente troppo alta per ostinarsi in un rifiuto sdegnoso e
inerte. Chiamato dopo tre giorni in Municipio lo vediamo a capo d’un
_Comitato di difesa_ con Enrico Cernuschi, con Giorgio Clerici, con
Giulio Terzaghi prender parte risoluta ed energica alla rivoluzione[9].

Intanto la rivoluzione era incominciata e da per tutto sorgevano
barricate; dai portoni delle case uscivano carrozze ch’erano subito
rovesciate; dalle finestre venivano gettate tavole, sedie, materasse
e masserizie d’ogni sorta; il selciato e le pietre dei marciapiedi
venivano messi sossopra, tutto era ammucchiato con febbrile attività,
e ogni strada in pochi momenti era asserragliata da barricate che
sorgevano a poca distanza l’una dall’altra.

Ero fuori di casa ormai da parecchie ore, e pensai di rientrare per
non lasciare troppo a lungo in agitazione la mia buona mamma. Emilio
non rientrò che a notte inoltrata ed eravamo in non poca agitazione
per lui; egli era stato lungamente trattenuto con Lodovico Trotti in
una delle vie che fiancheggiavano la piazza del Duomo poichè sulla
Cattedrale c’erano i cacciatori tirolesi che facevano fuoco su quanti
cercavano di attraversare la piazza.

Emilio ci raccontò i fatti a cui aveva preso parte, o che aveva udito
da altri; ci narrò che gli austriaci avevano assalito e preso il
Broletto, facendo molti prigionieri tra i nostri e conducendoli in
Castello quali ostaggi; ci disse i nomi di alcuni di questi, e i nomi
dei primi caduti, tra i quali il nostro antico Direttore di scuola,
il Boselli, che era stato ucciso a colpi di baionetta sulla porta del
Broletto.


  NOTE.

  [6] Ecco come il Cattaneo racconta la visita avuta da alcuni
  giovani la mattina del 18 marzo:

  «La sera del 17 marzo, uno degli amici miei, che veniva all’istante
  dalla casa del conte O’ Donnel, Vice-presidente del governo,
  avendomi annunziato che una nuova sedizione in Vienna ci apportava
  l’abolizione della Censura, deliberai tosto, di pôr mano pel dì
  seguente alla pubblicazione d’un giornale. Parevami propizio
  il momento d’indirizzare i cittadini a estorcere immantinente
  all’attonito governo quanto più si potesse di armamenti o di
  libertà; e recarci sopratutto in poter nostro i nostri soldati.
  Conveniva metterci in grado di dar principio alla lega italica con
  mani guarnite, sicchè il vicino regnante, fattosi costituzionale
  da troppo pochi dì e solo per nostro amore, ci fosse alleato se
  voleva, ma non padrone. Ricordo nuovamente che l’impresa dei
  cittadini comprendeva il conquisto dell’indipendenza insieme
  e della libertà. Una indipendenza servile, una indipendenza
  all’austriaca o alla russa, non mi pareva cosa da farsi se non per
  disfarla da capo. Per siffatte mezze imprese non mi pareva lecito
  insanguinare la patria.

  «Avevo appena finito di scrivere in fretta il mio primo foglio,
  quando poco dopo l’alba due amici vollero entrare da me,
  ragguagliandomi che il podestà Casati dopo mezzodì doveva recarsi
  dal Municipio al governo, per dimandare a nome del popolo alcune
  concessioni; volevano essi avere l’avviso mio su ciò ch’era per
  loro a farsi, nel quasi inevitabile evento di un conflitto. Questa
  smania di correre immantinente alla forza, quando nulla si era
  fatto per possederla e ordinarla, mi pareva troppo favorevole al
  nemico, che sapevamo presto e bramoso. «Il Podestà farà mitragliare
  i cittadini, io dissi: egli va da cieco dove lo spingono; ma voi
  con che forze volete assalire una massa di ventimila uomini, che
  si è preparata di lunga mano a fare un macello, e lo desidera?
  Quanti combattenti avete? — «Quei giovani non avevano a mano che
  qualche dozzina d’altri cacciatori.» — «Non vedete, risposi, che vi
  vogliono parecchie migliaia d’uomini bene armati e ben comandati?»
  — «Mi dissero che tutta la città si sarebbe mossa, e che si avevano
  pronti quarantamila fucili. — «Questi quarantamila fucili li avete
  visti?» — «Non li abbiamo visti; ma sappiamo che il Comitato
  direttore li aspettava di Piemonte.» — «Andate dunque prima a
  vedere se sono arrivati; andate al comitato-direttore. E siete
  poi certi che questo comitato vi sia» — «Senza dubbio; tutti ne
  parlano.» — «— Ebbene, vedrete che infine non avremo nè comitato,
  nè fucili. Io conosco da un pezzo codesti ciambellani; hanno una
  fede cieca in Carlo Alberto, e saranno corrisposti come al solito.
  Carlo Alberto non ama la libertà; e non può amarla. Bisogna pigliar
  tempo per armarci, e perchè tutta l’Italia si metta in grado
  d’aiutarci; non ci vuol meno che tutta l’Italia. Andiamo adagio;
  non cacciamo in bocca al cannone un popolo disarmato, finchè almeno
  non ci mettono alla assoluta necessità della difesa» — Li amici
  se ne andarono poco di me contenti. Ne vennero altri; e si fecero
  li stessi discorsi; altri m’invitarono a non so quale adunanza,
  a due ore, nella Galleria; io intanto portavo a uno stampatore il
  mio manoscritto.» _Dell’insurrezione di Milano nel 1848, e della
  successiva guerra, Memorie di C. Cattaneo_ (Bruxelles, Società
  Tipografica, 1849, pag. 29-31).

  [7] La sera del venerdì 17 marzo, Cesare Correnti raccomandò agli
  amici di trovarsi la mattina seguente in casa del dottor Attilio
  De Luigi, in via Disciplini. Ci andarono Achille Maiocchi, Daverio
  Perroni, Guido Borromeo, Giovanni Pezzotti, Anselmo Guerrieri
  Gonzaga, Pietro Bonetti, Achille Griffini, Alberico Gerli, Giovanni
  e Gaetano Cantoni, Giuseppe Finzi, i fratelli Lazzati, ed altri.
  Correnti quando ebbe intorno gli amici disse loro non potersi
  più ormai differire lo scoppio della rivoluzione; essere ormai
  necessario anticiparlo, e propose perciò si facesse il giorno
  seguente, il 18 marzo, per le vie di Milano una dimostrazione,
  armata questa volta, per affrontare gli austriaci, se questi
  assalissero i cittadini. Alle parole del Correnti soffocammo
  un grido di gioia, disse il Gerli, ci stringemmo le mani, e ci
  separammo. La mattina seguente eravamo tutti in casa del De Luigi,
  all’ora fissata, e dopo breve discussione si convenne di affidare
  il Governo provvisorio al Municipio, con facoltà di aggregarsi chi
  volesse; intanto il Podestà Casati doveva chiedere a O’ Donnel,
  Vice Governatore in assenza dello Spaur, che la Polizia fosse
  affidata al Municipio, e si conchiuse di accompagnare il Podestà al
  palazzo di Governo per ottenere quanto si chiedeva.

  (La _Rivoluzione Lombarda_ del 1848-59, di _Vittore Ottolini_, pag.
  60).

  [8] «Riuniti in piccola brigata, scrive Emilio Dandolo, nel suo
  libro sui _Volontari Lombardi_, passavamo delle ore ad imparare
  gli esercizi militari. La notte ci trovava raccolti in qualche
  cameretta remota a fondere palle e a preparare cartucce. Ogni
  nostro giardino, ogni nostro cortile racchiudeva, in fosse, casse
  di munizioni procacciate dai nostri risparmi, a quella nostra età
  oltremodo penosi.»

  Tra quei giovani ricordiamo i fratelli Croff, i fratelli Broggi,
  Gerolamo e Alessandro Borgazzi, Manara, i fratelli Dandolo,
  Fioretti, Testa, i fratelli Mancini, Lodovico Trotti, Saule
  Mantegazza, Carlo De Cristoforis, Bussi, e qualche altro che non
  rammentiamo. Tutti furono alle barricate. — Era sempre con loro
  Angelo Fava. —

  In via Rugabella, nel giardino di casa Valerio, i fratelli Lazzati
  ed altri avevano nascoste delle armi. Carlo Alberto vi mandò un
  carico di polveri nelle Cinque Giornate, che non fu possibile far
  penetrare in città.

  [9] Il _Comitato di difesa_ si trasformò in un _Comitato di
  guerra_ di cui era presidente il conte Pompeo Litta, già capitano
  d’artiglieria al seguito di Napoleone I, e ne erano membri
  Cattaneo, Cernuschi, Clerici, Terzaghi, Carnevali, Lissoni, Cerani,
  Torelli.




CAPITOLO IV.

1848.


II.

  _Sommario:_ Il secondo giorno della rivoluzione. — L’aspetto delle
  vie. — Broggi. — L’ing. Alfieri nostro casigliano prende il comando
  del quartiere e mi mette di guardia su un tetto. — Ospitalità
  nelle famiglie. — La mattina del lunedì. — Assalto alla casa del
  Duca Visconti. — Il figlio del mio portinaio. — Ferimento d’un
  ufficiale. — Don Cesare Ajroldi e la barricata di S. Babila. —
  Terza giornata. — Con mia madre e mio fratello passiamo in via
  Durini, nel Collegio Garnier. — Il Console Pontificio. — L’ing.
  Alfieri impazzito. — La barricata del Seminario e i palloncini dei
  seminaristi. — Formazione del Governo Provvisorio. — La proposta
  d’armistizio. — La guarnigione austriaca. — La presa della Caserma
  del Genio. — Note sull’armistizio e sui fratelli Borgazi.

All’alba del giorno seguente, una domenica, Emilio era uscito di casa
di buon’ora, ed anch’io ero sceso, e m’ero fermato sul limitare del
portone, socchiuso come tutti gli altri portoni.

Pioveva; nella via della Cerva non si vedeva nessuno; tutt’in giro
era un profondo silenzio, non interrotto che dal suono continuo delle
campane a storno, e da qualche colpo di cannone. Tutte le persiane
eran chiuse, o socchiuse. Mi spinsi piano piano fino allo sbocco della
strada, e vidi che anche la via Monforte era abbandonata e silenziosa.
La barricata del ponte era stata distrutta dagli austriaci durante la
notte e gettata in parte nel canale detto il _Naviglio_. Al di là del
ponte, in vicinanza del palazzo del Governo, si vedevano dei soldati,
che ora procedevano guardinghi, ora si ritiravano tenendosi ai lati
della strada, sotto le gronde, coi fucili in direzione delle finestre,
e pronti a far fuoco appena vedessero una persiana semiaperta.

A un tratto vidi venire dal piazzale di S. Babila, rasente il muro,
un giovane armato di carabina; egli si fermò al vicolo Rasini, e si
appostò dietro l’angolo. Questo valoroso, che doveva morire poche ore
dopo, era Giuseppe Broggi. Dal punto in cui s’era messo, incominciò
a far fuoco contro i soldati che erano nelle vicinanze del ponte, e
ogni suo colpo ne faceva cadere uno. Così, solo, in meno di mezz’ora
ricacciò fino al bastione i soldati che avanzandosi lentamente si
preparavano ad occupare la via Monforte. Il Broggi, quando vide che
tutta la via era sgombra, si avanzò fino al ponte, e presa la strada
del _Naviglio_ si appostò di nuovo, facendo fuoco, all’angolo del
Corso. Qui ebbe, sulle prime, il medesimo fortunato successo, finchè
una palla di cannone, rimbalzando dallo stipite di una porta, che ne
conserva ancora la traccia, gli squarciò il petto.

Per alcune ore tutto fu quiete e silenzio nelle vie Cerva e Monforte.
Di tanto in tanto qualcuno si affacciava alle finestre, o con passo
prudente usciva dalle porte, e allora si avviava in istrada un po’
di conversazione, per chiedersi e scambiarsi qualche notizia. Non
tutti, naturalmente, erano eroi; chi aveva l’aria spaventata; chi
sommessamente arrischiava qualche parola di prudenza o di biasimo;
chi si millantava; chi, senza allontanarsi dalla porta, prudentemente,
faceva progetti e propositi terribili. Tutti, anche i migliori, erano
esaltati, e ben diversi del solito.

Tra le persone più agitate del quartiere osservai un certo ingegnere
Alfieri, che abitava nella stessa nostra casa; uomo di solito
tranquillo e di poche parole, diventato ora loquacissimo e di maniere
strane. Egli s’era trovato il giorno prima in via Monte Napoleone nel
momento di quel gran parapiglia in cui la folla, che ritornava dal
palazzo del Governo, veniva accolta a fucilate da una compagnia di
soldati. Vivamente impressionato, aveva avuto tutta la notte, come
mi disse poi il suo servitore, una gran febbre, e improvvisamente era
impazzito. Ma nessuno lo sospettò allora, e parve soltanto un patriota
dei più ardenti.

L’ingegnere Alfieri, a un tratto, chiamò tutto il vicinato e parecchi
delle case vicine a raccolta in una corte; dichiarò che da quel momento
egli prendeva il comando del quartiere e che tutti avrebbero dovuto
obbedire a lui solo sotto la più severa disciplina. La cosa parve
a tutti naturalissima, e l’ingegnere cominciò a dare i suoi ordini.
Ordinò che si preparassero dei pannolini bagnati per spegnere le bombe,
e che si mettessero delle caldaie al fuoco per gettare acqua ed olio
bollente sui soldati; poi mandò alcuni nelle cantine, e sui tetti,
per sorvegliare le spie e i nemici nascosti. Anche su ciò non si ebbe
nulla da ridire. A me, che avevo le pistole, diede l’ordine di tenermi
accovacciato dietro l’abbaino d’un tetto, ove mi condusse egli stesso,
per sorprendere un nano che, a suo dire, faceva dei segnali dai tetti,
ai soldati. A nessuno, dico, venne il sospetto che a quel nostro
comandante avesse dato di volta il cervello. Erano tutti esaltati da
un bisogno di fare e di credere; più un comando era misterioso, e più
ci trovava devoti. Si viveva all’infuori della realtà; la realtà era
il complesso dei sentimenti e delle speranze di tutti; era un amore
infinito per l’Italia; era la sicurezza della vittoria!

Rimasi parecchie ore sul tetto, dietro il mio abbaino, osservando
innanzi tutto se compariva il _nano_, e poi le linee dei soldati, che
tratto tratto sfilavano sui bastioni, a passo rapido, e guardando i
campanari che picchiavano a martello le campane sulle torri di tutte
le chiese. Tutto ciò, tra un rumore continuo di grida, di fucilate,
di cannonate, che assordavano l’aria, e tra il sibilo tetro delle
racchette e delle bombe.

Nel guardare lungo la via, vidi presso il ponte sul _Naviglio_
di S. Damiano, stesi sul lastrico, due cadaveri, che vi giacevano
probabilmente dal giorno prima. E infatti seppi poi che i soldati
venuti dal bastione a rioccupare il palazzo del Governo, appena n’erano
usciti O’Donnel e le Autorità milanesi, nel caricare la folla e nel
risospingerla al di là del ponte, erano in alcune case, e saliti sui
tetti, avevano gettato in istrada quei due infelici che vi stavano
appiattati, e di cui vedevo i cadaveri.

In quel momento mi sentii risuonare nell’anima, con una profonda pietà,
quel grido: _evviva i morti!_ con cui avevo sentito il giorno prima la
folla salutare le prime vittime.

I morti erano là. E non ristavo dal guardarli da lontano, con quella
specie di fascino che ci tiene avvinti alle cose che si fanno meditare.
Chi erano quei morti?

Venne la sera, e il _nano_ non compariva; per di più avevo una gran
fame, e ciò contribuì a persuadermi che la mia missione fosse pel
momento finita. Cercai la scaletta per la quale ero venuto, ed ebbi
l’ingrata sorpresa di vedere che l’uscio era chiuso a chiave. L’aveva
forse chiuso il mio stesso comandante, per assicurarsi meglio che avrei
eseguito la consegna datami.

Che cosa fare? Non mi rimaneva che di aggirarmi pei tetti, come un
gatto, di fumaiuolo in fumaiuolo, col pericolo di finire in istrada, in
cerca d’un’altra soffitta aperta e d’un’altra scaletta.

Le trovai; scesi; ed eccomi in una casa, e in mezzo a gente che non
conoscevo. In altri tempi sarei stato accolto come un ladro, ma in quel
giorno fui accolto come un amico, come un figliuolo di casa. Narrai
la mia avventura a quella buona famiglia, in mezzo alla quale ero
capitato; mi si fece una gran festa, si parlò del _nano_, e si voleva
anche trattenermi a cena, se non avessi fretta di rivedere mia madre.

Non è facile descrivere l’ospitalità che in quei giorni si trovava in
ogni casa. I pericoli, e le vicende della lotta, obbligavano spesso
a cercar rifugio nella prima casa che capitasse. Tutti trovavano
dappertutto un’accoglienza fraterna e festosa. Pareva che Milano
fosse una sola famiglia. Si era in quei giorni tutti amici e fratelli;
tutti si soccorrevano a vicenda, si abbracciavano, si davan del tu.
Dalle strade si saliva nelle abitazioni, e vi si trovava un letto per
riposare, un bicchier di vino, un boccone per rifocillarsi. Ciò alle
volte diventava una vera necessità. In alcune vie tutte le botteghe
eran chiuse, e le comunicazioni erano difficilissime. Qualche cuoco,
o qualche servitore che si era azzardato ad andare in cerca di
commestibili, era stato ferito o ammazzato. La città era bloccata,
e al quarto giorno i viveri cominciarono a scarseggiare. La larga
ospitalità, che metteva in comune le provviste di quelli che ancora ne
avevano, diventava una vera provvidenza.

I ricchi e le persone agiate distribuivano, nelle strade e nelle
case, viveri e soccorsi a quanti si presentassero loro, fossero o non
fossero poveri. I signori distribuivano larghi soccorsi ai popolani
e agli operai, che in quei giorni della rivoluzione si trovavano
necessariamente disoccupati. Soccorrevano in ogni maniera anche le
loro famiglie, ed essi volonterosi e coraggiosamente si adoperavano in
ogni più audace azione, e volonterosi ubbidivano a chi li dirigeva e li
comandava.

Nessun furto avvenne in quei giorni, mentre tutte le case erano aperte
a tutti e non guardate da nessuno. Milano era una famiglia sola; tale
fu la fisionomia morale della rivoluzione.

La mattina del lunedì, di buon’ora, qualcuno venne ad avvisarci che i
soldati si avanzavano, che avevano oltrepassato il ponte, e che pareva
si disponessero ad occupare tutta la via. Sarebbe stata da parte loro
una bella mossa, che avrebbe potuto condurli a pigliare alle spalle le
barricate del corso di Porta Orientale.

L’allarme fu grande, tanto nella casa nostra, quanto nelle case
vicine, e tutti si misero ad asserragliare le porte per timore d’una
invasione. Il figlio del nostro portinaio, certo Cecco Migliavacca,
giovanotto alto e robusto, detto fatto, principiò a disselciare
il cortile, e a portar sassi su un balcone della casa dal quale si
dominava l’imboccatura della strada. Io lo aiutai in questo lavoro, e
in pochissimo tempo ci fu su quel balcone una abbondante provvista di
sassi. Quando, ad un tratto, che cosa vediamo? I soldati si avanzano
rapidamente, coi fucili puntati alle finestre, e quattro zappatori
colle asce alzate, comandati da un ufficiale, principiano a menar
colpi a tutta forza contro il portone della casa del duca Visconti di
Modrone, che fa angolo tra via Monforte e via della Cerva.

Quella casa era zeppa di gente, venuta a ricoverarsi dalle case più
minacciate di via Monforte, e trattenuta con una generosa ospitalità
dal Duca.

Il mio giovanotto cominciò a lanciar sassi furiosamente: io l’aiutai
del mio meglio, e i soldati qua e là retrocedevano, senz’accorgersi
sulle prime da qual parte venisse quella grandinata. Tutto ciò fu
l’affare d’un minuto.

Intanto il portone di casa Visconti stava per cedere ed era imminente
una qualche grave sciagura: quand’ecco aprirsi la finestra d’una casa
vicina, che fa angolo col vicolo Rasini, e nella quale abitavano alcuni
canonici della chiesa di S. Babila. A quella finestra si affaccia un
prete, il quale, tra le fucilate che gli tirano dalla strada i soldati,
spiana un fucile, prende di mira l’ufficiale e lo colpisce. Questo
fatto improvviso atterrisce i soldati, che rapidamente fuggono al di là
del ponte, portando seco il ferito. La casa Visconti era salva.

Chi era quel prete? Il vicinato disse subito che era don Cesare
Ajroldi. Io lo vidi, quel prete, mentre lanciavo i sassi, ma nella
commozione del momento non potei ravvisarlo. Sul nome di quel prete si
fecero poi correre voci disparatissime, con l’evidente intenzione di
non richiamare una speciale attenzione su nessuno. Parecchi avevano
anche l’indiscrezione di domandare all’Ajroldi stesso se fosse stato
lui l’eroe di questo episodio, ma egli si schermiva sempre. Uomo
d’ingegno e distinto predicatore, l’Ajroldi, dopo il ritorno degli
austriaci, fu tenuto per dieci anni in una specie di esilio; lo
mandarono curato in un paesello di poche centinaia d’anime; dopo il
1859 ritornò a Milano, diventò Monsignore del Duomo, ed occupò diverse
cariche cittadine nella beneficenza, tra la stima generale.

Dopo quel fatto venne l’ordine, non so da chi, di erigere una forte
barricata di fianco a S. Babila, per difendere il Corso, e per
proseguire poi, con altre barricate, di mano in mano fino al ponte.

Eccoci, dunque, tutti quelli del vicinato, a costruire in gran
fretta una barricata, servendoci di masserizie e di materiali che
generosamente ci venivan dati dalle case vicine. Don Cesare Ajroldi,
sceso in istrada esso pure, aveva preso a dirigerne la costruzione.

La barricata era finita, e già si pensava a costruirne un’altra,
quando gli austriaci avanzarono di nuovo fino al ponte con due pezzi
d’artiglieria, e ci tirarono alcune cannonate. La nostra barricata
si sfasciò, e in breve fu messa sossopra. Ci mettemmo in fretta
a ricostruirla, ma mentre stavamo collocando dei sacconi e delle
materasse per difenderla meglio, una palla di cannone l’attraversò,
schiacciando e recidendo la testa d’uno ch’era in mezzo a noi, un certo
Perelli. Don Cesare e il Migliavacca trasportarono il morto nella
vicina chiesa di S. Babila, e tiratici tutti in disparte, commossi,
assistemmo una seconda volta allo sfacelo della nostra barricata. Non
tentammo allora di rizzarla nuovamente, e poco dopo anche gli austriaci
ritirarono i loro cannoni, e pel momento non fecero più nessuna mossa
in avanti.

Nullameno i fatti di quella mattina avevano messo in allarme tutto il
quartiere. Il duca Visconti cominciò a raccogliere gente per farne
dei difensori della sua casa, e questi furono il primo nucleo d’un
reggimento di volontari, che poi equipaggiò a sue spese e condusse al
campo. Il duca in quei giorni era sempre in mezzo alla strada, con
un sacchetto di lire austriache, dette zvanziche, che vuotava e poi
riempiva, distribuendo sussidi agli operai, ai popolani, alle donne del
quartiere e dei quartieri vicini.

Intanto le case di via Monforte e di via Cerva venivano in parte
abbandonate dagli inquilini, che cercavano di rifugiarsi in vie meno
esposte, in punti meno minacciati. Correva la voce che gli austriaci
si preparassero ad un nuovo e più vigoroso assalto, scendendo dalla via
Monforte.

La mattina del terzo giorno Emilio, capitato a casa, dopo averci
narrate le sue vicende, ma in modo da non spaventare la mamma, la
persuase a lasciar la casa, e a portarsi altrove con me e col fratello
Enrico. Mia madre pensò allora di recarsi nella vicina via Durini
presso una certa _madame_ Garnier, ch’essa conosceva e ch’era la
direttrice d’un Collegio di fanciulle situato nel palazzo Durini.

Non è à dire con quanta festa ci accogliesse quella buona signora,
la quale aveva già messo a disposizione di altri, ch’erano venuti a
chiederle ospitalità, i locali delle sue scuole. C’era perciò, in
quel Collegio, un andirivieni continuo di amici e di amiche della
Direttrice, di giovanotti armati e di combattenti che venivano a
portare e a sentir notizie, a veder le sorelle, o le madri che v’erano
accorse, a rifocillarsi, a riposarsi, o a farsi medicare se feriti.
Tutto ciò in un Collegio di fanciulle! Ma chi ci badava allora? Tutti
rispettosi, tutti fratelli; la gente aveva ben altro pel capo.

Dopo che ci fummo collocati alla meglio nella nuova abitazione, mi
venne la curiosità di ritornare in via Cerva, e di dare una capatina
in via Monforte per vedere se gli austriaci avanzassero. In via Cerva
trovai un assembramento di persone, e pareva anche che ci fosse un
po’ di parapiglia, precisamente dinanzi alla casa Perelli, dove noi
abitavamo. Che cosa era avvenuto? In quella casa abitava pure un
certo De Simoni, console pontificio; ora un messo, scortato da alcuni
cittadini armati, era venuto ad invitarlo a un ritrovo dei Consoli che,
come si seppe poi, volevano chiedere un abboccamento al maresciallo
Radetzki. Ma il messo e la pattuglia erano stati bruscamente fermati
dall’ingegnere Alfieri, il quale gridava che senza il suo permesso il
Console non sarebbe uscito di casa.

Il Console intanto s’era affacciato alla finestra, ed era principiato
un curioso colloquio tra lui, l’Alfieri, il messo e quelli della
strada.

Finalmente il Console, in uniforme, scese, e allora l’Alfieri si mise
a gridare: «Vedete quest’uomo? Questa è la spia che tutti andiamo
cercando da due giorni... ammazzatelo!»

Il povero Console, che non ne capiva nulla, si agitava, tremava; ma per
fortuna le smanie dell’Alfieri furon tali e tante che tutti finalmente
si accorsero, cosa non facile in quei momenti, che aveva smarrita
la ragione. Dopo un chiasso indiavolato, l’Alfieri cadde a terra
dibattendosi.

Raccolto da alcuni pietosi fu condotto all’Ospedale, dove pochi giorni
dopo morì delirando. Non fu in quei giorni il solo caso di pazzia
improvvisa.

La mattina del 21, sull’albeggiare, dopo parecchie ore dormite
saporitamente su una branda, nell’anticamera del Collegio Garnier,
non ostante lo scampanìo continuo di quasi tutti i campanili della
città, scesi in istrada e m’imbattei subito in alcuni che, con una
sciarpa tricolore a tracolla, si affannavano a dar ordini in nome del
Comitato di difesa e a disciplinare l’insurrezione: non fosse altro, ne
avevano la buona intenzione. Caduto anch’io nelle mani di questi capi,
fui messo subito di sentinella ad una innocua barricata, che chiudeva
la via Durini dalla parte del Verziere. Il mio comandante, dopo aver
osservato le mie pistole, non trovandole forse abbastanza micidiali,
volle aumentare il mio armamento, e mi mise in mano un fioretto da
scherma, poi mi diede la parola d’ordine: _Papa Pio_.

Poco dopo venne un altro capo, il quale trovò opportuno di rinforzare
il posto, e mi diede un compagno, ch’era un buon vecchietto, armato
di una lancia antica. Gli confidai la parola d’ordine, e fummo subito
amici.

Venne una pattuglia: «_Alt!_» gridò il vecchietto, «la parola d’ordine!»

— «_Concordia, coraggio_» rispose il capo della pattuglia.

— «Veramente», osservò il vecchietto, «la parola d’ordine sarebbe
un’altra... però, siamo tutti italiani, e passino pure...»

Rimanemmo appoggiati alla barricata chiacchierando, io e il mio
vecchietto, ch’era un impiegato in pensione, per un paio d’ore. Il
vecchietto mi raccontò che il Podestà era stato _promosso a Governo
Provvisorio_; e mi confidò le ingiustizie che aveva subite durante
la sua carriera, concludendo che se _arriveremo a diventar noi i
tedeschi_...

Alla fine cominciammo a domandarci che cosa facevamo noi lì. Il nemico
non si lasciava vedere; si combatteva in tutt’altre parti della città;
intorno a noi tutto era silenzio; la curiosità chiamava tutti altrove;
e anche noi due, dataci la buona sera, ce ne andammo pei fatti nostri.

Riacquistata la mia libertà individuale, mi portai alla Corsia dei
Servi (ora Corso Vittorio Emanuele), e poi mi spinsi innanzi verso il
Corso di Porta Orientale.

Vidi con stupore la barricata dei chierici del Seminario, la più
formidabile di quante ce ne fossero in tutta Milano; una barricata
tutta fatta coi lastroni di granito dei marciapiedi, che sbarrava il
Corso, ed era alta parecchi metri. Vidi sventolare sulla più alta
guglia del Duomo la bandiera tricolore, messaci, seppi poi, dal
Torelli, un amico di mio padre, che vedevo in casa nostra a Milano
e a Tirano. Vidi poi alzarsi i palloncini, fatti dai seminaristi,
per mandar fuori di città i bollettini e i proclami del Governo
Provvisorio[10].

Vidi cose serie e cose buffe, ma che allora a me, e a tutti, parevano
serie anch’esse; vidi le barelle su cui erano trasportati feriti e
morti; e vidi dei bellimbusti, con corazze lucenti, sciarpe e cappelli
con penne d’ogni colore, con spadoni antichi, che passeggiavano, come
cantanti sul palcoscenico. Ammiravo anche loro.

Ritornato sul tardi al mio quartiere generale, presso mia madre,
in casa Garnier, ove continuava l’andirivieni di conoscenti e non
conoscenti, seppi le nuove di tutti i fatti che s’erano andati
svolgendo nella giornata.

Seppi ch’era stato costituito il Governo Provvisorio, e che il conte
Martini aveva potuto penetrare dalle mura in città, recando da Torino
l’assicurazione datagli da Carlo Alberto che le truppe piemontesi
avrebbero varcato il Ticino. Seppi che i consoli s’erano recati dal
maresciallo Radetzki, e che il giorno prima un maggiore austriaco si
era presentato al Governo Provvisorio per proporre un armistizio.

A quella notizia, il viso di _Madame_ Garnier, che in cuor suo
cominciava ad essere inquieta per l’andirivieni crescente degli ospiti,
si illuminò d’un breve raggio di speranza. Ma subito chinò gli occhi,
rassegnata, perchè, tra gli applausi degli astanti, si sentì che il
Governo Provvisorio aveva respinto la proposta. Questa notizia veniva
a mano a mano ripetuta festosamente da quanti venivano, e tutti la
ripetevano a un modo ch’era evidentemente quello della verità. Il
Governo, cioè, aveva riunito il Comitato di difesa, e i principali
comandanti delle barricate. La discussione era stata breve. Il conte
Durini e il conte Pompeo Litta, ex militare Napoleonico, avevano
osservato che l’armistizio poteva esserci utile per lasciare a Carlo
Alberto il tempo di giungere a Milano e prendere gli austriaci alle
spalle. Ma gli altri, unanimi, dimostrarono le ragioni prevalenti per
respingere la proposta, la quale era stata pur respinta dai Comitati
di guerra e di difesa, recentemente nominati. Del Comitato di guerra,
nominato il terzo giorno, aveva accettato di far parte anche il
Cattaneo[11].

I felici e importanti successi ottenuti dagli insorti nella quarta
giornata, la presa della caserma del Genio (l’attuale palazzo della
Cassa di Risparmio) e di altre caserme, nelle quali s’eran fatti dei
prigionieri, avevano nei più accresciuto l’entusiasmo e la fede, e
dissipato in parecchi i dubbi e la paura.

Dopo la presa delle caserme e dei vari posti militari, il numero dei
cittadini armati era di molto cresciuto, e si facevano più fitte le
fucilate, di cui giungeva l’eco dai vari punti della città.

C’era già nell’aria il presentimento della vittoria, e si pareva tutti
mezzo matti per l’esaltazione e per la gioia: non si vedevano che
facce stravolte per la fatica, per l’insonnia, e per l’ebbrezza della
lotta e del pericolo: tutti avevano la voce rauca, tutti avevan fame,
e cercavano di rifocillarsi, sicchè pareva un boccone ghiotto anche il
pezzo di pane secco che veniva offerto da chi ne aveva ancora un poco
in serbo.

Gli austriaci, sia per indecisione, sia per un certo sprezzo militare
di fronte a dei borghesi quasi senz’armi, s’eran lasciati sorprendere
il primo giorno, e poi non avevan saputo riaversi con una offensiva
risoluta e audace. Al quarto giorno la lotta era diventata difficile,
ma nei primi due giorni, con un’azione vigorosa, le truppe avrebbero
potuto soffocare la rivoluzione senza molta difficoltà, prima che fosse
proclamato l’intervento di Carlo Alberto. Radetzki giustificò la sua
ritirata con buone ragioni; ma le ha trovate dopo.

Alla fine, le barricate, le tegole che piovevano dai tetti, e
quell’incessante sonare a stormo di tutti i campanili della città,
avevano sbalordito, scoraggiato i soldati. I generali, tra le notizie
incerte, allarmanti, di Vienna, di Torino, e delle città lombarde,
pressochè tutte insorte, erano rimasti dubbiosi e inerti. Le truppe
stettero quasi sempre sulla difensiva, certamente ostinata e valorosa,
ma i loro assalti alle barricate furono pochi, e poco vigorosi.

La sera del quarto giorno gli austriaci avevano perduto quasi tutti i
posti e tutte le caserme dell’interno della città; erano ancora però
padroni del Castello e dei bastioni che circondano la città, e delle
porte.

Tra i posti perduti nell’interno della città c’era stato, come ho
detto, il palazzo del Genio militare, ove ora si trova la Cassa di
Risparmio. Ne aveva diretta la presa Augusto Anfossi, che aveva
militato all’estero. Dirigeva il fuoco da un balcone d’una casa
dirimpetto, quando una palla lo colpì in fronte. Ma l’assalto era
continuato, per opera del manipolo d’insorti capitanati dal Manara,
in cui erano il Dandolo, il Morosini, Manfredo Camperio, i Mancini,
il Minonzi, ed altri; finchè un ciabattino sciancato, Pasquale
Sottocornola, si portò ad appiccare il fuoco alla porta della caserma,
incendiandola, così fu costretta alla resa.

_L’assalto a una porta_ — fu il pensiero, fu la parola d’ordine dei
combattenti, del Governo Provvisorio e del Comitato di difesa, nella
notte tra la quarta e la quinta giornata. Con ciò si sarebbe rotto
quell’anello che circondava la città; gli armati accorsi dai paesi
vicini sotto le mura[12] sarebbero entrati in Milano, e con essi i
viveri che cominciavano a scarseggiare.

L’impresa era certamente grave e difficile, ma in quel momento tutto
pareva possibile nell’ebbrezza delle prime vittorie.


  NOTE.

  [10] La costruzione della barricata, e la costruzione dei
  palloncini, erano state dirette, come seppi più tardi, da uno dei
  chierici anziani, Antonio Stoppani, che aveva allora 23 anni. Lo
  Stoppani diventò poi sacerdote, e fu il celebre geologo e scrittore
  a tutti noto.

  [11] Più tardi, quando alla verità si sovrappose la leggenda, molti
  vollero attribuirsi il merito d’aver respinto l’armistizio; si
  disse, tra l’altre cose, che il Governo Provvisorio lo accettasse,
  e che il solo Cattaneo lo respingesse: la verità è più semplice.
  Io mi atterrò a quanto ne scrisse Luigi Torelli, presente a quel
  Consiglio, nei suoi _Ricordi delle Cinque Giornate_, cronaca
  esattissima d’ogni fatto della Rivoluzione:

  «Essendo presente anch’io a quel Consiglio, posso darne qualche
  ragguaglio. Riuniti in numero non minore al certo di quattordici o
  quindici, poichè, oltre il Governo Provvisorio, v’era il Comitato
  di guerra ed il Comitato di difesa (del quale io faceva parte),
  il presidente Casati espose la domanda di sospensione d’armi del
  generale Radetzki. Chi prendesse primo la parola non rammento;
  certo il signor Cattaneo fu uno di quelli che parlarono contro,
  ma sul numero di presenti tre soli opinarono per l’accettazione;
  gli altri, senza aver d’uopo di sforzi di rettorica di nessuno, la
  ripudiarono risolutamente, perchè era evidente che, in ogni modo,
  era più utile a Radetzki che a noi.

  «Quando venne il mio turno, senza ripetere le ragioni degli altri,
  aggiunsi solo: che nella mia qualità di capo delle pattuglie,
  dovevo poi dire che si andava ben errati, se mai si credeva che
  quand’anche si avesse accettata la sospensione, i combattenti
  l’avrebbero rispettata; di disciplina non vi era nemmen l’ombra.
  Inoltre potrei anche appellarmi ai molti che spero ancora esistano,
  per rammentar loro come, durante il breve tragitto da casa
  Vidiserti a casa Taverna, si gridasse ad alta voce, _no, no, non
  accettiamo sospensione_; e questo fu ripetuto perfino nella sala
  maggiore di casa Taverna, che precede quella dove si tenne in
  Consiglio. Voi vedete dunque che senza nulla detrarre al merito
  reale del signor Cattaneo, non è quella circostanza che si può
  addurre come di gran servizio reso al paese.»

  [12] Da principio si decise di tentare l’assalto della città
  entrando dal bastione di Porta Comasina (oggi Porta Garibaldi).
  Se ne incaricò Gerolamo Borgazzi alla testa di alcune centinaia di
  persone ch’egli aveva condotte dalla campagna. Ma durante l’assalto
  rimase morto.

  Questo era fratello d’un Alessandro Borgazzi che, durante le
  dimostrazioni, insultato da un ufficiale, nipote del Ficquelmont,
  lo aveva bastonato. La _Gazzetta d’Augusta_ aveva stampato che un
  nobile milanese aveva aggredito un Thurn, e ch’era stato arrestato.
  Questi Borgazzi erano cugini di mia madre.




CAPITOLO V.

1848.


III.

  _Sommario:_ La quinta giornata. — Preparativi per la presa di
  Porta Tosa. — Il prete che benedice i combattenti al ponte di
  Porta Tosa. — In piazza del Verziere. — I feriti. — I _Martinitt_
  dell’Orfanotrofio. — La bandiera alla _Madonnina_ del Duomo. —
  La presa di Porta Tosa. — Di guardia su un tetto. — Il pittore
  De Albertis. — L’aspetto della città nella notte dal 22 al 23.
  — La ritirata degli austriaci. — Le vie di Milano e l’entusiasmo
  pubblico all’annunzio della ritirata degli austriaci. — Gli abiti
  detti alla _Lombarda_. — Nel Castello. — Partenza di un manipolo di
  volontari con Luciano Manara. — Gli ostaggi. — Le notizie dei paesi
  insorti in tutto il Lombardo-Veneto.

Sentivo dire che s’era pensato di dare l’assalto a Porta Comasina,
ma che colla morte del Borgazzi l’impresa fosse fallita; e che poi si
progettasse un assalto alla Porta Ticinese, ma la resistenza vigorosa
che vi si trovò, e varie altre circostanze che rendevano difficile
l’impresa, facessero mutar consiglio. Alla fine era prevalso il
progetto dell’assalto a porta Tosa.

Questo fatto, che è certamente uno dei più importanti della
rivoluzione, fu preparato e diretto con molte cautele, con ordine, e
con un piano predisposto. Ci furono un’ala destra e un’ala sinistra
di combattenti di fianco al corso, che si avanzavano attaccando le
truppe dei bastioni per distrarle dal punto centrale, ch’era la porta;
e contro la porta furono dirette, lungo il corso, le barricate mobili
con le quali si doveva alla fine prenderla d’assalto. I meglio armati,
e i più risoluti, avevano il comando dei vari gruppi di combattenti, ai
quali era affidata l’esecuzione di questo piano.

Le barricate mobili erano grandi cilindri, fatti di fascine legate con
corde, che venivano sospinte innanzi rotolandole, e dietro le quali
stavano i nostri combattenti. Le aveva pensate, e fatte eseguire,
Antonio Carnevali, già professore alla scuola militare di Pavia durante
il Regno napoleonico. Furono queste barricate che resero possibile
l’avanzarsi dei nostri sotto le fucilate d’un reggimento di fanteria, e
sotto la mitraglia d’una batteria, che difendevano la porta.

Trovandomi sulla piazza del Verziere assistetti alla costruzione d’una
di tali barricate; e più tardi, verso il mezzogiorno, spinto dalla
curiosità e dal desiderio di far qualcosa anch’io, mossi verso il ponte
di porta Tosa, per arrivare almeno fino all’imboccatura del corso.

Da lontano, nella direzione del bastione e della porta, si sentiva il
rumore continuo delle fucilate dei soldati, e dei colpi di carabina dei
nostri; e a brevi intervalli la mitraglia, rimbalzando sul selciato,
giungeva fino al _Naviglio_.

Il ponte, tra il Verziere e il tratto di strada che conduce al corso
di porta Tosa, era asserragliato da una forte barricata, alla cui
custodia stava un drappello di cittadini armati. Quand’io mi presentai
(ero un giovanetto mingherlino), non mi fecero neanche l’onore di
domandarmi dove volessi andare. Uno diede un’occhiata, sorridendo, a me
e al fioretto di cui ero armato, e mi fece un gesto che voleva dire di
lasciare il passo ad altri, e di tornare indietro.

Infatti non si lasciavano passare che persone armate di carabine o di
fucili, oppure popolani robusti, che venivano con fascine, con pali,
con corde, per rafforzare le barricate mobili.

Passare il ponte voleva dire andare al fuoco sotto la mitraglia, voleva
dire gettarsi in una mischia terribile, e affrontare la morte.

Mentre ero rimasto lì sui due piedi, un po’ mortificato, per essere
stato tacitamente dichiarato inabile, e guardavo l’affaccendarsi
affannoso di chi andava e di chi veniva, vidi che al di là
della barricata stava ritto un prete: aveva un crocifisso in
mano, e dava l’assoluzione in _articulo mortis_ ai combattenti,
che si inginocchiavano dinanzi a lui prima di andare al fuoco.
Quello spettacolo, grave e solenne nella sua semplicità, e tanto
caratteristico di quei giorni e di quel tempo, non si cancellò più
dalla mia memoria.

Passai quasi tutta la giornata nella piazza del Verziere e nelle strade
vicine, facendo anch’io un po’ di tutto, per quel che potevo nel limite
delle mie forze, aiutando a portar travi ed assi, sacconi e masserizie
per rinforzare le barricate. Poi c’era sempre qualche notizia o qualche
ordine da portare; o si era chiamati in un’osteria, o in un caffè, o in
qualche casa a fonder palle e a far cartucce. Intanto venivano a mano a
mano i feriti, portati nelle case o all’ospedale. Vidi tra questi, su
una barella, un bel giovane, squarciato dalla mitraglia; mi si disse
ch’era l’ingegnere Stelzi. Di tanto in tanto cadevano anche nella
piazza dei razzi, o _racchette_ come le chiamavano allora, che erano
ancora in uso nell’artiglieria austriaca.

Questi razzi molte volte riuscivano innocui; ma in quel giorno vidi
parecchi cittadini rimanerne feriti.

Andavano e venivano dal ponte dei piccoli e coraggiosi messaggeri,
che avevano libero il passo, e ch’erano gli alunni dell’Orfanotrofio,
detti dal popolo i _Martinitt_. Col loro mezzo i combattenti del corso
di porta Tosa comunicavano coi varî punti della città, e col Comitato
della difesa. Questi valorosi figlioli della beneficenza cittadina
erano argomento dell’ammirazione di tutti.

E tutti, ogni tanto, alzavano gli occhi in alto, nella direzione della
più alta guglia del Duomo, sulla quale sta la statua della Vergine, con
cui i milanesi sono in grande confidenza, come col genio tutelare della
casa, e la chiamano la _Madonnina_. Essa vede da tanti anni le nostre
gioie e i nostri dolori; situata sì in alto, pare più vicina al cielo,
al quale i milanesi amavano sperare che dicesse in quei momenti una
buona parola per loro. Quando, nella terza giornata della rivoluzione,
si vide sventolare in mano alla _Madonnina_ la bandiera tricolore,
nessuno dubitò più della vittoria. Da tutta la città si levò un grido
di trionfo e di gioia, come se la _Madonnina_ avesse fatto causa
comune con noi, e avesse preso Milano sotto la sua protezione[13]. E
ogni tanto si guardava in su, per assicurarsi che la bandiera della
_Madonnina_ sventolasse ancora.

Verso la sera della quinta giornata, le grida _vittoria, vittoria_,
fecero accorrere e affollare verso il ponte quanti erano in piazza,
e questa volta la barricata e i suoi custodi non valsero più a
trattenere la gente. Potei anch’io passare il ponte, e avanzarmi fino
all’imboccatura del corso.

La mitraglia non rimbalzava più; tutto il combattimento s’era ridotto
alla porta. Era stata presa, poi incendiata, poi ripresa dagli
austriaci, poi ancora dai nostri; ora bruciava. Gli austriaci si erano
ritirati, lateralmente, sui bastioni, e facevan fuoco sulla folla
che correva verso la porta. Le prime case del corso, in vicinanza
al bastione, ardevano, e le fiamme si elevavano alte nell’oscurità,
crepitando; il terrore di quello spettacolo era accresciuto dalle grida
della vittoria, dagli urli degli assalitori, e dai lamenti acuti dei
feriti, o di donne fuggenti. Ogni tanto qualche panico ricacciava e
disperdeva la folla, che poco dopo ritornava con nuovo furore.

Corsi a casa a confermare anch’io la gran notizia della presa di Porta
Tosa, chiamata da quel momento dal popolo Porta Vittoria (Decreto
6 aprile 1848), e trovai mia madre agitatissima, perchè ormai da
ventiquattro ore non s’era più veduto Emilio. Non lo rivedemmo che la
mattina seguente, e allora ci narrò le varie peripezie della giornata,
che gli avevano impedito di venire in via dei Durini.

Calata la notte, e cessato il fuoco a Porta Tosa, si principiò a
sentire un cannoneggiamento lontano, che pareva venisse dalle vicinanze
del castello. Ed ecco subito giungere ordini nelle case di sorvegliare
attentamente i tetti, le soffitte, i fienili, poichè pareva che
incominciasse un bombardamento più vigoroso.

Eccomi ancora di guardia su di un tetto, questa volta della via dei
Durini, passandoci una notte umida, fredda, appoggiato ad un fumaiuolo,
e ravvolto in una coperta di lana; nè la stanchezza nè il sonno mi
avrebbero potuto vincere dinanzi allo spettacolo spaventevole di quella
notte. Dalle parti del castello e lungo un tratto dei bastioni, si
vedeva una grande striscia di fuoco, che in vari punti si elevava con
fiamme alte e sinistre nella notte nerissima.

Erano incendi di case e colonne di fumo, era il fuoco dei battaglioni
austriaci e delle artiglierie, che assieme tiravano contro la città,
senza tregua, con un rumore indiavolato, che scoteva l’aria e la terra.
Era uno spettacolo cupo, grandioso, che la notte rendeva più misterioso
e spaventevole.

Tutti, come seppi poi, erano rimasti in piedi quella notte, compresi
da un muto terrore; tutti s’erano domandati ansiosamente se un corpo
d’insorti, o una avanguardia piemontese, fossero venuti a dar l’assalto
alle mura; o se principiassero l’incendio e il saccheggio della città.
Tutti erano trepidanti, silenziosi. Anche le campane a martello in
alcuni punti tacevano.

— «_Alt!_ chi sei tu?» chiesi a un tratto ad un’ombra bianca che si
avanzava verso di me pian piano, e facendo scricchiolare le tegole del
tetto.

— «Sono una sentinella, viva Pio IX!»

— «Parola d’ordine!»

— «_Augusto Anfossi_».

E chi mi rispose così venne a sedersi accanto a me, tutto ravvolto in
una coperta di lana bianca e con uno spadone antico a due mani sulla
spalla.

Riconobbi in lui quel guerriero che avevo già osservato più volte il
giorno prima al ponte di Porta Tosa, e che, pur accorrendo dove si
sentivano le fucilate, procurava che la sua coperta di lana facesse
sempre delle pieghe bizzarre con una certa pretesa artistica. Era un
giovanotto sui vent’anni.

Si principiò, io e lui, con l’almanaccare su quello strepito diabolico
e su quei fuochi. Il mio collega ne sapeva quanto me, ma soprattutto
ammirava le tinte purpuree incandescenti del cielo. E intanto prese
a narrarmi, con la voce rauca, e con un linguaggio un po’ slegato e
fantastico, i mille episodi della presa di Porta Tosa e di altri fatti
ai quali aveva preso parte, prima con un fucile che gli si era rotto,
poi con lo spadone, uno spadone antico, che diceva essere una bellezza.
Alla fine gli domandai:

— «Sei uno studente?»

— «Ma che!» mi rispose con una certa alterigia. «Sono un artista, un
pittore!»

— «Ed hai fatto molti quadri?» gli domandai.

— «No, ma ne ho già in mente tre... ed ora penso a un quadro... _la
scena di questa notte veduta da un tetto, la luce dll’alba, e il
bombardamento della città!_ che contrasto!... una cosa magnifica!
vedrai! che bellezza!»

— «Come ti chiami?»

— «Sebastiano De Albertis.»

Quell’amicizia, incominciata sul tetto, continuò; egli fece parecchi
quadri, non la scena veduta da un tetto, che gli diedero una
certa fama; fu garibaldino nel ’59 e dipinse delle scene militari;
rammentammo più volte la notte passata insieme, appoggiati ad un
fumaiuolo. La rammentammo anche pochi giorni prima che morisse,
trovandoci in una Commissione che preparava pel 50.º anniversario delle
Cinque Giornate quei festeggiamenti ch’egli non doveva vedere.

Alle tre dopo la mezzanotte tutto quel rumore diabolico improvvisamente
cessò. Seguì un silenzio profondo, ansioso, che durò un paio d’ore;
poi ad un tratto si sentirono delle grida lontane, che parevano degli
evviva; poi alcuni campanili incominciarono a sonare non a martello, ma
a festa; poi un rumore nuovo, come di voci allegre e di gente festosa,
scoppiava da ogni punto, cresceva, e saliva distinto fino a noi.

— Che c’è? Che sarà? — esclamammo noi due, e corremmo rapidamente in
strada.

In strada la gente scendeva da tutte le case. Non si sentiva più che un
grido: _Sono andati! Sono andati!_

Tutti si ripetevano l’un l’altro la grande notizia, tutti si
abbracciavano, si baciavano, piangevano; le porte, le finestre si
spalancavano; da ogni finestra sventolava una bandiera fatta coi tre
colori; molti vi accendevano dei lumi. Sono andati! Sono andati!

Oh, come descrivere a chi non l’ha veduta la gioia, la frenesia di
quell’ora!

Chi aveva sopportato i dolori e la vergogna della schiavitù provava ora
la fierezza del sentirsi libero, la confidenza nelle proprie forze, la
fede nel proprio avvenire. Nessuno avrà fatto l’analisi di tutto ciò in
quel momento, ma pure c’era tutto ciò in quel grido unanime, pieno di
gioia e di ebbrezza — _sono andati, sono andati!_ — che erompeva come
una voce sola.

— «_Giovanin Bongee_ è vendicato!» fu la prima parola che mi disse il
Correnti quando lo incontrai in quel giorno.

Dopo avere scambiato anch’io molti abbracci e molti baci, non solo con
mia madre, ma con quanti c’erano in casa Garnier, ritornai in fretta
a girandolare per le strade, spingendomi verso tutti quei posti dove
sentivo che c’erano stati i principali combattimenti. Dappertutto era
il medesimo spettacolo; dappertutto sventolavano drappi, tele, cenci
d’ogni qualità, purchè fossero bianchi, rossi e verdi; e la gente non
cessava dal contemplare, dall’inebbriarsi quasi di quei colori, simbolo
di tante speranze e di tanti dolori. Tutti portavano grandi coccarde
d’ogni foggia ai cappelli e sui vestiti; e dalle coccarde pendevano
medaglie col ritratto di Pio IX e col motto: _Italia libera, Dio lo
vuole_.

Nelle strade era uno scambiarsi continuo di saluti, di rallegramenti,
di abbracci, tra conoscenti e non conoscenti. A ogni passo c’era
qualche crocchio in cui si scambiavano notizie, o si narravano i fatti,
gli episodi di quei giorni; seppi allora che con quel grande strepito,
che ci aveva colpiti nella notte, gli austriaci avevano protetto la
loro ritirata.

Sentii anche che nelle corti del Castello si vedevano cose
raccapriccianti, pozze di sangue, cadaveri di uomini e di donne,
fucilati, mutilati.

_Sono andati! Sono andati!_ E in tutti era una festa, un entusiasmo
che pareva un delirio; tutti eran mossi da una smania di espandersi,
di affratellarsi, di affaccendarsi. Molti continuavano il lavoro alle
barricate, specialmente quelli che ne erano stati lontani nei giorni
antecedenti; le rinforzavano, e persino le abbellivano, gloriosi di
quell’opera cittadina, che in quel giorno pareva il presidio eterno
della comune libertà.

Non mancavano, anzi abbondavano, i tipi comici, che furono poi chiamati
gli _eroi della sesta giornata_, che andavano in giro facendo pompa
dei più strani costumi; con corazze antiche sul petto, con cappelli
piumati o morioni, con stivali di cuoio giallo, con armature ed
abiti da teatro. Queste strane fogge di _abbigliamenti patriottici_
continuarono, pur troppo, per molto tempo ancora; e anzi comparve una
moda nel vestire, chiamata alla _lombarda_, e che consisteva in un
camiciotto, o _blouse_, di velluto nero, di fabbrica nazionale, stretta
alla vita da una cintura di pelle da cui pendeva una daga o una spada;
colletto bianco, grande, rovesciato sulle spalle; calzoni corti di
velluto nero; stivali che arrivavano fino al ginocchio; cappello alla
calabrese con pennacchio; e una collana che scendeva sul petto, e da
cui pendeva un medaglione, ch’era di solito il ritratto di Pio IX.

Anche ad alcuni uomini serî non era sembrato strano, in quei primi
giorni, il vestire a un di presso così. E non era sembrato strano
neppure a Cesare Correnti, segretario generale del Governo Provvisorio,
chè appunto in quei giorni vidi anche lui vestito di velluto, alla
_lombarda_, con la fusciacca tricolore a tracolla, e una sciabola al
fianco.

Anche parecchie eleganti signore adottarono sulle prime questo
strano genere di abbigliamento, e trovarono modo di adoperare, quali
ornamenti delle _toilettes_, fusciacche tricolori, cappelli alla
calabrese, pistole, e persino, Dio glielo perdoni!, spade e sciabole di
cavalleria.

La festività, mezzo seria e mezzo comica, che seguì in Milano la
ritirata degli austriaci, si protrasse per parecchi giorni. Nessuna
stranezza stupiva, o pareva tale, usciti tutti come eravamo da quel
grande avvenimento, che superava ciò che di più strano poteva figurarsi
la nostra immaginazione.

Ci furono anche, ad onor del vero, delle manifestazioni e degli atti
più serî. Il 24 marzo un manipolo di giovani, ch’erano stati tra i più
valorosi durante la rivoluzione, sotto il comando di Luciano Manara,
uscivano dalla città inseguendo la retroguardia austriaca. Quei giovani
furono il primo nucleo di quel battaglione lombardo di circa ottocento,
che, dopo avere valorosamente combattuto a fianco dell’esercito
piemontese sui campi di Lombardia, e più tardi alla Cava in Piemonte,
chiudeva la sua breve e gloriosa vita militare decimato sugli spalti di
Roma.

Un altro gruppo di cittadini milanesi s’avviava intanto penosamente,
dietro i carriaggi austriaci, verso Verona: erano gli ostaggi.

In seguito all’assalto e alla presa del _Broletto_, eseguiti per ordine
del generale Wallmoden, sull’imbrunire del 18 marzo, erano stati presi
circa cinquanta cittadini, e condotti prigionieri in castello. Tra
questi, n’erano stati scelti una ventina quali ostaggi, al momento in
cui l’armata si ritirò, nella notte del 22 marzo[14].

Le truppe giunsero la sera del 23 marzo a Melegnano, conducendo seco
gli ostaggi, affidati alla custodia d’un Commissario di Polizia, un
tal De Betta. Furono rinchiusi in un camerone oscuro, ove poco dopo
si vide una luce sinistra, seguita da un colpo, e da un grido; uno
degli ostaggi cadde mortalmente ferito; era il conte Carlo Porro. Ne
fu incolpato il Commissario De Betta, che poi se ne scolpò, e attribuì
il colpo a un soldato, e a un caso fortuito. Il Porro morì il giorno
dopo, e fu una grave perdita. Cultore di scienze naturali, fu uno dei
fondatori del museo di Milano; cittadino autorevolissimo, era stato
in quei giorni uno dei dirigenti il movimento del paese, di cui era un
onore e una speranza[15].

Gli ostaggi furono condotti a Klagenfurt, e più tardi vennero scambiati
con prigionieri austriaci.

Così si chiudeva quel primo giorno di trionfo. I gridi di gioia
coprivano molti gemiti, e molte lacrime, come segue la sera d’ogni
trionfo; ma la gioia era tanta, che perfino gli afflitti gioivano, o
almeno erano più rassegnati nel dolore.

Intanto giungevano notizie da ogni parte della Lombardia e del Veneto.
Dappertutto era la stessa cosa; come in una polveriera dove si fosse
dato fuoco a una miccia, nel tempo stesso in ogni città, in ogni
borgata, in ogni villaggio, ognuno a suo modo aveva fatto la sua
rivoluzione, quasi vi fosse stata un’intesa, e con gli stessi caratteri
di concordia, di entusiasmo, e talora di imprevidenza generosa e
ingenua.

Le lezioni dell’esperienza vennero poi: inesorabili e dure; ma non
turbiamo quei momenti felici.


  NOTE.

  [13] Durante i primi due giorni della rivoluzione il terrazzo
  più alto del Duomo era occupato dai cacciatori tirolesi, che
  colle loro carabine tenevano sgombre la piazza del Duomo e le vie
  vicine. Appena cessò il fuoco nel terzo giorno, Luigi Torelli,
  che fu poi ministro e senatore del Regno, accompagnato da un altro
  cittadino, ebbe l’idea felice e coraggiosa, di salire sul Duomo per
  assicurarsi che i cacciatori si fossero ritirati, e di piantarvi la
  bandiera tricolore per indicare ai cittadini che si era padroni del
  centro della città; fatto che non solo rialzò gli animi in tutta la
  città, ma anche nei paesi circonvicini.

  [14] Fu dato ordine di prendere il Palazzo del _Broletto_, ove
  risiedeva il Municipio, _a qualunque costo_, al colonnello Perrin
  che comandava un reggimento boemo. Lo Schönhals però, nella storia
  sulla campagna d’Italia, attribuisce la presa del Broletto al
  colonnello Döll comandante del reggimento Paumgater.

  [15] Gli ostaggi erano: Antonio Bellati delegato (Prefetto) di
  Milano, conte Giuseppe Belgiojoso assessore municipale, conte
  Ercole Durini, nob. Pietro Bellotti assessore municipale, marchese
  Giberto Porro, conte Giulio Porro, nob. Filippo Manzoni, nob.
  Carlo De Capitani, nob. Francesco Giani, Enrico Mascazzini,
  nobile Alberto De Herra, dottor Antonio Peluso, Enrico Obicini,
  Mascheroni, Citterio, ing. A. Brambilla, Carlo Crespi, Carlo Pozzi,
  Guglielmo Fortis, nob. Carlo Porro. Lungo la strada ne furono
  aggiunti altri sedici, arrestati tra i notabili dei paesi che le
  truppe attraversavano nella ritirata. Carlo Porro era fratello del
  conte Alessandro Porro, che divenne poi Senatore e Presidente della
  Cassa di Risparmio di Milano.




CAPITOLO VI.

1848.


IV.

  _Sommario:_ Dopo la partenza degli Austriaci da Milano. —
  L’opinione pubblica. — Arrivo di volontari. — La Guardia Nazionale.
  — Cartucce fatte dalle signore. — La Palestra Parlamentare. — Un
  orologio rubato e un corpo di guardia. — Il Circolo Repubblicano
  detto l’Associazione Nazionale Italiana. — La processione del
  _Corpus Domini_. — Mazzini. — I partiti e la _fusione_ col
  Piemonte. — I giornali. — Debolezza del Governo Provvisorio. —
  Cattaneo. — Cernuschi. — Dimostrazioni pubbliche, agitazioni. —
  Il battaglione dei volontari studenti e chierici. — In casa di mia
  nonna, zii e cugini.

Quando ritorno col pensiero all’impressione generale rimastami di
quel breve tempo in cui allora Milano fu libera, e ci ripenso con
più maturo giudizio, non ritrovo più ciò avevo tanto ammirato poco
tempo prima, ciò che mi aveva tanto esaltato e commosso durante la
rivoluzione, e nei mesi che la precedettero; non ritrovo quell’energia,
quell’abnegazione, quella concordia di tutti che avevano lasciato nel
mio animo dei ricordi così alti ed ammirevoli. Dopo la vittoria parve a
molti che tutto fosse finito: l’eroismo si riposò.

Tutto ciò che viene dopo non ha più la stessa impronta, non ha
più, oserei dire, la stessa serietà, ed ha bisogno di tutte quelle
giustificazioni che s’invocano a favore dell’inesperienza.

Si passava parte della giornata in istrada. Nei primi giorni si
gironzava di crocchio in crocchio a sentir notizie strepitose, che
venivan dai paesi di fuori, dalle provincie e da Venezia; o a sentir
discussioni politiche, già torbide nella loro ingenuità. Poi, ogni
tratto, una dimostrazione patriottica, o una funzione religiosa per
vivi e per morti. Poi un ricevimento di qualche drappello di volontari,
che veniva dalle città lombarde o da altre regioni. Eran drappelli di
solito male in arnese o vestiti in modi bizzarri, che vociavano cose
ancor più bizzarre, inneggiando alla concordia con grida fatte per
distruggerla.

Fra questi arrivi rammento quello d’una schiera di volontari napoletani
condotti dalla principessa Cristina Belgiojoso Trivulzio, la quale li
aveva arrolati, e ne faceva le spese.

Tutti questi drappelli venivano poi riuniti a diversi Corpi di
volontari, che mano mano partivano per il campo. Questi Corpi, in
cui c’eran pure dei giovani ottimi e valorosi, erano male ordinati,
e dimostravano l’insufficienza dei concetti e dei metodi coi quali si
credeva dai più che si potesse condurre a fine la guerra.

Allora c’erano anche quelli che credevano superflua la venuta di Carlo
Alberto e dell’esercito piemontese!

Le vie di Milano furono subito inondate da agitatori, da tribuni, da
arruffapopoli, che sono l’indizio, come i vermi, d’un corpo in via di
dissoluzione.

Si dava una grande importanza alla Guardia Nazionale, che molti
chiamavano seriamente il _Palladio della Libertà_; nome che le rimase
anche per un pezzo. Era stata uno dei dogmi liberali del 1830, e quindi
faceva parte dell’ortodossia del tempo. Tanti, che sarebbero stati
pel disordine, passavano alla causa dell’ordine solo perchè vestivano
l’uniforme di Guardia Nazionale.

Quando, il 26 di marzo, entrarono dalla Porta Sempione il generale
Passalacqua e il generale Bes con un corpo di belle truppe piemontesi,
cinquemila uomini di fanteria e mille lancieri, il fatto commosse
meno di quando la gente correva a vedere cinquanta genovesi o venti
pavesi, od altri gruppetti di volontari, vestiti alla lombarda, col
solito camiciotto di velluto e le solite penne. _Il 22 marzo_, giornale
ufficiale del Governo Provvisorio, il giorno prima dell’arrivo delle
truppe piemontesi, esortava i buoni milanesi a fare ad esse buona
accoglienza, e a non badare a _malumori per conflitto d’opinioni,
poichè la loro venuta era un concorso fraterno, e non un intervento
politico, ed anzi i piemontesi ci sarebbero stati grati d’aver
loro offerta l’occasione di mettersi con noi nell’impresa di cui si
trattava_.

I buoni milanesi, nella luna di miele della loro vittoria, erano gelosi
che altri potessero venire ad acquistare un qualche alloro anch’essi,
e forse maggiore. La vittoria li aveva inebbriati e accecati. Che dura
lezione li aspettava tra poco!

Per avere la Guardia Nazionale c’era da per tutto allora una smania
quasi pari a quella che una ventina d’anni dopo ci fu per abolirla.
Non era poco quindi l’affaccendarsi anche in Milano, in quei giorni,
per ordinare la Guardia Nazionale, a piedi e a cavallo, per eleggere i
graduati, per scegliere le uniformi, per stabilirne le prerogative e i
servizî. Tutto era argomento di grandi discussioni e di gare; di gare
anche tra quelli che avendo una bella barba aspiravano al grembiule di
cuoio e alla scure dello zappatore. Quanti buoni padri di famiglia non
ho veduto nelle parate, in grazia della barba, sfilare con l’uniforme e
con l’aspetto truce del _guastatore_!

Più serio e più commovente era l’affaccendarsi in tutte le famiglie,
ricche e povere, per apparecchiare biancherie, filacce, bende, e
cartucce per i soldati. Ricordo mia madre, e tant’altre signore,
che da mattina a sera vi attendevano con passione e con scrupolo. Le
cartucce fatte nelle famiglie venivano portate alla caserma del Genio,
situata ove ora sorge il palazzo della Cassa di Risparmio; e lì era un
continuo andirivieni di signore e signorine, che andavano a portare
le cartucce fatte, o a ricevere istruzioni e munizioni per il loro
compito giornaliero. A questo ufficio sopraintendeva il dottor Giuseppe
Terzaghi, che undici anni dopo doveva essere mio collega, valente e
amatissimo, nella prima Giunta Municipale di Milano risorta.

Anche in ciò, come in tant’altre cose pubbliche, si procedeva con mezzi
piccoli e inadeguati al bisogno, poco seri anche, ma pur rispettabili,
per quell’alto e sincero sentimento che animava tutti; poichè la
devozione alla patria, e i sentimenti generosi che avevano ispirata e
diretta la rivoluzione, furono ancora l’ispirazione d’ogni atto in quei
primi momenti della libertà.

La proprietà e l’ordine furono rigorosamente rispettati, e c’era in
tutti una gara di sentimenti generosi. Erano stati fatti prigionieri
non solo molti soldati, ma moltissimi agenti della Polizia, tristi
arnesi di rigori e di fatti odiosi, che rammentavano giorni nefasti
e privati dolori. Eppure furono perdonati; _offriteli a Pio IX!_ era
detto ingenuamente in un proclama dei primi giorni. Nessuna vendetta
fu compiuta, nessun fatto di sangue venne a smentire la generosità dei
vincitori; nessuna rappresaglia fu fatta per gli uccisi, e per molti
atti inutilmente feroci a cui s’erano abbandonati, in alcuni punti
della città, i soldati austriaci.

Tra le cose poco serie d’allora, che ritrovo nella memoria, c’è anche
un Circolo, tipico di quei giorni, e che si chiamava la _Palestra
Parlamentare_. Era fatto, come diceva il suo nome, per preparare, con
una ginnastica vocale, i futuri oratori della Camera; per trattare in
astratto i maggiori problemi della politica e dell’amministrazione
degli Stati; e per far piani di guerra e disegni politici per uso
dell’Italia.

La _Palestra_ era frequentata, naturalmente, da tutti i chiacchieroni
disoccupati di Milano, che andavano a sfoggiarvi una rettorica vuota
e comica. Confesso però che allora non dicevo così. Giovanetto e
inesperto qual’ero, pigliavo tutte quelle chiacchiere sul serio, e
invidiavo meravigliato la facondia di quegli oratori. Ma pazienza, se
fossi stato solo; il guaio era che moltissimi applaudivano a quelle
ciarle, e ci credevano. Così si diffondevano nel pubblico i più strani
e deplorevoli concetti sulle faccende pubbliche; e ciò in momenti di
tanta gravità.

Avevamo la libertà da pochi giorni, e la _Palestra_ ne chiedeva le
istituzioni e le forme a cui i popoli più civili non erano arrivati che
dopo molti anni, e molte vicende. Mire precoci, che abbiamo vedute poi
ripetersi anche più tardi.

Uno degli argomenti su cui più si affannavano gli oratori della
Palestra era quello della _Costituente_. Lo Statuto di Carlo
Alberto, dato da poche settimane, doveva essere abolito, dicevano,
e un’Assemblea Costituente doveva, a guerra finita, fare al Regno
dell’alta Italia il regalo d’un nuovo Statuto.

Si pensi quale Statuto, che specie di Costituzione, ci avrebbe regalato
una _Costituente_ sorta in mezzo a tanta confusione di idee e a tanta
inesperienza politica! La storia ce le ha mostrate più volte tali
_Costituenti_ e tali Costituzioni sorte da esse; Costituzioni con le
quali non si governa, e che conducono ai colpi di stato. Eppure il
concetto della _Costituente_ si faceva strada ogni giorno più, ed era
entrato nei propositi degli uomini politici più influenti, e dello
stesso Governo Provvisorio, che doveva farne una condizione nell’atto
di fusione col Piemonte. Inutile dire che anch’io, modestamente, ne ero
fanatico; senza capirne nulla, si intende.

Un piccolo episodio capitato, proprio a me, mi dimostrò in quei giorni
come fossero interpretati i nuovi diritti del libero cittadino, che
sentivo predicare alla _Palestra_. Stavo leggendo, un dopo pranzo,
in mezzo a un gruppo numeroso di persone, un proclama del Governo
Provvisorio affisso a un muro, quando a un tratto vedo una mano che
mi rasenta il vestito, e mi strappa l’orologio. Mi volto di botto,
e piglio pel collo il ladro. Questo protesta, grida, e si appella
al pubblico contro di me. Grido anch’io, e reclamo il mio orologio.
La gente ci si fa intorno, ascolta or l’uno or l’altro, e non sa
a chi dar ragione. Finalmente si fa innanzi un buon cittadino, il
quale sentenzia che per decidere la questione bisognava andare a un
posto, ch’era vicino, della Guardia Nazionale, ma non alla Polizia
«trattandosi, diceva, d’un fatto presunto ma non provato;» e si offre
di accompagnarci. Tutti gli danno ragione, ed eccoci poco dopo tutti e
tre al corpo di guardia.

Il comandante del posto e i militi fanno circolo intorno a noi,
e stanno a sentire le nostre ragioni con un contegno imparziale.
Io chiesi innanzi tutto che si frugasse nelle tasche del mio
contradditore, ma questo vi si oppose, perchè ciò era una violazione
delle saccocce, contraria ai diritti d’un libero cittadino, come si
diceva anche alla _Palestra_. Allora io proposi che ci conducesse tutti
e due alla Polizia; ma anche ciò non fu gradito dal mio ladro, il quale
rispose che se non spiaceva a me spiaceva a lui di attraversare la
città in mezzo alle guardie.

Allora il buon cittadino, il probo-viro, che ci aveva accompagnati,
sentenziò una seconda volta, e disse: che potevamo bensì andare alla
Polizia, se eravamo d’accordo, ma soli e senza accompagnamento di
guardie. Questo parere fu trovato savio da tutti, anche dal ladro.

Era sull’imbrunire, ed eccoci avviati noi due, pacificamente, dal corpo
di guardia di S. Babila verso la Polizia, che risiedeva nella via di
S. Margherita, attraversando la lunga viuzza Bagutta che a quell’ora
era anche deserta. Io non ero molto tranquillo, a dir la verità, e mi
domandavo come la sarebbe finita. La finì subito: come fummo vicini
alla svolta della via Sant’Andrea, il mio compagno si guardò in giro,
non c’era nessuno; allora mi diede improvvisamente un gran spintone,
che mi fece perdere l’equilibrio; io andai a terra, dietro una
barricata non ancora disfatta; e lui via a gambe; volli rincorrerlo, ma
non lo vidi più. E non vidi più, s’intende, l’orologio!...

Poco dopo ero a casa a raccontare l’avventura alla mia buona mamma;
le misi le braccia al collo e piansi. Quell’orologio era il mio primo
orologio d’oro, ed era l’ultimo regalo che mi aveva fatto il mio povero
babbo.

Un Circolo più serio della _Palestra_ e diversamente pericoloso, era
sorto frattanto a Milano nell’aprile, sotto il nome di _Associazione
Nazionale italiana_, fondato da Mazzini, e che aveva per organo
l’_Italia del popolo_. Era un Circolo composto di soci prettamente
repubblicani.

Io avevo letto diversi scritti di Mazzini, e n’ero entusiasta. La
sua fede nell’Italia e in Dio, il suo linguaggio mistico, umanitario,
trovavano facilmente la via del mio cuore giovanile e della mia mente
vergine di esperienza e di riflessione. Mio fratello Emilio, in quei
giorni, aveva conosciuto Mazzini personalmente; io ero troppo giovane
per procurarmi questo onore; ma avevo un gran desiderio di conoscerlo
almeno di vista.

La mia curiosità fu appagata, per la prima volta, in una circostanza
che oggi i suoi correligionari crederebbero appena: lo vidi nel corteo
della processione del _Corpus Domini_.

Siccome in quei giorni tutto si faceva ancora in nome di Pio IX, e
del connubio tra la patria e la religione, così anche la processione
del _Corpus Domini_ era stata un avvenimento a cui aveva preso parte
ogni ordine di cittadini. L’Arcivescovo era seguito da tutto il clero
della città; c’era il Governo Provvisorio; c’erano tutte le autorità
cittadine, e governative, e tutte le società, compresa l’_Associazione
nazionale italiana_ e la redazione del giornale l’_Italia del popolo_,
precedute da Giuseppe Mazzini.

La processione fece un lungo giro per la città, ch’era tutta riccamente
ornata a festoni, a bandiere e ad arazzi. Alla processione facevano
ala tutte le legioni della Guardia Nazionale. Ma finiti gli sfoghi
della concordia e della fratellanza, che abbracciava tutti, da Pio
IX a Mazzini, in un medesimo amplesso, quella luna di miele cominciò
a intorbidirsi. Dinanzi alle questioni positive della politica, e ai
diversi indirizzi delle faccende pubbliche che ne erano la conseguenza,
incominciavano a sorgere le divergenze, e le opinioni si raggruppavano
intorno ai vecchi partiti politici e ai partiti in formazione.

L’argomento che sollevò le prime discussioni tempestose fu quello della
_fusione_, come dicevasi allora, e cioè dell’unione delle provincie
lombarde col Piemonte. Chi voleva che la _fusione_ fosse votata subito,
chi la voleva differita alla fine della guerra, e chi non la voleva
affatto. Il partito della _fusione_ immediata era il più numeroso, come
la votazione lo dimostrò; e infatti per la fusione ci furono 561 mila
voti favorevoli e 681 contrari: ma gli altri due partiti erano i più
chiassosi e irrequieti. Al primo partito appartenevano, naturalmente,
i monarchici; agli altri due appartenevano gli ingenui, e tutti i
repubblicani. I repubblicani poi erano in parte unitari, capitanati
dal Mazzini, e in parte _federalisti_, capitanati dal Cattaneo; il
quale in nome delle sue repubblichette dell’avvenire era diventato
improvvisamente battagliero, e nemico acerrimo del Governo Provvisorio,
di Carlo Alberto, dei monarchici e degli unitari.

Il Governo Provvisorio, pur composto di degnissime persone, era
alquanto deboluccio, e lo rendevano ancor più debole e incerto le lotte
dei partiti, le dimostrazioni della piazza e gli attacchi dei giornali.
Talchè, sulla fine del maggio, un certo Urbino, capitanando una mano di
esaltati, potè avere l’audacia di invadere il Palazzo Marino e tentare
di rovesciare il Governo Provvisorio. Fu un atto breve, insensato,
e subito represso, ma che dimostrò come nell’animo di parecchi fosse
penetrata la convinzione della debolezza del Governo.

I giornali che più vivamente attaccavano il Governo Provvisorio erano
l’_Italia del popolo_, organo di Mazzini, la _Voce del popolo_ in cui
scrivevano alcuni giovani sotto la direzione del dottor Pietro Maestri
e di Romolo Griffini, e l’_Operaio_ diretto da Pietro Perego, il quale
ritornati gli austriaci offrì i suoi servigi a Radetzki, e diresse
a Verona un giornale ufficiale del Governo militare. L’_Operaio_
era un violento e tristo libello giornaliero, in cui, è doloroso il
dirlo, alle volte sfogavano le loro ire partigiane contro il Governo
Provvisorio, il Cattaneo ed Enrico Cernuschi. Il Governo Provvisorio
era difeso da un giornale ufficiale, _Il 22 Marzo_, in cui scrivevano
G. Carcano, L. Sala, E. Broglio, ed altri.

Il Cernuschi, che veniva da una modesta famiglia di Monza e che doveva
finire suddito francese e milionario, fu uno dei tipi più originali
della rivoluzione milanese del quarantotto. Quantunque devoto a
Cattaneo, fu tra quelli che vollero la rivoluzione, e vi diede prove
di valore. Era un giovane d’ingegno, di qualche coltura e di molto
coraggio. Di opinioni repubblicane e di gusti signorili, frequentava
le famiglie più aristocratiche di Milano, e faceva l’agitatore contro
Carlo Alberto e contro i monarchici; democratico fino a collaborare
nel giornale plebeo l’_Operaio_, amava mostrarsi nelle migliori
società, conservando abitudini ed amicizie distinte. Vestiva con una
certa eleganza affettata, e diversamente dagli altri: aveva il viso
completamente sbarbato; portava un cappello basso a larghe tese,
sempre la giubba nera, un’ampia cravatta bianca, e il gilè pur bianco
e a larghi risvolti alla Robespierre; in ogni stagione non usava che
scarpini di pelle lucida.

Durante i mesi del Governo Provvisorio, il Cernuschi, bisognava pur
dirlo, non fu che uno sterile agitatore; l’anno dopo, come è noto,
chiuse a Roma con valore e dignità la sua vita di rivoluzionario
italiano, per diventare poi un abile e fortunato finanziere francese.
Non prese più nessuna parte agli avvenimenti patrii, e si fece
francese.

Le agitazioni politiche, le dimostrazioni, le feste patriottiche, in
mezzo a un popolo impressionabile e inesperto, nuovo alla politica,
inconscio della grave condizione in cui si trovava, esercitavano una
pessima influenza sull’andamento della cosa pubblica. Ogni momento
si batteva la generale, e accorreva la Guardia Nazionale: ora c’era
una dimostrazione per una vittoria; ora la partenza o l’arrivo di
volontari; ora qualche forestiero illustre da festeggiare, e nominerò
tra questi il poeta polacco Miçkzewich, che mise anch’esso sossopra
mezzo Milano. E intanto l’ordinamento delle forze militari, della
difesa e della finanza, procedevano a rilento e in modo affatto
inadeguato al bisogno.

Li rammento ancora quei poveri volontari mal vestiti e mal
disciplinati; e quel battaglione di studenti e di seminaristi, ai
quali non s’era data neanche una propria divisa militare. Li avevano
vestiti con certe giubbette ridicole trovate nei magazzini delle
guardie austriache di Polizia, non mutandoci che le mostre gialle in
mostre rosse. Se ne rideva; ma avrebbero potuto ispirare piuttosto
un sentimento di mestizia. Quei bravi giovanotti, ch’erano il fiore
degli studi e delle speranze, per un concetto ideale, ma imprevidente,
partivano riuniti tutti in un medesimo corpo; cosa che avrebbe resa più
grave la sciagura se nella guerra quel battaglione fosse stato colpito
da un disastro che lo avesse in gran porte distrutto, annientando d’un
colpo tante vite sulle quali la patria sperava.

Andai anch’io a vederli partire. Partivano tra gli evviva, tra gli
abbracci, tra le lagrime delle famiglie, che li attorniavano e li
baciavano. Era uno spettacolo, come tutto a quel tempo, pieno di poesia
e di imprevidenza.

Tra quegli studenti, e quei chierici, ci avevo anch’io dei cugini e
degli amici: tra i chierici ricordo il cugino Ignazio Borgazzi, che
poi morì missionario a Borneo, e tant’altri, che più tardi dovevano
diventare l’onore di quel clero lombardo, il quale sapeva così
felicemente riunire il sentimento della religione e della patria.

In quell’anno io ero studente di ginnasio, e prendevo le mie lezioni
in casa. È facile immaginarsi che annata scolastica fosse quella;
un bollettino colle notizie gridato da uno strillone, o un rullo di
tamburo, bastavano al professore e allo scolaro per interrompere la
lezione e farli scendere in strada. Nel luglio poi si fecero degli
esami in fretta e in furia, nei quali si veniva licenziati senza che si
chiedesse molto, e con una specie di assoluzione.

Mio fratello Emilio era studente dell’Università, ma non credo che le
_Pandette_ lo occupassero molto: lo occupavano invece la politica, gli
amici, i circoli, i ritrovi. Egli aveva fatto la conoscenza personale
di Mazzini, il quale aveva per lui molto affetto e molta predilezione.
Al Mazzini piaceva circondarsi di giovani intelligenti, per farsene
dei collaboratori e dei seguaci; ma seguaci obbedienti. E ciò otteneva
facilmente, pel molto prestigio ch’egli sapeva esercitare sulle menti
giovanili e entusiaste.

Mio fratello era pure legatissimo con Carlo Tenca, che aveva diretta in
quegli anni la _Rivista Europea_, e intorno a cui si riunivano, come
intorno al Correnti, molti giovani valenti. Per la _Rivista Europea_,
ch’era un’ottima Rivista mensile, mio fratello, pur giovanissimo, aveva
già scritto diversi articoli, che sentivo lodare.

Io ero troppo giovane per appartenere a simili società e a simili
ritrovi politici; e dacchè in casa del Correnti, ora assorto nei lavori
del Governo Provvisorio, non c’eran più le riunioni come in passato,
io dovevo accontentarmi delle conversazioni in casa dei parenti, dove
accompagnavo mia madre.

Le case dove s’andava di solito eran due; quella della nonna materna, e
quella d’uno zio Luigi Borgazzi, il quale aveva una numerosa famiglia.
Mia nonna, donna Rosa Borgazzi Caimi, aveva allora 90 anni, e presso
di lei si radunavano la sera alcuni dei suoi figli e delle sue figlie;
tutte persone mature, serie, un po’ pesanti, ad eccezione di mia
madre, ch’era la più giovane di tutte, e conservava uno spirito fine ed
arguto.

Primeggiava in quella società mio zio Giovanni Borgazzi, ch’era anche
il mio tutore, uomo colto, grave, e che aveva occupato non so quale
alto posto nell’amministrazione del primo Regno d’Italia. Sua moglie,
donna Elena Taverna, era sorella di quel conte che fondò in Milano
l’Istituto dei sordo-muti poveri di campagna. Gli altri fratelli erano:
don Luigi, amico intimo del conte Mellerio e di tutti i maggiorenti dei
conservatori clericali di Milano; don Gaetano, che in sua gioventù era
stato insieme col fratello Carlo (morto parecchi anni prima) ufficiale
nell’armata napoleonica, e aveva sofferto una lunga prigionia in
Russia; e infine don Giacomo, il quale non aveva fatta nessuna delle
cose serie che avevano fatte i suoi fratelli, ma si dava l’aria di
averne fatte di più; e da mattina a sera era sempre a cavallo.

Le sorelle di mia madre, ad eccezione della zia donna Giuseppina
Campeggi, non avevano l’aria grave dei fratelli, e si distinguevano
tutte per una grande bontà e per una certa piacevolezza di spirito.
Donna Giuseppina, invece, la quale in sua gioventù doveva essere
stata un’assai bella donna, aveva l’aria severa e matronale, che le
veniva forse dalla lunga convivenza col suo defunto marito, ch’era
stato presidente d’una Corte d’Appello durante il Regno napoleonico.
Lo ricordo ancora quello zio, sempre vestito di nero, con la cravatta
bianca a due giri, e con la parrucca incipriata. Quand’ero piccino,
gli zii Campeggi alle volte mi volevano a pranzo, ma la mia soggezione
era tale che non parlavo finchè ero con loro. Finito il pranzo, lo
zio diceva ogni volta con solennità: «I ragazzi dopo pranzo devono
_sollazzarsi_;» e per _sollazzarmi_ mi consegnava a una vecchia
cameriera, la quale mi faceva giocare al _gioco dell’oca_.

Questi miei zii e zie avevano pressochè tutti molti figlioli,
parecchi dei quali erano giovani d’ingegno e d’energia, e in quei
giorni prendevano parte attiva in vari modi agli avvenimenti della
rivoluzione.

La conversazione nel salotto della nonna si svolgeva gravemente, e i
discorsi erano press’a poco sempre i medesimi. La rivoluzione contro
gli austriaci, che non eran più quelli di Maria Teresa, era stata
accolta con qualche indulgenza, perchè fatta al grido di _viva Pio IX_;
ma era osservata con diffidenza.

Sugli avvenimenti del giorno però non si parlava che sotto voce, perchè
nessuno aveva osato dire a donna Rosa che c’era stata una rivoluzione.
Questa parola, che si univa ai ricordi della rivoluzione giacobina,
l’avrebbe fatta cadere in deliquio.

Durante le Cinque Giornate erano riusciti a farle credere che un
tempaccio orribile impedisse ai soliti della conversazione di venire
da lei, aggiungendo per di più che le cannonate erano tuoni. La grave
età di lei, e la sordità, avevano reso possibile il lasciarla in questo
inganno; ed essa, nei due o tre anni che sopravvisse al ’48, ricordava
di tanto in tanto quel gran _temporale_ che per cinque giorni aveva
interrotta la sua conversazione, obbligandola a tener chiuse le imposte
delle finestre.

Più bella e più lieta era l’altra conversazione dove mia madre
conduceva me ed Enrico: quella in casa di suo fratello, don Luigi. Ci
si andava tutte le domeniche, ed era un allegro ritrovo di giovani e di
belle fanciulle, figli di parenti e di amici. Lo zio, che sarebbe stato
un vero spegnitoio, usciva di casa subito dopo pranzo, e non tornava
che a mezzanotte. Intanto sotto gli auspicî della zia, ch’era una donna
buona e simpatica, si faceva il chiasso. Eravamo tutti assai giovani;
si giocava, si ballava, e si cantavano gli inni patriottici lietamente.
Le belle cuginette! le amavo fraternamente un po’ tutte, per non far
torto a nessuna.




CAPITOLO VII.

1848.


V.

  _Sommario:_ Primi timori e prime inquietudini. — Il Ministro
  Wessemberg offre la _pace al Mincio_. — Ripulsa del Governo
  Provvisorio. — Carlo Alberto e i suoi generali. — Armamenti
  affrettati. — Offerte generose delle principali famiglie milanesi
  e lombarde al Governo Provvisorio. — Cattive notizie. — Allarmi.
  — Agitazione pubblica. — Nomina del Comitato di difesa. — Fanti,
  Maestri, Restelli. — Mobilitazione della Guardia Nazionale. — Mio
  fratello Emilio si arruola tra i volontari di Garibaldi, da poco
  venuto d’America. — Mia madre parte da Milano con me e con mio
  fratello Enrico.

I bei giorni della pubblica felicità cominciavano a tramontare. I loro
ultimi raggi sereni erano stati, alla fine di maggio, il combattimento
di Goito e la resa di Peschiera. Quei fatti erano stati accolti con uno
scoppio di gioia che ricordava il 22 marzo.

Ma vennero presto a turbarla le brutte notizie della sconfitta di
Curtatone e di Montanara, dei combattimenti dubbiosi di Rivoli, della
defezione del re di Napoli, del ritiro delle truppe papaline, e poco
dopo della caduta di Vicenza. La vittoria è un gran talismano, e guai
a chi se la lascia sfuggire: noi ne facevamo in quei giorni la prima
dolorosa esperienza.

A quegli indizî che la fortuna cominciava ad abbandonarci, si vedeva
già in tutti un’inquietudine, un turbamento, che rannuvolavano
gli animi. Andava vieppiù crescendo un vago malcontento; sorgevano
accuse e sospetti su tutto e su tutti; le opinioni e le discussioni,
specialmente politiche, si facevano più aspre.

Le fantasie fino ad allora inebriate dai felici successi, richiamate
improvvisamente alla realtà, cercavano la spiegazione dei loro
disinganni con le ipotesi più strane. Si principiava ad almanaccare su
possibili tradimenti, e a cercare i traditori e le spie.

Incominciava così quella discordia degli animi, quell’eccitazione
morbosa, quella strana disposizione a negare i fatti per accogliere
ogni più strana fantasticheria; incominciava insomma quell’agitazione
nella opinione pubblica, che aggravò i nostri disastri e lasciò lunghe
e dolorose conseguenze.

Cagione di sospetti e di accuse era stata in quei giorni anche la voce
corsa che il Governo Provvisorio e Carlo Alberto avessero avviato
trattative con l’Austria ad ottenere la Lombardia fino al Mincio. I
fatti smentirono la diceria, ma i sospetti continuarono.

La verità era ben diversa. Come è noto, nella seconda metà di giugno il
Governo austriaco, in seguito a ufficî fatti dall’Inghilterra, erasi
dimostrato propenso ad avviare delle trattative di pace con Carlo
Alberto e col Governo Provvisorio sulla base della cessione della
Lombardia, e il barone Wessemberg, ministro degli affari esteri, ne
aveva fatto la formale proposta con un dispaccio ufficiale diretto al
Governo Provvisorio di Milano.

Questo con una Nota nobilissima, forse più generosa che meditata, aveva
respinta l’offerta, dicendo che non voleva fare d’una causa italiana
una causa lombarda; poi aveva incaricato uno de’ suoi membri, Antonio
Peretta, che si trovava al campo, di informarne il Re Carlo Alberto.
I nemici del Governo Provvisorio negarono allora la ripulsa data e il
documento del Wessemberg, ma ora tutto ciò è noto.

Il Re, che conosceva la iniziativa inglese, ascoltò la lettura della
Nota del Governo Provvisorio; ascoltò in silenzio e pensieroso le
ragioni, che l’avevano ispirata e che il Beretta gli espose: si
contentò di rispondergli, con molta nobiltà e con finezza, queste
parole: — _La risposta del Governo Provvisorio è degna della città
delle Cinque Giornate_, — e lo congedò invitandolo a passare in una
stanza vicina ove erano radunati alcuni generali e lo Stato Maggiore.

I generali furono più espliciti, e meno riguardosi del Re. Dissero al
Beretta che il Governo Provvisorio dimostrava di ignorare affatto la
realtà delle cose; gli dimostrarono che il maresciallo Radetzki aveva
nel frattempo raddoppiate le sue forze con truppe nuove venutegli da
poco, mentre l’esercito piemontese era affaticato e diminuito senza
la speranza di rinforzi, poichè tutte le riserve erano al campo.
I generali poi si lagnavano che i soccorsi dei vari Stati italiani
fossero venuti a mancare, e che la Lombardia stessa non avesse dato
tutto ciò che si sperava da essa; infine conclusero dicendo che se
il maresciallo Radetzki avesse fatto un energico movimento offensivo,
l’esercito piemontese non sarebbe più stato in grado di respingerlo.

Il Beretta riferiva subito tutto ciò al Governo Provvisorio, e le
sue lettere sono ora conservate nell’archivio milanese del Museo del
Risorgimento.

Intanto che il Governo Provvisorio non accoglieva le trattative per
la pace, anche Radetzki, che aveva avuto l’ordine dal suo Governo di
prestarsi alla conclusione d’un armistizio, si adoperava vigorosamente,
perchè tale progetto fosse respinto; e mandava a Vienna il generale
Schwarzenberg per dimostrare all’Imperatore ch’egli si riprometteva in
breve di respingere l’esercito piemontese e di rientrare a Milano.

Così non ebbe allora che pochi giorni di vita, tra le ripulse d’ambo le
parti e gli sdegni dei patrioti più accesi, quel progetto della _pace
al Mincio_, che dovevamo poi vedere effettuato dopo undici anni di
sventure e di dolori per l’Italia.

Quegli armamenti, che sarebbero stati preziosi un mese prima, venivano
allora affrettati alla meglio, e si vedevano, pur troppo tardi,
partire pel campo alcuni corpi di truppe che si erano andati lentamente
formando. Partiva, tra questi, un reggimento di fanteria arruolato a
spese del Duca Uberto Visconti di Modrone, che n’era il colonnello;
reggimento bene equipaggiato, ma composto di gente raccogliticcia, poco
istruita e con l’aria poco militare.

Altre famiglie dell’aristocrazia milanese avevano contribuito con
nuove offerte generose alle spese di guerra, e tra l’altre ricordo la
famiglia ducale Litta che aveva allestita a proprie spese una batteria
completa d’artiglieria. Ma tutto ciò non era accompagnato da quei
vigorosi provvedimenti governativi che sarebbero stati richiesti dalle
circostanze. Queste non erano abbastanza valutate nè dal Governo, nè
dal paese.

Un nuovo e maggior senso di timore e di scoraggiamento cominciava,
sul finire del luglio, ad agitare sempre più gli animi. Ogni giorno
arrivavano soldati, feriti o ammalati, dagli ospedali delle città
più vicine al campo, che ne rigurgitavano. Avevano l’animo depresso;
diffondevano notizie scoraggianti, e si vedeva che anche fra le truppe
piemontesi il morale era scosso, e la fiducia diminuita.

Negli ultimi giorni del mese di luglio si sparse a un tratto la
notizia d’una grande battaglia e d’una grande vittoria. Poi si disse
che la battaglia continuava; e il giorno dopo incominciarono a girare
sommessamente alcune cattive notizie, alle quali nessuno credeva,
ma che lasciavano tutti in un certo allarme e in una penosa ansietà.
Allora non c’erano telegrafi e le notizie non arrivavano così presto,
nè precise.

L’ansietà cresceva ogni ora, e le notizie di fatti disgraziati
venivano da ogni parte ad accrescerla; notizie confuse, contraddette,
confermate, che suscitavano negli uni commozione e dolore; in altri
disperazione e furore.

Da quel momento fu un continuo succedersi di cattive notizie, di
allarmi, di recriminazioni, di progetti inconsulti; le sole voci
ascoltate, eran quelle che denunziavano misteriosi tradimenti.

Ogni volta che si fermava una carrozza alla porta del Palazzo Marino,
e ne scendeva un uffiziale, o qual che altro che avesse l’aria di
venire dal di fuori, la folla accorreva sulla piazza di San Fedele, e a
grandi grida si chiedeva che i membri del Governo venissero al balcone
a dar notizie che fossero, caso mai, allora arrivate. Il Governo,
la cui autorità andava indebolendosi ogni giorno più, cedeva a tutti
i desideri della piazza: e così ogni momento si vedeva qualcuno del
Governa stesso, o qualche segretario, che veniva a leggere dal balcone
lettere e dispacci.

In mezzo a tanta serietà di avvenimenti non mancavano allora le scene
più comiche. Fra il balcone del palazzo e la piazza si incrociavano
dei dialoghi, succedevano dei battibecchi. Un giorno il conte Cesare
Giulini, stanco d’aver dovuto uscire sul balcone troppe volte, gridò
alla folla indispettito: — A questo modo non si governa! — _E ti
governa no, mincion_ (E tu non governare, minchione) — gli rispose una
voce dalla piazza. Quest’episodio lo raccontava poi, ridendo, il conte
Giulini stesso.

Il pericolo si faceva intanto d’ora in ora più grave, e il Governo
Provvisorio deliberò l’istituzione d’un _Comitato di pubblica difesa_
che fosse centro di tutti i provvedimenti straordinari richiesti dalla
gravità del momento. Il 28 luglio venivano nominati membri del Comitato
il generale Manfredo Fanti, l’avvocato Francesco Restelli e il dottor
Pietro Maestri; tre oneste e intelligenti persone, e a quel tempo
tutti e tre repubblicani. Anche questa circostanza non era fatta per
rafforzare tra le diverse autorità civili e militari quella fiducia e
quella concordia ch’erano tanto necessaria in quei supremi momenti.

Il Comitato di pubblica difesa emanò rapidamente decreti sopra decreti,
di finanza, di difesa e d’ordine pubblico. Ma siccome non è coi decreti
dell’ultim’ora che si mutano le sorti preparate da lunghi errori, così
quei provvedimenti farraginosi dovevano riuscire inefficaci in mezzo
al trambusto e alla confusione generale. Il Comitato aveva decretato
l’arresto e il giudizio statario per coloro che diffondevano _notizie
infondate e allarmanti_; ma il pubblico credeva più alle notizie
allarmanti e infondate che alle minaccie del Comitato.

Il Governo Provvisorio fu allora, e poi, accusato di debolezza e di
incapacità, e soprattutto da parte di quelli che avevano maggiormente
contribuito a scuoterlo e a indebolirlo. Composto di egregie persone,
indicate dalla pubblica opinione per la loro rispettabilità, per
l’ingegno, per l’onestà, se non fu sempre pari all’ufficio suo, bisogna
pur dire che anche l’intero paese fu inferiore a ciò che le circostanze
esigevano. Il Governo Provvisorio ebbe le qualità e i difetti dei
propri concittadini di quel tempo. Il governare in un modo diverso,
e cioè con mano più vigorosa, rimorchiando tutta la corrente delle
illusioni d’allora, sarebbe stato pressochè impossibile. Ci sarebbe
voluta una mente unica e possente che si fosse levata al disopra di
tutti. Ma quella mente non ci fu, nè gli avvenimenti la fecero sorgere.

Tra i molti atti patriottici che onorarono i membri del Governo
Provvisorio, voglio qui rammentarne uno, che pochi ricordarono, e che
ne rispecchia a un tempo le qualità e i difetti. Il Governo stretto
da difficoltà finanziarie, e non sapendo provvedere coraggiosamente a
una finanza che rispondesse ai più forti bisogni, cercò di supplirvi
con un progetto nobile e generoso. Non riuscendogli di trovare un
prestito, anche in piccole proporzioni, per le spese urgenti, pensò
di iniziare una sottoscrizione tra i principali proprietari di
Milano e di Lombardia, i quali coi loro beni offrissero una garanzia
ipotecaria per un prestito di dodici milioni. La sottoscrizione, in
capo della quale erano i nomi di Casati, Borromeo, e di altri membri
del Governo Provvisorio, raggiunse subito la somma domandata, sicchè
il Governo potè affidare al banchiere Carlo Brot, ginevrino stabilito
a Milano, amico della casa Rothschild, l’incarico di procurare il
collocamento di quei beni ipotecari. Il signor Brot stava compiendo la
sua missione a Parigi, quando vennero a troncarla le sfortune della
guerra. Alcune lettere del signor Brot, che si trovano al Museo del
Risorgimento, fanno fede di questo atto che certamente onora assai i
membri del Governo Provvisorio e molti tra i principali possidenti di
Lombardia[16].

Gli ultimi atti del Governo Provvisorio e i primi del Comitato di
difesa, che gli succedette, dimostravano chiaramente la verità delle
notizie allarmanti che arrivavano dal campo, e della gravità degli
avvenimenti. Alla fiducia, alla spensieratezza succedevano l’allarme
e lo spavento che d’ora in ora si diffondevano per la città, dandole
un aspetto agitato e sinistro. La gente seria, di ogni condizione
e d’ogni età, andava ad arrolarsi nella Guardia Nazionale mobile,
accorreva nelle campagne ad apparecchiare la leva in massa, o faceva
del suo meglio per aiutare il Governo nei suoi estremi provvedimenti.
I ciarloni e gli arruffoni, che nei momenti gravi non mancano
mai, schiamazzando, chiedendo disposizioni violente, impossibili,
accrescevano il disordine e la discordia. Parecchi, presi dal panico,
lasciavano la città.

In quei giorni mio fratello Emilio era partito per Bergamo, con alcuni
suoi amici, per arrolarsi in un corpo di volontari che Garibaldi,
venuto da poco dall’America, stava riunendo. I garibaldini non
portavano allora la camicia rossa, che doveva venire inaugurata dodici
anni dopo dai Mille; avevano un modesto cappotto grigio, e solo gli
ufficiali, ch’eran quel manipolo che Garibaldi aveva condotto con sè da
Montevideo, vestivano un’elegante tunica rossa, con paramani e risvolti
verdi, tutta ornata di bottoncini d’oro.

«Ecco un giovane che vuol morire con noi,» aveva detto Garibaldi
presentando Emilio a Giacomo Medici, ch’era capitano d’una di quelle
compagnie. E così Emilio fu arrolato.

Chi avrebbe detto all’uno e all’altro, in quei momenti di sciagura e di
speranze perdute, che si sarebbero ritrovati accanto un giorno, l’uno
Generale e l’altro Commissario del Re di Piemonte, varcando il Ticino,
e sulla via del trionfo?

Il mio zio e tutore Giovanni Borgazzi venne una mattina da mia madre
e la persuase a lasciar Milano, su cui si avanzava ormai rapidamente
l’esercito austriaco. Così fu decisa la partenza; e non c’era tempo
da perdere, perchè il pericolo cresceva d’ora in ora, e ogni indugio
poteva rendere più pericoloso il partire che il rimanere.

Come descrivere l’angoscia di quei momenti! Eppure alla severa scuola
del dolore la generazione di quel tempo, e la nuova che le succedeva,
dovevano imparare quelle virtù che sole potevano dar loro una Patria.


  NOTA.

  [16] Subito dopo la rivoluzione fu aperta in Milano una
  sottoscrizione per offerte alla causa nazionale, ossia per le spese
  di guerra. La sottoscrizione fu accolta dai cittadini con grande
  entusiasmo e durante i quattro mesi giunse a quasi tre milioni.

  Diamo i nomi dei principali offerenti:

  Duca Antonio Litta, Conte Giulio e Duchessa madre L. 154 mila e una
  batteria; Duca Tommaso Scotti L. 100 mila; Conte Giuseppe Archinto
  L. 100 mila; Marchese Arconati L. 100 mila; Conte Castelbarco L. 50
  mila; Conte Taverna L. 60 mila; Duca Melzi L. 70 mila; Arnaboldi L.
  50 mila.

  Dalle 10 alle 20 mila lire: D’Adda, Arese, Soncino, Crivelli,
  Dal Verme, Greppi, Prinetti, Annoni, Ponzone, Bolognini, Besana,
  ed altri. Il Cattaneo parla sovente dell’avarizia dei patrizî
  milanesi. — (_Cattaneo, Archivio Triennale_).

  Intanto veniva decretato dal Governo Provvisorio un prestito
  forzoso nella Provincia Lombarda di cinque milioni portato poi a
  quattordici, e un prestito volontario. Poi veniva aperta un’offerta
  di cavalli, di argenterie e di oggetti preziosi. All’offerta di
  argenteria contribuirono soprattutto le famiglie patrizie, con una
  larga generosità, spogliandosi di argenterie artistiche, antiche,
  preziose, per mandarle alla Zecca, con slancio più generoso che
  ragionevole. All’offerta di oggetti preziosi, grandi e piccoli,
  contribuirono tutte le classi cittadine, anche povere; e non si
  possono rileggere quelle offerte che con commozione. Una finanza
  severa avrebbe provveduto meglio ai bisogni del Governo, ma
  allora si preferiva una finanza sentimentale. Pochi mesi dopo, ai
  provvedimenti severi ed energici pensò il Governo austriaco per
  proprio conto.




CAPITOLO VIII.

1848.


VI.

  _Sommario:_ La partenza da Milano con due mie zie e la Contessa
  Sormanni. — Attitudine minacciosa dei contadini. — Si parte per
  Bellinzona in un omnibus sgangherato. — L’aspetto di Bellinzona.
  — Le notizie della Contessa Sormanni. — Sequestri. — Volontari e
  soldati sbandati. — Gustavo Modena. — Vado a Lugano alla ricerca
  di Emilio. — Mi perdo per strada sul monte Ceneri. — A Lugano
  ritrovo Emilio. — Casa Kramer Berra. — Mazzini. — Preparativi
  per una spedizione in Val d’Intelvi. — Cattivo risultato della
  spedizione. — Gli emigrati a poco a poco si disperdono, alcuni
  vanno in Piemonte, o in Francia. — Altri rientrano in Lombardia. —
  Mio fratello va a Genova e a Pisa. — Mia madre, con me ed Enrico,
  nell’ottobre a Tirano.

Con mia madre, che partiva con me e con mio fratello Enrico, si univano
due sue sorelle, donna Carolina Minunzi e donna Giuseppina Campeggi,
e due sue nipoti. La Campeggi era accompagnata da una invisibile
amica, la contessa Sormanni; una vecchia signora, d’origine non so
se parmigiana o modenese, che aveva passata la sua gioventù in una di
quelle piccole corti, e che non capiva altro nè parlava d’altro che di
ciò che vi aveva veduto e sentito. Venuta a Milano, ove aveva maritata
una figlia, s’era grandemente affezionata a mia zia donna Giuseppina
Campeggi, che alla sua volta l’amava molto, pur strapazzandola
costantemente, anche quando era del suo parere.

Si andò tutti insieme in ferrovia fino a Monza, e siccome allora la
ferrovia non andava più in là, si presero alcuni legnetti per recarci
a Como. La strada da Monza a Como presentava ogni tratto delle scene
tristi, e non era senza pericoli. Sulle piazze dei paeselli, o lungo
le strade, si vedevano affollate, o si incontravano, delle turbe di
contadini che, chiamate in quei giorni dal decreto della _leva in
massa_, avevan l’aria di popolazioni insorte più che di gente che
accorresse alla difesa della patria. Da quelle turbe partivano voci
minacciose, e anche i nostri modesti legnetti erano continuamente
salutati dalle grida di: _morte ai signori_. Le carrozze che avessero
l’aria signorile venivano fermate, o obbligate a retrocedere, fra le
ingiurie e le minacce.

Dappertutto c’era allarme e panico, e si vedevan vecchi, donne,
fanciulli che fuggivano con le masserizie sulle spalle, e sempre
imprecando ai signori. Ai signori imprecava anche una canzone che
udivo cantare, mista di patriottismo e di odii, che oggi si direbbero
anarchici, e che aveva per ritornello:

    Nè a Marian nè a Cantù
      I tedesch ghe tornen pù
          E crepa i sciori.

Eppure i contadini di Lombardia non erano generalmente nè nemici
dei proprietari, nè fautori dell’Austria; anzi tra proprietari
e contadini c’erano di solito dei rapporti di benevolenza. Per
l’Austria, i contadini, non avevano veramente amore, ma rispetto
e timore: gran numero di essi passavano sotto le armi otto anni di
seguito effettivi, poi due nella riserva, nei paesi e nelle fortezze
del vasto impero austriaco; ne ritornavano educati a una severa
disciplina e ad un grande concetto della potenza dell’Austria. Il
_tedesco_, come dicevano, era per essi il padrone dei padroni; e nei
loro casolari veniva ripetuta una leggenda che narrava come la famiglia
dell’Imperatore discendesse dai parenti della Madonna.

Nel 1848, l’entusiasmo generale, lo sfacelo momentaneo del governo
austriaco, l’influenza dei proprietari e dei preti, che in nome di
Pio IX s’erano gettati con entusiasmo nel movimento nazionale, erano
state altrettante buone ragioni per indurre i contadini a prender parte
anch’essi, senza capirne molto, agli avvenimenti del marzo.

Ma venne il giorno delle cattive notizie. Nelle campagne si diffusero
rapidamente voci strane e spaventose sulle vendette e sulle sevizie
che gli austriaci avrebbero esercitate anche sui contadini, se questi
si fossero mantenuti d’accordo coi signori; i preti s’erano, in buon
numero, fatti più cauti e riservati, poichè Pio IX aveva abbandonata la
causa della guerra per l’indipendenza; e intanto, in mezzo ai timori
e alle incertezze, non era mancata, come sempre nei giorni della
sventura, l’opera dissolvente e perversa dei tristi d’ogni colore.

Ritornando al nostro viaggio, non ci fu facile trovare delle vetture
che da Como ci conducessero a Bellinzona, dove eravamo diretti.
Finalmente, dopo molte ricerche, si trovò un vecchio _omnibus_,
mezzo sconquassato e fuori d’uso, nel quale, pigiati, e silenziosi
ci mettemmo in viaggio e passammo il confine con quello schianto
dell’animo di chi non sa, nè quando, nè come, lo potrà rivarcare.

Ma siccome anche nei momenti più malinconici della vita capitano talora
dei casi che destano improvvisamente un’ilarità irrefrenabile, così
ecco a un tratto che nel fitto della notte si spezza uno dei lunghi
sedili dell’_omnibus_, e metà della compagnia si trova seduta sul fondo
colle ginocchia che toccavano il mento.

Nessuno s’era fatto male; ma la contessa Sormanni, a buon conto e
senza scomporsi, con voce alta e solenne prese a intonare le preghiere
colle quali si raccomandano le anime in _articulo mortis_. Negli
atteggiamenti nostri dopo quell’avventura, e nella voce della contessa,
c’era qualcosa di così comico che si dette tutti in una lunga risata.

L’accomodare quel sedile non fu possibile, e metà della compagnia
dovette rassegnarsi a viaggiare tutta la notte a quel modo. La contessa
Sormanni, come ebbe ben constatato che eravamo tutti vivi, prese a
recitare, senza cambiar voce, un rendimento di grazie, seguito poi
da un rosario che finì con una preghiera speciale pei viaggianti, pei
pericolanti, e pei principi cristiani e regnanti...

Arrivati a Bellinzona, nella previsione che il nostro soggiorno
non sarebbe stato breve, ci alloggiammo tutti in un appartamento
ammobigliato nella casa di certi signori Moro.

Intanto, in Lombardia gli avvenimenti precipitavano. Ogni giorno
era un succedersi di tristi notizie, e presto ci giunse quella
della capitolazione di Milano. Non essendoci allora mezzi rapidi di
comunicazione, le notizie giungevano tardi, non era facile appurarle,
e l’incertezza e le contraddizioni rendevano tanto più angosciosa
l’aspettativa.

Si era sperato sino all’ultimo. Si era creduta per un momento possibile
quella difesa di Milano _ad ogni costo_, che, come dicevano i proclami
verbosi di quei giorni, doveva ristaurare le sorti della guerra. Si
pensi dunque con quale dolore sentimmo l’entrata degli austriaci in
Milano.

La contessa Sormanni, che credeva un dovere della sua pietà il
consolare gli afflitti, mentre poi nel fondo del suo animo era meno
afflitta di noi, ogni tanto usciva di casa e girava per le piazze e
nei caffè in cerca di qualche notizia che a suo parere dovesse esserci
di conforto. Di solito non riusciva che a impazientirci di più, e a
procurarsi una qualche strapazzata della sua amica, la zia Campeggi;
poichè bisognava sapere che la zia amava sapere le notizie e i
fatterelli, ma quelli soltanto che le andavano a genio, non i fattacci,
e perciò non leggeva giornali; a Milano aveva un segretario, che tra
gli incarichi, aveva quello di andare dopo pranzo al caffè a leggere
la _Gazzetta di Milano_ per riferirle poi quelle novità che non la
disturbassero, e anzi le potessero piacere.

La buona contessa, che conosceva i gusti della sua amica, non cessava
di andare in cerca di notizie buone e confortevoli; ed eccola un
giorno, poco dopo la resa di Milano, rientrare in casa tutta festosa,
con un giornale in mano, gridando: «buone notizie, buone notizie!»

Tutti le si fecero intorno. La buona notizia era la nomina del principe
Felice di Schwarzenberg a Governatore di Milano. Ci fu un urlo di
impazienza e di stizza.

«Come?» esclamava la contessa. «Non sapete chi sia il principe Felice
di Schwarzenberg? parente di case regnanti, e quasi un principe del
sangue egli stesso! Non sapete che la sua nomina è per Milano un onore,
quasi come se avessero rimandato il Vicerè!»

La povera contessa si allontanò brontolando e chiamandoci
incontentabili.

Pochi giorni dopo veniva pubblicata una _Notificazione_ del maresciallo
Radetzky, della quale rimase mortificata anche la buona contessa, che
nascose il giornale. Il maresciallo sottoponeva a una contribuzione
straordinaria di venti milioni 189 cittadini, scelti tra quelli che
avevan avuto cariche dal Governo Provvisorio, o avevano favorito la
rivoluzione, a suo criterio. L’elenco dei colpiti incominciava col nome
della principessa Belgiojoso, tassata per 800 mila lire; e poi venivano
i nomi delle principali famiglie e dei più cospicui cittadini di Milano
e delle Provincie Lombarde, con tasse che salivano dalle venti mila
lire al mezzo milione. Non era possibile riscuotere tali somme in quei
momenti, mentre il paese era esausto pei sacrifici fatti, e i cittadini
maggiormente tassati erano assenti. Ma il maresciallo aveva bisogno
di denaro, perciò in parecchi casi si contrattava, e si ottenevano
dei forti ribassi pur di presentarsi col denaro alla mano. A molti di
quelli che non avevano potuto pagar subito furono messi sotto sequestro
i beni, e per molti ciò fu una grave rovina. Gli onesti non volevano
farsi sequestratari dei loro concittadini, e allora il governo militare
pigliava chi gli capitava, e i poveri sequestrati ne facevano le spese.

Uno dei casi più gravi fu quello capitato al Beretta, diventato poi
dopo il 1859 sindaco di Milano. Il Beretta, nel Governo Provvisorio,
di cui era stato membro, aveva avuto l’amministrazione delle finanze.
Il Governo austriaco, succedendo al Governo Provvisorio, ne aveva
riconosciuto soltanto gli atti amministrativi, e aveva messo a carico
del Beretta tutte le spese di carattere rivoluzionario firmate da lui.
L’ammontare saliva a una cifra altissima, e il Governo austriaco, per
garantirsene, aveva messo sotto sequestro tutti i beni del Beretta. Da
quel giorno incominciò una lunga vertenza tra il Beretta, minacciato da
una confisca, e il Governo. Il Beretta, che si credeva tutelato da un
articolo del trattato di pace, si rivolse anche al Governo piemontese,
e con una consulta d’avvocati riuscì a tirare in lungo la lite per
dieci anni, finchè venne a liberarnelo la battaglia di Magenta.

Durante il nostro esilio di Bellinzona si passavano le giornate in gran
parte sulle piazze, per le strade e nei caffè, in cerca ansiosamente
di notizie. Le più inverosimili, di solito, erano le più credute; e i
propositi più strani e scalmanati erano i più applauditi. Ogni giorno,
ogni ora, cresceva il numero dei profughi che venivano da Milano
e da altri paesi di Lombardia. A poco a poco le piazze e le strade
rigurgitavano d’una folla talora chiassosa e non sempre ispirata alla
dignità che le sventure della patria avrebbero richiesta.

Molti di questi vestivano ancora la divisa militare, ed erano avanzi
di corpi franchi disciolti, o sbandati. Parecchi, laceri, bisognosi di
tutto, talora affamati, movevano a pietà. Il maggior numero veniva dal
corpo d’esercito del generale Griffini, che da Brescia, traverso la
Valcamonica e la Valtellina, s’era ritirato nel Canton Grigione. Questa
truppa, in parte riunita, e in maggior parte sbandata, erasi diretta
verso il Cantone Ticino, e verso il Piemonte. Altri giravano per la
Svizzera, dispersi, e senza mezzi.

Gli svizzeri, e le loro autorità, specialmente nel Canton Grigione,
non ebbero allora verso questi emigrati e questi soldati italiani un
contegno amichevole; e, o per timore degli austriaci, o per simpatia
maggiore verso di questi, non mancavano spesso di trattare assai
duramente quei fuggiaschi.

Tra quella gente errante e dispersa quanti dolori, quanta miseria!
e quale perturbamento morale! In giorni di un grande entusiasmo
avevano lasciate le case loro, i loro cari, e avevano preso il
fucile, credendo che fosse una cosa facile la guerra, una cosa sicura
il trionfo! Eran passati traverso tutte le più strane illusioni, e
s’erano improvvisamente trovati dinanzi ai più duri disinganni. Le
loro menti n’erano uscite scombussolate e sconvolte. Con la maggior
parte di loro non era possibile nessun ragionamento calmo; essi avevano
bisogno di accogliere e di ripetere, come se fossero verità, le più
strane fantasticherie di menti afflitte ed esaltate. Il tradimento! un
misterioso tradimento! era la gran parola che, sulla bocca di tutti,
dava la spiegazione di tutto.

I popoli, nella sventura, hanno sovente il bisogno di trovare la
spiegazione dei loro errori in cause misteriose, e di riunire le loro
colpe sul capo di qualcuno, il quale diventa il _traditore_!

A sentirli, aveva tradito il Governo Provvisorio, avevano tradito i
generali, e tant’altri; ma il grande _traditore_ era Carlo Alberto. E
chi avesse voluto azzardare un dubbio arrischiava di essere messo nel
numero dei traditori esso pure.

Rammento di aver veduto in quei giorni parecchi che si affaccendavano
a persuadere quei pochi soldati piemontesi che, ammalati o dispersi,
non avevano potuto raggiungere l’esercito, che il loro Re era un
_traditore_. Quei poveretti non volevano credere, ma gli altri
insistevano per indurli a non raggiungere i loro corpi, e a rimanere
nella Svizzera in attesa di nuovi e grandi avvenimenti. Quei buoni
soldati, in cui il sentimento della disciplina e dell’antica fede
valeva più dei ragionamenti che udivano, non si lasciavano persuadere,
e riprendevano la strada del loro paese, e la via del dovere.

Gustavo Modena, patriota caldissimo, e in quei giorni scalmanato più
che mai, dava delle serate a Lugano, a Bellinzona, a Locarno, a favore
degli emigrati, e negli intermezzi declamava il Berchet, ripetendo ogni
volta l’_esecrato Carignano_, tra un subisso di applausi, e spezzando
la sedia a cui s’appoggiava.

Povero Berchet! In quei giorni era a Torino; quanto l’avrebbe
addolorato quell’applauso! Ritornato dal lungo esilio egli era fra i
patriotti più profondamente convinti che la sola salute per l’Italia
stava nel riunirsi intorno al Piemonte. E, ammaestrato dalla sventura
e da migliore notizia degli avvenimenti, egli deplorava sinceramente
quelle parole strappate ai dolori dell’esule in mezzo ai disinganni e
alle sventure del 1821!

Lugano, Bellinzona, Locarno, tutti i paesi del Canton Ticino
rigurgitavano di emigrati. Molti tra questi, e soprattutto i volontari,
si trovavano affatto privi di mezzi, e vivevano tra le privazioni e
gli stenti. Gli emigrati più agiati o ricchi potevano sovvenirli ben
poco, poichè, fuggiti anch’essi all’improvviso e non potendo in quei
giorni procurarsi facilmente del denaro, vivevano essi pure in grandi
strettezze.

Non è a dire quanto la buona contessa Sormanni fosse in pena nel vedere
per le strade tanti giovani ancora sofferenti per le fatiche o per le
febbri, male coperti dalle loro lacere uniformi, accampati talora sulle
piazze, o raccolti nei cortili e nelle stalle.

Essa andava a cercarli, e a consolarli. La si vedeva ora in mezzo
a crocchi, ora accompagnata da volontari d’ogni paese e d’ogni
foggia, che ascoltavano con piacere, e alle volte, divertendosene, i
conforti e le prediche amorevoli della buona _madre superiora_, come
la chiamavano. Essa infatti aveva nell’aspetto qualcosa di monacale,
vestita sempre com’era tutta di nero, con una cuffia bianca che le
circondava il viso fin sotto il mento, e con un lungo velo nero che dal
capo le scendeva sulle spalle.

Nè i suoi conforti si limitavano alle parole. Ogni mattina conduceva
qualche gruppetto di volontari, tra i più smunti, a far colazione; ma
prima se li tirava dietro in qualche chiesa a sentir la messa.

Dopo la resa di Milano, le credule speranze dei rifugiati s’eran tutte
rivolte verso i corpi franchi, e specialmente verso quello condotto
da Garibaldi. _La guerra regia è finita, ora incomincia la guerra del
popolo_, aveva proclamato con ingenua iattanza Mazzini; e siccome le
frasi avevano ancora un gran credito in quei giorni, così tutti stavano
aspettando la guerra del popolo.

Ma ben presto si venne a sapere che il corpo dei volontari di
Garibaldi, rimasto per ultimo in Lombardia, dopo alcuni combattimenti
sostenuti con valore a Morazzone e a Luino, sopraffatto dal numero,
aveva dovuto ritirarsi nel Canton Ticino.

Queste notizie ci avevano messi in apprensione per Emilio e per gli
amici ch’erano con lui fra i volontari garibaldini, e dei quali non si
avevan notizie.

Ci rivolgemmo ansiosamente a quanti ci potessero dare qualche notizia,
ma fu inutile. Passarono intanto parecchi giorni, e vedendo che mia
madre era sempre più agitata pensai di recarmi a Lugano, dove, a quanto
si diceva, si trovavan parecchi che avevano appartenuto alle compagnie
garibaldine.

Risoltomi lì per lì, una sera, e non avendo trovato nè un biroccio, nè
un carretto, mi decisi a partire per Lugano a piedi. Per arrivare più
presto avrei fatto meglio a partire la mattina dopo, ma fui spinto dal
vedere mia madre tanto afflitta;

Avevo confidato nella luna che splendeva quella sera. Ma la luna
alle volte fa dei cattivi tiri, e quella volta tradì anche me.
Nell’attraversare il monte Ceneri avevo voluto affidarmi a una
scorciatoia; ma intanto il cielo s’era fatto scuro scuro, cominciò
a piovigginare, e io perdetti la strada. Il viottolo che avevo preso
m’aveva condotto contro un muro, e non vidi più nulla intorno a me.
Allora mi misi a gridare, nella speranza che qualcuno mi sentisse,
ma la mia voce si perdeva lontano e non sentivo all’ingiro che i
piccoli rumori misteriosi della notte, lo stormire di qualche foglia,
il cadere di qualche sassolino, o il fuggire d’un insetto, d’una
bestiola che atterrita si rintanava. Mi sedetti per terra e vi rimasi
accovacciato, nell’umido, fino ai primi albori. Allora ritrovai alla
meglio i viottoli, attraversai la montagna, e raggiunta la strada
postale potei dopo alcune ore entrare trionfalmente in Lugano, seduto
dietro una vettura su un baule, ch’era il solo posto che avessi trovato
disponibile.

Lugano presentava press’a poco, ma in proporzioni maggiori, l’aspetto
di Bellinzona. Le piazze e le strade erano affollate, e si vedeva un
continuo via vai di volontari con le divise lacere, di persone d’ogni
ceto ch’erano evidentemente dei fuorusciti. Tra questi trovai subito
alcuni conoscenti, e avendo loro detto il motivo per cui ero venuto a
Lugano, d’un in l’altro, trovai un soldato del corpo di Garibaldi che
aveva scortati i feriti e gli ammalati al passaggio del confine. Costui
mi condusse nella casa dove erano stati ricoverati, e in una stalla
trovai appunto Emilio sdraiato sulla paglia e ravvolto nel cappotto.
Per le lunghe marce, per gli stenti, e per la febbre era caduto su
una strada, rifinito; raccolto, con altri ammalati e feriti, era stato
condotto in quella stalla.

Vedendomi, e scambiateci subito le notizie sue e le nostre, Emilio
si rianimò tutto, e poco dopo usciva con me da quell’ospedale
improvvisato. Era ancora febbricitante, ma soprattutto era sfinito
di forze, e aveva bisogno di riposo e di cibo; ma non aveva più un
centesimo in tasca. Si partì subito per Bellinzona, ove le cure amorose
della mamma gli procurarono in pochi giorni la guarigione.

Dopo un paio di settimane Emilio ripartì per Lugano, chiamatovi da
alcuni suoi amici. Si preparavano, a quando dicevasi, dei grandi
avvenimenti; e, smanioso anch’io di saperne qualcosa, seguii mio
fratello a Lugano.

A Lugano c’era in quel momento il fiore dell’emigrazione radicale
lombarda, che si raccoglieva intorno a Mazzini, e si affaccendeva non
poco. Emilio mi condusse in casa Berra, dalla signora Teresa Kramer
Berra, madre d’Edoardo Kramer ch’era un suo compagno di scuola. In
quella casa convenivano molti emigrati; vi si sapevano tutte le novità
della giornata, e vi si agitavano tutti quei progetti e quelle speranze
che sono il conforto e il passatempo degli emigrati. Vi feci anche la
conoscenza di alcuni personaggi politici, e ciò mi procurò l’onore
di assistere a qualche convegno in cui si cospirava e si preparava
una nuova insurrezione. Alcuni di questi convegni erano tenuti anche
a Capolago presso una stamperia di cui era direttore il De Boni. Là
conobbi e vidi parecchie volte Mazzini.

In quei giorni Mazzini era l’idolo di pressochè tutti gli emigrati
di Lugano. Non si parlava che di lui, non si ascoltava che lui; le
sue teorie, le sue parole erano dogmi indiscutibili e venerati. I
suoi amici più intimi, e i molti che volevano parerlo, lo chiamavano
semplicemente _Pippo_; e chi parlava in nome di Pippo non aveva bisogno
nè di discutere nè di aggiunger altro. Il _verbo_ era assoluto e
infallibile.

Mazzini aveva il fare e la parola mite e gentile; discorreva in un tono
dolce e leggermente ispirato; non gli piaceva d’esser contraddetto, ed
era specialmente deferente verso quelli ch’erano del suo parere.

Inutile dire che tra coloro che l’ascoltavano in un religioso silenzio,
e che ne erano entusiasti, c’ero anch’io.

Nelle riunioni di Lugano, o di Capolago, venivo a sapere ogni giorno i
particolari dell’invasione armata in Lombardia che si stava preparando;
invasione che a poco a poco era diventata il secreto di tutti, e che
tutti si confidavano all’orecchio nei caffè.

Uno dei più operosi nel predisporre i preparativi era un certo Mora,
che avevo veduto l’anno prima in casa Correnti, e che era credo un
modesto impiegato. Era sempre in uniforme militare; un uniforme in
tela, di non so qual corpo di volontari; e andava in giro col fare cupo
e misterioso di chi ha la testa piena di progetti e di secreti; taceva
sempre, ma il suo era un silenzio che voleva dire più di qualunque
discorso. Evidentemente egli sentiva d’essere il capo di Stato
Maggiore dell’invasione, e forse di quella guerra di popolo che Mazzini
preparava, e nella quale gli emigrati di Lugano avevano fede più che
nelle armi del Piemonte. Ma gli avvenimenti troncarono presto i destini
militari del Mora; il quale doveva invece, più modestamente, diventare
molti anni dopo l’economo del collegio reale delle fanciulle di Milano,
nominato dal Correnti quando fu Ministro dell’Istruzione Pubblica.

Quei preparativi destinati a riparare colla _guerra del popolo_, come
dicevano, gli errori della _guerra regia_ finirono coi due tentativi di
Val d’Intelvi e di Chiavenna.

A giudicare dai preparativi, o a dir meglio dai progetti, pareva che
si preparasse qualche gran fatto nelle valli e nei paesi lungo il
lago, e nella Valtellina; e per questo venuto l’ottobre Emilio lasciò
Lugano, e traverso la Svizzera si recò appunto nei paesi dove doveva
succedere il movimento insurrezionale. Ma, giunto in Valtellina,
con sua sorpresa s’accorse che non se ne sapeva nulla. Parlò coi
principali patriotti del paese, e li trovò tutti avversi, per molte
buone ragioni, al movimento progettato. Parlò con Enrico Guicciardi,
ch’era venuto anch’esso dal Piemonte a Poschiavo, per vedere quei
supposti preparativi, e il Guicciardi uomo ardito, ma non facile ad
illudersi, ripartì sconsigliando un’impresa che non aveva nessuna seria
preparazione e nessuna possibilità di riuscita. Guicciardi ritornò al
suo battaglione valtellinese, che si distinse poi alla battaglia di
Novara.

Ma intanto per ordine di Mazzini, d’Apice e Arcioni, che si facevan
chiamare generali, seguiti da pochi, penetrarono nella Valle d’Intelvi,
una valle che s’apre dietro il paese d’Argegno sul lago di Como. Il
_Comitato insurrezionale_ di Lugano, per assecondare questa iniziativa,
ordinò che un corpo, che doveva essere di 400 uomini, composto di
emigrati e di volontari sbandati, si portasse in Val d’Intelvi. Ma
questo corpo, che non esisteva che in parte, alle prime avvisaglie fu
sciolto dal D’Apice, e si disperse.

Intanto il generale Wimpfen, il 28 ottobre, mandava da Como contro la
Valle d’Intelvi 700 soldati su due piroscafi. Dal paese d’Argegno,
verso cui movevano i piroscafi, all’apparire di quelle truppe, si
staccò una barca, in cui erano alcune persone, vogando a tutta forza,
con l’evidente intenzione di andare all’abbordaggio. Dal piroscafo
partì subito un colpo di cannone, e allora la barca vogando con pari
forza in senso inverso andò ad arenarsi sulla spiaggia d’Argegno.
L’abbordaggio di quei pochi contro un battaglione era fallito; ma così
erano tutti nel ’48, audaci e ingenui. Questo episodio, serio e comico,
me lo raccontava ridendo uno ch’era in quella barca, Antonio Lazzati,
che poi vedremo nelle prigioni di Mantova.

Gli austriaci penetrarono nella Valle d’Intelvi, dove si era proclamata
una repubblica, che durò tre giorni, difesa da pochi, comandati da un
tal Antonio Cresseri e da Andrea Brenta, due valorosi che quasi soli si
gettarono sui soldati in marcia. Presi, vennero fucilati a Como.

Contemporaneamente, secondo i piani del Comitato di Lugano, e ad onta
delle notizie sconfortanti, un altro gruppo di emigrati era penetrato
in Valtellina, fin presso a Chiavenna, condotto da Francesco Dolzino,
del paese, un valoroso patriotta. Erano con lui il marchese Vitaliano
Crivelli, Alberico Gerli, soprannominato _Pepe_, Giovanni e Gaetano
Cantoni, il notaio Bordini, l’ingegnere Tagliaferri, tutti milanesi. Ma
giunsero presto gli austriaci, che occuparono subito la Valle del Mera.
Si fecero le fucilate; e gli austriaci incendiarono alcuni casolari,
e il villaggio di Veccia. Nessuno in quei paesi insorse, nessuno si
mosse, come s’era preveduto, e i pochi emigrati che avevano tentata
quell’impresa, si dispersero. Così finì la breve spedizione, che i
meglio informati avevano cercato di impedire. Ma i più avventati e gli
illusi l’avevano suggerita e voluta, e Mazzini aveva creduto loro.

Dopo queste infelicissime imprese, su cui per alcune settimane s’erano
concentrate l’attività e le speranze d’una parte degli emigrati del
Canton Ticino, questi, persuasi ormai che pel momento non ci fosse più
nulla da tentare in Lombardia, cominciarono a poco a poco a levar le
tende. I più tranquilli, e i meno compromessi, rientravano in Lombardia
recandosi da prima nei paesi e nelle loro case di campagna; altri si
avviarono in Piemonte, mentre i giovani, gli antichi volontari, la
parte insomma più energica ed accesa, si indirizzava alla spicciolata
verso l’Italia centrale, dove si sperava, come infatti avvenne, che si
preparassero nuovi avvenimenti.

Alla fine d’ottobre anche la nostra piccola colonia di casa Moro
pensò a sciogliersi e a rimpatriare. La contessa Sormanni era la
più impaziente di tutti: sentendo ogni giorno qualche nuovo nome di
arciduchi o di principi che avevano dei comandi militari in Lombardia,
era presa da una grande smania di vederli, non foss’altro, passar per
le strade. Tutti le davan sulla voce, e allora si accendevano delle
forti discussioni nella colonia. La zia Campeggi, ritornando ai suoi
ricordi giovanili, invocava un nuovo Napoleone che mettesse fine a
tanti subbugli; mentre la contessa Sormanni sosteneva che i subbugli
non sarebbero avvenuti se fosse stata ancor viva Maria Luigia duchessa
di Parma.

Le zie, le cugine, e la contessa partirono direttamente per Milano.
Mia madre pensò di recarsi con me e con mio fratello Enrico a Tirano in
Valtellina: Emilio che c’era andato, come vedremo, alcuni giorni prima,
n’era già ripartito.




CAPITOLO IX.

1848.


VII.

  _Sommario:_ Ritorno a Milano. — Aspetto della città. — Ripartiamo
  subito per la Valtellina. — I paesi governati militarmente. —
  Una condanna a Tirano. — I soldati croati, le loro usanze, i loro
  discorsi. — Gli alloggi militari. — Il maggiore Krall, comandante
  di Tirano. — Mazzini e la spedizione di Val d’Intelvi e di
  Chiavenna subito soffocate. — A Tirano studio, con poco successo,
  il tedesco e la musica. — Alla fine dell’anno ritorniamo a Milano
  per riprendere gli studi. — Aspetto sempre tristissimo di Milano. —
  Le notizie sui movimenti rivoluzionari che continuavano nell’Italia
  centrale.

Prima di recarci in Valtellina dovemmo anche noi passare da Milano,
fermandoci alcuni giorni. Ci andammo da Arona con un legno, e si
viaggiò di notte: al confine fummo ricevuti da un Commissario di
Polizia, che dopo alcune interrogazioni ci lasciò passare, e si arrivò
di buon mattino in città entrandovi dalla porta Sempione.

Che stretta al cuore nell’attraversare la piazza d’armi! Quante volte
c’ero stato su quella piazza, nei mesi prima, a vedervi i soldati
piemontesi, i volontari, o la guardia nazionale, con l’animo sereno e
con la sicurezza che Milano, e forse tutta Italia, erano liberi ormai
per sempre! E ora ci bivaccavano, o manovravano, i soldati austriaci
tranquillamente, e da padroni.

I primi soldati che vidi furon quelli vestiti di color marrone, coi
calzoni turchini stretti alle gambe, i croati. Proprio quei croati!
che pel nostro sangue latino rappresentavano i barbari; su cui si era
formata una leggenda di ferocia selvaggia, e ch’eran stati l’argomento
del nostro disprezzo e delle nostre caricature più popolari! Ora i
croati padroni colmavano la misura del nostro dolore e della nostra
umiliazione!

Chiusi gli occhi, e me li sentii bagnati di lacrime. Ma in quel momento
mi sentii anche rimescolare il sangue: il mio animo giovanile, ispirato
fino allora a un patriottismo sereno, pieno di speranze e di illusioni,
sentì tutto il dolore della patria perduta; e ne ebbi uno schianto,
pieno di amarezza, e di proposito d’odio e di vendetta. Fu quel
sentimento che ispirò e dominò gli animi della gioventù d’allora per
dieci anni.

A! Milano non ci fermammo che pochi giorni. Che squallore! Non
riconoscevo più la città festosa, tutta movimento e entusiasmi, di
poche settimane prima. Le strade erano spopolate e deserte; non vi
si vedevano che frotte di uffiziali, e pochi cittadini che se ne
andavano frettolosi, quasi vergognosi di trovarcisi. Le piazze invece
e i luoghi pubblici eran gremiti di soldati, che ci stavano come in
un accampamento; lungo i bastioni era accampata l’artiglieria, e nei
giardini pubblici bivaccava un reggimento d’usseri. La maggior parte
dei palazzi e delle case delle principali famiglie cittadine erano
state destinati a caserma e ad ospedali militari. Era cosa ben triste;
ed era frequente il vedere sulle porte e sotto i portici di quei
palazzi i militari che facevano cuocere il rancio, bruciando gambe
dorate di tavolini o di sedie ed avanzi di ricche mobiglie fatte a
pezzi. Così, mentre l’amministrazione militare colpiva le principali
famiglie con enormi tasse di guerra, i soldati ne occupavano e ne
devastavano gli appartamenti.

Più presto che si potè fuggimmo da questo triste spettacolo, e si andò
in Valtellina io, mia madre e mio fratello Enrico.

I paesi della campagna offrivano in quei giorni uno spettacolo non
meno triste e disgustoso. Soldati in attitudine nemica dappertutto, e
dappertutto prepotenze militari. Di solito un generale o un colonnello
erano nelle provincie i comandanti supremi delle città; un maggiore
lo era in una borgata, un capitano o anche un ufficiale subalterno in
un piccolo paese. Accanto a queste autorità militari sussistevano di
nome le autorità civili, ma i militari erano tutto; essi disponevano
non solo d’ogni cosa pubblica, ma della vita stessa dei cittadini.
Ritornati in un paese che dicevano proprio, lo trattavano come un paese
di recente conquista e su cui fossero di passaggio in piena guerra.
Vi applicavano le leggi marziali, con un rigore inutile e feroce; ed
ogni giorno arrivavano le lugubri notizie di infelici inesorabilmente
fucilati perchè trovati in possesso anche solo d’un’arma rotta o dei
frammenti d’un’arma. E ciò per rappacificare gli animi: che sapienza
di governo! Si sarebbe detto che ciascuno di quei soldati avesse una
vendetta da compiere; la vendetta per essere stati cacciati nel marzo.

Quei soldati poi, meno gli uffiziali, erano per lo più irritati, pieni
di sospetti e di spavento. Erano irritati perchè appartenenti in gran
numero alle ultime riserve, avevano dovuto lasciare mogli e figli nei
loro paesi; erano sospettosi, e sempre in allarme, avendo passate le
Alpi con la fantasia accesa da leggende di tradimenti, di pugnali, di
briganti, e di mille cose spaventevoli che avrebbero trovato in Italia.

Anche nelle campagne, e nei più piccoli paesi, bisognava dunque
vivere ritirati e circondarsi di molte precauzioni. Queste però talora
non bastavano. Un giorno a Tirano, per dirne una, un certo Ricetti,
studente in medicina, se ne stava fumando alla finestra: passano dei
soldati: uno di questi dice che il Ricetti aveva sputato su loro, e
lo denuncia al maggiore, il quale lo fa arrestare, e senza verificare
il fatto, gli fa dare venticinque bastonate nel cortile del Municipio,
obbligando le autorità municipali ad assistere.

Il Ricetti era zoppo e sciancato. Il medico del paese, dottor Andres, e
il capo del comune avevano invano protestato e supplicato: anzi in pena
di ciò il maggiore li obbligò ad assistere al triste spettacolo.

I soldati che occupavano la Valtellina erano tutti croati, e
appartenevano ai paesi chiamati allora i _confini militari_. Era una
gente alta, bruna, e di costumi primitivi e barbara. In casa mia ne
erano stati alloggiati parecchi, potevo quindi facilmente osservare le
loro abitudini, e di tanto in tanto sapevo anche quel che pensassero,
e quale fosse l’ordine delle loro idee. Per quanto barbari e incolti,
essi, per quella nota attitudine degli slavi a imparare le lingue,
dopo poche settimane di soggiorno in un paese, imparavano quel tanto di
linguaggio che bastava loro per farsi capire. Alle volte mi divertivo a
farne parlare qualcuno: in loro s’era sempre un non so che di ingenuo,
di buono e di feroce a un tempo che facevano strano contrasto.

— «_Ti bona taliana_» mi dicevano se regalavo loro qualche cosa; ma
poi, benchè non mi illudessi sui loro sentimenti, si affrettavano di
soggiungere: «_ma mi mettere anche baionetta in panza a tutta briganta
taliana rivoluzionaria._»

Erano tenuti con una disciplina severa; ma ad onta di questa rubavano
a man salva, soprattutto i frutti di campagna, e quando i cittadini
li sorprendevano: _Paga Pio IX!_ rispondevano. Pare che su ciò la
disciplina severa chiudesse un occhio. Li vedevo alle volte fare il
rancio in mezzo alla corte: piantavano in fila le caldaie, poi ci
mettevano a bollire in una specie di grasso puzzolentissimo, insieme
al loro rancio ordinario, tutto quello che ciascuno aveva rubato in
quel giorno, e cioè fagioli, cavoli, patate, panocchie di grano turco,
e persino de’ grappoli d’uva. Tra le cose che rubavano, con una certa
predilezione, c’erano le candele di sego, e anche queste finivano
nelle pignatte: a meno che non se ne servissero per un’altra loro
strana usanza. La quale consisteva nella spalmare di sego delle bende,
che attortigliavano intorno alle gambe, infilandole poi in quei loro
pantaloni stretti, che tenevano, senza levarli, giorno e notte per
delle settimane, e anche per dei mesi. Spalmavano di sego anche il
corpo, coprendolo con corpetti attillati: e dicevano che ciò faceva
molto bene alla salute, e che li preservava dagli insetti. Crediamolo
pure; ma questo bel preservativo li faceva anche puzzare come ognuno
può immaginarsi, talchè quando lasciavano un alloggio ci rimaneva un
tanfo che durava persino degli anni.

Quei soldati non nascondevano il malcontento d’essere stati condotti
in Italia, e lo sfogavano contro noi. Essi erano soldati per tutta la
vita, ma di solito oltre una certa età non venivano mandati fuori di
paese. Questa volta l’Austria aveva dovuto ricorrere alle sue ultime
riserve, e li aveva mobilitati tutti, per cui non era raro il caso di
vedere nella stessa compagnia il figlio, il padre e il nonno.

Questi poveri diavoli, in qualche momento di nostalgia, mi dicevano,
che in certi loro villaggi non c’erano rimasti che le donne, i
fanciulli, e gli animali domestici; anzi uno di questi soldati
confinari mi raccontò che nel congedarsi dalla moglie le aveva detto:
_Mi ti lasciare tre porci, cinque pegore, sette galline, due piccoli
figli; se mi tornato trovare quattro porci, sei pegore, otto galline
dico brava moglie, ma se trovo tre figli mandar via con legnate moglie
e figli_.

Tra gli uffiziali austriaci si vedevano di frequente persone educate,
appartenenti a famiglie buone e distinte; ma tra gli uffiziali croati
non ne vidi mai. Si capiva, dalle loro abitudini, ch’eran persone della
campagna, di poca levatura e di pochissima educazione. Al pari dei loro
soldati sfogavano volontieri la loro rabbia contro gli italiani ch’eran
la causa per cui erano stati condotti fuori del paese; e al pari
dei loro soldati avevano spesso la mente piena di vaghi terrori. Si
trovavano in quei paesi che nella loro fantasia rappresentavano tutta
una leggenda, ed erano sempre in attesa di avvenimenti misteriosi che
le menti rozze accolgono tanto facilmente.

Un giorno uno di questi uffiziali, messo d’alloggio in casa nostra, ma
col quale non avevo mai scambiato nè una parola nè un saluto, venne
improvvisamente a cercarmi; poi con una strana espressione, e in un
gergo che non era molto diverso di quello dei suoi soldati, mi fece a
bruciapelo questa domanda:

«Se succedesse una rivoluzione, voi mi ammazzereste in casa vostra?»

Si noti ch’io era un giovine e lui un uomo grande e grosso. Poi
soggiunse subito: «Voi non mi potete ammazzare perchè io sono vostro
ospite!»

«Ospite no» risposi dopo averlo guardato con quella sorpresa che si può
immaginare. «Voi siete qui conquistatore, non ospite».

«Sono in casa vostra, dunque ospite, ospite» continuava l’altro.

«Bisogna ch’io vi veda senza uniforme per chiamarvi ospite» replicai.

L’altro mi guardò fisso, poi se ne andò, meditando forse, sotto questo
nuovo punto di vista, il problema dell’ospitalità. E si continuò come
prima, incontrandoci qualche volta, senza guardarci e senza salutarci.

Il comandante militare e civile di Tirano era un maggiore che
chiamavasi Krall, talora feroce e talora bonario, come i suoi soldati.
Era buono soprattutto quando aveva bevuto molto, circostanza questa che
per fortuna si verificava assai di frequente. I suoi sudditi tiranesi,
che se n’erano accorti, quando avevano bisogno di placarlo o d’ottenere
qualche cosa sapevano come fare. Più volte le bottiglie dei buoni vini
valtellinesi ottennero grazie e favori, e salvarono anche la vita a
qualcuno. «Io sono imperatore di Tirano,» aveva esclamato una volta
essendo brillo; «e mia moglie intanto conduce i porci al pascolo!»

A mantenere i sospetti e gli allarmi dei soldati in Valtellina aveva
contribuito quel piano d’insurrezione del Comitato di Lugano, che tutti
conoscevano, e ch’era finito coi brevi fatti di Val di Intelvi e di
Chiavenna. Ma questi erano bastati perchè la Valtellina fosse tutta
fortemente occupata con truppe lungo i suoi confini con la Svizzera.

La Valtellina aveva presa una larga parte all’insurrezione del 48,
col dare numerosi contingenti di volontari e di disertori dalle
file austriache ai vari corpi franchi lombardi. Con gli avanzi di
questi corpi, s’era formato in Piemonte un battaglione di bersaglieri
valtellinesi sotto il comando del maggiore Enrico Guicciardi di Ponte.
Altri patriotti militavano come ufficiali in questi o in altri corpi
piemontesi; tra i quali Luigi Torelli di Tirano, che vedemmo nelle
Cinque Giornate piantar la bandiera tricolore sul Duomo, e che allora
era maggiore di Stato Maggiore nella brigata Solaroli.

Gli altri nostri amici, che s’erano riparati a Poschiavo, o in altri
paesi del Canton Grigione, erano ancora assenti.

Emilio, dopo il colloquio avuto con Guicciardi, e dopo essersi convinto
che il movimento per l’insurrezione in Valtellina, non esisteva che
nella fantasia del Comitato di Lugano, partì per la Toscana ove pareva
che si preparassero dei serî avvenimenti, per prendervi parte; e anche
per fare l’università, a tempo perso, come i giovani d’allora, tra una
rivoluzione e l’altra.

Intanto io m’occupavo ad almanaccare sugli avvenimenti, con quel
criterio che potevo avere alla mia età, e a quei tempi in cui tutti ne
avevano poco. L’insurrezione ungherese continuava; Venezia resisteva
ancora. Si preparavano molti rivoluzionari in tutta Italia, e in
questi si sperava molto. Si sperava anche in un ministero democratico
a Torino, che avrebbe obbligato Carlo Alberto a rompere l’armistizio
Salasco e a ritornare sui campi di Lombardia.

C’eran dunque argomenti in abbondanza per alimentare le illusioni nelle
teste, a cui solo la dura esperienza di dieci anni doveva dare poi una
più giusta visione delle cose.

Il tempo passava lento e monotono; io escivo raramente di casa e, per
occupare le giornate, e le serate eterne, mi proposi di intraprendere
due studî per me nuovissimi, la lingua tedesca e la musica. L’imparare
il tedesco non era, e non fu sino al 1859, una cosa lecita al
patriottismo puritano d’allora, e tutt’al più si studiava di nascosto
quando ce ne fosse la necessità. Mi parve di trovarmi nelle condizioni
volute, e mi rivolsi all’unico professore di tedesco che fosse in
Tirano, capitatoci da poco. Era un engadinese, un vecchio maestro
elementare, il quale mi insegnò i principii di non so quale lingua
che fece ridere molto il primo vero professore di tedesco che ebbi più
tardi.

L’arduo compito di darmi le prime lezioni di pianoforte l’ebbe
l’organista del paese. Quel bravuomo ci mise la migliore volontà;
e veramente ce ne misi un po’ anch’io; ma, dopo quattro mesi di
lezioni indefesse, mi convinsi che in me l’inettitudine ad imparare il
pianoforte era pari al piacere che mi dava la musica. In questi casi
deplorevoli non bisogna ostinarsi.

Io e mio fratello Enrico dovevamo pur continuare i nostri studii,
perciò sul finire del dicembre nostra madre decise che si ritornasse
a Milano. Le Università e i Licei erano chiusi, e gli studenti era
soltanto permesso di seguire i corsi privatamente, riunendosi in
piccoli gruppi, che non oltrepassassero il numero di dieci. Io dovevo
fare il primo anno di Liceo, ed Enrico la terza classe di Ginnasio.
Questi corsi incominciarono per tutti solo col principio dell’anno, e
proseguirono alla meglio, o alla peggio, con professori e con scolari
che in quei momenti avevano la testa a tutt’altro che agli studi.

Che triste invernata fu quella! Chi appena aveva potuto era rimasto
all’estero o in campagna; la città era spopolata, e per le strade
squallide, deserte, non si vedevano che pattuglie, o torme di
soldati. Lo stato d’assedio era duro e inflessibile; quasi ogni giorno
comparivano sui muri della città degli affissi del Governo militare,
chiamati _Notificazioni_, che intimavano qualche nuova sentenza dei
consigli di guerra.

A rialzare un po’ gli animi venivano tratto tratto dal Piemonte
delle parole di speranza, la speranza che si riaccendesse la guerra;
e giungevano le notizie degli avvenimenti della Toscana e di Roma.
Veramente quegli avvenimenti non erano che dei moti convulsi di triste
augurio, ma la speranza ce li raffigurava in quel momento come il
principio d’una nuova risurrezione.

Mio fratello Emilio che si trovava in mezzo a quegli avvenimenti, ora
a Pisa, ora a Firenze, ce ne mandava di tanto in tanto le notizie;
notizie ch’eran l’eco, s’intende, di quelle illusioni di cui si viveva
in quei giorni. Persuaso che la guerra per la rivincita fosse vicina,
egli s’era arrolato in un battaglione di studenti.




CAPITOLO X.

1849.

  _Sommario:_ L’inverno del 1849. — La denunzia dell’armistizio. — La
  battaglia di Novara. — I tentativi di far insorgere la Lombardia.
  — Brescia. — La reazione si diffonde in tutta Italia e solo rimane
  in arme Venezia. — Roma e il battaglione Manara. — Reduci di Roma e
  di Venezia. — Dimostrazione del 18 agosto pel fatto della Olivari.
  — Le bastonate date a parecchi cittadini pubblicamente. — Andiamo
  nell’autunno a Tirano. — Alloggi militari. — Una cazzaruola fatta
  volare in strada da mia madre. — Una condanna militare alla mia
  famiglia. — Perquisizioni militari.


L’inverno del 1849, se c’è chi lo rammenta, è rimasto nel pensiero come
un ben triste ricordo. Tutto era deserto e squallido. Parecchi come
vedemmo, erano ritornati alle loro case, ma chi appena lo poteva se
n’era andato in campagna, e tutti poi vivevano ritiratissimi, lasciando
deserti i caffè, i ritrovi, e i pochissimi teatri ch’erano aperti.
Un po’ la malinconia, e un po’ la paura, tenevano la gente lontana
anche dai passeggi e dalle strade dove non si incontravano che soldati
baldanzosi e facilmente provocanti. Gli amici, che da poco rientrati
raccontavano le peripezie delle loro emigrazioni, portavano anche delle
informazioni sconfortanti dall’estero, ove si stendeva, come una nebbia
fitta, la reazione trionfante.

Nel soccorso della Francia non si sperava più. Fin dai primi d’agosto,
quando le sorti della guerra volgevano male, nel Gabinetto di Torino
s’era accennato a domandare l’aiuto della Francia, e il Governo
Provvisorio, prima che finissero i suoi poteri, aveva deliberato una
missione a Parigi, affidata al marchese Anselmo Guerrieri Gonzaga e
a Giulio Carcano, per chiedere ufficialmente, con ingenua fiducia,
l’intervento francese. Gli incaricati lombardi si unirono a quelli del
Governo piemontese, ch’erano il marchese Brignole, ambasciatore sardo a
Parigi, e il deputato Ricci.

Cavaignac, presidente del potere esecutivo della Repubblica, aveva
subito tolto ai nostri rappresentanti ogni illusione; e alle loro
insistenze aveva risposto duramente «che una guerra per l’indipendenza
e per la formazione d’un forte Stato in Italia, non era negli interessi
della Francia». E promise loro al più una mediazione d’accordo con
l’Inghilterra.

La Francia, che circondavamo di tanta idealità, di tante speranze, la
Francia, nel giorno della sventura, ci respingeva. Che disinganno!

Si sarebbe pur voluto cercare un qualche filo di speranza, pur
di sperare, e si guardava all’Ungheria, tutt’ora in armi e alle
volte trionfante; si guardava all’Italia centrale in rivoluzione,
a Roma in subbuglio, e a Venezia che teneva ancora alta la bandiera
d’Italia. In fine, si guardava al Piemonte, ove nelle sfere politiche
e parlamentari, prevalevano sempre più le opinioni estreme, quelle
soprattutto che spingevano a riprendere immediatamente la guerra.

La ripresa immediata della guerra! Un osservatore tranquillo e
spassionato si sarebbe facilmente accorto che questa era una follia.
Chi veniva dal Piemonte doveva pur confessare che l’esercito riordinato
affrettatamente, e insufficientemente, aveva tuttora l’animo depresso;
non aveva fiducia nei capi, e la guerra avrebbe trovato le truppe
rassegnate, ma non entusiaste. Si sapeva che si era alla ricerca d’un
comandante, d’un generale forestiero; avevano cercato in Svizzera il
Dufour, e un generale francese a Parigi; ma inutilmente. Alla fine
s’era trovato un polacco, raccomandato dai Comitati d’insurrezione,
il Chrzanowski. Questo non conosceva nè l’esercito nè il paese; era
un uomo onesto, studioso, ma era un brutto soldato, e non piacque.
Chiamarono anche il Ramorino, un avanzo della _Giovane Italia_, e gli
diedero il comando d’una brigata. Questo poi disobbedì: si disse che
tradì, e fu fucilato.

Intanto, durante l’inverno del 48, ci fu la mediazione anglo-francese,
la quale si trascinava lentamente e di mala voglia. L’Austria non
voleva ceder nulla; la _mediazione_ ci consigliava la rassegnazione,
e mano mano ci abbandonava. Il Gioberti, arrivato al Governo, avrebbe
voluto, anzichè azzuffarsi coll’Austria, intervenire in Toscana, per
ristabilire egli stesso il Granduca e dirigere il movimento liberale,
prima che l’Austria ci entrasse. Poteva essere in teoria una buona
politica, ma l’Austria, che anelava di riprendere la guerra, non
l’avrebbe permessa.

La politica del raccoglimento, l’unica consigliata dalla ragione,
non c’era chi avesse l’autorità di imporla, nè c’era disposizione
nell’opinione pubblica a seguirla. Si voleva la guerra, e ci si andava
a capo fitto. La sinistra parlamentare del Piemonte era disposta
ad affrontarne la responsabilità, ma poi non aveva l’energia di
predisporla. Gioberti cadde e venne il Ministero Rattazzi, chiamato
il Ministero democratico, che doveva avverare, dicevasi, gli arditi
sogni della rivincita. La consolazione pubblica fu grande, ma presto fu
duramente scontata.

Venne il mese di marzo: s’avvicinava l’anniversario delle Cinque
Giornate, quando il giorno 12 di quel mese, tra una commozione
indicibile, i cittadini ridestandosi quasi da un lungo letargo, nel
risvegliarsi dagli antichi entusiasmi, seppero ch’era giunto a Milano
un uffiziale superiore piemontese, il maggiore di Stato Maggiore
Raffaele Cadorna; ch’era sceso alla Villa Reale, presso i giardini
pubblici, dove abitava il maresciallo Radetzki, e che gli aveva
comunicata la denunzia dell’armistizio pel giorno 20.

Il giorno seguente tutte le truppe austriache erano in movimento.
I soldati avevano l’aria festosa, le bande suonavano lietamente, i
reggimenti sfilavano gridando _urah!_ Gli ufficiali avevano l’aria più
baldanzosa e provocante del solito; era uno spettacolo che stringeva il
cuore.

Radetski aveva pubblicati due proclami minacciosi, uno contro il
Piemonte e uno contro i rivoluzionari, dirigendosi ai milanesi e ai
lombardi.

I cittadini più che lieti erano sorpresi; si sarebbe detto che tristi
presentimenti pesavano loro sul cuore.

In pochi giorni Milano e la Lombardia rimasero sguernite di
truppe, talchè il paese avrebbe potuto facilmente insorgere alle
spalle dell’esercito austriaco, se le popolazioni avessero avuto
quell’entusiasmo e quella fede che le avevano mosse un anno prima.
Ma i tempi erano già grandemente mutati. Gli emigrati lombardi
avevano sperato un’insurrezione delle loro provincie e vi avevano
fatto penetrare delle armi dal Piemonte. Gli animi però erano
dubbiosi, indecisi, anche nelle provincie; alla fede era subentrata
la diffidenza, e tutti stavano aspettando gli avvenimenti, anzichè
promuoverli.

Il Comitato dell’emigrazione lombarda e il ministero piemontese della
guerra avevano incaricato Gabriele Camozzi, il cui nome e quello
della famiglia erano tra i più popolari nelle vallate bergamasche,
per generosità e valore, di suscitare l’insurrezione in Lombardia allo
scoppiare della guerra. Il Camozzi infatti aveva passato il confine il
giorno 20, appena spirato l’armistizio, e traverso Como e Lecco era
giunto a Bergamo, con armi e con bande d’insorti, intimando la resa
alla Rocca della città e circondandola. A lui s’era unito un gruppo
di altri emigrati armati, tra i quali avevo parecchi amici, e cioè
Luigi Sala, già secretario del Governo Provvisorio, Paolo Belgiojoso,
Agostino Frapolli.

Intanto succedeva la battaglia di Novara.

Nei giorni 22 e 23, che furon quelli della battaglia, dai bastioni di
Milano si sentiva di tanto in tanto un cupo rombo portatovi dal vento.
La gente diceva ch’era il rumore del cannone e accorreva in folla; ma
sul volto di tutti si leggeva un’ansia più diffidente che speranzosa.
Poi passarono due giorni nell’alternativa di notizie ora buone, ora
cattive. Si parlava d’una grande battaglia; d’una battaglia, riuscita
favorevole ai piemontesi, secondo alcuni, favorevole agli austriaci
secondo altri.

Alla fine, pur troppo, giunsero le notizie vere: e qualche giorno
dopo si ebbe lo spettacolo dell’entrata delle truppe austriache che
tornavano dal Piemonte vittoriose; tornavano spavalde e col mirto in
fronte, come esse usavano nei giorni solenni di festa.

Non dimenticherò mai la stretta al cuore che provai vedendo un
reggimento, che attraversava la piazza del Duomo, con la musica
in testa, gridando viva Radetzki, e preceduto da un gruppo di
sottouffiziali che portavano come trofeo una bandiera tricolore, non
però militare, ma della Guardia Nazionale presa in Piemonte. D’allora
non fu che un succedersi di avvenimenti sventurati e di notizie
dolorose.

Intanto il presidio, che, come s’è visto, occupava Bergamo e ne teneva
la città alta, accolse il drappello degli emigrati a cannonate.
Gabriele Camozzi aveva chiamato alle armi i suoi compatrioti e gli
abitanti delle valli vicine, con un proclama che li eccitava alla
rivoluzione. Raccolse infatti 800 volontari, che diresse su Brescia, ma
dovette ripiegare dopo le notizie tristissime che arrivavano; e dinanzi
a truppe austriache che già tornavano dalla battaglia di Novara.

A Brescia invece giunsero delle notizie false e fantastiche. Si parlava
d’una grande vittoria delle truppe piemontesi e dell’esercito austriaco
in ritirata; un proclama del Comitato repubblicano di pubblica difesa
avvalorava queste notizie, e ne dava di più fantastiche ancora.

E Brescia insorse. Insorse violentemente ed eroicamente. La lotta, come
è noto, durò dieci giorni; e il generale Hainau non entrò nell’eroica
città che sulle rovine di oltre 300 case incendiate, tra un monte di
cadaveri, e fucilando una cinquantina di prigionieri. Entrò alla testa
di quindicimila soldati.

Un’altra squadra di emigrati e di insorgenti doveva penetrare in
Valtellina, ma non vi giunse. Vi ricomparvero invece, più numerose,
e più baldanzose di prima, le truppe austriache, occupando tutti i
principali paesi, e tutti i punti militarmente più importanti della
valle.

In ogni punto d’Italia andava intanto mano mano crollando tutto ciò che
la rivoluzione aveva in fretta e in furia innalzato l’anno prima. Solo
a Venezia sventolava ancora incolume e gloriosa la bandiera tricolore;
e gli occhi di tutti eran rivolti ad essa con malinconica compiacenza
e con una vaga speranza; quella speranza che trova sempre negli animi
un cantuccio in cui sopravvivere. Si sperava che prima della caduta
di Venezia, o di Roma, o dell’Ungheria tuttora in armi, avessero a
succedere in Europa avvenimenti in cui fosse dato ritrovare quella
fortuna che ci aveva abbandonati.

Ma passavano i mesi, e intanto in Europa calavano sempre più fitte le
tenebre della reazione ineluttabile, che tutto ravvolgeva e pesava su
tutto e su tutti.

La caduta di Roma, e gli ultimi fatti della sua valorosa difesa, che si
svolsero nel giugno di quell’anno, avevano avuto un’eco di trepidazione
e di dolori in Milano, che annoverava molti dei suoi nel battaglione
lombardo di Manara, e nei volontari garibaldini. La condotta di quei
giovani era stata veramente eroica; le loro file erano state decimate;
essi avevano voluto morire in nome di una grande idea, senza speranza
di vincere, chiudendo eroicamente l’epopea italiana del quarantotto.
Il Manara manifestò questo pensiero in una lettera che scrisse in
quei giorni da Roma: «Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il
quarantotto... Affinchè il nostro esempio sia efficace, noi dobbiamo
morire!»

Luciano Manara, il valoroso condottiero del battaglione lombardo, aveva
allora 26 anni; era di famiglia ricca, e prima del quarantotto aveva
menata una vita elegante, oziosa, notevole soltanto per una avventura
che aveva accompagnato il suo matrimonio.

Invaghitosi giovanissimo d’una bellissima fanciulla, la signorina
Carmelita Fè, e non avendo dai genitori il permesso di sposarla,
fuggì con lei. L’avventura, naturalmente, finì col matrimonio, e il
gran parlarne che se ne fece diede agli sposi una certa notorietà. Un
pittore, celebre a quel tempo, il Molteni, fece un ritratto di lei in
un suo quadro la _Confessione_, che poi rividi nella galleria del _Bel
Vedere_ a Vienna.

Venuto il ’48, Luciano Manara, abbandonata la vita futile, diede
tutto sè stesso ai moti politici. Nelle _Cinque Giornate_, come s’è
visto, insieme con un drappello di giovani suoi amici combattè ai
Portoni di via del Giardino, ora Manzoni, e nei punti ove la lotta
era più grave e decisiva, e fu il capitano della presa di Porta Tosa.
Poi, con gli amici e con un gruppo di combattenti che lo seguirono,
era uscito da Milano inseguendo le truppe austriache e dando prove
continue di un valore e di un’audacia che diventarono leggendarie.
Dopo la capitolazione di Milano condusse i suoi volontari in Piemonte,
ove ne fu formato un battaglione di bersaglieri, di cui egli fu il
comandante. Questo battaglione si trovò colle altre truppe lombarde
all’avanguardia, alla Cava, quando gli austriaci passarono il Ticino.
Anche in quella circostanza il battaglione di Manara si fece onore,
finchè dovette ritirarsi con le altre truppe in seguito agli ordini,
rimasti misteriosi, del generale Ramorino. Dopo la battaglia di Novara,
il battaglione dei bersaglieri lombardi, volendo rimanere nell’azione
finchè in qualche punto d’Italia si combattesse per la libertà, si recò
a Roma. Questi volontari, i cui uffiziali eran tutti giovani eletti,
portarono in mezzo alle truppe repubblicane e garibaldine di Roma
i colori e la croce dell’uniforme piemontese, e il grido di guerra:
_Savoia_. La loro fede e il loro valore li circondò di un alto rispetto
anche tra i volontari di diverso partito; rispetto che rifulse sulla
causa che li aveva condotti a Roma.

Tra i reduci del battaglione Manara avevo parecchi amici, ma in quello
scorcio dell’estate ne rividi ben pochi. Alcuni erano feriti, come
Emilio Dandolo, Lodovico Mancini, il pittore Gerolamo Induno, il dottor
Scipione Signoroni; altri si ritirarono in campagna, o si tenevano
nascosti per non venire arrestati, come era avvenuto a Lisiade Pedroni.
I cadaveri di Manara, di Morosini, di Enrico Dandolo, dopo lunghe
pratiche, e molte difficoltà, erano stati trasportati a Vezia nella
tomba di famiglia dei Morosini; poi la salma di Manara fu trasportata a
Barzanò nella cappella di famiglia, oggi appartenente a casa Manati.

Rividi un mese dopo i reduci da Venezia, che colla salvaguardia
della capitolazione avevano potuto rientrare liberamente nelle case
loro. Erano sorvegliati, ma lasciati tranquilli. Nei primi giorni
si vedevano a gruppi per le strade: tutti avevano l’impronta delle
lunghe sofferenze patite; nullameno nell’attitudine e nei discorsi
conservavano alto il morale, come chi ha coscienza d’aver fatto
onoratamente il proprio dovere. Era uno spettacolo ben mesto il vedere
quegli ultimi avanzi delle nostre brevi speranze!

Caduta Roma, caduta Venezia, caduta l’Ungheria, il _quarantotto_ non
pareva più che un sogno, e gli animi si sentivano sgomenti pensando
al lungo servaggio che forse ci attendeva, come se fossimo ritornati
al 1815. A ricordarci la nostra condizione c’era lo stato d’assedio,
c’era un governo militare, forestiero e baldanzoso, che ci guardava con
disprezzo, e senza il freno della responsabilità.

Uno degli atti di prepotenza cieca che in quei giorni venne a
rivoltare maggiormente gli animi, fu quello d’una pubblica bastonatura
data in Milano. Il fatto avvenne nel mese di agosto. La guarnigione
celebrava il 18 la festa dell’Imperatore, e una certa Teresa Olivari,
modista, che dicevano in buone relazioni cogli ufficiali austriaci,
mise alla finestra un drappo giallo e nero in segno di festa. La
casa dove abitava la Olivari era dietro il _Coperto dei Figini_, ora
scomparso per dar luogo alla piazza del Duomo, in una via chiamata dei
Borsinari, che pure non esiste più, e che fiancheggiava l’attuale lato
settentrionale dei portici. L’esposizione di quel drappo fece fermare
la gente; a poco a poco si formò un assembramento, e incominciarono gli
urli e i fischi. Accorsero molte guardie di Polizia che, appoggiate
da una compagnia di soldati uscita dal palazzo reale, circondarono
la folla e arrestarono quanti non eran riusciti a fuggire. In quella
folla c’ero anch’io, ma fui tra quelli che potettero svignarsela.
Pochi giorni dopo, trentaquattro tra gli arrestati, comprese due donne,
ricevevano le bastonate pubblicamente sul piazzale dinanzi al castello.
E il comando militare mandava al Municipio il conto dei bastoni e
delle medicazioni! Conto che il podestà Pestalozza rimandava con parole
sdegnose.

L’indignazione prodotta da questo fatto fu grande. Un nuovo odio,
quello dell’affronto, si aggiungeva al cumulo degli odii antichi,
e sempre più profondo si faceva l’abisso tra il paese e i suoi
dominatori. Non lamentiamocene. La durezza e l’ignoranza dei governanti
militari giovarono non poco alla causa finale dell’indipendenza. Essi
diedero alle provincie italiane dell’Austria l’aspetto non di provincie
regolarmente governate, ma di paesi provvisoriamente occupati colla
forza come in guerra; resero sempre più acuto e stridente l’odio nelle
popolazioni soggette; col governo militare e con uno stato d’assedio
di otto anni continui mantennero viva la questione italiana dinanzi
all’Europa civile; e offersero la vittoria al genio di Cavour.

A quei marescialli e a quei generali austriaci furono eretti statue
e monumenti nei loro paesi; in verità, ne potremmo loro erigere anche
noi.

Venuto l’autunno si andò in Valtellina, e questa volta con noi c’era
anche mio fratello Emilio ch’era tornato a Milano dopo la restaurazione
del Granduca di Toscana, e dopo che fu sciolto il battaglione degli
studenti, nel quale egli si era arrolato.

Era triste e disgustosa la vita che si conduceva nella città; ma spesso
era anche peggiore quella dei piccoli paesi quando vi si trovavano dei
presidii militari. Gli abusi e le prepotenze dei capi secondarî, ancor
meno osservati e meno frenati, riuscivano più odiosi, e talora più
fatali.

Si stava male a Milano, ma trovammo che a Tirano si stava anche peggio.
Il paese era zeppo di soldati, tutti della Croazia, sospettosi, irosi,
e sempre in allarme: i confini verso la Svizzera erano occupati da
forti posti militari, e percorsi costantemente da pattuglie. Ogni
branco di pecore veduto da lontano era subito creduto una banda
rivoluzionaria. Nè li rassicurava l’amicizia che i grigioni in allora
dimostravano agli austriaci, ben più che agli italiani.

Eravamo a Tirano da pochi giorni quando un atto di impazienza e di
disgusto di mia madre ci procurò una punizione militare.

Per entrare nel salotto, dove mia madre stava di solito, si
attraversava un salone che voi, nipoti miei, conoscete e che conduceva,
da un lato della casa, ad alcune stanze che erano occupate dagli
uffiziali cui eravamo obbligati forzatamente a dare l’_alloggio_. Che
cosa vede un giorno mia madre? Gli _attendenti_ degli uffiziali avevano
piantato in mezzo al salone un fornello, servendosi dei colonnini e di
parte del davanzale del balcone che avevano distrutto; poi con delle
sedie spezzate avevano acceso il fuoco sotto una cazzeruola, da cui
usciva un fumo nauseante.

Mia madre, a quello spettacolo, uscì per un momento dalla sua calma
consueta, e pigliata la cazzeruola pel manico la fece volare fuori
dalla finestra prima che gli _attendenti_ croati arrivassero ad
impedirnela; poi si rinchiuse nel suo gabinetto.

Per alcuni minuti si sentì rintuonare la casa di voci irate, e di
sciabole ripercosse sullo scalone; poi tutto ritornò nel silenzio di
prima.

Ma alcuni giorni dopo ci capitò dal comando militare di Sondrio una
_Sentenza_ con la quale la famiglia Visconti-Venosta, colpevole
di un contegno ingiurioso verso gli _attendenti_ degli uffiziali
alloggiati in casa, veniva punita con l’occupazione della casa, a
tempo indeterminato, dando alloggio cioè a un’intera compagnia, ossia a
duecento soldati.

Poche ore dopo l’intimazione della Sentenza arrivò la compagnia, occupò
tutti i locali della casa che meglio garbavano al capitano, e noi fummo
obbligati a ritirarci in poche stanze.

Condanne di questo genere, multe ai Comuni per frivoli pretesti,
arresti, e di tanto in tanto qualche fucilazione, erano i fatti
soliti di quei giorni. Si viveva in continue apprensioni. Le piccole
vessazioni giornaliere dei comandanti del luogo si alternavano colle
vessazioni maggiori dei comandanti delle Provincie.

Ogni tanto capitava a Tirano improvvisamente da Sondrio qualche
uffiziale superiore, o qualche commissario di Polizia, accompagnato da
una scorta di soldati, che venivano a far perquisizioni, o a prender
nuovi provvedimenti di sicurezza. Non so come, poichè allora era un
secreto, qualcuno del paese n’era spesso prevenuto alcune ore prima,
e allora i principali patriotti, a buon conto, pigliavano subito il
largo: tra questi c’eran sempre il buon parroco di Tirano don Carlo
Zaffrani, mio fratello Emilio, mio zio Merizzi, i fratelli Salis, il
dottor Andres, l’ingegnere Antonio Della Croce e Luigi Negri. Parecchie
volte arrivarono simili avvisi durante la notte, e allora alla
spicciolata si pigliava la montagna e si andava al di là del confine
a Campocologno o a Brusio, villaggi svizzeri, ricoverandosi in qualche
osteria.

Un giorno si corse un brutto pericolo. Mio zio Merizzi venne a dirci
di buon mattino che nella notte erano arrivati da Sondrio un Maggiore e
un Commissario, che avevano fatto circondare di soldati il paese, e che
avevano principiata una severa perquisizione nelle case per scoprire se
ci fossero armi. Mia madre sapeva ch’erano state consegnate da un pezzo
alcune armi che c’erano in casa, ma a buon conto chiamò il fattore per
avvisarlo della imminente perquisizione. Allora il fattore ingenuamente
confessò che aveva consegnate le armi vecchie fuori d’uso, ma che aveva
trattenuto un fucile rimasto in casa l’anno prima consegnatogli da un
volontario.

Fu per tutti un momento di grande ansietà. Mia madre fece chiamar
subito un vecchio cantiniere di casa per fargli spezzar l’arme e
nasconderne poi i pezzi. Ma il cantiniere, vedendo mia madre tanto
agitata, disse: «Stia tranquilla... quest’arme scomparirà, ma non la
romperò, nè la consegnerò... la metterò in salvo... ci penso io.»

Ogni protesta da parte nostra fu inutile. Il cantiniere nascose il
fucile in una gerla in mezzo al fieno; poi, colla gerla sulle spalle
attraversò il paese, passò in mezzo ai soldati, e andò a sotterrarlo
in una vigna. Poco dopo avevamo la perquisizione in casa, e intanto il
buon cantiniere se ne ritornava tranquillamente da una spedizione che
avrebbe potuto costargli la vita. Mia madre non mancò di mostrargli
largamente la sua gratitudine per l’atto generoso.

Quell’autunno fu continuamente funestato dalle notizie dei rigori,
delle prepotenze militari, degli arresti, e delle fucilazioni, di cui
ci arrivava l’eco sinistra da ogni punto delle provincie lombarde e
venete. Si viveva in continui timori, e in continui sospetti. Ogni
cattivo soggetto, ogni pessimo arnese della Polizia, per vendetta o
per guadagno poteva farsi delatore, ed ogni delatore era creduto. Che
giorni angosciosi furon quelli!




CAPITOLO XI.

1850.


I.

  _Sommario:_ Squallore della città anche nell’inverno del 1850. —
  Stato d’assedio rigoroso. — Propositi per la resistenza al Governo
  austriaco. — Disciplina patriottica. — Astensione dai pubblici
  divertimenti. — La contessa De Capitanei Serbelloni, e le serate di
  famiglia in casa sua. — La sala di scherma in casa dei miei cugini
  Paravicini. — Il cugino Carlo Minonzi. — Faccio la conoscenza della
  contessa Maffei.

La nostra casa di Tirano era diventata quasi inabitabile dopo che era
stata occupata da una compagnia di croati; perciò sullo scorcio del
mese di ottobre, appena ultimati alcuni nostri affari, ritornammo a
Milano.

Fu un’invernata ben squallida anche quella del 1850! Lo stato
d’assedio era rigorosissimo, e la città aveva tutt’ora l’aspetto d’un
accampamento. Le famiglie ricche ritornarono tardi dalle loro campagne;
e ogni manifestazione di attività e di vita cittadina vi era spenta,
come in una città ove dominasse un’epidemia.

Gli emigrati, ch’erano stati numerosissimi, durante l’inverno,
ritornavano mano mano, alla spicciolata, all’infuori dei più
compromessi; molti richiamati dalle loro necessità domestiche, e molti
anche seguendo la giusta ispirazione che per la patria si opera meglio
in paese che fuori.

Come naufraghi sbattuti sulla riva quei profughi che rientravano,
e ch’erano stati in gran parte i più operosi nella rivoluzione, si
ritrovavano, si narravano i passati dolori, e si consultavano sulle
sorti infelicissime del paese, e sulla via da tenere.

Tutto era finito, tutto era perduto! Non s’erano perdute soltanto delle
battaglie, s’erano perdute quella concordia e quella fede che avevano
sollevati e diretti gli animi fino allora. La leva possente che aveva
mossa la rivoluzione pareva spezzata per sempre.

Il Piemonte abbattuto, la monarchia sospettata, i capi più autorevoli
e popolari dispersi o sfatati; e l’Europa, infastidita di noi, ci
ripeteva duramente di rassegnarci al nostro destino e di non molestarla
più oltre. Sembrava che si ripetessero anche per noi i destini della
Polonia.

Ogni illusione, ogni più fantastica speranza non aveva dinanzi a sè il
più lontano pertugio da cui intravvedere un raggio di luce.

In una simile condizione di cose poteva parer naturale, e quasi
giustificabile, che l’accasciamento degli animi consigliasse almeno una
momentanea rassegnazione, e che in questa il paese cercasse di medicare
le recenti ferite, e di risollevare almeno le proprie forze economiche.

Ma una nobile e felice ispirazione respinse allora, con unanime
consenso, ogni timido consiglio della ragione.

Tutto è perduto? Dunque si ricominci da capo! Tale fu la gloriosa
parola d’ordine di quei giorni, che uscì spontanea dal sentimento di
tutti.

Verso quale meta? Per quale strada? Con quale bandiera? Ognuno
aveva la propria, ma era unanime il sentimento di non ristare, e di
tirar dritto, fosse pure all’oscuro e verso l’ignoto. Era unanime il
sentimento della _resistenza_, della _resistenza_ a ogni costo!

La _resistenza_ doveva durare quasi dieci anni, traverso gravi dolori e
gravi sacrifici: e durò con una disciplina rigida, e che riescirà quasi
inconcepibile ai nostri nipoti.

Le provincie lombardo-venete, Milano alla testa, diedero per dieci
anni l’esempio d’un paese che in nome della propria nazionalità vive
completamente separato dagli stranieri che lo governano; che con quel
Governo rifugge dall’aver rapporti; e che tratta i suoi dominatori come
un’orda passeggiera di occupanti.

La vita giornaliera di questo rigido programma doveva riuscire ben
dura; ma fu vissuta, e non si piegò mai.

Le Cinque Giornate furono certamente una bella pagina della storia
milanese; me chi studierà i fatti del nostro risorgimento nazionale
dovrà concludere che col decennio della _resistenza_ Milano ha
scritto una pagina ancor più gloriosa nella propria storia. Perocchè
è più facile il diventare un eroe in un giorno di battaglia, che il
conservare l’animo alto e fiero durante una prigionia di dieci anni.

E appunto di quegli anni della prigionia ossia della resistenza,
io cercherò di parlare, raccogliendo quei pochi ricordi che mi sono
rimasti nella memoria; sicuro, e dolente, di non poter riunire che una
parte piccolissima dei fatti giornalieri di quei tempi... Altri, vorrei
sperarlo, ne riuniranno di più, e meglio di me; a me intanto par quasi
di adempiere a un dovere portando il mio contributo, sia pure tenue,
a quei ricordi che formano una pagina tanto gloriosa della storia di
Milano.

Milano in quei tempi ha salvata la causa dell’indipendenza italiana.

Giovani e giovanetti, studenti d’Università, di Licei, di Ginnasi,
tutti insomma, respirando in quell’ambiente patriottico, seguirono
subito con entusiasmo il programma dei più provetti, mettendoci per di
più tutto l’ardore dell’età loro.

I reduci dalle campagne del quarantotto, dall’assedio di Venezia e
dalla difesa di Roma, erano argomento tra noi giovanetti di ammirazione
e di esempio: ci proponevamo di emularli nelle lotte dell’avvenire,
e intanto ne seguivamo i consigli nella lotta giornaliera della
resistenza.

Cominciò allora a formarsi negli animi nostri quel sentimento di
devozione illimitata alla patria, di disciplina, e di abnegazione, che
tanto contribuì a formare il carattere di quella giovane generazione
la quale doveva tenere allora accesa la fiaccola della speranza, e
scendere poi sui campi di battaglia nel 1859 e nel 1860.

Nel programma di quei giorni c’era l’astensione dai teatri, e da
qualunque pubblico divertimento, caso mai ce ne fossero: ma ce
n’erano ben pochi, poichè lo stato d’assedio proibiva ogni più piccola
riunione. Anche i teatri erano pressochè tutti chiusi, all’infuori del
teatro alla Scala, che il Governo militare faceva tenere aperto per
divertire gli uffiziali della guarnigione che ne erano pressochè i soli
frequentatori.

Anche nelle case private non c’erano nè ricevimenti, nè balli che non
avessero un carattere affatto domestico, e della maggiore intimità. E
io ritornai alle serate presso i parenti, e alle festicciole domenicali
colle cugine, lieto di poter combinare le esigenze del lutto della
patria con la smania che avevo di ballare.

La mia qualità di ballerino instancabile mi procurò il piacere di
venire presentato alla contessa Giovanna De Capitanei di Scalve, nata
Serbelloni, nella cui casa si radunavano le sue figlie, i generi, le
nipoti e le loro amiche, e dove tra giovani e giovanette si facevan
quattro salti la sera una volta per settimana.

La contessa De Capitanei, com’era chiamata generalmente, ma che rimasta
vedova erasi rimaritata col conte Luigi Attendolo Bolognini, era figlia
del duca Alessandro Serbelloni e della principessa Rosina Sinzendorf
di Vienna, sicchè aveva molti parenti in Austria, e tra questi anche
qualche generale dell’esercito austriaco; aveva una posizione cospicua
a Corte, quale dama di Palazzo e della Croce Stellata, ed era amica
della Vice-Regina, l’arciduchessa Maria Elisabetta sorella di Re Carlo
Alberto.

Il suo passato, la sua parentela, le sue amicizie le avevano creato
dei legami nelle _alte sfere_ sociali e politiche di Vienna. Nullameno
aveva assistito con molta tolleranza, e talora con una certa simpatia,
agli avvenimenti rivoluzionari di Milano, ai quali avevano preso parte
attiva i suoi generi e i suoi parenti dell’aristocrazia milanese. Essa
di solito se la sbrigava dicendo che gli austriaci d’allora non erano
più quelli del buon tempo antico, alludendo ai tempi di Maria Teresa e
di Giuseppe II. Dopo il ’48 troncò ogni relazione coi parenti e cogli
amici austriaci.

La contessa Giovanna era un tipo di tempi ormai tramontati, e che
perciò si osservava con curiosità.

Quando parlava del passato non mancava di manifestare la sua antipatia
per Napoleone che le aveva detta una sgarbatezza; solo ricordo che
conservasse di lui. Il generale Bonaparte, pranzando un giorno in casa
Serbelloni, le aveva chiesto il nome, e saputolo aveva soggiunto: «Ah
sì, avrei dovuto accorgermene dal naso.» I Serbelloni avevano tutti un
naso aquilino spiccatissimo.

La contessa De Capitanei aveva avuto un unico figlio maschio e tre
figliuole. Il maschio, conte Pirro, respirando già l’aria dei nuovi
tempi, e ad onta delle sue alte parentele austriache, s’era compromesso
negli affari politici del 1821, e s’era arrolato nelle truppe
piemontesi durante l’insurrezione militare: poi aveva dovuto emigrare.
La contessa ebbe allora un lungo carteggio con Metternich (che mia
moglie nipote di lei conserva ancora) per ottenere al figlio una grazia
che non fu concessa che assai tardi, quando il conte Pirro, malato e
sfinito, non poteva ormai tornare in patria che per morirvi.

Con lui si estinte il ramo dei De Capitanei di Scalve. Delle tre figlie
la maggiore sposò un Carcano, e le altre due sposarono due fratelli, i
marchesi Francesco e Giuseppe d’Adda Salvaterra.

La contessa Giovanna, quand’io la conobbi, era una vecchia sui
settant’anni: aveva abitualmente una strana acconciatura del capo,
fatta d’un berretto di velluto nero che le scendeva a punta sulla
fronte, alla Maria Stuarda; e pur essendo donna di cuore aveva il fare
imperioso e risoluto. Le era sempre piaciuto di ostentare un po’ il
fare e le abitudini da uomo; girava per le sue campagne a cavallo sola,
e raccontava con piacere che ferrava essa stessa i propri cavalli da
sella, quand’era in campagna, non fidandosi del manescalco.

Alle conversazioni della contessa feci la preziosa conoscenza dei
suoi generi, Francesco e Giuseppe d’Adda, due tra i più ferventi
patrioti dell’aristocrazia milanese, fratelli di quel marchese Camillo
d’Adda che figurò tanto onorevolmente nei processi del 1831; e rividi
quella Lauretta, figlia del marchese Francesco, con la quale mi ero
bisticciato per una quadriglia in casa Trotti quando eravamo bambini,
ora fatta una giovane da marito, e che doveva, come già dissi,
diventare un giorno mia moglie.

Ma oltre al ballare ci voleva anche qualche esercizio che potesse
parere di carattere patriottico, come per esempio la ginnastica e
la scherma; la scherma soprattutto pel caso di duelli con uffiziali
austriaci, duelli ch’eran pure nel programma della resistenza, e che
già ci frullavan per la testa.

Ma le sale di ginnastica e di scherma eran chiuse. Allora si pensò,
d’intesa con alcuni miei cugini ed amici, di farci noi una sala per
quegli esercizi.

Un mio cugino studente di medicina, Lamberto Paravicini, fu l’anima
di quel progetto; ci procurò una stanza a terreno nella casa di sua
sorella, e propose che si dovesse dipingerla e arredarla noi stessi.

Per alcuni mesi ci passammo le sere sulle scale, come tanti
imbianchini, con le secchie e con pennelli dal lungo manico, a
dar tinte, a tirar linee, e a dipingere certi emblemi patriottici,
fatti col carbone, che volevan essere trofei e stemmi delle città
d’Italia. Poi con una cena, e con brindisi sottovoce, se ne fece
la inaugurazione; e in parecchi amici per alcuni anni ci si andava
qualche ora ogni sera facendo esercizi di ginnastica e di scherma,
divertendoci, e anche facendo i nostri _complotti_ patriottici in
parecchie occasioni. La scherma ci veniva insegnata da qualche amico
buon tiratore; fra gli altri ricordo Battaglia e Francesco Rosari. Le
sciabole avevano l’impugnatura di ferro, ma la _lama_ di legno, poichè
allora non se ne permettevano altre. Anzi una volta i gendarmi di
Tirano, per maggior zelo, mi sequestrarono anche le sciabole di legno.

La nostra sala di scherma e i ritrovi che ci si tenevano, durarono
parecchi anni. Un altro mio cugino, Carlo Minunzi, ch’era uffiziale
in Piemonte, alle volte faceva qualche breve corsa a Milano, di solito
nascostamente, e allora capitava sempre nella sala a salutar gli amici.
Carlo Minunzi era un bel giovane, ardito e gioviale; tra i cugini e gli
amici godeva molte simpatie, e vi aveva anche una certa autorità per
le molte prove del suo coraggio. Nelle _Cinque Giornate_ era stato uno
tra i più audaci nel manipolo Manara, che poi aveva seguito col primo
gruppo di volontari usciti da Milano. Poco dopo era stato nominato
uffiziale nei granatieri piemontesi quando Carlo Alberto aveva voluto
premiare, con un grado nel suo esercito, alcuni tra i volontari più
meritevoli. Dopo la battaglia di Novara, a cui prese parte, rimase in
Piemonte, ove continuò la carriera militare: fu in Crimea, diventò
uffiziale di stato maggiore, fece le campagne del 1859, del 1860 e
del 1866, in quest’ultima campagna come colonnello sottocapo di stato
maggiore del generale Cialdini.

Quando prima del ’59 capitanava il Minunzi nella nostra famosa sala
di scherma, era una festa per tutti. Egli era buon ginnasta e buon
tiratore; ma soprattutto era un soldato dell’esercito piemontese; e
al Piemonte si guardava sempre con una secreta simpatia, anche in quei
primi anni dopo il 1849 nei quali bisognava essere mazziniani.

Sul finire dell’inverno del 1850 feci una cara conoscenza, quella
della contessa Clara Maffei, presso cui dovevo trovare un’amicizia
affettuosa e quasi materna, e la cui casa m’ha lasciato dei ricordi
indimenticabili. Mio fratello Emilio l’aveva conosciuta parecchi mesi
prima, e la contessa sentendomi nominare aveva voluto conoscere me
pure.

Sulla contessa Maffei ha scritto un bel libro ricco di informazioni
veritiere, e di giusti apprezzamenti, Raffaello Barbiera. Avrei poco
da aggiungere a quel libro, ma il nome della contessa mi verrà sovente
sotto la penna, poichè è legato ai principali miei ricordi di quel
tempo.




CAPITOLO XII.

1850.


II.

  _Sommario:_ La contessa Clara Maffei e il suo salotto. — Il
  conte Cesare Giulini. — Amici intimi e amiche della contessa.
  — Il _Crepuscolo_. — Carlo Tenca e i suoi collaboratori. —
  Carmelita Manara Fè, i suoi amici, e la contessa Ermellina
  Dandolo. — Ufficiali e soldati ungheresi. — Il conte Bethlen e suo
  nipote. — Primi accenni a nuove cospirazioni. — Organizzazione
  dei Comitati rivoluzionari in alcune città di Lombardia e del
  Veneto. — Il prestito di dieci milioni bandito da Mazzini per
  ordire la rivoluzione. — Primi processi politici a Venezia. —
  Dottesio condannalo a morte. — Il Comitato centrale di Mantova
  e il sacerdote Enrico Tazzoli. — Il Clero lombardo e il Governo
  austriaco.

Clara Maffei aveva allora trentasei anni, ed era divisa da qualche
anno da suo marito, il poeta Andrea Maffei; era figlia unica del conte
G. B. Carrara Spinelli, e tutti la chiamavano la _contessa_. Era una
donnina piccola, piacente più che bella, elegante, di maniere distinte
e gentilissime; parlava bene, ogni suo discorso era improntato a un
patriottismo ardentissimo, e si affezionava ai suoi amici e alle sue
amiche tanto profondamente e imparzialmente da farci dire ch’essa aveva
una spiccata predilezione... per tutti.

La prima volta che entrai nel suo elegante salotto, a un secondo
piano di via Bigli, condottovi da mio fratello, la mia soggezione fu
grande; ma la contessa mi accolse con una affabilità tanto disinvolta
e amorevole, invidiandomi scherzevolmente la mia età giovanile, che mi
parve di esserle amico da un pezzo. D’allora, finchè visse non passò
giorno, quand’ero a Milano, che di giorno o di sera, foss’anche per
pochi minuti, non facessi la mia visita alla contessa Maffei.

A quel tempo, e fino al 1859, la società di casa Maffei si componeva
di pochi, ai quali però si potrebbe applicare il notissimo _pochi ma
buoni_; tutti amici intimi e tutti patriotti, d’animo alto e vigoroso.
Da quel salotto elegante e intelligente si irradiava una luce e direi
quasi una volontà direttiva di azione patriottica, che ebbe una grande
influenza morale in quegli anni, difficili e duri, della resistenza.

Il giorno della mia presentazione c’era nel salotto il conte Cesare
Giulini che non conoscevo ancora personalmente. Aveva fatto parte del
Governo Provvisorio, e approfittando dell’amnistia era ritornato da
poco a Milano, convinto, come diceva, di poter meglio servire il suo
paese vivendo in patria che nell’esilio. E infatti fu tra quelli che
lo servirono con maggiore efficacia; lo servì con l’autorità del suo
nome, col suo ingegno, colla sua generosità, coll’esempio, e colla
costanza della sua fede. Fermissimo sempre nei suoi principî liberali
monarchici, era tollerante ed amico di molti che allora professavano
principii diversi, purchè fossero saldi come lui nel volere
l’indipendenza della patria. Ogni opera buona, benefica e patriottica,
trovava in lui un iniziatore o un appoggio generoso. Il suo largo censo
era tutto a servizio della patria e del bene: faceva continui acquisti
di libri, e di opere costose, che poi prestava e diffondeva tra quanti
gliene facevan richiesta, quasichè la sua fosse una pubblica biblioteca
circolante, per diffondere gli studi e la coltura tra i meno favoriti
dalla fortuna.

Cesare Giulini aveva avuto un fratello maggiore di nome Rinaldo, di
cui sentii parlare dal Correnti e da altri come d’un giovane d’ingegno
superiore e di grandi speranze. Era di quel gruppo cui appartenevano
Correnti, i fratelli Porro, Giovanni e Carlo d’Adda, e la sua morte fu
un lutto nella gioventù liberale di quel tempo. Loro avo era stato il
conte Cesare Giulini, l’illustre storico di Milano; e il loro padre il
conte Giorgio, alla caduta del Governo napoleonico, era stato membro
della Reggenza Cesarea.

Tra gli amici più intimi che vedevo allora giornalmente dalla
contessa Maffei ricorderò, oltre mio fratello Emilio e il Giulini,
Carlo Tenca, Tullo Massarani, Giulio Carcano, Antonio Cussalli, il
dottor Romolo Griffini, Antonio Allievi, Giacomo Battaglia, Antonio
Lazzati, Carlo De Cristoforis, l’ing. Tagliaferri, il dottor Bartolomeo
Garavaglia, Innocente Decio, Emilio Bignami Sormani. E quando dai
loro paesi d’altre provincie venivano a Milano, non mancavano mai G.
B. Camozzi di Bergamo, Giuseppe Finzi, il marchese Fossati, Giuseppe
Zanardelli, Giuseppe Verdi. Di giorno venivano alcune signore della
società elegante e aristocratica, da poco tornate dalle loro campagne
o dall’estero in Milano. Di sera ci venivano solo alcune amiche più
intime, le signore Saulina Viola Barbavara, Orsola Bianconi Robecchi,
Giulietta Pezzi, e poche altre. Alcuni anni dopo il numero degli amici
e delle amiche si accrebbe, e il salotto, pur conservando un carattere
d’intimità, accolse altre persone note nel campo degli studi e del
patriottismo, e giunse presto all’apogeo della sua fama e della sua
importanza.

In principio di quell’anno Carlo Tenca aveva fondato un giornale
settimanale, che chiamò il _Crepuscolo_, con l’intento di farne un
centro di studi e di aspirazioni politiche, sebbene non fosse, e non
potesse essere, collo stato d’assedio, un giornale esclusivamente
politico. L’importanza e l’influenza di questo giornale, che usciva
una sola volta la settimana e trattava principalmente di letteratura,
di arte o di scienze economiche, divennero subito grandi e diffuse.
Gli articoli erano tutti ispirati alla nobiltà e alla rigidità del
carattere del suo direttore. In quegli studi si intravedeva sempre un
fine elevato e patriottico, per quanto lo concedeva la difficoltà dei
tempi. In ogni numero c’era una rivista che esponeva con rara abilità
i fatti politici della settimana avvenuti in ogni parte del mondo, ma
serbando sempre il più assoluto silenzio su ciò che avveniva in Austria
o nelle provincie italiane ad essa soggette. Questo silenzio che non
poteva essere incriminato, fu la continua protesta del _Crepuscolo_;
tutti la comprendevano, ed ebbe un’efficacia più grande di qualsiasi
manifestazione clamorosa. Il _Crepuscolo_ fu un esempio raro di
quanto possa esser grande l’influenza d’un giornale, dovuta non solo
all’importanza degli scritti, ma alla rispettabilità e al carattere
degli scrittori.

Il primo numero del _Crepuscolo_ uscì il 6 gennaio del 1850, e col
Tenca i suoi primi collaboratori furono Tullo Massarani per articoli
di lettere ed arte; mio fratello Emilio per scritti di letteratura,
di scienze sociali e politiche; Antonio Allievi, Antonio Colombo,
Innocente Decio che scrivevano di economia politica, di statistica, di
scienze giuridiche; Eugenio Camerini che faceva la critica letteraria
e Giuseppe Mongeri la critica d’arte; il dottor Romolo Grifoni e
Giovanni Cantoni, i quali vi trattavano questioni di scienze naturali
e di igiene. Più tardi vi scrissero Emilio Bignami Sormani, Giacomo
Battaglia, che morì poi nel combattimento di S. Fermo, e Enrico Fano:
tra i molti corrispondenti delle provincie ricordo Gabriele Rosa,
Giuseppe Zanardelli e Giovanni Rizzi, che poi fu uno degli amici intimi
nel salotto della Contessa.

Il Tenca, ingegno sodo, versatile, coltissimo, oltre la rivista
politica, scriveva d’un po’ di tutto, ed esercitava una censura severa
sugli scritti de’ suoi amici, per mantenere al giornale una continua
uniformità negli intenti e nel modo di manifestarli.

In quell’anno feci un’altra cara e preziosa conoscenza: fui
presentato alla signora Carmelita Manara Fè, la vedova di Luciano
Manara, una signora intelligente, interessante, e che non ostante
le sofferenze d’una salute disfatta conservava ancora i lineamenti,
direi raffaelleschi, della sua primitiva bellezza. Diceva allora,
con molta serenità, di non aver più che un polmone; e forse era vero
perchè morì poi etica; come morirono etici i suoi tre figli. Il suo
salottino era frequentato da egregi giovani, quasi tutti reduci dalle
ultime campagne, di cui parecchi erano stati commilitoni e uffiziali
nel valoroso battaglione di suo marito; e tra questi il più assiduo
era Emilio Dandolo, nelle cui braccia appunto suo marito aveva a Roma
esalata l’anima generosa. In quell’anno però il Dandolo era partito
per un lungo viaggio in Oriente con Lodovico Trotti. Dopo le peripezie
del 1848 e del 49 quei due valorosi giovani avevano protratto, più che
avevano potuto, il ritorno nel loro afflitto paese.

Nel salottino della Manara conobbi allora la contessa Ermellina
Dandolo, seconda moglie del conte Tullio, padre dei fratelli Dandolo,
della quale mi occorrerà di parlare più avanti in questi miei ricordi.

La vita intima e confidente nei piccoli crocchi di amici ci era resa
tanto più preziosa, e direi necessaria, dalla durezza stessa dei
tempi, e dagli incredibili rigori d’un governo militare, che rendeva
impossibile ogni più piccola manifestazione di vita pubblica. I
ritrovi, i colloqui fidati, le ansie, e talora i pericoli attraversati;
crearono tra gli amici di quel tempo dei ricordi e dei vincoli come tra
persone scampate insieme da un disastro.

Dappertutto le condizioni pubbliche erano tristi, e la vita era dura in
quel periodo della reazione violenta. In Ungheria, per esempio, erano
succeduti, e succedevano, fatti gravi e raccapriccianti: dell’esercito
insurrezionale degli honveas dodici generali erano stati impiccati, i
soldati erano stati incorporati forzatamente nei reggimenti austriaci,
e così pure gli uffiziali di qualunque grado quali semplici soldati.

Rammento a questo proposito un episodio capitatomi nell’inverno di
quell’anno.

Viveva a Milano un conte Bethlen, ungherese e già maggiore degli
ussari, assai ricco, il quale, parecchi anni prima del 1848, era uscito
dall’esercito e stabilitosi a Milano aveva sposato una cugina di mio
padre, donna Teresa Gianella. Era un uomo alto e forte, aveva il viso e
il naso schiacciati, i baffi rossicci, lunghi ed irti; ma aveva l’animo
buono e gentile; le sue maniere erano dolcissime, e da gran signore;
veniva molto in casa nostra, ove lo vedevo fin da bambino.

Una mattina di gennaio me lo vidi ad un tratto capitare nella mia
stanza, non avendo trovata mia madre ch’era uscita di casa. Il
suo aspetto era tutto mutato, il suo viso era stravolto, e aveva
un’espressione d’ira e quasi di ferocia. Quella sua faccia, di solito
tanto bonaria, mi parve in quel momento la faccia selvaggia d’un
soldato barbaro; il suo occhio era diventato duro e scintillante; nel
suo fare c’era qualcosa di violento, da far paura.

«Che c’è? che cosa è successo?» gli domandai ansiosamente e spaventato.

«Vieni, vieni subito con me... vedrai, vedrai!» mi rispose, e volle che
lo seguissi.

Nevicava. A grandi passi mi condusse nella via del Monte di Pietà,
dov’egli aveva una bella casa. Gli chiesi ancora, timidamente, per
strada che cosa fosse successo, ma egli non mi rispondeva che con lo
stringermi fortemente la mano.

Arrivati alla porta della sua casa, e tirandomi dietro uno degli
stipiti, mi additò poco distante, e dal lato opposto, il palazzo
dell’attuale Cassa di Risparmio, dove allora c’era la caserma del Genio
militare. Dinanzi al portone della caserma passeggiava in su e in giù
una sentinella, un bell’uomo alto, ravvolto in un gran cappotto, e
tutto coperto di fiocchi di neve.

«Vedi quel soldato?» mi chiese, «quello è mio nipote, il capo futuro
della mia casa, è il conte Bethlen, colonnello degli Honveds nella
guerra dell’indipendenza!»

E su quel viso, la cui espressione s’era fatta ancora più dura e
minacciosa, scendevano intanto due lacrime. Quanto dolorosa doveva
essere, in quel momento, la rivolta nell’animo aristocratico e fiero di
quello zio![17]

In quei giorni per le strade di Milano se ne vedevano parecchi di tali
soldati semplici, attillati e dal portamento distinto, ch’erano stati
uffiziali, e anche uffiziali superiori dell’esercito insurrezionale
ungherese, ora incorporati nei reggimenti austriaci quali semplici
soldati.

Per quanto il regime dello stato d’assedio fosse duro e grave di
pericoli, per quanto fosse recente il ricordo dei disastri, e ben
lontana la possibilità d’una riscossa, pure qua e là si riannodavano i
fili spezzati dei vecchi legami politici, e si cominciava a riaccendere
qualche focolare di cospirazione, per quell’intesa generale del
resistere e del principiare da capo.

Queste prime cospirazioni, che poi andavano man mano crescendo, erano
di carattere mazziniano. La bandiera monarchica, dopo le sconfitte
del 1848 e del 1849, aveva perduto gran parte del suo prestigio
nella fantasia popolare di Lombardia, ove non esisteva una tradizione
monarchica nazionale. Il Piemonte, intento seriamente a rimarginare le
sue ferite, con una savia e dignitosa politica di raccoglimento, non
era fatto per eccitare e per soddisfare le impazienze degli oppressi.

Le promesse piene di mistero e di nebulosità di Giuseppe Mazzini; i
suoi scritti miti e a un tempo intransigenti come di un apostolo; la
sua parola ispirata, affascinante; la sua opera di propaganda e di
azione costante, giornaliera; il suo lavoro, che tendeva a una riscossa
vicina, dovevano esercitare un gran fascino sulle fantasie di patriotti
ardenti che volevano affrettare la rivincita della Patria.

Era quindi naturale che i seguaci di Mazzini fossero diventati allora
assai numerosi, e che le nuove cospirazioni di Mazzini in quei giorni
erano seguaci convinti di tutte le sue idee; parecchi lo seguivano
in nome del principio unitario; altri perchè persuasi che soltanto
con un’agitazione continua si potesse tener vivo il programma della
resistenza. E questi infatti li vedremo staccarsi subito dal Mazzini
quando Cavour, colla sua mano forte e sicura, prese secretamente
la direzione della resistenza, e alzò la bandiera dell’indipendenza
nazionale.

Nell’inverno tra il 49 e il 50, come seppi da Emilio, vi era stata una
riunione nello studio di Francesco Brioschi, che dava allora lezioni
di matematica; e in questa adunanza si manifestò la scissione tra due
diverse tendenze.

Il Tenca, seguito dall’Allievi, da mio fratello Emilio e da altri,
sostenne che bisognava tener vivo il sentimento nazionale e di
resistenza cogli studi, colle pubblicazioni, per quanto si poteva, e
coll’agitazione delle idee. Gli altri furono invece per ordine delle
società segrete. Il Tenca pensò allora di pubblicare il Crepuscolo,
gli altri nominarono, con una specie di votazione, un Comitato segreto
di cospirazione di cui fecero parte De Luigi, Pezzotti, Mora, Gerli:
Comitato disperso poi dal processo di Mantova.

Da allora si erano andati formando in diverse città di Lombardia e del
Veneto, e sotto gli auspicî di Mazzini, altri comitati secreti, il
cui scopo da principio era stato quello di mantenere tra le diverse
provincie delle relazioni che all’occorrenza potessero servire per
un’azione pronta e unanime, quale appunto era mancata nella rivoluzione
del 1848. Questi comitati però nel pensiero di Mazzini dovevano servire
alla preparazione immediata della rivoluzione.

Infatti un Comitato nazionale italiano, che Mazzini aveva costituito
a Londra in quell’anno, pubblicava il 10 settembre un proclama[18],
col quale bandiva un prestito di _dieci_ milioni per affrettare
l’indipendenza italiana. Quel proclama e quel prestito parvero allora
un atto audace, e di alta importanza; mentre effettivamente non
dimostrava che l’imprudenza e l’ingenuità di chi l’aveva pensato.
E infatti con ciò si mettevano tutte le Polizie, e specialmente
quelle della Lombardia e del Veneto, sull’avviso di nuovi tentativi
rivoluzionari; e come mai si sarebbero potuti raccogliere dieci
milioni, con piccole sottoscrizioni, in secreto, o durante lo stato
d’assedio?

Anche allora però dissentivano parecchi, e il prestito dei dieci
milioni trovò forti contradditori. Tra i principali, che già non
seguivano Mazzini nell’azione, c’erano Garibaldi, Manin, Montanelli,
Cattaneo, Cernuschi, Giuseppe Ferrari, e molti tra gli emigrati più
noti; maggior seguito egli aveva nelle provincie italiane, soprattutto
in quelle occupate dall’Austria: in queste la disperazione teneva
luogo del ragionamento, ed ogni più folle speranza pareva migliore del
disperare.

Il prestito ebbe, com’era naturale, un esito tenuissimo e disastroso;
a che cosa poi dovessero servire, non i milioni, ma le poche migliaia
di lire che furono stentatamente raccolte, lo vedremo più innanzi; come
pure vedremo quale doveva essere la tragica fine dei Comitati.

I Comitati intanto avevano avuto l’incarico da Mazzini di ricevere
e mettere in vendita le cartelle del prestito. Senza troppo pensare
alla vanità del progetto e alle conseguenze terribili che ne potevano
venire, uomini serii e patriotti provati, si misero all’opera per
assecondare Mazzini. Giuseppe Finzi e Tullo Massarani erano andati
appositamente a Londra, e n’eran tornati carichi di cartelle, che
poi introdussero in Lombardia. Anche mio fratello Emilio, anch’io ne
ricevemmo e ne mettemmo in giro. Da principio ciò si faceva in gran
secreto; ma poi la diffusione si fece con minore riserva: si conosceva
il gran rischio, ma non ci si pensava; nessuno ancora supponeva che
dovessero condurre tanti al patibolo.

Ma non si tardò ad avere una nuova prova della crudele severità del
governo militare col processo politico di Venezia, e colle condanne,
tra le quali quella del Dottesio che per avere introdotto dalla
frontiera di Como soltanto dei libri e delle corrispondenze, veniva
impiccato a Venezia l’11 ottobre del 1851 (Veggansi le memorie del
Maisner).

All’infuori dello spaccio delle cartelle di Mazzini, i Comitati non
fecero, durante quell’anno, gran che. Parecchi, seguendo l’impazienza
del Maestro, avrebbero voluto far di più: intanto si era pensato a un
migliore ordinamento dei Comitati stessi; e il novembre del 1850, in
una riunione in Mantova di diciotto, cittadini e delegati, si costituì
sotto la presidenza del sacerdote professor Enrico Tazzoli un Comitato
centrale, il quale doveva disciplinare e dirigere l’azione dei Comitati
delle varie provincie.

Per quanto questi primi atti della cospirazione mazziniana procedessero
poco cautamente, le autorità austriache per un pezzo non si avvidero
di nulla. Il distacco tra il paese e chi governava era così grande che
anche il trovare delle spie non riusciva sempre facile. Del resto i
governanti ben poco si curavano di ciò che si pensava nel paese e di
ciò che potesse succedere nell’avvenire; poichè il gran da fare era
quello di cancellare ogni traccia, ogni ricordo del quarantotto, e
di coprire tutto con una cappa di piombo, sotto la quale il paese non
potesse nè muoversi nè respirare.

Uno dei ricordi del quarantotto che aveva maggiormente eccitato le
fantasie dei governanti austriaci, era stata la condotta del clero
durante il periodo della rivoluzione. La condotta del clero di
Lombardia, durante quegli avvenimenti, era stata infatti patriottica;
la maggior parte dei preti, e specialmente i più eminenti per ingegno
e per carattere, avevano seguito le aspirazioni nazionali dei loro
concittadini, e talora le avevano aiutate con la parola e con l’opera.

Il regime severo dell’arcivescovo di Milano, durato oltre trent’anni,
regime ispirato al principio d’una certa elevatezza, aveva contribuito
non poco, come s’è detto, a formare un clero buono, colto e
rispettabile.

Il Governo austriaco, appena ristaurato nelle provincie italiane, dopo
il 9 agosto s’era messo subito a perseguitare e a disperdere i preti
di patriottismo. Prese di mira pei primi i migliori e i più dotti,
cacciandoli dai seminarî, dagli ospedali e dalle opere pie, facendoli
relegare in piccole parrocchie di campagna, od obbligandoli a ritirarsi
in uffici minori. L’arcivescovo Romilli, succeduto al Gaisruck, debole
e pauroso, malvisto anch’esso dal Governo austriaco pei buoni rapporti
che aveva avuti col Governo Provvisorio non aveva saputo difendere il
suo clero. E così fecero gli altri Vescovi; anche quando il Governo,
potendo avvolgere qualche prete in processi politici, li aveva fatti
fucilare o impiccare.

Inutile dire che questi infelici furono abbandonati nel tempo stesso
anche da Roma, che ne concesse senza proteste, la sconsacrazione: erano
già ben lontani e dimenticati i giorni in cui il Papa aveva benedetto
l’Italia, e gli austriaci insultavano il Papa.

Molti chierici dei seminari lombardi avevano fatta la campagna del
quarantotto nei battaglioni degli studenti e dei volontari. Pressochè
tutti ripresero poi l’abito sacerdotale; alcuni, commossi nelle loro
coscienze, nel vedere il nuovo indirizzo della Chiesa che volgeva a
ritroso dei loro sentimenti patriottici, si fecero missionari.

Ne ho conosciuti parecchi di questi preti, chiamati, con un senso di
riverenza dagli uni, e da altri con ironia, i _preti del quarantotto_;
i quali, traverso una vita non sempre scevra di amarezze, ma
intemerata, seppero conservarsi fedeli al loro antico ideale della
religione non disgiunta dalla patria; e riveriti e stimati da persone
d’ogni partiti furono veri ministri di pace e d’ogni più eletta virtù
cristiana.


  NOTE.

  [17] Il conte Bethlen ebbe una sola figlia che maritò a Milano
  prima al Principe Fabio Gonzaga, poi in seconde nozze al nobile
  Giovanni Frigerio.

  [18] Il _Proclama_ di Londra era in nome di sessanta Rappresentanti
  della Costituente Romana; ma pare invece che quei Rappresentanti,
  d’un’Assemblea disciolta, non si fossero riuniti nè in molti nè in
  pochi, e che non avessero dato a Mazzini quel mandato. Questo fu
  un espediente per giustificare, dinanzi al partito rivoluzionario
  italiano, la dittatura che Mazzini assumeva in quei giorni. Ecco il
  Proclama:

                      PRESTITO NAZIONALE ITALIANO

  1. Il Comitato Nazionale apre un prestito di _dieci_ milioni di
  lire italiane.

  2. Il prestito è diviso in duecentocinquanta mila azioni, cinquanta
  mila di lire cento, e duecento mila di lire venticinque per
  ciascuna. Le cartelle sono distribuite in serie, e portano ognuna
  di esse un numero progressivo.

  3. Le azioni verranno consegnate all’acquirente al momento in cui
  sborserà il valsente. Le azioni sono al presentatore, trasmissibile
  d’una in altra persona colla semplice tradizione della Cartella, il
  cui possesso prova la proprietà dell’azione, e il credito di tutti
  gli interessi decorsi.

  4. Gl’interessi decoreranno alla ragione del sei per cento
  all’anno, dal momento della consegna verso pagamento del prezzo,
  momento che sarà indicato nelle cartelle dalle persone incaricate
  dal Comitato di distribuirle.

  5. L’impiego delle somme incassate è fatto dal Comitato Nazionale,
  secondo le facoltà indicate nell’atto sopraccennato del 4 luglio
  1849, esclusivamente in acquisto di materiali da guerra, o in
  altro che concerna direttamente il conseguimento dell’indipendenza
  e della libertà d’Italia. Nessuna parte del fondo potrà essere
  distratta in sussidi di qualunque genere.

  6. Le somme incassate verranno depositate in Londra, presso
  i banchieri Martin, Stone e Martin, 68, _Lombard Street_. Il
  Comitato, a norma delle circostanze, potrà cangiare il luogo del
  deposito.

  7. Una commissione di sei individui, metà italiani, metà stranieri,
  verificherà periodicamente lo stato generale d’entrata e d’uscita
  dell’imprestito. Questi verificatori non potranno inceppare in modo
  alcuno l’amministrazione.

  8-9. Modalità .............

  10. Costituito in Italia un Governo Nazionale, il Comitato
  Nazionale Italiano deporrà nelle sue mani i libri, i registri delle
  cartelle rimaste invendute, il materiale da guerra acquistato, e
  ogni cosa concernente l’imprestito. La commissione dei verificatori
  farà in quel tempo la sua relazione allo stesso Governo.

  11. Il Comitato Nazionale Italiano e i segnatari dell’atto citato
  assumono l’obbligo di fare quanto è in loro potere, perchè questo
  Governo Nazionale, riconosciuto il debito contratto, fissi l’epoca
  la più breve pel rimborso del capitale e de’ suoi interessi.

  12. Il Comitato Nazionale promette assoluto segreto pel nome degli
  acquirenti che volessero, finchè durano le attuali condizioni
  politiche, rimanere ignoti. Terrà registro nondimeno dei nomi e
  delle somme versate, perchè a tempo debito possano avere, fra i
  loro concittadini, testimonianza del non avere disperato della
  salute del paese, e dell’aver cooperato ad affrettarla.

                            . . . . . . .

  (_Dagli scritti editi ed inediti di Giuseppe Mazzini_):

                         =Cedola del Prestito.=

    _Dio e Popolo:_

                      PRESTITO NAZIONALE ITALIANO

                    DIRETTO UNICAMENTE AD AFFRETTARE
                   L’INDIPENDENZA E L’UNITA’ D’ITALIA
                           FRANCHI 10 (o 25)

    Ricevuta di franchi _dieci_ (o venticinque) di Capitale col
    mercantile interesse di mezzo franco al mese a datare di questo
    giorno.

                       _Pel Comitato Nazionale:_

                            GIUSEPPE MAZZINI
                   AURELIO SAFFI — MATTIA MONTECCHI.




CAPITOLO XIII.

1851.

  _Sommario:_ Chiusura delle Università, e l’insegnamento privato.
  — Il duello di Luigi Della Porta. — I Comitati minori di
  cospirazione. — G. B. Carta, alcuni suoi colleghi. — Il fatto del
  dottor Vandoni. — L’uccisione del Corbellini. — Il tappezziere
  Antonio Sciesa. — Condanne e fucilazioni, tra le quali quella del
  sacerdote Giovanni Grioli di Mantova. — Una riunione a Mantova dei
  rappresentanti dei Comitati. — Un viaggetto in Svizzera a piedi,
  finito in landau. — Il viaggio dell’Imperatore d’Austria a Milano
  per le manovre di Somma. — Esecuzione del Dottesio. — La morte del
  Berchet.


Continuava la chiusura delle Università, e continuavano gli studenti
a non studiare. L’insegnamento era dato da professori privati, che ne
chiedevano l’autorizzazione, ma non potevano riunire che dieci studenti
contemporaneamente. Di questi gruppi ce n’eran quindi parecchi, e
quello a cui io appartenevo aveva per professori l’avvocato Barinetti,
che fu poi professore a Pavia, per la storia e per le istituzioni
del diritto romano; Antonio Allievi per la filosofia del diritto, per
l’economia politica e pel diritto commerciale; e l’avvocato Antonio
Mosca pei codici e la procedura civile e penale. Gli esami eran dati,
alla fine dell’anno scolastico, da professori dell’Università.

Ci radunavamo in casa dei nostri professori, e di solito le
lezioni incominciavano, e finivano, con una discussione politica, o
ricambiandoci le notizie sui fatti della giornata. Poveri studî! Ma
ciò era naturale; i fatti e gli episodi dolorosi e talora terribili
dello stato d’assedio, e l’eccitazione dei nostri animi, ci distraevano
troppo dagli studi sereni e tranquilli. Le discussioni politiche
seguivano di solito la falsariga delle idee e dei precetti di Mazzini;
i suoi assiomi ci sembravano verità; il suo patriottismo mistico,
intransigente ci esaltava; le sue formole _Dio e il popolo, pensiero
ed azione_, ci dispensavano dal pensare e ci spronavano ad agire.
E perchè? Non lo sapevamo, ma gli animi nostri c’erano vagamente
disposti. Eran pochi quelli che richiamassero le discussioni alla
realtà delle cose, con una parola pacata e assennata; ed io non ero tra
questi.

Le disposizioni battagliere della studentesca dovevano presto avere
una vittima. Luigi Della Porta, di distinta famiglia milanese, e che
aveva fatte le campagne del 48 e 49 in Lombardia e a Roma, recatosi a
Pavia per ragioni de’ suoi studi, ebbe una sera nell’uscir di teatro
un vivace alterco con un ufficiale austriaco di cavalleria, e lo sfidò.
Il giorno dopo ci fu il duello. Il Della Porta era un giovane animoso,
ma gracile, e che ben poco sapeva di scherma. Non so se per alterezza
sua, volle battersi alla sciabola con un avversario ch’era un forte
tiratore. Dopo pochi colpi egli ne ricevette uno mortale al petto, e
spirò nella stessa caserma dove era avvenuto il duello.

L’impressione pel fatto doloroso in Milano fu grande; moltissimi
si recarono a Pavia pei funerali, e sulla tomba della vittima mio
fratello Emilio si faceva interprete della commozione generale, con un
coraggioso discorso pronunciato in mezzo a uno stuolo di studenti e di
poliziotti.

Durante l’inverno e la primavera di quell’anno si cominciò a vedere
qualche primo effetto dei denari raccolti col prestito di Mazzini,
che arenatosi presto era ben lontano dal raggiungere i dieci milioni.
L’effetto fu la fondazione di alcuni piccoli Comitati d’azione, che
sorgevano ed agivano qua e là all’infuori di quei Comitati principali
che facevan capo a quello di Mantova. Ciò del resto era negli usi di
Mazzini. Nelle sue cospirazioni faceva sorvegliare i capi dai gregari,
e i Comitati principali dai Comitati secondari: tutti poi erano
sorvegliati da quelli che seguivano lui più ciecamente.

Di questi Comitati minori se n’era formato uno in Milano, sotto la
direzione di G. B. Carta, un vecchietto, ch’era stato soldato credo di
Napoleone, e che non fece altro durante la vita che cospirare. Egli
fu parecchie volte in prigione; ci ritornò nel 1852 e ci stette fino
al 1857. Era di carattere mite e gentile, eppure quando si trattava di
cospirare non si fermava dinanzi a nessun eccesso.

Tra gli addetti, o genti, di questo Comitato c’erano un tale Azzi
di professione tintore, rivoluzionario convinto, esaltato, capace di
tutto; un Corbellini, ch’era un birbante, e un capo-facchini Francesco
Ferri, uomo audace, violento, ma onestissimo; c’era pure il tappezziere
Antonio Sciesa.

Con questo Comitato erano in relazioni, più o meno dirette, anche altri
del partito d’azione di una condizione più alta, quali erano De Luigi,
Carlo De Cristoforis, Guttierez e Maiocchi futuri deputati, e credo
anche il Gerli, futuro Sotto-Prefetto.

Il Comitato cominciò dal diffondere dei proclami e dei foglietti
rivoluzionari; tentò di preparare, ma con poco esito, qualche
dimostrazione, e finì col compiere un fatto di sangue.

Era avvenuto in quei giorni un caso che aveva indignata l’opinione
pubblica. Il dottor Vandoni, medico provinciale, aveva denunziato
alla Polizia un medico, suo dipendente d’uffizio, il dottor Ciceri,
dicendolo possessore di cartelle del prestito di Mazzini. Era un tiro
che bastava per mandarlo sulla forca. Il dottor Ciceri fu arrestato e
processato; ma per fortuna quelle cartelle, che realmente aveva avute,
e che erano state vedute dal capo medico, sfuggirono alle ricerche
della Polizia, e così egli potè schivare la condanna a morte.

Ma il Comitato, imitando alla sua volta i Consigli di guerra, si riunì
e condannò a morte il dottor Vandoni. L’Azzi diresse i preparativi
dell’esecuzione, che fu freddamente compiuta da un tal Claudio Colombo,
operaio scultore (puntatore).

Il Colombo si fece incontro al dottor Vandoni, che rincasava in via
Durini alle ore quattro e mezzo dopo il mezzogiorno, e gli diede una
stilettata al cuore, senza che nessuno se ne accorgesse; poi prese
tranquillo le vie San Stefano e Cerva, quindi il vicolo che conduce
al Naviglio di San Damiano dove si trovavano alcuni suoi compagni,
tra i quali il Corbellini, che fu poi assassinato alla sua volta, per
proteggere eventualmente la fuga di lui.

Pochi minuti dopo io passavo vicino al luogo ove era stato commesso
l’assassinio; il morto era stato trasportato nella sua abitazione che
distava pochi passi. Intanto i passanti si fermavano in capannelli,
chiedendosi l’un l’altro le notizie del fatto; e da ogni parte era un
accorrere di guardie di Polizia e di gendarmi.

La grave notizia si diffuse in un baleno per tutta la città; e il
terribile fatto, bisogna confessarlo, fu generalmente accolto con una
incredibile esplosione di gioia. Tanto i sentimenti onesti si abbuiano
quando i tempi sono tristi e violenti.

Parecchi mesi dopo si seppe che l’assassino era riuscito, senza troppe
difficoltà, a rifugiarsi a Londra.

Questo assassinio n’ebbe per conseguenza un altro, che avvenne alcuni
mesi dopo. Tra quelli che avevano protetta la fuga dell’assassino del
Vandoni c’era il Corbellini, il quale andava continuamente domandando
denari al Comitato, minacciando di denunciare tutti se non gliene
davano. Gliene diedero più volte, ma alla fine, quando non ce ne
furon più, i suoi amici trovarono più economico l’ammazzarlo. E così
una notte il Corbellini fu trovato mortalmente ferito sul lastrico
della via Chiaravallino. Egli spirò senza poter dire il nome dei suoi
uccisori.

Su questi sciagurati avvenimenti l’Azzi stesso lasciò scritto questi ed
altri particolari (VITTORE OTTOLINI. _La Rivoluzione Lombarda_).

Doloroso, e non privo d’una certa grandezza, fu il fatto del povero
Sciesa tappezziere, patriotta caldissimo, e che fu vittima delle
imprudenze del Comitato. Sorpreso mentre affiggeva, nella notte del
31 luglio, un manifesto rivoluzionario, rettorico e senza scopo, per
incarico del Comitato, fu arrestato e fucilato due giorni dopo.

Furon molte le promesse e le pressioni fatte a lui, ch’era padre
di famiglia, affinchè rivelasse i nomi di coloro che componevano il
Comitato. Tutto fu inutile; e rimase celebre quel suo tirem innanz che
secondo alcuni avrebbe detto lungo la strada che conduceva al luogo
della fucilazione, mentre un ufficiale gli andava promettendo la grazia
se facesse delle rivelazioni.

Mi ricordo d’avere allora interrogato su questo fatto il sacerdote
Giuseppe Negri, addetto alle carceri, che accompagnò lo Sciesa alla
fucilazione. Le parole _tirem innanz_, secondo il Negri, non le avrebbe
dette lungo la strada all’ufficiale che comandava i soldati, ma bensì
poco prima che il triste corteo si avviasse al luogo del supplizio;
forse al profosso, che lo esortava a confessare. Ciò è anche più
conforme alle formalità che si usavano allora in occasione di queste
condanne militari.

Gian Battista Carta, capo di quel Comitato che aveva dato allo Sciesa
i proclami da diffondere e da affiggere, in una sua lettera a Vittore
Ottolini, autore della storia della Rivoluzione Lombarda, scrisse:
_Io vidi lo Sciesa camminare imperterrito a morte, e collo sguardo mi
assicurava del suo silenzio_.

Il povero Sciesa, nel suo eroismo semplice e sereno, è certamente degno
d’essere ricordato con ammirazione: la sua mente, la sua educazione,
non erano in grado di giudicare se l’opera di cui era richiesto fosse
all’altezza del sacrifizio a cui si esponeva: diede alla patria tutto
sè stesso, come un soldato che obbedisce e non discute.

Degli arresti politici, per fatti veri e supposti, ne avvenivano, in
Milano e nelle provincie, quasi giornalmente, di solito seguiti da
condanne, e talora anche da condanne di morte. Tra queste ricorderò
una delle più raccapriccianti. Il sacerdote Giovanni Griola, di
Mantova, avendo dato due lire a un soldato che gliene aveva chieste,
fu accusato d’averlo voluto indurre a disertare; e senz’altra prova,
fuorchè l’accusa d’un altro soldato, veniva fucilato il 5 novembre di
quell’anno[19].

I Comitati principali che, come vedemmo, erano sorti sotto la direzione
del Comitato centrale di Mantova, non avevano che poca relazione con
quegli altri Comitati minori che qua e là sorgevano e che agivano per
loro conto. Questi avevano supposto di poter essere chiamati in breve
a qualche azione importante; ed ora, vedendo ogni giorno più diminuire
le loro speranze, cominciavano a chiedersi tra loro se si dovessero
attendere, o promuovere, gli avvenimenti.

Il Comitato centrale, che veniva su ciò continuamente interpellato,
pensò di chiamare a Mantova i rappresentanti dei diversi Comitati
provinciali por discutere, deliberare, e procurare un accordo circa la
condotta da seguire.

Il Comitato di Milano, di cui era capo il dottor De Luigi, e che
non è da confondersi con quello presieduto da G. B. Carta, chiamò a
raccolta alcuni tra i principali del partito d’azione milanese per
averne consiglio. Mio fratello Emilio, ch’era intervenuto a quella
riunione, mi disse ch’era prevalso l’avviso di stare sull’aspettativa,
e d’astenersi intanto da tentativi vani i cui risultati non potevano
essere che inutili sciagure. Mi confidò pure ch’era stato scelto
Antonio Lazzati per recarsi a Mantova a riferire e a sostenere questa
opinione del Comitato milanese.

Eravamo nel mese di dicembre. Il Lazzati si recò a Mantova, e contribuì
a far prevalere, nella riunione dei delegati, il consiglio di cui
era interprete. Quella riunione, per quanto il risultato non fosse
rivoluzionario, doveva costare, come vedremo poi, la libertà o la vita
a parecchi degli intervenuti.

L’attitudine nell’aspettativa non era nelle idee di Mazzini, e i suoi
più devoti non ne facevano mistero. «Mazzini non approva,» dicevano
essi all’orecchio; «egli vuole che si agisca,» e mostravano qualcuno di
quei suoi foglietti in carta velina e a caratteri minutissimi, con cui
Mazzini comunicava ai suoi più intimi i suoi ordini e i suoi pensieri.

_Pippo_, come abbiam detto altrove, era il nomignolo di Giuseppe
Mazzini. Lo chiamavan sempre così, e col fare un po’ misterioso, e di
compiacimento, quelli che volevano mostrarsi in confidenza con lui e
darsi dell’importanza. Quando dicevano _Pippo vuole, o non vuole_, non
c’era modo di smuoverli.

Gli avvenimenti dovevano più tardi smuoverne parecchi, anzi i più tra i
migliori. Ma anche Mazzini ebbe i suoi _legittimisti_ che, pur traverso
i grandi avvenimenti del 59, non dimenticarono e non impararono nulla.

In Valtellina, ove mi recavo ogni anno con mia madre e coi miei
fratelli l’autunno, non c’erano Comitati, ma c’eran molti patrioti
che si trovavano insieme di frequente, che si tenevano in relazione
con amici d’altre provincie, che facevan venire dalla vicina Svizzera
giornali e lettere, e che ricevevano anch’essi di tanto in tanto i
foglietti di Mazzini. Il contrabbando dei giornali, dei libri, e delle
lettere, era il gran daffare, nell’alta Valtellina, dei patrioti, i
quali poi facevan capo a mio fratello Emilio.

Nei paesi piccoli ogni cosa dà nell’occhio, e si era quindi molto
sorvegliati dal Commissario di Polizia e dai gendarmi. Mia madre era
sempre in pena; ci predicava la prudenza, e ci lasciava volentieri
far delle gite e delle passeggiate pei monti per interrompere la
sorveglianza in paese e nel caffè. In quell’anno poi diede a Emilio e a
me un gruzzoletto per una gitarella in Svizzera.

Pensammo di recarci a Lucerna, attraversando il Bernina e l’Engadina.
A quei tempo, e alla nostra età, due studenti non potevano fare un
viaggietto in Svizzera se non a piedi, e collo zaino in spalla: era
di prammatica. Collo zaino in spalla si fece dunque la prima tappa
da Tirano a Poschiavo; e quei primi quindici chilometri ci persuasero
che si poteva benissimo spedire gli zaini a Coira per la posta, salvo
riprendere il programma nella sua interezza da Coira in avanti. Il
giorno dopo, a piedi s’intende, giungemmo a Samaden.

Nè a Samaden, nè a S. Maurizio, nè in nessun punto dell’Engadina,
c’erano allora quei grandi alberghi che vi si vedono oggi: c’eran delle
piccole locande, e anche solo delle osteriuccie, per dare alloggio o
da mangiare ai pochi passeggieri o ai carrettieri che capitassero.
Ci fermammo in un piccolo albergo chiamato la _Posta_, che fu
l’antecessore del _gran hôtel_ detto ora il _Bernina_.

A terreno c’erano due stanze, impregnate di odore e di fumo di
pipa, una delle quali serviva di bettola, e l’altra era riservata
ai forestieri di maggior riguardo; accanto c’era la cucina; al
piano superiore alcune camere, due o tre delle quali servivano pei
passeggieri che vi passavano la notte. In ognuna di queste camere,
assai piccole, c’era un lettone grande, a tre posti, come il _coupé_
d’una diligenza, pel caso che i forestieri da alloggiare fossero stati
parecchi.

L’albergatore, nel condurci in una di queste camere, ch’era la
sola disponibile, ci avvisò che uno dei posti del letto era stato
accapparrato per quella notte da un tenente della landvher, che però,
non essendo ancora arrivato, forse il letto poteva rimanere tutto per
noi due.

Poco rassicurati, ma molto stanchi, ci buttammo senza svestirci sul
lettone dei tre posti. Quando a un tratto il batter d’una sciabola
sugli scalini di legno ci avvisò che arrivava il tenente; il quale
infatti entrò nella camera, non si curò di noi, sicuro del suo posto,
accese la pipa e principiò a svestirsi.

In silenzio noi pure, lasciammo i due posti del lettone al tenente,
scendemmo nella sala dove avevamo cenato, e sdraiatoci sulla tavola
cercammo quel sonno che la durezza del giaciglio contendeva alla nostra
stanchezza.

Ricordo questo episodio che mi rammenta la Engadina di cinquant’anni
fa, quand’essa viveva ancora nella sua verginità primitiva, e non
aveva subìta quella trasformazione che ne fa oggi uno dei più eleganti
ritrovi cosmopoliti.

La continuazione del nostro viaggetto poetico e pedestre era rimandata
al giorno dopo. Peccato! guai se si abbandona un proposito; non si
riprende più. Le strade ferrate nella Svizzera allora erano pochissime;
ma c’eran tante diligenze!

Si andò a Coira, ma non a piedi; poi a Lucerna, al Righi, a Zurigo,
al Gottardo, a Lugano, e a Capolago per lo più in diligenza. A
Capolago si diede una capatina nella libreria del De Boni, ma non ci
incaricammo di introdurre libri da Chiasso, come aveva fatto il povero
Dottesio, arrestato in quell’anno; quindi si ripartì per Como e per la
Valtellina; Emilio si fermò sul lago.

Giunto a Sondrio, mi accorsi che avevo fatto male i miei conti, e
non mi rimanevano che pochi soldi in tasca. Avrei potuto rivolgermi a
qualcuno, e trovar credenza; ma per un certo pudore giovanile non ne
ebbi il coraggio: impiegai i miei soldi in altrettanti panini, e non
avendo da pagare il posto della diligenza presi un legno a due cavalli
che pagai poi a Tirano.

Così finiva in _landau_ il mio viaggetto per la Svizzera che dovevo
fare a piedi, e con lo zaino in spalla.

Nell’autunno di quell’anno, e precisamente il 22 settembre,
l’Imperatore Francesco Giuseppe faceva una corsa in Lombardia. Era la
prima volta che ci veniva da quando era salito al trono, e ci veniva
senza pompe e senza ricevimenti, che, del resto, sarebbero stati
impossibili: non ci veniva come Imperatore, ma come Capo dell’esercito
per assistere alle grandi manovre delle brughiere di Somma e di
Gallarate.

Il luogotenente, generale Strassoldo, aveva officiato il Municipio
di Milano perchè si facessero dei festeggiamenti; ma nel Consiglio
Comunale il conte Lorenzo Taverna aveva coraggiosamente protestato,
dicendo che le condizioni economiche del Municipio e della città non
permettevano spese _voluttarie_, mentre poi le _notificazioni_ del
maresciallo Radetzki, che rendevano responsabile tutta la città per
fatti individuali contro l’ordine pubblico, non consigliavano feste e
riunioni popolari. E così non se ne fece nulla. Anche il Municipio di
Como, invitato a solennizzare il soggiorno dell’Imperatore in città,
nulla aveva deliberato per l’assenza dei consiglieri; e il Municipio
per ciò era stato sciolto.

Le autorità governative erano furiose. Le manovre erano andate
malissimo; alcune cattive disposizioni militari, e alcuni
contrattempi, produssero nelle truppe dei gravi disordini e degli atti
d’insubordinazione, compreso quello di far man bassa sulle tende e
sulle cucine predisposte per l’Imperatore, per lo Stato Maggiore, e pei
rappresentanti esteri. Ne venne un tale disordine che le manovre furono
interrotte, e l’Imperatore sdegnato, se ne ripartì.

L’Imperatore Francesco Giuseppe, che dopo la assunzione al trono, e
dopo i grandi avvenimenti del 1848-49, veniva a Milano, e nel regno
Lombardo-Veneto per la prima volta, veniva in mezzo un grande apparato
di truppe, e ripartiva senza pronunciare una parola benevola, una
parola di pace. Ripartiva il 29 settembre, e l’11 ottobre veniva
rizzata a Venezia una forca, su cui saliva Luigi Dottesio di Como.
Erano stati condannati a morte pel sospetto che introducessero dei
libri da Capolago il Dottesio e il Maisner. Si disse allora che
Radetzki interrogato sulla grazia sovrana rispondesse che ne bastava
una; e il Dottesio fu impiccato.

Alla fine di quell’anno moriva Giovanni Berchet. Tra il continuo cadere
d’ogni speranza, tra lo spegnersi d’ogni fiaccola che l’alimentava,
era un triste presagio anche la scomparsa del poeta e del patriota
che aveva tanto eccitate e tenute vive, le speranze di un’intera
generazione.


  NOTA.

  [19] Nella perquisizione fatta al sacerdote Grioli, furono trovati
  alcuni manifesti rivoluzionari. Gli fu offerta la grazia se avesse
  fatte delle denuncie o delle rivelazioni, ma il bravo sacerdote
  non volle compromettere nessuno, e fin sul luogo del supplizio,
  mentre lo si esortava a fare delle rivelazioni, tacque, e disse ai
  soldati: «Fate il vostro dovere!».




CAPITOLO XIV.

1852.

  _Sommario:_ Arresto del sacerdote Tazzoli. — Carnevale squallido
  — Il teatro della Scala e il teatro Carcano. — I giovani e il
  patriottismo allegro. — Antonio Lazzati e Carlo De Cristoforis. —
  Il ritratto del conte Nava all’esposizione di Brera. — Numerosi
  arresti tra i membri dei Comitati. — Gli arrestati sottoposti
  a processo nelle prigioni di Mantova. — Le delazioni di Luigi
  Castellazzo. — Arresto di Antonio Lazzati e di altri che vengono
  condotti a Mantova. — Episodio del Pasotti e di Cervieri. — Arresto
  di Giovanni Pezzotti e suo suicidio in una prigione del Castello di
  Milano. — Il colpo di Stato in Francia. — Timori e speranze. — Le
  prime condanne a morte nei processi di Mantova.


Il 1852 principiava con gravi preoccupazioni, e con nuovi motivi
d’allarme nel campo patriottico. Erano stati fatti alcuni arresti
politici nelle provincie venete, e il 27 di gennaio veniva arrestato
in Mantova il sacerdote Enrico Tazzoli professore nel Seminario,
presidente, come s’è visto, del Comitato Centrale.

Il Tazzoli era uomo di mente colta, elevata, di carattere generoso,
fortissimo. La sua rispettabilità come cittadino e come sacerdote, lo
rendeva molto autorevole in Mantova, e presso quanti lo conoscevano di
persona, o per fama. La notizia ch’egli era stato arrestato ebbe un’eco
diffusa di dolore e di inquietudine nelle provincie di Lombardia e del
Veneto; i Comitati ne furono atterriti.

Ciò veniva a render più sospettosa e più triste la vita in quei giorni;
la vita su cui pesava lo stato d’assedio, e che si trascinava senza
speranze e nella monotonia del dolore. La stessa vita economica del
paese non riprendeva che stentatamente; ogni iniziativa, ogni atto
che fosse indizio di attività o di volontà era guardato con sospetto
da chi governava; e a buon conto veniva sorvegliato severamente, o
represso. Gli affari non camminavano, e l’economia pubblica ne soffriva
grandemente. Tutto languiva, tutto immiseriva.

Due o tre teatri aperti rappresentavano tutta l’allegria del carnevale;
e tra questi la _Scala_, sempre sfollata di pubblico e affollata di
ufficiali della guarnigione. I generali e lo Stato maggiore occupavano
i palchi delle principali famiglie milanesi ch’eran tutt’ora in
esiglio; e agli ufficiali erano riservate le prime file della platea.

Il teatro Carcano, fuor di mano, non era di solito frequentato
dagli ufficiali; era quindi diventata una dimostrazione patriottica
l’andarci. Vi avevamo preso io e parecchi miei amici studenti allegri,
due palchi, e ci si andava facendo il maggior chiasso possibile.
Si voleva che ogni spettacolo vi avesse un successo clamoroso, da
contrapporsi alle serate ufficiali e fredde del teatro della Scala.
Al Carcano si davano delle opere con un’orchestra scarsa e stonata
e con cantanti senza fiato; ma chi ci badava? Anzi noi, nei nostri
due palchi, peggio era lo spettacolo e più si applaudiva. Avevamo
preso sotto la nostra speciale protezione i due cantanti peggiori, un
tenorello sottile e senza voce, e una prima donna, Lucrezia Borgia,
bassa e grassona che strideva come un ingranaggio cui manchi l’olio. Di
ogni pezzo chiedevamo la replica, e appena i nostri protetti aprivano
la bocca si chiedeva il _bis_.

Il pubblico capiva e rideva. Il Commissario di Polizia ci capitava in
palco di tanto in tanto per frenare i nostri eccessivi entusiasmi, e
noi cercavamo di persuaderlo che lo spettacolo era una meraviglia.
L’impresario volle fare la nostra conoscenza, e alla fine della
stagione ci invitò coi cantanti a una bicchierata dietro le scene,
ove sedemmo alla tavola, ancora apparecchiata, di Lucrezia Borgia; e
brindammo con dei vini che parevano proprio quelli della medesima.

«Divertiamoci», dicevamo sempre tra noi, «ma facciamo il nostro
dovere, e avanti allegramente e senza paura!» Questo nostro contegno
di patrioti allegri non incontrava sempre l’approvazione di certi
cospiratori cupi e severi; ma era un’attitudine più consona alla nostra
età e più attraente; serviva meglio ad acquistare tra i giovani nuove
_reclute_ al patriotismo militante. E la nota gaia non era data solo da
noi giovani, ma anche da molti maggiori d’età; e tra questi ricorderò
Antonio Lazzati e Carlo De Cristoforis, che nelle stesse vicende
tragiche, che dovevano presto attraversare, conservarono sempre la
fronte serena, il riso sulle labbra e una inesauribile festività.

Carlo De Cristoforis, amante di tutto ciò ch’era generoso e
avventuroso, soleva dire che la volontà risoluta d’un uomo sa compiere
di grandi cose; e dal canto suo ne ha compiute parecchie, giocando
la testa più volte, ma sempre tenendo allegre le brigate, e facendo
smascellar dalle risa.

All’oppressione e ai rigori del Governo i cittadini opponevano non solo
la resistenza, ma anche lo scherno e la burla, armi degli oppressi;
e ciò riusciva tanto più facile e naturale al carattere faceto della
popolazione milanese. Eran quindi continui gli scherzi, le canzonature,
le satire, o qualche bel tiro, coi quali la popolazione associava
spesso il riso alle lacrime.

Tra i fatterelli che divertivano di tanto in tanto la città ne
ricorderò uno che in quell’anno, oltre al far ridere, fece anche
stupire per l’audacia colla quale venne compiuto.

Il conte Ambrogio Nava, presidente dell’Accademia di belle arti, e
devoto al Governo austriaco, aveva avuto l’infelice pensiero di mandare
all’esposizione d’arte, che tenevasi annualmente nel palazzo di Brera,
un suo ritratto fattogli dal pittore Hayez, in costume di ciambellano
e con decorazioni austriache. Questo ritratto, che dava grandemente sui
nervi e offendeva il sentimento patriottico, era continuamente guardato
a vista da due guardie di Polizia. Eppure un bel giorno si vide
tagliato da capo a fondo con una temperinata, e venne subito ritirato.

Non è a dire l’importanza che diedero a questo fatto tutte le
autorità governative, dal brigadiere delle guardie di Polizia fino al
maresciallo Radetzki. Era, dicevano, un insulto a un’uniforme della
casa dell’Imperatore; era, pigliando le cose in grande, un delitto di
Stato; era una prova di più che esisteva un Comitato misterioso che
tramava continuamente la rivoluzione e la rovina dell’Impero.

La cittadinanza per parecchi giorni non parlò d’altro, se ne divertì,
ne fece delle grandi risate; e il fatterello fu per tutti un non
piccolo divertimento in mezzo alla comune tristezza.

Ma come mai s’era potuto tagliare quella tela lunga più d’un metro,
vigilata così assiduamente dalla Polizia? Tutti, autorità e cittadini,
si facevano questa domanda, e il fatto rimase un mistero per tutti, per
un pezzo.

Molti anni dopo venni a sapere che quell’operazione al quadro era stata
fatta da Carlo De Cristoforis, il quale una domenica, in un momento di
molto concorso, sottraendosi tra la folla agli sguardi dei poliziotti
che giravano per le sale, era riuscito a nascondersi dietro le tele che
coprivano il lato d’una parete, e quatto quatto c’era rimasto finchè le
sale furon chiuse. Durante la notte uscì dal suo nascondiglio, e tagliò
comodamente il ritratto del conte Nava; poi, quando il giorno dopo
ricominciò il concorso dei visitatori, cogliendo un momento opportuno
si frammischiò ad essi inosservato, e se ne andò pei fatti suoi.

Ma le nostre risate erano sempre di breve durata. I timori e le
ansietà destati al principiar dell’anno coll’arresto del sacerdote
Tazzoli, dopo alcuni mesi di un misterioso silenzio, dovevano scoppiar
nuovamente ne’ primi giorni d’estate, e prendere un indirizzo funesto.
I mandati d’arresto superarono il centinaio in poche settimane; molti
dei colpiti riuscirono a fuggire, ma i più furono condotti nelle
prigioni di Mantova: la maggior parte appartenevano ai Comitati. Era
evidente che questi erano stati scoperti.

Come mai? I sospetti e l’agitazione andavan crescendo ogni giorno; nei
ritrovi, tra gli amici, era un chiedersi e uno scambiarsi continuo,
e ansiosamente, di informazioni e di confidenze. Chi sentivasi poco
sicuro viveva appartato o nascosto; mio fratello Emilio, più volte, nel
rincasare la sera, vedendo delle facce sospette nella strada dove noi
abitavamo, aveva tirato dritto ed era andato da qualche amico, come si
faceva spesso in quei tempi, a chiedergli ospitalità per quella notte.

Correvano voci gravi: si diceva che nelle carceri di Mantova venivano
usate delle sevizie ai prigionieri politici per farli confessare; si
parlava di qualche atto di debolezza da parte di alcuni, e si parlava
anche di delazioni.

Una voce dolorosa e sinistra, tra l’altre, venuta non sapevasi come,
dalle prigioni stesse, ripeteva e assicurava che Luigi Castellazzo,
segretario del Comitato centrale, aveva rivelato ogni cosa, aveva
palesato tutti i nomi all’_Auditore_ militare, il capitano Carlo
Krauss, che dirigeva il processo di Mantova.

Il Castellazzo era stato arrestato a Pavia, e si diceva che nella
perquisizione fattagli gli avessero trovato, nascosto in un cannello di
penna, un foglietto su cui c’erano alcuni segni e alcune cifre ch’eran
la chiave per decifrare i nomi di quanti appartenevano ai Comitati,
e i loro carteggi. Questi carteggi, e questi scritti in cifra, erano
stati trovati anche presso il presidente del Comitato, ma l’_Auditore_
inquirente non era riuscito nè a decifrarli, nè ad averne la
spiegazione dal Tazzoli. Ora dicevasi che il Castellazzo avesse svelato
al Krauss che i segni e le parole del foglietto eran la chiave dei
carteggi e dei nomi, e che gli avesse indicato il modo di servirsene.
Questa fu la base delle condanne.

Queste voci pur troppo erano veritiere; ma nessuno sulle prime voleva
crederle. Le voci però si fecero insistenti, e gli arresti immediati e
numerosi vennero a convalidarle.

Gli amici del Castellazzo inorridivano al pensiero che le mura della
prigione avessero potuto sconvolgere la mente e spezzare il carattere
di un uomo che essi credevano forte e sicuro; e si parlò di tormenti
e di battiture con le quali erano state estorte le confessioni al loro
amico. Pur troppo le confessioni erano vere, ma le voci autorevoli dei
compagni di prigione negavano che fossero vere le battiture.

La tortura del bastone, per ottenere delle confessioni, fu minacciata
allora a parecchi prigionieri politici, ma non fu applicata in quei
processi che a due soli, a quanto si seppe con certezza: così mi
dissero Finzi, Lazzati, Pastro, e i molti che ho interrogati, e che
furono nelle carceri di Mantova e nei processi del 1852 e 1853. La
tortura, invece, applicata a parecchi fu quella delle pesanti catene,
della fame fino allo sfinimento, fino per cento giorni di seguito, e
della prigione freddissima, umida, fangosa, durante tutto l’inverno.

L’infelice che venne sottoposto alle bastonature fu un certo Antonio
Pasetti di Verona nel processo di Venezia 1851. Il suo inquisitore
aveva cercato invano di strappargli una qualche confessione, e per
spezzare quella fermezza lo condannò a quaranta bastonate. Dopo dieci
colpi il medico che assisteva al supplizio dichiarò che, continuando,
c’era pericolo che il paziente morisse sotto i colpi. Il Pasetti era
etico. Portato in prigione disse ai compagni che durante i colpi aveva
tenuto stretto in bocca un lembo della copertura su cui giaceva per
assicurarsi che il dolore non gli strappasse, non solo una parola,
ma neppure un grido. Il suo eroico silenzio gli salvò la vita: per
la mancata confessione non potè essere impiccato, nè condannato; ma
rilasciato dalla prigione fu arrolato forzatamente in una compagnia di
disciplina e mandato in Ungheria. Dopo poco tempo morì di sfinimento a
Temesvar.

Povero eroe oscuro! Il suo nome, appena ricordato, mi fu ripetuto dal
dottor Luigi Pastro, altro eroe del silenzio in quei processi, da cui
ho saputo questo episodio.

Le bastonature furono date più tardi anche a un tal Cervieri, che fu
uno degli arrestati dopo il 6 febbraio, in un processo che si svolse
pure a Mantova, diretto dal Krauss, dopo chiuso il processo del 1852.
Il Cervieri fu bastonato, ma rimase silenzioso e non denunciò nessuno.
Morì parecchi anni dopo in America.

A proposito delle voci che correvano sul Castellazzo in quei giorni, un
amico di lui, Giovanni Pezzotti, che apparteneva al Comitato di Milano,
ebbe a dire che, se fosse stato arrestato, si sarebbe subito ucciso in
carcere per timore di tradire qualche amico in un momento di debolezza.
Pochi giorni dopo, il 25 di giugno, venivano fatti in Milano parecchi
arresti politici, e ci furono tra gli arrestati il Pezzotti appunto e
Antonio Lazzati. Rinchiusi da prima nelle prigioni del Castello, furono
poi tutti condotti a Mantova, fuori che il povero Pezzotti che, il
giorno dopo del suo arresto, fu trovato appeso alla inferriata della
sua cella. Il fantasima del Castellazzo lo aveva tratto al suicidio.

Antonio Lazzati era uno dei miei più cari amici. Lo vedevo quasi ogni
sera in casa della contessa Maffei, ove egli metteva sempre nella
conversazione una gaiezza, che pareva in contrasto col suo aspetto
severo. Era un felice narratore di storielle piacevoli; si divertiva
volontieri, e amava far cogli amici le più serene risate, mentre nelle
manifestazioni patriottiche era sempre sulla breccia e nei posti più
pericolosi. I cospiratori puritani, dal cappello a larghe tese sugli
occhi, criticavano il suo umor gaio che a lor pareva leggerezza; ma
presto egli doveva dimostrare anche ad essi, coi fatti, la serietà e la
saldezza del suo carattere.

Rammento ancora la sera in cui, nel salotto della contessa Maffei,
a proposito delle voci che correvano sulle delazioni avvenute nelle
carceri di Mantova, gli amici più intimi si facevano intorno a Lazzati
e a mio fratello Emilio esortandoli a lasciar Milano. Emilio si
riteneva sicuro che il suo nome non figurasse sulle liste del Tazzoli
svelate, dicevasi, dal Castellazzo: Lazzati dubitava ancora sulla
veracità delle voci che correvano, e temeva, fuggendo, di svegliare i
sospetti della Polizia, e di comprometter maggiormente alcuni amici.
Quell’esitazione gli fu fatale; due giorni dopo veniva arrestato.

Quell’arresto ebbe un’eco di vivo dolore, e di non poca inquietudine,
nel salotto di casa Maffei. Gli arresti politici, nelle province,
di persone che vi erano conosciute, e che erano in rapporti col
_Crepuscolo_, avevano portato un senso di tristezza nel salotto; e
ora l’arresto del Lazzati vi aveva per di più fatto nascere il gran
sospetto che l’inquisizione del processo di Mantova avesse principiato
ad estendersi dalle provincie a Milano.

Era giunta intanto la stagione del caldo e delle bagnature, che
allontanano di solito dalla città i milanesi; che fanno chiudere i
salotti, e facevano finire i ritrovi, fin dopo le vacanze e fino al
principio dell’anno. Queste sospensioni della vita cittadina avevano
allora anche il vantaggio di sottrarre parecchi, per parecchi mesi,
agli occhi vigili della Polizia.

Ma finite le vacanze, e principiato l’inverno, una grande notizia venne
presto a mutar l’indirizzo dei discorsi, delle speranze e dei timori,
nel campo nemico e nel campo nostro: la notizia del colpo di stato
avvenuto in Francia.

Le discussioni e i dispareri erano infiniti e irreconciliabili: chi
fremeva, chi giubilava, chi ne era disperato. I repubblicani puri, che
avevano poste tutte le loro speranze nel prestito di Mazzini, nella
rivoluzione, nella Francia repubblicana, e nel Comitato internazionale
di Londra, ossia in Mazzini, in Ledru-Rollin e in Kossuth, erano
naturalmente tra i frementi, e credevano che il nuovo tiranno sarebbe
stato cacciato quanto prima. Anche il suffragio universale, che poco
dopo acclamò Luigi Napoleone alla quasi unanimità, non li smosse dal
loro giudizio: era una passeggiera infedeltà commessa dal suffragio
universale, ma questo infedele, dicevasi, si sarebbe presto ricreduto.

Vivevano ancora a quel tempo molti avanzi delle armate e delle
amministrazioni napoleoniche, nei quali era sempre vivo il gran fascino
del primo impero; questi erano tutti in festa, poichè vedevano già il
nuovo Napoleone valicare le Alpi e cacciare gli austriaci.

Le persone più calme e temperate, pur convinte che per parecchi anni la
politica del nuovo Governo della Francia sarebbe stata tutta rivolta
alle questioni interne, erano persuase che un Governo napoleonico
avrebbe pur dovuto nell’avvenire esercitare un’influenza sui destini
dell’Europa, fors’anche colla guerra. Speravano poi nella simpatia
personale per l’Italia, del nuovo padrone della Francia. La repubblica
erasi dimostrata verso di noi impotente ed ostile; ora il nuovo
mutamento di Governo apriva un orizzonte sul quale pur brillava una
qualche speranza.

Mentre non solo nei nostri paesi, ma in ogni punto d’Europa, s’andava
almanaccando sulle conseguenze che avrebbero potuto avere gli
avvenimenti che si svolgevano in Francia, l’Austria, impassibile,
senza punto guardare all’avvenire, continuava ad applicare nel
Lombardo-Veneto i suoi metodi pedanteschi, duri, ed ora anche feroci,
di Governo.

Il giorno 7 dicembre venivano pubblicate le prime sentenze del
processo di Mantova. Tazzoli, Poma, De Canal, Zambelli, Scarsellini
venivano condannati a morte ed impiccati; altri cinque, tra i quali
Angelo Mangili notissimo a Milano, erano condannati a parecchi anni di
fortezza con ferri.

Queste vittime illustri dovevano essere presto seguite da altre, il cui
nome e i cui processi resteranno documento imperituro dell’iniquità e
della stoltezza con le quali il Governo militare austriaco dominò le
provincie italiane dopo il 1848.




CAPITOLO XV.

1853.


I.

  _Sommario:_ Mazzini decide di ordire una rivolta in Milano. —
  Vive opposizioni de’ suoi principali amici. — Mazzini, fermo nel
  suo proposito, manda degli emissari a Milano. — _Organizzazione_
  secreta di squadre di popolani, e piano della rivolta. — Il Piolti
  de Bianchi accetta d’esserne il capo. — Allarmi per l’inevitabile
  insuccesso, e vani tentativi per dissuadere Mazzini. — Il sei
  febbraio. — I capi delle squadre si trovano soli ai ritrovi,
  e scompaiono. — Il popolano Ferri con pochi assale il posto
  di guardia del palazzo di Corte. — Pochi insorgenti, isolati,
  feriscono nelle strade alcuni soldati. — Breve tafferuglio nelle
  vie al laghetto.

Negli ultimi mesi del 1852 c’erano stati, a quanto s’andava
sussurrando, dei ritrovi segreti e frequenti tra persone notoriamente
appartenenti al partito mazziniano. Da confidenze e da indiscrezioni
s’era anche saputo che Mazzini voleva preparare e promuovere una
sommossa, o una rivoluzione in Milano. Le prime voci venivano
dal Comitato presieduto da G. B. Carta. Comitato che si chiamava
_dell’Olona_ e che rappresentava solo una parte, e non la principale,
del partito mazziniano.

Mazzini aveva effettivamente deciso che Milano dovesse quanto prima
insorgere. S’era rivolto da principio ai suoi vecchi amici, alle
persone più serie del suo partito, ad antichi ufficiali della difesa
di Venezia e di Roma; ma tutti questi, per quanto audacissimi, avevano
fortemente sconsigliato Mazzini dal tentare una simile impresa. Le
ragioni erano evidenti, e il momento non poteva essere più inopportuno.

L’Europa era tutta in piena reazione e in piena tranquillità; il colpo
di stato aveva soffocati e dispersi anche in Francia gli elementi
rivoluzionari; il Piemonte, tutto intento a riordinare le sue finanze
e il suo esercito, era in un periodo di completo raccoglimento. Milano
e le provincie non s’erano ancora riavute dai disastri del 1848;
la fiducia nella rivoluzione non era rinata; lo stato d’assedio e i
forti presidii austriaci la rendevano impossibile; in nessuno c’era la
volontà di tentare in quei giorni una rivolta.

Queste considerazioni furon fatte presenti con insistenza a Mazzini
dai suoi amici più assennati, ma inutilmente. Parecchi lo avevano
anche pregato di astenersi da ogni tentativo rivoluzionario sino a che
tanti patriotti fossero nelle carceri di Mantova, per evitare delle
rappresaglie su loro.

Tutto fu inutile. Mazzini, non persuaso da queste osservazioni, e non
fidandosi dei vecchi e provati amici che lo sconsigliavano, mandò
qualche emissario per avere informazioni da altri. Gli emissari si
abboccarono con quelli del Comitato dell’Olona, e con qualche altro;
gente volonterosa, ma che scambiava le intenzioni proprie con quelle
del paese. A Mazzini bastò d’aver trovato chi gli dava ragione per
convincersi sempre più di averla, e così si mise subito all’opera, a
preparare attivamente un’insurrezione.

I primi discorsi sui progetti del Mazzini si tennero a Stradella
col Depretis, col Cairoli e col Piolti De Bianchi, chiamatovi
espressamente, volendo Mazzini affidare a questi la direzione del
partito in Lombardia; poichè tutte le file ne erano rotte, in seguito
agli ultimi arresti causati dal processo di Mantova. Il Piolti De
Bianchi accettò.

Il Mazzini poco dopo gli mandava da Londra, dove viveva rifugiato,
Eugenio Brizio di Assisi, già ufficiale col Pianciani durante la
difesa di Roma; giovane risoluto, attivo, coraggioso, e in cui Mazzini
aveva la massima fiducia. È, credo, quel Brizio che molti anni dopo fu
sindaco di Assisi; uomo popolare e benveduto.

La cospirazione incominciò subito attivamente: il Piolti si diresse
alla classe borghese, e il Brizio agli operai. Il Brizio intraprese
una specie di arruolamento, nelle classi popolari, ma pigliando
gli affigliati a fascio, senza conoscerli, pur di riunirne molti. I
diverbi e i contrasti tra quelli che ordivano la cospirazione, e i
patriotti che la deploravano e che avrebbero voluto impedirla, erano
vivacissimi e continui. Carlo De Cristoforis, che all’occorrenza era
pure un cospiratore audacissimo, ed altri pur del partito d’azione si
mischiavano talora tra quei congiurati, e sconsigliavano i migliori da
quell’impresa, di cui prevedevano male; ma inutilmente.

Uno di quei popolani, che conobbi più tardi, mi diceva ingenuamente:
«Ho preso parte all’insurrezione del 6 febbraio, perchè mi avevano
assicurato che, se potevamo resistere alcuni giorni, varie Potenze
d’Europa sarebbero venute ad aiutarci. In prova di ciò, da quelli che
preparavano la rivoluzione ero stato assicurato che avevamo anche gli
ungheresi con noi. Anzi un amico mi aveva condotto in una casa dove
mi aveva mostrato in un baule l’uniforme d’un generale ungherese,
diceva lui, che doveva arrivare tra poco: a quella vista, mi sentii
rimescolare il sangue, ed esclamai: Se nel 1848 abbiamo fatto le Cinque
Giornate, questa volta ne faremo dieci! Mi arrolai ed anzi divenni il
capo d’una compagnia.»

Questo popolano era quel Francesco Ferri di cui feci cenno, parlando
del Comitato di G. B. Carta; ed era il capo dei facchini municipali,
che allora erano addetti al corpo dei pompieri. Era un uomo magro,
asciutto, noto per il suo buon cuore e per la sua audacia. C’era in lui
una strana mescolanza di bontà e di fierezza; per rendere un servizio
a un superiore o a un amico esponeva la propria vita a qualunque
rischio, e avrebbe anche ammazzato un uomo come si uccide un insetto.
La sua qualità di facchino del municipio lo metteva a contatto cogli
assessori e col Podestà, ai quali era sempre devotissimo. Professava
poi rispetto ed affezione pei _signori milanesi_, specialmente delle
vecchie famiglie, rispecchiando in ciò un sentimento che fino allora
s’era conservato nel popolo milanese. Nelle Cinque giornate fu tra i
più valorosi, e fece anche la parte di Renzo quando accompagnò Ferrer,
precedendo e scortando a capo dei suoi facchini il Podestà che si
recava al Palazzo di Governo. Non è quindi a stupirsi se, presentandosi
ora una nuova occasione per menar le mani contro gli austriaci, il
Ferri ci si mettesse corpo ed anima.

Mazzini non aveva trovato tra i suoi migliori amici di Milano e tra le
persone di qualche importanza che uno solo, il quale fosse disposto
ad assecondare il suo progetto. Questi era stato Giuseppe Piolti
de Bianchi, giovane studioso, onesto, che metteva la sua devozione
al Maestro al disopra d’ogni ragionamento. Mazzini che gli aveva
affidata la direzione del proprio partito in Milano, gli affidò anche
la direzione della rivolta che stava tramando. Ma anche a lui pose a
fianco un luogotenente, il Brizio, venuto da Londra, il quale intanto
andava formando le sue squadre e il piano di battaglia. Gli affigliati
non lo conoscevano che sotto un nome: _il romano_.

Il Piolti de Bianchi, prima di accingersi alla grave impresa e di
assumersi tanta responsabilità, volle avere un abboccamento con
Mazzini. Si recò in una villa presso Lugano nel gennaio; vide il
Mazzini, e non mancò di esporgli le gravi difficoltà dell’impresa. Ma
Mazzini gli oppose le informazioni di altri, compreso il Brizio, il
quale lo andava assicurando che tutto il popolo fremeva, che bastava
una scintilla per sviluppare un grande incendio; che il popolo si
sarebbe sollevato in massa, e che dopo due ore di combattimento le
_marsine_, come dicevano il Comitato dell’Olona e il Brizio, ossia i
_dissidenti_, sarebbero scesi in strada prendendo parte anch’essi alla
rivoluzione, di cui in tutta Italia non si aspettava che il segnale.

Il Piolti aveva esposte tutte le ragioni che sconsigliavano in quel
momento un’insurrezione; aveva fatto osservare che non si poteva
iniziare un movimento, che avrebbe necessariamente avuto un carattere
repubblicano, senza tener conto del Piemonte, il solo paese d’Italia
che avesse un esercito su cui contare, per continuare poi la guerra da
noi iniziata. Mazzini aveva risposto che bisognava seguire l’esempio
del 48. «Ciò ch’egli voleva, disse, era l’Italia _libera ed una_ e
credeva che solo la Repubblica potesse darcela, ma che rispettava le
opinioni e le speranze dei molti che mettevan fiducia nel Piemonte
costituzionale. All’annuncio che Milano è insorta, o il Re e i moderati
decidono di accorrere, e di ritentare la prova del 48 e noi dobbiamo
accoglierli a braccia aperte; o non intervengono, e il _popolo_ e
l’_esercito_ verranno senza di essi, poichè è impossibile che il
Piemonte rimanga freddo spettatore di tale avvenimento. Bisogna quindi
astenerci dal proclamare la Repubblica, od altra forma di Governo, ma
costituire un Governo Provvisorio, di tre o cinque persone che pensino
alla guerra e a chiamare alle armi tutti gli italiani»[20].

Così aveva risposto il Mazzini al Piolti, rimanendo fermo nel suo
divisamento, e fissando, per incominciare, il 6 febbraio, ultima
domenica del carnevale, mentre i soldati sarebbero sparsi per la
città. Promise ancora che ci sarebbero state delle intelligenze cogli
ungheresi, e che sarebbe venuto da Londra il generale ungherese Klapka.
Piolti chinò il capo e obbedì.

Quali erano i mezzi e le risorse, quali le forze e quali i concetti
con cui sollevare Milano, e con cui attaccare le truppe austriache, che
occupavano così fortemente Milano e le provincie Lombardo-Venete?

I mezzi finanziari consistevano in mille lire sterline mandate da
Mazzini provenienti dal prestito, e le armi erano alcune centinaia
di stiletti piantati in un rozzo manico di legno di cui Mazzini
aveva mandato il modello, fatti eseguire da un tale Fronti, un
ottonaio ch’era della congiura, nonchè alcuni tubi esplodenti dei
quali pure Mazzini aveva mandato un campione e che il Fronti stava
preparando. Quei tubi furono i primi tentativi che condussero poi alla
fabbricazione delle bombe Orsini.

Il Brizio diceva d’aver pronti cinque mila affiliati, e infatti tale
era il numero degli inscritti. E fu strano come la Polizia non se ne
avvedesse o non agisse.

Veniamo agli ungheresi. Il Cairoli, tempo prima, aveva mandato da Pavia
una lettera al Piolti per fargli conoscere un capitano ungherese, suo
amico. Il capitano aveva accolto gentilmente il Piolti, ma quando sentì
di che cosa si trattava, gli rispose francamente che insieme con truppe
regolari gli ungheresi all’occorrenza potevano forse decidersi a far
causa comune; ma in caso diverso, e cioè in una insurrezione, non era
da far calcolo su di loro. E si lasciarono con promessa dell’assoluto
silenzio, e di troncare ogni relazione come se non si fossero
conosciuti.

Invece del generale Klapka, che non venne, era giunto un tal Furagy,
già uffiziale degli Honveds, e allora emigrato a Ginevra. Era
l’uniforme di costui che il facchino Ferri, ed altri, avevano veduta.

Secondo il piano del Brizio i cinquemila congiurati, divisi in
compagnie di cinquecento o trecento uomini, dovevano dar l’assalto al
castello, al palazzo di Corte, al fortino di Porta Tosa e ad alcune
caserme, e impadronirsene contemporaneamente. Il Furagy intanto avrebbe
fatto fare il _Pronunciamento_ dei soldati ungheresi in alcune caserme,
per poi andare alla presa di altre.

Su questo piano c’era disaccordo tra il Brizio e il Piolti, a cui
pareva impresa troppo audace e difficile l’assalto immediato al
castello; ma la vinse il Brizio, dicendo che di tale impresa si sarebbe
incaricato egli stesso.

I dissidenti, e le persone serie che conoscevano i particolari della
cospirazione e la decisione di condurla ad effetto, erano grandemente
impensieriti ed allarmati. Una insurrezione, promossa con mezzi così
inadeguati e, diciamolo, in parte puerili, non poteva condurre che a
risultati funesti. La sommossa, dicevano, verrebbe subito repressa nel
sangue; essa sarebbe stata la giustificazione dello stato d’assedio
rigoroso, delle condanne e di tutte le misure eccessive, crudeli, con
le quali governava l’autorità militare; essa le avrebbe accresciute
e rincrudite. Una sommossa impotente, e di pochi, avrebbe indebolita
e sfatata quella resistenza che ritraeva la sua forza dalla sua
misteriosa unanimità. Nulla di più esiziale, dicevasi giustamente, di
quei moti convulsi, impotenti, che sono sintomi di debolezza, e che
scuotono in un paese la fibra e la fede.

Alcuni ch’erano informati di ciò che si tramava, pregarono mio fratello
Emilio e Enrico Besana, ch’era un patriota a tutta prova, di recarsi
dal Mazzini per tentare ancora una volta di dissuaderlo dalla folle
impresa. Essi acconsentirono, e partirono per Lugano, non curando
i pericoli di quella missione; non avevano passaporto, e il cordone
militare era rigorosissimo. Il giorno della loro partenza nevicava
fitto, e nevicò tutto il giorno seguente; i monti e le strade fuor
di mano erano talmente coperti di neve da divenire impraticabili,
sicchè non riuscirono a passare il confine. Non avendo potuto compiere
l’incarico, e non volendo essere assenti in un giorno di pericolo,
ritornarono a Milano, ove giunsero la vigilia del 6 febbraio.

Molto probabilmente, però, la loro missione non avrebbe avuto nessun
risultato.

Venuto il 6 febbraio, il Piolti, il Brizio e il Fronti impiegarono
le prime ore della giornata in ritrovi coi capi dei gruppi e delle
squadre, per ripeter loro gli ordini, ed assicurarsi che ciascuno
avrebbe fatto il compito proprio.

Una prima difficoltà, che fece perdere qualche ora, fu quella delle
pretese che alcuni capi squadra accamparono in nome dei loro uomini,
i quali volevano una rimunerazione maggiore di quella che veniva
loro offerta. Ciò prova come il Brizio avesse male scelto i suoi
affiliati; se li avesse cercati tra i popolani delle Cinque Giornate,
o tra i reduci di Roma e di Venezia, la sommossa del 6 febbraio
avrebbe avuto certamente un’importanza ben maggiore e una ben maggiore
serietà. L’errore era stato quello di affidare a un emigrato romano un
arrolamento tra popolani milanesi, ch’egli non conosceva.

Il Piolti li rimproverò con severe parole: «Noi non intendiamo di
pagare l’opera che state per compiere, non c’è denaro che possa
rimeritarla; vi siete dichiarati disposti ad assalire gli austriaci,
e noi siamo disposti a tentare la sorte, ecco tutto. Siccome dovrete
raccogliervi in osterie vi darò due lire per ciascuno, ma guai a chi si
ubbriacasse. Questa sera dopo il colpo sarò da voi. Se non accettate,
siete ancora in tempo a ritirarvi. Vedendomi risoluto, piegarono la
testa, ed accettarono.»

I capi avevano detto che gli affiliati erano cinquemila, e il Piolti
diede loro diecimila lire. Il Fronti intanto distribuiva gli stili,
e ritirava il rimanente del denaro, ossia dodicimila franchi, ch’eran
rimasti al Piolti.

La rivoluzione doveva incominciare alle quattro pomeridiane, e venuta
quell’ora il Piolti scese in strada con un amico, il Maiocchi,
per vedere se il movimento incominciava. Tutto era perfettamente
tranquillo.

Che cosa avveniva intanto? Il Brizio, che con quattrocento uomini
doveva assalire il castello, non mancò al suo posto, ma non trovò
che trenta persone. Aspettò un pezzo; propose a quei pochi di tentar
l’impresa, ma gli altri non accettarono, e siccome calava la sera
ognuno se ne andò pei fatti suoi.

Furagy aveva aspettato per un pezzo certi suoi ungheresi che dovevano
unirsi con lui per entrare nella caserma di S. Ambrogio; non li trovò,
li cercò per un pezzo per le vie vicino, si smarrì mentre scendeva la
notte, e si rifugiò in casa di persone amiche. Di quelli che dovevano
assalire il fortino di Porta Tosa non si seppe nulla.

Dovevano essere quattrocento anche quelli che si erano impegnati
ad assalire la Gran Guardia del palazzo di Corte, e vi si trovarono
soltanto in dieci o dodici, tra i quali il Ferri.

Il Ferri senza perdersi d’animo, visto il fascio dei fucili, con in
mezzo la bandiera, vi corre su; ne prende un certo numero, con la
bandiera insieme, e via di corsa con questi trofei. La sentinella gli
tirò una fucilata che lo ferì.

In tutti gli altri punti della città, ove dovevano trovarsi le squadre
della rivoluzione, o non comparve alcuno o ben pochi, che subito si
sciolsero. Gli sbandati aggredirono qua e là qualche sentinella, o
stilettarono qualche soldato che incontrarono per strada.

Il Piolti de Bianchi intanto correva affannosamente in cerca della
_sua_ rivoluzione, ma non la trovava; per tutto una quiete profonda.
Andò in cerca del Fronti, ma non lo trovò; e non trovò nemmeno
i dodicimila franchi che gli aveva lasciati, dopo distribuite le
diecimila lire ai popolani.

Saputosi che c’era stato qualche tafferuglio i cittadini rincasavano
frettolosi, e venivano chiuse le porte e le botteghe: subito la città
fu percorsa da numerose pattuglie. Così finiva la giornata del 6
febbraio.

Aggiungo che sulla scomparsa del Fronti e dei dodicimila franchi,
il Piolti informò Mazzini, dal quale seppe poi che il Fronti s’era
ritirato a Parigi. Fatto interrogare sulla somma della quale doveva
render conto, disse che l’aveva in deposito sua moglie, ritiratasi
a Codogno. Andarono a cercarla i fratelli Foldi, ma la Fronti li
denunziò, ed essi fecero in fretta a fuggire, e andarono in America.

Io avevo passate le ore pomeridiane del 6 febbraio nella famosa
nostra sala di scherma presso mio cugino, Lamberto Paravicini, in
via S. Pietro all’Orto, ove s’erano dato ritrovo parecchi del gruppo
dei _dissidenti_. Era stato un andirivieni continuo di amici che
venivano da vari punti della città a portare notizie, e a sentirne.
Alcuni ci rimanevano in permanenza per chiamare, se occorresse, gli
altri: tra questi ricordo Vincenzo Strambio. S’era tutti in una grande
ansietà, ma nessuno supponeva che l’attesa sommossa dovesse svanire
così miseramente. In principio della sera qualcuno venne a riferire
che nelle vicinanze dell’Ospedale Maggiore, nelle vie vicine che si
chiamano _al laghetto_, erano state fatte alcune barricate, e si erano
sentite delle fucilate. Pensammo d’andarci, per vedere noi stessi se
la notizia fosse vera, io, mio cugino Lamberto Paravicini, Costantino
Garavaglia e qualche altro. Trovammo per strada, che venivano dal
caffè dell’Europa in via dei Servi, l’ingegnere Luciano Besozzi, il
pittore Gerolamo Induno, Eleuterio Pagliano, e mio fratello Emilio;
e ci avviammo tutti verso la piazza del Verziere: arrivati alla metà
della via Durini, ci imbattemmo in una forte pattuglia che ci intimò
di retrocedere e di dividerci. Ci salutammo, e ciascuno se ne andò a
cercar notizie per conto proprio.

Trovammo anche Carlo De Cristoforis, che poco prima aveva voluto
recarsi anche lui nelle vie dette _al laghetto_, ma una pattuglia
lo aveva arrestato; egli però aveva saputo così bene fingere, che lo
lasciarono andare. Questa sua presenza di spirito lo salvò. Se fosse
stato condotto quella sera in Castello, come gli altri arrestati, o
in un ufficio della Polizia, due giorni dopo sarebbe stato impiccato;
tanto più ch’era armato.

Nelle vicinanze dell’Ospedale, _al laghetto_, c’era stato infatti un
tentativo per parte di alcuni popolani, forse predisposti dal Ferri,
per asserragliarvisi, e continuare la sommossa: c’eran stati anche
dei colpi di fucile; ma i pochi insorti furono subito dispersi da una
compagnia di soldati.

Il Ferri, come mi raccontò egli stesso molti anni dopo, s’era tenuto
nascosto per parecchi giorni, girando di tetto in tetto sulle case del
Verziere, soffrendo atrocemente per la ferita e per la fame. In seguito
venne arrestato, e condannato a dodici anni di carcere duro in una
fortezza; fu poi amnistiato cogli altri condannati politici, nel 1857.

Morì una ventina d’anni dopo; sempre capo dei facchini municipali,
e ardente patriotta. Quando si parlava delle passate vicende soleva
dire: «Le Cinque Giornate sono andate bene, perchè c’era quella bella
concordia della gente del popolo coi signori; ma si andò male quando
delle nostre cose se ne immischiarono altri, e non i milanesi veri di
Milano».


  NOTA.

  [20] Queste parole del Mazzini, che esprimono il concetto ch’egli
  ebbe nel volere l’insurrezione di Milano, le riferisco quali
  le trovo nelle memorie sul 6 _febbraio_ 1853 di _G. Piolti de
  Bianchi_, pubblicate dal Senatore A. Bargoni nella _Rivista Storica
  del Risorgimento_ (anno 1897, fascicoli 7-8).

  Le Memorie del Piolti de Bianchi sul 6 febbraio sono uno scritto
  calmo, coscienzioso, esatto; esse dovrebbero essere consultate da
  chi vuol avere un’idea veritiera e completa su quegli avvenimenti.
  Io non ci trovai nulla di diverso di quanto ho veduto, o sentito, a
  quel tempo; perciò me ne servii per comprovare i miei ricordi e le
  mie impressioni d’allora.




CAPITOLO XVI.

1853.


II.

  _Sommario:_ Sorpresa e disgusto dei cittadini nell’apprendere
  il giorno dopo i fatti avvenuti. — Alcuni cittadini si recano
  dal generale Giulay per scagionare la città. — Le misure prese
  dal Governo locale, miti sulle prime, divengono severissime per
  ordini venuti da Verona e da Vienna. — Arresti e impiccagioni. —
  Carlo De Cristoforis, denunziato, cercato dalla Polizia, riesce
  a nascondersi e a fuggire. — Studi e lavori del De Cristoforis.
  — Sequestri sui beni degli emigrati. — Il Piemonte richiama da
  Vienna l’ambasciatore conte Revel. — Le porte della città di Milano
  chiuse per oltre un mese. — Il Piolti ricoverato in casa amica. —
  Fronti, Furagy, Brizio. — Condanne in contumacia. — Nuovi rigori
  dello Stato d’assedio. — Voci e notizie che giungono dalle carceri
  di Mantova sui prigionieri. — Le condanne. — Episodio circa la
  condanna di Antonio Lazzati. — Dopo la prigionia, Lazzati, Finzi,
  Bertani, Castellazzo. — Mazzini dopo il 6 febbraio cerca riordinare
  le fila di nuove cospirazioni in Lombardia. — Progetto di formare
  delle bande armate nelle valli lombarde. — Cerca un nuovo capo
  del partito repubblicano in Lombardia. — Ambrogio Ronchi. — Il
  partito si sfascia e decade, i principali addetti se ne staccano. —
  Simpatie rinascenti verso il Piemonte.

Il giorno dopo la popolazione apprese tra lo stupore generale i fatti
avvenuti. Quella tentata sommossa, così male ordita, inattesa, e
senza speranze di riuscita; la natura stessa dei fatti avvenuti, quei
soldati stilettati di sorpresa, i più in vie tranquille, non nel furore
d’una sommossa, da gente di cui non si sapevano o non si vedevano i
capi, suscitarono un sentimento di sorpresa e, bisogna pur dirlo, di
indignazione che fu quasi generale. A questo sentimento parteciparono
non solo i tranquilli cittadini, ma anche, e forse più, quegli uomini
d’azione che non erano stati creduti da Mazzini, quando lo avevano
sconsigliato, e che ora vedevano verificati i loro pronostici anche più
infelicemente di quanto essi medesimi avevano supposto.

Sotto l’impressione di questi fatti e della disapprovazione quasi
generale, alcuni cittadini pur rispettabili, ma male consigliati, si
recarono dal generale Giulay, comandante militare della città, per
esprimergli la sorpresa e il dispiacere della cittadinanza pei fatti
del 6 febbraio, e per pregarlo di non ritenerne per nulla solidale la
città.

Il generale, che per la prima volta vedevasi dinanzi a un gruppo di
distinti cittadini milanesi, disse a tutti parole cortesi, lodando
questo atto, quasi fosse di avvicinamento al Governo, e soggiungendo
che le alte classi milanesi avrebbero dovuto per l’innanzi staccarsi
dai rivoluzionari e, d’accordo col Governo, considerarli quali nemici
comuni.

L’atto di questi cittadini, alcuni dei quali avevan dato e diedero in
seguito alte prove di patriottismo, fu severamente giudicato anche dai
più fra coloro che avevano deplorato il 6 febbraio. L’astenersi da ogni
contatto col Governo era una delle massime più rigorosamente seguite,
ed era quindi biasimevole il farsi solidale con lui, tanto più dinanzi
a un tentativo di sommossa, per quanto folle, contro lo straniero.
Ma quei cittadini non tardarono ad avvedersi dell’errore commesso;
e il generale Giulay non li rivide più. Essi avevano perduta, per un
istante, la misura del loro dovere; e questo fatto ci prova fino a qual
punto fosse arrivata l’indignazione pubblica pei fatti del 6 febbraio.

Guai se il Governo austriaco avesse avuta in quei giorni condotta mite
e ragionevole! Certo si sarebbe cattivate delle approvazioni nella
parte più timida della popolazione. Ma, per fortuna, anche questa
volta il Governo austriaco ci pensò lui a mantenere tutti sempre più
strettamente uniti nell’odio e nella lotta contro di esso.

Le prime disposizione del Governo locale erano state relativamente
miti; un proclama del generale Strassoldo, in assenza di Giulay, pareva
avesse lo scopo di rassicurare la cittadinanza e di non ritenerla
responsabile degli atti commessi dai cospiratori; ma tale mitezza fu di
breve durata. Due giorni dopo arrivarono da Verona degli ordini severi
e violenti; altri ne giunsero in seguito da Vienna; il generale Giulay
aveva ripreso il comando di Milano. Lo stato d’assedio fu reso ancor
più rigoroso; le porte della città furon chiuse e nessuno poteva più
uscire od entrare senza uno speciale permesso; le strade erano occupate
militarmente e percorse giorno e notte da forti pattuglie di fanteria,
con cavalleria e sezioni di artiglieria. Sulle facciate delle loro case
i proprietari furono obbligati a tenere un lume acceso durante tutta
la notte, per assicurare l’illuminazione delle vie, caso mai venissero
tagliati i tubi del gaz in una insurrezione, a cui di certo nessuno
pensava più. Tutti i posti militari e i casotti delle sentinelle
furono circondati da alti e robusti cancelli di ferro; difesa che fu
introdotta in tutte le città della Lombardia e del Veneto, e che ci
rimase fino al 1859, quasi ad attestare lo stato perenne di guerra tra
la truppa e il paese.

Nelle classi popolari furono fatti arresti a centinaia, e vennero
tradotte in carcere anche parecchie distinte persone su futili indizî;
tra queste un mio amico, il marchese Luigi Crivelli, pel fatto di avere
una lunga barba rossiccia che lo faceva rassomigliare un poco al _capo
della cospirazione_, il Piolti, del quale la Polizia sapeva il colore
della barba, ma non ancora il nome.

Si cercò con ogni mezzo in quei giorni di atterrire la città. Tra gli
arrestati ne furon subito scelti sei, indicati da accuse incertissime,
e furono appesi alle forche fuori della porta del Castello, in faccia
alla città. Poco dopo si ebbero le prove della completa innocenza di
quattro almeno di quegli infelici; fra i quali c’era un tal Scannini
maestro in casa del conte Greppi: malaticcio era uscito di casa
soltanto per prender del latte.

Tra i popolani, arrolati alla rinfusa dal Brizio, molti purtroppo
appartenevano alla feccia della popolazione; e sottoposti a un
consiglio di guerra si affrettarono a svelare quanto sapevano e a
denunziare quei nomi che avevano sentito ripetere in qualche riunione.

Tra questi nomi ci fu quello di Carlo De Cristoforis, che s’era appunto
recato più volte a quei ritrovi per conoscerne l’importanza e per
dissuadere i migliori dal buttarsi in una così pazza impresa.

Il De Cristoforis, denunziato, fu subito attivamente cercato dalla
Polizia; e andò a frugare in casa sua il famoso commissario di Polizia
Bolza, a cui erano riservate le operazioni più importanti. Il De
Cristoforis s’era fin dal primo giorno nascosto prima in casa dei
fratelli Garavaglia, poi presso una sua pro zia, poi in una Casa di
salute accoltovi da un medico suo amico. Intanto pensava al modo di
mettersi in salvo: mandò uno dei suoi fratelli da una signora che
conosceva un tal Fossati, appaltatore dell’esercito austriaco, il quale
per ragione del suo ufficio aveva il permesso d’uscire con un barroccio
dalla città; e si combinò che il Fossati lo facesse montare a cassetta
come se fosse un cocchiere. Alla porta un agente fece sulle prime
delle difficoltà, non credendo che il permesso d’uscita valesse anche
pel cocchiere, ma poi si arrese alle insistenze del Fossati; e così
Carletto uscì dalla città. Corsero molte voci su questa fuga, messe in
giro per sviare la verità, ma la verità è questa; e io la seppi dalla
famiglia stessa.

Il De Cristoforis, attraverso le campagne, si recò a Travedona presso
Varese in casa de’ suoi amici Garavaglia; poi si recò a Ispra in riva
al lago Maggiore ove un pescatore lo nascose nella sua barca sotto
un mucchio di reti, e lo sbarcò sulla spiaggia piemontese; mentre i
soldati erano in chiesa per solennizzare con un _Te Deum_ il fallito
attentato di un tal Libeny contro l’Imperatore avvenuto in quei giorni
a Vienna.

Quel lago e quei paesi Carlo De Cristoforis non li doveva rivedere che
sei anni dopo, alla vigilia di morire nel combattimento di S. Fermo.

Il De Cristoforis era sempre d’umore lieto, arguto, festivo e anche nei
momenti più gravi e tragici aveva sempre pronta la barzelletta. Aveva
un coraggio, anzi un’audacia, a tutta prova; ed ammirava soprattutto
i tipi cavallereschi e da romanzo, per cui noi lo chiamavamo, con suo
gran piacere, _d’Artagnan_. Attivissimo, era sempre sulla breccia nelle
faccende patriottiche, si trattasse di cose gravi o di cose minime,
attratto specialmente dal fare ciò che gli altri non avrebbero osato.
Fu certamente uno dei giovani più geniali che ci fossero in quei
tempi a Milano. Dal 1849 al 1853, essendo chiuse le Università, egli
aveva insegnato legge quale privato docente; e nel concorso pubblicato
dall’Istituto Lombardo per una memoria sulle _condizioni economiche dei
contadini in Lombardia_ presentò un lavoro economico-statistico.

Il concorso fu vinto da Stefano Jacini con la celebre opera che fu
il principio della sua fama, ma anche il lavoro del De Cristoforis
fu altamente lodato, e ritenuto una nuova prova della cultura e
dell’ingegno dell’autore.

Ma al suo ingegno, e alla sua attività l’esilio, come vedremo, doveva
poi aprire nuove e fortunose vie.

Prima di chiudere queste note sul 6 febbraio, voglio ricordare l’atto
violento col quale il Governo centrale di Vienna, con un decreto del 13
febbraio, metteva sotto sequestro i beni di tutti i profughi politici,
compresi quelli che avevano avuto il permesso di emigrare ed avevano
ottenuta la cittadinanza piemontese. Nulla giustificava un atto simile,
col quale l’Austria voleva quasi rendere responsabile il Piemonte
della cospirazione mazziniana; onde il Governo piemontese protestò
energicamente, e richiamò da Vienna, il proprio ambasciatore, il conte
Revel.

Sono pur da ricordare le condanne che, dopo le prime impiccagioni
sommarie, furono pubblicate alcuni mesi dopo, di cui molte in
contumacia: venti furono condannati a morte, e quarantaquattro al
carcere duro tra i dieci e vent’anni; ma le condanne a morte, dopo le
prime, non furono eseguite, e le condanne ai ferri furono diminuite.
Tra i condannati in contumacia furono Carlo De Cristoforis, Guttierez,
Attilio De Luigi, Alberico Gerli a 12 anni, Assi a 20, e il Ferri, che
era arrestato, a 12 anni.

Che cos’era intanto avvenuto del Piolti de Bianchi, del Brizio, e del
Furagy?

Il Piolti s’era ricoverato presso un’amica di sua madre, certa
Antonietta Faido, che alle volte teneva qualcuno in pensione; c’era
rimasto tranquillamente, senza che alcuno s’avvedesse di lui, per tre
mesi. Dal suo nascondiglio, non ignoto a qualche amico fidato, riuscì a
far partire il Furagy e il Brizio, della cui fuga si incaricò il dottor
Arpesani, un buon patriotta: andarono tutt’e due nel Canton Ticino. Il
Piolti, aiutato da alcuni amici di Pavia, uscì da Milano il 5 di maggio
e andò a Stradella, dopo essersi tagliata la gran barba rossa.

Dopo la giornata del 6 febbraio, Milano rimase chiusa per oltre un
mese: si credette con ciò che nessuno dei cospiratori potesse sfuggire;
ma, tra i moltissimi arrestati, de’ capi ce ne furon ben pochi.

I rigori dello stato d’assedio furon accresciuti con disposizioni che
ora possono parere incredibili; e furono promulgati vecchi e nuovi
ordini della Polizia, che rendevano sempre più dura la vita cittadina.
Bisognava rincasare alle dieci di sera e avere una carta detta di
_legittimazione_ concessa dalla Polizia, e senza della quale si era
esposti a venir arrestati dalle pattuglie. Non si poteva andare per
le strade, o fermarvisi, che in due; e bisognava avere il mento raso,
perchè il pizzo e le barbe erano cose sospette. Le sentinelle, e le
numerose pattuglie obbligavano spesso chi passava a retrocedere,
od anche arrestavano a lor capriccio. La sera poi, per rincasare,
bisognava fare alle volte dei lunghi giri, se sui canti delle vie si
trovavano delle sentinelle, poichè se erano di cattivo umore alle
volte non lasciavano passare. E così si finiva spesso col cercare
l’ospitalità presso qualche amico.

Rammento ancora quei giorni con raccapriccio: il sospetto o la paura
d’un soldato, la perfidia d’un poliziotto, potevano mandare in prigione
per mesi ed anni anche il più pacifico cittadino; la burbanza dei
militari non aveva limiti.

Oh, chi non ha sentito batter le sciabole austriache sul selciato delle
nostre città, colla boria sprezzante del padrone, non può comprendere i
nostri odii, i nostri entusiasmi, il nostro amore geloso per la patria!

A rendere più tristi quei giorni si aggiunsero le notizie
sull’andamento del processo e sugli orrori delle prigioni di Mantova.
Ciò che si era preveduto stava per succedere; il governo militare, dopo
il 6 febbraio, gravò tanto più la mano sui prigionieri di Mantova,
e volle subito esercitare rappresaglie e vendette. Da quelle carceri
uscivano nuove voci di patimenti e di scoramento pei cattivi risultati
del processo; con insistenza poi si diceva che Antonio Lazzati, essendo
milanese, sarebbe stato presto impiccato per rappresaglia.

Non è mio compito il narrare qui i processi di Mantova, e mi limiterò
a dirne cose da me vedute e a notizie raccolte dalla viva voce di
amici che vi si trovarono impigliati. Su quei processi si hanno libri
e memorie che ne parlano diffusamente; leggano i giovani delle nuove
generazioni quegli scritti; rammentino anche i nomi degli eroi meno
noti, e ricordino sempre quante lacrime devano versare i vinti.

Il Lazzati era solo tra i giovani milanesi, appartenenti alla
cospirazione dei Comitati, su cui avesse messo la mano l’autorità
militare inquirente di Mantova. L’auditore capitano Krauss, di triste
memoria, supponeva giustamente che la gioventù milanese avrebbe dovuto
dare al processo un più largo contingente; e per ciò aveva sottoposto
il Lazzati ai maggiori patimenti per strappargli qualche confessione.
Ma questi era sempre rimasto fermissimo, e il suo eroico silenzio aveva
salvata la vita a moltissimi giovani milanesi, tra i quali devo pur
nominare mio fratello Emilio: forse avrebbe salvato anche se stesso,
se le sciagurate delazioni del Castellazzo, come si seppe poi, non
avessero resi vani i suoi sforzi nel terribile confronto col suo
accusatore dinanzi al Krauss.

Verso la metà del febbraio si venne a conoscere ch’erano state mandate
da Mantova a Verona, per la ratifica di Radetzky, le proposte per
le condanne; e corse la voce, tra la commozione generale, che fra i
condannati a morte ci fosse il Lazzati.

Il 28 febbraio furono pubblicate a Mantova ventisette condanne, a cui
poi ne seguirono altre. In quelle condanne il conte Carlo Montanari
di Verona, l’arciprete G. Grazioli di Revere, e Tito Speri di Brescia
erano condannati a morte; e le sentenze furono eseguite il 3 marzo.
A Lazzati era stata commutata la pena di morte in quindici anni di
fortezza con ferri.

Il processo perla cospirazione dei Comitati, cospirazione progettata
ma non condotta a fine, che non aveva approdato a nulla, a nessun
fatto, a nessun tentativo, si chiudeva alla fine col mandar nove
egregi cittadini sulle forche e trentadue nelle fortezze austriache per
molt’anni.

La notizia che il Lazzati dovesse essere impiccato era vera: si voleva
la sua morte come una rappresaglia contro Milano pel 6 febbraio: come
mai dunque all’ultim’ora gli fu commutata la pena? Su quel fatto corse
allora tra gli amici intimi del Lazzati una versione, ch’io udii in
casa Maffei e che riferirò.

Il 18 marzo 1848, allo scoppiare della rivoluzione, il generale
Wratislaw, prima di accorrere in Castello a prendere il comando
delle sue truppe, aveva affidato una sua bambina a una famiglia
di conoscenti, raccomandandola caldamente alle loro cure ospitali.
Ritornati a Milano gli austriaci, il generale Wratislaw era andato a
riprendere la sua figliuola, e a chi l’aveva ospitata, circondandola
delle maggiori cure, aveva detto: «Sento il dovere di darvi qualche
prova della mia riconoscenza; siamo in tempi gravissimi e, se a voi o
ad amici vostri potrò rendere un qualche servizio, ricordatevi di me,
pagherò il mio debito».

Saputosi ciò dalla famiglia o da persona amica del Lazzati, allorchè
giunse la notizia della condanna a morte, si pensò di fare appello alla
promessa del generale Wratislaw, che in quei giorni era comandante
della fortezza di Piacenza. Il generale si recò subito a Verona
per chiedere la grazia del Lazzati: ebbe sulle prime una ripulsa da
Radetzky, e soprattutto da Benedek, quel medesimo che tredici anni
dopo perdette la battaglia di Sadowa, e che allora era il più fiero
consigliere del maresciallo; ma il generale Wratislaw minacciò di
dimettersi, considerando la promessa fatta come un suo debito d’onore;
e fu dinanzi alla sua attitudine ferma che venne concessa la grazia al
Lazzati.

Siccome però si era stabilito di impiccarne tre, così si decise di
sostituirgli l’arciprete Grazioli.

Questo episodio della grazia, nel suo complesso, è vero; ma non cercai
troppo, in quel tempo, di conoscerne i particolari: tutto era avvenuto
poche persone, e tra queste sentii nominare, con grande riserbo, una
signora che vi avrebbe avuta la parte principale. Anche più tardi, nel
ritornare qualche volta insieme sui particolari della sua prigionia,
durata sei anni, quando il discorso si avvicinava al punto della sua
condanna e della commutazione di pena, il Lazzati si faceva pensieroso
e malinconico. Forse ripensava al _confronto_ col Castellazzo, o gli
balenava il sospetto che la grazia fattagli fosse costata la vita al
povero Grazioli, poichè si volevano, come fu detto, tre vittime in
quel giorno; forse il suo pensiero correva all’immagine d’una persona a
cui doveva la maggiore riconoscenza e ch’era poi morta sul fiore degli
anni. Allora si troncava il discorso.

Antonio Lazzati, Giuseppe Finzi, il dottor Luigi Pastro ed altri che
al pari di questi ebbero una parte nobilissima in quel processo, ne
parlavano poco, e solo con gli amici più intimi. Nei processi politici
ci sono sempre gli eroi, i deboli e i traditori: per un sentimento di
delicatezza, e di dolore nel tempo stesso, essi non amavano ritornare
su fatti dai quali risultava l’eroica fortezza dell’animo loro, accanto
alla debolezza di alcuni e al tradimento di altri. A chi lo interrogava
sul processo di Mantova e sulla sua prigionia, Lazzati preferiva
ricordare qualche episodio comico di quelli che accompagnano talora
anche i fatti più tragici; e con la sua faccia energica e severa, ma
nel tempo stesso piena di bonarietà, sceglieva nelle vicende dolorose
della sua vita gli episodi buffi, e li narrava con una comicità di
osservazioni che rendeva oltremodo piacevole il conversare con lui.

Dopo il 1859 egli non entrò nella vita politica attiva, e servì
modestamente il paese negli uffici amministrativi a cui lo chiamava la
fiducia pubblica. Era notaio, e tra i più reputati di Milano.

Ho avuto caro di ricordare specialmente questo mio vecchio amico, a
cui tanti giovani milanesi, tra i quali mio fratello Emilio, dovettero
allora tanta riconoscenza. Col suo silenzio, colla sua fermezza tra i
patimenti delle segrete di Mantova, egli li salvò dalle forche.

Chiuso il processo il Castellazzo ebbe l’impunità, uscì dalle carceri,
e mutò il nome. Nel 1859 si arrolò tra i garibaldini, cercò di
giustificarsi, e chiese un giurì che presieduto da Bertani, lo assolse,
o piuttosto gli perdonò[21].

Giuseppe Finzi mi raccontò che, trovandosi a Napoli durante la
dittatura di Garibaldi, un giorno il Bertani gli disse che il
Castellazzo, addetto alla sua segreteria, avrebbe desiderato
presentarsi a lui ed essere da lui perdonato. Finzi gli rispose:
«Non gli rifiuto il perdono, ma gli rifiuto di vederlo: non potrei
rispondere di me: l’ultima volta che lo vidi fu dinanzi all’auditore
Krauss; io ero incatenato, e difendevo disperatamente la mia vita in
un confronto con lui che, colle sue rivelazioni e colle sue accuse
insistenti, mi trascinava al patibolo. Come potrei io rivederlo?»
Bertani non insistette.

Il Castellazzo diventò segretario della Massoneria, e Grosseto lo
elesse deputato. Il giorno in cui entrò in Parlamento, il Finzi ne
uscì e diede la sua dimissione: uomini e giornali dei partiti estremi
e massonici, assalirono allora violentemente il Finzi; e la lotta, non
breve, asprissima, gli accorciò la vita.

Non avrei raccolti questi episodi, se allora e dopo non avessero avuto
un’eco dolorosa. Il fatto del Castellazzo sarebbe stato dimenticato
e perdonato, come fu dimenticata la condotta d’altri che non furono
pari al loro dovere; ma l’improntitudine e lo spirito settario de’
suoi amici vollero fare di lui un rappresentante della Nazione,
decretandogli onori, e il sentimento pubblico si ribellò. Fosse pur
stata vera la bastonatura, asserita da alcuni, ma contestata, non
era questa una ragione per far eleggere deputato chi aveva mandato
tanti sul patibolo colle sue confessioni, e per vilipendere quei tanti
intemerati patrioti che s’erano lagnati di lui. Il silenzio e l’obblio
dovevano bastare a lui e ai suoi amici, nè si doveva procurargli una
così trista celebrità.

L’esito disastroso del 6 febbraio e la fine tragica dei Comitati non
avevano scoraggiato per nulla il Mazzini. Il Piolti mentre era ancora
in Milano, lo aveva ragguagliato di quanto era avvenuto; e il Mazzini,
da Londra dove era tornato, gli aveva risposto come a un generale
disgraziato dopo una battaglia perduta: si congratulava che le forze
fossero rimaste intatte e organizzate, dopo aver fatte buone prove;
lodava l’operato di lui, e gli mostrava l’intenzione di ritentare con
altro sistema, quello cioè di bande armate che occupassero i monti e le
valli per poi piombar sulle città.

L’importante, per Mazzini, era di non arrestarsi nelle cospirazioni
e nelle sommosse, senza riguardo ai mezzi e alle opportunità: anche
dopo il 6 febbraio Mazzini non s’accorgeva che l’eccesso stancava, e
conduceva a ruina il suo sistema e i suoi intenti.

Ora dunque bisognava cercare un nuovo capo del partito, per una nuova
chiamata alle armi, dacchè il Piolti de Bianchi era stato messo fuori
di combattimento. Mazzini pensò per questo infelice incarico a mio
fratello Emilio, e gli fece avere una lettera col mezzo del Piolti:
Emilio mandò la risposta con lo stesso mezzo. Ecco ciò che scrive nelle
sue memorie il Piolti su questa lettera che ricevette aperta affinchè
la leggesse:

«In quella lettera del Visconti presentii il futuro ministro degli
affari esteri. Agli entusiasmi di Mazzini egli opponeva il calcolo
della ragione. Passando in esame la situazione politica dei vari
Stati d’Europa e quella dei partiti in Italia, concludeva col dire che
l’Europa si trovava stanca, all’indomani d’un periodo rivoluzionario,
e desiderosa di riposo; che in Italia conveniva tener gli animi desti
e decisi ad una opposizione che rendesse impossibile il governare a
un Governo forestiero, ma che non bisognava cimentarsi in tentativi,
aspettando invece quel risveglio degli animi, in tutta Europa, che,
passato il periodo di accasciamento, non poteva mancare».

«Queste lettere erano bellissime, soggiunge il Piolti, e duolmi di
non aver potuto prenderne copia» (Piolti de Bianchi. _Memorie del 6
Febbraio_).

Il Mazzini, naturalmente, continuò per la sua strada, e trovò un nuovo
capo della nuova cospirazione, un certo Ambrogio Ronchi, che venne
presto arrestato: il 13 novembre di quell’anno fu condotto nel Castello
di Milano, poi a Mantova, ore morì in prigione dopo infiniti patimenti
nel maggio del 1856. Mazzini continuò imperterrito ad occuparsi
direttamente della formazione delle sue bande; e vedremo presto quale
ne fu l’esito.

Intanto dopo l’arresto del Ronchi, s’ebbe uno strascico di altri
arresti e di processi minori, tutti affidati al Krauss di orribile
memoria. Ci furono episodî dolorosi e crudeli, di cui parlano i ricordi
del tempo: ma a questi non potrei aggiunger nulla, poichè il filo delle
mie relazioni era rotto. Il processo di Mantova, le condanne, le fughe,
il distacco da Mazzini dagli amici che vedevo più di frequente, tutti
del campo dei dissidenti, avevano troncate allora le mie informazioni.

Negli anni dello stato d’assedio, e nel decennio della resistenza, il
1853 fu certamente l’anno più duro; fu l’anno in cui maggiormente si
accumularono sul paese patimenti e sventure; ma fu anche l’anno che
ebbe la maggiore influenza politica in Milano e in Lombardia, e che
mise i primi germi di quel nuovo indirizzo, intorno a cui si dovevano
disciplinare le menti e le forze che tendevano al gran fine. In
quell’anno s’era veduta una lunga preparazione di Mazzini, diretta a
una data meta, condurre precisamente verso una meta opposta.

Da quattro anni Mazzini, con un lavoro minuto, tenace, colla
formazione dei Comitati, colla preparazione d’una sommossa,
tendeva a fare scoppiare quel vasto incendio, quella rivoluzione
da cui l’Italia, secondo lui, sarebbe uscita indipendente, una,
repubblicana. Il concetto della proporzione tra i mezzi e il fine
nella mente di Mazzini, che pure era alta, non si affacciava mai: gli
bastavano le deduzioni speculative della teoria e del suo pensiero.
La bandiera monarchica, dopo il 1848, pareva ripiegata, pareva
inoperosa, impotente; i disillusi e gli impazienti s’erano buttati
al _mazzinianismo_: dunque, argomentava il Mazzini, si poteva osare,
si poteva rifare il movimento rivoluzionario del 1848; e la nuova
rivoluzione sarebbe stata il trionfo della Repubblica.

Ma gli uomini più serî del suo partito argomentavano diversamente. Lo
avevano sconsigliato dal tentare una sommossa, egli aveva risposto loro
col 6 febbraio; lo sconsigliavano dal tentarne altre, egli preparava
le bande armate. Ciò aveva fatto nascere discussioni e dissensi sulle
prime; e alla fine era avvenuto un completo distacco tra Mazzini e il
suo Stato Maggiore.

Ma il Mazzini, più che mai convinto che la ragione fosse tutta dalla
parte sua, imperturbato lasciò che da lui si staccassero i suoi vecchi
amici, gli uomini migliori del suo partito; e riprese il lavoro di
cospirazione, scendendo questa volta giù, giù più basso, dove si
ragionasse meno, dove certi scrupoli fossero minori, e dove gli si
obbedisse più ciecamente. Ma anche qui ormai il suo seguito fu scarso,
e mano mano si andò assottigliando sempre più. Il 6 febbraio, finito
così miseramente, aveva sfatato il suo autore nelle classi popolari.
Il sistema immutabile del Mazzini di ordire ogni giorno da lontano una
piccola congiura, un piccolo fatto a cui egli non era mai presente, e
che finiva sempre con una nuova sventura, doveva necessariamente finire
col provocare negli animi un senso di reazione e di disgusto.

Io non fui in relazione col Mazzini; ma ero tra gli intimi del salotto
Maffei e del gruppo del _Crepuscolo_, ove il Mazzini aveva avuto gli
amici più autorevoli in Milano. Le impressioni mie, che ho qui esposte,
sono l’eco fedele dei discorsi che ho uditi, e di ciò che ho veduto
svolgersi in quel tempo. L’anno 1853, che doveva segnare l’apogeo di
Mazzini e il trionfo della sua idea, ne principiò invece in Lombardia
la decadenza e un rapido tramonto.

Tale era lo stato degli animi dopo il 6 febbraio, e dopo i processi
di Mantova. E mentre l’astro di Mazzini impallidiva, cominciavano in
Piemonte ad apparire quei primi albori d’una luce nuova, che presto
doveva diffondersi su tutta l’Italia. Il contegno dignitoso e fermo
del Governo sardo e del suo Re di fronte all’attitudine minacciosa
dell’Austria dopo il 6 febbraio; l’attività, la serietà con cui si
riordinava in Piemonte le finanze, l’esercito e ogni ramo della cosa
pubblica; l’ordine con cui vi procedeva la libertà, attiravano di
nuovo, con simpatia e con un vivo sentimento di speranza, verso il
Ticino gli sguardi delle popolazioni lombardo-venete.


  NOTA.

  [21] Il Castellazzo, ch’era figlio d’un impiegato di Polizia,
  uscito di prigione, fu ammesso subito alla laurea con straordinaria
  convocazione della Facoltà di legge, per ordine del Luogotenente di
  Lombardia in data 16 luglio 1853. I ricordi, e le lettere di quel
  tempo, sono unanimi nei giudizi severi contro il Castellazzo, che
  patteggiando l’impunità non ebbe più ritegno nelle sue confessioni.
  Tito Speri in una sua lettera chiama il Castellazzo e un altro
  _delatori furibondi_.

  Il Castellazzo insinuò che altri avrebbe potuto svelare il
  _cifrario_; ma questo non era a cognizione che del presidente e
  del secretario: il presidente Tazzoli fu impiccato, e il secretario
  Castellazzo ebbe l’impunità; e l’ebbe sostenendo con parecchi dei
  detenuti il _confronto_. Sui _confronti_ col Castellazzo, Finzi
  e Lazzati a quel tempo ne raccontarono e ne scrissero i terribili
  particolari.

  «Non posso tornare col pensiero» scriveva la signora Teresa Valenti
  «senza sentire un fremito d’ira contro di lui (il Castellazzo), che
  con un’impudenza da non immaginare passeggia azzimato e tronfio per
  le nostre vie in compagnia del giudice che compilò il processo».

  (Lettera di Teresa Valenti Arrivabene a Carlo Arrivabene a Londra).

  Se il Krauss gli avesse fatto dare 90 bastonate, non pare probabile
  che poco dopo il Castellazzo passeggiasse per Mantova in compagnia
  del suo aguzzino. Da principio si parlò di 30 bastonate, ma poi
  durante le polemiche diventarono 90. Quando nel 1884 si dibatteva
  una fiera polemica nell’occasione in cui il Castellazzo era stato
  nominato deputato di Grosseto, il Finzi, che per tal fatto s’era
  dimesso da deputato, scrisse sul giornale il _Pungolo_ dei ricordi
  sul processo, e sui _confronti_. In quell’occasione fu sollecitato
  il Lazzati, pure condannato in causa del _confronto_ col
  Castellazzo, di lasciare qualche ricordo del fatto; e il Lazzati
  lo raccontò dinanzi alla Commissione direttiva del Museo del
  Risorgimento, ricordando tra l’altre cose che quando nelle prigioni
  fu tratto al _confronto_, il Castellazzo fissandolo disse: _Ah,
  ah! ecco il signor Lazzati col berretto cerato e il paletot chiaro
  come li aveva la sera in cui venne al ritrovo in casa Tazzoli_. Il
  racconto del Lazzati fu scritto in un Verbale, consegnato al Museo
  del Risorgimento, e che esiste nei volumi rilegati dei Verbali
  della Commissione. A quel Verbale erano presenti il presidente
  Carlo d’Adda, e parecchi membri della Commissione, tra i quali io
  pure.

                                 * * *

  L’illustre Direttore dell’Archivio di Stato di Mantova, Alessandro
  Luzio, potè ultimamente far interrogare, da persona di sua fiducia,
  su alcune circostanze relative ai processi di Mantova del 1852,
  lo stesso auditore Krauss, che vive ancora pensionato a Vienna.
  Questi disse che il _cifrario_ del Tazzoli era stato interpretato
  dall’Ufficio segreto criptografico della Polizia di Vienna prima
  delle confessioni del Castellazzo, il quale quando vide che il
  cifrario era svelato, si decise a confessare, rivelando nuove
  circostanze e nuovi fatti, fino allora ignorati dall’inquirente,
  che fecero continuare il processo, e furono causa delle condanne
  a morte. Il Castellazzo fu persuaso a confessare, patteggiando
  l’impunità e un impiego, forse dal padre impiegato di Polizia. Il
  Luzio espose queste circostanze che ormai chiariscono la verità
  sull’affare Castellazzo, in sei applaudite conferenze, dette a
  Milano nel Circolo Filologico, che verranno quanto prima ripetute
  in un libro sul processo di Mantova che pubblicherà la Ditta
  Cogliati. Le conferenze del Luzio sono avvenute mentre questa
  seconda edizione era in corso di stampa. Ma posso lasciare, per
  ora, intatto il mio racconto perchè nella parte sostanziale le
  rivelazioni del Krauss non contraddicono a quanto mi dissero i
  prigionieri di Mantova, miei amici, e che riferii in questi miei
  _Ricordi_.

  Il Krauss confermò che, in questo processo, nessuno era stato
  bastonato, poichè non occorreva tale misura dacchè il cifrario era
  ormai noto.




CAPITOLO XVII.

1853.


III.

  _Sommario:_ Partiamo, io e mio fratello Emilio, per un viaggio
  a Roma, a Napoli, in Sicilia. — Soggiorno in Roma. — Da Roma,
  attraversando gli Appennini, andiamo ad Arsoli, Avezzano,
  Montecassino, Capua e a Napoli. — L’albergo e l’albergatore. —
  Amici. — Casa Gargallo. — Una chiamata alla Legazione Austriaca.
  — Tragitto da Napoli a Messina. — Catania, Taormina. — L’Etna e
  il prof. Gemellaro. — Siracusa, viaggio a cavallo lungo la costa
  fino a Marsala. — Impressioni e disagi. — Locande e bettole. — La
  cortesia delle persone, i discorsi. — Un contratto coi mulattieri
  a Girgenti. — Un incontro misterioso. — Da Trapani a Palermo
  per Calatafimi. — Lettere per diverse persone dateci da Tenca.
  — Impressioni sulle condizioni civili di quel tempo nella bassa
  Italia. — Ritorno e lettere di nostra madre a Genova.

In principio di luglio, fatti i nostri esami universitarii, io e mio
fratello Emilio ci sentimmo presi da una grande smania di prendere
una boccata d’aria fuor di paese, e di sollevarci un po’ l’animo dopo
tanti giorni di sciagure, e dopo i pericoli corsi, specialmente da
Emilio. Ci decidemmo per un viaggetto a Roma, a Napoli, e in Sicilia:
l’avere un passaporto per quei paesi, incatenati al pari di noi,
non era difficile; e poi ci sorrideva di vedere una parte d’Italia,
di questa nostra Italia a cui si dedicavano tanti pensieri e tanti
dolori. Partimmo per Genova, ove dopo un paio di giorni, passati in
compagnia di parecchi amici emigrati, o fuggiti dai recenti processi,
ci imbarcammo, e si andò a Civitavecchia.

Sbarcati, fummo condotti nell’uffizio della Dogana, ove ci furono
aperti i bauli, e un commissario di Polizia li perquisì minutamente.
Ne tolse i libri, un Machiavelli, un Molière e un paio di romanzi,
dicendoci che qualsiasi libro veniva sequestrato, e che avremmo
potuto cercarli poi alla Polizia centrale in Roma. Ma, in fatto non
li riavemmo più. Questa prima impressione non fu piacevole, e meno
piacevole ancora fu il viaggio da Civitavecchia a Roma in una vecchia
diligenza sgangherata, che Emilio diceva trovata tra le masserizie di
Torquemada.

In Roma rimanemmo quindici giorni, girando da mattina a sera, nella
canicola del luglio, trafelati, ma non stanchi di vedere e di ammirare.
Visitammo anche minutamente quei luoghi a cui le recenti memorie della
difesa di Roma davano uno speciale interesse: le mura, il _Vascello_
e la breccia, ove erano caduti Manara, Enrico Dandolo, Morosini, e
tant’altri amici e giovani valorosi in nome di una grande idea la quale
pareva non si potesse effettuare che in tempi ben lontani. Quando
incontravamo per le strade i soldati francesi esclamavamo in cuor
nostro: Che cosa fate voi qui? Il vostro posto sarebbe stato sui campi
di Lombardia da amici, e non qui da nemici!

Chi m’avrebbe detto allora che questa logica del sentimento avrebbe
avuto tra pochi anni il trionfo! E per di più, per opera di colui che,
in quei giorni, per essere dei patriotti in tutta regola, bisognava
chiamare con ira l’_uomo del 2 dicembre_!

Francia e francesi nei nostri animi giovanili erano associati
all’epopea della rivoluzione, e del regno italico; erano associati a
ogni più alta idea di libertà e di progresso! E ora invece vedere i
francesi in Roma, accanto agli svizzeri del Papa, venuti a sostenere
colle armi il governo temporale papalino!

Un’altra cosa che ci offendeva la vista e il sentimento era il trovare,
in ogni ufficio ove s’andasse, dei preti; dei brutti preti che, col
piglio di frequente rozzo e sgarbato, adempivano a incarichi che
proprio non avevan nulla a che fare colla sacristia. E ci stupiva poi
tanto il sentir bestemmiare contro i preti e dileggiarli, senza ritegno
e generalmente; noi, che eravamo abituati a rispettare i nostri bravi
preti di Lombardia. E che cosa poi non si diceva del governo dei preti!
Era un subisso di imprecazioni, che vorremmo per un momento solo far
udire a quelli che lo invocano... per passatempo.

Un giorno, mentre in piazza di Monte Cavallo stavo osservando
l’obelisco e i cavalli greci, vidi uscire dal palazzo del Quirinale una
gran carrozza a vetri tutta dorata. In quella carrozza c’era un bel
vecchio, tutto vestito di bianco, che benediceva dagli sportelli: il
suo viso pareva circondato da un’aureola di santità e di pace: sulle
sue labbra c’era un fine sorriso pieno di bontà; quel dolce sorriso col
quale forse aveva pronunziate un giorno quelle parole che risuonarono
dall’Etna alle Alpi: _Gran Dio, benedite l’Italia!_

Pensammo di recarci a Napoli, attraversando gli Appennini, passando
poi per Capua e per Caserta. Il primo giorno s’andò a Tivoli e ad
Arsoli, un ameno paesello presso il confine del regno di Napoli, con
un viaggio di parecchie ore di polvere e di afa in una vetturaccia, in
compagnia d’un frate che russava e d’una balia che allattava. Ad Arsoli
ci dissero che non c’eran locande per _galantuomini_: in quei paesi
si chiamano galantuomini quelli che noi chiameremmo persone civili.
Ci fu però indicato un palazzotto il cui proprietario, un certo signor
Marcello, offriva l’ospitalità ai forestieri, e ai _galantuomini_.

Il signor Marcello era un uomo gentile e gioviale. Ci alloggiò assai
bene, e la sera ci diede un’ottima cena. Ci disse ch’era di Roma, e che
dopo i fatti del 1849 passava parte dell’anno in quella sua villa; poi
mi raccontò molte storielle della sua gioventù, nelle quali c’entrava
anche il principe Luigi Napoleone. Ci disse pure che nella villa c’eran
sua moglie e le sue figlie, ma non ce le lasciò vedere. E avendogli noi
lodata la cena, ci informò ch’era stata cucinata da una sua giovane
cuoca; ma anche questa non fu visibile. E quando prima di partire la
cercammo per darle la mancia, si presentò in vece sua un’altra persona
di servizio, ch’era un maschio.

Il signor Marcello ci procurò una guida e tre muli per attraversare
l’Appennino. Si viaggiò tutta una giornata, valicando un monte arido
e dirupato, per una strada mulattiera che conduceva a Tagliacozzo, per
scendere poi ad Avezzano. La strada che noi facemmo era appunto quella
che, circa dieci anni dopo, veniva percorsa dalle bande dei briganti
che entravano dallo Stato romano negli Abruzzi; e su quelle balze
era preso e fucilato il carlista spagnolo Borjes, venuto in Italia
a capitanare il brigantaggio, a ricattare e a tagliar orecchie, da
dilettante.

Verso sera, prima di arrivare ad Avezzano, fummo raggiunti da un
signore, pure a cavallo, il quale con molta cortesia ci diede delle
indicazioni utilissime, e ci procurò un buon alloggio. Non contento di
questo, la mattina seguente venne a prenderci e ci condusse a vedere
il lago di Fucino e l’emissario di Nerone: poi ci volle accompagnare
fino a Sora e a Capua. Sulle prime ci eravamo tenuti con lui in molto
riserbo, ma a poco a poco smettemmo la diffidenza. Egli ci disse che
in seguito agli avvenimenti del 48 era stato relegato in provincia;
e ci diede una infinità di particolari su cose e persone che sapevamo
d’altra parte veritieri.

Questo cortese signore si chiamava Altobelli, e mio fratello Emilio lo
rivide a Napoli nel 1861, quando v’andò con Farini. L’Altobelli gli
raccontò che dopo la cavalcata e la gita con noi era stato arrestato
dalla Polizia, la quale voleva sapere quali macchinazioni avesse fatte
con quei due forestieri venuti dal confine romano; e, a buon conto,
l’avevano tenuto in prigione alcuni mesi.

Accomiatatici a Sora dal signor Altobelli, si andò in vettura a
S. Germano, poi a cavallo all’Abbazia di Montecassino. Eravamo
nell’agosto, e si pensi che caldo facesse. Il portinaio del convento,
indovinando i nostri desideri, ci condusse subito in un salottino da
toeletta ove potemmo lavarci, rinfrescarci, e toglierci di dosso tutta
la polvere che ci ravvolgeva. Quel bravo portinaio ci portò anche
delle buone limonate, e ci disse a nome del Priore, al quale avevamo
mandato i nostri biglietti da visita, che eravamo pregati di accettare
in refettorio una colazione. Accettammo con piacere, e la colazione
fu ottima. Alle frutta vennero due monaci benedettini, uno dei quali
credo fosse il Priore, a farci visita; poi il più giovane dei due ci
condusse a visitare il convento, la chiesa, e la biblioteca; visita che
durò parecchie ore, e che quel monaco ci rese anche più interessante
colla sua molta erudizione. Era di Napoli, e si chiamava Carfora; aveva
maniere distinte e gentili da signore.

Lasciammo con dispiacere quello splendido asilo, ove avevamo trovato
un’ospitalità tanto cortese; ove tutto era dedito alla fede, alla
coltura, all’arte: e ove tutto faceva dimenticare _li pretacci_ di
Roma, come dicevano allora i romani.

Viaggiando tutta notte in una diligenza, si arrivò la mattina dopo
a Capua. Di quel viaggio ricordo che un gendarme, incaricato di
scortare la diligenza, non trovando altro posto, venne a sedere in
mezzo tra me ed Emilio schiacciandoci sui fianchi del legno. Cercammo
di protestare, ma fu inutile. Che cosa non era lecito a un gendarme?
Anzi voleva essere ringraziato. Prima ci frugò indosso per assicurarsi
che non avevamo qualche arma nascosta, poi voltosi a Emilio, che aveva
un paio di giovanili baffetti biondi, gli disse: «Io vi dovrei far
tagliare _li mostacci_, perchè nel _Regno_ sono proibiti, ma veggo
che siete inglesi e per rispetto alla vostra nazione _non ci faccio
caso_. Ma ringraziatemi, perchè _vi faccio una grazia_. Ma pure mi
dovete ringraziare se sto _assettato_ in mezzo a voi, e vi proteggo
contro _li malfattori, che ce ne stanno tanti_.... che se venissero
nella notte avranno da fare con me... sangue di!... Ringraziatemi,
ringraziatemi...» Poco dopo, col fucile tra le gambe, si addormentò, e
russò fino alla mattina.

Da Capua si andava a Napoli con la strada ferrata, una strada ferrata
di carattere pacifico e conciliante, su cui il treno andava con la
velocità d’una _vettura_; i passanti lo facevano fermare per salire o
per scendere a loro volontà.

A Napoli alloggiammo in un albergo, in vicinanza di via Toledo, che si
chiamava, mi pare, del _Commercio_. Il proprietario e direttore era un
vecchio francese, Monsieur Martin, venuto a Napoli ai tempi di Murat,
e che quando non brontolava, come faceva quasi sempre, canticchiava
sottovoce continuamente una canzone francese che aveva per ritornello:
_Aux armes, aux armes, que vient le Duc de Parme_.

Appena arrivati trovammo alcuni amici che furono poi i nostri compagni
per tutto il tempo che si rimase a Napoli, ossia una quindicina
di giorni. Questi erano Carlo Casalini veneto, compagno di studi
di Emilio, e il conte Sassatelli di Bologna e Cristoforo Robecchi
milanese, che diventò molti anni dopo Console generale del Regno
d’Italia.

Se volessi dire tutte le impressioni di maraviglia da cui passavo da
mattina a sera, non la finirei più; quella bella Napoli m’avevano
ubriacato. Ma pur troppo accanto alle meraviglie del cielo, della
natura e dell’arte, c’eran le impressioni brutte che lasciava
nell’anima la gente bassa, che è appunto quella parte di popolo che,
chi non è del paese, vede di più.

Per noi che ci sentivamo italiani, cittadini di una Italia da farsi,
e che come tutti i liberali di quel tempo, circondavano il popolo di
tanta poesia e di tante speranze, era penoso il veder quella plebaglia
così priva di dignità e talora d’onestà. Allora c’erano ancora i
tradizionali _lazzaroni_, scomparsi poi col Borbone loro protettore.
I forestieri se ne divertivano, ma noi ne arrossivamo. Quello sciame
di pitocchi, di oziosi, che a ogni passo s’aveva tra’ piedi, che
piombavano addosso come locuste, che ingannavano, truffavano, e che
bisognava minacciare, o peggio, per liberarsene, era uno spettacolo
insoffribile, tristissimo. Ci confortavamo col dire tra noi che
quel popolo era tenuto ad arte nell’ignoranza e nell’abbiezione; ma
bisognava pur confessare che i risultati del sistema non potevano
essere più completi.

Tutta questa bordaglia faceva contrasto è vero con le classi alte, e
soprattutto coi molti eletti per ingegno e per cultura di cui non era,
e non fu mai, scarso quel paese. Ma allora molti di questi si tenevano
in disparte, e quasi appiattati, per non dar quell’occhio alla Polizia,
la quale non era meno feroce, ma era più vessatoria e più stupida della
Polizia del Governo militare di Lombardia.

Un giorno io e Emilio, tornati, dalla gita del Vesuvio stanchi,
accaldati, ci buttammo sul letto mezzo vestiti, e ci addormentammo
profondamente, senza aver chiusi gli usci delle nostre camere. Ci
svegliammo verso l’ora del pranzo, e si pensi con quale spiacevole
maraviglia ci accorgemmo ch’eran scomparsi tutti i nostri abiti,
compresi quelli ch’erano negli armadi. Chiamammo il cameriere,
chiamammo il signor Martin, furono interrogate le persone di servizio
dell’albergo, ma dei nostri abiti non se ne seppe più nulla; e per
quel giorno si dovette pranzare in camera in maniche di camicia, e poi
andare a letto.

Il signor Martin ci giurò in francese, in italiano, e sulla sua testa,
che avrebbe scoperto il ladro. Per un paio di giorni lo sentimmo
strepitare e bestemmiare; poi tutto tornò in quiete, ed egli riprese a
canticchiare _aux armes, aux armes, que vient le Duc de Parme_.

Ciò che di buono fece intanto il signor Martin fu di chiamar subito
un bravissimo sarto, che con una rapidità ammirabile, cioè in un paio
di giorni, ci rifornì di quanto c’era stato rubato, portandoci degli
abiti assai ben fatti e di ottimo gusto. C’eran state rubate anche
le _marsine_, e avevamo un invito a pranzo proprio in quei due o tre
giorni. Il sarto con un sorriso benevolo ci rassicurò, e un’ora prima
del pranzo ci portò le _marsine_, i calzoni, e le sottovesti che
andavano a pennello.

Quando partimmo da Napoli il signor Martin, nel metterci in carrozza,
ci disse all’orecchio che il ladro dei nostri abiti era stato il
servitore d’un generale, venuto per la festa di Piedigrotta, e che
aveva le sue camere accanto alle nostre; ma che trattandosi di persona
dipendente da un pezzo grosso, era prudenza tacere.

Il pranzo, pel quale ci occorrevano le _marsine_, era in casa Gargallo.
Ai discendenti del traduttore d’_Orazio_ eravamo stati presentati
pochi giorni prima; ed essi, tutta una famiglia composta di fratelli,
sorelle, nuore e nipoti, ci avevano invitati pel giorno della festa
di Piedigrotta a veder la _parata_ la mattina, cioè la grande rivista
militare e il passaggio del corteo dei Sovrani, e poi a pranzo la sera.

Ci trovammo in casa Gargallo con altri invitati, che dovevano essere
dei borbonici della più bell’acqua. Ce ne accorgemmo quando passò la
carrozza del Re seguita dalle carrozze di Corte. Emilio mi diede subito
un’occhiata, per domandarmi se dovevamo ritirarci dal balcone, come
si faceva a Milano quando passava un generale austriaco. M’aspettavo
in buona fede che su quei balconi si facesse altrettanto, ma nessuno
si mosse. Io avevo già atteggiato il viso a una sdegnosa, severità
patriottica, ma ecco che i miei vicini incominciano a batter le mani, a
gridar viva il Re, e a salutare ammiccando con gli occhi le persone del
seguito.

Durante il pranzo poi i discorsi si aggirarono unicamente su notizie
di Corte; e dal mio vicino ricevetti le congratulazioni perchè anche
in Lombardia fossero stati ristabiliti l’ordine e la tranquillità!
Due giorni dopo facemmo la nostra visita di congedo in casa Gargallo.
Credevamo d’esser sulle mosse per andare in Sicilia; ma un improvviso
incidente venne a trattenerci ancora per una settimana. L’amico
Cristoforo Robecchi desiderava fare il giro della Sicilia con noi, e
avevamo quindi mandato alla Polizia i nostri tre passaporti chiedendo
il _visto_ per la partenza. Ma eccoci, dopo un’attesa di alcuni giorni,
una lettera che ci chiama alla Legazione d’Austria. A quei tempi gli
italiani, sudditi austriaci, viaggiando evitavano di presentarsi alle
Legazioni o alle Ambasciate austriache per cansarne le cortesie. Questa
volta eravamo chiamati, e bisognava andarci.

Alla Legazione fummo ricevuti dal primo segretario, poichè il ministro
era in congedo. Questo segretario, certo signor Rajmond, ci accolse
molto gentilmente, e ci avvisò che alla Polizia di Napoli era arrivata
una relazione, piena di sospetti sul nostro conto, in causa della
strada insolita che avevamo percorsa venendo da Roma, e in causa delle
_persone con le quali_ (il signor Altobelli) ci eravamo abboccati.

Non ci fu difficile dimostrare al signor Rajmond l’innocenza delle
nostre azioni, ed egli si assunse di persuaderne la Polizia napoletana,
e di domandare per noi quei passaporti speciali che occorrevano per
andare in Sicilia. Noi non sapevamo che il nostro passaporto per le
Due Sicilie non bastasse, e che per una sola Sicilia ce ne volesse uno
rilasciato anche dal Governo di Napoli.

Dopo due giorni siamo chiamati di nuovo alla Legazione, e il signor
Rajmond ci comunica la risposta del Governo il quale ci concedeva _due_
passaporti ma non _tre_; bisognava quindi scegliere tra noi chi poteva
partire e chi dovesse rimanere. Il signor Rajmond però, sempre gentile,
si offerse di interporsi ancora per ottenerci la _grazia_ di partire in
tre.

La grazia venne, ma un personaggio del Governo volle vederci e
interrogarci alla presenza del secretario della Legazione. Questo
personaggio, di cui non rammento il nome, era un ometto asciutto e
sbarbato; ci fece un lungo interrogatorio, squadrandoci da capo a
piedi a ogni domanda; poi alla fine con molta solennità ci disse:
«Ebbene, si concede a tutti e tre il passaporto per la Sicilia, ma si
concede soltanto per un riguardo alla loro _bandiera_!» E così dicendo
accennava con la mano al segretario della Legazione d’Austria.

_Per la nostra bandiera!_ cioè per la bandiera austriaca.

Con potemmo andare quella volta in Sicilia grazie a un funzionario
austriaco, il quale per di più ci raccomandò di tenerci molto in
guardia per cansare le vessazioni della Polizia borbonica, ch’egli pure
si permetteva, sorridendo, di riconoscere eccessive.

Partii pieno d’entusiasmo per il bel paese che avevo veduto, ma ne
venivo via con tre dispiaceri nel fondo dell’animo: quello cioè d’aver
perdute anche qui, e più che mai, molte illusioni su quel _popolo_ che
Mazzini mi aveva insegnato a mettere accanto a _Dio_; d’aver trovati,
nelle classi educate, dei borbonici; e d’aver avuto un protettore nella
Legazione austriaca.

Ci imbarcammo per Messina, e la traversata fu poco felice: il mare era
burrascoso, il battello procedeva male e quasi a stento; a Paola si
dovette fare una lunga fermata. Quando si giunse a Messina era sera,
e si dovette passar la notte a bordo; la conclusione fu che si rimase
sul battello cinquant’ore. Nel frattempo ci furono tutti quegli episodi
che si possono immaginare pensando a un battello durante una burrasca.
Io e Emilio per fortuna non pagammo quel tributo, che il beccheggio e
il rullio fecero pagare agli altri. Tra i passeggieri, ch’eran molti,
c’era tutta una compagnia comica; la compagnia Domeniconi che andava a
Messina. L’avevo veduta altre volte sulle scene, e allora la vidi tutta
col mal di mare, che ruzzolava sul ponte o nel salotto, in pose ora
tragiche ed ora comiche.

Tra gli altri viaggiatori c’erano delle donne, e anche qualche uomo,
che parevano impazziti per la paura; strillavano, pregavano, invocavano
tutti i santi napoletani e siciliani; e ad ogni nuovo colpo di vento, o
ad ogni ondata più violenta, facevano un nuovo voto. Ne fecero di così
smisurati (fra gli altri quello d’un organo a tre tastiere con sessanta
canne), da scommettere che non furon mantenuti tutti.

A Messina ci fermammo tre o quattro giorni, poi si andò a Catania, dopo
aver passata una giornata a Taormina; nella meravigliosa Taormina!

Dopo aver gironzolato per alcuni giorni nella bella città di Catania,
ci accingemmo alla salita dell’Etna. Ma l’Etna, ci si disse, non è
sempre cortese coi viaggiatori, e difatti non lo fu neppure con noi;
sicchè dovemmo contentarci di leggere sulla Guida la descrizione dello
spettacolo che vi si contempla dalla vetta. La prima fermata fu a
Nicolosi, ove, com’era di prammatica allora, si andò a far visita al
professore Gemellaro, l’illustratore dell’Etna, di cui egli parlava
come un buon babbo parla di un suo figliolo, che fa qualche scappata, è
vero, ma che gli dà pure molte consolazioni.

Dopo Nicolosi il tempo si fece così cattivo che dovemmo ripararci
in una grotta e starci forse un paio d’ore, intanto che un vento
impetuoso, accompagnato da una fitta gragnuola, schiantava gli alberi e
faceva rotolar sassi giù dalla montagna. Usciti dalla grotta giungemmo,
dopo altre sette ore di cammino, a un rifugio chiamato la casa degli
inglesi. Ci si passò la notte, mezzo assiderati, poichè in quella
casina anche il vento e la pioggia avevano libero l’ingresso. All’alba
tentammo la salita del cono, ma dopo una mezz’ora di strada fummo
ricacciati indietro da una _tormenta_ di lapilli e di neve, venuta a
dirci bruscamente che anche il cono non voleva saperne di noi.

E così si dovette rifar la strada giungendo a Catania stanchissimi per
la fatica, pel freddo e pel caldo, poichè dalla neve e dai ghiacci
dell’alta zona del monte eravamo passati, al piano, a 36 gradi
centigradi.

Ad onta di tutti questi demeriti che l’Etna ebbe verso di noi, io ne
ho conservato un grande e indimenticabile ricordo. Per quanto la mia
aspettativa fosse molta, essa fu superata; e ripensandoci, dopo tanti
anni, lo spettacolo vario e grandioso dell’Etna mi riempie ancora la
mente di maraviglia.

Ma altri spettacoli grandiosi ci si presentarono subito dopo,
principiando da Siracusa. Non parlerò della città moderna che se ne
sta accanto al piccolo porto, come un signore decaduto sta in un
quartierino modesto; ma ricorderò la landa che, arida e maestosa,
si diparte dall’attuale città, e su cui si distendeva la Siracusa
antica, la grande città greca, di cui non ci son più neppure le rovine.
Percorremmo quella landa per parecchie ore a cavallo, non trovando
che qualche raro frammento di pietre spezzate, là dove per più secoli
si agitò la vita d’oltre un milione d’abitanti. Durante quella lunga
cavalcata non trovammo, noi tre, una parola da dire. Certi spettacoli
rendono silenziosi e meditabondi anche a vent’anni.

Da Siracusa si andò a Girgenti, passando per Noto, Modica, Ragusa,
Vittoria, Terranova, Licata, viaggiando ogni giorno per sei o sette ore
a cavallo. Da Girgenti si andò a Sciacca, con una cavalcata di tredici
ore filate; poi a Selinunte, a Castelvetrano, a Mazzara, a Marsala,
sempre su cavalli, o su muli.

Ripensandoci, dopo tanti anni, mi si ridesta ancora l’impressione di
quelle ore calde, faticose, di quelle sabbie infocate sulle quali le
nostre cavalcature camminavano a stento sprofondandovi. Le vedo ancora
quelle terre arse e sabbiose, e quel cielo, che facevan pensare al
deserto, e all’Oriente. La fatica e gli stenti erano grandi, ma era
così grande tutto ciò che vedevamo che alla fatica non si badava più.
Quel mare azzurro, quelle spiagge vaghissime, quegli avanzi greci,
romani, saraceni, normanni che riuniti su una medesima terra ci
parlavano di tanti popoli e di tante vicende, trasportavano i nostri
pensieri in una sfera così alta e vasta che l’eco dei nostri disagi e
dei nostri piccoli guai non ci poteva arrivare.

De’ piccoli guai, e degli incomodi, oltre la fatica, il caldo e la
stanchezza, a dir vero ce n’eran parecchi. I tre maggiori erano la
fame, la sporcizia e i poliziotti.

Di solito si faceva anche allora il giro della Sicilia con vaporetti
che ne toccavano i punti più interessanti. Ma il giro della costa
per terra, che bisognava fare a cavallo non essendoci strade per
lunghissimi tratti, non veniva di solito intrapresa da chi viaggiava
per divertimento, se non da qualche inglese. Perciò eravamo presi
sempre per inglesi anche noi. E degli inglesi veri ne trovammo
infatti alcuni che facevano la nostra medesima strada ma la facevano
con maggior previdenza e con minori disagi di noi: portavano con
sè provvisioni di acqua, di vino, di viveri; e avevano le tende per
riposare di giorno, e occorrendo anche di notte, quando non trovavano
locande decenti.

Oggi in quasi tutti quei paesi della costa si trovano buone locande, e
strade; ma non era così a quei tempi, e val la pena rammentare come si
viaggiasse al tempo del Governo borbonico.

Dicendo che parecchie volte abbiam sofferto la fame non rendo che
un doveroso omaggio alla verità. In quelle bettole ignobili che si
trovavano lungo la strada non c’era il più delle volte che del pane
secco, del cacio ammuffito, o qualche altro commestibile che rovesciava
lo stomaco. Se ci fermavamo a qualche cascinale ci si trovavano al
più delle ova: se ci son le ova, argomentavamo tra noi, ci dovrebbero
essere anche le galline; ma siccome la logica non regge sempre le cose
di questo mondo, così le galline non c’eran mai, ed era impossibile di
scovarle per quanto si offrissero dei prezzi principeschi.

Nei piccoli paesi le così dette locande eran bettolaccie da mulattieri.
Sul limitare s’era subito accolti da un puzzo che vi diceva di non
entrare; e il più delle volte infatti non ci si entrava, e si dormiva
sotto la vôlta del cielo, con la sella del mulo per guanciale. Se
volessi parlare degnamente del sudiciume che ho ammirato in alcune
di quelle locande, e in qualcuno di quei paesi, ci sarebbe da farne
un poema. Il concetto d’un po’ di nettezza non c’era neppure nello
stato embrionale. Bisogna dire che la nozione della pulizia sia tra
quelle che penetrano per le ultime in certi cervelli umani, i quali
comprendono più facilmente il soprannaturale che il sapone.

Una volta (mi si perdoni ciò che sto per dire), mio fratello avendo
detto alla padrona della locanda di pulirgli un coltello, su cui c’era
stratificata una lunga storia di usi diversi, la locandiera sputò sul
mattone del pavimento, ci fregò sopra la lama, la risciacquò in un
catino d’acqua sporca, e l’asciugò ne’ suoi capelli; tutto ciò con
una rapidità e con una premura che dimostravano la miglior volontà di
servirci bene.

Al primo arrivare in un paese si era subito pigliati da un gendarme, il
quale prima di lasciarci andare alla locanda ci conduceva all’uffizio
della Polizia; dove ci si frugava nei bagagli, e perfin nelle tasche,
e ci si facevano i più strani interrogatori, ch’eran spesso un
divertimento. Alla fine ci domandavano una buona mancia. Dappertutto
eravamo poi sempre l’argomento d’una grande curiosità. Forestieri ne
vedevan di raro, era dunque ben naturale che tutti avessero un gran
desiderio di avvicinarci e di parlarci. Ma devo anche dire ch’eran
tutti molto cortesi ed ospitali, e che spesso si durava fatica a
cansare certe cortesie eccessive, come quelle d’offerte di doni che ci
venivan da persone che vedevamo per la prima volta. A Vittoria, avendo
noi lodati i vini di parecchi che ci avevano condotti a vedere le loro
cantine, tutti volevano che ne accettassimo dei fiaschi e persino dei
barili da portar con noi; un tale ci voleva donare un gran pacco di
cremor di tartaro non sapendo che cosa darci di meglio.

I discorsi, le domande che questa brava gente ci facevano, dimostravano
sovente una ben scarsa nozione degli avvenimenti moderni, mentre
poi dinotavano in loro quasi sempre una certa cultura classica e
soprattutto archeologica. Nè c’era da stupirsene, poichè negli stessi
_gabinetti di lettura e di conversazione_, come li chiamavano, non
ci abbiamo mai visto di moderno che il Giornale ufficiale delle
Due Sicilie. Il tenere isolate le popolazioni della Sicilia da ogni
contatto intellettuale col rimanente del mondo era allora una delle
principali preoccupazioni del governo borbonico.

Non era piccolo lo stupore di chi ci interrogava, a sentirsi rispondere
che non eravamo inglesi, ma italiani e lombardi. Allora ci venivano
rivolte, con una grande curiosità patriottica, infinite domande che
dimostravano quanto in quei paesi la gente fosse tenuta all’oscuro su
tutto ciò che riguardava gli altri paesi d’Italia.

A Girgenti, mentre stavamo contemplando gli avanzi d’un tempio greco,
un ufficiale, che ci parve di quelli addetti alle piazze, dopo averci
osservati per un pezzo, non reggendo più alla curiosità, ci si avvicinò
e ci diresse parecchie domande. Si capiva ch’era un buon uomo; per
farsi poi perdonare le sue interrogazioni egli le intercalava con
una infinità di scuse e d’offerte di servizi. Le nostre risposte
accrescevano sempre più la sua curiosità, ma ogni tanto rimaneva così
impigliato nelle sue sorprese che non sapeva più raccapezzarsi.

Il maggiore de’ suoi imbarazzi fu quando gli dicemmo che eravamo
italiani e lombardi. Non era forte nella geografia, e si ostinava a
voler mettere la Lombardia nella Svizzera. Ad onta di questo disinganno
che gli dovemmo dare, volle incaricarsi egli stesso di procurarci
le cavalcature per andare a Sciacca, e di farci il contratto coi
mulattieri. Era un contratto che si poteva sbrigare con poche parole,
ma quel buon uomo era verboso e voleva mostrarci tutto l’interessamento
che prendeva per noi. Alla fine, parlando ai mulattieri, conchiuse
con questa perorazione: «Sentite, questi signori sono cavalieri
prestantissimi che sanno scrivere! da Sciacca mi manderanno due righe
scritte di loro pugno, sulla carta, capite?.... e se mi scriveranno
che siete stati dei bricconi, io vi farò dare tante bastonate che ve
ne ricorderete per un pezzo!...» e qui fece una faccia minacciosa e
terribile, ma poi rabbonendosi subito continuò: «Ma voi siete dei bravi
figlioli, vi conosco... questi signori cavalieri saranno contenti di
voi, vi daranno una buona mancia... e voi avrete la mia protezione!» E
alzò il braccio in atto quasi di benedirli.

Con quei mulattieri si fece una lunga cavalcata, arrivando la sera a
Sciacca. Su quelle strade, in uno dei punti più deserti, ci imbattemmo
in due individui a cavallo che potevano essere contadini, o guardiani,
e che avevano i fucili ad armacollo. Questi, dopo averci squadrati
ben bene, tirarono in disparte i nostri due mulattieri e rimasero
per qualche tempo a confabulare con essi, poi scomparvero, mentre
noi proseguivamo lentamente per la nostra strada. Poco dopo i nostri
mulattieri vennero a dirci che quei due avevano fatto loro la proposta
di pigliarci alle spalle, di ammazzarci e di dividersi il bottino. I
nostri mulattieri soggiungevano d’essersi opposti, dicendo, per meglio
dissuaderli, che noi eravamo terribilmente armati, e che per di più
avevan veduti a poca distanza i gendarmi.

Quella proposta sarà stata vera? O i nostri mulattieri ce l’avevano
inventata per farsi raddoppiare la mancia, e per assicurarsi meglio
quelle due righe di benservito da portare all’uffiziale? Le due ipotesi
sono possibili del pari.

Quest’episodio fu il solo che ci rammentasse la poca sicurezza di
quelle strade. Noi le abbiamo percorse di giorno e di notte, senza
nessuna precauzione, e senza darcene pensiero; fortunatamente nulla
venne a turbare questa nostra serenità.

A Marsala ci fermammo una giornata per riposarci. Sul taccuino, ove
scrissi allora i miei appunti giornalieri, trovo scritto: _Oltre le
fattorie del vino e qualche avanzo dell’antica grandezza c’è poco da
ricordare_. Chi m’avrebbe detto allora che cosa ci sarebbe stato da
_ricordare_, sette anni dopo!

Da Marsala andammo a Trapani per mare, in una baia di pescatori, poi
un po’ a cavallo e un po’ in vettura si arrivò in tre giorni a Palermo,
passando per Calatafimi, Segeste, Alcamo e Monreale.

A Palermo, ove eravamo arrivati il 6 ottobre, rimanemmo otto o dieci
giorni, il tempo appena necessario per dare un’occhiata a quel paese
di maravigliosa bellezza, e alle cose più notevoli della città. Una
lettera di nostra madre ci aveva consigliato di affrettare il ritorno,
e ci diceva che a Genova avremmo trovate altre sue lettere.

Carlo Tenca ci aveva date delle lettere per alcune persone
coll’incarico di chiedere delle corrispondenze pel _Crepuscolo_, o
almeno delle informazioni di tanto in tanto; ciò per stabilire una
relazione intellettuale e morale tra i lettori del _Crepuscolo_ e la
Sicilia, come già avveniva con molte altre provincie d’Italia.

Trovammo delle distinte persone che ci accolsero con molta cortesia,
ma tutte ci diedero un’eguale risposta, e cioè che mandar delle
lettere, anche non politiche, sulla Sicilia era un affar serio e
quasi impossibile, poichè quelle lettere sarebbero state certamente
aperte dalla Polizia e sequestrate; chi poi le mandasse avrebbe avute
perquisizioni e vessazioni senza fine. Ci dissero per di più che
sarebbe stato poco prudente anche il lasciarsi veder troppo insieme con
noi per le strade, poichè chi bazzicava con forestieri diventava per la
Polizia un cittadino sospetto.

Valga ciò a dare un’idea delle condizioni in cui si trovava a quel
tempo la Sicilia e del modo con cui era governata.

Dopo aver percorsi gli Stati del Papa e del Re di Napoli, nel ritornare
in Lombardia, bisogna confessare che, ad onta dello stato d’assedio e
dei rigori del Governo militare, si provava un senso di sollievo; si
sentiva d’essere in un paese le cui condizioni erano meno socialmente
retrive, e che aveva un Governo meno stupidamente tirannico. Il Governo
austriaco era sempre stato, quanto alla politica, pedantescamente
assoluto; allora poi era in un periodo di violenta reazione; ma era
un governo civile del secolo decimonono, mentre il papalino e il
napoletano erano ancora in parte governi d’altri tempi, e giustamente
ritenuti tra i peggiori del mondo civile.

Da Palermo partimmo per Genova, con un battello a vapore, toccando solo
per poche ore Napoli, Civitavecchia e Livorno. A Genova trovammo le
lettere che nostra madre ci aveva annunziate; lettere importanti, che
ci lasciarono pensierosi e perplessi.




CAPITOLO XVIII.

1853.


IV.

  _Sommario:_ Nostra madre ci avvisa a Genova degli arresti avvenuti
  in Valtellina, e d’una perquisizione fatta in casa nostra. — La
  spedizione del Calvi e il suo arresto. — Lettere di Mazzini al
  Calvi che, trovate, sono cagione degli arresti in Valtellina. —
  Il processo di Salis, Stoppani e Zanetti in Valtellina. — Ulisse
  Salis. — La strada dello Stelvio. — Episodio del cannone nascosto
  dai fratelli Ulisse e Giuseppe Salis. — Torelli e Guicciardi.

Nostra madre, in una lettera del 22 settembre, ci avvisava che in quel
giorno stesso erano stati arrestati a Tirano il nostro amico conte
Ulisse Salis e il caffettiere Antonio Zanetti; e a Bormio Gervasio
Stoppani ch’era un noto patriotta di quel borgo. In una seconda
lettera, posteriore di alcuni giorni, ci informava che un Commissario,
venuto da Sondrio, aveva fatta una lunga e minuta perquisizione in casa
nostra, sotto gli occhi di lei e di mio fratello Enrico che in quei
giorni villeggiava in Tirano. La mamma impressionata, e temendo per
noi, ci raccomandava di tenerci al largo.

Ci fermammo qualche giorno a Genova, cercando informazioni e notizie,
in una certa perplessità: infine ci decidemmo a ripartire per Milano,
e a raggiungere nostra madre. Parve a Emilio che il non ritornare a
casa potesse svegliare maggiori sospetti; mentre poi egli era sicuro
che in ogni caso Salis in prigione avrebbe taciuto, come aveva taciuto
il Lazzati. Ma quali nuovi fatti avevano potuto provocare i nuovi
arrestati, ora che il processo di Mantova era chiuso? A Milano e in
Valtellina gli amici ci diedero alcune informazioni che ci misero
sulla traccia in parte di quanto era avvenuto: ma soltanto più tardi si
conobbe esattamente ciò che sto per dire.

Per quanto nuovamente dissuaso, per quanto abbandonato ormai dalla
miglior parte de’ suoi amici, Mazzini era rimasto fisso nel suo
nuovo progetto delle bande armate e d’una sollevazione nelle zone
alpine della Lombardia e del Veneto. Alla stessa illusione partecipò
disgraziatamente un uomo di molto valore, Pietro Fortunato Calvi, che
essendo emigrato ascoltò le informazioni fallaci e la propria generosa
impazienza.

Il Calvi nel 1848 aveva fatto prodigi di valore capitanando, spesso
con fortuna, un corpo di insorti nel Cadore: ora egli aveva accettata
la proposta di Mazzini di ritornarvi, e di ritentare la prova, essendo
stato anche assicurato che la sua iniziativa sarebbe stata seguita da
altri movimenti insurrezionali nelle vallate.

Egli doveva recarsi nel Cadore attraversando il Canton Grigione,
la Valtellina, Bormio, il Corno dei Tre Signori e il Trentino, in
compagnia di quattro suoi antichi ufficiali del 48. Ma non era ancor
partito da Torino, ove era stata combinata la spedizione, che la
Polizia austriaca n’era già informata, e conosceva anche la strada che
il Calvi e i suoi compagni avrebbero seguita. La spia era stata una
donna, amante d’un tal Mircovich dalmata, nella cui casa il Calvi aveva
discusso il piano dell’impresa.

In quei giorni a Tirano Ulisse Salis, per una combinazione, era
riuscito ad avere e a leggere un carteggio secreto del Commissario
distrettuale, e in tal modo, era venuto a conoscere che la Polizia di
Milano era informata di tutto. Il Salis ne scrisse subito a Maurizio
Quadrio, l’amico intimo del Mazzini; ma il Calvi percorreva intanto la
sua strada fatale. Seguito da un agente della Polizia fu arrestato in
un’osteria della val di Sole nel Trentino, e mandato poco dopo alle
prigioni di Mantova; dalle quali non doveva uscire che il 4 luglio
dell’anno seguente per salire sul patibolo.

Al Calvi erano state trovate, al momento del suo arresto, tre lettere
che si era procurate pel caso che gli fosse occorso l’appoggio di
qualcuno nell’attraversare la Valtellina: eran dirette a Salis Ulisse,
a Antonio Zanetti e a Gervaso Stoppani di Bormio. Fu una fortuna che
si sapesse che Emilio non era in quei giorni in Valtellina, poichè
diversamente il Calvi avrebbe forse avuta una lettera anche per lui.

Questi arresti, a cui ne seguirono molti altri, fecero riaprire un
nuovo processo politico a Mantova, che durò oltre un anno e finì
colla condanna a morte del Calvi e con diverse condanne per altri da
scontarsi nelle fortezze.

Il Salis e lo Stoppani, più gravemente compromessi anche pel loro
passato, salvarono la vita rimanendo fermi nella negativa e resistendo
alle arti e alle sevizie del Krauss, benchè le informazioni della
Polizia a loro carico fossero assai gravi.

La fermezza di Ulisse Salis fu ammirevole, ed a questa mio fratello
Emilio dovette indubbiamente d’avere, per la seconda volta, sfuggito il
pericolo di una prigionia e d’una condanna. Il Krauss aveva lasciato
credere a Salis che Emilio fosse tra gli arrestati, e tra quelli che
avevano fatto delle confessioni, per indurlo a seguirne l’esempio,
pigliandone così due nella medesima rete; ma il Salis non ci cascò e
chiese risolutamente all’inquisitore d’essere messo a confronto con
Emilio. Questi allora non ne parlò più. Questa forma di interrogatorî
suggestivi era uno dei metodi coi quali il Krauss procurava di
aumentare il numero delle sue vittime: gli altri metodi erano, come è
noto, le minacce, le catene, il freddo e la fame.

Il Krauss minacciò il Salis anche del bastone; «lei non può farmi
bastonare» gli rispose allora questo fieramente «perchè io sono un
nobile». L’auditore tacque. Nella procedura feroce e pedante dei
consigli militari c’era infatti che non si potesse applicare ai nobili
la pena del bastone[22].

Il 1.º luglio del 1854 al Calvi fu letta la sentenza di morte, eseguita
il giorno 4. Il Calvi morì eroicamente, accompagnato al patibolo da don
Martini, il pio sacerdote che già aveva confortate le altre vittime di
Belfiore. In quei giorni si trovava nelle prigioni di Mantova l’Orsini,
che poi fuggì prodigiosamente.

Col sacrificio del Calvi finì il progetto dell’insurrezione col mezzo
delle bande armate che dovevano scendere dalle vallate e sulle quali
Mazzini aveva di nuovo fatto tanti calcoli.

Nel frattempo però la cospirazione mazziniana era continuata. C’era
stato un tentativo fallito a Sarzana di cui era stato offerto il
comando al Medici, che aveva rifiutato. S’erano pure continuati i
preparativi per un movimento sulla frontiera svizzera da Como alla
Valtellina col mezzo di Maurizio Quadrio e del Chiassi, nel mese
d’agosto. Il Governo austriaco ne ebbe sentore, ed avvisò il Governo
svizzero; ma non ci fu bisogno di misure straordinarie, poichè i
cospiratori si trovarono alla frontiera in piccolissimo numero, e
quei pochi si dispersero. In Valtellina parecchi n’erano informati; ma
nessuno si mosse, e nessuno dei _cospiratori_ si lasciò vedere.

Il Salis, dopo un processo che durò diciannove mesi, fu condannato
a sette anni, e destinato a scontarli nella fortezza di Kufstein.
Prima di partire potè salutare la sua bella e giovane sposa, e riuscì
a dirle all’orecchio, in quei brevi momenti, che esortasse gli amici
e soprattutto Emilio a fuggire, poichè il Krauss sapeva tutto ed era
sulle peste di tutti. La contessa Salis si recò subito da Emilio a
riferirgli le parole di suo marito; Emilio si tenne sempre più in
guardia, ma non volle fuggire per non compromettere altri.

Egli ebbe però in quei giorni una lunga perquisizione a Milano
e una chiamata dal direttore della Polizia, ch’era un colonnello
della gendarmeria e riceveva sempre in uniforme. Il colonnello gli
disse, senza preamboli: «La perquisizione che le fu fatta diede un
resultato negativo, ma noi sappiamo, con certezza, che lei è uno dei
più dichiarati nemici del Governo. Finora lei fu fortunato, e non s’è
potuto ancora aprirle una speciale inquisizione. Ma si farà appena che
lei ce ne dia l’occasione, e allora ci ricorderemo di tutto.»

Emilio non rispose; e se ne andò.

La contessa Teresa Salis, della famiglia Calvi di Edolo, era sposa da
un anno e mezzo, quando le fu arrestato il marito. Recatasi subito a
Mantova vi rimase per tutto il tempo che durò il processo, per seguirne
l’andamento in quanto fosse possibile, e per tentare qualche secreta
comunicazione col prigioniero.

Ulisse Salis, giovane vigoroso, d’aspetto bello e virile, conservava
il tipo d’un signorotto feudale. Della sua vita di studente, di
alpinista, di cacciatore e di patriotta, si narravano parecchi episodi
che ne attestavano il carattere risoluto ed audace. Nel 48, dopo avere
valorosamente combattuto alle barricate di Milano, s’era subito recato
in Valtellina ove si unì a un gruppo di giovani arditi che corsero ad
occupare il passo dello Stelvio, prima che vi arrivassero le truppe
austriache. Quel drappello di giovani, a cui si unirono parecchi
montanari del luogo, scese audacemente sul versante tirolese del monte,
e diede fuoco alle gallerie di legno che allora coprivano la strada per
difenderla dalle valanghe. La strada fu pure guastata in vari punti in
modo che gli austriaci non poterono servirsene durante la campagna.

E ora qui una breve disgressione.

La strada dello Stelvio era stata fatta dall’Austria, dopo che la
Valtellina fu annessa nel 1815 al Lombardo-Veneto. L’antica strada,
che aveva servito a tante invasioni tedesche, non varcava la Vetta
del monte Braulio chiamata _Stelvio_, ma piegando a minore altezza
attraversava, per giungere in Tirolo, alcuni lembi del territorio dei
Grigioni. Il passo dello Stelvio, specialmente sul versante tirolese,
presentava delle gravi difficoltà per la costruzione d’una strada; ma
il Governo austriaco le volle superare ad ogni costo, e compì un’opera
che fu considerata a quel tempo come un prodigio dell’arte.

L’Austria aveva voluto aprirsi una nuova via, tutta sul proprio
territorio, che in poche tappe conducesse le sue truppe dal Tirolo a
Milano. Ma la facilità con la quale l’audacia di poca gente risoluta
aveva resa inservibile quella via pei bisogni della guerra, la
disingannò affatto. Il maresciallo Radetzky, dopo le campagne del ’48 e
del ’49, propose di abbandonare lo Stelvio, quale strada militare, e di
sostituirvi il Tonale facendolo collegare alla Valtellina mediante una
nuova strada, quella del passo d’Aprica. E così fu fatto. Gli Austriaci
allora non s’occuparono più del passo dello Stelvio. Ma quando nel
1866 ci furono le trattative per la pace tra l’Italia e l’Austria,
mio fratello Emilio, essendo ministro degli Affari Esteri, ottenne
col mezzo del nostro ambasciatore Menabrea che la strada dello Stelvio
fosse riattivata anche sul versante tirolese, e tenuta aperta almeno
nella stagione estiva.

Ritornando a Ulisse Salis, mi viene in mente un episodio che merita
d’essere ricordato.

Dopo la capitolazione di Milano, nell’agosto del 1848, le truppe del
generale Griffini, venendo da Brescia, attraversarono la Valcamonica
e la Valtellina per ritirarsi nella Svizzera. Nel valicare il passo
di Aprica, dove allora non c’era che una strada mulattiera, furono
perduti carriaggi e bagagli e precipitò giù per la china del monte
un cannone. Ulisse Salis pensò di andarne alla ricerca prima che
gli Austriaci se ne impadronissero; e infatti lo trovò, sprofondato
in uno scoscendimento a valle del monte, nei dintorni del villaggio
di Stazzona. Fece subito il proposito di portarselo a casa e di
nasconderlo, ma non era certamente un’impresa facile portarsi in
casa un cannone, da un luogo che dista da Tirano sei chilometri, in
quei giorni in cui il paese era occupato e percorso continuamente da
soldati austriaci, e mentre bastava lasciarsi trovare in casa una
pistola, anche rotta, per venir fucilato. Ulisse Salis, aiutato da
alcuni contadini, riuscì di notte a collocare il cannone su un carro,
e, nascosto sotto un mucchio di fieno, lo condusse in un suo podere
vicino a Tirano; poi lo seppellì, aiutato da un suo fratello prete.
Quel cannone fu dissotterrato nel 1859, e Salis lo regalò a Vittorio
Emanuele, che ammirando quel fatto, gli diede in ricambio una medaglia
d’oro appositamente coniata[23].

Furon molti in Valtellina i patriotti che, negli anni che corsero
dal 1848 al 1860, in ogni borgo, in ogni villaggio, tennero alto il
sentimento pubblico, combattendo o cospirando per la Patria, fiduciosi
sempre ne’ suoi destini. Nel ’48 e nel ’59 la provincia di Sondrio
diede alla patria numerose schiere di volontari, e molti uomini di
senno e di valore. I suoi generosi sentimenti patriottici, e le sue
stesse sventure economiche di cui parleremo, avevano circondata allora
quella piccola provincia d’un’aureola di simpatia che la rendevano
stimata e cara tra le maggiori sorelle lombarde.

Molti patriotti valtellinesi, dopo il 1848, rimasero tra gli
emigrati; tra i più noti, ricorderò Luigi Torelli, Enrico Guicciardi
e Maurizio Quadrio. Il Quadrio, amico devoto di Mazzini, viveva di
solito in Svizzera, e fu talora anche a Londra, sempre occupato nelle
cospirazioni grandi e piccole di Mazzini: in Valtellina conservava
delle relazioni, e vi fece delle brevi comparse nel ’48 e dopo il ’59.

Luigi Torelli, rimasto in Piemonte dopo il 1849, dedicò tutto sè stesso
alla vita politica: fu successivamente deputato, senatore, prefetto,
ministro; guidato sempre, in ogni atto della sua vita pubblica e
privata, da un alto sentimento di patriottismo e di rettitudine.
Generoso, di instancabile attività, amante del pubblico bene, fu
giustamente popolare ed amato in Valtellina, specialmente nelle
classi non politicanti, tra i contadini, e tra quelli che sentono più
schiettamente l’ammirazione per gli uomini rigidamente onesti e amanti
dei poveri.

Nel 1853, quando l’Austria, dopo il 6 febbraio, tra le sue ingiuste
rappresaglie colpì anche gli emigrati sequestrandone i beni, il Torelli
ebbe sequestrati tutti i suoi averi di Valtellina.

Enrico Guicciardi, dopo aver comandata una compagnia di volontari
al Tonale, ritiratosi in Piemonte riunì i volontari valtellinesi dei
diversi corpi in un battaglione di bersaglieri che si distinse alla
battaglia di Novara. Sciolti i corpi militari lombardi, rimase emigrato
in Piemonte; nel 1859, come vedremo più innanzi, fu mandato da Cavour
a reggere la provincia di Sondrio; poi fu nominato prefetto in altre
provincie, ove il brigantaggio, che allora le infestava, od altre
gravi ragioni richiedevano la direzione d’un uomo di molta saviezza e
di molta energia; ebbe spesso dal Governo altri incarichi e missioni
importanti. Nel 1866 comandò, quale colonnello, due battaglioni di
volontari, in gran parte valtellinesi, coi quali compì allo Stelvio un
fatto d’armi contro gli austriaci, audace e vittorioso.

Possa la memoria di questi patriotti rimanere duratura nella loro valle
nativa, quale esempio di caratteri integri e saldi, devoti sempre al
dovere e alla patria.


  NOTE.

  [22] Il Salis lasciò scritto sulla sua prigionia, e sul suo
  processo dei ricordi, letti da me, da mio fratello, da qualche
  amico, e dal prof. De Castro che ne pubblicò alcuni brani. Il Salis
  racconta come la sua posizione fosse aggravata dalle confessioni
  dello Zanetti; questi però chiamato al confronto, si rifiutò, e
  il Krauss non insistette per timore forse che lo Zanetti ritirasse
  le confessioni fatte, e fu condannato egli pure, ma credo meno del
  Salis.

  [23] La famiglia Salis Sitzer si era stabilita in Valtellina
  durante il dominio dei Grigioni, e vi potè rimanere anche dopo
  la rivoluzione politico-religiosa del 1618, durante la guerra dei
  trent’anni, essendo essa una famiglia cattolica ed avendo seguite
  in ogni tempo le parti valtellinesi. È un ramo di quella famiglia
  Salis che diede tanti ufficiali ai corpi svizzeri degli eserciti
  d’Europa, e specialmente dell’Austria. Anzi da ciò venne il titolo
  di conte dato a questo ramo da Leopoldo I d’Austria. L’avo del
  conte Ulisse Salis era, alla fine del secolo scorso, il generale
  comandante le truppe svizzere del Re di Napoli. Nella guerra del
  1848, mentre i fratelli Salis di Tirano militavano nei corpi dei
  volontari italiani, tre Salis della stessa famiglia, ufficiali
  austriaci, morivano sui campi lombardi. Il ramo di Tirano, sebbene
  il conte Ulisse avesse cinque fratelli, è ora vicino a spegnersi.




CAPITOLO XIX.

1854.

  _Sommario:_ Sfacelo del partito repubblicano in Lombardia. —
  Evoluzione nel salotto di casa Maffei. — Il conte Cesare Giulini e
  le sue relazioni in Piemonte. — Principio della guerra in Crimea. —
  Abolizione della legge sui cambi militari, servizio obbligatorio.
  — Molti fuggono per cansare la leva, altri ne sono esonerati
  corrompendo i medici militari. — Episodi. — La scuola dei pompieri.
  — In autunno a Tirano e a Grosio. — La guerra in Crimea. — La
  crittogama. — Il colera. — Il salotto di mia madre a Tirano.


Al principiare del 1854 la disposizione degli animi e l’atteggiamento
politico in Milano andavano compiendo un’evoluzione che s’allargava
ogni giorno più. Il periodo delle cospirazioni mazziniane e della
preparazione a voti vicini era ormai definitivamente chiuso.

Mazzini, che era rimasto fermo nei suoi propositi e nei suoi metodi,
cercava ancora, ogni tanto, di eccitare i vecchi amici, e chiamava
_traviati_ quelli che, dopo aver messa tante volte la loro vita ne’
più terribili cimenti, chiedevano ora un cambiamento di metodi, per
riordinare le file diradate e scompaginate, e cercar nuove vie. La
parte più eletta del suo partito si staccava da lui, e le antiche
relazioni andavano ogni giorno allentandosi per non riannodarsi
mai più. Moltissimi del vecchio _partito d’azione_, repubblicani e
mazziniani, in Milano e nelle provincie lombarde, dopo un periodo
d’aspettativa, cominciarono a volger gli sguardi al di là del Ticino,
ove già risplendeva fulgida la stella del conte di Cavour. Il così
detto _connubio_ col centro sinistro capitanato da Rattazzi, segno
visibile d’un indirizzo nuovo più attivo, che Cavour dava alla politica
del Piemonte, era per molti repubblicani disingannati l’occasione,
o il pretesto, per lasciar libero il corso all’evoluzione delle loro
opinioni.

Vedevo di giorno in giorno le prove di questa evoluzione, di questa
nuova situazione politica, nel salotto stesso della contessa Maffei,
che frequentavo assiduamente, e dove convenivano, come già dissi, tante
persone influenti e ragguardevoli. Chiarina, come la chiamavano i suoi
intimi, tutta animata da un patriottismo ardente e da un liberalismo
sentimentale, aveva naturalmente accolto, un giorno, nel suo animo con
entusiasmo l’ideale d’un’Italia _una_ con la bandiera di Mazzini su cui
era scritto: _Dio e il popolo_. Essa mentre con la parola calorosa,
convinta, con la gentilezza dell’animo, con la devozione agli amici,
diffondeva intorno a sè la fede ardente delle sue convinzioni, subiva
poi alla sua volta l’influenza dei migliori che la circondavano. Ora,
il 6 febbraio, i fatti che l’avevano preceduto e seguito dietro le
scene, avevano alquanto smorzati nella contessa Clara certi entusiasmi;
e non senza un doloroso disinganno vedeva il Mazzini voltar le spalle
ad uomini altamente stimati, per scendere nei ranghi inferiori a
cercarvi degli istrumenti ciechi della sua volontà.

Gli amici di lei, dopo il 6 febbraio, l’avevano rotta con Mazzini, dopo
averlo seguito, soprattutto in nome dell’idea _unitaria_, contro le
massime _federaliste_ del Cattaneo; l’avevan rotta con lui disgustati
e dissidenti dai suoi metodi. Ed ora, vagando in un repubblicanismo
ideale, aspettavano di scorgere la nuova spiaggia ove approdare;
aspettavano la guida, l’idea, che li riunisse e li conducesse.

Il conte Cesare Giulini, ch’era uno dei frequentatori più assidui
del salotto della contessa Maffei, si era sempre conservato fedele
al principio Monarchico e alle speranze della Casa di Savoja. Si
bisticciava spesso, con spirito e con amabilità, colla contessa per gli
entusiasmi poetici, e spesso ingenui di lei, nella politica; ed ora
trionfava e godeva nel vedere che essa e i suoi amici principiavano
a lasciar la strada delle illusioni per accostarsi a quella delle
speranze solide e pratiche.

Amico del conte di Cavour, da quei giorni egli cominciò ad essere il
tramite di informazioni e di confidenze, che più tardi, come vedremo,
aumentando dovevano condurre ad importanti risultati. Amico parimenti
dell’Arese, dell’Azeglio e di parecchi altri tra i principali uomini
politici del Piemonte, aveva di recente saputi molti particolari
sulla condotta ferma e patriottica della politica piemontese di fronte
all’Austria in diverse vertenze diplomatiche, soprattutto in quella dei
sequestri messi sui beni degli emigrati lombardi dopo il 6 febbraio.

E a proposito di questa vertenza, il Giulini aveva avuto delle
informazioni confidenziali sull’attitudine di Napoleone e su parole
da lui pronunciate, che dimostravano come l’Imperatore nell’intimità
confermasse l’antica simpatia di Luigi Bonaparte per l’Italia e
incoraggiasse il Piemonte. Queste notizie ripetute all’orecchio
risvegliavano un vago sentimento di nuove speranze; e levigavano
qualche ruga anche sulle fronti accigliate dei patrioti più arcigni,
quando si parlava del nuovo imperatore.

L’alleanza della Francia e dell’Inghilterra colla Turchia, e la guerra
contro la Russia, davano un nuovo e più forte argomento a quelle prime
e vaghe speranze; era un primo soffio improvviso che, dopo cinque
anni, spirava sulla gora stagnante della reazione e che poteva essere
promettente di fatti inattesi e di mutamenti nella politica europea.

A richiamarci dalle speranze vaghe e lontane alla dura realtà del
presente, veniva, nella primavera di quell’anno, una legge, affatto
nuova nelle abitudini di quei tempi, e che doveva riuscire più
insopportabile di quante altre leggi durissime erano state emanate
durante lo stato d’assedio. Il Governo austriaco decretò obbligatorio
per tutti il servizio militare, mentre fino allora erano sempre stati
permessi e regolati dalla legge i _cambi_, sia col presentare un
sostituto, sia col pagare una somma determinata. Il Governo, con la
nuova legge, mirava a diminuire quella divisione assoluta che c’era
tra noi e i suoi soldati, tra le classi superiori nostre e i suoi
funzionari civili e militari.

È difficile oggi immaginare quale sentimento di ripugnanza e di rivolta
suscitasse nell’animo della gioventù patriottica il pensiero di dover
vestire l’uniforme austriaca. Nell’esercito austriaco infatti, a quel
tempo, gli ufficiali italiani erano pochissimi, e anche questi non
c’erano che per circostanze eccezionali.

Si pensi quale scombussolìo mettesse tra i giovani che n’erano colpiti,
e nelle loro famiglie, quella nuova legge! Tra i giovani più animosi
corse subito la parola d’ordine di sottrarsi al servizio militare
austriaco fuggendo, espatriando. Fu questo un nobile proposito, grave e
difficile per molti, ma che da parecchi fu mantenuto.

Anche tra i miei amici e compagni di studî ce ne furono alcuni colpiti
da questa legge. Io per fortuna ero stato della leva militare dell’anno
prima; dichiarato abile ed assegnato ai cacciatori tirolesi, avevo
pagato la tassa, ossia tre mila lire austriache (La lira austriaca,
detta _svanzica_, da _swanzig kreuzer_, ossia venti soldi, equivaleva
circa a 80 centesimi di lira italiana e la lira milanese equivaleva
a circa 60 centesimi) e così non ero diventato nè _cacciatore_ nè
_tirolese_.

De’ miei compagni colpiti qualcuno fuggì ed espatriò; qualche altro
trovò il modo di far scivolare alcuni rotoli di _svanziche_ nelle
saccoccie di qualche medico militare; qualcuno si rassegnò, ed
accettò il duro partito di servire. Rammenterò tra questi il mio
compagno Antonio Frigerio, a cui la famiglia impedì la fuga, che
pur aveva promessa ai compagni. Arruolato in un reggimento di ulani,
diventò ufficiale e servì fino al 1859; ritornato, non rivide più i
vecchi amici; ma nel 1866, entrò nei Garibaldini, fu capitano e morì
combattendo valorosamente a Vezza in Valcamonica.

Tra quelli, de’ miei compagni s’intende, che espatriarono ed andarono
ad arruolarsi in Piemonte, rammento Emilio Guicciardi e Augusto Verga
che furono tra i primi; e tra quelli cui furono _ospitali_ le tasche
d’un medico militare pronte ad accogliere i _rotoli_, rammento Lodovico
Mancini e Costantino Garavaglia. Questi erano venuti a sapere che
c’era una _tale_, per cui mezzo si poteva far arrivare a un medico
militare della Commissione di leva una data somma e con questa venir
dichiarati inabili. Bisognava però, com’era giusto, che ci fosse un
qualche difettuccio che potesse essere di pretesto. Il difettuccio
veniva accertato in una visita preliminare. Se la Commissione liberava
definitivamente il coscritto, questo pagava a quella _tale_ quaranta
marenghi; ma se lo rimandava soltanto d’anno in anno, allora se ne
pagavano venti ogni volta. Quella _tale_, fatta l’intesa, consegnava
al _cliente_ una camicia di colore, ch’era il contrassegno per farsi
riconoscere dal medico il giorno della visita dinanzi alla Commissione
di leva.

Al Garavaglia, nella visita preliminare, fu consigliato di procurarsi
una forte irritazione alla gola, per far comparire il collo più largo.
Egli allora, comperata una tromba, ci soffiava dentro finchè aveva
fiato, da mattina a sera, in campagna, a qualche miglio dalla città.
Per quella volta fu rimandato, e dovette pagare i venti marenghi più
volte.

Il caso del Mancini era più grave, poichè, a Roma, egli era stato
ferito in una gamba da una palla francese, e ne aveva ancora la
cicatrice. I feriti del ’48 e del ’49 di solito venivano, senz’altro,
dichiarati abili dagli austriaci pel servizio militare. Ma nella visita
preliminare era stato consigliato a favorire una certa dilatazione
che aveva alle vene delle gambe; ed egli da quel giorno non fece che
percorrere i bastioni della città, finchè gli reggevan le forze. Le
passeggiate raggiunsero lo scopo; e mediante i quaranta marenghi fu
libero.

Se qualcuno ci domandasse, poichè eravamo degli studenti, che cosa
succedesse intanto dei nostri studi, risponderei subito che si studiava
ben poco. Le Università eran sempre chiuse, e coi nostri professori
privati si discorreva più dei fatti del giorno che dei codici e delle
pandette. Ci radunavamo in gruppi a ripassare le lezioni, ma gli studi
si convertivano presto in passeggiate, in bicchierate, in esercizi
ginnastici, e in un tantino di cospirazione politica che non mancava
mai. L’esercizio prediletto era la scherma, nella nostra famosa sala,
colle sciabole di legno.

Quelle sciabole di legno non erano un’illusione maggiore di tant’altre;
ma fu traverso le illusioni che la generazione d’allora andò preparando
la realtà.

Tra i miei esercizi ginnastici di quel tempo ce ne fu uno abbastanza
bizzarro, e fu quello d’imparar le manovre dei pompieri. Nell’autunno
antecedente mi ero inteso col mio amico Giovanni Salis, fratello di
Ulisse, per istituire delle compagnie di pompieri a Tirano e in qualche
altra borgata dell’alta Valtellina, assumendomi l’incarico d’esserne
io l’istruttore per risparmiare la spesa ai Comuni. Detto fatto ne
chiesi il permesso al Municipio di Milano, e ottenutolo, il comandante
dei pompieri mi mise senz’altro tra le reclute dell’annata facendomi
seguire tutto il corso della loro istruzione. Per un paio di mesi,
ogni mattina all’alba dovevo trovarmi alla caserma dei pompieri a S.
Maria delle Grazie a imparar gli esercizi e le manovre delle macchine
in abito di fatica. Così imparai come si cammina sui tetti e lungo
le gronde; come si può salire in alto anche senza le scale solite
della casa, e saltare dall’alto senza rompersi il collo; imparai come
si smorzan le fiamme, e come nei casi difficili si possa salvare il
prossimo e sè stessi.

I miei pompieri tiranesi eran tutti antichi volontari del ’48 e del
’49, e anche nel manovrare le pompe ci si metteva sempre qualcosa
di militare e di patriottico. Tra un esercizio e l’altro si parlava
del passato, e poi ci mandavamo qualche occhiata d’intelligenza con
allusioni all’avvenire.

Nella nostra casa di Tirano era cessata l’occupazione militare e
avevamo principiato a riparare i guasti che non eran pochi, tanto più
che parecchi mobili avevan servito a far bollire le pentole dei croati.

Ritornati in possesso delle nostre stanze eravamo anche tornati
alle nostre abitudini e alle nostre occupazioni ordinarie: Emilio
passava molte ore della giornata nel suo studio leggendo, studiando,
scrivendo; io mi occupavo molto delle faccende campagnole, aiutato
da mio fratello Enrico, e malinconicamente andavo osservando i bei
vigneti tiranesi desolati sempre più dall’_oidium_. Nel mio viaggetto
in Sicilia dell’anno prima avevo saputo che i vigneti vicini alle
solfatare andavano in parte immuni dall’_oidium_, che a quel tempo
colpiva la maggior parte dei vigneti in quasi tutta Europa. Dappertutto
i viticoltori andavano esperimentando i vari rimedi che empiricamente
venivano suggeriti, e sempre inutilmente, contro la _crittogama_.
Alcuni cominciavano ad esperimentare anche lo zolfo, e anch’io mi ci
provai in qualche mio vigneto. Ma i contadini erano riluttanti: a molti
di loro lo _zolfo_ sembrava un rimedio diabolico contro un castigo di
Dio. Intanto andavano aumentando la miseria, la fame e le malattie.

In Valtellina, specialmente nella parte centrale, l’uva è il prodotto
principale; in alcuni paesi è il prodotto quasi unico. Nel 1854 la
totale mancanza di quel prodotto, che doveva durare dieci anni, era al
quinto anno, e già se ne vedevano i terribili effetti; ad accrescere
la miseria pubblica c’era anche il _colèra_ che manifestatosi a Milano
serpeggiava in tutta la Lombardia ed era penetrato anche in Valtellina.

Le vacanze di quell’autunno furono, dunque, poco liete. _Oidium_ e
_colèra_ furono gli argomenti principali dei discorsi nel salotto che
mia madre aveva riaperto alle amiche e agli amici tiranesi, dopo che
gli alloggi militari erano cessati in casa nostra.

Emilio, di tanto in tanto, andava a Grosio, e spesso lo seguivo
anch’io, passando alcuni giorni nella nostra vecchia casa, in mezzo ai
nostri contadini e a tanta buona gente che ci voleva bene, e a cui ci
legava un tradizionale affetto.

Emilio amava assai la caccia, quella specialmente dell’alta montagna,
ed era un buon tiratore. Ma in quegli anni i cacciatori dovevano
contentarsi di rammentare tra loro i fasti d’un tempo, poichè i fucili
da caccia erano vietati dallo stato d’assedio. Io che non fui e non
divenni mai un cacciatore, neanche colla civetta, pure mi divertivo a
sentire i discorsi degli altri, tanto più se si trattava di avventure
strepitose, raccontate sotto la cappa del camino, da qualche vecchio
cacciatore d’orsi.

«È furbo l’orso! ed ha talento!» mi diceva una volta con serietà uno di
essi. «Se l’orso avesse fatto gli studi nessuno mai lo piglierebbe!»

Nel vicino paese di Grossotto avevamo un gruppo d’amici, persone
ottime, intelligenti come non sempre se ne trovano nei paesi piccoli;
con essi ci comunicavamo le nostre speranze e si facevano chiacchiere
infinite. Teneva il primo posto in mezzo a loro il medico del Comune,
il dottor Benedetto Rizzi, uomo di studi e di molta intelligenza, che
avrebbe emerso in qualsiasi campo più vasto, ma che s’accontentò di
vivere nella sua piccola patria, esercitando una influenza benefica,
soprattutto patriottica.

Rammento sempre con piacere le lunghe serate che si passavano con
questi amici nel salottino o nella cucina dell’osterietta di Grossotto
o di Grosio, discorrendo di politica e lasciando libera la fantasia
a speranze, che allora si sarebbero dette follie; noi sognavamo la
nostra Italia come gl’innamorati sognano il loro focolare domestico
dell’avvenire.

L’oste di Grosio, certo Ettore, era persona fidatissima, e nella sua
cucina la politica era al sicuro. Il buon Ettore era quasi un amico
di noi tutti; pescatore, cacciatore, suonava l’organo e il violino,
ammaestrava i gatti e gli uccelli, e raccoglieva qualche oggetto di
antichità. In mezzo a tante occupazioni qualche volta si aspettava
invano all’ora del desinare; ciò però non diminuiva la sua riputazione
di buon cuoco.

Nel settembre del 1854, come è noto, c’era stata in Crimea la battaglia
dell’Alma, poi nell’ottobre quella di Balaklava e ai primi di novembre
quella d’Inkerman; tre fatti che nelle nostre fantasie venivano a
portar legna al fuoco e a farci vedere traverso le vittorie degli
alleati la possibilità di avvenimenti che per reggere avevano bisogno
appunto di fantasie molto fertili; ma chi vuol sperare si contenta di
così poco!

I discorsi politici si facevano ogni sera anche ai tavolini di giuoco
di mia madre, ma i giudizi e i criteri erano più calmi e meno unanimi.
Mia madre, che seguiva di solito le nostre opinioni, dava spesso l’aire
con qualche esclamazione speranzosa; ma si metteva a brontolare subito
mio zio Merizzi, gran pessimista, che trovava modo di brontolare contro
quelli che credevano onnipotenti gli austriaci e contro quelli che
credevano possibile di liberarsene.

Il prevosto di Tirano, don Carlo Zaffrani, un buon prete patriotta,
e ottimista anche più di noi e di mia madre, vedeva gli Austriaci
andarsene ad ogni più piccolo avvenimento; e intanto pigliava il largo,
a buon conto, ogni volta che capitava in paese qualche commissario
straordinario di Polizia, dacchè aveva visto che si imprigionavano e si
impiccavano anche i preti.

Quarto al tavolino da giuoco sedeva di solito il signor Valentino
Negri, consigliere di Tribunale in pensione, uomo grave, corpulento,
sulla settantina, danaroso, complimentoso e che professava i principii
più austeri, pur concedendo loro, di tanto in tanto, e in secreto, una
qualche tregua galante. Egli soleva frammezzare il giuoco e i discorsi
con qualche aneddoto o con qualche motto, che nella sua intenzione
dovevano essere piacevolissimi. Quando si parlava di politica non si
sbilanciava: l’Imperatore d’Austria era sempre _Sua Maestà_; e tutt’al
più si permetteva qualche critica dubitativa a proposito di Metternich,
o di qualche altro ministro morto, o fuori di carica da un pezzo.
Soltanto dopo il 1859 la sua lingua diventò più sciolta: allora _Sua
Maestà_ diventò il _Nerone_ austriaco e l’aborrito tiranno.

Nel salotto c’era alle volte un secondo tavolino da giuoco; c’erano
poi sempre delle signore o delle signorine che lavoravano intorno a una
tavola, ed altri amici di casa che discorrevano in crocchio. Tra questi
uno dei più assidui era don Antonio Homodei, giuocatore appassionato,
quando non era sotto gli occhi di sua moglie. Ma questa gli si metteva
di solito al fianco per sorvegliarlo e per frenarlo all’occorrenza;
soprattutto quando lo vedeva ostinarsi in qualche partita, sfortunata e
sfrenata, nella quale si potevan perdere fin due lire.

Don Antonio allora, con suo dolore, doveva smettere; ma si confortava
col dire una qualche facezia sugli sfortunati al giuoco; facezia
che ripeteva da chi sa quanti anni, e di cui ogni volta rideva
chiassosamente, sebbene sua moglie lo tirasse per l’abito, dicendogli:
Homodei, non dir sciocchezze!

E le famose _bande d’insorgenti_ che avrebbero dovuto comparire nelle
vallate quell’autunno? Qualche amico aveva domandato a Emilio notizie
delle famose _bande_, poichè se ne parlava ancora secretamente in
Milano. Ma le notizie erano presto date: le _bande_ non avevano mai
esistito che nella fantasia degli emigrati di Londra e di Ginevra. Sui
confini dei Grigioni e dell’Engadina, ove eravamo noi in quei giorni,
non s’erano veduti che dei pastori, poichè a quel tempo non esistevano
i _touristes_.

Ritornati a Milano avvenne un caso che poco mancò non mandasse Emilio
in prigione, mentre l’aveva tante volte cansata. Un mio conoscente
venne a dirgli che si trovava a Milano, presso un suo amico, che si
chiamava Giuseppe Pozzi, un tal Bedeschini veneto, il quale aveva fatto
un giro per le provincie, dicendosi incaricato da Mazzini, allo scopo
di riordinare le fila del partito repubblicano. Emilio era pregato
di intervenire all’adunanza, soprattutto per spiegare come l’antico
partito _d’azione_ fosse uscito dal partito _mazziniano_, e avesse
preso una nuova direzione.

Emilio, non conoscendo questo Bedeschini, non voleva sulle prime
recarsi al ritrovo; ma dopo molte insistenze, e non volendo che si
credesse ch’egli si asteneva per timore, ci andò! Il Bedeschini volle
conoscere gl’intervenuti, ma Emilio sostenne vigorosamente che non si
dovevano pronunziar nomi, e i nomi non furono pronunziati; poi disse
le ragioni per le quali non era più possibile ritornare agli antichi
metodi; e il ritrovo fu sciolto.

La mattina seguente il Pozzi, presso il quale il Bedeschini era ospite,
e molti altri anche fuori di Milano, di cui questi conosceva il nome,
venivano tutti arrestati. Il Bedeschini era un agente provocatore
pagato dalla polizia, come si seppe più tardi: anzi si disse che per
questa _retata_ ricevesse trentamila _svanziche_. Nuovi processi furono
iniziati e le prigioni si aprirono ad altri infelici.




CAPITOLO XX.

1855.

  _Sommario:_ Il Piemonte accede al trattato d’alleanza della
  Francia e dell’Inghilterra nella guerra contro la Russia. —
  Cavour, Vittorio Emanuele, Lamarmora. — L’attentato di Pianori
  contro Napoleone. — L’Esposizione Universale in Parigi. — Cessa
  in Lombardia lo stato d’assedio, e Radetzki è nominato Governatore
  civile del Lombardo-Veneto e comandante dell’esercito. — Io e mio
  fratello Emilio andiamo a Parigi. — Pietro Maestri e gli emigranti
  italiani. — Le diverse opinioni. — Daniele Manin. — La vittoria
  di Balaclava. — Una serata al teatro dell’_Opera_ coll’intervento
  della Corte e della Regina d’Inghilterra. — Il nostro alloggio a
  Parigi. — Parole di Napoleone al conte Arese. — Nuove speranze.
  — L’autunno in Valtellina, il teatro di Tirano e il sarto
  declamatore. — Ritorno a Milano. — Le nuove speranze nel salotto
  della contessa Maffei. — Emilio Dandolo in Crimea.


Il 10 gennaio 1855 veniva firmata la Convenzione colla quale
il Piemonte accedeva al trattato d’alleanza della Francia e
dell’Inghilterra nella guerra contro la Russia. Così il nuovo anno
principiava con quel grande avvenimento che doveva avviare l’Italia
alla riscossa, e deciderne i destini.

Il trattato non fu discusso, soltanto nel Parlamento piemontese, ma
da tutto il pubblico italiano; e per un pezzo da un capo all’altro
d’Italia fu l’argomento di discorsi appassionati, di dubbî e di
speranze. La _sinistra_ parlamentare piemontese si era mostrata avversa
al trattato; ma gl’italiani, in gran maggioranza, e soprattutto
quelli soggetti all’Austria, ne erano entusiasti e avevano avuto
l’intuizione pronta e unanime che quel fatto poteva essere il punto
di partenza di altri e maggiori avvenimenti. Questa giusta intuizione
l’ebbe anche Cesare Correnti, che con un felicissimo discorso nella
Camera piemontese si staccò dalla _sinistra_ alla quale apparteneva,
e sollevandosi al di sopra delle convenienze di partito presentì in
Cavour il condottiere della nuova Italia.

Sul Cavour, che al principio del 1855 aveva assunto il Ministero degli
affari esteri, erano ormai rivolti e fissi gli occhi di tutti: la
legge sulle corporazioni religiose, il riordinamento delle finanze e
dell’esercito, e diverse altre leggi politiche ed economiche, avevano
continuamente aumentata la rinomanza e l’autorità del nuovo capo del
gabinetto piemontese. Nel tempo stesso Vittorio Emanuele, anche per
episodi e motti che si raccontavano di lui, principiava ad acquistarsi
quella popolarità nella quale doveva essere la sua maggior forza.

Per compiere grandi fatti i popoli vogliono l’_eroe_; e quando i fatti
sono maturi anche l’eroe non tarda a sorgere, purchè egli abbia quelle
qualità e quei difetti che sieno all’unisono con quanto si agita nelle
menti popolari.

Di Garibaldi allora si parlava poco. Lo rammentavano, è vero, con
entusiasmo i suoi volontari di Roma, e chi conosceva i primi suoi
fasti, ma la sua popolarità non era ancora molto diffusa. Vittorio
Emanuele in quel momento era più popolare di lui. La politica del
Piemonte, attirando gli sguardi di tutta Italia, ne rendeva popolare
anche il Re; il Re _Galantuomo_, come ormai lo chiamavano i più, il
Re _democratico_, come incominciavano a dire con soddisfazione molti
vecchi repubblicani, ormai sfiduciati della repubblica.

Vittorio Emanuele aveva infatti abitudini e modi semplici e
familiari; aveva l’arte di piacere al popolo, ma la sua democrazia
non aveva radici molto profonde nel suo animo; le forme in lui erano
democratiche, ma l’uomo era un Re.

A Casa di Savoja aveva procacciata molta simpatia anche il fratello di
Vittorio Emanuele, il Duca di Genova, soldato bello e valoroso, giovane
intelligente e colto. Nelle guerre del ’48 e del ’49 aveva date alte
prove di sè ed ora era destinato a comandare la spedizione di Crimea;
ma alcune settimane prima che le truppe partissero lo spegneva una
rapida tisi.

L’ansietà con la quale si seguiva ogni notizia che riguardasse il corpo
piemontese mandato in Crimea, era una prova, sebbene quasi inconscia,
che in quelle truppe si presentiva il futuro esercito della riscossa.
Ogni più piccolo fatto d’armi era l’argomento dei discorsi di tutti;
e il nome del generale Lamarmora, che comandava la spedizione, era
diventato subito popolarissimo; egli era già considerato come una
speranza d’Italia.

Erano da poco partite le truppe piemontesi per la Crimea, quando
venne una notizia a impensierire quanti osservavano con fiducia gli
avvenimenti che andavano svolgendosi. Il 28 di aprile un italiano,
Giovanni Pianori romagnolo, aveva attentato alla vita di Napoleone,
con due colpi di pistola, al _bois de Boulogne_. Questo fatto aveva
avuto da per tutto un’eco di sorpresa e di indignazione, e aveva dato
un argomento di più a chi non vedeva negl’italiani che un volgo di
rivoluzionarî e di settarî.

Nel maggio del 1855 veniva inaugurata a Parigi l’Esposizione
internazionale, ch’era la prima che si teneva in Europa, dopo quella di
Londra del 1851. L’Impero e Parigi erano in un periodo ascendente di
forza e di splendore; da ogni punto d’Europa si accorreva a visitare
la gran città che aveva ripreso il suo primato; e i Sovrani l’un dopo
l’altro andavano a salutare il nuovo e fortunato Imperatore. Come
rimanere a casa in una così bella occasione?

Si combinò dunque anche Emilio ed io un viaggetto, la cui meta doveva
essere Parigi attraversando la Svizzera e alcuni paesi del Reno e del
Belgio. Ci furono compagni alcuni amici, tra i quali Saule Mantegazza e
Carlo Mancini; il Mancini studiava pittura e voleva conoscere le opere
moderne e i principali artisti di quei paesi. Tutti poi, giovani e di
buon umore, ci si voleva spassare un poco, e questa fu la parte del
programma che riuscì pienamente.

Di tanto in tanto, noi sudditi _felici_ dell’Impero d’Austria,
come ci chiamava la _Gazzetta Ufficiale_, sentivamo il bisogno di
prendere una boccata d’aria in paesi un po’ meno felici, ma un po’ più
lontani dagli occhi della Polizia. Lo stato d’assedio era cessato,
ma le cose andavano su per giù come prima. Il maresciallo Radetzky
era stato nominato Governatore Generale del Lombardo-Veneto, oltre
all’essere il Capo supremo dell’esercito in Italia, con residenza a
Verona, poichè Milano e Venezia avevano cessato di essere le capitali
nominali delle due regioni. Nelle provincie era successo al governo
militare il governo civile dei Delegati, ch’erano i Prefetti d’allora;
nell’Amministrazione pubblica le forme erano tornate ad esser quelle
di prima del ’48, ma eran rimasti lo spirito e gli andamenti della
reazione militare. I militari e la Polizia eran tutto; e l’essere
patriotti era un mestiere che aveva sempre dinanzi a sè, più o meno
vicina, una forca in prospettiva.

C’era poi in noi molto viva la curiosità di sapere quale fosse
l’atteggiamento, in mezzo ai nuovi fatti politici, di quella parte
dell’emigrazione italiana che viveva a Parigi e che contava degli
uomini illustri quali erano il Manin, il Sirtori, il Montanelli,
il Maestri. Essi vivevano nel centro, allora, più importante della
politica europea; potevano forse apprezzare più chiaramente i
sentimenti di Napoleone, che di tanto in tanto accennava alle sue
simpatie per l’Italia; e in fine si sapeva ch’essi si erano staccati da
Mazzini, ma non si conosceva ancora quale indirizzo volessero dare alle
loro aspirazioni e alla loro azione.

Arrivando a Parigi c’eravamo rivolti a Pietro Maestri; ed egli fu poi
la nostra guida per tutto il tempo che rimanemmo a Parigi e ci fece
fare parecchie e importanti conoscenze.

La maggior parte degli emigrati italiani viveva a Parigi assai
modestamente, sicchè di solito era nelle più modeste camere, o nei
più modesti caffè, o nelle con dette _maison bourgeoises_ dove si
pranzava a trenta soldi, che si andavano a cercare parecchi dei nostri
personaggi politici del ’48, i quali erano alle volte degli antichi
ministri o degli antichi generali. Ciò sia ricordato a loro onore.

Tra questi emigrati trovai qualche vecchio amico e feci parecchie nuove
conoscenze. Avrei desiderato di conoscere il Sirtori, ma non lo conobbi
che parecchi anni dopo a Torino: allora egli viveva assai ritirato,
tutto immerso nelle sue meditazioni filosofiche e religiose e in preda
ad una misantropia che impensieriva i suoi amici.

Nella mia poca esperienza giovanile avevo sperato di trovare tra quegli
emigrati una corrente uniforme di idee e di aspirazioni che avrebbero
servito di guida anche alle mie opinioni politiche, che in quel
momento vagavano nella mia mente come tante nebulose. Ma quegli amici
mi parvero tante nebulose anch’essi; i più, divisi e discordi nella
_querula sventura_, non avevano trovata ancora una bandiera che li
riunisse. Quasi tutti però s’erano staccati da Mazzini. Quello che si
elevava su tutti e aveva la percezione più chiara, era Daniele Manin;
la sua formula: _Italia Una_ e _Vittorio Emanuele_, doveva essere
infatti la fortunata bandiera della redenzione. Altri invece erano
rimasti repubblicani, unitari o federalisti; altri si contentavano
d’un regno dell’Alta Italia; e in mezzo a taluni meridionali infine
era sorta l’idea di mettere al posto del re di Napoli un Murat, per
accaparrarsi Napoleone. Questi facevan capo al generale Ulloa, che
aveva fatte buone prove a Venezia.

In complesso il maggior numero di quegli emigrati erano, più o meno
apertamente, conquistati dalla potenza dell’Impero Francese; disposti a
credere che da questo, più che dal Piemonte, in cui erano ancora restii
a confidare, dipendesse l’avvenire nostro; erano proclivi alle teorie
di Giuseppe Ferrari, che considerava la rivoluzione italiana come
dipendente dalla rivoluzione francese.

Le diverse correnti di idee si urtavano anche nel mio animo, il quale
in mezzo a tanta confusione cominciava a raccogliere i suoi primi
disinganni. La fede in certi ideali, e nella infallibilità di certi
metodi e di certe persone, era già scossa grandemente in me. Che
la resurrezione dell’Italia, e il trionfo d’ogni virtù nel mondo,
dovessero venire dalle iniziative delle classi inferiori e meno educate
della società, come predicavano certuni, era una dottrina che ogni
giorno perdeva un puntello nella mia ragione. La quale principiava a
sentire il bisogno di allargare il proprio orizzonte; ma la mente era
tanto imbevuta in tutta quella letteratura politica sentimentale e
dogmatica, a cui si ispiravano i giovani allora, che il ribellarsi e
l’uscirne non era facile.

Una sera, il 16 agosto, passeggiavo con alcuni amici italiani sui
_boulevards_, quando a un tratto un numero insolito di strilloni
si sparse per le vie correndo, gridando e offrendo a chi passava le
copie dei giornali usciti allora, e certi foglietti che recavano un
dispaccio. Era la notizia della vittoria della Cernaia.

In un momento i _boulevards_ si affollarono da non potervisi più
muovere; le finestre venivano illuminate, e dappertutto si sventolavano
bandiere francesi, inglesi e la nostra dei tre colori collo scudo
di Savoja. Quel dispaccio era del generale Pélissier, generale capo
dell’esercito francese in Crimea, che annunziando la vittoria, chiudeva
colle parole: _Les Sardes se sont vaillamment battus_. La folla, ai
gridi di _vive la France_, univa quello di _vive l’Angleterre, vive le
Piémont_.

Che cosa avvenisse in quel momento nell’animo mio e in quello degli
amici ch’erano con me, non lo saprei esprimere. Ricordo che ci siamo
messi a gridare, come matti, per la gioia, _viva il Piemonte, viva
l’Italia!_ L’evoluzione era avvenuta; la strada era trovata; quel
_boulevard_ era stata la mia via di Damasco. L’orgoglio d’una vittoria
italiana risollevava improvvisamente l’animo avvilito dalle sconfitte e
additava un nuovo faro alle nostre speranze.

La vittoria delle armi piemontesi ebbe una grande influenza su molti,
che i patiti disinganni avevano lasciati nel dubbio e nell’incertezza.
Da quel giorno principiò un mutamento nell’opinione pubblica, che fu
rapido e visibile anche tra gli italiani residenti a Parigi. I loro
discorsi diventarono ogni giorni più benevoli verso il Piemonte e verso
lo stesso Napoleone, in cui s’intravedeva meglio l’amico futuro: si
cominciava a guardarlo non più come l’_uomo del 2 dicembre_, ma come
il nostro alleato. Parlo dei più, s’intende, poichè c’erano anche
quelli che non smisero di odiare il _tiranno_ anche dopo Magenta
e Solferino; essi continuavano a tirare il cappello sugli occhi
quando lo incontravano per istrada; non volevano veder lui, come non
vedevano altre cose. Io invece cominciai allora a fargli di cappello;
avvenimento questo di cui probabilmente Napoleone non si sarà accorto.

Una sera in cui l’Imperatore, l’Imperatrice e la Regina d’Inghilterra
andarono al teatro dell’Opéra, fui ben felice di accettare l’invito
di donna Teresa Kramer Berra ad assistere da un suo palchetto a
quello spettacolo di gala. La signora Kramer, cognata dell’illustre
chimico di tal nome, riceveva a Parigi nel suo salotto molte persone
notabili italiane e francesi, appartenenti in gran parte al partito
repubblicano. Ci andavo spesso, con mio fratello, la sera; e anche là
mi accorsi che il linguaggio politico andava sempre più modificandosi.
Quella sera dello spettacolo all’_Opéra_ i canocchiali di quanti
c’erano nel palchetto erano costantemente rivolti al palco imperiale,
non solo per ammirare la soave bellezza dell’Imperatrice, lo splendore
delle uniformi, delle toelette e delle gioie di cui eran coperte le
due Sovrane; ma ancor più per osservare l’Imperatore, per scrutare la
sfinge da cui noi italiani d’ogni colore aspettavamo già il responso.

Quel po’ di buon sangue fatto nella politica ci aiutava anch’esso a
goder meglio l’Esposizione universale, che allora era una gran novità,
e tutto ciò che Parigi offre sempre di interessante e di divertente: ce
la passavamo proprio allegramente. Alle volte improvvisavamo persino
delle piccole festicciuole in casa nostra, dove avevamo un salottino
nel quale, levandone tutti i mobili, e con della buona volontà,
potevano ballare contemporaneamente due coppie. Non si facevano
inviti, ma si lasciavano gli usci aperti e bastava che Carlo Mancini
si mettesse al pianoforte a sonare un valtzer, o una polka, perchè
capitassero dal vicinato le ballerine. Non si guardava troppo pel
sottile: erano cameriere, o sartine, o stiratore, che scendevano dal
quinto piano e ci pareva d’essere degli studenti sul tipo di quelli
descritti da Paul de Kock.

E come i personaggi di Paul de Kock, ci divertivamo alle volte ad
andare in cerca di quelle canzonature che a Parigi, e anche altrove,
non mancano mai nelle occasioni d’un gran concorso di gente, e che
son fatte per tirare in trappola i provinciali ingenui e i forestieri
novizi. E così un giorno si andò a uno spettacolo che veniva annunziato
con _entrata libera_ ma poi si pagava _l’uscita_; andammo in un
elegante stabilimento di bagni a cinquanta centesimi, e vi si pagava a
parte tutto, l’acqua fredda, l’acqua calda, la biancheria, il servizio,
in totale quattro franchi; e andammo ai pranzi d’una lira che ne
costavano sei.

Da Parigi tornammo direttamente a Milano con un ricco bagaglio
di impressioni e di notizie, che l’immaginazione e la speranza ci
facevano parer anche più belle e più importanti. Quelle impressioni
erano accolte con gioia dalla nostra buona mamma e da mio fratello
Enrico, che avevano come noi l’animo facile alla speranza, e dagli
amici, che ci ascoltavano avidamente. Tra le notizie che noi portavamo
da Parigi, c’eran quelle che correvano nei gruppi meglio informati
dell’emigrazione a proposito dell’attitudine di Napoleone sempre piena
di simpatia per l’Italia: spesso venivano ripetuti discorsi e parole
da lui pronunziati con qualche italiano, e specialmente col conte
Francesco Arese, suo vecchio amico.

Il conte Arese aveva infatti veduto l’Imperatore nel 1851, poi era
stato da lui invitato ed alloggiato alle Tuileries nel marzo e nel
maggio del 1852. Si diceva che Napoleone gli avesse allora parlato
delle faccende nostre, e che gli avesse detto un giorno: — Che cosa
potrei fare io per l’Italia? — E che poi gli avesse soggiunto: — Dite a
Vittorio Emanuele che venga a Parigi e che conti sulla mia amicizia.

Queste parole erano state realmente dette, e me le confermò parecchi
anni dopo lo stesso Arese, di cui divenni amico.

La fantasia pubblica ve ne aggiungeva delle altre; tutte insieme
giravano di bocca in bocca, e il tono stesso di mistero col quale
venivano ripetute le accreditava anche più, e le rendeva argomento
di nuove e maggiori speranze. Mantener sempre accesa la speranza!
era una suprema necessità nella lunga e difficile lotta che il paese
era chiamato a sostenere contro i propri dominatori. Le speranze e le
illusioni furono in quel tempo la nostra vita e la nostra forza.

L’eco dei discorsi che si facevano a Parigi, e la diminuzione dei
rigori e degli arbitrii polizieschi, venuta dopo la cessazione dello
stato d’assedio, avevano risollevati gli animi e messo in tutti nuova
lena e buon umore. Si passò quell’autunno con l’animo meno oppresso,
sebbene ci fosse il colera, e con le facce meno imbronciate del solito.
Se nel secreto del nostro animo dovevamo pur confessare a noi stessi
d’abbandonarci troppo ai voli della fantasia, nessun dubbio d’altra
parte che c’era qualcosa di mutato nelle condizioni generali della
politica, e che una breccia era aperta in quella fitta reazione che
aveva asserragliata tutta l’Europa dopo il 1848.

In Valtellina, Emilio, io e il Bonfadini, che avevamo trovato a
Parigi, raccontando le nostre informazioni e le nostre impressioni,
commentandole in discorsi che le ingrandivano sempre più, avevamo messo
nei nostri amici un grande entusiasmo. E devo concludere che ci fosse
in noi proprio del buon umore, quando ripenso a una burla che si fece a
Tirano, di cui rimase memoria per un pezzo.

A Tirano c’è un piccolo teatro, ove di tanto in tanto recitavano
allora de’ dilettanti del paese, e ove capitava alle volte qualche
compagnia di comici in bolletta a recitarvi de’ drammi, compreso
quello, poverini, del loro appetito. Un sarto, che era un dilettante
appassionato, se non fortunato, amava recitare insieme coi comici;
ma in quell’autunno il direttore della compagnia ch’era venuta a
Tirano non volle saperne di lui, sotto il pretesto ch’era un figura
ridicola e che aveva una gamba storta. Ciò era vero; ma il sarto
non sapeva capacitarsi di quel rifiuto, e se ne doleva altamente al
caffè. Trovandomi presente una sera, mentre qualche maligno lo andava
aizzando, gli diedi in tono serio ed amichevole il consiglio di
vendicarsi recitando un monologo od una poesia. Il sarto accolse il
consiglio, con gratitudine, e la mattina seguente lo vidi comparire
nel mio studio per chiedermi il _monologo_, non sapendo precisamente
che cosa fosse; e io gli risposi che tornasse tra qualche giorno per
lasciarmi il tempo di farne venire da Milano uno nuovo, fatto fare
appositamente per lui. La sua riconoscenza fu grande, e lo servii
subito. Erano sopraggiunti intanto mio fratello Emilio e un nostro
amico, Antonio Della Croce, che furono complici dello scherzo; e ci
venne l’idea di mettere insieme delle strofe senza senso, meno quel po’
che ci sarebbe voluto perchè il sarto non se ne accorgesse. La poesia
fu presto fatta; la diedi al sarto, gliela spiegai e gli insegnai anche
il modo di declamarla. Il sarto non s’accorse dello scherzo; e ripenso
ancora a quelle mattine in cui il poveretto veniva nel mio studio a
farsi spiegare qualche punto che gli pareva un poco oscuro, e a farsi
insegnare i gesti e le inflessioni della voce per dar risalto alla sua
declamazione[24].

Finalmente andò in scena. Era giorno di fiera, e c’erano in teatro
non solo persone del paese, ma anche parecchi d’altri paesi della
provincia. Il sarto al primo presentarsi sulla scena ebbe un gran
successo, e l’ilarità fu generale. Vi contribuirono la figura del
pover’uomo, i gesti coi quali salutò il pubblico, e un gilè bianco
che aveva delle proporzioni inverosimili. Poi, con una grande serietà,
declamò la poesia da capo a fondo, accompagnandola coi gesti e colle
pose tragiche che gli avevo insegnate. Da prima il pubblico rideva,
ma non capiva, com’era ben naturale; poi parecchi s’accorsero della
canzonatura, e ridevano ancora più, applaudendo. Ma ci furono anche
quelli che, pur ridendo per le boccacce del sarto, non badarono al
senso della poesia abituati forse a non badarci mai.

Il successo fu straordinario; il sarto dovette ripetere la declamazione
più volte, e per altre sere; per molti giorni non si parlò in paese
che della poesia e di lui. Il buon uomo mi fu riconoscentissimo; finchè
visse ricordò sempre con compiacenza il gran successo di quella sera,
e non si faceva pregare a ripetere quei versi ad ogni occasione che
ne fosse richiesto. Non sospettò mai la canzonatura, e nessuno gliela
svelò. Ho trovato in pochi, durante la mia vita, una riconoscenza più
duratura.

Sul finire dell’autunno e al principiare dell’inverno nel salotto
della contessa Maffei la conversazione s’era fatta più animata e più
gaia per le nuove speranze, che allargavano il cuore a tutti. Non
si parlava che del viaggio di Vittorio Emanuele a Parigi e a Londra,
ch’era avvenuto nella seconda metà di novembre, e i commenti non eran
pochi. Anche all’infuori dei crocchi politici le notizie e gli episodi
che riguardavano quel viaggio, venivano avidamente raccolti, ripetuti
e ingranditi. Ciò a mano a mano accresceva la popolarità di Vittorio
Emanuele, e a formare la quale avevano non piccola parte certi suoi
tratti, certi suoi motti, popolari, militareschi, e anche spavaldi, che
gli venivano attribuiti.

Insomma il nuovo anno, che stava per principiare, si affacciava sotto
buoni auspici; e le speranze, risollevando gli animi, tenevano viva la
volontà di muoversi, di agitarsi, di fare.

Rividi in quei mesi Emilio Dandolo, e si rinnovò l’amicizia, che, fin
da quando eravamo giovinetti e studenti, avevo stretta con lui e con
suo fratello Enrico, morto poi sotto le mura di Roma. Dopo l’assedio
di Roma, Emilio Dandolo era ritornato ferito, colle spoglie di Manara,
di Morosini e del fratello: dopo un anno era partito con Lodovico
Trotti, come già dissi, per un lungo viaggio nell’Egitto e nel Sudan,
che descrisse in un libro da lui pubblicato nel 1853. Scoppiata la
guerra d’Oriente volle ritornare alle armi, e riprendere la sua antica
uniforme d’ufficiale dei bersaglieri piemontesi. Chiese a Cavour, e
ottenne d’essere aggregato allo Stato Maggiore del corpo piemontese di
spedizione[25] e il 12 febbraio 1855 partì per la Crimea. Ma il Governo
austriaco, avvisatone dal suo ambasciatore a Costantinopoli, lo fece
richiamare dopo alcuni mesi sotto minaccia di processo e di sequestro
per emigrazione illecita. Aveva assistito per alcune settimane
all’assedio di Sebastopoli.


  NOTE.

  [24] Le strofe erano parecchie, ma mi contenterò di darne un
  saggio; la poesia incominciava così:

      Ei fu! Siccome l’agili
      Piume del firmamento
      Nel valicar le trepide
      Ali d’un suo lamento
      Non è possibil campo
      Non è possibil lampo
      D’inadeguata fè.
      . . . . . . . . . .
      . . . . . . . . . .

  poi continuava:

        Ei ripensò le mobili
        Tende e i percossi calli
        E il lampo dei manipoli
        E i ferri dei cavalli,
        E col suo piede adusto
        Il secolo d’Augusto
        Si pose a contemplar
        . . . . . . . . . .
        . . . . . . . . . .

        Allor pensò alla vergine
        De’ patrii suoi covili
        Cinta di quattro pargoli
        Maschili e femminili
        Che con preghiere vane
        Andran cercando un pane
        Fra l’arabe tribù.

        Così dicendo un gelido
        Miasma vespertino
        Strinse le fauci plastiche
        Al misero tapino
        Perchè prima l’udito
        Poi mosse ancora un dito
        Quindi non era più.
        . . . . . . . . . .
        Stava la bella estatica
        Sul tremulo verone
        . . . . . . . . . .

        Alla novella terribile
        Della notizia amara
        Rimase muta estatica
        Qual marmo di Carrara
        Poi disse con trasporto
      Ahi, se non fosse morto
        Forse vivrebbe ancor!

        E tracannò un bicipite
        Velen che seco avea.
        Poi con un brando ostetrico
        Donatole da Enea
        Si trapassava il petto;
        Poi si gittò dal tetto,
      Poi si affogò nel mar!

  [25] AL CONTE DI CAVOUR

      «_Signor Conte_,»

  «Mi sono recato ieri, com’Ella m’indicò, al Ministero della Guerra,
  dove mi venne annunziato dal Colonnello Petitti essere io nominato
  al grado di sottotenente nel corpo dei bersaglieri, aggregato
  allo Stato Maggiore della spedizione. Mi occupai quindi subito dei
  necessari preparativi per la partenza, la quale potrò effettuare,
  ove Ella lo creda conveniente, prima della fine del mese. Il
  giorno 27 corrente parte da Genova un vapore in corrispondenza coi
  postali del Levante. Io per quell’epoca sarò pronto ad imbarcarmi,
  come sono pronto fin d’ora ad anticipare, sia a differire la
  mia partenza, a seconda degli ordini che V. S. Ill.ma vorrà
  comunicarmi e che io starò aspettando. Quando V. S. Ill.ma lo
  crederà opportuno, Ella non avrà che a farmi avvertire dell’ora in
  cui debbo recarmi al Ministero, sia per mezzo del conte Oldofredi,
  sia direttamente all’Albergo Trombetta dove alloggio, stantechè
  non oserei venire io stesso ad importunare inutilmente V. S. Ill.ma
  nelle sue molteplici e gravi occupazioni.

  «Ella mi permetta, signor conte, che ora che io mi trovo d’aver
  conseguito lo scopo dei miei più vivi desideri, le rinnovi i
  miei caldissimi ringraziamenti per la bontà di cui m’ha dato
  tante prove, e per la valida sua protezione alla quale solamente
  attribuisco il buon esito ottenuto dalle mie domande. Cercherò
  col mettere il massimo zelo nel servizio, e la più grande premura
  nel disimpegnare quelle incombenze di cui Ella vorrà onorarmi, di
  mostrarle meglio che con parole la sincerità della mia riconoscenza
  e della mia devozione.

  «V. S. Ill.ma mi perdonerà spero, se, prima di chiudere questa mia,
  io le rinnovo la raccomandazione che le porsi già a voce e che
  concerne un distinto giovane, mio amico, il quale desidererebbe
  di entrare nel corpo sanitario della spedizione in qualità di
  medico, sia di chirurgo. È desso Scipione Signoroni, figlio di un
  valente professore dell’Università di Padova, assai favorevolmente
  conosciuto a Milano e per la onorevole parte da lui presa come
  ufficiale dei bersaglieri nella passata guerra, e pel sapere e
  l’attività con cui da qualche anno attende all’arte sua. V. S.
  metterà il colmo ai suoi favori a mio riguardo se vorrà prendersi
  cura di questa mia rispettosa preghiera.

  «Agradisca intanto la S. V. Ill.ma i miei omaggi.»

                                                  «EMILIO DANDOLO».




CAPITOLO XXI.

1856.


I.

  _Sommario:_ Casa Dandolo, casa Manara, casa Carcano. — La pace
  dopo la guerra di Crimea. — L’attitudine di Cavour nel Congresso
  di Parigi. — Il nuovo indirizzo del patriottismo italiano. — Il
  _Crepuscolo_, e Carlo Tenca. — La vita cittadina si rianima.
  — Feste. — Teatri. — Gli ufficiali austriaci. — La contessa
  Samoyloff. — I duelli, e il duello di Gustavo Viola. — Il nomignolo
  di oca dato dagli austriaci alle signore milanesi patriotte. — Una
  tragedia per marionette. — Il duello di Manfredo Camperio.

Oltre al salotto della contessa Maffei, ove si radunava lo _Stato
Maggiore_, direi, dei patriotti milanesi, v’erano altri salotti, altri
convegni, nei quali si teneva acceso l’odio al dominio straniero e il
proposito d’una lotta incessante. Tra i ritrovi, di cui ero un assiduo
frequentatore, ritrovi di persone legate dalla intimità contratta nella
comunanza delle aspirazioni, c’erano quelli delle case Carcano, Dandolo
e Manara.

La casa di donna Giulia Carcano, vedova di don Camillo, cugino del
letterato Giulio Carcano, era frequentata da un’accolta di giovani
studenti, compagni in gran parte dei figli di lei. Erano sei i figli
di donna Giulia, tre maschi e tre fanciulle, che essendo belle e
simpatiche contribuivano a rendere più attraente e più gaia quella
società di giovani. Dei tre fratelli, due, Alfonso e Lodovico,
arruolatisi nel 1859 e nel ’66, volontari in cavalleria, morirono;
Lodovico morì nella battaglia di Custoza, e Alfonso per gli strapazzi
della campagna garibaldina del ’60. Ciò che distingueva quel gruppo
di giovani era la serietà dei propositi patriottici accompagnata
dall’allegria e dall’audacia. Come una squadra di bersaglieri, essi
erano sempre pronti a correre all’avanguardia ogni volta che si
trattasse di qualche azione patriottica. Io andavo di solito in casa
Carcano nelle prime ore della sera; più tardi passavo in casa Maffei,
dove diventavo anch’io un po’ più serio, e ricevevo l’ispirazione e la
parola d’ordine d’un’azione più pensata, che trasmettevo poi ai miei
giovani amici.

In casa Dandolo si riuniva anche una parte della società di casa
Carcano, soprattutto quelli ch’erano stati compagni di scuola o
commilitoni di Emilio Dandolo e del fratello Enrico morto, come s’è
detto, sotto le mura di Roma. Il conte Tullio Dandolo, loro padre,
uomo di varia cultura, scrittore cattolico, autore assai pesante di
moltissimi libri di storia, di letteratura e di filosofia religiosa,
era un personaggio serio, ma tollerante; e quando vedeva la sua casa
invasa da tanti giovani, capi scarichi, di solito se ne andava e ci
lasciava in libertà.

Faceva gli onori di casa la contessa Ermellina, sua seconda moglie,
molto più giovane di lui; signora piacevole, di spirito vivace,
di sentimenti generosi, patriottici che esercitava una simpatica
attrattiva su quanti frequentavano la sua casa. Del suo coraggio
e della sua devozione agli amici diede prove, come vedremo,
indimenticabili.

Era stato istitutore dei fratelli Enrico ed Emilio Dandolo il
professore Angelo Fava, che allora trovavasi emigrato in Piemonte. Il
Fava, uomo di vasta e seria cultura, aveva fatto dei Dandolo i suoi
due scolari prediletti, trovando nell’ingegno precoce e forte dell’uno
e dell’altro, un facile terreno agli studî e alle più alte idealità.
Egli aveva formate, e direi quasi esaltate, le anime generose di quei
giovani, al sentimento della patria e della religione, e ne fece due
credenti e due eroi. Educato insieme, e quasi un loro fratello, Emilio
Morosini, anima gentile e mistica, moriva accanto all’amico Enrico
Dandolo, a 22 anni, sotto le mura di Roma, facendosi ammirare dal
nemico per lo straordinario valore.

Carmelita Manara Fè, vedova di Luciano, dall’anno 1849, dopo la
morte del marito, viveva ritirata occupandosi de’ suoi tre giovani
figli, il minore dei quali era nato qualche mese dopo la morte del
padre, circondata da pochi amici. Tra questi i più assidui erano
Emilio Dandolo, nelle cui braccia, come è noto, era spirato il marito
di lei, e qualche altro superstite degli ufficiali del battaglione
Manara. Il suo salottino principiò ad essere più frequentato quando le
speranze patriottiche cominciarono a riaccendersi. Carmelita Manara,
quando io la conobbi nel 1855, aveva poco più di trent’anni; era
stata bellissima, ed era ancor bella; d’una beltà pallida e delicata,
illuminata quasi dalla luce diafana d’un lento tramonto a cui la
condannava quel mal sottile che doveva precocemente spegnere lei e
i suoi figli. Eppure sulle sue bianche gote ricompariva una fiamma
improvvisa, e i suoi begli occhi celesti s’illuminavano, quando gli
amici le portavano qualche notizia in cui vi fosse una speranza, o le
richiamassero alla memoria qualche sacro ricordo d’un passato recente.

Tra gli ufficiali superstiti del battaglione Manara, tra i quali
c’erano Lodovico Mancini, il dottor Signoroni ed altri, che la
visitavano frequentemente, devo ricordare, oltre Gennaro Viscontini
già ufficiale dei granatieri, un tale Alessandro Mangiagalli, il
cui caso era di quelli che non sono infrequenti nelle rivoluzioni.
Il Mangiagalli era cocchiere e cavallerizzo in casa Manara: allo
scoppiare della rivoluzione, e durante le Cinque Giornate, egli si
mise accanto al suo padrone e non si staccò più da lui, seguendolo
nelle file dei volontari sui campi di Lombardia e sulle mura di Roma.
Gli atti di straordinario valore, e le sue attitudini militari lo
additarono all’ammirazione dell’intero battaglione, nel quale percorsi
i gradi minori diventò uffiziale. Da quel giorno, leggendo e studiando
nelle ore di riposo, e convivendo cogli altri uffiziali, si procurò
rapidamente quel tanto d’istruzione e d’educazione che gli occorreva
per frequentare una società educata. Ritornato a Milano, dopo la resa
di Roma, i suoi nuovi amici gli acquistarono una _cavallerizza_ e lo
introdussero nelle loro case. Così ricomparve in casa Manara quale
amico quel medesimo Mangiagalli che ne era stato il cavallerizzo.
Fu questo uno degli episodi di quell’affratellamento e di quella
solidarietà tra le diverse classi sociali che allora esisteva, in nome
del comune amore per la patria.

L’annunzio della pace conclusa tra le Potenze, dopo la campagna di
Crimea, pace che veniva a troncare improvvisamente quelle speranze che
riposavano sull’eventualità d’una guerra che durasse e si allargasse,
aveva messo sulle prime in tutti un sentimento di scoraggiamento e di
sfiducia. Ma fu un’impressione che non durò molto, poichè alla pace
successe, verso la fine del febbraio, il Congresso di Parigi nel quale
il conte di Cavour, come è noto, a viso aperto portò dinanzi alla
diplomazia la questione italiana.

Le conversazioni, le discussioni, la vita cittadina, si facevan
dappertutto più animate. La contessa Maffei aveva aperto a un maggior
numero di amici e di conoscenti il suo salotto, a cui aveva aggiunto
una nuova sala, che aveva cessato d’essere quel ritrovo di pochi intimi
che vi si raccoglievano come superstiti d’un naufragio. Col crescere
di numero cresceva anche l’influenza che da esso si irradiava; la
conversazione vi si faceva sempre più animata, varia e spiccatamente
patriottica. Essa che in passato, come vedemmo, aveva circondato
d’ogni suo ideale Giuseppe Mazzini, ora, disillusa, principiava a
_idealizzare_ il Re, il _Re Galantuomo_, come ormai si chiamava in
tutta Italia Vittorio Emanuele; e diffondeva intorno a sè la nuova fede
che l’animava, coll’entusiasmo e coll’attrattiva della sua anima eletta
e gentile.

Anche l’influenza del _Crepuscolo_ andava crescendo e allargandosi
sempre più. Denso di studi svariati e severi, il _Crepuscolo_ seguiva
rigidamente il programma col quale era sorto; seguiva in ogni ramo
il movimento intellettuale del suo tempo; e discorreva di quanto
avveniva in ogni parte del mondo, fuorchè in Austria. Questo silenzio,
ostinato e altiero, era osservato e compreso da tutti, ed esercitava
una propaganda più efficace di qualsiasi clamorosa protesta, se la viva
protesta fosse stata possibile a quel tempo.

A mantenere questa condotta inflessibile nessuno poteva essere più
adatto di Carlo Tenca, carattere integro e tutto d’un pezzo. Fin degli
scritti dei collaboratori, ch’erano i suoi più autorevoli amici, egli
faceva un severo esame per mantenere al _Crepuscolo_ l’uniformità
dell’indirizzo. Le opinioni e la volontà erano in lui tenacissime,
sebbene sempre rivestite di forme cortesi poichè, quantunque d’origine
popolana, nei gusti, nelle maniere, nei sentimenti, in tutto aveva
una certa distinzione aristocratica. Era anche stato un bel giovane.
Studioso e lavoratore indefesso, d’abitudini modeste e vivendo del
suo lavoro, non venne mai meno alla dignità e alla più severa onestà
della vita anche in momenti difficili, come presto vedremo. Calmo,
freddo, senza mai agitarsi esercitava intorno a sè coll’esempio una
larga influenza. Era l’ispiratore, era l’anima secreta del salotto
della contessa Maffei, pur avendo il fine buon gusto di non parerlo
mai. Anch’egli era stato amico di Mazzini, ma dopo il 6 febbraio se
n’era staccato; ed ora, pur tenendosi in un certo riserbo, seguiva
con simpatia e con l’animo fiducioso, gli avvenimenti che si andavano
svolgendo in Piemonte.

Il patriottismo aveva cessato d’essere triste e accasciato come negli
anni antecedenti, s’era fatto anzi gaio e più audace: la vita cittadina
s’era di molto rianimata, e fin dal principio dell’inverno s’annunziava
un carnevale lieto; parecchie case ricche e patrizie riaprivano le loro
sale, da molti anni chiuse. Ricordo tra queste le case della duchessa
Visconti di Modrone e di sua sorella la marchesa Rescalli.

Il teatro della Scala ridiventava, quale era stato prima del
quarantotto, il principale ritrovo della società milanese.

Ma l’opposizione a tutto ciò ch’era austriaco si faceva sempre più
acuta; e più insofferente diventava l’attitudine dei giovani verso gli
ufficiali, ch’erano la personificazione vivente del governo forestiero.
Ci sono delle impressioni che bisogna aver provate per poterne
discorrere: non s’immagina come ci ribollisse il sangue a vedere le
uniformi austriache, e il fare da padrone sicuro e spavaldo con cui
l’ufficiale straniero passeggiava in casa nostra.

Gli ufficiali dal canto loro irritati pel tacito e continuo insulto
della popolazione, che li teneva così severamente segregati, reagivano
appena se ne presentasse loro l’occasione, e uscivano in parole di
sprezzo e in propositi di vendetta. Dei discorsi che gli ufficiali
tenevano, e delle ingiurie che parecchi di loro lanciavano contro i
milanesi, ne veniva l’eco dalle sale della contessa Samoyloff, che
eran le sole le quali in quei giorni accogliessero generali e ufficiali
austriaci.

La contessa Giulia Samoyloff, nata contessa Palhen, era una russa,
che per le sue ricchezze, per le sue stravaganze e per le avventure
della sua vita ebbe una grande notorietà a Parigi e a Milano, dove
aveva soggiornato più volte e per diversi anni, fin da prima del
1848. La sua ava materna aveva sposato in seconde nozze quel conte
Giulio Litta milanese, che recatosi in Russia, nella seconda metà
del secolo decimottavo, vi era diventato ammiraglio e aveva riunite
grandi ricchezze. Il Litta era ritornato a Milano nel 1830 e ripartito
poi per Pietroburgo vi era morto l’anno 1839, lasciando alla contessa
Samoyloff un assegno vitalizio di centomila lire annue a carico dei
Litta suoi eredi. La contessa Samoyloff era stata in relazione con
la migliore società milanese; ma venuto il quarantotto rivolse le
sue simpatie verso l’Austria e ruppe le relazioni che aveva a Milano.
Nel frattempo era rimasta vedova tre volte; e aveva fatto un paio di
matrimoni bizzarri. All’avvicinarsi del 1859 ripartì da Milano e non vi
ricomparve che molti anni dopo, per breve tempo.

Una sera, in principio di gennaio del 1856, nell’atrio del teatro della
Scala un ufficiale austriaco urtò con fare sprezzante un giovane amico
mio e di Emilio, Gustavo Viola. Questi era figlio della signora Saulina
Viola Barbavara, una delle più intime amiche della contessa Maffei,
della quale frequentava ogni sera la conversazione: da pochi mesi era
tornato a Milano, dopo aver fatto gli studi in Germania. Il Viola si
risentì vivacemente dell’atto scortese, diede all’ufficiale il proprio
biglietto da visita, e il giorno dopo ci fu un ritrovo di padrini.
Padrini del Viola furono mio fratello Emilio ed Enrico Besana; si fissò
ed ebbe presto luogo il duello, e il Viola ricevette un grave colpo di
sciabola ad un braccio.

I duelli che avvenivano cogli ufficiali austriaci procedevano sempre
colle più squisite forme cavalleresche, ma non si accettavano mai
proposte di accomodamento per quanto potesse esser futile la causa
della sfida. Dopo il duello, scambiate le maggiori cortesie, i nostri
solevano congedarsi dicendo: «Qui finiscono i nostri rapporti; da
questo momento non ci conosciamo più, non ci saluteremo più.» — Gli
uffiziali rimanevano sorpresi e comprendevano l’abisso che c’era tra
noi e loro.

Allorchè avvenivano queste vertenze era nostro impegno il mostrarci
molto esperti nella scienza cavalleresca, anche per non subire de’
soprusi, trovandoci di fronte a degli ufficiali che avevano le loro
usanze e le facevan valere. Perciò tra noi giovani che ci preparavamo
a fare gli spadaccini girava un codice francese del duello, che
dicevasi molto autorevole, nel quale eran risolti tutti i casi con una
precisione e con una sicurezza che parevano indiscutibili.

Il pensiero dei duelli teneva accese non poco le fantasie di noi
giovani. Il duello cogli ufficiali austriaci ci pareva un dovere
patriottico; era il combattimento individuale sostituito alla guerra
che non era in poter nostro di fare; ed era certamente un mezzo per
tener viva quella continua tensione degli animi, e quella lotta morale
ch’erano la nostra forza.

Il duello di Gustavo Viola ebbe un’eco di commozione per parecchi
giorni in casa Maffei, e di ingiuriose spavalderie in casa della
contessa Samoyloff, la quale prima del 48 era stata amica di Clara
Maffei e di Saulina Viola.

In casa Samoyloff, a quanto si disse, fu dato e messo in giro
dagli ufficiali austriaci un nomignolo alle signore milanesi della
società elegante, che nei loro salotti tenevano alta l’_intonazione_
del patriottismo. Le chiamavano le _oche_, parodiando quelle del
Campidoglio, perchè tenevano sveglio nella gioventù l’odio alla
dominazione austriaca. Quel nomignolo veniva accolto anche da noi, e
lo ripetemmo a titolo d’onore per quelle signore che maggiormente si
distinguevano. Essere una delle _oche_ voleva dire essere una signora
alla moda, una signora della società distinta e patriottica.

I propositi battaglieri delle sfide e dei duelli non impedivano a me
ed ai miei amici di passarcela allegramente e di approfittare di quel
po’ di carnevale, meglio che si potesse. I nostri ritrovi allegri erano
specialmente in casa Carcano e in casa Dandolo, ove si improvvisavano
festicciuole e cene due o tre volte la settimana.

Una volta dopo una cena in casa Carcano, tra i giuochi e gli scherzi,
avendo io provato a dire alcune terzine di Dante, come se fossero
declamate da una marionetta, i miei amici scopersero che avevo il dono
di natura d’imitare questo genere di attore. Detto fatto si decretò
che si avesse tutti insieme a recitare una tragedia parodiando un
teatrino di marionette. Da quel giorno fummo tutti in faccende; chi
si incaricò dei vestiari, chi degli addobbi delle scene, ed io fui
incaricato di scegliere la tragedia e di destinare le parti a quelli
che, provandocisi, riuscivano più abili.

Pensando all’incarico avuto mi parve che la tragedia dovesse essere
fatta appositamente e che fosse adatta anch’essa a un teatro di
marionette, ma senza dimenticare il patriottismo. Mi misi all’opera, e
dopo un paio di settimane ebbi in pronto una tragedia in cinque atti,
in cui tutto era parodia; l’argomento, i personaggi, i versi.

La pace era venuta poco prima a chiudere improvvisamente la guerra
di Crimea e le speranze che se n’erano concepite. Eravamo dunque in
un momento, che per fortuna fu breve, di disinganno e di sfiducia:
Cavour non era ancora tornato dal Congresso di Parigi. Scelsi per
argomento della parodia la guerra turca e intitolai la tragedia
_Nicolò_. Nell’imperatore Nicolò I, a quel tempo si personificava il
più puro dispotismo e cercai di far capire che nella parodia della
Russia alludevo all’Austria. Il complesso della rappresentazione riuscì
qualcosa di così comico che ogni tanto gli attori dovevano fare delle
pause per lasciar sfogare l’ilarità irrefrenabile, clamorosa degli
spettatori e la propria. Gli spettatori eran tutti nostri amici, e
c’era fra loro anche della gente seria, come il Tenca, il Massarani,
Giulio Carcano, Paolo Ferrari e parecchi altri. Il successo fu
bellissimo e la recita fu replicata con un pubblico più numeroso; ma
dopo la terza rappresentazione fui chiamato alla Polizia; ricevetti
l’ordine di smettere e mi fu tolto il passaporto che tenevo.

Ho voluto ricordare questa rappresentazione delle marionette, perchè
allora ebbe a Milano i suoi giorni di notorietà. Si rise molto; e anche
il ridere era per noi un’arma.

Ma eccoci poco dopo a un altro duello che levò rumore più degli
altri per le circostanze che lo accompagnarono; il duello di Manfredo
Camperio col capitano di stato maggiore Schönhals.

Per timore d’averne dimenticato qualche particolare, dopo tanti anni,
mi rivolsi, mentre buttavo giù queste memorie allo stesso mio amico
Camperio, il quale mi rispose colla seguente lettera:

                                 «_Santa di Monza, 6 gennaio 1899._

  «Eccoti, caro amico, la storia da te desiderata, del mio duello col
  barone Schönhals, morto l’anno scorso a Vienna, capo dello Stato
  Maggiore.

  «Era l’inverno del 1856. Da pochi mesi ero di ritorno da un
  avventuroso viaggio in Australia, ove trovandomi senza mezzi, fui
  costretto per ritornare in Italia, ad imbarcarmi quale marinaio a
  bordo di un legno olandese che doveva far rotta per Rotterdam.

  «Il barone Ciani, mio zio, volle quell’inverno festeggiare il mio
  ritorno con un ballo in casa (corso Venezia, 59). Pregò me e i
  suoi numerosi nipoti di fare gli inviti e il ballo riuscì la più
  brillante festa di quell’inverno. Recatomi al ballo verso le 11,
  chiesi ed ottenni un valtzer da una bella e intelligente signora di
  mia conoscenza, nota pel suo patriottismo (signora Gerosa).

  «Si fece un giro, quando a un tratto la mia dama si arresta, e
  serrandomi il braccio mi indica colla testa un punto della sala.

  «Sorpreso dà quell’atto guardai e vidi un uffiziale austriaco in
  grande uniforme, coperto di medaglie, appoggiato allo stipite d’una
  porta.

  «— Dio mio! dissi, come mai mio zio può aver invitato un uffiziale
  austriaco? È certo un malinteso (Il capitano era inquilino nella
  casa di mio zio. Seppi poi che il capitano aveva fatto quel giorno
  stesso una visita colla moglie, una bella inglese, allo zio il
  quale credette di doverli invitare al suo ballo; e credette anche
  che il capitano sarebbe venuto in borghese). — Sarà bene, rispose
  la signora, ma intanto lei avrà la bontà di far venire una vettura
  perchè io non resto più a lungo in questa sala, e la mia carrozza è
  comandata per le quattro del mattino.

  «Mentre aveva luogo questo breve colloquio, molti gruppi di signore
  si andavano formando, e le danze erano cessate. Tutte le signore,
  senza eccezione, volevano andarsene.

  «Allora dissi alla mia gentile ballerina: — Tranquillizzi le sue
  amiche, penserò io a mandar via l’austriaco — e me ne andai diritto
  dall’uffiziale, pregandolo a voler uscire con me.

  «Egli mi seguì tutto sorpreso, e giunto nell’anticamera, gli dissi
  di accompagnarmi fino al pianerottolo. Allora gli feci capire, nel
  modo più gentile, come la sua presenza in uniforme avesse messo
  lo scompiglio nella festa e che le signore tutte avevano deciso
  di partire se egli restava; lo invitavo quindi come gentiluomo a
  lasciare egli stesso la sala per evitare che il ballo fosse sospeso
  in causa sua.

  «— Come? mi rispose in francese. (Si noti che io gli avevo parlato
  in tedesco). È l’uniforme del _vostro_ Imperatore quella che io
  porto! Voi volete disonorarla?

  «— Non è punto questione d’onore, ma noi tutti qui non ammettiamo
  che questa sia l’uniforme del _nostro_ Imperatore, ma l’uniforme
  dell’armata austriaca di occupazione, che speriamo non resterà a
  lungo nel nostro paese. —

  «Allora il capitano, con molta prudenza, vedendo che
  nell’anticamera si affollavano signori e signore ascoltando quel
  colloquio, non insistette, e mentre ci scambiavamo i biglietti di
  visita, pregò uno dei presenti di andare a prendere sua moglie, poi
  si accomiatò, dicendomi:

  «— Mi darete, spero, una soddisfazione per questo vostro strano
  modo di procedere!

  «— Certamente, risposi non dubiti, capitano.

  «Le danze ripresero, ma poco dopo temendo io, come infatti avvenne,
  che la Polizia, sempre vigile, informata di quanto era avvenuto,
  avrebbe circondata la casa per pigliarmi, me la svignai dalla parte
  dei _Boschetti_. Presi una vettura e mi feci condurre a una bottega
  da guantaio dove si vendevano degli abiti da maschere.

  «Poi, vestitomi da _puff_ (maschera allora molto comune), corsi al
  veglione del teatro Carcano, pensando ch’era quello il miglior modo
  per sviare dalle piste i poliziotti.

  «Dopo un paio d’ore seppi dagli amici Tarlarini e Giulio Venino, ai
  quali mi fece conoscere, che la Polizia era sulle mie traccie, non
  avendomi trovato a casa mia.

  «Colle dovute precauzioni corsi a casa, sempre vestito da _puff_,
  per prendere un po’ di denaro e per salutare i miei. Concertai la
  fuga per mezzo di mio cugino Augusto Besana e dell’amico Tarlarini,
  che mi cambiò a casa sua il vestito da _puff_ con quello d’un suo
  contadino, e messomi in un biroccino, mi fece condurre ad una sua
  campagna.

  «All’uscire da una delle porte della città, provai non poca
  emozione pel timore di essere arrestato; ma il contadino ch’era
  con me era conosciuto dalle guardie e queste non badarono al suo
  compagno.

  «Potei così recarmi ad Ozzero, in casa del marchese Luigi d’Adda,
  ove mi aveva preceduto un espresso perchè vi fossi ospitato.
  A tarda notte accompagnato dai fedeli barcaiuoli del marchese
  attraversai il Ticino e mi recai a Vigevano, in casa d’un mio
  antico commilitone del 48, Gusberti, capitano dei bersaglieri.

  «Prima che partissi dal ballo Ciani, Carlo Prinetti (ora senatore)
  ed Emilio Dandolo, mi si erano offerti per farmi da padrini nel
  duello che avrebbe avuto luogo.

  «A Vigevano dovetti mettermi a letto con una forte febbre e con una
  tosse indiavolata, prodotta dagli strapazzi della notte precedente
  e dal freddo intenso della trottata ad Ozzero in giacchetta da
  contadino.

  «Il giorno dopo da Milano mi venne la notizia che il capitano
  Schönhals si era recato, dopo casa Ciani, a un ricevimento del
  generale Giulay, e avendo raccontato il fatto avvenutogli, il
  generale aveva mandato l’ordine ad uno squadrone di ussari, che
  aveva sempre i cavalli sellati, di circondare la casa Ciani.

  «La Polizia che non aveva potuto seguire la mia pista, mercè i
  due travestimenti, aveva però saputo che io mi trovavo in salvo in
  Piemonte.

  «Due giorni dopo, trovandomi sempre a letto, ebbi avviso dai
  miei padrini che gli uffiziali austriaci, presentatisi a loro, mi
  pregavano di ritornare per battermi su territorio lombardo, non
  potendo gli ufficiali passare il confine. Mi davano però la parola
  d’onore che non avrei avuto nulla da temere da parte del Governo.

  «Accettai, ritenendo sacra la parola d’un uffiziale. Ancora
  febbricitante ripassai il Ticino col mio amico bersagliere. Dopo
  aver girato per quasi un’ora sulle sabbie del Ticino, incontrai
  i miei due testimoni, che mi condussero al posto fissato pel
  combattimento.

  «Eravamo tre soli italiani; l’amico che mi aveva accompagnato si
  teneva lontano tra i cespugli. Gli uffiziali austriaci arrivarono
  in buon numero: due soldati portavano delle ceste in cui c’erano
  sciabole, spade e pistole.

  «Dopo i saluti di prammatica, i padrini del mio avversario ed i
  miei si ritirarono per la scelta delle armi e per le condizioni,
  avendo io lasciate libere ad essi le une e le altre.

  «Il dibattito fu lungo, perchè tra gli uffiziali austriaci, un
  capitano Wagner, che fu in collegio con me a Dresda, aveva detto
  che io era un forte tiratore di punta e di sciabola, e aveva
  insistito perchè i padrini escludessero appunto i colpi di punta.
  I miei padrini non concedettero ciò. Padrini del barone Schönhals
  erano due colonnelli. Credo che uno fosse un Lichtenstein, noto pei
  molti e bei cavalli che sfoggiava al Corso.

  «Ci mettemmo in guardia. La febbre e la tosse in quel momento mi
  cessarono e attaccai vigorosamente. Ma le sciabole portate dagli
  uffiziali erano talmente leggiere che si piegavano ad ogni colpo.
  Colpii l’avversario con due fendenti al petto, ma di piatto, avendo
  la lama girato nel manico.

  «Mostrata la sciabola ai padrini, me ne feci consegnare una
  seconda, la quale andò in due pezzi al terzo colpo. Me ne
  consegnarono una terza. Ero furente.

  «Attaccai il capitano sotto misura, tirandogli un colpo alla
  testa che non ricordo quale effetto abbia avuto: mi pare d’averlo
  colpito all’orecchio. La sciabola mi si spezzò di nuovo e nello
  stesso tempo lo Schönhals mi dava una leggera ferita sopra l’occhio
  destro.

  «Intervennero i padrini. Dopo che ebbi data la mano al capitano
  Schönhals, perchè non avevo nulla di personale contro lui, bensì
  contro l’uniforme che egli portava, raggiunsi, senza guardarmi
  indietro, l’ospitale barca piemontese col mio amico bersagliere, e
  ritornai nel libero Piemonte.

  «Eccoti, caro Visconti, la storia genuina di quel mio duello, che
  fece a quel tempo molto chiasso, anche a Parigi, ove trovavasi
  Cavour al Congresso per la pace dopo la guerra di Crimea.

  «In un duello prima del mio, era stato ucciso il mio buon amico
  Della Porta, giovane innamorato della Patria e di un coraggio a
  tutta prova. Poco pratico nel maneggio delle armi, il povero Della
  Porta, esile di persona, aveva avuto per avversario un uffiziale
  ch’era un colosso. Mi rincrebbe di non averlo vendicato.

  «Altri duelli con uffiziali precedettero e seguirono il mio, tra
  i quali quelli del Viola, del Ropolo, del Mancini, di Giacomo
  Battaglia, di Gerolamo Fadini e di altri.

  «Ma chi si ricorda oramai di quei giovani, quali furono i Dandolo,
  i Besana, i Prinetti, i Mancini, i Simonetta, i Morosini, il
  Battaglia e mille altri che tu hai conosciuto!...

                              . . . . . . .

                                      «_Il tuo_ MANFREDO CAMPERIO».




CAPITOLO XXII.

1856.


II.

  _Sommario_: La sottoscrizione dei _cento cannoni_ per la fortezza
  d’Alessandria. — Sottoscrizione mazziniana per _diecimila fucili_.
  — Un mio nuovo viaggio in Francia e a Parigi. — L’emigrazione
  italiana a Parigi e i partiti _piemontese_, _murattiano_, _e
  repubblicano_. — Montanelli, Maestri, Sirtori. — L’annunzio di
  un viaggio dell’Imperatore d’Austria in Lombardia. — Propositi
  d’astensione, e di dimostrazioni, nell’occasione della venuta
  dell’Imperatore. — Sottoscrizione per offrire alla città di Torino
  un monumento dedicato all’esercito piemontese. — Casa d’Adda.

Il Congresso di Parigi, la parte avutaci dal conte di Cavour, la
politica interna del Piemonte che andava svolgendosi con tanto onore e
con tanta fortuna, creavano ogni giorno più in tutta Italia un’autorità
morale intorno a cui le opinioni e gli animi si disciplinavano in una
grande concordia, e questa era tutta intenta a una grande meta.

«Fra tre anni avremo la guerra!» soleva dire Cavour agli amici. Ciò
veniva ripetuto, e con ciò egli irritava l’Austria sempre più, e la
disponeva ad attaccare il Piemonte; ma questo era appunto ne’ suoi
scopi, e intanto faceva convergere verso di lui tutte le speranze
italiane.

L’Austria principiava già a prendere un’attitudine minacciosa, mentre
si andavano stringendo sempre più i rapporti tra Cavour e i patriotti
italiani. A Milano ormai non si viveva che della vita del Piemonte, e
di Torino: le discussioni del Parlamento Subalpino, gli uomini politici
piemontesi, e ogni fatto che avvenisse al di là del Ticino, erano
l’argomento dei discorsi quotidiani in ogni punto della Lombardia:
col mezzo di contrabbandieri si ricevevano i giornali torinesi, e si
può dire che era principiata col Piemonte l’annessione morale. Alle
feste che nel giugno Torino faceva ai soldati reduci dalla Crimea e al
generale Lamarmora, partecipavasi a Milano con tutto l’entusiasmo dei
nostri cuori pieni di speranze.

In quei giorni la _Gazzetta del Popolo_ di Torino aveva iniziata una
sottoscrizione per un dono nazionale di _cento cannoni_ al Governo, da
destinarsi alla fortezza di Alessandria. Era una evidente dimostrazione
contro l’Austria, e si pensi con quale entusiasmo fu accolta. A Milano
sorse il pensiero che ogni città lombarda dovesse mandare un cannone,
e subito in ogni città si formarono dei Comitati per raccogliere le
sottoscrizioni: in ogni ritrovo d’amici in ogni salotto di signore, si
raccoglievano le offerte. Non si davano nomi, perchè la Polizia ogni
tanto piombava qua e là con visite e perquisizioni.

D’accordo con Luigi Torelli ed Enrico Guicciardi, allora emigrati
a Torino, si combinò di far partecipare la Valtellina alla
sottoscrizione, affinchè sugli spalti d’Alessandria ci fosse anche
un cannone col nome della della provincia di Sondrio. Ne parlai
con Romualdo Bonfadini, cogli amici Salis, con altri di Tirano, di
Sondrio e di Morbegno, ne scrissi agli amici di Grosotto per l’alta
Valtellina; e così la sottoscrizione ebbe prontamente anche in quei
paesi il risultato che si desiderava. Le classi dirigenti nelle
provincie, a quei tempi, più che numerose erano energiche, influenti,
altamente patriottiche. In parecchie provincie c’erano ancora dei
vecchi patriotti che avevano cospirato nel 1821 e nel 1830, e tutte poi
avevano dati dei contingenti di volontari e di persone operose negli
avvenimenti del quarantotto. Così ogni parola d’ordine che partisse da
Milano, trovava un’eco unanime nel patriottismo delle provincie.

Mazzini, anche dinanzi a queste manifestazioni della pubblica
opinione, non apprezzava l’importanza della concordia, non comprendeva
ciò che si andava svolgendo sotto la guida potente di Cavour. Alla
sottoscrizione pei _cento cannoni_ egli ne oppose una propria che
chiamò dei _diecimila fucili_, i quali dovevano servire a qualcuna
delle sue solite imprese impotenti e disgraziate. Anche questa volta la
sottoscrizione di Mazzini non diede che un risultato meschino. Giacomo
Medici scriveva in quei giorni a Garibaldi: «Siamo alla vigilia di
vedere altre pazzie mazziniane... quell’uomo rovina ogni cosa, non sa
far nulla di bene, ed impedisce che altri faccia. Mazzini vuole imporre
più che lo Czar di Russia» (BERSEZIO: _Storia del regno di Vittorio
Emanuele_, vol. II, pag. 415). Tra Garibaldi e Mazzini da qualche tempo
non c’era più buon sangue; e da Mazzini s’erano già staccati mano mano
Manin, Montanelli, Sirtori, il generale Guglielmo Pepe, Orsini, Giorgio
Pallavicino, La Farina.

I vecchi cospiratori mazziniani milanesi, di un grado inferiore di cui
ne conoscevamo parecchi Emilio ed io, erano in un grande imbarazzo:
non volevano sconfessare il Maestro, come lo chiamavan sempre; ma nel
tempo stesso capivano che il mazzinianismo tramontava ogni giorno più.
Cominciavano anche a riconoscere che Cavour aveva pur già fatto qualche
cosa; sicchè non negavano il loro obolo ai _cento cannoni_ monarchici
d’Alessandria, ma s’affrettavano poi a dare qualcosa anche ai diecimila
fucili repubblicani. Il loro dispiacere era che Cavour non avesse
ancora preparata la più piccola sommossa; e ciò li metteva in una certa
diffidenza.

Venuto il mese di luglio, desiderando di prendere una boccata
d’aria dopo aver fatti alcuni esami all’Università di Pavia, pensai
d’accompagnare il mio amico Costantino Garavaglia che doveva recarsi
per affari a Marsiglia, a Lione e a Parigi. Anche la curiosità di
raccoglier notizie sicure di fronte alle infinite voci contradditorie
che correvano su Napoleone, sul Governo francese, sul murattismo, sulle
opinioni della parte più eletta dell’emigrazione italiana a Parigi, mi
seduceva a far quel viaggio.

Si viaggiò a piccole giornate, a seconda di quanto esigevano gli
affari del mio amico, e io intanto ne approfittavo per discorrere di
politica con le persone che mano mano conoscevo, e per sentire che cosa
pensassero sugli affari d’Italia. Non ne pensavano niente; e la mia
sorpresa era pari alla mia ingenuità, sentendo quanto poco si curassero
delle faccende nostre, e quanto si ignorasse tutto ciò che avveniva
al di là delle loro frontiere. Solo le persone più colte parlavano
con un po’ di simpatia dell’Italia, seguendo taluni l’isparazione
ufficiale che l’Impero cominciava a dare col mezzo de’ suoi giornali;
ma era una simpatia molto vaga e debole, poichè se per caso accennavo
all’eventualità d’una guerra, le faccie benevole diventavano subito
arcigne e scandolezzate.

Nella ricerca di notizie mi aiutò non poco, quando fui a Parigi, il
mio amico Tullo Massarani, il quale ci aveva molte ed importanti
conoscenze. Nell’emigrazione italiana c’eran tre correnti di
opinioni; la _piemontese_, come dicevasi allora, la _murattiana_ e la
_repubblicana_. Il partito che aderiva alla monarchia piemontese era
il più numeroso, e se n’era fatto capo Daniele Manin colla formula:
_Unità e Monarchia; Italia e Vittorio Emanuele_. Egli aveva data questa
bandiera al nuovo partito nazionale che doveva riunire la maggioranza
degli italiani.

Seppi che Cavour, mentre era a Parigi pel Congresso, s’era abboccato
con Manin e s’era messo completamente d’accordo con lui. Seppi pure
che, auspice il marchese Giorgio Pallavicino, Garibaldi il 13 luglio
s’era recato da Caprera a Torino, e che vi aveva avuto un abboccamento
con Cavour. Dopo quell’abboccamento Garibaldi scrivendo a La Farina
chiamava Cavour il _nostro grande amico_.

Manin, in quei giorni combatteva vivamente a Parigi contro un gruppo
di emigrati, che si agitavano in favore del principe Murat, e avevano
per programma di promuovere un movimento nelle provincie napoletane
allo scopo di sostituire Murat alla dinastia borbonica, credendo che
Napoleone avrebbe assecondato tale progetto. Con questi, che in realtà
non erano molti, s’erano Saliceti, Lizabe, Ruffoni e il generale Ulloa.

L’Ulloa nel 1859 venne in Italia, ed ebbe dal Governo Provvisorio
Toscano il comando del suo piccolo esercito, che fu unito al corpo
francese comandato dal Principe Napoleone, e con esso andò fino a
Mantova. Avvenuta la pace di Villafranca, il Ricasoli richiamò l’Ulloa
a Modena; poi, malcontento di lui, gli tolse il comando per darlo a
Garibaldi. Ulloa, trascinato forse da un dispetto e forse dalle sue
idee federaliste, o fors’anche dalla sua gelosia verso Garibaldi, finì
col recarsi a Napoli, e coll’offrire la sua spada al Borbone, contro
Garibaldi. Era stato a Venezia un valoroso soldato, ma la passione lo
traviò.

Conobbi il Montanelli, ch’era stato fino allora uno dei capi nello
Stato Maggiore del partito repubblicano. Mite, buono, andava in quei
giorni avvicinandosi a Cavour, e staccandosi dalla repubblica. Ci
soffriva nel distacco, come se subisse un’operazione chirurgica, senza
cloroformio; ci soffriva, ma nella sua onestà trovava gli argomenti
della rassegnazione.

Più deciso, più sicuro, il dottor Pietro Maestri, antico repubblicano,
che esercitava molta influenza tra gli emigrati, seguiva ora
risolutamente la bandiera di Manin, e lo proclamava senza esitazioni:
era stato, come abbiamo veduto, uno dei tre del Comitato di difesa
prima del ritorno degli austriaci nell’agosto del 1848.

Il Maestri ci diede delle notizie dolorose sulle condizioni di salute
del Sirtori, e così anche quella volta non riuscii a conoscerlo.
Giuseppe Sirtori, nativo della Brianza, era stato, come è noto, prete
prima del 1848. Intento lungamente a studi e ad indagini teologiche,
preso da dubbi e da scrupoli, turbato nella coscienza, s’era recato a
Parigi per conferire con Lamennais. Aveva smesso l’abito sacerdotale,
pur conservandosi credente; s’era immischiato in circoli politici
repubblicani e aveva preso una parte attiva alla rivoluzione del
febbraio contro Luigi Filippo. Ritornato poco dopo in Italia, s’era
fatto soldato a Venezia, ove fece prodigi di valore ed ebbe una parte
politica notevole in senso repubblicano.

Il Maestri mi disse che da qualche tempo nel Sirtori all’antico
turbamento della coscienza per la fede religiosa s’era aggiunto anche
il turbamento della fede politica: non aveva più fede in Mazzini, e
nelle teorie repubblicane; voleva credere, e non credere a Napoleone,
a Cavour, e al re di Piemonte; aveva in poco concetto Garibaldi. Il
suo animo era agitato, la sua mente era turbata; i suoi discorsi, i
suoi modi, parevano strani, e veniva sorvegliato. Egli si credette
perseguitato dal Governo francese, e dagli amici; intanto la Polizia
s’era occupata di lui, e lo aveva fatto ritirare in una casa di salute.

Più tardi quando i fatti chiarirono la politica, e la guerra d’Italia
suggellò gli accordi tra Napoleone e Cavour, Sirtori ritornò calmo,
sereno, e si recò a Torino. La sua mente alta, rifattasi lucida, e la
sua onesta coscienza di patriotta non ebbero più dubbi: vide la salute
della patria nella monarchia unitaria, e ad essa diede la sua fede e il
suo braccio.

Egli era un nobile carattere. Sebbene supponesse d’essere stato offeso
dalla Polizia imperiale, quando Milano volle fare un atto di doverosa
riconoscenza a Napoleone coll’erigergli un monumento, Sirtori fu
uno dei primi che la patrocinò e la sottoscrissero con una offerta
generosa.

Passai a Parigi un mese, e ritornato ne impiegai almeno due, a Milano
e in Valtellina, a vuotare il sacco delle notizie e delle impressioni
raccolte. Non garantisco che le mie notizie allora fossero senza
frange patriottiche, ma quando si parla con gente che non vive che di
speranze, l’esserne avari diventa una crudeltà[26].

Un’improvvisa notizia venne nell’autunno a eccitare gli animi, e a
mettere le fantasie in moto per trovare nuovi modi di dimostrazioni e
di proteste. Si diceva che l’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe
sarebbe venuto a Milano nel prossimo gennaio, con grande apparato,
togliendo lo stato d’assedio e inaugurando, con concessioni e riforme,
un nuovo regime di Governo. Si diceva che il Governo austriaco
impensierito dall’attitudine del Piemonte, sospettando accordi tra
Napoleone e Cavour, e sollecitato dall’Inghilterra, volesse assopire la
questione italiana col dare prontamente al Lombardo-Veneto l’assetto, o
almeno l’aspetto, d’un paese pacificato.

Un primo avviso di queste nuove intenzioni del Governo fu una
Circolare, che nell’autunno ricevettero tutte le famiglie nobili
del Lombardo-Veneto, e colla quale venivano invitati _i Signori e
le Dame a dichiarare se volessero prender parte alle festività che
avrebbero avuto luogo nell’occasione della prossima dimora delle LL.
MM. Imperiali e Reali in Milano, per ricevere a suo tempo i relativi
inviti_.

Questa Circolare fece l’effetto d’un sasso lanciato in un vespaio.
Non si parlò d’altro per parecchie settimane. Fra le famiglie
dell’aristocrazia milanese e lombarda che avevano un’attitudine più
risoluta e più battagliera contro il Governo austriaco, corse subito
la parola d’ordine ferma e sdegnosa di respingere qualsiasi invito
che venisse dal Governo o dalla Corte austriaca, e di astenersi
rigorosamente dalle feste governative, pubbliche o private. Il
proposito era buono ed energico, ma ciò che importava era che fosse
seguito dal maggior numero possibile di persone, affinchè il vuoto
che si voleva fare intorno al Governo e alla Corte fosse esteso, e
riuscisse una grande dimostrazione.

Pochissimi risposero a quella prima Circolare governativa, ne fu quindi
mandata una seconda, seguita da uffici e da pressioni che gli stessi
Delegati provinciali (Prefetti) facevano personalmente, recandosi nelle
famiglie a sollecitare una risposta, che quasi sempre era, evasiva o
negativa.

A queste premure e pressioni dell’autorità ne venivano contrapposte
anche di più energiche da parte dei cittadini, specialmente nella
società e nelle famiglie più distinte e più in vista. La protesta
dell’astensione e della resistenza alle nuove lusinghe, andò prendendo
proporzioni sempre maggiori, e diventò all’occorrenza battagliera, di
fronte alle difficoltà, sempre maggiori, che si dovevano superare. Per
un paio d’anni, come vedremo man mano, fu questo il campo principale
d’azione su cui combattè il patriottismo intransigente e militante.

Ma l’astensione non bastava, bisognava far subito qualcosa di più,
qualcosa che facesse rumore anche fuori di Milano, e che fosse
specialmente un attestato di simpatia verso il Piemonte. Si pensò
quindi di raccogliere secretamente dei contributi per un monumento
dedicato all’esercito piemontese, da offrirsi alla città di Torino in
nome dei milanesi nell’occasione della venuta dell’Imperatore d’Austria
in Lombardia. Chi primo suggerì questo pensiero, fu Cesare Correnti: la
sottoscrizione fu accolta con entusiasmo.

Le signore, _le oche_ specialmente, come si continuava a chiamarle,
raccoglievano i denari, e in breve si ebbe la somma occorrente: si
diede la commissione del monumento allo scultore Vela, e se ne diffuse
la notizia per tutta Italia e all’estero.

Queste dimostrazioni, colle quali si chiudeva il 1856, erano lo squillo
di tromba che ordinava al paese di stare in guardia. Col nuovo anno
stava per incominciare un periodo pericoloso, un periodo di blandizie
e di promesse, che l’Austria iniziava col viaggio solenne in Italia
dell’Imperatore. Bisognava dunque star desti, bisognava tenere eccitati
gli animi, per respingere clamorosamente tutto ciò che l’Austria ci
offriva.

In casa di Carlo d’Adda, col quale incominciai quell’anno a stringere
una più intima amicizia, la vicina venuta dell’Imperatore d’Austria
a Milano fu presto uno degli argomenti sui quali si accesero le più
calorose conversazioni; conversazioni in cui tutti erano d’accordo, e
alle quali davano una speciale importanza la qualità e il numero delle
persone che vi prendevan parte.

Carlo d’Adda era uno dei figli di quel marchese Febo, mecenate
d’artisti, a cui il Parini aveva dedicata l’ode alla Musa nel 1795,
poco prima che la moglie, contessa Kevenhüller viennese, desse alla
luce il suo primogenito. Il terzo figlio maschio, Carlo, in unione a
Cesare e Rinaldo Giulini, con Carlo e Alessandro Porro, con Anselmo,
Guerrieri Gonzaga, coi Prinetti, coi Mainoni, e con parecchi altri,
apparteneva a quel nucleo della giovane aristocrazia milanese, che
assieme ad altri gruppi di studenti e di giovani della borghesia più
intelligente, formava prima del 48, una delle avanguardie in Milano del
partito nazionale.

Quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate Carlo d’Adda era a
Torino: c’era andato poco prima, d’accordo col Correnti e cogli amici,
e unitamente col conte Enrico Martini, ebbe allora degli abboccamenti
con Carlo Alberto per sollecitare la venuta delle truppe piemontesi in
Lombardia[27].

Dopo il 1848 aveva fatto delle lunghe assenze da Milano, e aveva
sposata una sua nipote, donna Mariquita figlia del principe Antonio
Falcò, spagnuolo, stabilito a Milano, che aveva sposato successivamente
due figlie del marchese Febo. Donna Mariquita era assai bella e un
bel giovane era anche Carlo d’Adda, il quale pur si distingueva
per la schiettezza e la lealtà del carattere, per la vivacità e
la franchezza della parola. La forma risoluta con cui esprimeva i
suoi principii patriottici e le sue opinioni politiche, lasciarono
alle volte supporre, a quelli che male lo conoscevano, che fosse
intransigente e intollerante; ma non era vero; aveva l’animo aperto e
buono, intollerante solo di ciò ch’era volgare. Amico del Bertani, e di
parecchi altri che non militavano nel suo campo, soleva dire: «Rispetto
tutti i patriotti, ma preferisco» soggiungeva scherzando «quelli che si
lavano, e che si battono.»[28].

Donna Mariquita, di carattere franco ed aperto essa pure, esercitava
un gran fascino nella società che la circondava, colla vivacità e collo
spirito della sua conversazione. Per molti anni non ricevette che nella
sua camera da letto, trattenutavi da una lunga infermità; ma quella
camera non cessò mai d’essere il ritrovo della società più eletta
di Milano; ritrovo patriottico, elegante, ove regnava un’ospitalità
semplice e signorile.

Una gran parte, di quelli che frequentavano casa d’Adda, avevano
ricevuto nell’autunno di quell’anno gli inviti e le sollecitazioni
governative per far omaggio all’Imperatore nell’occasione della
sua venuta a Milano. Quegl’inviti e quelle sollecitazioni erano
bersaglio ora dei fieri assalti di Carlo d’Adda e delle ironie di
donna Mariquita. Quella lotta incominciata in quei giorni doveva poi
prolungarsi, acutissima, durante l’anno seguente contro l’arciduca
Massimiliano.

Il d’Adda esercitava molta influenza nell’aristocrazia patriottica
milanese, e fu uno degli uomini più stimati nel partito liberale
monarchico. Dopo il 1859 Cavour lo nominò Governatore di Torino, e in
Milano tenne successivamente diverse cariche cittadine, con lo zelo
e col cuore che lo distinguevano: fu Consigliere Comunale, Presidente
degli Istituti ospitalieri, Presidente della Congregazione di carità
e di molte altre pubbliche istituzioni, lasciando da per tutto traccia
per le sue iniziative e per le sue sagge riforme.


  NOTE.

  [26] Sulla fine di quell’autunno scrissi uno scherzo poetico,
  al quale non è mancata una certa notorietà e che rammenterò qui
  seguendo l’ordine cronologico della mia narrazione.

  Eravamo vicini alla riapertura delle scuole, e un giorno una
  buona donna, che abitava presso la nostra casa di Tirano, venne
  da me conducendo un suo figliuolo che era scolare di ginnasio,
  credo a Como. La madre mi disse che quel suo figliuolo era tutto
  mortificato, perchè non gli era riuscito di fare uno dei compiti
  autunnali datigli dal professore: veramente lo aveva principiato,
  ma non aveva saputo andare innanzi.

  Il ragazzo piangeva, e io, lasciandomi intenerire, mi offersi di
  finirgli quel disgraziato compito. Trattavasi d’una poesia, il
  cui argomento, scelto tra i molti che correvano per le scuole a
  quei tempi, era: _La partenza del Crociato per la Palestina_. Lo
  scolaretto aveva cominciata la sua poesia così:

      «Passa un giorno, passa l’altro
        Mai non torna il nostro Anselmo,
        perchè egli era molto scaltro
        Andò in guerra e mise l’elmo...»

  Qui s’era fermato. Nel leggere quei versi mi balenò una tentazione
  cattiva, ma irresistibile; dissi alla madre e al figlio che
  ritornassero il giorno dopo, e che la poesia l’avrei finita io.

  Corsi nel mio studio, ripetei quei quattro versi declamandoli, e il
  seguito venne da sè.

      LA PARTENZA DEL CROCIATO

      «Passa un giorno, passa l’altro
        Mai non torna il nostro Anselmo,
        Perchè egli era molto scaltro
        Andò in guerra, e mise l’elmo...»

      Mise l’elmo sulla testa
        Per non farsi troppo mal
        E partì la lancia in resta
        A cavallo d’un caval.

      La sua bella che abbracciollo
        Gli diè un bacio e disse: Va!
        E poneagli ad armacollo
        La fiaschetta del mistrà.

      Poi, donatogli un anello
        Sacro pegno di sua fè,
        Gli metteva nel fardello
        Fin le pezze per i piè.

      Fu alle nove di mattina
        Che l’Anselmo uscia bel, bel,
        Per andare in Palestina
        A conquidere l’Avel.

      Nè per vie ferrate andava
        Come in oggi col vapor.
        A quei tempi si ferrava
        Non la via ma il viaggiator.

      La cravatta in fer battuto
        E in ottone avea il gilè,
        Ei viaggiava, è ver, seduto
        Ma il cavallo andava a piè.

      Da quel dì non fe’ che andare,
        Andar sempre, andare, andar...
        Quando a piè d’un casolare
        Vide un lago, ed era il mar!

      Sospettollo... e impensierito
        Saviamente si fermò.
        Poi chinossi, e con un dito
        A buon conto l’assaggiò.

      Come fu sul bastimento,
        Ben gli venne il mal di mar
        Ma l’Anselmo in un momento
        Mise fuori il desinar.

      Il Sultano in tal frangente
        Mandò il palo ad aguzzar,
        Ma l’Anselmo previdente
        Fin le brache avea d’acciar.

      Pipe, sciabole, tappeti,
        Mezze lune, jatagan,
        Odalische, minareti,
        Già imballati avea il Sultan.

      Quando presso ai Salamini
        Sete ria incominciò,
        E l’Anselmo coi più fini
        Prese l’elmo, e a bere andò.

      Ma nell’elmo, il crederete?
        C’era in fondo un forellin
        E in tre dì morì di sete
        Senza accorgersi il tapin.

      Passa un giorno, passa l’altro,
        Mai non torna il guerrier,
        Perch’egli era molto scaltro
        Andò in guerra col cimier.

      Col cimiero sulla testa,
        Ma sul fondo non guardò
        E così gli avvenne questa
        Che mai più non ritornò.

  Il giorno dopo, quando la madre e il figlio ritornarono, il
  delitto era consumato. Ascoltai senza rimorso le parole della loro
  riconoscenza, e consegnai il foglio.

  Passati alcuni mesi, mentre facevo un esame di laurea
  all’Università di Pavia, osservai che i professori mi guardavano
  con una certa curiosità, parlando piano tra loro, e ridendo. Finito
  l’esame, uno d’essi mi accompagnò dicendomi: Dunque... _passa un
  giorno passa l’altro_... è lei l’autore della _Ballata_?

  Allora, in bel modo, lo interrogai anch’io alla mia volta, e seppi
  che aveva avuto il mio _Crociato_ da un suo amico professore a
  Como; forse il professore di quel famoso studente.

  Da quel giorno il Crociato peregrinò lungamente a mia insaputa, e
  me lo trovai dinanzi ogni momento, ora diminuito, ora accresciuto,
  e spesso spropositato. Per questa ragione, per gli spropositi cioè
  ond’è stato infiorato quello scherzo nelle varie copie e ristampe
  che ne sono state fatte, lo riproduco in questa nota nel suo testo
  originale, perchè in fatto di spropositi preferisco i miei.

  E lo studente? L’anno dopo ebbe un posto in Seminario, divenne
  prete, e... _passa un giorno, passa l’altro_, oggi vive ancora; ma
  nella sua carriera non andò al di là della prima strofa, come gli
  era accaduto nel suo componimento poetico.

  [27] Il d’Adda veniva introdotto nel gabinetto del Re dal ministro
  Casaretto, talora secretamente, e di sera; Carlo Alberto voleva
  essere informato di tutto quanto accadeva in Milano e in Lombardia;
  la parola schietta e franca del d’Adda era sempre d’eccitamento a
  Carlo Alberto, sopratutto negli ultimi giorni quando si trattava
  di prendere la gran decisione, sorpassando le gravi difficoltà
  che circondavano il Re e le urgenti pressioni che gli venivano
  dall’estero.

  Nel tempo stesso Carlo d’Adda legato con parecchi dell’alta Società
  torinese, quali erano Azeglio, Balbo, Collegno, Alfieri, Cavour,
  in unione coi lombardi che si trovavano a Torino, e a parecchi
  del partito liberale, esercitava un’azione attiva sull’opinione
  pubblica che si agitava in quei giorni a Torino e in tutto il
  Piemonte per spingere il paese e il Governo alla guerra contro
  l’Austria.

  [28] Fin dal 1848, quando si discuteva sull’annessione della
  Lombardia al Piemonte, il d’Adda scriveva in una lettera del 18
  aprile da Torino al Governo Provvisorio: «Repubblica, o monarchia
  costituzionale, io servirò sempre fedelmente il mio paese; ma
  adesso è desiderio mio, come di tutti gli uomini ragionevoli, che
  la forma del Governo sia votata liberamente dal popolo, che nessun
  fatto si provochi che influisca sulla libera volontà del paese».
  _Lettera al Governo Provvisorio_ nel Museo del Risorgimento.




CAPITOLO XXIII.

1857.

  _Sommario:_ Provvedimenti del Governo austriaco per rendere solenne
  la venuta dell’Imperatore in Lombardia. — Accordi nella società
  milanese per la resistenza e per l’opposizione. — Emilio Dandolo,
  Soncino, Mancini, Carcano, ed altri mandati a domicilio coatto. —
  Ammonizioni al _Crepuscolo_. — Il solenne ingresso dell’Imperatore
  in Milano. — Il contegno della popolazione. — In casa Dandolo. — Le
  fotografie del monumento all’esercito piemontese. — Il ricevimento
  a Corte. — Ministri al seguito dell’Imperatore. — Il conte
  Archinto. — Il ministro austriaco Buol risponde alle dimostrazioni
  italiane del Governo piemontese richiamando il ministro d’Austria
  da Torino, e il Piemonte fa altrettanto. — Amnistia ai prigionieri
  politici, e dimostrazioni provocate dalla Polizia. — Amici che
  ritornano dalle prigioni di Josephstad e Theresienstad. — Il
  maresciallo Radetzki esonerato dalle funzioni di comandante
  civile e militare del Lombardo-Veneto. — Parziale soppressione del
  _Crepuscolo_. — Lamarmora presenta la legge sulle fortificazioni
  di Alessandria, sul porto della Spezia e Cavour sul traforo del
  Cenisio. — La Farina fonda la Società Nazionale. — Lo sbarco di
  Pisacane a Sapri. — Nomina dell’Arciduca Massimiliano a governatore
  generale del Lombardo-Veneto. — Sua venuta a Milano. — La medaglia
  di Sant’Elena.


La causa italiana riceveva dal Cavour un impulso gagliardo e un nuovo
avviamento. Egli voleva toglierla dall’ambito puramente rivoluzionario
in cui era rimasta negli ultimi tempi; voleva staccarla dall’azione
del Comitato di Londra, terreno su cui era facile alle Potenze il
combatterla. Cavour aveva accusato l’Austria di mantenere l’Italia
in uno stato rivoluzionario, mentre dimostrava che l’ordine era
rappresentato dal Piemonte; e per di più accusava l’Austria d’aver
sconfinato nell’interpretare i poteri datigli in Italia dagli stessi
trattati di Vienna. Era dunque in nome dei principii conservatori che
Cavour difendeva l’Italia dinanzi ai gabinetti; ma era recente il 6
febbraio, bisognava dunque dare alla politica italiana un indirizzo
diverso, togliendolo dalle mani del partito rivoluzionario.

L’Austria vide questo pericolo; quindi la venuta dell’Imperatore
Francesco Giuseppe a Milano non fu soltanto un fatto di politica
interna, ma soprattutto era un atto di politica estera; era
evidentemente una concessione alle preoccupazioni di alcune potenze
europee, specialmente dell’Inghilterra; la quale voleva bensì che le
condizioni dei paesi italiani fossero migliorate, ma non voleva che
ciò fosse argomento di complicazioni europee, ed era quindi in sospetto
per l’attitudine sempre più energica del Piemonte e quella sempre meno
tranquillante di Napoleone.

Le persone influenti, e che avevano una direzione dell’opinione
patriottica, non tardarono a richiamare l’attenzione pubblica
sull’importanza che avrebbe avuto il viaggio dell’Imperatore,
sollecitati anche da informazioni e da consigli autorevoli che venivano
da Torino.

La parola d’ordine fu subito che si dovesse cospirare di nuovo, e
lavorare attivamente, per mandare all’aria i progetti imperiali, in
modo che in faccia a tutto il mondo il viaggio dell’Imperatore mancasse
allo scopo, ed apparisse un fiasco.

Bisognava dunque, quando l’Imperatore fosse in Italia, fare il vuoto
intorno a lui, ai suoi ministri e a tutto il suo seguito; bisognava che
tutte le persone più notevoli delle classi dirigenti, delle classi più
in vista, si tenessero in disparte; che nessuno cedesse nè a lusinghe,
nè a pressioni; bisognava insomma rendere più evidenti e più clamorose
l’astensione e la resistenza.

A tali scopi erano dirette in quei giorni la propaganda e l’agitazione
in tutte le società, in tutti i ritrovi. Le signore più alla moda, più
eleganti, più belle, insomma tutte le _oche_, come si diceva, erano
nella cospirazione: il non essere nella _Fronda_, era non essere alla
moda. Quanto bene non fecero allora quelle signore!

In ogni ritrovo cittadino non si parlava d’altro, e di salotto in
salotto correva la parola d’ordine sul contegno da tenersi, e sulle
dimostrazioni di resistenza che la città avrebbe dovuto fare durante
tutto il tempo del soggiorno dell’Imperatore in Milano. Guai a chi
avesse mancato alla disciplina; e coi timidi e cogli incerti non si
lasciavano mancare anche certe minacce; si minacciava, cioè, di non
riceverli nelle case, ove solevano andare, e di non salutar più, quelli
che avessero accettati gli inviti a Corte, o avessero fatto qualsiasi
atto di deferenza all’Imperatore e a chi era con lui. In casa Maffei,
in casa d’Adda, in casa Dandolo e Carcano, in casa del marchese Luigi
Crivelli, e in molte altre frequentate da giovani, l’eccitazione era
grandissima: pareva che tutti si preparassero a una battaglia.

Si pensi quanto fossero frequentate e vivaci le serate di casa
Maffei. Mio fratello Enrico che, sebbene da poco avesse fatto il suo
ingresso in società, già la frequentava più di Emilio e di me, e vi
era desiderato per la schiettezza del suo carattere e pel suo spirito
buono e finalmente gioviale, capitava ogni sera in casa Maffei col
bollettino delle notizie e delle prime avvisaglie. Ci va? o non ci va?
(a Corte, s’intende), era una delle domande che s’udivano più spesso,
e su cui si facevano discussioni accanite e perfino delle scommesse
a proposito di qualche signora in pericolo; in pericolo s’intende di
cedere alla pressione di qualche suocero timido, che volesse mandarla a
un ricevimento di Corte. Mio fratello portava le notizie intime, le più
accreditate, le più sicure.

Non meno eccitate erano le autorità austriache; continuamente in
faccende a spiarci, a far pressioni con ordini e con circolari ora
lusinghiere e dolci, ed ora minacciose.

Alcune settimane prima della venuta dell’Imperatore, la Polizia, per
dare un avviso alla gioventù milanese, ne mandò parecchi dei più in
vista a domicilio coatto. Tra questi rilegò Emilio Dandolo ad Adro,
Massimiliano Stampa Soncino a Bormio, Lodovico Mancini a Edolo,
Costanzo Carcano a Mariano, e in altri luoghi altri di cui non ramento
i nomi; e ci dovettero stare finchè l’Imperatore rimase a Milano.

Un gran da fare della Luogotenenza e della Polizia era pur quello di
indurre almeno qualche signora dell’aristocrazia a presentarsi a Corte.
Citerò, tra i molti, un episodio che ancora ricordo, e che può dare
un esempio dei piccoli maneggi che si usavano per trovare una qualche
recluta per la Corte.

Il marchese Carlo Ermes Visconti, marito da poco d’una bella e colta
sposa, la contessa Teresa Sanseverino Vimercati, si trovava un giorno
in casa d’uno zio di sua moglie, il principe Porcia. Questo signore
aveva dei beni feudali in Austria, e vi diventò poi membro della
Camera dei Signori; viveva a Milano, ove in età avanzata sposò la
contessa Vimercati, vedova Bolognini, sorella del conte Ottaviano
e madre della futura duchessa Eugenia Litta. Il giovane marchese
Visconti durante la sua visita, si trovò di fronte al barone Burger,
ch’era il luogotenente austriaco della Lombardia, venutoci casualmente
dopo. Il Burger condusse a poco a poco il discorso sulla prossima
venuta dell’Imperatore a Milano, e disse a Visconti a bruciapelo:
«Spero bene che lei condurrà a Corte sua moglie, che sarà una delle
gemme dei ricevimenti imperiali». Il Visconti, senza esitare, rispose
francamente: «Barone, non ci calcoli». Il Barone insistette, prima con
modi cortesi e insinuanti, poi con l’aria altera e brusca. Alla fine
il Visconti gli rispose: «Se andassi a Corte, farei un atto contrario
alle mie convinzioni, e contro il mio paese; dopo un atto simile non mi
resterebbe che di espatriare». Il Burger non disse altro, e così cessò
la conversazione.

Tra i provvedimenti della Polizia, di cui molto si parlò in Milano,
ci fu la chiamata di Carlo Tenca per una speciale ammonizione. Il
direttore di Polizia gli disse che la luogotenenza sperava di vedere
nel _Crepuscolo_ annunziata degnamente la venuta dello Imperatore. Il
Tenca rispose che il suo giornale per massima non si occupava dei fatti
interni dell’Austria, e quindi non trovava ragione per occuparsi del
viaggio dell’Imperatore. Il direttore, un po’ colle buone, un po’ colle
brusche, cercò dimostrargli come questo viaggio fosse un avvenimento di
cui s’occupava l’opinione pubblica di tutta Europa, e come il tacerne
avrebbe avuto un carattere di opposizione che il Governo non poteva
tollerare. Il Tenca, ch’era uomo dall’aspetto freddo e di poche parole,
non aggiunse altro, e se ne andò.

Una simile intimazione gli fu ripetuta alla vigilia della venuta
dell’Imperatore, con la minaccia, questa volta, della soppressione del
giornale, visto che il _Crepuscolo_ era assai noto all’estero, e che
era salito in fama tra le persone colte; circostanza che avrebbe reso
più grave il suo silenzio. Tenca ripetè la sua prima risposta, rimase
fermo, non si piegò.

Il giorno 15 gennaio l’Imperatore Francesco Giuseppe fece il suo
ingresso solenne in Milano. Prima si fermò sul piazzale di Loreto ove
era atteso, sotto un padiglione, dal Podestà, conte Sebregondi, e dalle
altre autorità. Poi, proseguendo entrò in città dalla Porta Orientale,
detta comunemente Porta Renza, ed ora Porta Venezia, e per il Corso
Francesco, ora Vittorio Emanuele, si recò al palazzo di Corte (il
_Corso Francesco_, denominazione ufficiale, era comunemente chiamato
_corsia de’ Servi_, poichè sulla attuale piazza di S. Carlo esisteva
una chiesa detta di _Santa Maria dei Servi_, essendo congiunta a un
_Convento di Serviti_. La Chiesa di S. Carlo fu inaugurata nel 1847).

L’intesa tra i cittadini era che lungo le vie, che dovevano essere
percorse dal corteo imperiale, non solo non ci fossero addobbi, ma
rimanessero chiuse anche le persiane.

Poco prima che incominciasse l’entrata m’ero recato dalla piazza del
Duomo alla Porta Orientale per vedere se l’intesa era mantenuta. Vidi
che in gran parte lo era, ma vidi anche dei commissari di Polizia che
entravano mano mano nelle case a far aprire le finestre, e a farle
addobbare con tappeti o con drappi. Per le strade non c’era molta
gente; un po’ di popolani, ma le persone più civili evitavano il
Corso. Mi recai subito dalla contessa Dandolo, che abitava in casa
del marchese Luigi Crivelli, appunto sul Corso di Porta Orientale al
secondo piano verso strada, sicuro di trovarci degli amici, e anche
per vedere di nascosto l’entrata dell’Imperatore spiando traverso le
persiane, ch’eran chiuse. Trovai infatti dalla contessa parecchi amici,
tutti lieti per le buone notizie che ci scambiammo sull’astensione
della miglior parte dei cittadini.

A un tratto il servitore della contessa entra in sala ad annunziare
un commissario di Polizia. Costui veniva a intimare che si aprissero
subito le persiane, e che si addobbassero le finestre con stoffe,
tappeti, od altro. La contessa Ermellina lasciò partire il commissario,
poi prese una pelle di tigre, che stava dinanzi a un divano, e la mise
alla finestra per addobbo, come drappo. Chi passava guardava in su,
rideva, e principiava a far crocchio. Ma ecco di nuovo il commissario
con tanto d’occhi fuori, scalmanato, investendoci tutti e ordinando che
fosse subito levata quella pelle, mentre la contessa dichiarava di non
aver altri addobbi. Tolta la pelle, il commissario ridiscese in strada,
e intanto arrivava il corteo che precedeva e seguiva la carrozza
dell’Imperatore. Non un applauso, non un evviva, neppure tra quella
plebe che applaude a tutti. Solamente, e proprio presso casa Dandolo,
alcuni ragazzacci vociarono qualcosa che poteva esser preso per degli
evviva; allora Giulio Venino, ch’era con noi, mandò un sonorissimo
fischio che fece rivolgere il viso in su a tutti i componenti il
corteo. Il corteo intanto procedeva attraversando una folla fredda e
silenziosa.

Nella giornata corse la voce che all’Imperatore, appena arrivato al
padiglione di Loreto, fosse giunta la notizia che il Municipio di
Torino aveva, quella mattina stessa, accolta l’offerta del monumento
all’esercito sardo, presentata da una deputazione milanese. Ciò forse
spiegava il malumore dell’Imperatore, e l’accoglienza fatta al Podestà,
che i presenti avevano osservato[29].

Alcuni giorni prima, mio fratello Emilio aveva ricevuto, secretamente,
un pacco di fotografie di quel monumento, ch’era ancora nello studio
del Vela. Ci mettemmo in parecchi a distribuire quelle fotografie, in
modo che fossero recapitate principalmente alle persone del seguito
dell’Imperatore, e che i ministri le trovassero, arrivando, nei loro
alloggi, e sulle loro scrivanie. Si seppe poi che quella distribuzione
aveva avuto un esito felicissimo.

Pochi giorni dopo ci fu il ricevimento e la presentazione a Corte della
autorità e degli invitati. Era una giornata interessante, poichè si
sarebbero conosciuti e contati quelli che ci andavano. Il ricevimento
a Corte avvenne di giorno. Molti giovani della migliore società, molte
signore, quasi tutti invitati, si diedero ritrovo in piazza del Duomo,
e dinanzi al palazzo di Corte, facendo ala per vedere chi ci entrava, e
per assistere allo sfilare delle carrozze. Passavano tra l’indifferenza
quelle delle autorità austriache ed italiane, e della società
ufficiale; ma la curiosità e i sorrisi ironici degli spettatori eran
rivolti verso le carrozze, che in verità furon poche, degli invitati.
Alcuni cercavano nascondersi nel fondo della carrozza, o calavano le
tendine, per non essere veduti.

La sera in tutte le riunioni, in tutti i salotti, non si parlò che del
ricevimento dell’Imperatore e della famosa sfilata, ed era un continuo
scambiarsi di notizie. Le notizie erano buone; le diserzioni erano
state pochissime e parecchie di queste venivano scusate con qualche
circostanza attenuante.

Cose piccole possono sembrar queste a chi le guarda a tanta distanza di
tempo; ma pure furono cose grandi, se si pensa alla meta che si voleva
raggiungere, e che fu raggiunta.

Quel primo ricevimento era fallito; era riuscito una cosa misera. Le
autorità austriache non se lo dissimulavano, e ne erano furenti: in
città si gongolava di contentezza, perchè quella prima battaglia era
stata vinta.

Per molte famiglie dell’aristocrazia l’astensione fu un atto
coraggioso, e veramente meritorio. In alcune di esse c’erano tradizioni
di antiche relazioni personali, in altre legami di parentela con
famiglie, e con personaggi militari o politici austriaci; in altre
giovani e vecchi rappresentavano due correnti diverse, e ora si erano
fuse in una sola. Nel secolo antecedente, l’Imperatrice d’Austria Maria
Teresa, che si occupava anche delle faccende private delle famiglie
dei suoi sudditi, aveva combinati, e talora imposti, dei vincoli
matrimoniali tra famiglie austriache e lombarde dell’aristocrazia:
da ciò eran venute delle relazioni di parentela e d’amicizia. Nel
1848 queste relazioni furono rotte; certe fiere ripulse, anche negli
anni successivi, meritano quindi d’essere menzionate nella storia del
patriottismo lombardo.

Accompagnavano l’Imperatore ministri e personaggi politici, per
accrescere l’importanza del viaggio, e anche per studiare, come
dicevano, le condizioni del paese. A tale scopo ebbero dei colloqui con
qualche vecchio funzionario, o con qualche persona da loro conosciuta
in passato; ma dai discorsi, e dalla qualità delle persone chiamate,
si capì subito che il Governo austriaco non aveva l’intenzione di
far nulla sul serio a beneficio delle provincie Lombardo-Venete, e
credeva bastassero pochi provvedimenti illusori per tener a bada la
popolazione, e sviare l’attenzione della diplomazia.

Tra le persone che i ministri interrogarono, sapendo forse anch’essi
di non far cosa seria, ci fu il conte Giuseppe Archinto. Costui era
uno strano personaggio; apparteneva all’antico patriziato milanese, e
andava dilapidando un gran patrimonio per la mania di fare il grande.
L’Imperatore lo aveva mandato, quale ambasciatore straordinario,
a chiedere al Re del Belgio la mano di sua figlia, la principessa
Carlotta, pel fratello arciduca Massimiliano. Il conte Archinto v’era
andato, e vi aveva sfoggiato, a sue spese, un lusso di cui si parlò
da per tutto e per un pezzo. Il Governo austriaco gli mostrava quindi
molta deferenza; e il conte accettava gli omaggi con fare altiero, e
trattava da pari coi più alti personaggi dell’Impero. Anzi, mentre
l’Imperatore era a Milano, egli ebbe a lamentarsi una volta perchè
questi lo avesse trattato con troppa confidenza; ed invitato a pranzo
a Corte, ricambiò subito l’invito ai ministri e alle cariche di Corte
dicendo: «mostrerò loro che se a Corte si _mangia_, in casa Archinto
si _pranza_.» In casa sua egli aveva da tempo introdotte le usanze e le
etichette d’un regnante.

Per assecondare la vanità di questo personaggio _decorativo_,
i ministri lo invitarono a proporre un ordinamento nel regno
Lombardo-Veneto che potesse soddisfare le popolazioni. Il conte accettò
l’incarico, e propose un ordinamento somigliante a quello che c’era nel
seicento, al tempo degli spagnoli in Lombardia, con un Senato composto
dei più alti personaggi dell’aristocrazia, e con un presidente la
cui autorità fosse superiore a tutte le autorità governative. Non era
difficile indovinare chi dovesse essere poi quel presidente.

I ministri, oltre il conte Archinto, interrogarono qualche personaggio
più serio sulle condizioni del paese, ma tenendosi sempre in una
cerchia molto ristretta di persone e di idee.

Per controbilanciare in faccia all’Europa l’effetto che l’Imperatore
voleva raggiungere col lasciar credere pacificati i suoi Stati
italiani, e quindi spenta la questione italiana, Cavour, il giorno in
cui l’Imperatore entrava in Milano, riconfermava dinanzi al Parlamento
Subalpino i propositi liberali e nazionali della politica piemontese,
e faceva annunziare dai giornali l’offerta dei milanesi alla città di
Torino di un monumento all’esercito sardo, e quella dei cento cannoni
delle città lombarde ad Alessandria. Pochi giorni dopo il ministro
austriaco Buol mandava un dispaccio aspro e sdegnoso al gabinetto
di Torino, e richiamava il suo incaricato d’affari. Cavour fece
altrettanto.

Queste mosse abilissime di Cavour riscaldavano le fantasie, sostenevano
i propositi di resistenza e rianimavano tutti in quei momenti difficili
a continuare quella lotta passiva, che pure era piena di difficoltà e
di pericoli.

In quei giorni vedevo ricomparire nella studio di mio fratello Emilio
alcuni antichi mazziniani che, dopo il 6 febbraio, non avevo più
riveduti. Emilio era sempre considerato come una delle persone più
importanti, come il capo della gioventù che aveva preso parte alle
cospirazioni; e quei vecchi conoscenti erano spinti verso di lui dal
presentimento di fatti nuovi e vicini. C’era anche in essi il segreto
pensiero, non ancora confessato, che il capo della nuova riscossa
sarebbe stato Cavour; e tacitamente accettavano il nuovo capitano, e
la nuova bandiera, ma a patto che si facesse subito qualcosa. Rimasti
rivoluzionari venivano a ogni tratto con qualche progetto di stile
mazziniano, e non volevano lasciar passare l’occasione della presenza
dell’Imperatore e di tanti personaggi a Milano, senza tentare qualcosa,
fosse pure un altro 6 febbraio, _cavouriano_, purchè fosse una
sommossa. Emilio li ascoltava, e li dissuadeva. Ricordo ancora la sua
calma, la sua pazienza, e i ragionamenti coi quali diplomaticamente li
persuadeva a non fare degli spropositi.

La Polizia invece aveva fatta una propria dimostrazione tre giorni
dopo la venuta dell’Imperatore. Il 18 di gennaio era stata pubblicata
la amnistia pei prigionieri politici che ancora si trovavano nelle
fortezze austriache; i sequestri agli emigrati erano stati tolti
alcune settimane prima. La Polizia pensò di promuovere in città
una illuminazione, che doveva simulare una spontanea espressione di
gratitudine per l’atto sovrano, e mandò di casa in casa dei Commissari
ad ingiungere che quella sera venissero illuminate le finestre.
Alcuni illuminarono, ma moltissimi si rifiutarono anche dopo ripetute
ingiunzioni. Tra i palazzi le cui persiane rimasero chiuse ci furono
quelli dei d’Adda, sul corso chiamato allora di _Porta Nuova_, ora
via A. Manzoni. La Polizia li prese specialmente di mira, e diresse
verso quella via un’accozzaglia di popolaccio che aveva mandato in
giro a gridar _fuori i lumi_ e che, fermatasi dinanzi ai tre palazzi
dei d’Adda, dopo un coro spaventevole di urli e di fischi, ne fracassò
a sassate le persiane e i vetri. Altri palazzi ebbero un simile
trattamento in qualche altro punto della città.

Carlo d’Adda molti anni dopo ricordò quei fischi in una tornata del
Consiglio comunale di Milano. Mentre parlava, non rammento su quale
argomento, con quella franchezza ch’era abituale in lui nemico della
popolarità volgare, dalla tribuna pubblica gli furono indirizzati dei
fischi; ed egli allora, volgendosi verso quelli che avevano fischiato e
fissandoli fieramente: «È la seconda volta, disse, che vengo fischiato;
la prima lo fui dalla plebaglia, per non aver illuminata la mia casa in
onore dell’Imperatore d’Austria!».

Pochi giorni dopo la proclamazione dell’amnistia rivedemmo gli amici
che ritornavano dalle prigioni delle fortezze di Theresienstad e di
Josephstad. Trattati crudelmente durante i processi di Mantova, la
loro sorte dopo era stata meno dura, perchè condannati da tribunali
di guerra furono considerati quasi come militari ed infatti ebbero a
compagni nella prigionia parecchi ufficiali ungheresi degli Honveds.
A loro non toccò il duro trattamento degli antichi prigionieri dello
Spielberg.

Si pensi con quanta gioia si rivedessero quei nostri amici, scampati
miracolosamente dalle forche, e che avevano portate le catene per
cinque anni; non si sarebbe più finito di interrogarli e di sentirli
parlare delle loro vicende. Essi però erano molto riservati, e non
parlavano dei casi passati che nella più ristretta e fidata intimità;
ripugnava loro soprattutto di parlare del processo, durante il quale
c’erano stati degli episodî per loro specialmente dolorosi. C’erano
state, contro alcuni, le terribili confessioni, com’è noto, del
Castellazzo; parecchi erano stati deboli confessando, e peggiorando le
condizioni proprie e degli altri.

A questi, nel loro animo, i migliori avevano perdonato, ricordando le
sofferenze e le torture morali che avevano attraversate; ma non amavano
parlar di loro. Giustamente diceva il dottor Luigi Pastro, che in
questi processi fu uno degli eroi: «Nelle cospirazioni non si entra se
non s’è fatto preventivamente sacrificio della vita.»

L’inverno del 1857 in Milano tutto continuò come s’era incominciato;
da una parte le autorità austriache, dal ministro fino all’ultimo
poliziotto, tutte intente ad allettare, o a minacciare, affinchè
il viaggio dell’Imperatore apparisse un gran successo politico del
Governo; dall’altra un’agitazione nella popolazione sotto la guida
delle classi dirigenti per sventare i propositi austriaci, e per
mantenere il paese continuamente in un’attitudine ostile, intransigente
verso il Governo straniero.

Da questa lotta, ora palese ora celata, veniva una grande eccitazione
nella vita cittadina, ch’era costantemente in fermento. Quali sarebbero
state (tutti pensavano), le conseguenze di quell’attitudine, e di
quell’agitazione? Nessuno poteva ancora prevederlo, ma in tutti
c’era la convinzione che il dovere imponeva di far così. Su ciò non
si discuteva, nè era permesso il discutere, quindi le condanne e le
proscrizioni che la società proferiva contro gli avversari o i deboli,
erano continue e inesorabili. E se c’era qualche caso eccezionale, o si
teneva nascosto, o non se ne parlava.

L’opinione pubblica era così vigile e sospettosa da diventare alle
volte ingiusta, per cui mi trattengo dal pronunciare dei giudizî che
allora correvano sulla bocca di tutti, e che il tempo poi, più volte,
ha dovuto rettificare.

A tanta distanza di tempo certe intransigenze possono parere esagerate,
ma bisogna ricordarsi che noi allora ci consideravamo come dei
combattenti in guerra[30].

Il 28 marzo 1857 il maresciallo Radetzki, comandante supremo
dell’esercito e Governatore generale del Lombardo-Veneto dal 1850 al
1857, veniva messo in riposo, e gli veniva data quale sua abitazione
in Milano la Villa reale presso gli attuali giardini pubblici. Insieme
con questa notizia veniva diffusa la voce che a Vienna si maturassero
grandi progetti a favore delle provincie italiane: progetti che non
venivano precisati, ma che le voci officiose ingrandivano. Intanto per
distrarre la pubblica attenzione, venivano promossi in Milano alcuni
lavori pubblici, tra i quali la Stazione Centrale della ferrovia e i
Giardini pubblici. Ma i freni rimanevano sempre stretti.

In quei giorni Carlo Tenca veniva nuovamente chiamato dal Direttore
di Polizia e dal luogotenente a proposito del _Crepuscolo_. Gli
fu di nuovo severamente osservato che il suo giornale continuava a
non occuparsi dell’Imperatore e del suo soggiorno in Milano, e gli
fu intimato di mutar contegno. Egli si rifiutò, e la Luogotenenza
gli tolse la concessione che nel _Crepuscolo_ ci fosse una Rivista
politica; ciò fu un colpo mortale pel giornale, la cui Rivista gli
procurava una grande diffusione, non essendoci altri giornali politici
all’infuori della _Gazzetta Ufficiale_. La fermezza patriottica del
Tenca che viveva del proprio lavoro e soprattutto del proprio giornale
fu un vero atto eroico: poichè egli sapeva che sarebbe andato incontro
alle più grandi strettezze; e così fu. Il _Crepuscolo_ da quel giorno
andò gradatamente declinando.

Durante l’inverno, e nella primavera ci furono altri duelli cogli
ufficiali, tra i quali ricordo quello di Giacomo Battaglia, con un tal
_Ceti_. Il Battaglia, giovane colto, assai promettente, collaborava nel
_Crepuscolo_, ed era tra gli amici intimi di casa Maffei. Il duello fu
alla pistola, senza conseguenze sgraziate. Gli amici furono in pena pel
Battaglia ch’era affetto da una forte miopia, la quale poi doveva forse
essergli fatale nel combattimento di S. Fermo.

Prima che l’Imperatore lasciasse Milano, si fecero più insistenti
le voci che le provincie Lombardo-Venete avrebbero avuto un nuovo
ordinamento; si disse che un arciduca, anzi lo stesso fratello
dell’Imperatore, l’arciduca Massimiliano, sarebbe venuto quale
Governatore generale; si disse che le provincie avrebbero avuto una
larga autonomia, e perfino, secondo alcuni, una semi-indipendenza.

Gli sguardi si rivolgevano ancora più al Piemonte, che seguiva nel
frattempo una politica accorta, intenta ai più alti interessi politici
ed economici, non solo piemontesi, ma italiani. Lamarmora presentava
al Parlamento la legge sulle fortificazioni d’Alessandria, e Cavour
proponeva la creazione del porto militare della Spezia, e il traforo
del Cenisio. La Farina, d’intesa con Cavour, istituiva la Società
nazionale, che presto veniva diffusa in tutta Italia, il cui scopo era
di associare e di disciplinare tutte le forze vive del paese sotto la
bandiera dell’Italia _Una_ con Vittorio Emanuele, secondo il programma
di Manin.

Ma il Manin non doveva vedere lo svolgimento del suo programma, che
principiò solo un anno dopo, a Plombières; egli morì a Parigi nel
settembre dell’anno 1857.

A rendere sempre più forte l’autorità morale di Cavour ci furono anche
in quell’anno le solite imprese vane di Mazzini; e cioè lo sbarco pur
generoso di Pisacane a Sapri, ma che finì miseramente, e un tentativo
di sommossa a Genova che indignò l’opinione pubblica.

Le grandi riforme che dovevano tener dietro alla venuta dell’Imperatore
a Milano, si limitarono alla nomina del fratello di lui, l’arciduca
Massimiliano, a Governatore generale del Lombardo-Veneto: vero è che,
secondo le _voci ufficiali_, le grandi riforme sarebbero venute dopo.

L’Arciduca era un bel giovane, ed era pure una bella giovane
l’Arciduchessa. Chi avrebbe presagito allora a quella coppia felice
il tragico destino che l’attendeva al Messico dopo pochi anni? La loro
venuta a Milano era però la prima tappa sul cammino delle loro speranze
e delle loro illusioni.

Alla venuta dell’arciduca Massimiliano sulle prime si badò poco:
soltanto alcuni mesi dopo i milanesi dovevano occuparsi molto di lui.
In quel primo momento la parte che dirigeva l’opinione pubblica non era
in città: i più, come di solito dopo le bagnature dell’estate, erano
andati in campagna nelle loro ville, ove poi continuavano i discorsi
sugli avvenimenti che avevano tanto preoccupati gli animi durante
l’annata, e sulle speranze intorno alle quali si andava fantasticando.

Io pure, con mia madre e coi miei fratelli, ero partito per la
Valtellina: perciò non vidi l’Arciduca per le strade che al nostro
ritorno, sul finire di novembre.

Quanta animazione, quale risveglio degli animi sì lungamente depressi,
non vedevasi allora dappertutto! C’era in tutti una gran voglia di
fare, c’era un bisogno di concordia, un bisogno di sperare; non si
sapeva ancor bene che cosa si potesse sperare, ma si sperava. Questo
risveglio, questo vago bisogno di agitarsi, non c’era solo in Milano;
c’era nelle provincie, c’era in ogni borgata. Trovai tutti animatissimi
anche i miei amici di Valtellina, coi quali mio fratello Emilio ed
io si facevano delle lunghe chiacchierate, architettando i più arditi
castelli in aria.

Nell’autunno antecedente, come già dissi, eravamo stati tutti in
faccende per la sottoscrizione dei cento cannoni d’Alessandria. Questa
volta, tra gli argomenti del nostro affaccendarsi, c’era la medaglia di
Sant’Elena.

L’Imperatore dei francesi, che ogni giorno andava evocando qualche
memoria napoleonica, aveva in quell’anno istituita una medaglia
commemorativa, che chiamò la medaglia di Sant’Elena, destinata ai
veterani superstiti, francesi o d’altri paesi, che avessero militato
sotto Napoleone I. Agli ufficiali superstiti fu data la Legione
d’Onore. Col mezzo, credo, della legazione francese a Torino, si
pensò di far avere tale medaglia ai soldati superstiti che si fossero
potuti rintracciare nei paesi Lombardo-Veneti. Col diffondere queste
medaglie si rievocavano nel popolo i ricordi di glorie, e di battaglie
combattute contro gli austriaci nelle file delle truppe italiche.

Io mi incaricai, coll’aiuto dei miei amici valtellinesi, di procurare
la medaglia di Sant’Elena ai vecchi soldati di Napoleone che si
trovavano ancora nella provincia di Sondrio. Coi vecchi congedi, e
con attestati di notorietà, si riuscì ad averne un elenco di quasi
un centinaio. Fu questa la mia maggior occupazione di quell’anno.
Le fatiche mie e dei miei amici furono coronate da un buon esito,
poichè tutte le medaglie domandate vennero accordate, e se ne potè far
presto la distribuzione; colle dovute precauzioni, si intende, per non
richiamare l’attenzione della Polizia.

Quelle medaglie venivano accolte col maggior entusiasmo: il ricordo
delle antiche sofferenze, pure in quelli che avevano fatta la campagna
di Russia, era scomparso dinanzi al fascino delle antiche glorie, e
soprattutto dinanzi al nome di Napoleone che li entusiasmava ancora.

Napoleone III nell’istituire la medaglia di Sant’Elena non aveva
sbagliato; la popolarità dello zio rifulgeva anche su lui, e qui in
Lombardia, nella fantasia popolare già lo vedevamo scendere dalle
Alpi, e cacciare gli austriaci. Sulle moltitudini il nome di Napoleone
esercitava ancora un vero fascino: non c’era che un Napoleone, si
diceva, che potesse e dovesse cacciare via l’Austria dall’Italia.

Ne conobbi parecchi di questi vecchi soldati di Napoleone I. Dopo
più di quarant’anni lo adoravano ancora come un Dio, e ne parlavano
commossi.


  NOTE.

  [29] La prima idea del monumento all’Esercito Sardo era stata
  comunicata dal Correnti, forse d’intesa con Cavour, che in quei
  giorni cercava d’inasprire i rapporti coll’Austria, mentre questa
  seguendo i consigli dell’Inghilterra, era disposta a riprendere i
  rapporti col Piemonte.

  [30] Tra quelli che ebbero, in quei giorni, i più severi
  rimproveri, vi fu Giuseppe Rovani che nella _I. R. Gazzetta
  ufficiale di Milano_, s’era fatto l’istoriografo apologetico del
  viaggio dell’Imperatore.

  Una sera comparve nel caffè _Martini_ sfoggiando una pelliccia
  nuova, e dicendo: «Questa la devo all’Imperatore». Per quanto
  grande fosse la disinvoltura di lui, lo scherzo non piacque e
  molti non lo salutarono più. Il Rovani aveva grande ingegno e molta
  coltura; ma spesso nei disordini della vita sciupava l’esistenza e
  la propria dignità.

  Molti anni dopo essendoci incontrati, io e lui in una via remota
  della città, Rovani mi si piantò dinanzi, e mezzo brillo qual’era,
  come assai spesso, mi disse: «So perchè lei non mi saluta, ma devo
  dirle ch’io era una buona ed eletta fanciulla, ma che ho finito
  male!» Pur troppo, risposi, è vero.




CAPITOLO XXIV.

1858.


I.

  _Sommario:_ L’Arciduca Massimiliano Governatore generale del
  Lombardo-Veneto dopo la morte di Radetzki. — Massimiliano cerca di
  attirare a sè diversi cospicui cittadini. — La Convenzione per le
  ferrovie italo-austriache. — Cesare Cantù. — Resistenze e lotte
  della società e dei patriotti milanesi contro Massimiliano. — Il
  salotto della contessa Maffei, il conte Giulini, e la resistenza
  all’Arciduca. — Parole di Cavour al Giulini e al Dandolo. —
  Casa Crivelli e casa Dandolo. — Timori che destava l’azione di
  Massimiliano. — Propositi di dimostrazioni e di duelli che si fanno
  in casa Dandolo.

L’anno 1858, al pari dell’anno antecedente, principiava a Milano con
una viva preoccupazione nelle classi che chiamerò _dirigenti_; nella
parte voglio dire più eletta e patriottica delle classi aristocratiche
e borghesi che allora veramente dirigevano l’opinione pubblica
cittadina. L’anno prima trattavasi della venuta dell’Imperatore, ora
trattavasi dell’arciduca Massimiliano giunto da poco e già insediato
tra noi.

L’arciduca era un bel giovane alto, biondo, e che vestiva di solito
l’uniforme di ufficiale di marina. Lo aveva preceduto la fama di uomo
intelligente, attivo, pieno di buona volontà, di maniere affabili, e di
intenzioni larghe e liberali a favore dei paesi di cui doveva prendere
il governo. Voci ufficiose cercavano di accreditare l’opinione ch’egli
avesse dei poteri più larghi di quanto apparisse. A queste voci, o,
dirò meglio, a queste speranze, aveva partecipato l’arciduca stesso.
In cuor suo egli andava esagerando la sua missione, e credeva di
cavarne quei risultati che gli prometteva la sua fantasia. Non privo di
coltura, ma utopista, di mente fantastica e un po’ leggiera (come l’ha
provato la tragica avventura del Messico), egli non si era accorto che
a Vienna le cose erano intese ben diversamente: la sua missione era una
lustra. Egli aveva creduto di diventare il Principe d’uno Stato quasi
autonomo, mentre da Vienna era stato mandato a riprendere la tradizione
dell’antico Vicerè, ossia di quel fantoccio che c’era prima del
quarantotto: perchè l’Austria mutasse, ci volevano, prima Solferino,
poi Sadowa.

La morte di Radetzki, avvenuta il 5 gennaio 1858, aveva contribuito
a rinforzare le illusioni dell’arciduca. Il vecchio maresciallo
dal 1848 aveva avuto il governo civile e militare delle provincie
lombarde e venete, da lui riconquistate all’Austria, rappresentandovi
colla durezza delle armi e del governo la politica della reazione e
dell’assolutismo; ossia il governo di Metternich peggiorato.

Radetzki era uomo di mente mediocre e di poca coltura; ciecamente
devoto al suo Imperatore, buon militare, bonario tra i suoi soldati,
dai quali era amatissimo, duro, severo cogli avversari e nell’esercizio
del governo. «Tre giorni di sangue assicurano trent’anni di pace»,
aveva detto alla vigilia delle Cinque Giornate, e nella sua mente
angusta e tenace n’era convinto. Investito di poteri illimitati,
governò il paese per quasi dieci anni senza pensare al domani; lo
governò come un paese occupato in tempo di guerra, dimenticando
che questo paese era una delle parti più importanti della monarchia
ch’egli difendeva; e dimenticando che con un governo imprevidente,
coll’odio che lo circondava, e ch’egli accresceva, poteva preparare,
per l’avvenire, alla monarchia austriaca le più gravi e minacciose
questioni politiche. E così avvenne. Le sue lettere all’amata figlia
Federica, pubblicate dopo la morte di lui, sono piene di affetto
paterno e di tenerezza; ma di ferro, di fuoco e di forche pei sudditi
italiani malcontenti.

La sua morte capitava in buon punto: pareva segnasse la fine d’un fosco
passato, e che col suo successore, il giovane arciduca, ora, sorgesse
un’alba promettente.

Massimiliano si mise subito all’opera, e per alcuni mesi da Vienna lo
lasciarono fare, e si lasciò che si impigliasse nell’equivoco. Egli si
trovò da principio come in un deserto, e cercò d’attirarvi gente che
piantasse delle tende intorno a lui. Pensò di conoscere un po’ di quei
sudditi che doveva governare; cercò di attirarli a sè, e di crearsi
delle simpatie e de’ partigiani, nulla risparmiando fin da principio
per raggiunger tale scopo. Ma era tardi.

Un primo addentellato, per incominciare, gli era offerto da una
Convenzione stipulata a Vienna per una grande Società Ferroviaria,
che aveva tra gli altri scopi l’esercizio delle ferrovie, fatte e da
farsi, nel Lombardo-Veneto[31]. Fra i firmatari della Convenzione c’era
stato il duca Lodovico Melzi, e l’arciduca lo fece chiamare offrendogli
un’alta influenza nella amministrazione. Il Melzi accettò, a condizione
che fossero nominate nei vari uffici le persone ch’egli avrebbe
indicate: ma più tardi il direttore di Polizia osservò che i proposti
dal duca erano tutte persone compromesse o sospette. Infatti molti dei
giovani ammessi allora negli uffici delle ferrovie militavano nel campo
patriottico, alcuni erano reduci da poco dall’esilio e dalle prigioni;
anzi, poco dopo, v’ebbe un impiego anche il Lazzati. Massimiliano
tuttavia li nominò tutti dicendo: «ora spero che questi almeno verranno
da me.» Ma anch’essi trovarono dei pretesti per non andarci, e non ci
andò nessuno. L’arciduca dovette accorgersi, fin da principio, che non
otteneva neanche la riconoscenza _comandata_.

Fra i suoi progetti c’era stato anche quello di fondare un gran
giornale, che doveva chiamarsi la _Gazzetta Italiana_: si concedeva a
quella gazzetta il nome di _italiana_ purchè fosse sottinteso quello
di _austriaca_. Alcuni dicevano che la direzione del nuovo giornale
dovesse venir affidata a Cesare Cantù, che l’arciduca aveva voluto
conoscere; ma altri asserivano che il Cantù fosse destinato a incarichi
ben più alti. Il Cantù smentiva queste dicerie, soprattutto la prima.
Il fatto provò ch’erano dicerie tutte.

Il giornale doveva essere il portavoce dell’arciduca Massimiliano
e della sua politica, ma il solo annunzio datone destò nel pubblico
una forte opposizione, e già si preparavano delle dimostrazioni. La
_Gazzetta Italiana_ doveva in realtà essere diretta da un giornalista
di professione, il Menini, circondato da altri redattori, tra i quali
Emilio Treves, un giovane triestino assai promettente, che doveva farvi
la parte letteraria. Ne fu preparato il primo numero, quale saggio,
e si mandò a Vienna: ma ne venne subito la proibizione. Così il gran
giornale morì prima di nascere, e l’arciduca veniva già sconfessato;
come implicitamente si faceva per ogni atto di qualche importanza della
sua politica, tutta fondata, come dicemmo, su degli equivoci.

Ma l’arciduca intanto procedeva impavido, e tra le prime persone a
cui si rivolse ve ne furono alcune, tra le più notevoli, di parte
clericale. Vi trovò alcuni seguaci, e gli argomenti coi quali cercavano
di giustificarsi potevano essere speciosi: dicevano che bisognava una
buona volta chiudere il passato; ch’era tempo di sollevare il paese da
quello stato di inerzia e di prostrazione in cui giaceva da tanti anni,
per metterlo sulla via del progresso economico; che ormai si dovevano
mutare gli scopi e le speranze per l’avvenire; essere ormai un’utopia
l’ostinarsi a sperare nel Piemonte, impotente qual’era: dicevano, che
le potenze a ogni modo non volevano la guerra; che bisognava quindi
preparare una soluzione nuova, giovandosi dell’arciduca Massimiliano,
venuto appositamente per assecondarla ed effettuarla; che bisognava
infine cercare l’autonomia e la libertà per altre vie.

Tale miraggio messo innanzi a un paese che da tanti anni, o languiva
nell’attitudine rigida d’una astensione passiva, o combatteva senza
speranze vicine contro il suo governo, era un pericolo grave. Da
quasi dieci anni il paese aspettava invano la riscossa, e ormai
principiava a dar qualche segno di stanchezza. Il contegno e il
linguaggio di Massimiliano divennero in breve seducenti per molti, che
già principiavano a discutere apertamente se si dovesse appoggiarlo e
seguirlo. Dico subito, però, che tra questi non ce n’era neppure uno
che avesse appartenuto al patriottismo militante; erano persone che in
passato avevano seguita l’onda dei più, ma che non avevano partecipato
all’azione attiva, e che, pur nutrendo sentimenti di italianità, non
s’erano compromesse di fronte al governo austriaco. Gente mediocre,
all’infuori di pochi, che non fece più parlare di sè, e che scomparve
sommersa dall’alta marea degli anni che seguirono.

Si lasciava credere come dissi, che tra i fautori di Massimiliano ci
fosse anche Cesare Cantù. Il Cantù, lavoratore indefesso, non viveva
che nella cerchia ristretta dei suoi intimi, e di alcuni ammiratori. Da
giovane era stato egli pure imprigionato dagli austriaci, ma poi non
era più entrato nel secreto consorzio dei patrioti, non s’era unito a
nessuno di loro, e viveva solitario tra i suoi libri e i suoi lavori.

Il Cantù era egli pure un avversario del Governo austriaco, ma sdegnoso
delle opinioni altrui, non seguì nel 58 il movimento d’opposizione
a Massimiliano, e il pubblico a cui doleva di non avere con sè, in
quei giorni di lotta, un cittadino illustre, gli si mostrava severo e
credette anche ciò che non era[32].

La società milanese di solito si occupava ben poco dei personaggi
governativi e politici austriaci; anzi c’era quasi l’affettuazione
di non parlarne mai: ma di Massimiliano, dopo solo due mesi ch’era
a Milano, si parlava già molto. Era questo un risultato a cui nessun
Principe, nessun Governatore austriaco, prima di lui, era arrivato mai.
Egli amava far parlare di sè, e occupare di sè l’opinione pubblica:
non essendo quindi possibile lasciar cadere lui e la sua missione
nel silenzio, bisognava combatterlo tanto più vivamente, bisognava
rendergli impossibile l’esecuzione di qualsiasi suo disegno, di
qualsiasi sua buona intenzione.

Massimiliano, per la causa dell’indipendenza, era un pericolo. I
suoi sforzi, l’opera sua assai probabilmente non avrebbero condotto a
nulla, sarebbero riusciti alla fine a un disinganno per lui e pei suoi
aderenti; ma nel frattempo potevano illudere, potevano attraversare la
politica nazionale del Piemonte. Le lusinghe di Massimiliano potevano
indurre molti a sperare in lui e ad abbandonare quella resistenza
che durava da dieci anni e che, rendendo vani tutti i tentativi
dell’Austria, aveva data tanta forza alla politica nazionale del
Piemonte.

Bisognava dunque combattere Massimiliano più che i marescialli che ci
avevano governati cogli stati d’assedio, colle prigioni e colle forche.
_Combattere Massimiliano in ogni modo, e ad ogni costo_, fu la parola
d’ordine che allora corse imperiosa tra i patriotti milanesi.

Quindici anni dopo, quando Vittorio Emanuele andò a Vienna a far visita
all’imperatore Francesco Giuseppe, un ministro austriaco, discorrendo
di Milano con mio fratello Emilio, che accompagnava il Re, ricordò
gli anni corsi tra il 49 e il 59, e rammentò le nostre resistenze e
le nostre lotte. Pareva al ministro austriaco che le classi dirigenti
italiane avessero avuto sotto mano una cospirazione formidabile per
mantenere il paese, con tanta disciplina, in quello stato di lotta
continua. Mio fratello gli rispose: «Non c’era nessuna cospirazione
permanente; ci fu qualche speciale cospirazione, ma breve e di pochi;
ma c’era la grande cospirazione di tutti, naturale, spontanea: la
fermezza e la disciplina erano mantenute nelle nostre file dai metodi
di governo di quel tempo; erano mantenuti dai vostri governanti,
dai vostri generali, dalle vostre Polizie. Una volta sola la nostra
_cospirazione_ diventò difficile, e ci mise in pensiero... fu quando ci
mandaste l’arciduca Massimiliano.»

Uno dei ritrovi, ove più gagliardamente ed efficacemente si preparava
e dirigeva la lotta contro l’arciduca, era il _salotto_ della contessa
Maffei: nella storia di quel salotto l’inverno del 1858 segna forse
la data più memorabile. L’antica tinta repubblicana di alcuni anni
prima era scomparsa: il patriottismo andava sempre più disciplinandosi
intorno a una nuova fede, la fede in Vittorio Emanuele e in Cavour.
_Casa Maffei_ voleva dire in Milano una società politica e battagliera;
alcuni la credevano un ritrovo arcigno di letterati e di pedanti; ma
era tutt’altro.

Nel piccolo appartamento di via Bigli, dove la contessa Maffei riceveva
ogni sera, si incontravano persone serie, vecchi patriotti, uomini di
studio e di bella fama, ma vi intervenivano anche signore del mondo
elegante, artisti, giovani che vedremo poi nel 1859 varcare il Ticino
e arruolarsi tra i volontari. Nelle serate in casa della contessa si
discorreva piacevolmente di cose serie, e di cose liete; si discorreva
di politica, di letteratura, d’arte, e dei fatterelli cittadini; si
scherzava e si rideva, ma l’intonazione generale era sempre altamente
patriottica. La contessa Maffei, di natura indulgente e mite,
diventava fiera e intransigente ogni volta che fosse in questione
il Governo straniero. Si pensi con quanto entusiasmo essa e i suoi
amici prendessero parte, in quell’inverno del 1858, alla lotta contro
l’arciduca Massimiliano che ferveva nella società milanese.

Chiarina Maffei esercitava sempre molto fascino intorno a sè, il
fascino della gentilezza e della bontà. Intelligente e colta, senza
essere nè una letterata, nè una dotta, aveva l’entusiasmo d’ogni cosa
buona e bella, l’entusiasmo della patria soprattutto. Era sempre in
faccende per far del bene; e quando i suoi mezzi, ch’eran modesti,
non le permettevano di fare quanto il suo cuore avrebbe voluto, allora
ricorreva agli uomini ricchi, o influenti, ricorreva specialmente al
conte Cesare Giulini, la cui carità e generosità erano inesauribili.

Il Giulini era sempre in Milano una delle persone più note e distinte;
ricco, generoso, di mente alta, di sentimenti nobilissimi, aveva
l’animo buono e caritatevole. La sua cultura era vastissima e la sua
memoria era straordinaria, mentre poi era altrettanto straordinaria
la sua distrazione, a proposito della quale si raccontavano tra gli
amici i più divertenti episodî. Il dovere e la patria erano per lui una
religione, e la parte ch’egli ebbe negli avvenimenti patrii, dal 48 al
59 in Milano, fu grande, pure svolgendosi con quella semplicità e con
quella modestia ch’erano nella sua natura. Quando il paese fu libero,
il conte di Cavour voleva fare di lui un Governatore, un Ministro; ma
egli non accettò, e nel 1862 moriva non avendo che 47 anni.

Il Giulini, che aveva conservato dei legami d’amicizia col Cavour e
coi principali uomini politici del Piemonte, trovava modo di fare di
tanto in tanto delle gite, ora palesi ora secrete, a Torino; e di là
portava alla contessa e agli amici più intimi quelle notizie ch’erano
l’alimento delle nostre speranze. Non aveva mancato d’andarci in quei
giorni, e col Cavour aveva discorso di Massimiliano e della nuova
situazione che l’arciduca cercava di preparare in Milano: e ci aveva
riferito che Cavour, come conclusione del discorso, gli aveva detto
all’orecchio: «È urgente che facciate mettere di nuovo Milano in
_istato d’assedio_!»

Questo motto, che diventava una parola d’ordine, corse rapidamente di
bocca in bocca, con patriottiche indiscrezioni, e servì ad infondere
in una cerchia di persone, che si facea ogni giorno più larga, un nuovo
ardore e una maggiore audacia.

Emilio Dandolo era stato chiamato a Torino da Cavour, che gli disse:
«Caro Dandolo, ci siamo: Napoleone mi promise, che se gli austriaci
mettono piede sul territorio Piemontese, egli verrà in nostro aiuto.
A farci invadere penseremo noi. A Milano fate cogli amici, e cogli
amici del paese, del vostro meglio per tener viva la fiaccola del
patriottismo e per tener viva l’agitazione.»

Il marchese Luigi Crivelli, quel medesimo che fu in prigione dopo il
6 febbraio in grazia della barba, e sua moglie, la marchesa Carolina,
nata Medici di Marignano, riunivano in casa loro una società numerosa
di persone, tra le quali predominava la gioventù. Si rideva, si
ballava, e si faceva del patriottismo risoluto e chiassoso: il punto
verso cui convergevano anche in casa Crivelli tutti i discorsi era
l’arciduca Massimiliano; si può immaginare quale effetto vi facessero
le parole di Cavour, ripetute all’orecchio in gran secreto... ma da
tutti.

L’arciduca Massimiliano, a cui non era ancora riuscito di dare a Corte,
nè una festa, nè un ricevimento, adoperava tutte le arti della sua
seduzione personale per fare delle conoscenze, e per chiamar gente
intorno a sè: si rivolgeva a persone notevoli per ingegno, per studî o
per pratica amministrativa, ogni volta che gli si presentava qualche
affare di pubblico interesse; e faceva chiamare, sotto i più futili
pretesti, anche dei semplici gentiluomini per aver gente a Corte. In
tal modo, ogni tanto, si veniva a sapere che qualche nuovo pesciolino
era stato preso all’amo, e che qualche nuova recluta era entrata in
palazzo reale a far visita all’arciduca. Era appunto ciò che non si
voleva.

«Bisogna finirla,» s’era detto; bisogna arrestare queste diserzioni
dal campo _intransigente_ che a un po’ per volta possono creare una
situazione nuova, pericolosa, contraria ai nostri disegni, contraria
alla politica che con tanta abilità e con tanta fortuna seguiva il
Piemonte. Finirla, è presto detto, ma in qual modo?

La sera, dopo il teatro, andavo frequentemente coi miei amici dalla
contessa Dandolo, e chiacchierando e fumando fino ad ora tarda,
si facevano le nostre discussioni e le nostre piccole cospirazioni
politiche. La contessa, intelligente, animosa, ardente di sentimenti
giovanili come noi, era l’anima della conversazione. Alle volte, essa
ci faceva imbandire qualche cenetta, improvvisandola, e si passavano in
casa sua delle ore deliziose.

Una sera, mentre si parlava dell’arciduca e di quelli che abboccavano
al suo amo, qualcuno di noi, forse Emilio Dandolo stesso, saltò su
a dire che, per impedire le visite a Corte, bisognava pur pensarne
qualcuna, se non bastava la pubblica riprovazione, se non bastavano il
negare il saluto e il troncare i rapporti d’amicizia con chi ci andava.

Nei nostri discorsi, ch’erano l’eco dei discorsi e dei pensieri di
persone più serie di noi, c’era una preoccupazione, c’era il sentimento
secreto d’un pericolo che cominciava a manifestarsi. Quale potrà
essere il risultato, pensavano già parecchi, dell’azione continua,
instancabile dell’arciduca? Riescirà egli ad aprire una breccia nel
patriottismo disciplinato, rigido, ch’era durato fino allora? quanti
mano mano non andranno cedendo alle lusinghe governative? quali nuovi
interessi non verranno per avvicinare il paese al Governo? Il pubblico,
il gran pubblico, dicevano i patriotti, fino a quando ci seguirà nella
resistenza inflessibile anche dinanzi a un regime che si annunzia mite
e largo di promesse? E una tregua dei lombardo-veneti nella resistenza
non avrà delle conseguenze fatali per la politica di Cavour?

E dunque? Dunque che cosa si fa?... Dunque si potrebbe far qualcosa
di chiassoso... sfidare a duello, per dirne una, quelli che d’ora
innanzi senza esserne obbligati andranno volontariamente a Corte, o si
avvicineranno in qualsiasi modo alla politica dell’arciduca!

L’idea fu accolta con entusiasmo: questa bravata ci parve bellissima,
ed era infatti al livello della temperatura delle nostre teste, e di
quella in mezzo a cui si viveva.

Dopo ciò, quella sera ci separammo, colle teste calde di progetti e di
duelli.


  NOTE.

  [31] Convenzione 14 marzo 1856, stipulata in Vienna, approvata
  colla Sovrana Risoluzione 17 aprile successivo, tra gli II. RR.
  Ministri Austriaci di Finanza e del Commercio, e i signori:

  Principe Adolfo di Schwarzenberg, Presidente e rappresentante
  dell’I. R. Istituto privilegiato di Credito per il commercio e per
  l’industria a Vienna;

  Conte Francesco Zichy juniore;

  Barone A. S. de Rothschild, Vice-presidente e rappresentanti
  dell’Istituto suddetto;

  La casa bancaria S. M. Rothschild, in Vienna;

  Marchese Raffaele de Ferrari, duca di Galliera, in Bologna;

  Duca Lodovico Melzi, in Milano;

  S. E. Conte Giuseppe Archinto, in Milano, rappresentato dai sigg.
  Sebastiano Mondolfo e C. F. Brot;

  Pietro Bastogi, in Livorno;

  Fratelli de Rothschild, in Parigi;

  E. Blonnt e C., in Parigi;

  Paolino Talabot, in Parigi;

  N. M. de Rothschild e figli, in Londra;

  Samuele Laing, in Londra;

  M. Uzielli, in Londra;

  mediante la quale viene concesso ai suddetti signori

  1) l’esercizio ed il godimento di tutte le II. RR. strade ferrate
  situate nel Regno Lombardo-Veneto, con eccezione del tronco che da
  Verona s’inoltra verso il Tirolo meridionale, con tutti i diritti
  ed obblighi alle medesime inerenti;

  2) la costruzione e l’attuazione di nuovi tronchi.

  [32] Il Cantù più tardi, nella sua Cronistoria dell’Indipendenza
  Italiana, disconobbe gli uomini più alti e più cari del
  risorgimento nazionale, e ciò gli fu poi d’ostacolo a entrare in
  Senato, onore a cui l’avrebbero chiamato i suoi titoli di scrittore
  e di storico.

  Crispi, essendo ministro dell’interno, propose al Re Umberto la
  nomina di Cesare Cantù a Senatore. Domenico Farini, presidente del
  Senato e figlio dell’ex Dittatore dell’Emilia, saputo ciò, si recò
  dal Re e vivamente lo sconsigliò di nominare senatore l’autore
  della Cronistoria. Il Re non firmò il decreto.




CAPITOLO XXV.

1858.


II.

  _Sommario:_ Una visita a Corte del marchese Luigi d’Adda. — Una
  provocazione di Alfonso Carcano alla Scala e una sfida. — Sono
  uno dei padrini. — Una chiamata del Direttore di Polizia. — La
  notte seguente si va in Piemonte. — Il duello. — L’Arciduca chiama
  Stefano Jacini per incaricarlo d’uno studio sulle condizioni
  economiche della Valtellina. — Jacini scrive un bel libro, e
  la Valtellina rimane nelle condizioni di prima. — Le illusioni
  dell’Arciduca. — Voci d’una missione data da Massimiliano al duca
  Melzi presso Napoleone. — Il principe Porcia, e il suo sfratto
  da Milano. — Cavour a Plombières. — Cavour chiama il Giulini e il
  Dandolo. — Progetti di Cavour per l’anno seguente. — Ultimi mesi
  di vita di Emilio Dandolo. — La famiglia Lutti di Riva di Trento. —
  Accordi e sottoscrizione, per mandare i volontari in Piemonte nella
  seguente primavera. — La Società Nazionale italiana.

L’arciduca Massimiliano continuava imperterrito, e talora anche con
qualche buon risultato, a usare le sue arti seduttrici; quando eccoci
ad un nuovo episodio, capitato proprio qualche giorno dopo l’intesa
_dei duelli_, in casa Dandolo.

Era assai noto a quel tempo, in Milano, come amatore di cavalli ed
esperto cavallerizzo, un marchese Luigi d’Adda Salvaterra, fratello del
marchese Gerolamo, letterato, scrittore d’arte, e noto bibliofilo. Il
d’Adda compariva quasi ogni giorno sui bastioni della città, ch’erano a
quel tempo il luogo della passeggiata pubblica e il ritrovo del _mondo
elegante_, cavalcando l’uno o l’altro dei suoi bei cavalli arabi.
Correva, caracollava, e lo avevano soprannominato il _Mazeppa_.

Un giorno Massimiliano, che di tanto in tanto cavalcava egli pure
sul bastione, mandò il suo aiutante a dire al d’Adda che desiderava
ammirare il bell’arabo. Il d’Adda gli si avvicinò, l’arciduca gliene
fece gli elogi e lo pregò di mandare i suoi cavalli alla cavallerizza
di Corte, desiderando cavalcarli. Dopo di ciò, sotto varî pretesti,
lo fece andare a Corte più volte, e lo invitò a colazione. Il d’Adda
accettò gli inviti.

Questo fatto, che in altre circostanze sarebbe passato inosservato,
allora fece parlar molto; e a qualcuno, tra quei dell’_intesa_, parve
venuta l’occasione di dar principio al _programma_ dei duelli. «Si
incominci dunque dal d’Adda!» Trattandosi d’una persona tanto nota in
Milano, come il d’Adda, il caso era opportuno, sebbene violento, per
una dimostrazione chiassosa.

Ragazzate! potrà esclamare qualcuno nel leggere questi fatti; ma i
giovani d’allora erano così: e si può essere indulgenti con questi
ragazzi, quando si pensi che pochi mesi dopo, tra mille pericoli,
lasciavano la casa loro per prender le armi; e che molti alle loro case
non ritornarono più.

Alcune sere dopo ci fu un veglione alla Scala e Alfonso Carcano, ch’era
il più giovane della compagnia di Casa Dandolo, ci andò in maschera,
e detto fatto si diresse verso il d’Adda, e dopo un breve colloquio,
alludendo alla visita fatta all’Arciduca, lo insultò; poi levatasi
la maschera gli diede il suo biglietto da visita. Il d’Adda era in
un palchetto con due forestieri, dei quali è facile immaginarsi lo
stupore. Corse subito la voce del fatto per tutto il teatro, e per
alcuni giorni in Milano non si parlò d’altro.

La mattina seguente vennero da me donna Giulia e Costanzo ch’erano
la madre e il fratello dell’Alfonso Carcano, dicendomi che questo si
teneva nascosto, e pregava me e il marchese Massimiliano Stampa Soncino
a fargli da padrini. La buona donna Giulia piangeva, ma mi pregava
d’assistere suo figlio.

Due giorni dopo ci fu un ritrovo tra i padrini; pel d’Adda furono quei
due che s’eran trovati nel palco, venuti alla Scala per _divertirsi_ al
veglione; ed erano un Della Rocca, ex ufficiale spagnolo, e un Cervis
di Novara. Nel frattempo ebbi una chiamata alla Polizia.

Il Direttore mi ricevette tenendosi ritto in piedi e parlandomi in tono
brusco e severo.

— «So tutto,» prese a dirmi: «il marchese Luigi d’Adda è stato l’altra
notte insultato in teatro da un giovinastro mascherato... sappiamo chi
è... e sappiamo anche la causa dell’insulto!... Si parla di un duello,
e si dice che lei sarà uno dei padrini... ma io le dico che questo
duello non si farà! Ha capito?... Questo duello sarebbe uno scandalo!
Questo duello mi obbligherebbe a far arrestare lei e i suoi due amici,
e a far aprire contro di loro una duplice inquisizione, cioè pel
delitto di duello, e pel delitto politico! Ha capito?... Ora le domando
formalmente di darmi la sua parola d’onore che il duello non si farà...
o almeno che lei non vi prenderà parte. Mi risponda!»

— «Del duello di cui lei mi parla,» risposi «finora non so nulla.
Ma devo però dirle che io non le potrei dare la parola d’onore che
mi domanda. Lei è un gentiluomo, e comprenderà che, se un amico mi
chiedesse di assisterlo in un caso simile, io non potrei rifiutare.»

Si discusse per alcuni minuti, fermi l’uno e l’altro nei nostri
argomenti; egli alzando la voce e in tono sempre più minaccioso; io con
l’aria rassegnata, come una vittima, caso mai, dell’amicizia. In quella
stessa mattina il marchese Soncino aveva avuta un’eguale chiamata dal
Direttore di Polizia, e aveva sentite le stesse minacce, e aveva data
la stessa risposta, poichè le avevamo combinate.

Nel nostro abbocamento era parso, ai padrini del d’Adda, sulle prime
che un diverbio di veglione dovesse venire accomodato con qualche
bottiglia di _champagne_, ma presto capirono che sotto il diverbio
apparente c’era una questione politica, e che il duello era quindi
inevitabile.

Si convenne un duello alla pistola, da farsi al di là del Ticino,
presso la frontiera. Ma il difficile era l’andarci, sorvegliati come
erano dalla Polizia.

Si combinò di partire quella stessa sera, e per non svegliar sospetti
s’andò tutti al teatro della Scala, mostrandoci nei palchi fino all’ora
convenuta.

Dal teatro, poi scomparimmo improvvisamente, e andammo difilato in
piazza Fontana, dove ci attendevano due carrozze.

Per attraversare il Ticino, a quel tempo, non c’erano ferrovie; eravamo
in febbraio, nevicava e faceva un gran freddo; io ero in giubba, con la
cravatta bianca, le scarpette lucide e le calze di seta: gelavo! Non
avevo il passaporto, indispensabile a quei tempi; per questo, quando
si arrivò alla frontiera, montai a cassetta d’uno dei due legni, e il
Della Rocca mi fece passare pel suo cameriere. In un villaggio, al
di là del confine, trovammo un ufficiale di cavalleria piemontese,
che, prevenuto dal mio collega, il marchese Soncino, aveva portato
le pistole. L’ufficiale ci condusse in una boscaglia distante circa
un chilometro, che facemmo in mezzo al fango e alla neve. Oh le mie
scarpette! e che freddo! Con noi era venuto Scipione Signoroni, un
giovane nostro amico medico, e già ufficiale di Manara.

I due avversari furono messi di fronte, a venti passi di distanza. La
sorte indicò il Della Rocca pel comando del duello, che doveva essere
al segnale. Puntarono; _uno, due, tre_; i due colpi partirono insieme,
ma le due palle andarono a conficcarsi negli alberi vicini; avevano
avuto più giudizio di noi. Ma a nostra discolpa ripeterò ancora una
volta che a quel tempo noi ci consideravamo come già in guerra, e che
se allora la gente si fosse condotta sempre con certe buone regole
di prudenza e di giudizio, gli austriaci forse passeggerebbero ancora
per le vie di Milano. Si ricaricarono le pistole, ma allora i padrini
avversari si avvicinarono a noi dicendo che, avuto riguardo alla causa
che ci aveva condotti sul terreno, si poteva far cessare lo scontro
e riconciliare i due avversari. Fummo tutti del medesimo parere: la
dimostrazione politica era fatta, e sarebbe stato assurdo il continuare
il duello. Il d’Adda ci teneva a giustificarsi; ci scambiammo delle
strette di mano e delle parole cortesi, poi partimmo subito per Milano.

Qualche ora dopo, vien da me il Soncino, che aveva avuto una nuova
chiamata dal Direttore di Polizia: questi era stato con lui ancora
più brusco del giorno prima; ma con sua gran sorpresa il mio amico
s’era accorto che il Direttore non sapeva ancora che il duello fosse
avvenuto!

«Sento ripetere che lei dovrebbe essere uno dei padrini, ma questo
duello non si farà! Se tentassero di farlo, li farò sorprendere in
_flagrante_; li farò arrestare tutti, e manterrò la mia parola...
duplice processo! Glielo dico di nuovo... ha capito?»

Il Soncino aveva taciuto stringendosi nelle spalle, come chi è
rassegnato alla fatalità, solo ripetendo ancora che, pregato, non
avrebbe potuto rifiutarsi a un amico: non aggiunse altro, poi corse da
me. «Oh che commedia!» si disse fra noi. «Ma come la finirà?»

In Milano per alcuni giorni non si parlò che del duello, e se ne fece
un gran chiasso. Io e i miei due amici, non sapevamo che fare: parecchi
ci consigliavano prender il largo; ma noi, d’accordo anche coi nostri
avversari, si decise di non muoverci, e di negare che ci fosse stato il
duello, non essendocene le prove, caso mai ci arrestassero.

Non fummo arrestati. Più tardi venni a sapere che al nostro arresto
s’era opposto il luogotenente Bürger, il quale aveva giustamente
osservato al Direttore di Polizia che, non essendo egli riuscito ad
impedire il duello, era meglio che fingesse di non saperne nulla; tanto
più che il processo avrebbe sollevato un chiasso enorme su un fatto
ch’era meglio mettere in tacere. Così la passammo liscia.

Intanto l’arciduca continuava tenacemente nel suo sistema, e venne la
volta in cui chiamò anche delle persone ch’egli sapeva appartenenti
al campo nemico. Tra queste, un giorno, fece chiamare Stefano Jacini;
proprio uno di casa Maffei!

Lo scopo della chiamata era nobilissimo, e tale da rendere ben
difficile un rifiuto. Una grave questione economica affliggeva allora
una delle provincie lombarde, e impensieriva la pubblica opinione con
pietosa sollecitudine.

La Valtellina ufficialmente chiamata, come s’è detto, la provincia di
Sondrio, da nove anni era colpita nel suo principale prodotto: i suoi
celebri vigneti erano ormai completamente distrutti dalla crittogama,
l’_oidium_, contro cui non s’era ancora trovato il rimedio. Le altre
colture, in Valtellina, erano secondarie, e non c’erano che pochissime
industrie. Per di più, e come questo non bastasse, il Governo
austriaco, che meditava di applicare un nuovo censimento delle terre
alle provincie lombarde, per accrescerne i redditi fiscali, aveva
cominciato a farne l’applicazione, per esperimento, alla provincia
di Sondrio, ch’era la più piccola: così era avvenuto che, mancandovi
il prodotto principale, la terra non bastasse quasi più al pagamento
dell’imposta. I piccoli proprietari andavano a mano a mano coprendosi
di debiti per vivere; le piccole e le medie fortune, in molte parti
della provincia, scomparivano rapidamente, e si vedevano cadere
nella miseria moltissimi che avevano sempre vissuto nell’agiatezza.
Ciò avveniva specialmente per quelli che possedevano soltanto terre
coltivate a viti nella provincia. In quegli anni intere famiglie
scomparvero; parecchie, che avevo conosciute benestanti, le rividi,
più tardi, povere o molto decadute. Quelli che, nelle famiglie di
contadini, non potevano emigrare, languivano di patimenti e di fame.
Nelle Preture giacevano moltissime eredità che non potevano venir
assegnate per l’impotenza degli eredi a pagar le imposte e i trapassi.
In parecchi paesi la popolazione diminuiva come se fosse stata colpita
da un grave contagio.

Questi fatti avevano vivamente commossa l’opinione pubblica in
Lombardia, e da ogni parte si invocavano provvedimenti. Il Governo
militare non ci aveva badato più che tanto, contentandosi di applicare
il nuovo catasto, e di riscuoterne rigidamente le imposte. Ora
l’arciduca Massimiliano volle occuparsi della questione, e cominciò
col bandire una grande lotteria in tutto il regno Lombardo-Veneto per
soccorrere i più bisognosi: poi pensò di fare studiare le condizioni
della Valtellina da Stefano Jacini, noto pei suoi studi economici e
pel suo libro sulle _condizioni dei contadini in Lombardia_, premiato
dall’Istituto Lombardo.

L’Jacini, chiamato, si presentò all’arciduca, e dopo un lungo colloquio
accettò l’incarico. Non posso nascondere che questa accondiscendenza
dell’Jacini spiacque, e che gli amici gli tennero il broncio. Il
puritanismo intransigente di quei giorni non permetteva che l’arciduca
trovasse adesioni o appoggi in nessuno e in nulla, sopratutto per
cose che fossero o che potessero parer buone. La contessa Maffei,
me ne ricordo ancora, ne rimproverò l’Jacini, che principiò col
giustificarsi, dicendo che di molte cose non era ancora al fatto.

Egli era tornato da poco da un lungo viaggio, e non conosceva bene
l’attitudine presa dalla società milanese di fronte all’arciduca
Massimiliano. Rammento che, un giorno, durante quel broncio degli
amici, l’Jacini mi prese a braccetto e si fece insieme una lunga
passeggiata: mi raccontò che avendo da poco percorsa la Francia,
l’Inghilterra e la Germania, e avendo discorso con personaggi
importanti di politica e delle cose d’Italia, tutti con voce unanime
gli avevano espresse l’opinione che l’Italia dovesse ormai smettere
qualsiasi velleità di riscossa col mezzo della politica piemontese
o dei moti insurrezionali, poichè tutta l’Europa si sarebbe opposta
alla guerra. E concludevano che ai lombardo-veneti si presentava
un’insperata fortuna, e cioè, l’energico e intelligente desiderio d’un
arciduca di ottenere la loro autonomia amministrativa, sotto il suo
governo; e che gli italiani quindi lo dovevano assecondare, se non
volevano ribadire la loro servitù per seguire una chimera.

Questa appunto era la tesi dei fautori ufficiosi dell’arciduca; la tesi
dei timidi, e della gente stanca; la tesi pericolosa, che Cavour ci
eccitava a combattere con tutte le nostre forze.

All’Jacini chiesi se avesse parlato col Giulini che veniva da Torino:
«non ancora» mi rispose, e io lo eccitai a vederlo al più presto.

L’Jacini non ritornò dall’arciduca, ma eseguì l’incarico avuto, e
fece il suo bel libro sulle condizioni economiche della Valtellina.
La quale, all’infuori della lotteria, non ottenne dal Governo nessun
provvedimento, e rimase abbandonata alla sua sorte. Fu un primo esempio
di ciò che valevano i propositi di Massimiliano, destinato a illudersi
e ad illudere.

Alla Valtellina provvide più tardi il Governo nazionale, che cominciò
col diffondere gli insegnamenti e gli esperimenti, allora ancor
nuovi, per combattere la crittogama della vite; poi ordinò con una
legge, durante i _pieni poteri_, la riduzione del censo. Promotori di
tale legge furono Enrico Guicciardi, il conte Luigi Torelli, Antonio
Allievi, Cesare Correnti, Romualdo Bonfadini, mio fratello Emilio,
Stefano Jacini e Antonio Scialoja, a cui Cavour diede l’incarico di
prepararne lo studio e di formularla. La Valtellina ne ebbe allora un
immenso beneficio, e potè avviarsi alla sua risurrezione economica.

L’affaccendarsi di Massimiliano era continuo, ma il terreno gli era
conteso a palmo a palmo con una opposizione incessante. L’opera sua
però non era affatto pratica, ed era pur sempre vigilata da Vienna,
dove si era pronti in caso a disapprovarla e a frenarla. Quella sua
eccitabile fantasia, e quella facilità d’illudersi, che dovevano più
tardi condurlo fatalmente al Messico, l’avrebbero indotto, come fu
detto allora, a confidarsi con l’imperatore Napoleone, e a fargli
chiedere secretamente se avrebbe avuto il suo appoggio nei progetti
relativi al Lombardo-Veneto.

Allora si disse anche di questa missione confidenziale incaricasse un
gentiluomo di Milano, il duca Lodovico Melzi d’Eril, e che il Melzi,
il quale per ragioni di famiglia viveva molto a Genova e all’infuori
della società politica milanese, accettasse in buona fede l’incarico.
Il Melzi andava frequentemente a Parigi, e Napoleone lo accoglieva
con molti onori quale discendente del Vice-Presidente della Repubblica
Italica e alle Tuileries veniva annunciato col nome di _Duca di Lodi_,
titolo dato da Napoleone I al conte Francesco Melzi. Della missione
nulla però si seppe di positivo: non lasciò traccia, e non ebbe
seguito.

Di ciò che avveniva, e che si pensava, nel circolo dell’arciduca
Massimiliano e del luogotenente Bürger, s’aveva alle volte qualche
sentore col mezzo del principe Alfonso Porcia, di cui abbiamo già
parlato.

Fu il principe Porcia che mi disse che il luogotenente Bürger s’era
opposto agli arresti pel duello del Carcano col d’Adda. Poco dopo però
toccò anche a lui, non ostante le sue relazioni, un provvedimento di
rigore. Un giorno s’imbattè in Massimiliano, passeggiando con alcuni
amici, i quali naturalmente non salutarono l’arciduca; il Porcia, o non
s’accorse dell’incontro, o non volle fare diversamente degli altri; ma
bisogna dire che quella volta l’arciduca fosse di cattivo umore, perchè
il giorno dopo il principe Porcia riceveva l’ordine dalla Polizia di
lasciar subito Milano e di recarsi nelle sue terre in Austria.

Per quanto l’arciduca si affaccendasse, ogni giorno più si faceva
palese la sua impotenza a far qualcosa di serio, e ogni suo tentativo
cadeva nel vuoto. Egli era arrivato in uno di quei momenti fatali in
cui un Governo, prima di far libro nuovo, è condannato a far la somma
degli errori e delle colpe del Governo che l’ha preceduto.

La resistenza aveva ormai il sopravvento; ormai si diffondeva la
certezza che anche questa difficile, questa pericolosa battaglia,
i milanesi l’avevano vinta; e si faceva più forte il desiderio di
prepararsi uniti, ai nuovi avvenimenti che erano nel presentimento di
tutti.

In un giorno del mese di maggio ebbi la visita di un tal Pagani, che
sapevo essere una persona seria e rispettabile. Questo signore venne
a parlarmi della _Società Nazionale_ che il La Farina aveva fondata
l’anno prima, e che andava estendendosi in tutta Italia. Era questa
un’Associazione ordinata come una società segreta, ed aveva, tra gli
scopi, anche quello di riunire in sè le società segrete mazziniane.
Era programma della Società Nazionale l’indipendenza e l’unità d’Italia
con Casa Savoia, sotto la guida di Cavour. Questa società operava già
attivamente; e più tardi seppi che Cavour aveva detto al La Farina «ho
fede che l’Italia diventerà uno Stato con Roma capitale; venga da me in
secreto, e se la diplomazia lo saprà e reclamerà, io la rinnegherò come
fece San Pietro.» (Vedi anche la storia del Bersezio).

Dopo il colloquio ch’ebbi col Pagani, mi adoperai anch’io a far entrare
nella Società Nazionale parecchi miei amici e conoscenti, sopratutto di
quelli che avevano avuto dei legami colle associazioni repubblicane, e
a cui piacevano le società segrete. C’è della gente che ha bisogno di
pensare colla testa altrui e di agire coll’altrui volontà. A me invece
è sempre piaciuto di regolarmi da me, e quindi ho sempre aborrito le
società segrete e i vincoli misteriosi di soggezioni anonime. Nella
stessa Società Nazionale, che pure m’ispirava fiducia, pei suoi intenti
onesti e patriottici, io non volli entrare.

In quel tempo, a Milano, e credo anche in tutta l’alta Italia, nessuno
parlava di Massoneria. Questa c’era stata, prima del 1848, collegata
coi movimenti dei Carbonari e della _Giovane Italia_, ma non col
movimento del quarantotto: poi era quasi scomparsa, e non doveva
rifiorire che più tardi, nel modo che tutti sanno.

L’arciduca Massimiliano anche a Venezia, ove si era recato colla sposa
nell’estate del 1857, prima di venire a Milano, aveva fatto parlar
molto di sè cercando di attirar alcuni dei più cospicui cittadini,
come il conte Bembo, e il conte Cittadella Vigodarzere, e lasciando
intravvedere speranze e novità.

Ma mentre Massimiliano s’agitava nel vuoto, Cavour teneva in mano ben
altre fila, e andava dritto al suo scopo. Il 20 luglio del cinquantotto
era a Plombières, e ne’ suoi famosi colloqui con Napoleone, poneva le
basi dell’alleanza e iniziava gli accordi per la guerra: poi ritornava
trionfalmente in Italia, schermendosi a stento dalle dimostrazioni
traverso la Svizzera e in Piemonte.

Poco dopo il suo ritorno a Torino, Cavour fece chiamare Cesare Giulini,
poi Emilio Dandolo. Disse loro le trattative e gli accordi fatti
con Napoleone, con un certo riserbo naturalmente, allo scopo ch’essi
preparassero gli amici in Milano e in Lombardia a quell’azione che
poteva assecondarlo ne’ suoi scopi. Tra le confidenze fatte a Giulini,
Cavour gli aveva anche detto come Napoleone, per giustificare la
guerra dinanzi alla Francia che n’era riluttante, stimava necessario
che il Piemonte fosse attaccato, e invaso dall’Austria. Ciò avrebbe
giustificato l’intervento francese. _Faites vous attaquer_, aveva detto
ripetutamente Napoleone a Cavour.

Cavour aveva chiesto al Giulini se gli paresse possibile che nella
primavera del prossimo anno, quando l’Austria farebbe la leva, i
proprietari di Lombardia mandassero i loro contadini coscritti in
Piemonte. Se venissero, aveva concluso Cavour, io li accolgo nei
reggimenti piemontesi... l’Austria mi chiederà l’estradizione ed il
loro disarmo... io rifiuterò; l’esercito austriaco allora invaderà il
Piemonte!...

Giulini gli rispose che avrebbe seriamente studiata questa proposta coi
suoi amici, e che si sarebbe fatto il possibile per attuarla, almeno in
parte.

Cavour con questa proposta ebbe una felice percezione degli
avvenimenti. Non furono i colpiti della leva quelli che nell’inverno
seguente passarono il Ticino e furono arruolati dal Governo piemontese;
ma furono i volontari, come vedremo, che passarono in Piemonte, quelli
di cui l’Austria chiese il disarmo, e che determinarono il caso di
guerra e l’invasione.

Cavour, nel confidare a Emilio Dandolo gli accordi di Plombières,
gli aveva dato specialmente l’incarico di intendersi coi giovani di
maggior autorità di Milano, con quelli sopratutto che avevano avuto dei
rapporti colle società mazziniane. Cavour voleva attirare a sè tutte le
forze vive del paese, voleva con sè i più operosi, i più audaci; voleva
distrugger le sette, e riunire tutti sotto la gran bandiera dell’unità
d’Italia colla monarchia dì Savoia.

Mio fratello Emilio ebbe allora un lungo colloquio con Emilio Dandolo,
che gli riferì i discorsi fatti con Cavour, e gli intendimenti di
lui. Cavour fin d’allora lasciava intendere le sue mire unitarie,
voleva però essere egli solo la guida, e il giudice dei modi e delle
opportunità per raggiungere lo scopo. Mio fratello riferì questi
discorsi a suoi amici; con queste promesse e con questa parola d’ordine
anche i più circospetti lasciarono ogni esitazione. Quelli che un
giorno avevano seguito Mazzini pel concetto unitario, quelli che da
lui s’erano staccati perchè disillusi, ora accettavano risolutamente di
seguire la nuova bandiera e il nuovo capo.

Dandolo presentava poi mio fratello Emilio a Cavour.

Così in quei giorni, Cavour, non solo metteva le basi
dell’indipendenza, dell’unità e della libertà d’Italia, ma creava
un partito politico nazionale, che fino allora, in Italia, non aveva
esistito, il partito unitario, monarchico, liberale. Intorno a questo
partito si riunirono, in maggioranza, le persone più eminenti. Con
l’aiuto di questo partito Cavour potè compiere grandi cose, e i
suoi successori più illustri poterono condur l’opera a compimento.
Bisogna essere vissuti a quei tempi, bisogna aver seguiti quei fatti
ansiosamente giorno per giorno, per avere la profonda convinzione che
Cavour tutto mosse e diresse, e che il grande artefice del nuovo regno
d’Italia fu lui.

La guerra nella prossima primavera fu in un baleno il pensiero, la
speranza, la fede di quanti furono partecipi delle confidenze fatte
agli amici da Cavour. Nel crocchio de’ miei amici ormai non si parlava
d’altro: un giorno mi fu comunicato il progetto di avviare una seconda
sottoscrizione per prepararsi agli avvenimenti della primavera, sia che
si trattasse di mandare i coscritti in Piemonte, sia che si dovesse
promuovere qualche fatto, di cui si parlava misteriosamente, per far
scoppiare la guerra.

La guerra! Ogni sera ne parlavamo con entusiasmo in casa Dandolo, e
allora si colorivano le gote pallide del povero Emilio Dandolo, la
cui salute andava rapidamente declinando, minata dall’etisia. Egli
conosceva il suo stato, ma tuttavia era deciso di recarsi al più presto
in Piemonte, per assicurarsi il suo antico posto di ufficiale. «Non
voglio morire in letto,» soleva dire, «voglio morire da soldato su
un campo di battaglia.» Pur troppo il suo desiderio non doveva essere
esaudito: ormai non gli mancavano che pochi mesi di vita, e non potè
intravedere che l’alba delle comuni speranze.

Andai quell’anno a passare il mese di agosto in casa Lutti a Campo
nelle Giudicane, presso Riva di Trento. Il mio amico Vincenzo Lutti
di Sant’Alessandro era fin d’allora una delle persone più importanti
del partito nazionale liberale del Trentino; e la famiglia Lutti,
ricca, ospitale, era in quelle valli, tra le più illustri, e ospitava
nell’estate e nell’autunno, ora a Riva di Trento, ora nella villa di
Campo, o in quella di Sant’Alessandro sul lago di Garda, un’accolta di
amici che si avvicendavano, e tra i quali si incontravano spesso delle
persone notevoli d’ogni parte d’Italia. Andrea Maffei teneva presso
quella famiglia la sua consueta dimora; e vi si vedevano di frequente
Andrea Verga, l’illustre alienista, e i poeti Prati e Gazzoletti. La
vecchia madre del mio amico Vincenzo, donna Clara, era una signora che
amava mostrarsi amica e protettrice dei letterati: aveva due figlie,
Francesca e Maria, delle quali Francesca era una scrittrice e poetessa
valente: Vincenzo era un uomo molto colto, musicista appassionato,
pieno di spirito, d’ingegno e di cuore. Al Lutti, e agli amici che
trovai quella volta nella villa di Campo, comunicai le notizie avute
dal Giulini, e così anche nei paesi trentini si fece subito l’intesa
per la sottoscrizione e per l’invio dei volontari in Piemonte in
primavera.

Qualche mese dopo, un ufficiale piemontese, Alberto dei marchesi Incisa
della Rocchetta, veniva a Campo per fare col Lutti delle escursioni
e delle ricognizioni militari ordinategli dal Ministero della guerra
piemontese.

Ritornato a Milano dalla Valtellina, alla metà di novembre, seppi nel
circolo intimo degli amici di casa Maffei che il progetto di mandare
in Piemonte i coscritti a primavera era stato abbandonato. Invece nei
gruppi dirigenti, nella Società Nazionale, e tra i giovani, correva la
parola d’ordine che a primavera gli antichi volontari del 48 e del 49,
e quanti altri potessero, dovevano passare in Piemonte per arruolarsi
nelle truppe regolari, o in corpi di volontari.

Il progetto veniva accolto con entusiasmo, e la Società Nazionale
sopratutto si adoperava con una attività instancabile a diffonderlo
fra i giovani, e a compiere ogni preparativo per attuarlo. La
sottoscrizione, iniziata qualche mese prima, pigliava vaste
proporzioni; e venivano sottoscritte ingenti somme, note solo a quelli
che le raccoglievano; e con una larga cospirazione si preparavano i
mezzi per rendere possibile e facile avviarsi alle frontiere piemontesi
e il varcarle ai giovani che si apparecchiavano a compiere questa
grande dimostrazione; la più seria e la più efficace che mai si fosse
veduta in Italia.

A questa intesa parteciparono persone d’ogni classe e d’ogni paese,
nelle provincie lombarde e nelle venete. Tale occulto lavorìo durò
quasi tre mesi; noto a molti, vi partecipavano pure, com’era naturale,
vetturali, contrabbandieri, barcaioli; la Polizia n’era sulle tracce,
ma non riuscì ad impedirlo: nessuno tradì.




CAPITOLO XXVI.

1859.


I.

  _Sommario:_ Il capo d’anno. — I discorsi di Napoleone e di
  Vittorio Emanuele pel capo d’anno e per l’apertura del Parlamento.
  — Dimostrazione al teatro della Scala e il coro della «Norma»:
  _guerra guerra_. — L’organizzazione per mandare i volontari in
  Piemonte. — Nel gennaio e nel febbraio incomincia la partenza dei
  volontari. — La morte di Emilio Dandolo. — Il trasporto funebre
  della salma di Dandolo e la corona tricolore. — Il discorso al
  cimitero circondato dalla truppa. — Perquisizione del giorno
  dopo in casa Bargnani ove la Polizia sequestra una lettera di mio
  fratello Emilio. — All’alba del giorno seguente, il 25 febbraio, la
  Polizia viene in casa nostra per arrestare mio fratello e me. — Mio
  fratello aveva dormito in casa d’un amico. — Io riesco a fuggire.
  — Dopo aver saputo che in quella notte la Polizia aveva arrestati
  Garavaglia, Carcano, Signoroni e il moretto di casa Dandolo, vado
  dalla contessa Maffei. — La contessa Maffei, col mezzo di Tenca,
  mi procura il mezzo d’uscire dalla città. — Un primo contrattempo.
  — Un legnetto, e poi altri, mi conducono a Lonate Pozzuolo. —
  Il mio ospite. — Il signor Ernesto Tirinanzi, il giorno dopo,
  presentandomi come un Ispettore ferroviario, mi ottiene dal
  Commissario di Polizia di passare il Ticino in barca. — Giungo a
  Oleggio, e colla strada ferrata, riparto per Torino.

Il 1859 s’apriva con una bella giornata, serena come le nostre
speranze; e principiava anche lietamente. Alcune bande musicali andate
sulle prime ore del mattino a far omaggio pel capo d’anno, come d’uso,
alle autorità, nel far ritorno, percorrendo parecchie vie della città,
salutavano l’anno nuovo con allegre sonate. Tra queste, ogni tanto
ripetevano, tra gli applausi della folla che le seguiva, una canzone
popolare, venuta fuori da poco, chiamata la _Bella Gigogin_.

La musica della canzone era facile e vivace, le parole erano scipite
e quasi senza senso, ma tra esse c’era un ritornello che diceva:
_dagliela avanti un passo, delizia del mio cor_; parole a cui il
pubblico dava un significato patriottico sottinteso, accogliendole con
entusiasmo.

La _Bella Gigogin_ percorse quella mattina Milano trionfalmente, tra
infiniti applausi, accolta come un augurio, e rinnovando a tutti, col
buon umore, le speranze.

Quella canzone fu per qualche tempo popolarissima; talchè, quando
Napoleone entrò in Milano dopo la battaglia di Magenta, le musiche
militari francesi sonavano la _Bella Gigogin_, che chiamavano la
_milanaise_. Ma il miglior augurio pel nuovo anno ci doveva venire
prima da Parigi, poi da Torino. Napoleone nel ricevimento di capo
d’anno del corpo diplomatico, rivolgendosi all’ambasciatore d’Austria,
Hübner, gli aveva detto: _Mi duole che le nostre relazioni non
siano così buone come per l’addietro_. Quelle parole del silenzioso
Imperatore avevano avuto un eco formidabile in tutta Europa, come se
fossero già un annunzio di guerra. L’Austria rispose mandando subito
in Lombardia un nuovo corpo d’Armata, e sei battaglioni di _confinari_
croati.

Pochi giorni dopo, il 10 gennaio, Vittorio Emanuele nel discorso
d’apertura della sessione del Parlamento, pronunziava le parole: _Non
sono insensibile al grido di dolore che verso noi si leva da ogni
parte d’Italia_; parole che si seppe erano state dette d’accordo con
Napoleone.

Ne giunse la notizia a Milano la sera del giorno stesso in cui erano
state pronunziate. Ero al teatro della Scala; a un tratto si vide un
parlarsi l’un l’altro, con ansietà, con commozione, come di persone che
si comunicano una grande notizia, parve scorresse in tutti un fremito;
e una sorpresa insolita si osservò anche nei palchi delle autorità e
dei generali austriaci.

Quell’elettricità, per così dire, ch’era nell’aria, che era in tutti,
doveva, poche sere dopo, scoppiare rumorosamente in quella sala stessa
del teatro.

Si rappresentava la «Norma», e appena i sacerdoti druidici intonarono
il coro possente del _guerra, guerra_, tutto il pubblico scattò in
piedi: dai palchetti le signore sventolavano i fazzoletti, e tutti a
una voce, anzi con un urlo formidabile, si gridò _guerra! guerra!_ Il
coro fu fatto ripetere più volte tra un entusiasmo frenetico.

Gli ufficiali della guarnigione, che, come di solito, occupavano le due
prime file della platea a loro riservate, non capirono sulle prime la
ragione di quel chiasso. Esterrefatti, guardavano, quasi interrogando,
nei due palchetti riuniti di prima fila, ove stava il generale Giulay,
con parecchi ufficiali superiori.

Questi capirono ben presto di che cosa si trattasse e si misero ad
applaudire essi pure il _guerra guerra_. Anzi Giulay stesso ne diede
il segnale, battendo replicatamente la sciabola sul pavimento. Chi gli
avrebbe detto quella sera che la guerra sarebbe proprio scoppiata,
e che cinque mesi dopo egli vi avrebbe perduta a Magenta una grande
battaglia!

Il segnale dato da Giulay fu subito seguito da tutti gli ufficiali
che si rizzarono in piedi, e fissando il pubblico, applaudirono
fragorosamente. Si pensi che baccano! Da una parte si gridava
entusiasticamente _viva la guerra!_ si sventolavano i fazzoletti, e
si chiedevano nuove ripetizioni del coro; dall’altra si battevano, con
grande strepito e in modo parimente provocante, le sciabole in terra.
Il teatro fu attorniato dalla truppa chiamata in fretta, e Giulay uscì
circondato dallo stato maggiore e da ufficiali, quasi accorsi in sua
difesa.

Il baccano quella sera durò lungamente; era la esplosione d’una
aspirazione repressa, di veder spuntare il giorno desiderato, il giorno
della guerra. Le parole di Vittorio Emanuele avevano messo il fuoco
alle polveri.

Intanto si andavano disponendo i mezzi, seriamente e in grande, per
mandare quanti più giovani si poteva ad arruolarsi in Piemonte. Le
città e le borgate di Lombardia dovevano avviare questi giovani a
Milano, e da Milano, per varie strade prestabilite, sarebbero stati
poi diretti ai confini del Ticino, della Svizzera e del Po. Lungo tali
strade ci sarebbero stati dei punti indicati, ove chi arrivava avrebbe
trovato carrozze, alloggio all’occorrenza, e guide per proseguire il
cammino in modo rapido e sicuro. Tutto ciò era pagato da una Cassa
centrale in Milano. Chi partiva riceveva degli scontrini ch’erano carte
da giuoco tagliate, o bastoncini che combaciavano, noti a chi li doveva
raccogliere ai punti di ritrovo.

Con questi contrassegni, se occorrevano, o accompagnati da soccorsi in
denaro quand’era opportuno, i giovani che partirono giunsero presso che
tutti in Piemonte rapidamente e senza contrattempi. In tre mesi ve ne
giunsero circa dieci mila.

Alle spese provvedeva una cassa secreta fatta con contribuzioni
fiduciarie. La cassa e gli scontrini erano affidati ad un gruppo di
cittadini che se li passavano l’un l’altro, tenendoli pochi giorni,
poichè era un deposito pericoloso. E infatti presso chi l’aveva c’era
subito un andirivieni di giovani che doveva destare i sospetti della
Polizia, e che procurò spesse visite, chiamate e perquisizioni.

Non tutti i diecimila certamente andarono in Piemonte coi mezzi e coi
soccorsi della cassa secreta, poichè chi lo poteva andava a proprie
spese, ma ce n’andarono moltissimi. In tutto ciò ebbe una gran parte
quella cospirazione generale, spontanea, di tutti, che s’era veduta nel
quarantotto; e, come allora, le classi elevate contribuirono con una
grande generosità, tanto più notevole questa volta perchè secreta.

Il pensiero d’andare in Piemonte ad arruolarsi cominciò presto a farsi
strada tra i giovani e tra gli antichi volontari del ’48. Già nei
primi giorni del gennaio, nei ritrovi, nei caffè, tra gli studenti, si
sussurrava: quando si va?

Una sera mi trovavo in casa del marchese Luigi Crivelli, e si parlava
appunto delle speranze ch’erano sulle bocche di tutti, e del progetto
di passare in Piemonte per arruolarsi. «Quando si incomincierà?»
domandavano alcuni. «E se si andasse subito?» saltò su Giulio Venino,
che allora era studente di matematica, e che poi diventò capitano
d’artiglieria. «Se io, per esempio, partissi tra un paio di giorni,
farei bene?» Tutti lo applaudirono, e poco giorni dopo seppi ch’era
partito, e che s’era arruolato a Torino come soldato semplice
nell’artiglieria.

Ho voluto ricordare il suo nome, perchè in quei giorni il nobile
esempio del Venino trovò un’eco simpatica e vivissima tra i giovani
milanesi.

Un giorno, il padre di Gaetano Negri, ch’era un vecchio amico di casa
nostra, venne a confidare a mia madre che il suo unico figlio maschio
Gaetano, giovane di vent’anni, partiva per arruolarsi. Aveva le lacrime
agli occhi, ma nel tempo stesso era superbo della decisione di suo
figlio. Gaetano Negri, dopo un anno era sottotenente di fanteria, e
aveva già guadagnato una prima medaglia al valor militare.

Questi esempi furono presto seguiti da molti, e ormai ogni giorno
s’udivano ripetere i nomi di giovani appartenenti alle più alte
famiglie milanesi, che si erano furtivamente recati in Piemonte
per arruolarsi. L’esempio, cominciato dall’alto, si diffuse in ogni
classe; prima che finisse il febbraio si contavano già a migliaia gli
arruolati. I pochi, che, potendolo, non partivano, non si lasciavano
vedere. Tra gli arruolati si annoveravano anche i più bei nomi delle
provincie lombarde e delle venete. Nessuno resisteva a quell’entusiasmo
generale che chiamava la gioventù ad espatriare per arruolarsi e ad
esporsi alle più gravi sventure, se gli avvenimenti fossero finiti
male.

Questa grande dimostrazione patriottica merita veramente di essere
ricordata come uno dei fatti più seri, più generosi che conti la storia
del nostro risorgimento. Le autorità austriache, civili e militari,
solite a burlarsi delle nostre dimostrazioni, questa volta rimasero
stupite; e pur fremendo ammiravano un tal fatto così nuovo, e che non
giungevano a frenare.

Ciascuno di noi, di quel gruppo di giovani, voglio dire, che viveva in
continua dimestichezza, aveva fatto i propri preparativi per passare
in Piemonte, ma se ne voleva differire l’esecuzione per poter intanto
accrescere la cassa, e sorvegliare i contrassegni di fronte a qualche
improvviso contrattempo, o a qualche scoperta della Polizia.

Eran questi di solito gli argomenti dei nostri discorsi in quei giorni
in casa Dandolo, seduti presso la poltrona su cui giaceva il povero
Emilio, affranto dalla tisi che faceva rapidamente i suoi ultimi
progressi. Egli era affettuosamente assistito dalla madre Ermellina,
dal padre, dal Barnabita padre Piantoni, dagli amici, e tra questi,
sopratutto, dal medico Scipione Signoroni, suo antico compagno d’armi
nel battaglione Manara, e già attaccato lui pure dalla tisi che doveva
spegnerlo, sul fiore dell’età, pochi anni dopo[33].

Emilio Dandolo non s’illudeva da parecchio tempo sulla gravità del
suo male, e nei discorsi di quei giorni le nostre liete speranze
facevano un penoso contrasto colla inesorabile fatalità che spegneva
l’amico. Dandolo nondimeno si lusingava di poter vivere ancora
alcuni mesi: non sperava di poter rivestire la sua antica divisa di
ufficiale dei bersaglieri, ma Cavour gli aveva assicurato un posto
nello Stato Maggiore. I suoi pensieri erano tutti rivolti alla guerra
e si aggiravano sempre intorno alla speranza di morire su un campo
di battaglia. Ma il male inesorabile doveva ben presto dissipargli
crudelmente anche questo ultimo sogno.

In uno di quegli ultimi discorsi intimi egli mi confidava alle volte
alcune informazioni che gli giungevano, e ch’egli trasmetteva a Cavour,
sulle forze e sui movimenti delle truppe austriache. Fin dall’autunno
erano secretamente venuti in Lombardia due capitani piemontesi di
Stato Maggiore, Incisa e Govone. Il capitano Alberto Incisa della
Rocchetta, nominato innanzi, e che divenne poi generale come il suo
collega Govone, aveva a Milano parenti ed amici, oltre il Dandolo, che
l’aiutarono nella sua pericolosa missione: tra questi Lodovico Trotti,
Carlo d’Adda, Cesare Giulini, Carlo Ermes Visconti.

Più tardi Cesare Giulini, con quei due ufficiali, compiva una missione
ancora più ardita. Conoscendo strade e paesi tra Milano, il Ticino e il
Novarese, per averci dei possessi, quando, dopo la dichiarazione della
guerra, le truppe austriache entrarono in Piemonte, essi ne seguirono a
poca distanza le mosse, e via via ne facevano giungere le informazioni
al Lamarmora.

La mattina del 20 febbraio Emilio Dandolo tranquillamente spirava
nelle braccia del padre e della madre, circondato da alcuni amici. La
notizia corse rapida per la città, e corse anche la parola d’ordine
che tutti dovessero accorrere a rendere gli estremi onori al giovane
e valoroso patriotta. Intanto la famiglia e gli amici vegliavano il
cadavere, e prendevano gli accordi per la giornata dei funerali. Si
voleva che sulla tomba parlasse mio fratello Emilio, ma in quella
mattina egli doveva essere padrino d’un duello di Gerolamo Fadini con
un ufficiale austriaco; così egli cedette il mesto incarico al conte
Gaetano Bargnani, parente dei Dandolo, il quale in poche ore preparò
un caloroso e coraggioso discorso. Carmelita Manara ed Ermellina
Dandolo deposero il cadavere nella bara: Carmelita gli mise sul petto
la coccarda tricolore, che suo marito Luciano aveva portata durante le
campagne; Ermellina vi collocò una ghirlanda di fiori dai tre colori.

Ma non contenta di ciò, la contessa Ermellina incaricava uno degli
amici, Ignazio Crivelli, di procurargli delle camelie bianche e rosse
per intrecciarle con foglie verdi e farne una corona, ch’essa pensava
di far collocare sul feretro nel momento del trasporto. E, fissa in
questo pensiero, faceva conficcare nel coperchio del cofano dei chiodi
sporgenti per assicurare la sua corona. Ma qui stava il difficile,
perchè la Polizia l’avrebbe sequestrata al suo primo apparire. Pensò
dunque, d’accordo cogli amici, di far collocare la corona sul feretro
solo quando il corteo sarebbe uscito dalla chiesa, dopo le esequie.
Così tutti l’avrebbero veduta, e alla Polizia sarebbe riuscito più
difficile sequestrarla.

Il trasporto funebre fu fatto la mattina del 22, e il feretro fu
portato alla chiesa di San Babila dalla casa Crivelli, posta sul corso
di _Porta Orientale_, ove, come già dissi, abitavano i Dandolo.

Durante le esequie, la folla, che presto non potè più trovar posto
nella chiesa, andò rapidamente agglomerandosi sulla piazza, occupando
a mano a mano fin le strade vicine e una parte del corso. Era una folla
serrata, silenziosa, imponente. La Polizia se ne allarmò, e non potendo
disperderla, mandò l’ordine alla chiesa di sospendere il trasporto del
feretro al cimitero. Appena si seppe quest’ordine, si sollevò nella
chiesa un vivo rumore di impazienza e di protesta che decise alcuni
amici di casa Dandolo, tra i quali Costantino Garavaglia e Lodovico
Mancini, a recarsi subito nella sacrestia, dove c’era un Commissario di
Polizia, per persuaderlo a lasciar compiere il trasporto. Dopo un lungo
e inutile battibecco, il conte Tullio Dandolo e la duchessa Giovanna
Visconti di Modrone andarono dal luogotenente Bürger per persuaderlo
come, nell’interesse stesso dell’ordine pubblico, fosse miglior partito
lasciar compiere il trasporto. Il Bürger, fatte molte raccomandazioni,
acconsentì.

Il feretro, portato a spalla, si mosse, e la folla che era in chiesa
si precipitò fuori dalle porte laterali. Alla porta centrale stava
il gruppo degli amici di Emilio Dandolo, in mezzo ai quali c’era il
portinaio di casa Crivelli, un ometto, patriotta anche lui, che teneva
nascosta sotto un ampio mantello la corona. Mentre il convoglio stava
per uscire dalla chiesa, Lodovico Mancini, giovane alto dalla persona,
prese la corona e rapidamente la collocò, non veduto, sul feretro
assicurandola ai chiodetti.

Appena comparve dinanzi all’immensa folla quel feretro, su cui stava
la bella corona tricolore, ci fu un fremito in tutti e si levò un urlo
infinito, frenetico, spaventoso, che si ripercosse a lungo e lontano
tra quelle migliaia di persone accorse a dar l’ultimo saluto, al
valoroso patriotta precocemente morto.

In mezzo a quella folla stipata non fu facile formare il corteo; allora
i feretri non venivano collocati sulle carrozze, ma erano portati a
spalla. Dodici tra noi, amici intimi del povero Emilio, ci eravamo
prefissi di adempiere a questo ufficio, dandoci il cambio tratto
tratto, e tenendoci intorno al feretro. Accanto a noi c’era il padre
Piantoni, un dotto barnabita, amico dei Dandolo. Dietro, al posto
d’onore, veniva un drappello di antichi soldati ed ufficiali, avanzi
del battaglione Manara, alcuni dei quali erano mutilati. Il commovente
drappello accresceva la commozione e il fermento della moltitudine
di persone che si stipavano intorno. Il feretro procedeva lentamente,
fendendo a stento quella folla agitata, sospinta. Tutti volevano veder
la corona tricolore che ad ogni passo sollevava grida di entusiasmo;
grida che facevano uno strano contrasto col sentimento di dolore, che
pur vedevasi in tutti.

Quel trasporto funebre pareva un trionfo. Era infatti il trionfo d’un
patriotta, il trionfo di quella concordia cittadina ch’era l’omaggio
più caro allo spirito di lui.

La ressa era tale che più volte, essendo io pure tra gli amici che
s’avvicendavano nel portare il feretro, temetti che fossimo rovesciati
e calpestati. I gendarmi, le guardie, gli agenti della Polizia, erano
scomparsi. Non sarebbe stato possibile affrontare quella folla esaltata
e risoluta; così essa rimase padrona del campo dalla chiesa fino al
cimitero, detto di San Gregorio, ora soppresso, e ch’era fuori la Porta
Orientale.

Il feretro e la folla, giunti alla dolorosa dieta, trovarono il
cimitero occupato e circondato dalla truppa. Il feretro e parte di
quelli che lo seguivano poterono entrarci, ma i più furono respinti.
La cassa fu sepolta provvisoriamente in una fossa comune, e su di essa
pronunciarono parole patriottiche e coraggiose il conte Bargnani, come
era stato stabilito, e Antonio Allievi.

Il giorno dopo il conte Tullio ottenne di far trasportare la salma
del figlio nella sua villa di Adro, in provincia di Brescia e fu
dissepolta secretamente, alla presenza di agenti di Polizia. Vi accorse
la contessa Ermellina, che potè, non veduta, ritrovare la corona,
nasconderla sotto il mantello, e riportarla a casa.

Nei giorni seguenti il conte Tullio era chiamato a Torino per assistere
a un ufficio funebre che, per iniziativa di Cavour, veniva celebrato in
suffragio del figlio. Tra i promotori di quelle onoranze si leggevano,
accanto al nome di Cavour, quello di Lamarmora, Azeglio, Durando,
Lanza, Sella ed altri.

Era da aspettarsi che il Governo non avrebbe tardato a far pagare
a qualcuno quella grande dimostrazione, contro la quale era stato
impotente, e ch’era parsa quasi una sollevazione.

Infatti, nella giornata seguente a quella del funerale, alcune faccie
poliziesche si presentarono in casa Bargnani a chiedere del conte.
Avvisatone, egli si recò subito da mio fratello Emilio, che gli diede
una lettera per un signore di Pavia, l’avv. Caravaggio, divenuto poi
prefetto e senatore, e che allora si adoperava a far passare il confine
ai compromessi e ai volontari. Il Bargnani, prima di partire, ritornò
a casa sua per pochi momenti, e n’era appena uscito di nuovo che
capitarono gli agenti della Polizia. Dopo averlo cercato invano, fecero
nella casa una minuta perquisizione; e frugando fin nelle tasche dei
vestiti di lui, nel vestito che aveva mutato poco prima trovarono la
lettera di mio fratello, che nella fretta egli vi aveva dimenticato.

La contessa Bargnani, ch’era stata presente alla perquisizione, appena
usciti i poliziotti, corse a casa nostra per avvisare Emilio che la sua
lettera era stata trovata e sequestrata. Emilio ne avvisò l’Allievi,
pensando che la Polizia avesse voluto arrestare il Bargnani in causa
dei discorsi pronunciati al cimitero; e lo esortò a partire. L’Allievi
infatti partì.

Alla mia volta esortai molto mio fratello perchè partisse egli pure,
parendomi che dopo il sequestro della sua lettera l’aria di Milano non
facesse più per lui; ma Emilio, che fu sempre ritroso a prendere delle
precauzioni per sè, preferì differire.

La sera del giorno seguente, ch’era il 24 febbraio, dopo la
rappresentazione del teatro della Scala, ci trovammo io e Emilio in
un crocchio di amici al caffè Cova. Emilio raccontò l’avventura della
lettera, poi disse che poco prima s’era incontrato, in un corridoio del
teatro, col Direttore di Polizia, il quale lo aveva fissato in un certo
modo che pareva volesse dire: Ah, sei ancora a Milano? Ci rivedremo tra
poco!

Gli amici esortarono Emilio, e anche me, a pigliare il largo, almeno
a non rincasare quella sera, offrendoci l’ospitalità in casa loro.
Pregato vivamente anche da me, Emilio si persuase a seguire un amico
che volle condurlo in casa sua. Emilio voleva che ci andassi anch’io,
ma un impegno me lo impediva. Sapevo che la mattina seguente, di
buon’ora, dovevano venire alcuni giovani bresciani indirizzatici da
Giuseppe Zanardelli, per avere gli scontrini necessari per passare il
confine. Di più dovevo consegnare la Cassa secreta, che tenevo in quei
giorni, all’amico Carlo Gagnola che mi succedeva nell’incarico.

Rincasai, ma non andai a letto subito. Avevo il presentimento, naturale
del resto, che potesse capitare anche in casa nostra una visita della
Polizia da un momento all’altro, forse quella stessa notte. Diedi
un’occhiata alla scrivania di Emilio e alla mia, e bruciai alcune
carte. Nel frattempo, sempre seguendo i presentimenti, mi venne un
pensiero che doveva tornarmi molto utile, e cioè di chiudere la camera
di Emilio, e di nasconderne la chiave. Poi andai a letto.

Un po’ prima dell’alba fui svegliato di soprassalto da un rumore di
passi nella stanza vicina, ed ecco spalancarsi la porta ed entrare
il servitore, che teneva un lume con mano tremante, ed era seguito
da alcune persone. Queste circondarono subito il mio letto; spalancai
gli occhi e vidi due Commissari e quattro guardie di Polizia. Uno dei
Commissari mi disse che mi dovevano fare una perquisizione, e che mi
alzassi.

Mentre frugavano tra le mie carte e tra i miei libri, in ogni angolo
della camera, e persino nelle tasche degli abiti, mi vestii, apersi le
finestre e diedi un’occhiata in istrada. Giù, presso il portone, c’eran
due guardie e una carrozza. La carrozza voleva dire, a quei tempi, che
si trattava dell’arresto.

Uno dei Commissari mi domandò se eravamo due fratelli. Gli risposi
ch’eravamo tre. Mi parve che questa risposta lo imbarazzasse, perchè
si mise a confabular piano coll’altro; poi mi disse di condurlo nella
camera del fratello maggiore.

Quando si trovarono dinanzi a un uscio chiuso e senza chiave, i miei
personaggi montarono in furie. Mi fecero un monte di domande alle quali
risposi che non sapevo nulla, e alla fine ingiunsero al mio servitore
di chiamare un fabbro. Il servitore andò, si fece aspettare un pezzo,
poi ritornò dicendo che le botteghe eran chiuse, e che di fabbri non
ce n’era. Nuovi furori dei Commissari, che finirono coll’ordinare alle
guardie di abbattere l’uscio.

«Come mai?» esclamarono vedendo un letto ancor fatto. «Ma... suo
fratello ieri sera era in teatro!»

«E ne siamo usciti insieme» risposi. «Poi io venni difilato a casa, ed
egli andò al caffè.»

Il non aver trovato Emilio, e l’aver sentito che eravamo tre fratelli,
due fatti non preveduti, fecero confabulare di nuovo i miei Commissari.
Poi, uno se ne andò per chiedere, evidentemente, nuove istruzioni, e
dicendo infatti che sarebbe tornato tra poco; l’altro principiò a fare
la sua perquisizione nella camera di Emilio. Intanto io m’ero messo a
chiacchierare colle guardie, dando loro dei sigari, passeggiando per le
stanze attigue e meditando il mio piano.

A un tratto sento il campanello dell’uscio che metteva sul
pianerottolo. Mi viene un sospetto, e accompagnato da una guardia
corro ad aprire. Vedo tre giovani, capisco ch’erano i tre bresciani
mandati da Zanardelli. Ricordo ancora quelle tre facce che, sbalordite
per aver vedute le guardie in strada, ora si trovavano dinanzi a un
altro poliziotto: devono aver creduto in quel momento d’esser caduti in
trappola. Dissi piano, ammiccando loro: «_a più tardi_» e loro giù in
fretta per le scale.

Seppi poi, molto tempo dopo, che li accolse mio fratello Enrico, il
quale sapeva dove tenevo nascosti gli scontrini e la _Cassa_, e che
pensò lui a tutto.

All’appartamento che occupavamo allora si accedeva anche da una
scaletta di servizio, e nella casa c’eran due corti, una che metteva
nella via Cerva e l’altra nella via Monforte. La Polizia era venuta da
via Cerva. Ora, mentre passeggiavo per le stanze, e scambiavo colla
massima indifferenza alcune chiacchiere colle guardie, mi decisi
pel mio piano, ch’era di svignarmela prima che arrivasse il secondo
Commissario. E, detto fatto, approfittando d’un istante di distrazione
delle guardie, passai di soppiatto da un uscio a muro in una stanza
attigua, presi la scaletta, scesi in fretta nella seconda corte, apersi
lo sportello del portone di cui poco prima avevo preso la chiave, e in
un attimo fui in via Monforte.

Albeggiava; le strade erano ancora deserte, e io potei principiare la
mia ritirata con una certa velocità, senza destar sospetti, perchè non
incontrai anima viva.

E ora dove vado? Fu questo il mio primo pensiero, dopo aver fatto un
paio di strade, mentre rallentavo il passo per riavere il fiato. Dove
vado?

Andrò, pensai, in casa di qualche amico dove potrò provvedere ai casi
miei. Mi diressi, di buon passo s’intende, verso la casa dell’amico
Costantino Garavaglia; e giuntovi, trovai sul portone il portinaio
smorto, allibito. Mi conosceva, e fattosi vicino mi disse piano: «Il
signor Garavaglia è stato arrestato, l’hanno condotto via mezz’ora fa.»

Mi diressi allora verso casa Carcano, e fu la stessa scena. «Quelli
della Polizia son venuti a prendere don Costanzo questa notte,» mi
disse tremando il portinaio; «ha ben cercato lui di svignarsela, ma
l’hanno ripreso.»

E ora dove vado? dissi ancora tra me. Faccio pochi passi, ed ecco il
servitore di casa Dandolo che mi disse d’essere in giro per ordine
della contessa, per avvisare i Carcano, me ed altri, che nella notte la
Polizia era andata in casa Dandolo a fare un perquisizione, arrestando
poi il moro Latif.

Latif era un giovane negro, che Emilio Dandolo aveva condotto con sè
dal suo viaggio in Egitto. La Polizia lo aveva arrestato sperando di
sapere da lui come fosse avvenuta, in casa Dandolo, la _cospirazione_
del funerale, e quali fossero i _cospiratori_. Ma il povero moretto,
come vedremo più innanzi, rimase in prigione qualche tempo quasi
senza aprir bocca, rispondendo a monosillabi: sapeva qualche parola di
milanese, e ad ogni domanda rispondeva: _mi soo nient_.

Il poveretto morì poco tempo dopo, etico anche lui come il suo padrone,
a cui era grandemente affezionato.

Al servitore di casa Dandolo diedi quelle poche notizie che ho qui
riferite; lo incaricai di salutare la contessa, e di dirle che speravo
di non lasciarmi acchiappare.

Mi venne intanto il pensiero di andare, per strade un po’ fuor di
mano, dalla contessa Maffei, sicuro che vi avrei trovato tutti quegli
aiuti che mi potevano occorrere. Più tardi seppi che in quella notte
la Polizia aveva fatti altri arresti, ed altri ne ordinò poi tra le
persone che credeva complici della dimostrazione pel Dandolo. Tra
questi c’erano il marchese Luigi e la marchesa Carolina Crivelli, e il
marchese Lodovico Trotti, che fuggirono in Piemonte.

La contessa Maffei, che feci svegliare dalla cameriera, mi ricevette
subito, immaginandosi che ci fosse qualche cosa d’importante se venivo
a quell’ora. In poche parole le raccontai l’accaduto, ed essa pensò di
far chiamare subito il Tenca.

Mentre la contessa si vestiva, e il servitore andava a chiamare il
Tenca, mi ricordai ch’ero uscito di casa senza un soldo in tasca,
circostanza sfavorevole per chi si prepara a una fuga. La contessa,
lì per lì, non ne aveva molti. A pochi passi, cioè alla Croce Rossa,
abitava donna Laura Scaccabarozzi d’Adda, che avrebbe potuto supplire,
e in due salti fui da lei. Mi ricevette, e mi diede quanto mi poteva
largamente abbisognare, poi si assunse di far avvisare Emilio, e di
andare da mia madre per dirle quanto era avvenuto, appena mi sapesse
fuori dalla città. Ritornato dalla contessa vi trovai il Tenca, il
quale andò a chiamare un comune amico, l’ingegnere Achille Villa, che
aveva cavalli e carrozze.

In meno di mezz’ora il Villa fu alla porta di casa Maffei con un
legnetto e un buon cavallo. Partii con lui, di gran trotto, e uscimmo
da Porta Nuova senza che le guardie si occupassero di noi, in mezzo
all’andirivieni dei carri e delle carrette che a quell’ora entrano in
città. Strada facendo il Villa mi disse che m’avrebbe condotto in una
cascina, a due miglia dalla città, ove abitava un tale, di cui non
rammento più il nome; mi diede il suo biglietto da visita, con cui
dovevo presentarmi, e quel tale si sarebbe incarico di mandarmi al di
là del Ticino.

Si giunge alla cascina, ci salutiamo, e in un attimo il legnetto e
l’ingegnere scomparvero.

Eccomi dunque solo, nella vasta corte d’un cascinale, dinanzi a un cane
che abbaiava, e a un branco di oche che scappavano. Ma poco dopo mi
venne incontro anche un uomo, un cavallaro.

— «C’è il signor...» gli domandai subito.

— «Il signor...? mio padrone non c’è. È andato ieri a Milano, e per
alcuni giorni non tornerà.»

Ciò detto il mio cavallaro mi voltò le spalle e se ne andò in una
stalla.

Si incomincia male, pensai tra me. E ora che cosa si fa?... Darò una
buona mancia al cavallaro e lo manderò a Milano con un biglietto per
l’ingegnere Villa raccontandogli il mio contrattempo.

— «Ehi, buon uomo» dissi al cavallaro entrando nella stalla, «vorrei
domandarvi un favore.»

Il cavallaro mi fissò con una cert’aria scrutatrice, poi mi disse
sottovoce: «Lei sarebbe per caso uno di quei giovanotti che vanno
via... che vanno per di là?» e fece un gesto nella direzione
dell’occidente, ossia verso il Ticino.

— «Precisamente» risposi.

— «Allora, quand’è così, aspetti un momento; attacco un legnetto, e si
parte subito. Eh, ne ho condotti in questi giorni, de’ giovanotti che
vanno ad arruolarsi!»

— «Vedo che siete un brav’uomo.»

Poco dopo ero nel legnetto, che s’avviò per strade comunali, e fuor
di mano, evitando le strade principali ch’erano percorse da pattuglie.
Il cavallaro-cocchiere mi disse che m’avrebbe condotto a un paesello,
di cui non ricordo il nome, ove avrei trovato un altro legnetto per
proseguire.

Così viaggiai fin quasi a sera, mutando tre volte il vetturale, il
legno e il cavallo, somministratimi da persone che non conoscevo, senza
spiegazioni, come cosa intesa, e andando sempre per stradette tortuose
e fuor di mano. Che brava gente!

Sull’imbrunire, l’ultimo dei miei vetturali prese a dirmi: «Vede
quel paese? È Lonato Pozzuolo. È là che la conduco, e ci siamo.» Poi
interrompendosi di botto, m’indicò poco distanti certe punte di elmi
che luccicavano — allora i gendarmi avevano gli elmi alla prussiana
— e mi disse sotto voce: «I gendarmi! scenda subito, passi la siepe,
attraversi in fretta quel campicello... vedrà in principio del paese
una vecchia casa... ci entri.» Così dicendo, voltò il legnetto; io
scesi, attraversai la siepe, e via tutt’e due, uno da una parte, uno
dall’altra. In pochi minuti giunsi alla vecchia casa, e entrai in un
portone.

— «Chi è là? Chi cerca?» mi chiese una vecchia fantesca facendosi
innanzi.

— «C’è il padrone di casa?» risposi franco come se lo conoscessi.

— «Entri per quell’uscio in cucina, e ve lo troverà.»

Seduto sotto la cappa d’un gran camino, attizzando colle molle le
legna, e fumando la pipa, se ne stava un ometto sulla cinquantina, che
vedendomi mi squadrò, si alzò, e mi venne incontro.

— «Con chi ho il piacere di parlare?» mi disse con un fare bonario che
ispirava confidenza.

— «Con uno» gli risposi «che viene a domandare ospitalità.»

Il mio ospite mi squadrò ancora, e diede una occhiata interrogativa al
mio cappello. Bisogna sapere che nel fuggire di casa, quella mattina,
nella fretta m’ero messo in testa un cappello a tuba. Quel cappello
aveva più volte attirato lo sguardo curioso e un poco sospettoso dei
miei vetturali e di quanti incontravo per le stradette di campagna.

— «Io sono» presi a dire, «un giovane che vorrebbe andare di là...»
e feci quel tal gesto colla mano e col braccio. «Ma c’è di più; la
Polizia questa mattina è venuta per arrestarmi, e son fuggito da
Milano. Ora poi, poco fa, una pattuglia di gendarmi potrebbe avermi
veduto, mentre attraversavo una siepe e me la davo a gambe...»

— «Ha fatto bene a dirmelo; vado a chiudere il portone, e allora non ci
pensi più, lei è al sicuro.»

— «Eccomi da lei» continuò poco dopo, ritornando in cucina, e
fregandosi le mani. «Dunque lei avrà le notizie di Milano....»

— «Innanzi tutto le dirò chi sono...» e andavo cercando nel portafogli
un biglietto da visita.

— «Non importa, non importa. Volevano arrestarla? Basta così. Siamo
tutti patriotti, e viva l’Italia!»

È così che si parlava allora. Io non sapevo chi fosse lui, egli
non sapeva chi fossi io; ma un sentimento reciproco di fiducia, una
speranza, una fede comune ci legava tutti; bastava che si parlasse lo
stesso linguaggio, per sentirci amici, fratelli.

— «Dunque a Milano grandi novità!? Si parla che ci fu un grande
funerale, che ci fu una grande dimostrazione!... Mi dica, mi racconti.»

— «Eh, sicuro; ci ho preso qualche parte anch’io, e forse per questo mi
volevano pigliare. Se desidera delle novità, gliene porto un sacco.»

— «Benone, benone. Sa che cosa faremo? Vado a chiamare due miei amici,
ghiotti anche essi di notizie... un ingegnere e un prete, due bravi
giovanotti a cui piace la compagnia. Lei ci racconterà le notizie, e
passeremo la sera insieme. Ma, a proposito, mi dica un po’ come stiamo
a appetito?»

— «Benissimo,» risposi, «ho pranzato appunto ventiquattr’ore fa; poi ho
sbocconcellato oggi per strada qualche pezzo di pane... e basta.»

— «Peccato che lei sia capitato proprio quando avevo finito di cenare.
Ma guardiamo nella credenza, forse qualcosa ci sarà.»

Poco dopo, sulla tavola d’un salottino, accanto alla cucina, il mio
ospite mi imbandì un mezzo piccione, del salame e del cacio; poi uscì
a chiamare i suoi due amici. Prima che il padrone tornasse, la serva
aveva collocato sulla tavola quattro bicchieri e sei bottiglie! Ciò,
evidentemente, doveva far parte, oltre i discorsi, del programma della
serata.

L’ingegnere e il prete, che vennero poco dopo, erano due buoni e
allegri compagni, che amavano la patria, il vino buono e la compagnia.

Se ne fecero delle chiacchiere! Si continuò fino a notte inoltrata,
finchè il vino, la stanchezza, i discorsi, m’ebbero rifinito. Non
ne potevo più; finalmente il mio ospite, che per suo conto avrebbe
continuato a chiacchierare e a bere, mi condusse in una camera ove
c’era un gran letto, e datami la buona notte mi raccomandò di non
uscire prima che venisse lui a prendermi.

Quando venne, il sole era già alto e io dormivo placidamente ancora.
Egli mi disse d’aver fatto intanto un giretto d’esplorazione nei
dintorni, e d’aver osservato che il passaggio del Ticino era divenuto
ormai quasi impossibile. Le rive del fiume erano continuamente percorse
da pattuglie di ussari; i barcaiuoli, minacciati continuamente dai
gendarmi, non osavano più muovere le barche; a voler passare c’era da
prendersi una schioppettata.

— «Però lei passerà» conchiuse il mio ospite. «Ne ho fatti passare dei
giovanotti!... e lei, sangue freddo, e faccia franca!»

Poco distante c’era un ufficio di Dogana, con un Commissario di
Polizia. Il mio ospite conosceva il Commissario, gli aveva fatto visita
poco prima, e gli aveva detto ch’era arrivato l’ingegnere capo d’una
ferrovia progettata, di cui si parlava in quei giorni. Io, dunque,
dovevo essere l’ingegnere, venuto a visitare le vicinanze della Dogana.

Eccoci dunque sulla strada che conduce all’ufficio della Dogana, ed
ecco poco dopo il Commissario, che avendoci veduti mi veniva incontro
a complimentarmi. In quel momento il mio cappello a tuba tornava
opportunissimo, come se lo avessi preso apposta per la circostanza.

— «Dunque è vero che si sta studiando il prolungamento della ferrovia a
cavalli di Tornavento?» mi chiese il Commissario.

— «Si studia, si studia,» risposi col fare circospetto di chi non vuol
entrare in particolari.

Il Commissario amava discorrere, ed era molto ossequioso; io serbavo un
contegno pieno di dignità.

— «Dicevo questa mattina al signor Ernesto, venuto gentilmente a
salutarmi,» prese a dire il Commissario, «che sarebbe questa una bella
occasione per me, se potessi impiegare mio figlio nella Società, di cui
sento ch’ella è l’Ispettore... Non avrei osato raccomandarglielo, ma...
il signor Ernesto Tirinanzi mi ha fatto coraggio...»

Sentivo in quel momento, per la prima volta, che il mio ospite si
chiamava il signor Ernesto Tirinanzi.

Accolsi con _benevolenza_ la raccomandazione del Commissario; gli feci
alcune interrogazioni sul figlio; e levato di tasca il portafogli
presi degli appunti, incoraggiando il mio ossequioso interlocutore
a mandarmi, col mezzo del signor Tirinanzi, un’istanza regolare e
documentata.

Mentre il Commissario si profondeva in ringraziamenti, il signor
Tirinanzi gli domandò se il signor Ispettore, cioè io, avrebbe potuto
portarsi per una mezz’oretta sulla riva destra del Ticino per certi
studi che stavo facendo.

— «Veramente,» rispose il Commissario, «in questi momenti non si
potrebbe... però...»

— «Oh, ma io» soggiunsi «non ho alcuna fretta... al caso, più tardi,
un’altra volta...»

— «No, signor ingegnere, cioè signor Ispettore, se vuol portarsi
sull’altra riva, per darci un’occhiata, è meglio che ci vada
subito, intanto che non ci sono i soldati. Lasci fare a me, signor
ispettore...» e chiamò quattro guardie di finanza.

Poco dopo, colle guardie e col signor Tirinanzi, entrai in una barca
della finanza; il Commissario si scusò di non poterci accompagnare,
per non abbandonare il posto; e in pochi minuti toccammo la sponda
piemontese.

Così io potei compiere la mia fuga, attraversando il Ticino sotto la
scorta delle guardie di finanza.

Fattici i reciproci complimenti per aver bene rappresentata la nostra
commedia, dissi al signor Tirinanzi: «Io sono al sicuro, ma lei deve
tornare a casa... come l’accomoderà col Commissario?»

— «Il Commissario capirà che l’ho canzonato, ma gli converrà di tacere.
Ora, lei dovrà andare a Oleggio, poi a Novara, ove prenderà la strada
ferrata per Torino. Bisognerà però che fino a Oleggio l’accompagni io,
diversamente traverso le boscaglie c’è da perdere la strada.»

Si andò insieme a piedi a Oleggio, poi da Novara mandai subito un
telegramma a Milano per tranquillare mia madre e mio fratello Enrico.

A Oleggio salutai, abbracciandolo, il signor Tirinanzi, e cercai alla
meglio di esprimergli tutta la mia riconoscenza. Ci scrivemmo di tanto
in tanto per parecchi anni, e ci vedemmo pure qualche volta. Di lui
rammenterò sempre la cordialità con cui mi ospitò, e il sentimento
patriottico con cui protesse me, che gli ero sconosciuto, come se fossi
un suo figlio.


  NOTA.

  [33] Tra gli amici intimi che avevano in passato fatte liete le
  serate di casa Dandolo, e che ora circondavano il povero amico
  che si spegneva, rammento, oltre al dottor Signoroni, i fratelli
  Mancini, i Carcano e i Caccianino; l’ingegnere Pirovano, Alfredo
  Ulrich, Costantino Garavaglia, il conte Ignazio Lana, Ignazio
  Crivelli, il marchese e la marchesa Crivelli, il pittore Chialiva,
  le famiglie Piola e Fontana.




CAPITOLO XXVII.

1859.


II.

  _Sommario:_ Arrivato a Torino vi trovo mio fratello Emilio giunto
  quel giorno stesso. — Le circostanze che accompagnarono la sua
  fuga da Milano. — Una lettera di G. B. Guy. — I volontari. — La
  Commissione d’arrolamento e le scuole militari preparatorie. —
  Giuseppe Massari. — Casa Arese e casa Correnti. — Sirtori. — Il
  processo, a Milano, per la dimostrazione del funerale Dandolo. —
  L’interrogatorio della contessa Ermellina Dandolo. — Un’udienza
  del Conte di Cavour. — Formazione dei Cacciatori delle Alpi. — Le
  vie di Torino affollate da cittadini che venivano da ogni parte
  d’Italia. — Voci dubbiose o sconfortanti che vengono tratto tratto
  da Parigi. — Ansietà pubblica, e fede in Cavour. — L’arrivo dei
  plenipotenziari austriaci che intimano il disarmo: rifiuto del
  Governo Piemontese. — La seduta della Camera dei deputati in cui
  Cavour chiede i pieni poteri. — La dichiarazione di guerra, il
  proclama del Re all’esercito. — Napoleone interrompe le relazioni
  coll’Austria. — Il Mezzacapo destinato a prendere il comando delle
  forze insurrezionali in Romagna arruola alcuni giovani da condur
  seco, nel cui novero sono accolto io pure. — Cavour nomina una
  Commissione consultiva di lombardi per predisporre i primi decreti
  amministrativi con cui iniziare il nuovo Governo in Lombardia,
  e sono chiamato anch’io a prendervi parte. — L’arrivo dei primi
  soldati francesi e il duca di Chartres. — Accoglienza entusiastica
  alle truppe francesi nelle vie di Torino. — L’addio di Carlo De
  Cristoforis.

Da Novara a Torino mi trovai in vagone con parecchi giovani, che
avevano da poco passata la frontiera, e che tutti narravano le loro
peripezie di quella mattina, o del giorno innanzi. Cantavano come
coscritti, e il _dagliela avanti un passo_ era il ritornello comune.

Tra quei giovani c’era un bergamasco, il Caroli, allegro e chiassoso
più di tutti. Povero giovane! chi gli avrebbe allora predette le
terribili vicende a cui era destinato! Dopo la campagna, implicato
in una questione delicata con Garibaldi e perciò mal veduto dai
garibaldini, andò in Polonia col Nullo; prese parte all’insurrezione,
fu fatto prigioniero, e condannato alla fucilazione. Il nostro
ambasciatore, Pepoli, gli salvò la vita; ma il Caroli fu deportato in
Siberia, ove poco dopo morì.

Tra i canti e l’allegria si giunse sul far della sera a Torino. Scesi
all’albergo _Europa_, ove la fortuna volle che trovassi anche mio
fratello Emilio, arrivatoci quella stessa mattina. Ci raccontammo le
nostre avventure, lieti d’essere giunti felicemente alla _Mecca_, come
si diceva allora, e senza il menomo timore che quello potesse essere il
primo giorno d’un esilio; tanta era in noi, come in tutti, la fede che
presto casa nostra sarebbe stata libera per sempre.

Quali erano state le peripezie di mio fratello Emilio, dopo che ci
eravamo salutati al caffè Cova? Come mai era riuscito a lasciar Milano
e a giungere a Torino? Emilio era stato aiutato da un amico, G. B. Guy,
al quale, mentre scrivevo questi ricordi, mi rivolsi per farmi ripetere
i particolari della fuga di Emilio, temendo dopo tanti anni di averne
scordati parecchi. Ecco ciò che l’amico Guy mi rispose:

      «_Mio buon amico_,

  «Poichè me ne mostri il desiderio, eccoti quanto raccolgo da alcune
  note, e da quanto ritrovo nella mia memoria.

  «Nel 1859 io abitavo nella via Rovello, in casa Cagnola. Il 26
  febbraio, fui interpellato dal mio padrone di casa, Battista
  Cagnola, il quale sapeva ch’io avevo una villa e un podere presso
  Belgiojoso, se mi sentivo in grado di condurre in salvo un _pesce
  grosso_.

  «Presi consiglio da mio padre e da mio zio, vecchi ed esperti
  cacciatori delle boscaglie del Po; risposi che me ne assumevo
  l’incarico, e diedi parola di far tutto il possibile di riuscire.

  «Allora mi si disse il nome del _pesce grosso_, ed ebbi la
  compiacenza di udire il nome di Emilio, mio amico, come sai, e già
  mio compagno di scuola, quando si andava allo stabilimento Boselli.
  Misi per condizione che mi si fornissero i cavalli e la carrozza,
  per non dare nell’occhio coll’usato _equipaggio_ del mio fittabile
  noto _urbi et pago_.

  «Il 27 si partì alle 4 pom. Si giunse a notte, dopo trenta
  chilometri di strada, a Filighera, a casa mia, chiamata, in luogo,
  il _Palazzo_, con sorpresa, e bocche aperte, della famiglia del
  custode.

  «Condussi Emilio nella camera terrena, la più lontana dall’entrata;
  e, snocciolata al custode la frottola predisposta per uso del
  paese, feci preparare quel po’ di _pappatoria_ che a quell’ora
  si poteva racimolare in un povero paesello. Per conto mio posso
  dire che più che il timore patii il digiuno. Poi andai subito
  a Belgiojoso, che dista un chilometro. Mi recai dai fratelli
  Strambio, già capitani garibaldini, e miei commilitoni a Roma
  nel 1849 al _Vascello_, e chiesi loro il modo più sicuro per
  contrabbandare l’amico. Essi mi dissero che la faccenda era seria
  assai, perchè i Croati del così detto _Cordone militare_ avevano la
  consegna di tirar fucilate su tutti i battelli che tentassero la
  traversata del Po. Il solo ripiego che poteva offrirsi era quello
  di tentare il tragitto, nascosto sotto un carico di fascine che dai
  boschi del Po venivano giornalmente recate alla sponda piemontese.

  «La proposta non m’andava. Emilio non era gran che robusto, ed era
  miope per giunta.

  «Dopo altre proposte, le più disparate, si concluse che era meglio
  tentare la via diretta.

  «In onta ai rigori austriaci, gli scambi di vino, di legna, e del
  così detto _parmigiano_, erano continui tra le due sponde.

  «La mattina del 28 febbraio, saliti io ed Emilio su una vecchia
  carrettella da caccia, ci avviammo, per Belgiojoso e Sostegno verso
  il Po. Giunti alla piarda, ch’è la discesa dall’argine al fiume, un
  caporale croato ci si fece vicino e ci domandò dove andavamo.

  — _Noi star mercanti, risposi, vendere formaggio mercato Stradella,
  tornare stassera._ —

  Il caporale ci volse le spalle. Fu un terno al lotto! L’ufficiale
  di picchetto non si volle scomodare. Le chiatte per tragittare
  erano alla sponda opposta; lasciato il legnetto stemmo ad
  aspettare. A un tratto si sente da lontano un rombo del cannone.
  Che cos’è? Che mai sarà?... Emilio salta in piedi, ed esclama:

  «Tuona il cannone a Milano, e io devo fuggire? Ah, io ritorno!

  «Non è possibile che qui s’oda il cannone di Milano» rispondo io.
  Ma lui insisteva; alla fine dissi risolutamente. «Ho data la mia
  parola, io devo condurti, ad ogni costo a Stradella. Di là potrai
  ritornare se ti garberà.»

  «Ma Emilio fremeva. Per buona sorte capitò un boscaiolo che,
  interrogato, ci disse ch’era il cannone di Piacenza ove ogni giorno
  c’eran degli esercizi di tiro.

  «Giunta la chiatta, vi salimmo, e toccata la sponda opposta,
  mezz’ora dopo eravamo a Stradella.

  «Giubilante per la buona riuscita, baciai l’amico. Non dovevo
  rivederlo che alla fine di maggio, a Como, dopo la giornata di San
  Fermo, quand’ero nei Cacciatori delle Alpi.

  «Rifeci la strada senza fastidii; rividi lo stesso caporale, che
  forse pensava alla sua Croazia, e intanto non mi chiese conto
  dell’altro mercante.

  «A sera tarda, appena giunto a Milano, mi presentai a tua madre,
  quell’ottima Signora che io avevo conosciuto da giovanetto, e le
  dissi soltanto: «Emilio alle tre partiva per Torino!»

  «Essa, poveretta, mi strinse tra le braccia, e mi baciò!

  «Amichevolmente ti saluta il tuo

                                                          «B. GUY.»

Torino in quei giorni presentava un’insolita animazione. Sotto i
portici si udivano già tutti i dialetti d’Italia. I dialetti lombardi
spiccavano chiassosamente, ed era un continuo rallegrarsi tra comitive
di giovani, che incontrandosi si raccontavano le vicende delle loro
fughe e del loro arrivo in Piemonte. Già si vedevano molti di questi
giovani girare impettiti e gloriosi nella loro uniforme di soldato
semplice. In poco più d’una decina di giorni rividi quasi tutti i miei
amici di Milano, e le persone più note della società milanese.

Nelle vie di Torino si incontravano in quei giorni i rappresentanti
delle più illustri famiglie di Lombardia e del Veneto, venuti a
chiedere il loro posto d’onore nelle file dell’esercito piemontese.
Quelli che vi avevano servito nel 1848 e nel 1849 riebbero facilmente
i loro gradi; i nuovi entravano come semplici soldati nella cavalleria
o nei corpi da essi indicati; altri, erano arrolati nelle compagnie di
volontarii che venivano a mano a mano formate; le prime furono quelle
chiamate i _Cacciatori delle Alpi_, di cui ebbe il comando Garibaldi.

Della loro prima formazione fu incaricato il generale Cialdini, e
Cosenz ebbe il comando, quale colonnello, del primo deposito che se ne
fece a Cuneo.

L’affluenza dei volontari aumentava ogni giorno: era un torrente;
e nello spazio di poco più d’un mese ne accorsero in Piemonte come
dicemmo, circa dieci mila.

Il Governo aveva istituita una Commissione di arrolamento, incaricata
d’accogliere tutti questi giovani, vagliandoli e mandandoli,
a seconda dei casi, nei corpi dell’esercito regolare, o nelle
compagnie dei volontari. La Commissione era composta di militari, di
qualche cittadino torinese e di qualche lombardo. Tra questi ci fui
anch’io[34].

Pei giovani laureati, o che avevano diplomi e titoli equivalenti, fu
istituita a Ivrea una scuola preparatoria per farne in breve degli
ufficiali. Feci anch’io subito la mia domanda per esservi ammesso; fui
dichiarato abile, e in attesa d’eeser chiamato, mi misi a studiare i
regolamenti militari. Rammento che quando, tutto giulivo, informai mio
fratello Emilio della mia determinazione, egli se ne congratulò con me,
e mi abbracciò cogli occhi pieni di lacrime.

Ma, presto, altri fatti dovevano decidere diversamente di me.

In quei giorni conobbi presto un nugolo di gente, d’ogni parte della
Penisola, che affluivano a Torino, ove si può dire che battesse il
cuore d’Italia. Emilio mi presentò a Giuseppe Massari, che alla sua
volta conosceva tutti, ed era una fonte copiosa e sicura di notizie, di
cui saziava in confidenza gli amici.

Il Massari vedeva di frequente Cavour, il quale in alcune occasioni
si serviva di lui; era pure amico di alcuni ministri, e di parecchi
ch’erano nella loro intimità: dunque, per le notizie, era un
uomo prezioso, e nei momenti di ansietà, di dubbî e di notizie
contradditorie, si correva da lui.

Passavo le sere di solito nei caffè, ove mi trovavo con gli amici
emigrati, e passavo anche frequentemente qualche ora in casa Arese, o
in casa del Correnti. Avevo conosciuto allora il conte Francesco Arese,
emigrato del 1848, e diventammo amici. Presso di lui si radunava lo
Stato Maggiore, direi, dell’emigrazione e i principali uomini politici,
senatori e deputati, del Piemonte: la conversazione in casa Arese aveva
un tono altamente patriottico sempre, ma circospetta nell’accogliere
le notizie, e nel fare troppo a fidanza colle nostre fantasie. L’Arese
a cui tanto deve la causa d’Italia, conosceva meglio di noi tutti le
difficoltà in mezzo alle quali doveva procedere Napoleone, che nella
questione italiana era sospettato in Europa e isolato in Francia.

Più in accordo coll’intonazione entusiastica e speranzosa di noi
emigrati, era la conversazione in casa Correnti. Là si riunivano dei
giovani, e dei vecchi _quarantottisti_, emigrati nuovi ed emigrati d’un
tempo, _albertisti_ del quarantotto, e mazziniani convertiti. A mano a
mano vi capitavano parecchi dell’emigrazione di Parigi, che venivano
essi pure a Torino, convinti ch’era il Cavour ormai che conduceva
la politica europea. In quei giorni conobbi molti tra i più valorosi
nelle campagne del 1848 e 49, che venivano dall’estero e da ogni parte
d’Italia a riprendere i loro posti militari nei corpi dei volontari.

Conobbi il Sirtori. Le speranze d’Italia, che ogni giorno si facevano
più incalzanti, più sicure, avevano ridata alla mente di lui la calma,
l’equilibrio, la lucidità. Il patriottismo e l’onestà della coscienza
avevano mutata in lui l’antica fede politica; l’ardente repubblicano
altamente proclamava che l’Italia doveva ormai riporre la sua fede
nella monarchia, in Vittorio Emanuele e Napoleone. A differenza d’altri
capi militari del _quarantotto_, egli non volle subito entrare nei
corpi volontari; poichè a quel tempo, non so per quali motivi, egli non
era in buon accordo con Garibaldi, e lo diceva apertamente: più tardi
si rappattumò con lui, e partì coi _Mille_.

Il suo aspetto, i suoi modi, la sua voce, mi colpirono subito
grandemente: alto, magro, coi capelli lunghi alla nazzarena, modesto,
gentile, con l’aria inspirata, quando parlava pareva un missionario.
Di lui si narravano con ammirazione le prove di valore date durante
l’assedio di Venezia; si parlava dell’altezza del suo carattere e della
purità de’ suoi costumi. Sebbene avesse abbandonato il sacerdozio,
conservava illibati i suoi voti sacerdotali; e tale fu, anche in
seguito, la regola della sua vita.

In quell’atmosfera d’entusiasmo, di tanto in tanto soffiava qualche
brezza fredda di dubbî o di scoraggiamenti, che diffondevano ad
intervalli il malumore e l’ansietà: erano note di governi, articoli di
giornali forestieri, o notizie private che circolavano, e ch’eran l’eco
dell’ostilità delle Potenze, o dell’avversione della Francia stessa per
una guerra in favore dell’Italia.

Cavour conosceva meglio di tutti in quali acque perigliose navigasse,
ma procedeva impavido nel suo lavoro di preparazione, come se già
tenesse in mano la vittoria. Si andava a vederlo quando usciva dal
Parlamento; la folla si apriva dinanzi a lui, e tutti lo salutavano.
Egli rispondeva ilare, e con una fregatina di mano. La gente cercava di
scrutare le notizie su quel suo faccione sereno e fine, e negli occhi
che scintillavano e scrutavano alla loro volta traverso gli occhiali.
Eppure in quei giorni quanta ansietà angosciosa, quanti dubbi, erano in
tempesta dietro quella fronte serena!

Che cosa era accaduto intanto degli amici, che erano stati arrestati
quella notte in cui ero riuscito a sgattaiolare di casa?

Ne erano stati arrestati quattro: Costantino Garavaglia, Costanza
Carcano, il dott. Scipione Signoroni, e il moro Latif.

Rimasero in prigione tre mesi, accusati di _complotto_ per la
dimostrazione avvenuta in occasione del funerale del Dandolo. Il
giudice istruttore del processo fu un tedesco, che chiamavasi Flük. Gli
arrestati corsero per un momento un grave pencolo, poichè il Comando
militare voleva che fossero condotti in Castello per essere sottoposti
a un Consiglio di guerra; ma il Presidente del tribunale Lanfranchi si
oppose energicamente, e ricorse a Vienna al Ministero, che gli diede
ragione. Il processo fu chiuso in fretta, pochi giorni prima della
battaglia di Magenta, e gli accusati vennero prosciolti per mancanza di
prove.

Tra i molti che furono chiamati e interrogati, durante il processo, dal
giudice istruttore, ci fu pure la contessa Ermellina Dandolo. Avendole
chiesto i particolari che la riguardarono nel processo, essa mi diede i
seguenti appunti:

  «Dopo la mezzanotte del 24 febbraio venne in casa mia un tale,
  che non conoscevo, che poi seppi chiamarsi Meyer, e che mi disse:
  Avvisi il conte Ignazio Lana, i Visconti, i Carcano, i Caccianino,
  Garavaglia, Ulrich, Signoroni, la marchesa Carolina Crivelli, i
  suoi amici insomma; dica loro che questa notte saranno arrestati.
  Cercai alla meglio, a quell’ora tarda, di farli avvisare, ma non
  ci riuscii con tutti. Poi, verso l’alba, capitò il Commissario di
  Polizia Galimberti, a quei tempi famoso, con alcuni poliziotti;
  chiese di mio marito, che per fortuna era a Torino, frugò per tutta
  la casa, e arrestò il moretto Latiff.

  «Durante la perquisizione potei distruggere un plico di carte,
  affidatemi dal povero Emilio, e che tenevo nascoste. Quella mattina
  stessa mi recai al Tribunale criminale, accompagnatavi da Carlo
  d’Adda, per chieder conto del mio buon moretto Latif. Fui ricevuta
  da un consigliere, che chiamavasi Flük, e che mi condusse a vedere
  il Latif traverso una grossa inferiata d’una gran prigione. Gli
  feci coraggio, e lo raccomandai caldamente al consigliere perchè,
  almeno, non lo lasciassero mancar di nulla.

  «Il giorno dopo fui chiamata al Criminale, e sottoposta dal Flük a
  un lungo interrogatorio, sul funerale, e sulla corona. Negai tutto
  ciò che potevo negare. — E ora dove è questa corona — mi chiese
  il consigliere. — La raccolsi io nella fossa, la nascosi sotto il
  mantello, e la tengo in casa come una sacra memoria.

  «— Signora, lei mi consegnerà quella corona.

  «— E io non ve la voglio dare! —

  «— Ebbene, gliela renderemo dopo il processo. Ma siccome lei
  intanto deve rimaner qui, scriva un biglietto a casa, e mando a
  prenderla. —

  «Poco dopo la corona era sulla scrivania del consigliere. Allora
  cominciò una discussione comica sul colore delle camelie.

  «— _Bianche, rosse e verdi_, diceva il consigliere.

  «— Scusi son gialle! — Infatti le bianche erano ingiallite, essendo
  state sottoterra.

  «— Delle camelie gialle non ne conosco, insisteva il consigliere.

  «— Ci son queste — replicavo io.

  «— Ebbene, scriva _camelie gialle_! — disse alla fine il
  consigliere, rivolgendosi allo scrivano, impazientito.

  «Il giorno dopo ci fu una nuova chiamata per me e per mio marito.

  «— E suo marito? —

  «Mio marito è a Torino, andatoci per assistere a un funerale pel
  mio povero Emilio, promosso da Cavour.

  «— Lo sappiamo... Ma non sa lei, signora contessa, ch’io potrei
  farla mettere in prigione! —

  «— So che loro possono fare quello che vogliono, ma non temo i
  fuochi di paglia! —

  «— Basta così. Sia prudente, signora — conchiuse sorridendo il
  consigliere, il quale doveva essere un buon uomo. Poi mi ingiunse
  di non lasciar Milano; pochi giorni dopo mi permise di andare
  in Svizzera a vedere mia madre ch’era ammalata, e mi rimandò a
  casa il moretto. Il quale era stato lui pure sottoposto parecchi
  interrogatori, ma non gliene avevano cavato nulla. O non apriva
  bocca, o tutt’al più rispondeva al giudice tedesco: _Mi so
  nient_. Molte altre persone, amici nostri, erano state chiamate
  e interrogate, inutilmente. La corona era rimasta appesa in un
  armadio del consigliere, il quale presto lasciava Milano. Dopo la
  battaglia di Magenta ricevetti a casa la corona con un biglietto,
  senza firma, che diceva: _Mi son permesso di levarne due foglie
  che conserverò per memoria di quell’avvenimento_. Ora la corona si
  trova al Museo del Risorgimento, insieme ai ritratti alle uniformi
  dei miei cari, Emilio ed Enrico.

                                               «ERMELLINA DANDOLO.»

Ora riprendo il filo della mia narrazione, e ritorno a Torino.

Un giorno, nella seconda metà di marzo, chiesi un’udienza al conte di
Cavour per non so quale incarico della Commissione d’arrolamento. In
quei momenti, di tutto ciò che riguardava i volontari egli si occupava
direttamente. L’udienza mi fu fissata pel giorno seguente alle cinque
del mattino. Cavour, vegliando, o riposando, passava allora tutte le
notti al Ministero. Un usciere mi condusse in una sala d’aspetto,
semibuia, e osservai che in un angolo se ne stava uno con un gran
cappellaccio tirato sugli occhi, e ravvolto in un mantello. Poco dopo
venne un cameriere, e direttosi subito all’uomo del cappellaccio, lo
condusse nel gabinetto del ministro. Ci stette quasi una mezz’ora, e
quando ne uscì il cameriere mi disse piano e in tono misterioso: «È
Garibaldi!» Di solito Cavour riceveva Garibaldi in casa sua.

Alcuni giorni dopo, cioè il 17 marzo, un decreto istituiva il corpo
dei volontari, chiamato i _Cacciatori delle Alpi_. Dieci giorni dopo
veniva formato a Savigliano un secondo _deposito_ di volontari sotto
il comando di Giacomo Medici col grado di tenente colonnello; e il
7 aprile se ne formava un terzo comandato dal tenente colonnello N.
Arduino.

Il 27 aprile, Garibaldi fu nominato maggior generale, e prese il
comando dei Cacciatori delle Alpi.

Il movimento, la vita di Torino, andavano crescendo sempre più; ed era
veramente uno spettacolo che sorprendeva ed entusiasmava vedere quella
folla mossa da un medesimo pensiero, animata da una medesima speranza.
I discorsi di tutti erano su per giù eguali: nessuno dubitava; tutti
erano animati da un sentimento di serietà, di concordia e di disciplina
che meravigliava, tanto più quelli che ricordavano il _quarantotto_. I
piemontesi accoglievano con fraterna ospitalità quanti venivano dalle
altre provincie italiane, ed attendevano calmi, e con l’animo saldo,
gli avvenimenti che si preparavano, e di cui essi avrebbero dovuto
sostenere il primo urto e il peso più forte. Nelle vie di Torino si
faceva in quei giorni l’unità morale d’Italia, e gli italiani parevano
fatti maturi dalle passate sventure.

I pochi ch’erano addentro alle cose secrete, e qualche volta lo fui
di riverbero un pochino anch’io, si trovavano in certi momenti un po’
turbati nella loro sicurezza, e nella loro felicità.

A momenti, mentre il Cavour spingeva, Napoleone rallentava. In cuor
suo Napoleone voleva risolutamente la guerra, ma da ogni parte era
sconsigliato e trattenuto. Le pubblicazioni diplomatiche avvenute più
tardi hanno dimostrato quali ostacoli e quante opposizioni gli venivano
dai Ministri, dai Corpi ufficiali, dalla pubblica opinione di quasi
tutta la Francia, e come l’isolamento ostile in cui era lasciato da
tutta l’Europa lo trattenesse in quei giorni.

Il Massari mi disse un giorno: «Napoleone ha voluto col mezzo della
Gendarmeria conoscere quale sia in tutta la Francia l’opinione del
pubblico, sulla eventualità d’una guerra contro l’Austria: ebbene...
non ci fu neppure un solo rapporto favorevole; si accennava a simpatie
per l’Italia, ma tutti erano contrari alla guerra.»

Il Massari aveva saputo ciò da Cavour, il quale passava intanto
dei giorni di febbre e di angoscia; ma nulla mai traspariva dal suo
linguaggio e dal suo volto, fuorchè nell’intimità di pochissimi. Con
questi alle volte manifestava i suoi timori, e aveva degli sfoghi
impetuosi: «Camminerò colla Francia e colla diplomazia fin che potrò! —
esclamava un giorno — ma poi metterò il fuoco in ogni angolo d’Italia,
in Ungheria, dappertutto! e allora la guerra ci sarà!

Intanto, anche nei momenti più dubbiosi e sconfortati, Cavour non
si arrestava nel suo lavoro palese e secreto, e infondeva in tutti
quell’attività, quell’audacia, quella fiducia ch’erano in lui. Talchè,
quando correva qualche voce, che non tutto fosse color di rosa dietro
le scene, o quando dall’estero, e sopratutto da Parigi, arrivavano
informazioni autorevoli poco buone, nessuno si scoraggiava, tanta era
la fiducia in colui che allora capitanava ogni cosa.

Rammento che in quel giorni il Massari mi condusse al Ministero
degli Esteri, dovendo dare non so quale risposta a Cavour. Trovammo
in un’antisala l’Artom, ch’era il segretario particolare di Cavour,
con lui si diede una capatina nel gabinetto del ministro. Si entrò
un momento, perchè erano attese altre persone, e si fece qualche
osservazione sulla piccolezza del gabinetto. «Eppure è di qui,» saltò
su Cavour, ch’era nel gabinetto, sorridendo e fregandosi le mani, «è di
qui che si fa muovere l’Europa!»

Ed era vero.

Non è mio compito ricordare in questi cenni ciò che intanto si andava
svolgendo nei gabinetti dei Governi europei, e ciò che avveniva dietro
le scene. Lo saprete, nipoti miei, dalla storia e dai copiosi documenti
che vengono via via già in luce, e che narrano ampiamente i fatti di
allora. Io non ero, e non sono, che un modesto cittadino, che ho vedute
alcune cose dalla platea, e le racconto.

La notizia del Congresso proposto dall’Inghilterra era vera, ed era
vero che Napoleone l’aveva accettato e che un suo telegramma a Cavour
aveva detto: _accettate_. Più tardi fu noto che Napoleone aveva saputo,
che nei Consigli dell’Impero d’Austria, all’ultima ora, era stata
decisa la guerra.

Era stato in quel punto che Napoleone aveva risoluto d’accettare
la proposta dell’Inghilterra e aveva telegrafato a Cavour di fare
altrettanto perchè sull’Austria pesasse in faccia all’Europa la
responsabilità della guerra; era nei calcoli, e nelle necessità, di
Napoleone, che l’iniziativa della guerra venisse dall’Austria.

Ricordo che una mattina si parlò con grande sgomento di Congresso e di
disarmo; ma nessuno ci credeva.

Finalmente a rompere gli indugi ci pensò l’Austria. Quanto non ha
contribuito l’Austria a ridarci l’indipendenza dopo avercela tolta! A
un tratto corse la voce che il Ministero imperiale mandava al Governo
del Re un _ultimatum_ chiedente il disarmo.

A conferma di quella voce, Cavour il giorno 23 aprile convocava il
Parlamento per esporre gli avvenimenti e per chiedere i _pieni poteri_,
prima che arrivassero i due invitati austriaci; i quali erano il barone
Kellesperg, vice presidente della Luogotenenza austriaca, e il conte
Ceschi di Santa Croce. In principio della seduta giunse a Cavour un
dispaccio che gli annunziava la partenza da Milano dei due inviati
austriaci.

Io ebbi la fortuna di poter assistere a quella memorabile seduta,
che ancora dopo tanti anni, se ci ripenso, mi risuscita nell’animo
tutta la commozione di quell’ora. Cavour, raggiante e colla calma del
trionfatore, disse delle ultime trattative colle grandi potenze per un
Congresso e pel disarmo; espose l’attitudine dell’Austria, e chiese i
_pieni poteri_. I deputati si riunirono subito negli uffici; elessero
la Commissione e il relatore della legge, che fu l’avv. Chiaves, e
rientrarono nell’aula due ore dopo, con la Commissione che proponeva
unanime l’approvazione della proposta. Fu un’acclamazione generale;
tutti i deputati sorsero in piedi, nell’attitudine solenne di gente
forte e risoluta; il pubblico dalle tribune acclamava, sventolava i
fazzoletti, si gridava, si piangeva; era un delirio, una febbre.

Cavour, avvisato che gli inviati austriaci erano giunti, uscì subito
dall’aula. A un amico che incontrò, disse: «Esco dall’ultima riunione
della Camera piemontese; la prossima riunione sarà quella della Camera
italiana.» E si recò al Ministero, ove poco dopo giungevano gli inviati
condotti dal conte Brassier de Saint-Simon, ministro di Prussia.

Essi recavano una lettera del ministro Buol. Era l’_ultimatum_
dell’Austria; era quell’ingiunzione del disarmo che Cavour, colla
fatidica intuizione del genio, aveva presagita dieci mesi prima,
parlando col conte Cesare Giulini.

Tre giorni dopo Cavour consegnava agli inviati austriaci la risposta
pel ministro Buol, colla quale veniva respinta l’intimazione; il giorno
29 Vittorio Emanuele dirigeva al suo popolo e al suo esercito un nobile
e vigoroso proclama col quale annunziava la guerra; e subito dopo
Napoleone rompeva le relazioni coll’Austria.

In mezzo a tanta commozione, in mezzo a tante notizie che si
succedevano d’ora in ora, in cui le speranze si alternavano coi timori,
e i sogni di fortuna e di gloria erano spesso turbati dallo spettro
d’un disastro, il contegno della popolazione di Torino era veramente
ammirevole. Tutti erano seri e calmi, tutti si mostravano compresi del
sentimento del dovere, disciplinati e fiduciosi nel Governo e nel Re.
È così che i popoli si rendono padroni della fortuna, e raggiungono
alti destini: le popolazioni nervose e turbolente sono destinate alla
decadenza.

Una mossa d’un corpo nemico, verso Biella, lasciò supporre un giorno
che gli austriaci volessero muovere rapidamente su Torino, prima
che giungessero i francesi. L’esercito sardo era concentrato tra
Alessandria e Casale; Torino era affidato alla sola Guardia Nazionale.
Questa, volonterosa e risoluta, si preparò subito a difendere la città,
e avrebbe fatto nobilmente il suo dovere, se gli austriaci, che durante
quella campagna furono sempre lenti e incerti, non si fossero ricreduti
presto di quella breve audacia, con cui avevano dichiarata la guerra.

Il Correnti, nella cui casa avevo conosciuto tra gli altri Luigi
Mezzacapo, mi accennò una sera, un po’ misteriosamente, ai progetti
che aveva Cavour per far insorgere i paesi dell’Emilia, appena
l’esercito nostro avesse passato il Ticino. Mi disse che il Mezzacapo
era destinato a recarsi nascostamente a Bologna, ove avrebbe preso
il comando di corpi volontari che dovevano prontamente formarsi. Mi
soggiunse che il Mezzacapo avrebbe condotto alcuni giovani con sè, e
mi chiese se volessi essere tra questi. Accettai con entusiasmo. Il
giorno seguente andai da Mezzacapo, e si rimase intesi: egli partiva
per Genova, ove avrei dovuto raggiungerlo più tardi dopo suo avviso:
intanto dovevo ritirare la domanda che avevo fatta per essere ammesso
alla scuola d’Ivrea, e dovevo darmi con maggior lena allo studio dei
regolamenti militari.

Quei giovani, di cui dovevo essere un commilitone, e che poi
raggiunsero Mezzacapo quindici giorni dopo, seguirono quasi tutti la
carriera militare; e così sarebbe avvenuto di me, per qualche tempo
almeno, poichè ne avevo allora molto desiderio. Marte però non fu di
questo parere: non mi volle, e così rimasi in borghese, come vedremo.

Cavour aveva intanto nominata, verso la metà di maggio, una Commissione
consultiva di lombardi per predisporre i primi decreti amministrativi
che il Governo, entrando in Lombardia, avrebbe emanati in forza dei
pieni poteri. Dovevano essere decreti provvisorî che, pur lasciando
in parte l’amministrazione vigente, la mettessero in armonia cogli
ordinamenti liberi del Piemonte. Fummo chiamati a far parte di questa
Commissione il conte Cesare Giulini, che ne fu il presidente, Correnti,
mio fratello Emilio, Allievi, il conte Oldofredi, Luigi Torelli, Enrico
Guicciardi, qualche altro delle diverse provincie lombarde, ed io, che
essendo il più giovane ne divenni il secretario.

La Commissione si radunava ogni giorno per parecchie ore, e dopo una
settimana fu in grado di presentare i suoi studi al conte di Cavour; il
quale ne trasse poi quei decreti che furono pubblicati a Milano, quando
Vigliani assunse il Governo della Lombardia quale Commissario generale
straordinario.

In quelle lunghe sedute imparavo molte cose, da chi ne sapeva più di
me, ma con la febbre addosso che s’aveva in quei giorni, mi annoiavo
e m’impazientivo. Per cui, appena potevo, ritornavo ai portici, ai
caffè, in cerca di amici e di notizie; correvo dietro a ogni drappello
di soldati o di volontari che andavano al campo per raggiungere i
loro corpi, o facevo delle lunghe soste a porta Susa, aspettando che
arrivasse qualche drappello francese. Non ero solo in queste mie soste
a porta Susa, e tra i molti che ci vedevo ogni giorno avevo notato un
giovane ufficiale di cavalleria, che pareva specialmente preoccupato
e impaziente. Ma ecco finalmente un mattino, non un drappello, ma un
intero reggimento. Fu un delirio; evviva ed abbracci che non finivan
più. Tra la folla ancora rividi il mio giovane uffiziale, il quale,
pur tenendosi un poco in disparte, guardava fissamente il reggimento
francese che sfilava, e i suoi occhi erano inondati di lacrime. La sera
rividi quell’uffiziale in un caffè, e seppi ch’era il duca di Chartres.
Egli aveva riveduti i soldati di Francia, quel mattino, per la prima
volta dopo il 24 febbraio del 1848, quando, bambino, tenuto per mano
dalla madre, atterrito e ignaro, veniva con essa e il fratello condotto
alla Camera dei deputati per poi andare in esilio.

Dopo quel reggimento ne vennero altri ed ogni giorno c’era
l’ingresso di altre truppe francesi, che la popolazione accoglieva
entusiasticamente. Aveva ragione quel fantaccino che udii una volta
dire a un compagno: _Veux tu des sigares, un absinthe, un grog? Crie
vive l’Italie et tu auras tout ce que tu voudras_.

Tra i varii amici venuti da Milano e dall’esilio, in cui m’imbattevo
per le vie di Torino, m’ebbi la grata sorpresa, in quegli ultimi
giorni, d’incontrare Carlo De Cristoforis. Erano sei anni che non
ci vedevamo: ci eravamo stretta la mano l’ultima volta la sera del
6 febbraio 1853. Quante peripezie, quanto s’era tremato per lui! Era
in uniforme di capitano dei Cacciatori delle Alpi, e mi disse ch’era
venuto a Torino da poche ore per sbrigare alcune faccende del suo
reggimento al Ministero della guerra, per incarico del colonnello
Medici, e che sarebbe ripartito quella sera stessa; aveva veduti alcuni
amici comuni, e voleva che si pranzasse insieme.

Carletto, durante il pranzo, ritrovò tutta la sua antica allegria, il
suo spirito, la sua festività. Ci raccontò molti episodi della sua
vita d’emigrato: era stato allievo della scuola di Stato Maggiore a
Parigi; professore di fortificazioni in un collegio militare di Londra;
istruttore di reggimento e capitano nella Legione Anglo-Italiana
formata a Malta durante la guerra di Crimea. S’era costantemente
occupato di studî militari, che riunì in quel suo libro: _Che cosa
sia la guerra_, che è tuttora altamente apprezzato tra gli studiosi di
scienze militari.

Alla fine ci parlò del reggimento e della compagnia a cui era stato
assegnato, e ch’erano in marcia verso il confine; e al pensiero che tra
pochi giorni si sarebbe venuti alle mani cogli austriaci gongolava di
gioia.

Quando l’allegra brigata si sciolse, Carletto volle che l’accompagnassi
alla stazione. In attesa del momento della partenza, passeggiavamo
per la stazione, e Carletto continuava a tenermi allegro con mille
coserelle buffe. Ma quando le guardie annunziarono la partenza,
Carletto a un tratto si fece serio, mi abbracciò, e mi disse: «Ti
saluto per l’ultima volta!... Sì, caro Gino, noi non ci vedremo più!
La mia vita fu una sequela di avventure, e ne uscii sempre salvo; essa
ebbe una grande aspirazione, combattere per l’Italia, e poi servirla
nell’esercizio nazionale. Ora che il mio sogno si avvera... io morirò!
Sì, caro Gino, lo sento, ne ho il presentimento... questa volta _ci
lascio la pelle_...» Sorrise, poi esclamò «Addio, addio, ricordati di
me!»

Entrò nel vagone, il treno partì, e io rimasi mesto, quasi atterrito.
Pochi giorni dopo, ossia il 27 maggio, egli moriva all’assalto di San
Fermo, alla testa della sua compagnia. Povero e generoso Carletto!


  NOTA.

  [34] Rammento ancora qualche nome dei giovani che s’arruolavano,
  e che rivedevo, con una grande commozione, presentarsi alla
  Commissione di arruolamento. C’erano tra questi moltissimi miei
  amici. Chissà quanti ne dimentico, ma mi si perdonino, dopo
  tanti anni, gli errori della memoria. Prego quelli che avessi
  dimenticati a ricordarmi i loro nomi. Tra i molti ricordo Rinaldo
  Taverna e Luchino Dal Verme, ora generali, Lodovico Trotti, che
  s’arruolava di nuovo dopo aver fatta la campagna del ’48 come
  ufficiale d’artiglieria, e sebbene padre di tre bambine; tre
  fratelli Visconti di Modrone figli del Duca, Gerolamo e Giacomo
  Sala, Luigi Esengrini, il conte Pietro Cicogna, il Conte Alfonso di
  Saliceto, il principe Gian Giacomo Trivulzio, il conte Arconati, i
  conti Alfonso e Annibale Sanseverino, Giacomo Battaglia, Malachia
  De Cristoforis, i fratelli Mancini, Emilio Guicciardi, Alfonso
  Carcano, i fratelli Caccianino, Augusto Verga, Gerolamo Fadini,
  Cartellieri, Galbiati, Eleuterio Pagliano, Giulio Vigoni, Michele
  Redaelli, De Albertis, i fratelli conti Belgioioso, tra i quali
  Carlo ora generale, i fratelli Emilio e Giuseppe Rapazzini, i
  fratelli nob. Steno e Luigi Majnoni, che divennero generali,
  Cesare Cavallotti, ora colonnello, nob. Carlo Porta, avv. Ercole
  Torri, nob. Carlo Dall’Acqua, nobile Andrea Della Porta, fratello
  dell’ucciso in duello, Gustavo Viola, da me citato pel duello,
  Silvio Della Torre, ispettore alla Banca Popolare, i fratelli
  Achille ed Edoardo Frigerio, l’uno ora colonnello e l’altro
  generale, Paolo Frigerio, che nel 1866 ebbe l’onore di combattere
  nello storico quadrato di Villafranca quale capitano, il conte
  Camillo Dal Verme ed Armando Vitali, ambedue valorosamente morti
  nel 1866 a Custoza, nob. Lavelli De Capitani, Alberto Corbetta,
  ferito a Custoza, nob. Cristoforo Manzi, nipote di Luciano Manara,
  i fratelli Luigi e Carlo Biffi, nob. Carlo Manzoli, ferito in
  quella guerra, nob. Lorenzo Greppi, Riccardo Gavazzi, Giulio
  Adamoli, nob. Diego Melzi, Senatore Giuseppe Robecchi, superstite
  dei valorosi combattenti di Roma 1849, D’Adda march. Luigi,
  Francesco Ponti, Gerolamo e Gian Luca Padulli, Del Mayno Luchino,
  Cesare Finzi, Antonio Greppi, Medici di Marignano Lorenzo, Gaetano
  e Carlo, Melzi Diego, Pullè Leopoldo, Robaglia Gaetano, Cesare
  Stucchi, Arconati march. Gian Martino, Carlo Baldironi, Franco
  Fadini, Alfredo Ulrich, Carlo Calvi Patroni, Enrico Borromeo,
  Filippo Castelbarco, Luigi Mainoni, Norberto e Francesco Del
  Mayno, Ernesto Turati, Adalberto Barbò, Luigi Biffi, Cesare Cavi,
  Alessandro Piola, Brambilla Giulio, fratelli Averoldi e fratelli
  Martinengo di Brescia, Cesare Menghini di Mantova, Carlo Marocco,
  Prinetti, morto in guerra. Arici di Brescia, Gigi Caroli, Max
  Fadini, Mazzoni, Pavia, Bolchesi, Bianchi d’Adda.... e mi perdonino
  i molti altri che non rammento. Li prego di nuovo di ricordarmi i
  loro nomi.




CAPITOLO XXVIII.

1859.


III.

  _Sommario:_ Mio fratello Emilio è nominato Commissario Regio
  al campo di Garibaldi. — Le istruzioni dategli da Cavour. — Due
  giorni dopo Emilio mi telegrafa di seguirlo. — Parto per Vercelli
  e per Arona. — Attraverso di notte il lago Maggiore con Nievo e
  Griziotti, scortando quattro obici. — Giungiamo a Varese. — Vedo
  Garibaldi che ritorna da Como. — Ordini nei paesi comaschi e nella
  Valtellina per insorgere. — Contrordini dal quartier generale.
  — Giungono tardi. — Una Commissione di cittadini Sondriesi si
  presenta a Garibaldi per chiedere soccorsi. — Sono _incaricato_
  del Commissariato Regio per la Valtellina. — Accoglienze festose,
  patriottiche. — Condizioni della Valtellina in quei giorni.

La sera del 22 maggio 1859 mi trovavo, con alcuni amici, seduto a
un tavolino del caffè Fiorio, quando a un tratto entrò un usciere
del Ministero e andò al banco a confabulare col padrone. Il padrone,
poco dopo, accostandosi al nostro tavolino e mostrandoci una lettera,
ci domandò se qualcuno di noi conoscesse la persona alla quale era
indirizzata.

La lettera era indirizzata a mio fratello Emilio; e poco mancò che
quell’usciere non mi buttasse le braccia al collo per la consolazione.
Aveva girato inutilmente parecchi alberghi e parecchi caffè, e aveva
l’ordine di girar tutta Torino, con una carrozza finchè avesse trovato
quel signore a cui la lettera era diretta.

Erano le 10, e sapevo che a quell’ora avrei trovato Emilio o in casa
Correnti o in un caffè che frequentava con alcuni suoi amici; e qui
infatti lo trovai. Mezz’ora dopo Emilio, ed io, con l’usciere ch’era
raggiante, salivamo le scale del Ministero degli Esteri. La lettera
non conteneva che poche parole con le quali Luigi Farini, in nome
di Cavour, pregava Emilio di recarsi subito al Ministero. Un invito
simile, in quei momenti, a quell’ora, non era cosa da poco, sicchè non
solo con curiosità, ma con ansietà accompagnai Emilio, fermandomi in
una antisala del Ministero ad aspettarlo. Dopo poco più di mezz’ora, lo
vidi uscire da un salotto, accompagnato e salutato con molta espansione
da Cavour e dal Farini.

«Dunque?» domandai a Emilio appena fummo sulla scala.

«Dunque, si parte,» mi rispose con la solita calma. «Accompagnami
subito all’albergo, perchè ho appena il tempo per fare la valigia.»

«E dove vai?»

«Vado a raggiungere Garibaldi che domattina passerà il Ticino, e io
devo essere con lui per assumere l’uffizio di Commissario Regio nei
paesi ove si entrerà.»

Sul dialogo avuto col Cavour, sulla missione che gli era affidata,
sulle istruzioni ricevute, potè dirmi in quel momento ben poco. Si
andò subito all’albergo, poi alla stazione, ove si stava intanto
apparecchiando una macchina, e una carrozza che dovevano condurre
Emilio a Vercelli, punto estremo occupato dalle nostre truppe. Alla
Stazione trovammo un impiegato del Ministero con varie lettere per
Emilio, una delle quali era diretta al Cialdini che doveva far scortare
Emilio oltre gli avamposti.

La locomotiva fischiò; un po’ commossi ci abbracciammo, e Emilio mi
disse: «Starai a vedere quello che succederà, per un paio di giorni,
poi sarà forse bene che tu mi raggiunga.»

Solo parecchi mesi dopo seppi dal Farini stesso come era avvenuta la
chiamata di Emilio e quale era stato il dialogo di quella sera nel
salotto del conte di Cavour.

Garibaldi in Lombardia doveva assalire ai fianchi l’esercito austriaco
e far sollevare i paesi alle spalle di questo. Cavour voleva, e lo
disse anche ad Emilio quella sera, che i Francesi entrassero in un
paese già tutto insorto, e non apparissero essi i liberatori d’un paese
sottomesso e tranquillo. Ma nel tempo stesso che voleva accendere
la rivoluzione, Cavour voleva all’occorrenza dominarla e dirigerla:
bisognava quindi mettere accanto a Garibaldi un uomo politico per
dirigerne l’azione rivoluzionaria, e tenerla in quei confini politici,
che erano negli intendimenti del ministro; compito certamente non
facile.

Cavour da due giorni andava cercando la persona a cui affidare quella
missione; s’era rivolto a parecchi uomini politici ma a nessuno era
sembrato accettabile un simile incarico, che doveva svolgersi fra tante
difficoltà e tanti pericoli.

Così era venuta la sera del 22; Garibaldi avrebbe tra poche ore
passata la frontiera, e il Commissario Regio ancora non c’era.
Cavour era furioso, e usciva in parole vivacissime contro quanti
aveva interrogati, come soleva quando imbattevasi in gente che gli
sollevassero delle difficoltà.

A un tratto il Farini ebbe un’idea.

«E se si cercasse qualcuno, disse, tra gli emigrati più notevoli...»

«Ben più a ragione mi diranno di no!»

«Eh, chi sa. Per esempio... se chiamaste Emilio Visconti? È un giovane
assai popolare in Lombardia, e per molte ragioni potrebbe essere
adattatissimo.»

«È vero, ma come potrei io fargli una simile offerta? Ma pensate
che, se per disgrazia fosse fatto prigioniero, gli austriaci lo
tratterebbero come un suddito ribelle e me lo fucilerebbero!»

«Il tempo incalza, conchiuse Farini, provate, chiamatelo, e sentite che
cosa vi dirà lui.»

Cavour, quando Emilio entrò nel suo gabinetto, gli espose in poche
parole di che cosa si trattasse, soggiungendo che non avrebbe osato
insistere di fronte a considerazioni, che nel caso di lui avevano una
speciale gravità.

Emilio rispose: «L’incarico è assai delicato e difficile, però se lei
crede che io possa adempierlo, non mi rifiuto. Quanto ai pericoli,
maggiori o minori, sono riflessioni che noi giovani d’oltre Ticino
abbiamo messo da parte da un pezzo: da un pezzo in Lombardia la forca
non è che una malattia di più, soggiunse ridendo: dunque non ci si
pensi. E quando dovrei partire?»

«Subito. Garibaldi a quest’ora è in marcia verso il confine, dove
arriverà all’alba di domattina. Cercherà di penetrare in Lombardia, e
mi premerebbe assai che i primi proclami e i primi atti fossero fatti
dal Commissario in nome del Re.»

«Eh, allora non c’è tempo da perdere; corro all’albergo a pigliarmi una
valigetta.»

«E io intanto manderò alla stazione a farle preparare una vettura
speciale, e scriverò a Cialdini che le procuri di attraversare questa
notte gli avamposti e le indichi il modo per raggiungere Garibaldi al
più presto.»

Poi Cavour gli tracciò rapidamente, a voce, le sue istruzioni. Voleva
che il Commissario procurasse di far insorgere i paesi di Lombardia
ovunque gli fosse possibile; che si intendesse con tutta la parte
più viva e audace del paese, giovandosi degli antichi elementi
rivoluzionari e mazziniani, riordinandoli con la nuova formola _Italia
e Vittorio Emanuele_, e dando loro le più esplicite assicurazioni
sui larghi intenti nazionali del Governo del Re. Gli disse infine di
riordinare i Municipi, chiamando a farne parte dei cittadini autorevoli
per patriottismo e integrità. Parte importante e delicata del suo
compito era poi quella di mantenere la sua azione nel maggior accordo
con Garibaldi.

Più tardi il Farini, narrandomi il dialogo avvenuto, mi disse che
Cavour sin da quel momento aveva avuto grande simpatia per Emilio, che
gli aveva fatta ottima impressione.

Cavour, come tutti gli uomini di azione, prediligeva quelli che lo
sapevano comprendere subito, e che agivano senza mettere difficoltà;
aveva in uggia i dubbiosi, i lunghi ragionatori, la gente dei _se_ e
dei _ma_.

Passai la giornata del 23 in molta ansietà e in molte incertezze.
La sera si sparse la voce che Garibaldi avesse passato il Ticino;
voce che fu ripetuta con maggiore insistenza la mattina seguente, ma
anche accompagnata da qualche notizia allarmante. Gli amici venivano
a cercarmi, poichè si sapeva l’incarico dato a Emilio, incarico che
a tutti pareva pericolosissimo. Ma io mi tenevo in qualche riserbo, e
ne avevo confidati i particolari solo a qualche intimo amico, come il
Giulini e l’Arese, che sapevo nelle confidenze di Cavour, e che vedevo
di solito in casa del marchese Francesco d’Adda Salvaterra.

Questi amici, assecondando la mia impazienza, credevano opportuno che
io seguissi Emilio; e a togliermene poi ogni dubbio mi giunse un suo
dispaccio che mi diceva di recarmi a Vercelli e di seguirlo.

Andai al Ministero a domandare una lettera per l’Intendente (prefetto)
di Vercelli, e un passaporto per l’Interno, indispensabile in quei
giorni per chi voleva attraversare gli ultimi paesi occupati dai
nostri, senza correre il rischio di farsi pigliare per spia: scrissi al
Mezzacapo, per informarlo della mia determinazione e il 24 partii.

L’Intendente di Vercelli, cav. Boschi, mi trattenne a lungo durante la
sera, mi diede molte informazioni interessanti, e mi procurò un legno
per continuare il viaggio.

Partii nella notte, per dar meno nell’occhio, e ebbi per compagnia
due altri che andavano al campo di Garibaldi. Attraversammo una parte
dell’accampamento di Cialdini, e salutammo con una certa emozione le
ultime nostre sentinelle di cavalleria, avviandoci un poco alla ventura
per strade e paesi ch’erano percorsi dagli austriaci.

Si viaggiò quella notte, e buona parte del giorno seguente, per
stradette un po’ fuor di mano, e con molte cautele, fino ad Arona.
Là sentimmo le prime notizie sul passaggio del Ticino, sulle mosse di
Garibaldi, e su uno scontro fortunato sostenuto dal capitano Carlo De
Cristoforis, che proteggeva il fianco della colonna garibaldina.

Garibaldi aveva passato il Ticino con sei battaglioni di cacciatori,
trecento carabinieri genovesi, e cinquanta guide a cavallo: erano 3200
uomini; giovani presso che tutti intelligenti e valorosi.

Nelle giornate del 25 e del 26 ci furono ad Arona alcuni piccoli
avvenimenti, che mi dimostrarono come non fosse una facile impresa
l’attraversare il lago o il Ticino. Allo sbocco del lago, e lungo i
primi tratti del Ticino, il territorio era percorso da drappelli di
cavalleria austriaca; il lago era poi sorvegliato da un battello, il
_Radetzky_, che aveva a bordo una compagnia di soldati e un cannone,
il quale tirava sulle barche che si arrischiassero di staccarsi dalla
riva.

Arona aveva voluto mettersi in stato di difesa, collocando lungo il
porto una gran barricata fatta con sassi e con balle di cotone; e
dietro ad essa c’erano alcune guardie nazionali. Ma a un tratto, ecco
il _Radetzky_, il quale vedendo questi preparativi tirò una cannonata
contro la barricata e poi una seconda contro il paese. La Guardia
Nazionale fece in tempo a ritirarsi, e la barricata non soffrì che
qualche leggera avaria.

La mattina seguente arrivò in Municipio un messo con un dispaccio di
Emilio da mandarsi a Cavour. Il Sindaco, il quale sapeva già che io ero
il fratello del Commissario Regio, mi fece chiamare, e così seppi dal
messo molti particolari sul combattimento avvenuto il giorno prima, a
Varese, e da lui ebbi pure le notizie di Emilio, ch’egli diceva di aver
veduto durante il combattimento. Il messo ci diede anche il proclama
che Emilio aveva pubblicato, entrando in Lombardia, e un suo bollettino
sulla battaglia di Varese. Proclama e bollettino furono subito letti in
pubblico dal Sindaco, in mezzo a grande entusiasmo[35].

In Municipio conobbi due ufficiali garibaldini, i quali stavano
combinando il modo d’attraversare il lago di notte, per portare a
Garibaldi quattro obici di montagna. Erano Griziotti e Ippolito Nievo,
del quale avevo tante volte ammirato gli scritti, e di cui divenni
subito amico. Si combinò che sarei partito con loro.

La traversata del lago non era cosa facile, perchè il _Radetzkj_
continuava a percorrerlo giorno e notte, e non c’era una barca sola
che osasse staccarsi dalla riva. Si dovette dunque combinare tutto un
sistema di segnali con lumi, e trovare dei barcaioli abili e audaci
che ci volessero condurre. Con questi poi facemmo i nostri preparativi,
caricando di notte e fuori di paese, in modo che nessuno ci vedesse, i
nostri obici in una barca.

Finalmente nella notte tra il 28 e il 29 ci arrischiammo a partire;
e silenziosi e accovacciati nella barca toccammo felicemente la
sponda lombarda. Caricati gli obici su un carro, ci avviammo verso
Varese sperando che la notte, ch’era oscurissima, e la buona fortuna
ci salvassero dalle pattuglie austriache che scorrazzavano a poca
distanza. La fortuna, che assecondava tutto in quei giorni, assecondò
anche noi quella notte, e arrivammo felicemente a Varese la mattina del
29.

Lo spettacolo che presentava Varese era indescrivibile. Tutto era in
festa, tutti erano in faccende; le vie eran piene di gente, a ogni
finestra sventolavano bandiere, o cenci dai tre colori.

Sentii raccontare per istrada come due giorni prima fosse avvenuta la
presa di Como; seppi che a Como c’era rimasto Emilio, ma che Garibaldi
ne era ripartito e che si aspettava tra poche ore in Varese con la
maggior parte delle sue truppe.

Perchè mai il Generale ritornava indietro? I motivi li seppi dopo a
Como da Emilio; ma intanto quelli che credevano d’essere bene informati
andavano dicendosi all’orecchio che Garibaldi, prima di procedere
innanzi, voleva dare l’assalto al forte di Laveno, dove c’erano ancora
alcune compagnie di austriaci. Ciò era vero, ma non era tutto.

Mentre andavo raccogliendo notizie e discorrevo con quanti incontravo,
un accorrer di gente, un levarsi di grida e di battimani e una banda
che suonava tra gli applausi il _dagliela avanti un passo_, ch’era
diventato l’inno della rivoluzione, annunziavano che Garibaldi era
arrivato e che entrava in Varese.

Garibaldi, preceduto da una piccola avanguardia e seguito da alcuni
battaglioni, si avanzava lentamente traverso una folla entusiasta:
era vestito da generale piemontese, con l’uniforme sbottonata, con un
fazzoletto di seta intorno al collo, e teneva il suo solito frustino in
mano: salutava e sorrideva.

I volontari che lo seguivano, frammisti alla folla, agitavano i
berretti rispondendo ai mille evviva che rintronavano per l’aria.
In mezzo all’allegria chiassosa dei compagni, facevano un pietoso
contrasto alcuni, tra quei volontari, che avendo perduto a S. Fermo il
fratello o l’amico, avevan le lacrime agli occhi.

N’ebbi anch’io una stretta al cuore, e unitomi a qualcuno di quei
volontari che conoscevo, e camminando tra le loro file, sentii i nomi
di quei morti. C’eran tra essi Pedotti, Cartellieri, Giacomo Battaglia,
uno dei Cairoli, e Carlo De Cristoforis. La gioia di poco prima
scomparve anche in me, e mi sentii io pure gli occhi pieni di lagrime.
Battaglia e De Cristoforis! due tra i miei più cari amici. Erano
caduti l’uno e l’altro a S. Fermo; l’uno e l’altro ne avevano avuto il
presentimento, e me lo avevano detto.

Chiesi ai loro compagni i particolari del triste fatto, e parlai con
qualcuno che li aveva veduti cadere. Il colonnello Medici, dinanzi a
S. Fermo, aveva ordinato alla compagnia comandata da De Cristoforis di
attaccare la posizione, e Carletto s’era slanciato all’assalto, alla
testa della compagnia, precedendola anzi di alcuni passi; e mentre con
la spada alzata, nel mezzo della strada, correva gridando ed eccitando
i soldati a seguirlo, era caduto col petto squarciato da una scarica
di fucilate degli austriaci che occupavano S. Fermo; fu portato morente
nell’ambulanza del fratello, il dottor Malachia. Poco dopo, durante il
combattimento che seguì l’assalto, eran caduti Battaglia e Cartellieri.
Così nell’ora stessa, e in quei primi fatti cadevano tre giovani,
ch’eran tra i migliori che la Lombardia avesse dati ai volontari;
tre giovani ai quali arrideva lieto, promettente l’avvenire. Carlo De
Cristoforis sarebbe diventato uno dei nostri migliori generali; Giacomo
Battaglia avrebbe emerso nelle lettere e nella politica; il Cartellieri
s’era già distinto assai negli studi giuridici.

Tra la folla accorsa attorno a Garibaldi vidi tre cittadini sondriesi,
i quali si affrettarono a darmi, con una certa ansietà, le notizie
della Valtellina. Ecco ciò che vi era accaduto.

Fin dal giorno 24 il capitano garibaldino Montanari si era recato da
Varese a Magadino, per incarico di Garibaldi, a conferire con diversi
emigrati e patriotti lombardi, per eccitarli a insorgere ovunque fosse
possibile. In seguito a ciò, nei giorni 25, 26 e 27, parecchi paeselli
del lago di Como insorsero, facendo prigionieri gendarmi e poliziotti,
aiutati dai capitani dei battelli a vapore (l’_Unione_, la _Forza_, il
_Lario_, l’_Adda_), che ad onta degli ordini severi del generale Urban
percorrevano il lago servendo gli insorti.

Alcuni cittadini sondriesi, cioè Agostino Carbonera, Ercole Quadrio,
Giacomo Orsatti, Pietro Joli e Luigi Dioli, d’accordo anche col
Municipio, si recarono a Como, ed arrivatavi la sera della battaglia di
S. Fermo, si presentarono al Regio Commissario, il quale li consigliò a
ritornar subito in Valtellina e a far insorgere il paese.

Il consiglio fu immediatamente seguito, e due giorni dopo nella maggior
parte dei paesi della Valle s’eran fatti prigionieri i gendarmi,
s’erano abbattuti gli stemmi austriaci, e sventolavano le bandiere
tricolori.

Intanto Garibaldi e il Commissario avevano ricevuto l’avviso dal
Quartiere Generale, che le operazioni della guerra avrebbero avuto
un ritardo di alcuni giorni. L’Urban si preparava a riprendere
l’offensiva, minacciando Garibaldi alle spalle con una mossa su Varese;
e ciò aveva obbligato Garibaldi a ripiegare, e perciò si era diretto
su Laveno, lasciando poche forze a Como. Contemporaneamente si davano
avvisi e contrordini ai paesi ch’erano insorti o che stavano per
insorgere.

In Valtellina il contrordine era arrivato il giorno dopo di quello
in cui era cominciata la rivolta, mentre appunto alla notizia di quei
fatti alcune compagnie di cacciatori tirolesi scendevano dallo Stelvio
e occupavano Bormio. Non è quindi a meravigliarsi se all’entusiasmo
succedesse rapidamente un gran panico in tutta la valle. Ecco allora
una nuova Commissione di tre cittadini sondriesi, scendere in fretta e
correre dietro a Garibaldi. Erano ansiosi di avere delle informazioni
esatte, di chiedere nel tempo stesso soccorsi ed esporre in quali gravi
pericoli si trovava la Valtellina, senza difesa e minacciata da una
vicina invasione di truppe austriache, e da rappresaglie.

La Commissione raggiunse Garibaldi il giorno 25, durante la ritirata su
Varese. Garibaldi le rispose: «È probabile ch’io venga in Valtellina,
ma più tardi. Per ora non fate calcoli su me; io non posso darvi
neppure un soldato. Difendetevi da soli, alla meglio; date un’arma
a quanti la possono portare, e scegliete qualcuno che vi diriga. Se
sarete battuti, disperdetevi, e datevi ritrovo in qualche punto delle
vostre montagne; poi ritornate all’attacco. Tenete viva l’insurrezione
finchè potrò venir io; intanto nominatevi subito un Capo.»

La Commissione, vedendo che non poteva ottenere di più, si rassegnò
al partito d’avere un Commissario con pieni poteri, tanto per
non tornarsene a casa a mani vuote. Fu allora che a quelli della
Commissione venne in mente di proporre me, che avevano incontrato per
strada poco prima, e che avevo il vantaggio d’essere del paese.

Garibaldi approvò la proposta, e congedò la Commissione dicendo:
«Andate a Como, intendetevi col Commissario Emilio Visconti, ditegli
che siete d’accordo con me, e prendete con lui tutti quegli accordi che
crederete necessari.».

Dopo ciò i tre cittadini sondriesi vennero a cercarmi, e mi riferirono
il dialogo avuto con Garibaldi, insistendo vivamente affinchè
accettassi l’incarico e li seguissi in Valtellina.

Sulle prime me ne schermii, sgomentato dalle difficoltà e dalle
responsabilità d’un incarico di tal fatta: alla fine acconsentii di
seguirli a Como, riservandomi di consultarmi con mio fratello.

Non c’era tempo da perdere, si partì subito, e la sera stessa eravamo
a Como. Emilio mi disse che i movimenti dell’esercito francese
avevano avuto un ritardo, e perciò le operazioni offensive per
passare il Ticino non sarebbero avvenute che tra alcuni giorni; che
intanto l’Urban si preparava, con forze superiori, a una rivincita su
Garibaldi; ed, anzi, aveva già dato avviso al comandante delle truppe
svizzere, che difendevano la frontiera, di tenersi pronto a disarmare
i garibaldini, ch’egli avrebbe quanto prima battuti e cacciati oltre il
confine.

Garibaldi non aveva lasciato a Como che due compagnie, comandate dai
capitani Fanti e Ferrari. Como si preparava a difendersi, ma poteva
venir rioccupata senza troppe difficoltà; e perciò Emilio stava
disponendo di mandare i feriti a Menaggio, e di passare a Lecco con
le due compagnie per promuovervi l’insurrezione, caso mai dovesse
abbandonar Como e non potesse riunirsi subito con Garibaldi.

Emilio mi incoraggiò ad accettare la nomina di Commissario per la
Valtellina. Quale Commissario Generale egli era autorizzato a nominare
dei Commissari locali, sicchè sentendo che c’era anche l’approvazione
di Garibaldi, fece subito stendere il decreto della mia nomina.
L’impresa era certamente difficile ed arrischiata ma molte buone
ragioni consigliavano a tentarla.

Passai parte della giornata del 31 maggio a Como, coi miei tre
compagni, per stabilire accordi e mettermi d’intesa con altri; poi si
partì alla volta di Colico, con uno dei battelli che, interrotte le
corse solite del lago, si tenevano a disposizione degli insorti.

Arrivato in Valtellina m’accorsi che i miei compagni di viaggio avevano
già fatto precedere la nostra venuta da chi sa quante e belle notizie.
Venivamo a mani vuote, ed essi in compenso avevano, evidentemente,
esagerate le speranze.

Da per tutto si trovava gente in festa, che ci veniva incontro con
bandiere, musiche, coi municipi e coi curati alla testa, i quali erano
pressochè tutti patriotti: da per tutto strette di mano, abbracci,
discorsi. La venuta d’un Commissario Regio voleva dire, per quella
brava gente, la venuta vicina di Garibaldi o dei soldati del Re; voleva
dire la liberazione assicurata del paese, la cessazione d’ogni dubbio,
d’ogni pericolo.

Sì, ciò sarebbe avvenuto più tardi. Ma intanto il Commissario Reale
veniva solo, senza soccorsi e senza speranza di averne presto. Tutta
quella festa mi dava una stretta al cuore, pensando che potevano
seguire dei giorni ben tristi; pensando al mutamento di scena, se si
fosse conosciuta intera la verità. Ma intanto le speranze bisognava
riporle nel tenere alti gli animi, nel tener viva in tutta la provincia
l’insurrezione, e nell’apparecchiare alla meglio una difesa contro i
primi attacchi che ci potessero venire. Apersi dunque a due battenti
l’arsenale della rettorica, cercando di riscaldare sempre più i miei
uditori.

A Morbegno, dove contavo parecchi amici, mi fermai un paio d’ore per
prendere degli accordi per mantenermi in comunicazione continua con
Como e con Lecco; poi ripartimmo per Sondrio, ove si giunse a sera, e
avemmo un’accoglienza clamorosa e cordiale.

Il bravo e antico patriotta Battista Caimi aveva già principiato a
ordinare la Guardia Nazionale, e la trovammo schierata all’ingresso di
Sondrio. Anche qui infiniti evviva, banda, inni patriottici, e persino
un po’ di illuminazione.

Sebbene stanco e trafelato, dovetti fare il mio bravo discorso in mezzo
alla piazza; e spero che nessuno avrà tenuto nota di ciò che dissi
nell’enfasi sfiatata della mia concione.

Dopo aver ricevuto parecchi amici venuti a salutarmi in una sala
dell’Albergo, ove piantai le prime tende del mio Commissariato, passai
parte della notte insieme con G. B. Caimi e con qualche altro amico,
per esaminare insieme attentamente la situazione. A loro dissi in
segreto come stavano le cose, e da loro seppi quanto era avvenuto in
quei giorni in Valtellina.

A quel tempo in Valtellina non c’erano giornali; e non ho visto che
altri abbiano scritto la cronaca dei fatti grandi o piccoli che allora
vi si svolsero. Il colonnello Francesco Carrano, nel suo libro: _I
cacciatori delle Alpi, e la campagna di Garibaldi in Lombardia nel
1859_, poco o nulla dice degli avvenimenti di Valtellina, e si contenta
di riprodurre la relazione del tenente-colonnello Medici, che vi
giunse il 24 di giugno, comandando una colonna d’avanguardia del corpo
di Garibaldi; relazione certamente importante, ma che riguarda solo
i fatti militari. Io cercherò di riempire la lacuna in questi miei
ricordi, raccogliendo le mie note e i miei documenti di quel tempo, che
vanno dal 1.º giugno 1859 fino alla pace di Villafranca.


  NOTA.

  [35] Questo decreto fu pubblicato e affisso in tutta la Provincia.

                 _Il Regio Commissario di S. M. Sarda_

                    ALLE POPOLAZIONI DELLA LOMBARDIA

          _Cittadini!_

    Appena il Re Vittorio Emanuele, _primo soldato
    dell’Indipendenza Nazionale_, annunciò all’Italia d’aver
    ripresa la spada, le popolazioni Lombarde volgendo gli occhi al
    Ticino domandarono il segnale dell’insurrezione.

    Le ragioni dell’umanità e della prudenza e le generali
    necessità della guerra, ci mossero a consigliarvi un indugio
    che voi accettaste perchè tutto è oggi disciplinato in Italia,
    la quiete al pari dell’azione.

    Ma ora gli indugi sono rotti, il prode Generale Garibaldi
    venne a darci quest’annuncio e dappertutto dinanzi a lui le
    popolazioni insorgono e si pronunciano per la causa nazionale e
    pel governo del Re Vittorio Emanuele.

    Commissario di S. M. Sarda vengo a prendere il governo civile
    di questo spontaneo movimento.

          _Cittadini!_

    L’insurrezione Lombarda sarà animata da quel nuovo e mirabile
    spirito italiano che col segreto della concordia ci fa
    ritrovare il segreto della fortuna. Nessun disordine verrà
    a turbare il sublime spettacolo della libertà: nessun impeto
    cieco verrà a disordinare l’organismo civile del Paese: nessun
    spirito di improvvida reazione presumerà di considerare come
    il trionfo di un partito, quello che invece è il trionfo d’una
    Società tutta intera.

    Le guerre dell’indipendenza non si vincono che con gravi
    sforzi: vi sta dinanzi l’esempio del generoso Piemonte, che da
    undici anni profonde i più gravi sacrifici quell’alta speranza,
    che ora è divenuta una realtà.

    La nostra impresa è sicura: il prode esercito Piemontese,
    guidato dal Re, viene in nostro soccorso; l’Italia si ordina
    per combattere la guerra dell’indipendenza. Napoleone III ha
    gettato sulla bilancia dei destini la spada della Francia,
    nostra sorella e naturale alleata delle cause generose.

    Tutta Italia ci dimanda la formazione di un forte Stato,
    baluardo della nazione, e avviamento a’ suoi nuovi destini: i
    voti decenni del Paese stanno per essere compiuti, e voi potete
    insorgere nella certezza di questa invocata unione, e gridando:

    Viva Vittorio Emanuele Re Costituzionale.

    _Como, 28 Maggio 1859._

                                       _Emilio Visconti-Venosta._

                    REGIO COMMISSARIO STRAORDINARIO

                             DI S. M. SARDA

          _Cittadini!_

    Il nemico è in ritirata.

    I Cacciatori delle Alpi si sono battuti con un coraggio degno
    del Prode che li comanda e della causa che difendono. E voi, o
    Cittadini, avete tenuto un ammirabile contegno.

    Tutta la gioventù è accorsa a prendere un fucile, a domandare
    la battaglia, a difendere le barricate. Ogni famiglia gareggiò
    nel porgere soccorsi ai combattenti e mezzi alla difesa.

    La Lombardia seguiterà il vostro esempio.

    Il Commissario di S. M. Sarda ve ne ringrazia in nome del Re
    Capitano della guerra d’indipendenza.

    _Varese, 26 maggio 1859._

    _Il Commissario di S. M. Re Vittorio Emanuele_

                                       _Emilio Visconti-Venosta._

                                   _Como, ore 2 dopo mezzanotte._

    Como è sgombra dagli austriaci: i nostri valorosi soldati
    fecero prodigi. Le popolazioni del lago accorrono in massa,
    trasportate dai quattro vapori, per la difesa del paese.

    Per estratto conforme.

    _Varese, 28 maggio 1859, ore 6,30 ant._




CAPITOLO XXIX.

1859.


IV.

  _Sommario:_ Proclami pubblicati a Sondrio. — Prime mosse degli
  austriaci dallo Stelvio verso la Valtellina. — Prime difese dei
  Valtellinesi. — Dispareri sulla difesa. — Primi provvedimenti di
  difesa. — Ricognizioni fatte da pattuglie austriache. — Notizie
  esagerate e panico nella Provincia. — Nomino una Commissione
  di pubblica sicurezza. — Costantino Iuvalta di Teglio commette
  alcuni atti di reazione in quel Comune. — Un professore di lingua
  tedesca sorpreso mentre inviava lettere a un posto nemico. — Viene
  arrestato. — Continua l’arrolamento in Provincia. — Comunicazioni
  difficili. — Mancanza di notizie.

Subito dopo il mio arrivo, cioè il 5 giugno, il Municipio di Sondrio
proclamava l’insurrezione per la indipendenza, e rinnovava il voto
del 1848 per l’annessione al Piemonte. Il Podestà, nobile Gaudenzio
Guicciardi, ne dava comunicazione alla popolazione con un coraggioso
proclama. Io annunziavo la mia nomina a rappresentante in Valtellina
del R. Commissario generale, istituivo la Guardia Nazionale per la
sicurezza interna e la Guardia Mobile, e pubblicavo alcune disposizioni
d’ordine pubblico.

Le prime notizie di Varese e di Como, i proclami di Garibaldi e di
mio fratello eran noti, ed appunto in seguito a questi, come già
ho accennato, i patriotti valtellinesi avevano principiato il loro
movimento d’insurrezione.

Dagli amici, venuti ad informarmi di quanto era accaduto in quei giorni
in Valtellina, sentii con dispiacere che Romualdo Bonfadini era, nella
sua casa d’Albosaggia, ammalato di tifo: perciò non potei avere la
sua collaborazione in quei primi momenti, quando più mi sarebbe stata
preziosa.

«E gli austriaci?» fu la mia prima domanda.

Ecco le informazioni che ebbi: gli austriaci, subito dopo quei primi
moti della Provincia, avevano mandato dalla valle Venosta, dove c’erano
circa settemila uomini comandati dal generale Huyn, alcune compagnie
di cacciatori tirolesi ad occupare Bormio; poi avevano spinto innanzi
alcune forti pattuglie, che erano scese fino al ponte di Grosio,
e, fiancheggiando la montagna, fino al passo del Mortirolo. Queste
pattuglie, venute ad esplorare e credute avanguardie di forze maggiori,
avevano messa in allarme tutta la provincia.

A Sondrio s’era formato subito un drappello di volontari che, vestiti
alla meglio con uniformi e cappotti abbandonati nel castello dagli
austriaci e accomodati alla meglio per la circostanza, sotto il comando
di un valoroso giovane sondriese, Ercole Quadrio, erano corsi ad
occupare la Tresenda, villaggio ove si riunisce la strada che conduce
al passo di Aprica con quella che scende dall’alta Valtellina e dallo
Stelvio. Questo drappello aveva incontrati e fatti prigionieri, sullo
stradale dell’Aprica, tredici gendarmi, che probabilmente venivano da
Edolo per ricongiungersi a quelli di Valtellina.

Anche nei paesi della parte superiore della valle alcune persone di
buona volontà erano accorse alla difesa, e alla meglio si erano armate.
S’era improvvisata una compagnia di militi, dei quali nessuno aveva
neanche un berretto d’uniforme; ed essa aveva occupato un punto ove
la valle si restringe a mano a mano fino a non esserci più che la
strada provinciale e il fiume Adda. Là c’è un ponte, detto il ponte del
Diavolo; e dietro quel ponte fu costruita in fretta una barricata.

Una grossa pattuglia austriaca, forte d’un centinaio d’uomini circa,
scese ad attaccarla.

La compagnia, che la difendeva, era comandata da un certo Antonio
Lucini di Tirano, il quale era stato ufficiale dei volontari allo
Stelvio nel 48; la maggior parte però di quei difensori si trovava
dinanzi alle fucilate per la prima volta. Eppure seppero tutti starci
con calma e con fermezza: l’attacco fu vigoroso e non breve, ma venne
respinto.

Al bravo Lucini e ai suoi compagni mandai subito un _ordine del
giorno_, con elogi per quel fatto, come era giusto ed opportuno nel
tempo stesso.

Di questo primo combattimento s’era diffusa subito la notizia per tutta
la valle, con quelle esagerazioni che in simili casi non mancano mai.
Tutti ne parlavano con grande compiacimento, ma tutti nel loro animo
erano allarmati più di prima. Quell’attacco poteva essere un indizio
che gli austriaci mirassero a rioccupare la valle; così la vittoria
era accompagnata dalla sfiducia, e sulla faccia di tutti si vedevano,
insieme coi sorrisi, il dubbio e l’apprensione. Seppi parimenti che
anche Edolo era occupata dagli austriaci, i quali mandavano pattuglie
fino all’Aprica. Non era quindi impossibile che si spingessero fino a
Sondrio.

I giovani più animosi della provincia erano già in gran parte partiti,
e s’erano arrolati volontari con Garibaldi o nell’esercito; mancavano
le armi: nelle casse della Tesoreria provinciale c’erano in tutto
ventiquattro mila lire austriache, e bisognava pagare la mesata agli
impiegati. Le comunicazioni col lago di Como e col campo garibaldino
erano difficili e incerte. Eravamo insomma senza forze, ed isolati. Io
poi avevo la certezza di non poter ricevere aiuti da nessuna parte per
parecchi giorni; di più conoscevo le condizioni difficili, mostratemi
da Emilio, nelle quali si trovava Garibaldi nei giorni 30 e 31 di
maggio. Pensai, che se si poteva guadagnare alcuni giorni, forse si
evitava alla provincia una occupazione di truppe austriache.

Sui modi di preparare la difesa erano nati subito dispareri, non
in Sondrio, ma soprattutto nell’alta Valtellina e nei paesi più
esposti; si temeva da alcuni che si volesse concentrare ogni difesa
alla Tresenda e all’Aprica, e veramente tale partito sarebbe stato il
più prudente, poichè, con gli austriaci a Edolo, il nostro avamposto
poteva essere preso alle spalle; ma ciò non garbava a quelli dell’alta
Valtellina.

Intanto si formarono, da sè, alcuni nuclei di volontari che si
diressero verso Grosio, e anche più in su per tener testa agli
austriaci; i quali però se volevano venire innanzi ci sarebbero
riusciti facilmente, qualunque fosse la posizione presa da noi:
intanto ricordavo il suggerimento datomi da Garibaldi: _se non potete
resistere, disperdetevi e datevi ritrovo altrove_.

A Tirano dove mi recai, per intendermi con quel Municipio, potei
finalmente vedere la mia buona mamma, che non avevo più veduta da tre
mesi, dalla sera cioè che aveva preceduta la visita della Polizia in
casa nostra. Essa era rimasta a Milano fino alla dichiarazione della
guerra, poi si era ritirata a Tirano, anche per cercare in un’aria
migliore un po’ di sollievo alla salute che le angustie e i timori
avevano alquanto scossa. Mio fratello Enrico era rimasto a Milano,
trattenuto da varie faccende domestiche, ed anche dal desiderio di
trovarsi presente agli avvenimenti che vi si potevano svolgere da un
momento all’altro.

Quante buone chiacchiere avevo fatte con la mamma in quelle ore in cui
ero rimasto a Tirano! Quante cose non avevamo da dirci dopo quei mesi
pieni di tanti avvenimenti, di tante angoscie e di tante gioie! La
mamma era in continui timori per noi, ma nel tempo stesso era felice,
ci godeva un mondo, perchè aveva l’anima calda di patriottismo e di
entusiasmo.

Tra i miei primi atti a Sondrio c’era stata la pubblicazione di
alcuni decreti per avere delle armi, per aprire un arruolamento di
volontari, per richiamare i soldati che non si erano presentati alla
chiamata ultima del Governo austriaco, per creare in ogni Comune
la Guardia Nazionale e predisporre la mobilitazione d’una parte di
essa. Avevo sospeso i commissari distrettuali, in generale invisi
per le loro attribuzioni di polizia, e riordinato prontamente le
Giunte Municipali, lasciando quasi da per tutto le antiche, che erano
buone, solo aggiungendovi un qualche patriotta del paese che non vi
appartenesse. Lasciai tutti gli altri uffici com’erano, e gli impiegati
provvisoriamente al loro posto. Era in quel momento vacante il posto di
delegato della Provincia, come chiamavano allora il Prefetto, e c’era
un vice delegato, il signor Borroni, che lasciai pure al suo posto;
egli continuò poi la sua carriera nell’amministrazione italiana. Questi
decreti e queste disposizioni amministrative formavan parte delle
istruzioni che Emilio aveva avute, e che mi aveva trasmesse.

Tutti i funzionari governativi che risiedevano in Sondrio, e primi fra
tutti il Presidente e i Consiglieri del Tribunale, erano venuti a farmi
visita. In tutti cercai di trasfondere quella sicurezza, che non c’era
in me, e nessuno mostrò il menomo dubbio o timore; ma poi osservai che,
per parecchi giorni, e cioè fin dopo la battaglia di Magenta, tutti
si tenevano un pochino alla larga, con l’aria di star a vedere come
sarebbe finita l’avventura del Commissario regio.

Mano mano che mi giungeva qualche drappello di volontari li spedivo
a Tirano, poi al ponte di Grosio, dove si fece una forte barricata.
Alcuni giorni dopo, quando il numero dei difensori fu accresciuto,
potemmo avanzarci fino al ponte detto del Diavolo dove la valle si
restringe talmente da non esserci più che la strada provinciale e
l’Adda, chiuse tra le falde delle due montagne che scendono ripide e
scoscese: là si fece un forte terrapieno dietro il ponte, e il ponte fu
minato.

S’era pure fatta una barricata al ponte della Tresenda, e si era messo
un posto d’avviso all’Aprica. Questi provvedimenti servirono in quei
primi giorni a occupare e a tranquillare gli animi; forse a metter
sull’avviso gli austriaci e a renderli circospetti. È però certo che in
quei giorni che precedettero la battaglia di Magenta e l’entrata delle
truppe alleate in Lombardia, se i cacciatori tirolesi avessero voluto
fare una passeggiata da Bormio a Colico, mettendo delle contribuzioni
di guerra in ogni paese, l’avrebbe potuto fare assai facilmente ad
onta del Commissario regio e dei suoi decreti. Coll’audacia e colla
rapidità potevano portarsi forse fin verso Lecco, disturbando assai le
mosse di Garibaldi; ma l’audacia e la rapidità mancarono, per fortuna,
in quei giorni a chi teneva lo Stelvio. E gli austriaci, anche quando
poco dopo vennero ad attaccare le nostre difese al ponte del Diavolo,
si dimostrarono incerti; retrocedettero, rinnovarono l’assalto, ma
non ci persistettero. Facevano ogni tanto qualche ricognizione, ma non
attacchi risoluti e vigorosi.

Quei dubbi che mi impensierivano, ma che avevo tenuti nascosti a
tutti, fuorchè a qualche amico, cominciarono a farsi strada anche nel
pubblico, appena arrivarono le notizie, in ritardo di quattro o cinque
giorni, sulle mosse retrograde di Garibaldi, e sullo sgombero di Como.
Queste notizie, ingrandite per di più, come succede, cominciarono a
risvegliare il panico dei giorni prima, per quanto il Commissario, che
era affatto senza notizie, dicesse dì averne di ottime. Il Commissario,
fino al 3 giugno, non sapeva neppure che fosse avvenuta la battaglia
di Palestro, tanto erano difficili le comunicazioni. In Valtellina non
c’era ancora il telegrafo.

Una delle prime manifestazioni della paura furono le domande di
energici provvedimenti, che parecchi cominciarono a indirizzarmi, e
la smania che si svegliò nel pubblico di scoprire spie e di domandare
l’arresto della gente sospetta.

Fin dal primo giorno ch’ero venuto in Sondrio, avevo saputo ch’era
stato fatto, nei primi momenti, qualche arresto arbitrario, e che se
ne minacciavano altri: perciò avevo subito nominata una Commissione
di pubblica sicurezza, non essendoci un ufficio di Polizia, per
esaminare le denuncie e le persone sospettate, per poi deferirle,
se fosse necessario, al magistrato. Era un modo per evitare qualche
scoppio d’ira, cieca e furiosa, d’una parte del popolo, come avviene
nei momenti di commozioni popolari, mettendo in salvo nel tempo stesso
qualche innocente.

Avevo chiamato a comporre questo _Comitato di salute pubblica!_ alcuni
cittadini serii e temperati, che seppero adempiere il loro incarico
con prudenza e con abilità: erano il consigliere di tribunale Vertua,
il dottor Giacomo Lambertenghi, il signor Giovanni Lambertenghi e don
Pietro Sertoli.

Tra gli arrestati, gente in generale mal veduta, c’era un impiegato di
Polizia, un certo Olivari, ch’era il marito di quella guantaia Olivari,
sgualdrina di ufficiali austriaci, che aveva provocata a Milano nel
1849 la dimostrazione seguita dalla bastonatura di uomini e di donne
in piazza Castello. Il marito era stato rimeritato con un impiego nella
Polizia, e lo trovai a Sondrio.

Di due fatterelli di qualche importanza ebbe subito da occuparsi la mia
Commissione straordinaria di pubblica sicurezza.

Nel paese di Teglio dominava un certo Costantino Iuvalta, di buona
famiglia, uomo d’ingegno, ma di indole prepotente; il quale aveva
passata la sua gioventù a Vienna, e in relazione, a quanto dicevasi,
con pezzi grossi del Governo. I giovani del paese s’erano associati
subito al movimento politico di quei giorni, abbattendo stemmi
austriaci e inalzando bandiere tricolori; ma l’Iuvalta, ch’era anche a
capo del Municipio, aveva subito fatto rimettere gli stemmi al posto
e toglier via le bandiere; poi mi aveva rimandato, respingendoli, i
miei proclami e i miei decreti. Di più, contornandosi di un gruppo di
contadini che gli erano devoti, si atteggiava ad opporsi colla forza
al movimento italiano nel suo paese. Parecchi liberali, gravemente
minacciati, avevan dovuto fuggire da Teglio, ed erano venuti ad
avvisarmi di quanto succedeva. Allora, sentita la Commissione, chiamai
subito il mio amico G. B. Caimi che comandava la Guardia Nazionale
di Sondrio, e lo incaricai di recarsi a Teglio, con una compagnia di
militi per sorprendere durante la notte l’Iuvalta e i suoi partigiani,
procurando di arrestarne quanti poteva, e di disperdere gli altri, se
occorreva, con la forza.

La sera, un cameriere dell’albergo della Posta dove alloggiavo, venne
a chiamarmi nell’ufficio, in una sala della Delegazione, dicendomi che
una signora, la quale non aveva voluto dire il suo nome, mi pregava
di recarmi subito all’albergo occorrendole di parlarmi di affari
urgentissimi. Vado difilato all’albergo, e mi trovo dinanzi, nella mia
camera, una signora velata, proprio come in un romanzo, e chi era? Era
la moglie dell’Iuvalta, la signora Giuseppina Iuvalta Cattaneo, una mia
cugina. Con questa cugina ch’era una bravissima donna, la mia famiglia
era stata sempre in ottimi rapporti, mentre col marito di lei, sia
perchè spesso assente, sia perchè quand’era in Valtellina non usciva
mai dal suo covo, io non ero mai stato in nessuna relazione; non lo
conoscevo neanche di vista.

Mia cugina, con quell’ansia e con quella agitazione che si può
immaginare, mi raccontò i fatti di Teglio, mi disse che i due partiti
stavano di fronte, pronti a venire alle mani in nome dei nuovi e di
vecchi rancori, e che era imminente uno spargimento di sangue. Avendole
detto francamente quali erano le mie intenzioni, essa mi replicò che
le guardie nazionali non sarebbero bastate a salvare la vita di suo
marito; il quale appena arrestato sarebbe stato massacrato dalla folla
trionfante, o da qualcuno che volesse compiere una vendetta.

Fossero o non fossero esagerate le previsioni di mia cugina, mi parve
doveroso l’evitare la possibilità d’un simile caso. Le dissi di correre
subito a Teglio, e persuadere suo marito a pigliare immediatamente su
per la montagna la via del confine per mettersi in salvo, se giungeva
in tempo, prima che succedesse un tafferuglio e prima che arrivassero
le guardie nazionali incaricate di arrestarlo.

Mia cugina partì subito; ed io arrivai in tempo a prevenire il Caimi e
la Commissione di quanto avevo saputo e di quanto avevo detto.

Il Caimi adempì il suo incarico con la fermezza e con la prudenza che
gli erano abituali. Saputasi la partenza dell’Iuvalta, tornò la calma
in Teglio, non ci fu nessun atto di violenza; gli stemmi austriaci
furono tolti e le bandiere italiane furono rizzate di nuovo.

Alcuni giorni dopo ricevetti dalla Svizzera una lunghissima lettera
in francese dall’Iuvalta, il quale mi domandava un salvacondotto,
per potersi recare in quella città che io gli avessi indicata ed ivi
scolparsi dinanzi al giudizio regolare di un tribunale.

Io gli risposi ch’egli per ora stava assai bene dove era; che non
potevo garantirgli di salvargli la vita una seconda volta, e che poi a
guerra finita, e in tempi tranquilli, avrebbe fatto ciò che gli sarebbe
parso meglio.

Più tardi infatti il signor Carlo Iuvalta ritornò; non pensò più a
fare la sua clamorosa difesa; e da austriacante diventò, sotto altri
nomi, speciosi, un accanito avversario del Governo e mio; cose del
resto inconcludenti. Mia cugina, finchè visse, appena mi sapeva giunto
in Valtellina, veniva in casa nostra e sempre ricordando quel fatto, e
deplorando la condotta di suo marito, mi rinnovava le espressioni della
sua riconoscenza.

Subito dopo capitò un secondo fatto pure di una certa gravità. Il
cameriere dell’albergo venne la notte a svegliarmi, dicendomi che un
tale voleva parlarmi subito. Era lo stalliere di un altro albergo di
Sondrio detto la _Maddalena_, il quale tutto ansante mi disse che un
tirolese, professore di tedesco nel ginnasio di Sondrio, era andato
poco prima nella stalla dell’albergo a confabulare in secreto con
un carrettiere che partiva per Edolo. Il professore aveva dato un
pacchetto e una mancia al carrettiere facendogli, con aria misteriosa,
molte raccomandazioni, e parlandogli all’orecchio. Lo stalliere, che
se ne stava in un angolo della stalla, all’oscuro, sdraiato sulla
paglia, era stato testimonio di tutto senza essere veduto; e veniva
patriotticamente ad informarmene, aggiungendo del suo che il professore
e il carrettiere erano certamente due spie austriache.

Mi alzai subito, e mandai alcune guardie nazionali, giovani
intelligenti e risoluti, a raggiungere il carrettiere, ad arrestarlo
e a perquisirlo. Poche ore dopo il carrettiere era nel quartiere delle
guardie nazionali di Sondrio, e il pacchetto era sul mio tavolino.

Nel pacchetto trovai, nascosta tra alcune carte insignificanti, una
lettera scritta in tedesco dal professore a un suo compatriotta che
dimorava in Edolo. In questa lettera il professore narrava i fatti
avvenuti in quei giorni in Valtellina e a Sondrio, dicendogli di farli
conoscere a una certa persona che dimorava al di là del Tonale. Il
professore diceva poi che da alcuni giorni era venuto un Commissario
del Re di Piemonte, il quale parlava alto, annunziava l’arrivo
imminente di garibaldini o di truppe regolari, ma che, a parer suo,
queste notizie erano non vere, o premature. Fin qui il professore aveva
ragione. Poi soggiungeva che «in realtà non compariva nessuno e che,
all’infuori di pochi volontari mandati all’avamposto, gli insorti di
Valtellina non avevan forze da opporre a qualsiasi attacco. Diceva
infine al suo compatriota che avrebbe continuato a informarlo, ma
che, siccome ciò diventava ogni giorno più difficile e pericoloso,
così gli avrebbe scritto con cifre di cui gli univa la _chiave_ per
interpretarle».

Ciò poteva essere abbastanza pericoloso; perciò feci arrestare subito
il professore, e lo affidai alla mia Commissione straordinaria.
Naturalmente il fatto fu subito, in parte almeno, saputo in pubblico,
e non mancaron quelli che vennero a domandarmi quando avrei fatto
fucilare il professore. Ma la Commissione fu del parere di far tradurre
anche il professore insieme a tutti gli altri arrestati e da arrestare,
prigionieri politici o militari, nella fortezza d’Alessandria, appena
fosse possibile, come era detto nelle istruzioni che avevo ricevute.

E anch’io fui di questo parere, dicendo tra me come i monatti di Renzo:
«povero untorello, non sarai tu quello che spianterai l’Italia».

Intanto avevo continuato a scrivere a mio fratello Emilio, quasi
giornalmente, narrandogli quanto avveniva in Valtellina, e mostrandogli
la condizione precaria nella quale eravamo, e la urgenza che Garibaldi
ci mandasse al più presto qualche ufficiale, e anche alcuni buoni
soldati, possibilmente valtellinesi, per farne dei sotto ufficiali.

La chiamata alle armi aveva cominciato a dare dei risultati e ogni
giorno mi arrivava qualche gruppo di volontari e di guardie nazionali,
colle quali volevo formare in fretta, alla meglio, delle compagnie per
mandare all’avamposto e rinforzare i nostri punti di osservazione e di
difesa; ma appunto per ciò urgeva di avere degli ufficiali e dei sotto
ufficiali.

Le comunicazioni erano, come già dissi, difficilissime e interrotte da
per tutto, ed io ero senza risposte e senza notizie. Il telegrafo in
Valtellina non fu messo che alla fine del 1859 dalla Amministrazione
Italiana.




CAPITOLO XXX.

1859.


V.

  _Sommario:_ Prime notizie sulla battaglia di Magenta. — Il
  battaglione valtellinese. — Il capitano Francesco Montanari. —
  Il parroco di Grosio. — I soldati svizzeri al confine. — Le spie
  austriache. — Un progetto di assalto a Bormio. — Parto per Bergamo
  per conferire con Garibaldi. — A Bergamo in casa Camozzi. — Il
  quartiere generale di Garibaldi. — Il capitano di stato maggiore
  Clemente Corte. — Ufficiali austriaci prigionieri. — Il colonnello
  Thürr. — Come Garibaldi riceve quei prigionieri. — Disposizioni di
  Garibaldi.

Ecco, a un tratto, improvvisamente un succedersi di notizie che mutano
in gioia i dubbi e le ansietà dei giorni antecedenti.

Il giorno 6 mi arrivarono le prime notizie della battaglia di Magenta,
ed ebbi da Emilio una lettera che mi annunziava il passaggio di
Garibaldi in quel giorno da Como a Lecco, e che il generale s’era
finalmente deciso a mandarmi un capitano di Stato Maggiore, tre
o quattro ufficiali e una dozzina di soldati istruttori per il
battaglione valtellinese.

In quella mattina poi m’erano arrivate parecchie guardie nazionali
mobilitate, tra le quali una cinquantina di giovani scelti e vigorosi
che venivano da Chiavenna.

Gli ufficiali e i soldati garibaldini arrivarono la sera del 5 giugno:
la popolazione di Sondrio fece loro una calorosa accoglienza, e tutti
erano in festa come se fosse giunto un esercito. Il capitano, che
chiamavasi Francesco Montanari, mi presentò gli ufficiali, e mi diede
una lettera di mio fratello ed una di Garibaldi. In questa lettera,
che poi dovette riuscirmi preziosa in diverse circostanze, c’erano le
istruzioni che Garibaldi dava al Montanari:

Il capitano «era incaricato di organizzare rapidamente un battaglione
di volontari valtellinesi, e di prenderne il comando; il battaglione
essendo pratico dei luoghi era destinato all’avanguardia, quando
sarebbero venuti i Cacciatori delle Alpi; intanto il comandante nulla
poteva fare _senza mettersi d’accordo col Commissario, dal quale doveva
dipendere fino alla venuta in Valtellina dei Cacciatori delle Alpi_».

Invitai a pranzo, la sera del loro arrivo, il capitano e gli ufficiali,
e mi feci narrare minutamente tutti i fatti dei giorni antecedenti;
dei quali io ero stato fino allora completamente all’oscuro. Il
capitano però parlava poco, ma beveva molto; ogni tanto veniva
fuori con una qualche esclamazione entusiastica in onore del vino di
_Sassella_ e dell’_Inferno_, e dava fondo a una nuova bottiglia. Alla
fine del pranzo cominciai ad essere in apprensione, e proposi una
passeggiata per la città: ma fu inutile. Gli ufficiali a poco a poco si
accomiatarono, e il capitano preferì sdraiarsi su un canapè, dove non
tardò ad addormentarsi profondamente.

Si principiava male.

In quel mentre ecco la banda, suonando la canzone popolare _dagliela
avanti un passo_, alla testa della folla che veniva a fare una
dimostrazione al capitano, e a sentire, naturalmente, uno di quei
discorsi di cui tutti erano ghiotti in quei giorni.

Chiusi a chiave in fretta la sala, dove il capitano russava: andai
al balcone, e dissi, parlando quasi sottovoce, che il capitano,
stanchissimo, riposava e però pregavo di differire la dimostrazione.
Allora tutti, con un silenzio patriottico, se ne andarono piano piano
per non disturbare quel riposo.

Ma il capitano non riposò abbastanza, e bisogna dire che fosse ancora
alticcio nelle prime ore della mattina, perchè trovatosi con B. Caimi,
che era altrettanto gentile quanto valoroso, finì ad avere con lui
un alterco così grave, per affari di servizio, che poco mancò non si
pigliassero a sciabolate.

Ristabilita la pace alla meglio, combinai col capitano Montanari di
recarci a visitare l’avamposto, di riunirvi subito i volontari e le
guardie mobili accorse in quei giorni, e di percorrere diversi paesi
per far nuove reclute, procurando nel tempo stesso che i Municipi ci
aiutassero a far vestire e armare al più presto quella nostra gente.

Prima di lasciare Sondrio, il capitano Montanari volle passare in
rivista le guardie nobili accasermate nel castello, e assegnar loro
qualche ufficiale che le conducesse al punto di riunione del Bolladore,
villaggio presso l’avamposto.

Messe le guardie in fila, il capitano, colla voce grossa e col piglio
minaccioso, disse loro queste parole: «Sotto gli ordini dell’ufficiale
che vi destino partirete questa sera; si intende che voi tutti da
questo momento siete arrolati, come lo sono i Cacciatori delle Alpi;
siete soldati e non guardie nazionali mobili; se qualche _vigliacco_
non accettasse questa condizione, esca dai ranghi e vada a casa».

Nessuno osò muoversi, nè fiatare. Poi parecchi vennero da me a
reclamare, ed io li persuasi a partire, assicurandoli che sarebbero
rimasti, quali erano per diritto, guardie nazionali mobilitate.

Il giorno dopo eccoci in viaggio io e il capitano, come s’era
stabilito. Il capitano, strada facendo, prese a svilupparmi le sue
idee, e i propositi sui quali voleva che ci mettessimo d’accordo.

Egli era un uomo d’aspetto robusto, dimostrava all’incirca trentacinque
anni, aveva la barba folta e nera, e la faccia di solito accigliata. Le
sue idee, il suo modo di parlare, a voce cupa, la guardatura sospettosa
e torva, rispecchiavano in lui il vecchio tipo convenzionale del
cospiratore. E infatti egli mi narrò d’aver passata tutta la vita nelle
cospirazioni, d’aver preso parte a tutti i tentativi d’insurrezioni
mazziniane, e d’essere stato nelle prigioni di parecchi tra gli stati
d’Italia. Era quel Francesco Montanari modenese che fu coinvolto nei
processi di Mantova del 1853, e che il Governo austriaco, non avendo
prove sufficienti per condannarlo, aveva consegnato al Duca di Modena,
il quale lo mise in prigione anche per proprio conto.

Era un uomo audacissimo, e certamente un patriotta a tutta prova; ma
l’abitudine del cospirare, le avventure, e le dure prove attraversate,
gli avevano fatto perdere il sentimento delle realtà della vita, che
tutte subordinava agli assiomi rivoluzionari. Oltre di ciò gli piaceva
parecchio il vino, specialmente, a quanto dava a vedere, quello di
Valtellina. Mi piaceva fargli narrare le sue avventure, e udire i suoi
ragionamenti: lo studiavo; talvolta lo ammiravo nelle sue avversità; ma
capivo che non era un carattere facile, e che m’avrebbe dato da pensare
più che i tirolesi del generale Huyn.

«Caro Commissario» mi aveva detto quella mattina strada facendo,
«il Generale (Garibaldi) non verrà di certo così subito, sicchè la
Valtellina dovrà provvedere da sè. E non c’è che un modo.

«Quale?

«Bisogna _rivoluzionare_ i paesi.

«Ma sono già _rivoluzionati_!

«Eh ci vuol altro!

«Sentiamo.

«Bisogna innanzi tutto proclamare la leva in massa, mettere tutti,
giovani e vecchi, con le buone o con le cattive, sotto le armi,
e _marsch!_ Poi si requisisce tutto ciò che occorre; e alla prima
resistenza si fanno fucilare il parroco e la Giunta Municipale.

«Caro Capitano, lei deve sapere che le Giunte Municipali e i parroci
sono stati i miei aiuti principali.

«Sarà benissimo, ma non si fidi dei preti e dei vecchi municipi.

«Stasera saremo a Grosio, e andremo dal parroco. Quando, prima della
guerra, l’Austria richiamò i contingenti, ottanta soldati di Grosio
stavano per raggiungere i loro reggimenti, ma il parroco disse loro:
questa volta non presentatevi, tenetevi nascosti nella montagna, e
a primavera le cose muteranno. Scoppiata la insurrezione, il parroco
richiamò gli ottanta uomini e me li consegnò. Li vedrà all’avamposto;
saranno i più bei soldati del suo battaglione... granatieri quasi
tutti».

Intanto il capitano continuava a crollare il capo e a dire:

«Sarà, ma non si fidi dei preti!».

La sera il capitano Montanari era ospitato nella casa parrocchiale di
don G. B. Cornelio, parroco di Grosio. Ci si trovò bene, e ci si fermò
ancora parecchie volte nell’andare o nel ritornare dall’avamposto.
Per vendicarsi dei preti beveva le migliori bottiglie che don Cornelio
teneva in serbo, per quando venivano i predicatori quaresimali, e lo
intratteneva sulla necessità di fucilare preti, monache e frati. Un
giorno giunsi appena in tempo a evitare una brutta scena, perchè il
capitano voleva far volare dalla finestra un ritratto di Pio IX, che
aveva trovato in una stanza di don Cornelio, e don Cornelio difendeva
il ritratto e aveva brandita una sedia.

Giunsi a ristabilire la pace, che il capitano volle celebrare con un
paio di bottiglie del migliore che il prete avesse in cantina.

Il Montanari non poteva capacitarsi che ci fossero in Lombardia tanti
preti buoni patriotti e nello stesso tempo devoti al Papa. «Ma che
novità è questa!» esclamava il Montanari.

Il fare risoluto e coraggioso di don Cornelio, peraltro non dispiaceva
al Montanari il quale ogni tanto veniva a fargli visita, e a passar con
lui qualche ora fra le baruffe e le bottiglie.

All’avamposto del ponte del Diavolo c’erano circa quattrocento uomini,
in parte guardie nazionali, e in parte volontari, e finanzieri; ai
quali s’erano aggiunti quei soldati che non si erano presentati alla
chiamata del Governo austriaco. La maggior parte non aveva uniforme,
ed era provveduta solo d’una coperta di lana: di armi ce n’eran poche;
appena la metà degli uomini era provvista di fucili d’ogni genere.

Fattili schierare, presentai loro il nuovo comandante, il quale li
passò in rivista e poi disse loro poche parole brusche, come alle
guardie nazionali mobilitate di Sondrio, dichiarandoli tutti arrolati
senz’altro, come i Cacciatori delle Alpi.

Anche questa volta nessuno osò fiatare; ma anche questa volta parecchi
vennero da me a protestare, minacciando di tornarsene a casa. Li
tranquillai dicendo che il capitano aveva parlato in termini generali,
e non conosceva ancora come stavan le cose, ma che avrei provveduto io
a suo tempo, e che si fidassero di me.

L’effetto però è stato pessimo: il malcontento e l’antipatia verso
il comandante non cessarono più. Alcuni, anche tra i migliori,
profondamente offesi, vollero tornarsene subito alle loro case.

Intanto io cercavo di racimolar gente per completare il battaglione
andando, anche di casa in casa, dai contadini. Tutti si mostravano
abbastanza volonterosi, ma volevano essere assicurati che non sarebbe
successo come nel 48. E ricordavano l’entusiasmo, le promesse d’allora,
e le sventure e i dolori che n’erano seguiti.

Era già avvenuta la battaglia di Magenta, sicchè io li potevo
rassicurare coscienziosamente e allora mi seguivano.

Il Montanari aveva portati con sè alcuni fucili; un po’ se ne erano
trovati nei quartieri austriaci, e il rimanente che occorreva per
armare il battaglione me lo andavo procurando, facendo venire dei
fucili, quasi a uno a uno, dalla Svizzera. Me li procuravano alcuni
negozianti di vino e di granaglie di Poschiavo o dell’Engadina, che
venivano di solito a fare degli acquisti in Tirano, o in casa mia.

Parecchi di questi fucili erano ancora di quelli dei nostri volontari
del ’48, che, sequestrati, abbandonati o venduti allora per poche lire
nei paesi svizzeri di confine, rientravano, ora ricomprati per quaranta
o cinquanta lire l’uno. Ma li mandavano di contrabbando, perchè
i confini erano guardati da soldati della Confederazione, i quali
eseguivano la loro consegna, non solo con rigore, ma con sentimenti
che non c’erano benevoli. Alcuni fucili li fece venire Ulisse Salis, di
quelli che aveva nascosti presso le monache di Poschiavo.

Parecchi di questi soldati svizzeri, ed anche alcuni ufficiali,
venivano passeggiando, quasi giornalmente, fino al piazzale del
Santuario e anche fino al borgo di Tirano. Un giorno anzi il Municipio
di Tirano invitò il loro comandante e gli ufficiali a una festicciuola
patriottica che si faceva in paese: l’invito fu accettato; da una
parte e dall’altra ci furono clamorose dimostrazioni di amicizia, e si
bevette in proporzione della grande fratellanza, che doveva legare in
avvenire le due nazioni. Ma tutta questa allegria si intorbidò presto.

Gli austriaci mandavano spie lungo i nostri confini, cercando di
riconoscere quello che si faceva da noi. Si seppe che parecchi soldati
svizzeri, ritornando sul loro territorio, raccontavano sulle piazze e
nelle osterie tutto ciò che avevano veduto, canzonando per soprappiù
i valtellinesi per le modeste difese militari che opponevano agli
austriaci. Questi discorsi imprudenti, e queste indiscrezioni, si
riseppero a Tirano, e vi suscitarono una certa irritazione: alle
espansioni di giorni prima, succedettero dei propositi meno fraterni; e
quindi dovetti scrivere al comandante del cordone militare svizzero che
si sospendessero, dall’una parte e dall’altra, i permessi ai militari
di varcare il confine.

Vedendo che le notizie e le informazioni, alquanto scettiche,
sull’importanza delle nostre difese e delle nostre forze militari
si andavano ormai diffondendo, pensai di diffondere alla mia volta
dei bollettini stampati che servissero di contrappeso, e ne compilai
parecchi per uso dei nostri vicini, facendoli mettere in giro nei
paesi Grigioni. Questi bollettini davano sempre l’annunzio dell’arrivo
imminente di Garibaldi e di un movimento di truppe piemontesi in
direzione della Valcamonica e dei paesi dell’Aprica e del Mortirolo.

Gli austriaci, intanto, mandavano quasi giornalmente delle forti
pattuglie verso il nostro avamposto, senza attaccarci, ma spiandoci,
e forse per verificare le loro notizie, ben diverse da quelle dei miei
bollettini.

Io passavo intanto le giornate, e parte delle notti, or lavorando
nel mio ufficio a Sondrio, ora recandomi nei paesi per qualche guaio
ch’era capitato, e ora correndo all’avamposto a far sermoni al mio
capitano, che ogni tanto mi metteva in qualche impiccio per la sua
smania di _rivoluzionare_. Egli spiccava ordini ai Municipi, a suo
talento, requisiva di viva forza tutto ciò che gli occorreva, senza
rilasciar ricevute, e faceva arrestare chi gli si opponeva. I Municipi
mi mandavano delle deputazioni a reclamare, e ogni giorno andava
allargandosi un vivo malcontento nell’alta Valtellina.

Col Montanari avevo cominciato anch’io a bisticciarmi. Eravamo due
uomini diversi, e con due programmi più diversi ancora; tuttavia ero
il solo che riuscisse a frenarlo, in virtù di quella tal lettera con
la quale Garibaldi, gli ingiungeva di tenersi sempre in accordo con
me. L’essere da alcun giorni in Valtellina senza aver fatto nulla di
strepitoso, senza aver neanche fucilato un chierico, parevano al mio
capitano cose intollerabili: avrebbe voluto almeno che gli consegnassi
quel tal professore di Sondrio: ma io a buon conto l’avevo già fatto
partire per Alessandria, insieme cogli altri detenuti.

Tre giorni dopo aver preso il comando di quei quattrocento che
erano riuniti all’avamposto, male armati, male vestiti, e non ancora
disciplinati, mi mandò a Sondrio una staffetta con un dispaccio che mi
diceva: _Domani notte sorprenderò gli austriaci e piomberò su Bormio_.

Corsi all’avamposto, che distava circa cinquanta chilometri da Sondrio,
e giunsi in tempo a impedirgli l’impresa. Bormio era fortemente difesa
dagli austriaci, e la sorpresa che voleva fare il Capitano Montanari
mi pareva di più che dubbio successo. Nel posto fortissimo che noi
occupavamo, quei quattrocento potevano fare una seria difesa; gli
austriaci poi sospettavano che dietro l’avamposto ci fossero altri
corpi, o che ne potessero venire rapidamente, e però non avanzavano. Ma
se, con un nostro attacco, mostravamo loro qualche soldato male armato
e dei contadini male in arnese, era evidente che dopo averci respinti,
e forse dispersi, sarebbero discesi un buon tratto giù per la valle,
lasciandoci di quei ricordi che appunto volevamo evitare.

Il capitano era deciso a fare il suo colpo, e io a non lasciarglielo
fare: la discussione non fu breve, nè piacevole: in fine conclusi che
questa mossa non poteva essere fatta senza il consenso del Generale;
ch’io sarei partito immediatamente per conferire con lui; e forte
di quelle tali istruzioni di Garibaldi ingiunsi al capitano di non
muoversi durante la mia assenza. Il capitano, dopo avere protestato e
strepitato, dinnanzi al nome di Garibaldi non osò più fiatare.

Partii subito quel giorno stesso, ch’era il 10 giugno, e andai difilato
a Bergamo nella speranza di trovarci Garibaldi.

A Bergamo arrivai il giorno 11 e scesi alla casa dei Camozzi, miei
ottimi amici; ci trovai Emilio, ed ebbi la fortuna di poter veder
subito Garibaldi che, tornato il giorno innanzi a Milano dove era
andato a conferire col Re, si disponeva a proseguire la sua marcia su
Brescia.

In casa Camozzi c’era il quartier generale garibaldino. Si pensi cosa
poteva essere un quartier generale di volontari vittoriosi, in una
città in rivoluzione e in festa, tra una folla affaccendata di militari
e di borghesi armati, tra un viavai di gente che veniva a chiedere e
a portar notizie, a dar ordini e contrordini, in mezzo alla più lieta
confusione e al più allegro disordine.

Clemente Corte, allora capitano dello Stato Maggiore dei Cacciatori
delle Alpi, si incaricò gentilmente di farmi ricevere subito da
Garibaldi; cosa in quei momenti non troppo facile.

Garibaldi mi accolse con quel piglio franco e cortese, con quel sorriso
che sapeva essere così sereno, e con quella sua voce meravigliosa,
la più bella voce d’uomo ch’io abbia mai udito; doti che spiegavano
il fascino irresistibile ch’egli esercitava su tutti, anche sui più
scontrosi.

Raccontai a Garibaldi ciò ch’era avvenuto in Valtellina in quei
quindici giorni di insurrezione; e Garibaldi sorrideva e se ne
compiaceva: poi gli dissi il motivo che m’aveva condotto da lui, e i
miei dubbi sull’opportunità di un colpo di mano su Bormio. Mi chiese
molte informazioni e spiegazioni, su questo proposito, e mi pareva
bene avviato a darmi ragione, quando a un tratto entrarono il Corte e
il colonnello Thürr, a interrompere il colloquio. Il Thürr, dopo aver
scambiate con Garibaldi alcune parole in disparte, venne a scambiarne
altre con me con quel suo fare franco e bonario che lo rendevano tanto
simpatico. Intanto il Corte informava Garibaldi ch’erano stati condotti
in quel punto alcuni ufficiali austriaci prigionieri, e gli domandava
degli ordini in proposito.

«Conducetemeli qui, disse Garibaldi, e voi Thürr fermatevi che
servirete da interprete».

Mi pare ancora di vederli quei sei ufficiali; quattro erano di
fanteria, e due dei cacciatori. Intorno al nome di Garibaldi correva
nelle file austriache, fin dal 1848, una leggenda che faceva del famoso
condottiere qualcosa di terribile e di diabolico. Gli ufficiali non
avranno di certo creduto alla leggenda, ma parecchi lo consideravano
probabilmente come un feroce capo di filibustieri, capace di qualsiasi
eccesso; e tale doveva essere l’opinione che avevano di lui quei sei.
All’annunzio che Garibaldi li faceva venire a sè, bisogna dire che
avessero in quel momento pensato che li volesse passare a fil di spada
di sua mano: infatti si avanzarono come persone che andassero alla
morte, e due di loro erano stati presi da un tremito nervoso che non
riuscivano a dominare.

Garibaldi mosse loro incontro, e strinse a ciascuno la mano con aspetto
affabile e cortese. Poi volgendosi a Thürr: «Domandate a questi bravi
ufficiali se hanno qualche desiderio da esprimere; li affiderete a
qualche nostro ufficiale perchè li accompagni a Milano, da dove poi
saranno condotti ad Alessandria; viaggeranno in carrozza chiusa per
sottrarli alla curiosità pubblica, e sarà lasciata a ciascuno la spada,
chiedendo loro la parola d’onore che non tenteranno di fuggire».

Mentre il Thürr traduceva in tedesco queste parole, quelle sei
facce avevano l’espressione di chi va trasecolando, e parevano
improvvisamente illuminate da un raggio di sole. Garibaldi strinse
di nuovo la mano a ciascuno, e li congedò dicendo: «Bravi e valorosi
ufficiali, vi saluto».

Quei sei si piantarono prima nella posizione del saluto, poi strinsero
anch’essi con effusione la mano al Generale, e se erano entrati
indecisi parevano più indecisi ancora nell’uscire. Fu una scenetta
breve e caratteristica, che non mi è mai più uscita dalla mente.

Dopo si riprese il nostro colloquio, in piedi e brevemente, perchè i
minuti erano preziosi.

«Capisco, disse Garibaldi, l’impazienza di Montanari; quell’uomo è un
valoroso, è una _perla_. Ma per ora è meglio che aspetti, e gli manderò
i miei ordini scritti su ciò che deve fare».

Meno male, pensai tra me.

«A Bormio ci anderemo insieme, riprese Garibaldi, e lo ricompenserò
destinandolo per l’attacco all’avanguardia col suo battaglione
valtellinese. Col mandarle quel capitano, caro Commissario, le ho
mandato una _vera perla_!».

Io che stavo spiando il momento per dire a Garibaldi che a comandare il
battaglione mi mandasse un maggiore, perchè il Montanari pur essendo un
eroe, mi creava troppi impicci, non trovai lì per lì il modo di metter
d’accordo la _perla_ col discorso che volevo fare e mi accomiatai.

Garibaldi mi salutò molto cordialmente, e mi strinse la mano dicendomi:
_Arrivederci in Valtellina_.




CAPITOLO XXXI.

1859.


VI.

  _Sommario:_ Vado a Milano con mio fratello Emilio a conferire col
  Vigliani Governatore generale della Lombardia. — Mio fratello
  mi racconta le varie e gravi difficoltà della sua missione. —
  Conferisco col Correnti e col Vigliani. — Riconferma della mia
  nomina a R. Commissario per la Provincia di Sondrio. — Ritorno a
  Sondrio. — Arrivo del colonnello Sanfront e del capitano Lodovico
  Trotti. — Il servizio d’informazioni militari nel Tirolo. — Due
  comunicazioni secrete. — Emilio m’annunzia la prossima venuta di
  Garibaldi. — Enrico Guicciardi Intendente di Sondrio. — Fine del
  mio Commissariato. — Occupazione del Mortirolo da parte delle
  truppe piemontesi. — Preparativi per minare le strade tra Lecco
  e Colico. — Movimento delle truppe austriache in Tirolo prima
  della battaglia di Solferino. — Si teme una invasione dal Tonale.
  — Il maggiore Manassero. — Manassero. — Arrivo dell’avanguardia
  di Medici. — La battaglia di Solferino. — Manassero si ripiega su
  Edolo. — Il battaglione valtellinese all’avamposto. — Attacco degli
  austriaci respinto. — Garibaldi entra in Valtellina.

Il mio intento era riuscito in parte, e avevo impedito il _colpo di
mano_, o, dirò meglio, di testa, del Montanari. Ma il mio capitano
rimaneva più che mai al suo posto, e al mio fianco.

Nello scendere le scale mi lamentavo con me stesso d’essermi fermato
a metà; ma il fascino del Generale, la scenetta degli ufficiali, e lo
stesso disordine caratteristico della stanza in cui eravamo, avevano
tanta distratta la mia mente, che non raccapezzavo più nulla di quanto
avevo pensato prima.

_Arrivederci in Valtellina_, mi aveva detto Garibaldi. Ma quando?

Pensai di recarmi dal colonnello Carrano, ch’era il capo dello Stato
Maggiore, per esporre anche a lui le condizioni della difesa in
Valtellina, e per sapere se l’aiuto delle forze garibaldine fosse
da aspettarsi in un tempo vicino o lontano. Il Carrano mi rispose
francamente che non ne sapeva nulla, e non poteva neanche presumere
nulla. Gli pareva che la missione di Garibaldi, di fiancheggiare a
sinistra le due armate alleate, non sarebbe così presto finita. «Ma
poi, mi soggiunse infine, sulle intenzioni e sulle mosse di Garibaldi
nessuno ne sa mai nulla. Come capo di Stato Maggiore io dovrei pure
saperne qualche cosa, nevvero? Ma anch’io non ne so mai niente. Ciò non
sarebbe regolare, ma siccome a _lui_ tutto va bene, dunque sta bene che
si faccia così».

Dopo tutto ciò, dopo quanto avevo veduto e sentito, rimasi con
l’impressione che Garibaldi non sarebbe venuto in Valtellina così
presto, e ch’io dovevo pensare quindi da me ai fatti miei.

Garibaldi si disponeva a dirigersi su Brescia, dove contava entrare il
giorno 13. Emilio voleva approfittare di quelle ventiquattr’ore che
aveva dinanzi a sè per andane a Milano a conferire col Vigliani, che
era stato nominato in quei giorni Governatore generale della Lombardia.
Mi parve opportuno di fare anch’io, altrettanto per conto mio, dovendo
regolare molti affari, e accompagnai Emilio a Milano.

La ferrovia era occupata quasi continuamente pei trasporti militari,
sicchè si dovette viaggiare alla meglio, assai lentamente, e per lunghi
tratti in vettura. Eppure quel viaggio non mi parve lungo, tante furono
le chiacchiere che si fecero e tante erano le cose che avevamo a dirci.
Quante pagine di storia non si erano svolte in quei pochi giorni!

Emilio era affaticato e stanco; mi diceva di non aver avuto che ben
poche ore di riposo in quei quindici giorni in cui aveva seguito
Garibaldi. La sua missione poi era stata piena di difficoltà, e alle
volte dura e spiacevole, poichè «il mio incarico, diceva, è quello di
servire _da guanciale_ tra l’ordine e la rivoluzione, tra il Governo
regio e Garibaldi, tra i volontari e i paesi da cui passiamo».

Cavour, come è noto, voleva che i francesi, entrando in Lombardia,
vedessero un paese che al primo annunzio di guerra era insorto.
Voleva mostrare coi fatti ai francesi che trattavasi d’una grande idea
nazionale, e non d’una semplice annessione o d’una ambizione dinastica
di Casa Savoia. La missione di Garibaldi, e le istruzioni ai commissari
erano tutte informate a questo pensiero. Ma la rivoluzione poi doveva
avere carattere nazionale e non partigiano: qui stava la difficoltà.
Per fare insorgere i paesi non si poteva ricorrere solo alle persone
più intelligenti e misurate, bisognava muovere molta gente; ed ecco
venir a galla tutti i vecchi e i nuovi elementi rivoluzionari rimasti
fuori fino ad allora da quel movimento. Questi si presentavano con
tutte le loro vecchie idee, con le vecchie ubbie, colle vecchie formule
e con nuove pretese. Anch’essi, come, fu detto dei vecchi governi, non
avevano dimenticato nulla, non avevano imparato nulla; e abbastanza
ingenuamente avrebbero voluto non curarsi, nè di Vittorio Emanuele, nè
di Napoleone.

Emilio si trovava ogni tanto alle prese con parecchi di costoro,
insistenti e pretensiosi, che nulla comprendevano, buoni solo a creare
impicci e a seminare zizzania.

Garibaldi allora li ascoltava poco; tra lui e la formula _Italia e
Vittorio Emanuele_ s’era ancora in piena _luna di miele_, e non voleva
staccarsene. Le necessità politiche dei governi, certi usi e certi
temperamenti, erano cose ch’egli sdegnava e che non sempre capiva.
_Un popolo libero, tutto armato e con un dittatore_; tale era allora
l’ideale di Garibaldi. Emilio ci metteva tutta la sua buona volontà per
navigare in mezzo a quegli scogli, ma la cosa non era punto facile.

Garibaldi passando il Ticino aveva compreso che egli si sarebbe
trovato dinanzi a forze di gran lunga superiori alle sue, e che avrebbe
dovuto quindi cercare la vittoria nell’agilità e nella rapidità de’
suoi movimenti: non aveva quindi voluto con sè nè impedimenti nè
provviggioni; ai soldati aveva fatto lasciare gli zaini sulla sponda
piemontese.

I suoi soldati non potevano infatti riuscire più agili e più veloci,
ma nelle loro mosse avevano naturalmente bisogni maggiori di qualsiasi
truppa regolare: le richieste e le requisizioni, si andavano quindi
facendo sempre maggiori, sempre più disordinate. Il Ministero della
guerra aveva assegnato al corpo dei volontari un intendente; il quale
seguì il corpo fin che potè, poi un bel giorno se ne ritornò a Torino,
e rassegnò le dimissioni al Ministero.

Il corpo dei volontari ingrossava rapidamente mano mano che
attraversava i paesi di Lombardia, e con l’ingrossare crescevano i
bisogni e i disordini dell’amministrazione. Chiunque, anche un semplice
caporale, si credeva in diritto di requisire viveri, vestiti, cavalli,
senza rilasciare ricevute, o rilasciandone di non valide. I Municipi
allora si rivolgevano, gridando e strepitando, al Commissario generale,
o ai Commissari locali, e questi spesso non riuscivano a metter ordine
e a render giustizia.

Anche qui per attutire e per placare era sempre tirato in ballo chi
doveva far da _guanciale_.

Emilio prevedeva che le difficoltà sarebbero andate sempre più
crescendo, e desiderava prendere accordi col nuovo Governatore generale
di Lombardia. Gli premeva, nel tempo stesso, di entrar in Brescia
insieme con Garibaldi, per ciò non si trattenne a Milano che poche ore,
e ritornò difilato a raggiungere i garibaldini in marcia.

A Milano, nelle sale del Governatore generale, trovai Cesare Correnti,
che mi parve avesse l’incarico ufficioso di consulente in ciò che il
Governo di Lombardia era chiamato a fare in quei giorni. Il Correnti
mi condusse subito nel gabinetto del Governatore Vigliani, e così ebbi
la fortuna di sbrigarmi in breve senza fare anticamera per qualche ora,
come succedeva pressochè a tutti.

Al Vigliani, dopo avergli reso conto di quanto avevo fatto, dissi che
appena paresse finita la mia missione momentanea e rivoluzionaria,
si pensasse a sostituirmi, poichè non era mia intenzione di mettermi
in una regolare carriera amministrativa. Il Vigliani fu con me
gentilissimo, approvò quanto avevo fatto, e mi incoraggiò a continuare.
Sull’invio di Garibaldi, o d’altre forze in soccorso della Valtellina,
non mi seppe dir nulla; ma in compenso volle rinnovarmi i miei
poteri, dandomene anzi di più ampî. Così venni nominato R. Commissario
effettivo. Mi disse poi che si stava provvedendo all’amministrazione
regolare delle provincie liberate, e che tra otto o dieci giorni
sarebbero stati nominati gli Intendenti (prefetti).

Allora io gli esposi quanto sarebbe stato opportuno per la Provincia
di Sondrio la nomina di Enrico Guicciardi. Il Guicciardi, valtellinese,
uomo politico, amministratore, militare, era proprio fatto apposta per
amministrare una provincia di cui conosceva a fondo i bisogni, e dove
c’erano dei punti militarmente importanti nella guerra che in quei
giorni si guerreggiava.

Il Correnti caldeggiò vivamente tale proposta, e aggiunse che del
Guicciardi s’era già parlato al Ministero per affidargli questa o
qualche altra importante missione. Ma la conversazione fu breve:
l’usciere, che l’aveva interrotta più d’una volta, venne con una nuova
ambasciata più importante delle altre, e ci alzammo in piedi tutti e
tre.

Il Vigliani incaricò il Correnti di stendere il decreto della mia
nomina con le istruzioni e coi poteri pel commissario della Valtellina:
il Correnti s’intese subito con me, e poco dopo mi consegnò il mio
decreto di nomina firmato. La mattina seguente, cioè il 14, ripartii
per Sondrio.

Anche questa volta io tornavo a mani vuote. La mia andata a Milano
aveva fatto nascere molte speranze, sicchè tornando dovetti chiudermi
in un dignitoso silenzio, non osando dire che il solo rinforzo che
portavo con me era un rinforzo, sulla carta, dei miei poteri. Nullameno
avevo ottenuto di frenare il Montanari, ossia di incastonare la mia
_perla_.

Il giorno dopo il mio ritorno a Sondrio m’ebbi una grata sorpresa.
Mentre ero sulle mosse per recarmi all’avamposto, arrivarono il
colonnello Sanfront e il mio amico marchese Lodovico Trotti, capitano
di cavalleria, ambedue addetti alla casa militare di Vittorio Emanuele,
che venivano dal quartier generale mandati a visitare le posizioni
della Valtellina. Quella visita era stata, forse, in parte promossa
anche dai rapporti che mandavo ora a Emilio, ora al quartier generale:
e non è a dire quanto ne fossi lieto: mi pareva d’aver trovato
finalmente un valido appoggio, mi pareva d’aver messa al sicuro la mia
responsabilità.

Il colonnello Sanfront voleva ispezionare minutamente e militarmente
il nostro punto di difesa e le nostre piccole forze; io quindi, per
lasciargli la maggior libertà, dopo averlo informato di tutto non
lo accompagnai che fino al Bolladore, villaggio che distava alcuni
chilometri dall’avamposto. Sanfront e Trotti vennero a prendermi verso
sera per ritornare a Sondrio.

Il colonnello aveva fatto molte osservazioni, e il capitano Montanari
le aveva pigliate maluccio. C’era stato, a quanto mi disse il
Trotti, un battibecco al quale il colonnello aveva presto messo fine
bruscamente con la sua autorità militare. Il Montanari aveva già avuto
l’ordine di Garibaldi di sospendere qualsiasi mossa offensiva, ma
egli voleva reclamare ed insistere; ora il Sanfront gli aveva ripetuto
l’ordine di Garibaldi col piglio più severo.

Capii che il mio Montanari era piaciuto poco al Sanfront, ch’era un
vecchio e rigido militare; e infatti prima di partire egli mi disse
ch’era urgente l’invio di forze regolari, o meglio disciplinate, per
difendere le posizioni importanti della Valtellina, e che soprattutto
poi era urgentissimo il mandare qualche altro a prendere il comando del
nostro battaglione in formazione.

Il Sanfront mi diede altresì l’incarico secreto di procurarmi
regolarmente, e di mandare al comando dell’esercito, delle informazioni
sui movimenti delle truppe austriache nei paesi al di là dello Stelvio,
e nella valle dell’Adige; servizio difficile e pericoloso. Ne incaricai
il mio amico Giovanni Salis, fratello del conte Ulisse del quale ho già
parlato: il Salis seppe disporlo benissimo per mezzo di vecchi militari
che avevano servito nei reggimenti austriaci, che conoscevano la lingua
tedesca e i paesi del Tirolo, ed erano in grado di dare informazioni
sicure e precise. Di tali informazioni potei mandarne al campo
parecchie, prima della battaglia di Solferino.

Ricordo, come curiosità anedottica, che quello spionaggio costò al
mio amico Salis tremila lire, e che non so quale autorità competente
burocratica, voleva poi addossarle a lui o al Commissario Regio, ossia
a me; ma per fortuna un ministro, non della guerra ma dell’interno,
credette alla mia parola, e il Salis fu rimborsato.

Tra le carte e le lettere che si erano accumulate sulla mia scrivania,
durante quei quattro giorni in cui ero andato a Bergamo e a Milano,
rammento ancora, due dispacci _personali e confidenziali_, uno dei
quali veniva dal quartier generale francese, e l’altro dal gabinetto
particolare del Ministro degli affari esteri.

Il dispaccio francese era scritto dal capo della Polizia addetta al
comando dell’esercito. Questo Commissario-capo, di cui non rammento
il nome, mi scriveva d’essere stato avvisato dalla Polizia centrale di
Parigi che due francesi, dei quali mi si davano i nomi e i connotati,
erano partiti per l’alta Italia col mandato di attentare durante la
campagna alla vita dell’Imperatore, e che per meglio riuscire nel loro
intento si sarebbero eventualmente arruolati in qualche corpo italiano
di regolari o di volontari si pregava quindi me pure di far esercitare
molta sorveglianza, specialmente ai confini svizzeri, dai quali quei
due sarebbero penetrati in Lombardia.

Il Vigliani mi aveva appunto mandato in quei giorni alcuni carabinieri.
Diedi il dispaccio al maresciallo, il quale poi di tanto in tanto
veniva a dirmi che nessuno individuo _qualificato francese_ erasi
_infiltrato_ nella valle.

Il dispaccio del Ministero degli esteri, con la firma di Cavour, mi
comunicava che informazioni provenienti dalla Svizzera avvisavano il
Governo piemontese esserci in qualche località della Confederazione,
e specialmente nel Canton Grigione, dei complotti e delle mene per
promuovere in Valtellina un movimento nella pubblica opinione, e
occorrendo dell’agitazione, nel senso di una aggregazione della valle
ai Grigioni, o almeno alla Svizzera. Il dispaccio riteneva queste
voci esagerate e prive d’importanza; nonostante me le comunicava per
mia norma, e mi chiedeva quale poteva essere, a parer mio, l’opinione
pubblica in Valtellina su tale argomento.

La mia risposta fu pronta e precisa. Allora viveva ancora tutta quella
generazione, che aveva udito dai propri padri narrare con quanti sforzi
la Valtellina era riuscita a staccarsi dai Grigioni; da quei padri,
ai quali era giunta l’eco ancor viva e forte dei dolori patiti sotto
il Governo delle Leghe Grigie, e dell’odio che si era accumulato da
tre secoli verso gli antichi dominatori. Nei contadini, e nel popolo
minuto, era rimasta un’avversione mista di antipatie personali e di
odii religiosi, che si manifestavano in mille modi, fin in pratiche
religiose che ricordavano le antiche lotte. Di più le relazioni
maggiori per interessi, per studî, per conoscenze, per affinità di
stirpe avevano sempre attirati i valtellinesi verso la Lombardia;
con la quale avevano mantenuta, anche dopo esserne stati divisi, una
solidarietà che fu indistruttibile. I valtellinesi poi, come erano
stati ad essa ricongiunti dopo il 1797, avevano partecipato alle stesse
aspirazioni nazionali, e in ogni occasione avevano dato prove dei
sentimenti del loro patriottismo e della loro italianità.

I miei poteri _dittatoriali_ si avvicinavano alla loro fine. Il
Governo del Re cominciava a costituirsi regolarmente in tutti i paesi
ch’erano dietro le linee occupate dagli eserciti francese e piemontese.
Emilio mi aveva scritto che presto sarebbe cessata la sua missione,
e che Garibaldi avrebbe ripiegato verso la Valtellina. Alcuni giorni
dopo questa comunicazione ne ebbi un’altra dal Vigliani, il quale mi
annunziava la nomina di Enrico Guicciardi a Intendente della Provincia
di Sondrio. L’avevo vivamente desiderata, e ne fui lietissimo.

Il Guicciardi arrivò a Sondrio il giorno 20 di giugno, e il giorno
seguente gli feci la consegna dell’ufficio.

I miei poteri erano durati appunto tre settimane, e li deponevo con un
grande sollievo, e non senza una certa intima soddisfazione. Li avevo
assunti con quella pronta riflessione del dovere, con cui allora tutti
assumevano tutto: mi poteva succedere di dare il mio nome a un disastro
per la mia provincia nativa, e invece la sorte mi era stata favorevole.
Non ci avevo compiuto certamente nulla di eroico, ma forse avevo
contribuito ad evitare qualche danno, e così finivo contento.

Il Guicciardi mi fece subito, anche in nome del Governo e con molta
insistenza, parecchie offerte cortesi ed onorifiche; ma, avendo
io detto esplicitamente che desideravo soltanto di rimanere col
battaglione valtellinese, egli propose ch’io avessi intanto l’ufficio
di ispettore per tutto ciò che riguardava questo battaglione, col grado
di capitano di Stato Maggiore nei volontari e che risiedessi in Bormio
fino a che il battaglione fosse chiamato a un azione offensiva oltre il
confine; nel qual caso avrei potuto riprendere eventualmente l’ufficio
di R. Commissario in qualche paese occupato. Accettai queste proposte,
e il Guicciardi qualche giorno dopo mi comunicò che anche il Governo le
aveva approvate.

Alcuni giorni prima, una Commissione della Valcamonica era venuta da
me, per la seconda, volta, con la proposta di riunire al Commissariato
di Valtellina anche la zona di Edolo, allo scopo di avere una difesa
meglio concentrata e più pronta dinanzi agli austriaci dello Stelvio
e del Tonale. Questa Commissione fin dal giorno 10 si era recata a
Bergamo e aveva persuaso mio fratello a fare un decreto col quale io
ero nominato Commissario anche per la zona di Edolo. Ma io che avevo
già sulle spalle un peso non lieve, avevo pregato mio fratello e la
Commissione a metter da parte pel momento quel decreto, ed a prendere
intanto qualche altro provvedimento. Ora la Commissione era tornata
con quel tal decreto in mano, e gentilmente insisteva per avere la mia
accettazione. Ma ormai i commissariati volgevano al loro tramonto,
e io diressi la Commissione al Governatore Vigliani, pregandolo di
sollecitare per la Valcamonica quei provvedimenti che si andavano
applicando agli altri paesi dal Governo di Lombardia.

La Valcamonica non tardò a vedersi fortemente difesa: vi fu mandato
un reggimento della brigata Regina, la quale, sotto gli ordini di
Cialdini, era stata distesa lungo gli sbocchi alpini fronteggianti il
Tirolo. Il colonnello Brignone, che comandava il reggimento, ne staccò
poi tre compagnie, e le diresse in Valtellina col maggiore Manassero e
col colonnello di Stato Maggiore Ricci.

Le tre compagnie arrivarono il 22 giugno. Avvisatone, andai loro
incontro, e col maggiore e col colonnello si fece una rapida corsa in
carrozza tra la Tresenda e Grosio. Data un’occhiata ai vari punti, il
colonnello e il maggiore fecero occupare con le loro compagnie Mazzo
e il passo del Mortirolo, che sta a cavaliere tra la Valtellina e la
Valcamonica. Non credettero prudente di occupare un posto più avanzato,
lasciando che all’avamposto del ponte del Diavolo, che poteva essere
preso alle spalle appunto da Mazzo, rimanessero delle forze irregolari.

Il colonnello Ricci mi disse che l’invio delle tre compagnie in
Valtellina era un primo risultato del rapporto fatto dal colonnello
Sanfront al quartiere generale.

Ritornando a Sondrio seppi dal Guicciardi che Garibaldi aveva lasciato
Salò, e si dirigeva verso la Valtellina, ove sarebbe arrivato alla fine
del mese, e cioè dopo otto giorni circa di marcia, preceduto dal Medici
che veniva innanzi con una avanguardia. Mi disse anche che il comando
francese aveva mandato una compagnia del genio a preparare mine lungo
la strada tra Lecco e Colico, caso mai gli austriaci pigliassero quella
direzione, dopo aver spazzato le poche forze che c’erano in Valtellina.

Così, dopo averci dimenticati per un pezzo, s’eran tutti svegliati,
e cominciavano a venire i provvedimenti in abbondanza. Venivano in un
buon punto, poichè a un tratto s’era levato un nuovo allarme.

Qualche giorno prima della battaglia di Solferino erano stati osservati
dei movimenti e dei concentramenti di truppe austriache al di là del
Tonale, che avevano lasciato credere a un’invasione in Valcamonica.
Varie circostanze avevano talmente avvalorata questa voce, e il fatto
parve tanto imminente, che il maggiore Manassero si ripiegò rapidamente
da Mazzo a Tresenda per sorvegliare l’Aprica, mentre il Medici,
accelerando la sua marcia, arrivava il giorno 24 a Tresenda unendosi
col Manassero. Parte del battaglione valtellinese fu richiamato a
Mazzo, e all’avamposto non rimase che una compagnia e mezza sotto
il comando del tenente Zambelli, giovane bresciano intelligente e
risoluto.

Questo movimento veniva compiuto in poche ore. Il giorno dopo ci arrivò
la notizia della battaglia di Solferino, e si seppe che gli austriaci,
dopo essere scesi dal Tonale a fare una ricognizione verso Edolo, si
erano allontanati. Allora il maggior Manassero si portò all’Aprica
e ad Edolo, e le compagnie del battaglione valtellinese ritornarono
all’avamposto, ove s’era pure recato il Medici per visitare le
posizioni.

Insieme con le compagnie valtellinesi si era recata all’avamposto
un’avanguardia di circa mezza compagnia dei garibaldini del Medici
accampati a Tresenda. Questa mezza compagnia era comandata dal capitano
Strambio pavese; soldato non bello, ma ottimo. Era alto e magro; nel
suo portamento non c’era nulla di militare; pareva un archivista o un
_protocollista_ a cui avessero in quel momento buttato sulle spalle il
cappotto d’un soldato; ma i soldati lo amavano e lo ammiravano; viveva
sempre con loro, occupandosi di tutto e di tutti con premura e con
tatto; al fuoco lo dicevano valoroso e calmo, come se quella fosse la
sua occupazione ordinaria.

Il nostro avamposto, al ponte del Diavolo, era appena rioccupato, e
Medici se ne era appena allontanato per poco, quando di improvviso
scesero ad attaccarlo vigorosamente alcune compagnie di austriaci,
credendo forse di sorprendere i pochi che c’erano il giorno prima.

Si impegnò un vivo combattimento, che durò un paio d’ore, e che fu il
fatto d’arme principale ch’ebbe a sostenere il battaglione valtellinese
in quella breve campagna.

Gli austriaci rinnovarono più volte l’attacco, portandosi fin sotto al
terrapieno che chiudeva la valle, e dietro al quale stavano i nostri.
Questi, meno gli ufficiali, si trovavano al fuoco per la prima volta,
e ci stettero con quella calma che distingue i montanari, abituati ai
pericoli. Parte di essi, circa un centinaio, non erano ancora armati;
ma accorsero essi pure, e arrampicatisi sulle falde scoscese del monte
che sta di fianco alla strada postale, presero a far rotolar sassi e
a staccar pezzi di macigni mandandoli giù per la china, obbligando gli
austriaci ora a ritirarsi, ora a cercar riparo contro quella valanga di
pietre. Questi montanari senza armi decisero forse il buon risultato
del combattimento. Il sole tramontava, l’attacco non era riuscito e
gli austriaci ritornarono a Bormio: noi non avevamo avuto morti, ma
parecchi feriti[36].

Il giorno seguente, ossia il 27 giugno, il Medici faceva marciare in
avanti i suoi ottocento soldati che accampavano a Tresenda, e portava
l’avamposto dal ponte del Diavolo qualche chilometro più in su, a S.
Antonio di Morignone, da ove scendevano ancora tratto, tratto, delle
grosse pattuglie austriache ad attaccare, intimando al Municipio di
Bormio delle forti requisizioni.

Il giorno stesso entrava in Valtellina, coll’intera sua brigata,
Garibaldi, al quale era stata affidata la difesa di tutti gli sbocchi
alpini, lo Stelvio, il Tonale, il Caffaro e la Rocca d’Anfo, mentre
Cialdini che vi aveva prima il comando ripiegava su Brescia.


  NOTA.

  [36] In quel combattimento si distinsero il capitano Strambio,
  il tenente Zambelli e il Quadrio di Sondrio, il sergente Putti, i
  soldati De Maestri, Del Castello, Solari, Mirri, Trinca di Tirano,
  e Sassella di Grosio.

  (_Relazione del colonnello Medici su quanto ha operato in
  Valtellina_ nel libro i _Cacciatori delle Alpi nel 1859_, di
  Francesco Carrano).




CAPITOLO XXXII.

1859.


VII.

  _Sommario:_ D’accordo con Guicciardi parto per Torino per affari
  amministrativi. — Un’udienza da Cavour, a Torino. — Emilio a
  Modena. — Io ritorno a Sondrio. — Marcia del Medici su Bormio. —
  Presa di Bormio. — Attacco dei Bagni di Bormio. — Ritirata degli
  austriaci ed occupazione da parte loro di _Sponda lunga_. — Rimango
  alcuni giorni a Bormio. — Stanchezza dei volontari. — Ritorno
  del battaglione valtellinese a Sondrio. — Mio ritorno a Sondrio,
  con Guicciardi. — Richiamo del capitano Montanari. — Arrivo dei
  Cacciatori degli Appennini.

Di concerto col Guicciardi avevo fissato di fare una corsa a Torino
per definire parecchie questioni amministrative e militari, che si
trascinavano da alcune settimane. Ora poi che venivano tutti i corpi
garibaldini, i vecchi e quelli di nuova formazione, ci occorreva di
avere dal Governo nuove istruzioni.

Io poi, personalmente, avevo bisogno di regolare diversi affari. Per
tre settimane avevo governato colle casse vuote, avevo fatto venir armi
e munizioni, materiali e provviste da guerra, procurando di evitare le
requisizioni e di disturbare il meno possibile i comuni e i cittadini.
La maggior parte delle spese le avevo dovute fare rilasciando cambiali
alle volte anche solo in mio nome, nella speranza di un esito finale
felice. Le cambiali oramai erano prossime a scadere e parevami giunto
il momento di pensare a pagarle.

L’avere un’udienza da Cavour, in quei giorni, non era facile, nondimeno
ci riuscii. Non aspettai che due giorni, intanto preparai mentalmente
il discorsetto che avrei fatto. Quando si parla coi ministri, bisogna
non divagare e non perdere di vista lo scopo che si vuol raggiungere.

Il barone Ricasoli, quand’era ministro, nel dare le udienze prendeva
la parola pel primo, con una formula che gli era abituale: «Signore,
s’accomodi», diceva tutto serio, «parli e procuri di esser breve e
chiaro». L’altro, allora, se non aveva pronto il suo bravo discorsetto
breve e chiaro, dinanzi a quell’uomo severo e stecchito perdeva il filo
delle idee, e l’udienza andava a rotoli.

Cavour mi lasciò dire, solo interrompendomi di tanto in tanto con
qualche interrogazione, e prendendo degli appunti circa gli ordini che
doveva dare per provvedere agli affari della Provincia di Sondrio.
Non mancai di dirgli che anche l’Intendente Guicciardi era molto
impensierito per l’affluire di tanti corpi di volontari tutti insieme,
in un paese piccolo e di poche risorse, mentre, per tener fronte
agli austriaci, od anche per prendere l’offensiva, potevano bastare
forze minori, purchè scelte e adatte. Avendomi Cavour incoraggiato a
precisare meglio il mio pensiero, gli dissi che per lo Stelvio potevano
bastare pochi battaglioni, formati in maggioranza da montanari e da
gente pratica dei luoghi, dei quali avrebbe potuto prendere il comando
molto utilmente lo stesso Intendente Guicciardi; mentre a Garibaldi
sarebbe rimasto un altro campo più vasto e importante d’azione, la
difesa cioè e l’attacco di tutti gli altri sbocchi alpini. Pensiero
questo che era comune a quanti conoscevano il Guicciardi e le cose di
Valtellina.

Cavour mi rispose che altri gli avevano comunicata questa idea; ch’egli
l’aveva avuta presente nel nominare Guicciardi Intendente di Sondrio,
e che l’avrebbe forse effettuata a seconda dello svolgersi degli
avvenimenti. L’idea allora non si effettuò, ma la vedemmo in pratica
nel 1866, e il risultato dimostrò ch’era buona.

L’udienza fu breve. Delle cose pensate il giorno prima ne avevo detto
solo una parte; il rimanente lo avevo soppresso un po’ per discrezione,
e un po’ vedendo che molte cose le sapeva già.

Sbrigate poi le mie varie faccende, che dipendevano dai ministeri, me
ne andai a Milano, ove rimasi due giorni, prima di ritornare al mio
posto; lieto che certe forniture militari, di cui mi aveva incaricato
il Guicciardi, mi permettessero, senza mancare al mio dovere, di
passare un paio di giornate in famiglia con mia madre ch’era tornata
dalla Valtellina, coi miei fratelli e coi miei più intimi amici.

A Milano trovai Emilio, che, finita la sua missione, era stato
improvvisamente chiamato da Farini in quei giorni a Modena.

Emilio non sapeva capacitarsi di quella chiamata; si trattava di
assumere delle funzioni presso il Governatore, mentre egli aveva già
presa una risoluzione diversa; era quindi oscillante tra l’andare o il
rifiutare. La risoluzione diversa era quella di arrolarsi nelle guide
di Garibaldi, appena finito il suo commissariato regio.

— «E come mai, domandava Emilio, poteva essergli venuta quella
improvvisa chiamata da Farini?» Egli non lo sapeva, e non lo seppe che
un pezzo dopo. Ma a me lo confidò subito in secreto mia madre appunto
in quei giorni in cui ero a Milano.

Mia madre, appena saputa l’intenzione di Emilio di arrolarsi nelle
guide di Garibaldi, aveva chiamato il Correnti, e gliela aveva
comunicata, dicendogli: «Non le pare che in questi momenti Emilio possa
fare qualche cosa di meglio che la guida a cavallo?»

Il Correnti ringraziò mia madre d’averlo avvisato, prese la cosa a
cuore, e pensò di scrivere al Farini, ricordando che questi aveva molta
simpatia per Emilio e lo aveva grandemente lodato con tutti per la
prontezza con cui aveva accettato il non facile incarico di Commissario
del Re al campo di Garibaldi.

Emilio, spinto da tutti, finì con l’accettare la chiamata di Farini; e
questo fu il primo passo della sua carriera politica. Il Farini aveva
chiamati intorno a sè alcuni valenti giovani, e aveva formata con essi
la propria segreteria. Poi, quando dopo la pace di Villafranca, assunse
la dittatura nei Ducati, assegnò ad alcuni di questi giovani degli
uffici di maggiore importanza, e ad Emilio affidò le trattative delle
annessioni e delle questioni di politica estera.

La mattina del 2 luglio ripartii per Sondrio, e trovai per strada
Lodovico Trotti, il quale era stato di nuovo mandato in Valtellina
dal quartier generale del Re, dove era giunta la notizia di forti
concentramenti di truppe nel Tirolo verso i confini italiani: si
desideravano delle informazioni da noi. Il Guicciardi potè presto
rispondere che quelle truppe erano corpi reduci da Solferino, riuniti
in quei posti per esservi riordinati.

La sera stessa in cui giunsi a Sondrio, il Guicciardi mi annunziò che
il Medici marciava su Bormio, e che dovevamo quindi indirizzarci a
quella volta subito anche noi. E così si fece, e così aggiunsi alla mia
giornata di viaggio altri sessanta chilometri, nella notte in carrozza,
senza prender fiato.

Arrivammo a Bormio, che era già caduta in potere dei nostri la mattina
del 3. Garibaldi ci arrivò poco dopo noi. Il giorno prima il Medici,
mandando innanzi il battaglione valtellinese, sostenuto dal proprio
reggimento, aveva occupato Ceppina, e poi aveva marciato rapidamente
su Bormio, impadronendosene quasi di sorpresa, dopo brevi scaramucce.
Gli austriaci si erano prontamente ritirati ai Bagni nuovi e ai Bagni
vecchi, due forti posizioni, e vi si erano concentrati, tagliando le
strade e facendo saltare il ponte della prima galleria della strada
dello Stelvio.

Nella giornata i garibaldini erano andati ad occupare diverse posizioni
di fianco a quelle austriache, e Garibaldi aveva visitati e studiati i
punti di attacco, insieme anche con diverse persone del paese pratiche
delle località. Dopo di ciò Garibaldi ordinò che nelle ore pomeridiane
si desse l’assalto alle posizioni dei Bagni nuovi.

Pranzammo io e Guicciardi, poco dopo mezzogiorno, in compagnia di
alcuni ufficiali dello Stato Maggiore garibaldino e di Agostino
Bertani, Capo delle ambulanze: eravamo tutti alloggiati, anche
Garibaldi, nell’albergo Clementi. Poi, tutti assieme, ci spingemmo
avanti sulla strada postale che da Bormio conduce ai Bagni per vedere
l’attacco alle posizioni austriache incominciato da poco.

Da quella strada, lunga circa quattro chilometri in salita, ne
percorremmo più della metà. Mano mano che si procedeva si vedevano più
distintamente le mosse dei nostri e i fuochi degli austriaci: i soldati
di Bixio eran quelli che vedevamo più da vicino, a ducento metri
all’incirca, mentre si arrampicavano e si distendevano sulla falda
scoscesa della Reit, che appunto noi costeggiavamo. Essi tentavano
la difficile impresa di portarsi più in su, per dominare i posti da
dove facevan fuoco gli austriaci; ma la falda era tutta franosa, e
procedevano a stento, mentre gli austriaci dall’alto e in posti difesi
facevan fuoco continuamente su loro. Più lontano si sentivano le
fucilate che gli austriaci scambiavano furiosamente dai Bagni nuovi
coi garibaldini, i quali ne tentavano l’assalto, salendo dal piano
sottoposto verso il poggio dei Bagni.

Su quel punto il combattimento fu deciso dal comparire dei tiratori
garibaldini sulla falda del monte che sta a occidente dei Bagni: allora
gli austriaci si ritirarono più in su, verso i Bagni vecchi, e in
posizioni naturalmente più riparate.

Nella svolta d’una delle molte insenature della strada postale ci
trovammo a un tratto in un punto da dove vedevamo a circa trecento
metri i cacciatori tirolesi, che distesi in catena, e dietro i naturali
ripari del terreno, tiravano sui cacciatori di Bixio. Ma anche loro
videro noi: videro questo gruppo d’ufficiali, che salivano piano
piano lungo lo stradale, osservandoli coi canocchiali puntati, e ci
presero subito di mira: per fortuna tenevano la mira un po’ alta,
e le palle fischiavano a un metro circa sopra le nostre teste. Ma
venivano diritte, e distintamente in direzione di ciascuno di noi.
Queste fucilate durarono qualche tempo, che a me, non abituato a far
da bersaglio, non mi parve breve. I miei compagni ufficiali dovevano
naturalmente, per l’onore della professione, mostrare la più completa
indifferenza: perciò senza allontanare i canocchiali dagli occhi, e
rimanendo fermi in mezzo alla strada, continuavano la conversazione
come se fossero al caffè, facendo anche della maldicenza, e cioè
criticando il tiro di quei tirolesi. Io invece, in cuor mio, mi sentivo
più indulgente.

Era la prima volta che mi sentivo fischiar le palle sulla testa per
parecchi minuti di seguito, in attesa di quella rettifica del tiro di
cui si intrattenevano i miei compagni della passeggiata.

Se qualcuno mi domandasse quale fosse la mia impressione in quel
momento, direi sinceramente che, secondando il primo movimento
dell’animo, mi sarei volentieri tirato dietro un muro che pareva messo
lì apposta; ma poi altri sentimenti presero ben presto il sopravvento,
e rimasi anch’io piantato in mezzo alla strada, disinvolto come gli
altri, anzi, per non parere da meno, non mi mossi che quando loro si
decisero a continuare la passeggiata, entrando in una insenatura dove
si sentiva meno frequente il fischiar delle palle.

Calata la notte i cacciatori di Bixio ripiegarono su Bormio: il nostro
attacco di fianco non era riuscito, e durante la notte gli austriaci si
ritirarono alla posizione detta la _Sponda lunga_, dopo aver incendiata
la prima cantoniera sullo stradale dello Stelvio.

La presa di Bormio era stata fatta con impeto, con rapidità, ma non
bene. Se si fossero meglio studiate le posizioni, si sarebbero potuti
ottenere dei vantaggi ben maggiori: invece, contentandosi di respingere
senz’altro quelle prime compagnie che si trovarono di fronte, si
lasciò che il rimanente delle truppe si concentrasse facilmente nella
forte posizione di _Sponda lunga_, dalla quale, se fosse continuata la
guerra, sarebbe stato difficile scacciarle. Il Guicciardi nel 1866, in
quelle medesime posizioni, con forze assai minori, ma con mosse abili e
ben combinate, seppe ottenere risultati ben più importanti.

Il giorno seguente ci fu tregua. Gli austriaci si trincerarono a
_Sponda lunga_ posizione che domina gran parte dello stradale dello
Stelvio, e che non può esser presa se non girandola traverso ghiacciai
e vie quasi inaccessibili; operazione che, come ho detto, doveva in
parte riuscire sette anni dopo al Guicciardi.

Ci fermammo noi pure, il Guicciardi ed io, a Bormio una giornata, che
il Guicciardi impiegò nel dare informazioni, sui luoghi e sul da farsi,
allo Stato Maggiore, al Medici, al Cosenz e a Bixio: io rividi con gran
festa molti amici, che mi narrarono le vicende toccate a ciascuno in
quella campagna rapida e avventurosa; ma di tutti mi colpì la grande
stanchezza non dell’animo, ch’era sempre in tutti alto e lieto, ma del
corpo.

Avevano percorso, in quei due mesi, più di seicento chilometri,
a piedi, non riposando quasi mai che nell’aperta campagna, senza
tende, senza zaino, senza preparazione di sorta alla vita militare; e
moltissimi cominciavano ad essere sfiniti e malaticci. Un ufficiale mio
amico, il valoroso Migliavacca, che morì poi a Milazzo, mi disse queste
precise parole: «Fin qui ci ha condotti l’orgasmo; ma, se si dovesse
marciare innanzi subito, non troveremmo venti uomini per compagnia
capaci di seguirci.»

Ed era proprio così. Pochi giorni dopo, gli ospedali, le caserme, le
case, nell’alta Valtellina, rigurgitavano di garibaldini malati per
spossatezza, per febbri, per tifo.

Prima di lasciar Bormio, Guicciardi ebbe un colloquio anche con
Garibaldi, ed ottenne che gli mandasse a Sondrio il battaglione
valtellinese; il quale aveva bisogno d’esser equipaggiato e rifatto di
pianta, sebbene il Montanari non la pensasse così; per la qual cosa,
forse, il battaglione non ci fu mandato che dopo nuove insistenze, e
dopo parecchi giorni.

Ritornati a Sondrio trovammo l’annunzio che il giorno 7 sarebbero
arrivati in Valtellina i Cacciatori degli Appennini, reggimento di
volontari ch’era stato formato pel primo dopo i Cacciatori delle Alpi.
Ci era annunziata anche la venuta di drappelli e di altre compagnie
in formazione. I volontari, tutti insieme, avrebbero formato cinque
reggimenti di quattro battaglioni ciascuno, che dalla Valtellina
sarebbero poi in parte passati ad occupare le alte valli lombarde, col
comando generale in Lovere di Valcamonica, con Medici in Valtellina e
Cosenz in Val Sabbia.

Quest’annunzio veniva ad accrescere di molto il lavoro dell’Intendenza
di Sondrio, la quale doveva provvedere rapidamente alle sussistenze,
ai quartieri, alle ambulanze per tutte queste nuove truppe, che, come
sapevamo già per esperienza, sarebbero giunte con esigenze e bisogni.

Il Guicciardi pregò me e il Bonfadini, che in quei giorni era venuto
a Sondrio guarito, di aiutarlo nel prendere tutti i provvedimenti
necessari. Mi ricordo che lavoravamo tutti e tre insieme nella medesima
stanza per scambiarci i nostri pensieri, e consigliarci a vicenda
quando occorreva. Con ciò avevamo anche l’occasione più facile di
alleggerire i sopraccapi con qualche risata; e le occasioni c’eran
date di solito dai carteggi di gente spaventata, di rivoluzionari
progettisti, di fabbricatori di piani di guerra, e di cercatori
di impieghi. E siccome in questi carteggi eravamo chiamati spesso
con dei titoli altisonanti, così, anche noi, imitandone lo stile,
se erano affari di mia spettanza, il Bonfadini mi passava le carte
scrivendoci in fronte al _R. Intendente Generale delle armate di S. M.
in Valtellina_, e quando io le passavo a lui, ci mettevo a _S. E. il
Ministro dell’Interno di tutte le Valtelline_.

Si rideva, ma alle volte si tiravano anche _dei moccoli_, come si
diceva in gergo militare; ed era quando fioccavano dispacci dai
ministeri, dal governatore generale della Lombardia, dal quartier
generale di Garibaldi, da colonnelli, da capitani, e se occorreva
da caporali, che volevan cose impossibili, o davan ordini che erano
in contraddizione l’un con l’altro. Le competenze, le gerarchie,
le legalità, era tutta roba in istato di caos, e alle volte c’era
una confusione da perderci la testa. Mi pare ancora di vederlo
quell’impiegato del Municipio di Sondrio, ch’era stato incaricato di
farmi da segretario, tutto il giorno colle mani nei capelli!

In quel tempo ebbi occasione di ammirare sempre più la testa ordinata e
calma di Enrico Guicciardi.

Qualche giorno prima che arrivasse a Sondrio il battaglione
valtellinese, mi vidi capitare il capitano Montanari che, di mal umore
e accigliato più del solito, m’annunziò d’essere stato richiamato
e destinato, non rammento se a Lecco o a Bergamo, dove c’erano dei
depositi di volontari: e ciò mentre appunto sperava d’esser nominato
maggiore del battaglione valtellinese.

Il mio pensiero corse in quel momento al colonnello Sanfront, e ai miei
rapporti dei primi giorni.

«Questo è un tiro dei preti!» esclamò il Montanari. «Se ne facevo
fucilare un paio quando venni in Valtellina, a quest’ora ero maggiore
del battaglione! Caro Commissario, non glielo dicevo io?»

Non lo rividi più. Molti mesi dopo seppi che, partito coi _Mille_ e
gravemente ferito a Calatafimi, era morto pochi giorni dopo: era morto
da prode, quale era sempre stato.

Il giorno 7 luglio incominciarono ad arrivare a Sondrio i _Cacciatori
degli Appennini_, distribuiti in vari luoghi della provincia, ma non
più in su di Tirano. Questo reggimento era stato formato in Piemonte,
dopo la partenza dei Cacciatori delle Alpi, coi nuovi volontari che
accorrevano da ogni parte d’Italia, e di cui n’era stato dato il
comando da principio al generale Ulloa. Arrivavano freschi, bene in
assetto, come soldati che mutassero di guarnigione; e infatti non
avevano sostenute marce faticose, e non erano ancora stati condotti
al fuoco. Eran meglio in assetto dei Cacciatori delle Alpi, ma non
ne avevano del pari l’entusiasmo, il piglio militare, e lo spirito
garibaldino. Nei Cacciatori delle Alpi, in cui predominavano i
lombardi e i volontari dell’alta Italia, c’era anche una maggior
fusione di amicizie, di caratteri, di sentimenti; nei Cacciatori degli
Appennini c’era una maggior varietà e diversità: erano d’ogni parte
d’Italia, giovanissimi e maturi, studenti e professori, artigiani e
uomini politici. Nei Cacciatori delle Alpi c’erano i primi accorsi,
quelli che, traverso gravi pericoli, avevano lasciato le loro cose,
quando tutto era ancora incerto, forse per non rivederle mai più: nei
Cacciatori degli Appennini c’erano in maggior numero quelli venuti più
tardi, per adempiere a un dovere, e quelli venuti dopo la dichiarazione
della guerra. Anche nei Cacciatori degli Appennini trovai parecchi
amici d’ogni parte d’Italia, e rammento tra questi il Montanelli,
che col modesto cappotto del soldato seguiva umilmente il duca di S.
Donato, il quale pomposamente precedeva a cavallo un battaglione di cui
era maggiore.

Subito dopo l’armistizio i Cacciatori degli Appennini furono mandati
nella Valcamonica, raggiunti poi dai Cacciatori delle Alpi, di cui non
rimase in Valtellina che il reggimento del Medici.




CAPITOLO XXXIII.

1859.


VIII.

  _Sommario:_ Il Guicciardi chiama Garibaldi a Sondrio. —
  L’armistizio. — Il battaglione valtellinese. — Il soldato Antonio
  Pievani, e le sue convinzioni religiose. — Diventa uno dei Mille,
  poi si fa frate. — La notizia della pace di Villafranca. — Dolore
  e turbamento degli animi. — Scioglimento dei corpi volontari. — Mi
  ritiro da ogni incarico, e parto per Milano.

In coda ai Cacciatori degli Appennini, capitava in Valtellina, quasi
giornalmente, qualche drappello di volontari mandati da vari punti
delle provincie lombarde per essere aggregati ai corpi garibaldini.
Eran di solito gente d’ogni condizione e d’ogni età, spesso laceri e
con l’aria stanca e patita. C’eran dei vecchi e perfino dei fanciulli
che, spinti dall’entusiasmo, seguivano per qualche tappa qualche corpo
garibaldino, e venivano poi raccolti lungo la strada e spediti ai
depositi principali, i quali ne facevano una scelta e ne rimandavano
buona parte alle loro case. Uno degli spettacoli caratteristici e
commoventi di quei giorni era l’entusiasmo, la foga irresistibile,
con cui la gente accorreva sulle orme garibaldine, o si levava come
mossa da un turbine se compariva Garibaldi. Il fascino che Garibaldi
fin d’allora esercitava sulle moltitudini era meraviglioso, alle volte
pareva quasi inconcepibile, e meritava di essere osservato e studiato.
Garibaldi, quando attraversava un paese, sebbene allora non portasse
la camicia rossa, non si sarebbe detto che fosse un generale, ma il
capo d’una religione nuova, seguito da turbe fanatiche. Nè, meno degli
uomini, erano entusiaste le donne, che portavano perfino i loro bambini
a Garibaldi perchè li benedicesse, o perfino li battezzasse!

A queste turbe che gli si affollavano intorno Garibaldi soleva
rivolgere la parola con quella sua dolcissima voce, ch’aveva pure la
sua parte nel fascino ch’egli esercitava. «Fate arma d’ogni falce, e
d’ogni scure» soleva dire ai suoi ascoltatori sulle piazze e per le
strade. «Venite! Chi rimane a casa è un vile! Io non vi prometto che
fatiche, stenti, e fucilate. Ma vinceremo o moriremo!»

E dopo simili parole, che non erano allegre, l’entusiasmo saliva al
massimo grado: e non mancava mai anche quando le parole di lui erano
insignificanti; ma, tra lui che parlava e la folla che lo ascoltava,
c’era come una corrente magnetica. Detta da lui, ogni cosa, fosse pure
la più semplice, aveva un effetto smisurato. «Grazie, figliuoli» gli
sentii dire una sera da una finestra alla folla che gli faceva una
dimostrazione: «Grazie, sono stanco, piove, andate a letto anche voi,
buona notte a tutti!» Fu un delirio; e la folla si sciolse commossa,
commentando le parole del Generale: molti avevano le lacrime agli
occhi.

Tra quei nuovi volontari che ci arrivavano, insieme con molti inabili,
c’eran, per di più, taluni pessimi soggetti, forniti dalla feccia dei
sobborghi di Milano: approfittando di quei momenti favorevoli in cui
la vecchia polizia era scomparsa e la nuova non era ancor costituita,
avevan pensato che le file dei volontari potevano essere un campo
propizio per le loro imprese.

Di questi bricconi ce ne capitaron parecchi che, creatisi da sè per
strada caporali e sergenti, facevano requisizioni, e commettevano
violenze, furti, ferimenti; procurando al Guicciardi e a qualche
autorità comunale non pochi sopraccapi.

Questa affluenza disordinata di volontari, alla quale si aggiunse la
venuta del nostro battaglione valtellinese, era per la piccola città di
Sondrio un imbarazzo non piccolo, e si rendeva sempre più urgente che
il comando dei volontari prendesse un qualche provvedimento. Fu perciò,
e credo per le sollecitazioni del Guicciardi, che il giorno 8 di luglio
capitò Garibaldi a Sondrio.

Il Guicciardi condusse subito Garibaldi a vedere i volontari arrivati
in quei giorni, ch’erano, non dirò accasermati, ma ricoverati alla
meglio in qualche chiesuccia, in qualche magazzino, in botteghe
sfittate, e nei pochi locali disponibili: parecchi non potevano
uscirne, tanto erano laceri.

Garibaldi impiegò parecchie ore a passarli in rivista: messi in fila
presentavano davvero un curioso spettacolo: ragazzotti sui quindici
anni col berretto da operaio o da scolare; operai in manica di camicia
e con la giacchetta sulle spalle; uomini maturi con la barba lunga e
grigia; zerbinotti coi vestiti strappati, ma che tradivano una certa
eleganza; alcuni portavano ancora la tuba e il soprabito, come se
fossero in quel punto scappati dall’ufficio; chi era magro, chi aveva
la pancia; alti e bassi come le canne d’un organo, tutti insieme
parevan fatti venire per una rivista in caricatura.

Garibaldi li guardava con una certa compiacenza, poichè in fondo al
cuore egli aveva una grande predilezione pei soldati in borghese che
gli rappresentavano la rivoluzione. Prese nota di tutto, volendo
assegnare i più validi ai corpi che ne abbisognavano, e disse al
Guicciardi (forse non senza un po’ di rincrescimento), di chiamar
subito alcuni fornitori per incaricarli di vestire militarmente quelli
che di essere vestiti avevano maggior bisogno.

Il giorno seguente il Guicciardi mi raccontò che i fornitori, dopo aver
ricevuti gli ordini da Garibaldi, eran venuti da lui coi contratti per
aver la firma del Generale, o di chi faceva per lui. Il Guicciardi
si era recato subito da Garibaldi, il quale mostrandosi grandemente
sorpreso aveva esclamato: «Come? quei mascalzoni di fornitori a cui
procuriamo l’onore di vestire quei bravi giovani venuti a dar la
vita per la patria, mentre essi poltriscono a casa, osano domandare
contratti, patti e firme? Non basta l’ordine mio o suo? Li mandi al
diavolo! Se non sono nemici, non sono certo patriotti! Non se ne fidi!»

Più tardi si ebbero i contratti e le firme; ma quel primo scatto di
sorpresa e di sdegno così spontaneo, dipingeva pienamente la natura di
Garibaldi.

La sera del giorno seguente, ossia del 9 luglio, giunse la notizia che
un capitano austriaco si era presentato ai nostri avamposti dinanzi a
_Sponda lunga_ sullo stradale dello Stelvio, annunziando l’armistizio,
e interrogando su gli accordi da prendersi. I nostri non ne sapevano
ancor nulla; infatti la comunicazione ufficiale a noi non giunse dal
quartier generale che il giorno 10.

Si pensi che improvvisata fu quella! Ma nessuno credeva finita la
guerra prima che ne fossero raggiunti gli scopi. Si almanaccavano
le supposizioni più inverosimili, pur di arrivare alla conclusione
preferita che l’armistizio sarebbe stato di breve durata; e così non
scemava in nessuno l’attività fiduciosa di prima.

In quei giorni cominciò l’invio di parecchi corpi nella Valcamonica e
alle loro diverse destinazioni nelle alte valli lombarde, a seconda del
piano di cui abbiamo parlato. Allora anch’io potei finalmente occuparmi
del battaglione valtellinese, che era tornato a Sondrio, e provvedere a
riordinarlo.

Il mio primo pensiero fu quello di mantenere la parola data alle
guardie nazionali mobili; di rimandarle a casa appena cessato l’urgente
pericolo, mentre il Montanari le aveva dichiarate arrolate per tutta
la guerra, senza tanti complimenti; lasciai libero quindi chi voleva di
tornarsene a casa. Se ne andarono quasi tutti, e non fu un gran male.

Il numero dei volontari del nostro battaglione era abbastanza
abbondante da permettere una scelta e di questa mi occupai subito, dopo
aver congedato le guardie mobili. La certezza che si aveva in allora
che la guerra sarebbe continuata, e la speranza che i nostri volontari
sarebbero stati chiamati a oltrepassare i confini e a combattere nelle
valli tirolesi, persuadevano sempre più i comandanti dei corpi ad
approfittar di quei giorni di tregua per togliere dalle file i meno
atti, non mantenendovi che i più vigorosi e i più sicuri: con questo
concetto si incominciò a riordinare anche il battaglione valtellinese.
Non era ancora stato nominato il maggiore, e, dopo la partenza del
Montanari, lo comandava lo Strambio ch’era il capitano anziano.

Anche nel battaglione valtellinese accanto agli ottimi c’erano
i mediocri, gli inetti e i guastamestieri: insieme coi giovani
intelligenti e volonterosi, coi montanari coraggiosi e forti, c’erano
i fianchi inabili alle fatiche, i ciarloni, i politicanti, i paurosi,
i pentiti. Di questi ultimi ce n’erano parecchi: s’erano arrolati nei
primi giorni per millanteria, ma poi le fatiche e i pericoli li avevano
presto disillusi, e avrebbero voluto tornarsene a casa. Spavaldi nei
loro paesi, paurosi nei ranghi, forti soltanto nella maldicenza,
sfogavano il loro malumore col dir male di tutto e di tutti e con
l’essere strumenti di indisciplina. Qualcuno di questi, dopo che il
battaglione fu a Sondrio e fu incominciata l’_epurazione_, mi fece
arrivare sollecitazioni e preghiere dalle famiglie o da amici, per
essere mandato a casa.

Per scartare questa gente fisicamente e moralmente inetta, me la intesi
con Agostino Bertani che, quale medico-capo dei volontari, percorreva
in quei giorni i paesi della vallata per preparare ospedali e ambulanze
in cui ricoverare i molti garibaldini malati.

Il Bertani mi disse che, per sciogliere dal vincolo dell’arrolamento
quelli che avevano fatta cattiva prova, aveva appunto, d’accordo con
qualche comandante di compagnia, ricorso al mezzo di licenziarli come
fisicamente inabili. Fece quindi una visita medica di revisione anche
al battaglione valtellinese, e, insieme con gli inabili davvero, scartò
quei soggettacci di cui gli avevo dato una noticina.

E poichè ho parlato di quelli che non erano eroi, non voglio
dimenticare uno che lo era davvero. Ogni sera, dopo la ritirata,
andavo a visitare col capitano Strambio i posti dov’erano accasermati
i volontari del nostro battaglione. In una chiesetta, dove stava
una compagnia, avevo più d’una volta osservato che, mentre quasi
tutti placidamente dormivano sulla paglia, un soldato vegliava in un
confessionale, con un lumicino, e con un libro in mano.

«Che cosa fa quel soldato?» domandai una sera al sergente.

«È un originale» mi rispose: «mentre gli altri dormono passa tutta la
notte a studiare: è il soldato Antonio Pievani di Tirano.»

Conoscevo la famiglia di lui; egli era studente, e per diverse
combinazioni non l’avevo veduto da parecchi anni, e quasi non lo
riconoscevo più; ma da quella sera incominciò tra noi un’amicizia che
andò sempre più crescendo, e che fu pur troppo breve. La sua vita fu
tutta un esempio di nobiltà di carattere e saldezza di convinzioni.
Dopo la pace di Villafranca lasciò il battaglione, poi fu uno dei
_mille_. In Sicilia si fece tanto onore che fu promosso capitano, ma
rimase sempre come un compagno per i suoi soldati, coi quali divideva
la sua paga. Dopo la campagna del 1860, ritornò agli studi della
matematica, nella quale era fortissimo; il Brioschi lo diceva uno
dei migliori scolari, e fu tra i prescelti del Governo per compire
all’estero un corso di perfezionamento. Aveva profonde convinzioni
religiose, e le proclamava altamente con la parole e con le pratiche.

Durante l’invasione del colera, che si diffuse anche in Valtellina
dopo la guerra del 1866, egli, non contento di far l’infermiere ai
colerosi, andava pei casolari di montagna a ricercare quelli che erano
colpiti dal male, e li portava all’ospedale sulle sue spalle se li
trovava abbandonati. Nell’ardore della sua fede credeva che il governo
temporale dei Papi sviasse la Chiesa dai suoi ideali più alti e più
puri, e per ciò era un avversario risoluto del potere temporale.

Quando Garibaldi nel 1867 al grido di _Roma o morte_ chiamò gl’italiani
a quell’impresa che finì a Mentana, il Pievani, per dare una prova
palese dei suoi sentimenti, partì per raggiungere gli antichi
commilitoni garibaldini; ma a Genova lo fermò il proclama di Vittorio
Emanuele che vietava l’impresa; e per non essere ribelle, come ebbe a
dire, retrocesse. Continuò per qualche anno ne’ suoi studi matematici,
e intraprese i teologici.

Sempre più addolorato pel contrasto tra le sue convinzioni e i voleri
papali nella questione del dominio temporale, decise di andarsene
lontano e di entrare nelle missioni, che gli rappresentavano i tempi
più puri della Chiesa. Per raggiungere più presto il suo scopo si fece
frate, e pochi mesi dopo morì in un convento della Valcamonica.

Nei mesi che passavo a Tirano facevo quasi giornalmente una lunga
passeggiata con lui: i suoi discorsi erano sempre lo specchio della
sua anima, ispirati a una bontà angelica e alle sue forti convinzioni
patriottiche e religiose: c’era in lui qualcosa di primitivo e di puro
che seduceva.

Ma torniamo al battaglione valtellinese. Mentre io e gli ufficiali
c’eravamo messi con grande ardore per farne un bel battaglione, il
Guicciardi mi annunziava d’aver proposto la mia nomina a capitano nello
Stato Maggiore dei volontari. Ma, intanto, alcune lettere da Milano
venivano a gelarmi il cuore con delle dolorose nuove sulla conclusione
della pace; e, pur troppo, poco dopo ce ne arrivava la notizia
ufficiale.

Che mutamento di scena! L’attività affaccendata di tutti, dei giorni
prima, si fermò di colpo. Cittadini e soldati si affollavano per
le strade, interrogandosi come colpiti da un’improvvisa sciagura,
discutendo, imprecando. Nei volontari c’eran molti delle provincie
venete e d’altri paesi, che la pace destinava a rimaner sotto
l’Austria, e questi gettavano le armi, e piangevano.

Quel sentimento di disciplina e quel mirabile accordo che guidava gli
animi da alcuni mesi, erano a un tratto rotti e sconvolti: la luna
di miele della concordia era finita. Ciascuno si sentiva libero di
sragionare a proprio modo, e quell’improvviso avvenimento della pace
di Villafranca, di cui ancora non si poteva comprendere, nè i motivi,
nè le conseguenze, offuscava e turbava le menti anche dei migliori.
Ad accrescere la confusione degli animi, il timore che in quell’urto
improvviso la nave intera sommergesse, si aggiungeva la nuova che anche
il suo gran nocchiero, Cavour, ne aveva abbandonato il timone.

Nelle sventure non c’è tormento maggiore di quei lamenti volgari,
di quei commenti spropositati, che vengono a infastidire l’anima già
inasprita. E siccome di quei lamenti e di quei commenti ce n’era in
quei giorni un subisso, così fui preso da una impazienza irresistibile
d’andarmene, di lasciare ogni mio ufficio in Valtellina, tanto più che
questi uffici ormai non avevano più uno scopo; e di correre a Milano,
ove certamente si sarebbero svolti nuovi avvenimenti.

L’annunzio della conclusione definitiva della pace aveva di subito
scossa così rapidamente la compagine morale dei corpi dei volontari,
ch’era facile prevederne vicino lo sfacelo completo. Da quel momento
anch’io non ebbi più che un pensiero: ultimare le mie faccende, e
liberarmi dei miei incarichi e del grado che aspettavo, pregando il
Guicciardi che ne ritirasse la proposta.

Feci bene, o feci male? È una domanda che poi rivolsi più volte
a me stesso; ma in quel momento non istetti a pensar tanto; prova
che anch’io ero stato trascinato da quella irriflessione, da quel
bisogno di risoluzioni improvvise, che spingeva tutti in quell’ora di
disinganni e di sfiducia.

In pochi giorni fui libero; le dimissioni da ogni mio incarico furono
accettate, e partii per Milano con Romualdo Bonfadini.




CAPITOLO XXXIV.

1859.


IX.

  _Sommario:_ Milano dopo la pace di Villafranca. — Gli emigrati
  veneti. — Il Comitato di soccorso per l’emigrazione veneta.
  — Ricevimenti e feste a Milano. — Il conte Francesco Annoni
  comandante della Guardia Nazionale. — Viene fondato il giornale _La
  Perseveranza_. — Mio fratello Emilio a Modena presso il Dittatore
  Farini. — Emilio mandato da Cavour a Parigi e a Londra. — Nuove
  presentazioni nel salone della contessa Maffei. — Ufficiali e
  soldati francesi. — Ospitali e alloggi privati pei feriti. — Il
  Ministero Rattazzi e le sue leggi amministrative.

In quali condizioni differenti rivedevo Milano, dopo quattro mesi
da quando ero andato in Piemonte! Allora in Milano si sarebbe detto
che non ci fosse che un’anima sola, un pensiero solo. La concordia,
ispirata a una grande speranza, teneva tutti in una severa disciplina,
e quel ch’è più, faceva che tutti ragionassero bene: pareva proprio che
il buon senso fosse diventato il senso comune.

E ora i pochi giorni ch’eran seguiti all’annunzio della pace di
Villafranca eran bastati per scombussolar tutto; e quelli, che
cercavano di spiegare gli avvenimenti e di ragionare, quasi si
vergognavano di farsi sentire.

La gente faceva capannelli per le strade, e ogni buon bottegaio
spiegava ai vicini, sulla porta della sua bottega, la politica
delle Potenze e quella di Napoleone III: in ogni discorso faceva
capolino, s’intende, qualche trama tenebrosa, e all’occorrenza qualche
_tradimento_; i cittadini più pacifici e innocui non mancavano di
pronunziare fiere parole, e di fare propositi audaci.

Il rapido passaggio da tante illusioni a una dura realtà, inattesa e
piena di pericoli, giustificava questa volta lo sconforto e i sospetti:
ma a quel tempo la fortuna era ancora con noi, e nuovi avvenimenti
vennero presto a rialzare gli animi, e a riaprirli a più alte speranze.

Si formavano per le strade crocchi e capannelli che andavano di giorno
in giorno ingrossando, aumentati anche dagli emigrati che dalle
provincie venete riparavano in Lombardia, e soprattutto a Milano.
Questa emigrazione, che si fece presto numerosissima, si componeva
sulle prime di veri emigrati politici e di patriotti distinti; ma poi
ci si mescolò una folla di oziosi, e di gente che veniva a chieder
sussidi in Milano, vivendo poi a carico del Governo italiano e della
generosità patriottica dei cittadini.

Quei primi emigrati che giravano per le strade di Milano, fuggiti dai
loro paesi rimasti nelle mani dell’Austria, destavano in tutti una
vera commozione e così sorse il pensiero, lì per lì, di istituire un
Comitato di soccorso per l’emigrazione veneta[37].

Il Comitato mandò subito una parte degli emigrati ad arrolarsi
nell’Emilia, e un po’ pei sussidi e un po’ per gli arrolamenti, in quel
primo anno, spese oltre ducento mila lire, raccolte in Milano dalla
pubblica beneficenza patriottica. Più tardi il Comitato, per una legge
votata dal Parlamento, ebbe dal Governo un assegno annuo, oltre quanto
gli veniva continuamente dalla beneficenza privata. Dal 1859 al 1866
il Comitato erogò complessivamente per la emigrazione politica oltre un
milione.

La simpatia pei veneti, questi nostri antichi fratelli di sventura,
toccava la fibra patriottica di tutti: e non solo in Milano, ma anche
nelle città minori di Lombardia, la beneficenza, in quei giorni, si
esplicava in mille modi a favore dell’emigrazione.

In quell’autunno le mie corse a Milano furono frequentissime:
ero attirato, innanzi tutto, dalle feste e dai ricevimenti per le
Deputazioni dell’Italia centrale, che passavano per portare a Torino a
Vittorio Emanuele i voti per le annessioni. Venne prima la Deputazione
Toscana, poi quelle di Modena, di Parma e della Romagna.

Le feste furono veramente pari all’entusiasmo ch’era nel cuore di
tutti: quelle Deputazioni venivano a dirci che l’unità d’Italia, la
grande aspirazione del patriottismo nazionale, era ormai moralmente
compiuta. Il gran sogno era vicino a diventare una realtà, la meta era
in vista, e se i cuori deliravano di gioia avevano ben ragione.

Con minore entusiasmo, io e mio fratello Enrico, dovevamo fare delle
corse frequenti a Milano anche per la Guardia Nazionale, di cui eravamo
militi rassegnati. La Guardia Nazionale, allora in formazione, non
lasciava in pace nessuno. S’eran fatte delle rivoluzioni in Europa
per avere la Guardia Nazionale, poi quando si ebbe, non si sarebbe
certamente versato del sangue per conservarla. Ma intanto l’avevamo, e
pareva una gran conquista, perchè era uno dei dogmi liberali del tempo.

A Milano, veramente, l’entusiasmo per la Guardia Nazionale non durò
molto; ci furono presto i malcontenti, ai quali pareva di perder
troppo tempo nel non far nulla. Questi, s’intende, non erano i
militi graduati, che avevano le spalline da sfoggiare; e neppure gli
zappatori, che vedevano finalmente apprezzate dalle libere istituzioni
le loro belle barbe.

Era generale della Guardia Nazionale di Milano il conte Francesco
Annoni, nominato dal Governo il 16 dicembre 1859.

Il conte Annoni, d’antica famiglia patrizia milanese, era uomo
ricchissimo, benefico, di molto cuore, se non di molta testa. Da
giovane, tra le molte sue leggerezze, ci fu anche quella di entrare
volontario come ufficiale in un reggimento d’Ussari austriaci, per
amore, pare, della bella uniforme; ma quando venne il quarantotto,
piantò il servizio, e l’Austria gli mise sotto sequestro il ricco
patrimonio. Riparò a Torino, ove rimase esule fino al 1859: gli
rimanevano ancora altre ricchezze in Piemonte, delle quali fu
larghissimo verso tutta l’emigrazione, e per opere patriottiche e di
beneficenza. Diventò deputato, senatore, e in fine comandante della
Guardia Nazionale di Milano, ma per breve tempo, in causa, credo, di
dissensi col Ministero.

A Milano nell’autunno ero pure stato chiamato a diversi ritrovi, tra un
gruppo di amici che, per iniziativa di Cesare Giulini e del Correnti,
si proponevano di pubblicare un grande giornale politico, il primo che
doveva sorgere in Milano. Questi ritrovi erano tenuti di solito in casa
di Carlo d’Adda, e ci venivano Alessandro Porro, Luigi Sala, Antonio
Allievi, Giulio Carcano, l’ingegnere Guido Susani, Pacifico Valussi, il
Bonfadini ed altri che ora non rammento.

Il giornale doveva essere monarchico liberale, unitario; doveva
disporre di larghi mezzi, assicurandosi scrittori e corrispondenti
conosciuti per l’ingegno e per la rispettabilità; doveva chiamarsi la
_Perseveranza_, ch’era l’antico motto del patriottismo nazionale. Il
giornale fu fondato e uscì il 20 novembre del 1859.

Gli amici, e specialmente il Correnti, insistettero perchè anch’io
mi assumessi una parte fissa e costante nella redazione; ma per
diverse ragioni, e specialmente per una, non acconsentii: questa era
il riguardo che volevo usare personalmente a Carlo Tenca. Al Tenca
naturalmente era spiaciuto che una parte de’ suoi amici si raggruppasse
intorno a un nuovo giornale il quale avrebbe ucciso il _Crepuscolo_,
ch’egli continuava a pubblicare. Ma la cessazione del _Crepuscolo_ era
inevitabile all’affacciarsi dei tempi nuovi, e di fronte alle nuove
esigenze d’un giornale.

Il _Crepuscolo_, di piccolo formato, fatto per lettori colti, eletti,
aveva ormai compiuta la sua missione; missione di combattimento durante
i silenzi dello stato d’assedio, e nella resistenza tenace dei dieci
anni. Aveva resi grandi servigi patriottici, ma era fatale che nel
giorno del trionfo dovesse cadere, come altri eroi vittoriosi. Gli
intimi amici del Tenca, però, non potevano subito schierarsi nelle
nuove file di chi veniva a far le parti dell’erede fortunato: per ciò,
durante il breve tempo in cui il _Crepuscolo_ sopravvisse, mi tenni con
quelli che non vollero prender parte ad affrettarne la morte.

Non fu che più tardi, quando il _Crepuscolo_ cessò le sue
pubblicazioni, che acconsentii a scrivere per la _Perseveranza_ un
_Corriere_ settimanale letterario e di cronaca cittadina; _Corriere_
che durò appena un anno, poichè mi capitò presto sulle spalle un
assessorato municipale a Milano a darmi ben altre occupazioni.

In quell’autunno ricevevo di tanto in tanto delle lettere interessanti
da mio fratello Emilio, ch’era a Modena; mi scriveva dal palazzo
ducale ove risiedeva il Governo, cioè Farini col suo gabinetto, a cui
appunto apparteneva Emilio, facendovi le sue prime armi nel trattare
gli _affari esteri_. Le sue lettere eran piene di osservazioni acute
e piacevoli su quel Governo dittatoriale improvvisato, sostenuto
da un’opinione pubblica ammiratrice, ma diffidente, circondato da
entusiasmi, ma anche da timori; intanto gli sguardi erano fissi al
confine, al di là del quale stava accampato il piccolo esercito del
duca, pronto a marciare su Modena, per far valere i diritti riservati
dal trattato di Zurigo.

Quando, dopo la pace di Villafranca, furono richiamati dalle provincie
insorte i Commissari regi piemontesi, a Modena una grande dimostrazione
di popolo, un popolo di _prima categoria_, aveva acclamato dittatore
il Farini, già Commissario Regio, improvvisandolo anche cittadino
modenese. Il Farini rimase e accettò la dittatura per opporsi alla
restaurazione: Cavour allora dimissionario, a cui aveva chiesto
consiglio, gli aveva telegrafato: _il ministro è morto, l’amico vi
applaude_.

Quello stesso popolo poi, se veniva improvvisamente qualche cattiva
notizia, si affollava sotto i balconi del dittatore per rafforzare
colla volontà pubblica il Governo: e il Governo, che non cercava
di meglio, si piegava al voler del paese. Uno dei capi di queste
dimostrazioni buon patriotta e amico del Farini, era Paolo Ferrari, a
cui i suoi primi successi letterari e teatrali avevano già procurato
fama e popolarità.

Le condizioni politiche tra le quali si trovava il Farini erano
oltremodo difficili: le sole forze militari che aveva consistevano in
un battaglione di volontari in formazione, non tutto armato, chiamato
i _Cacciatori della Magra_, poi le squadre degli emigrati. Il duca
di Modena avrebbe potuto cogliere l’occasione favorevole, e col suo
esercito piccolo, ma bene ordinato, che aveva condotto seco nel campo
austriaco, passare il confine e piombare su Modena. Ma probabilmente
l’attitudine risoluta di Farini lo trattenne. Solo qualche tempo dopo,
quando le truppe toscane lasciarono i loro accampamenti sotto Mantova
per rientrare in Toscana, il Ricasoli le fece rimanere a Modena,
ch’era il punto più minacciato. Ma intanto l’occasione pel duca era
passata. Il Farini con l’abilità del suo Governo, con la forza del
carattere, superò ostacoli, pericoli, e trionfò: egli teneva in freno
gli esaltati, i paurosi e i malfidi; rincorava i patriotti, e spingeva
tutti sulla via d’una audacia saggia e disciplinata. Si può ben dire
che il Ricasoli e il Farini allora decisero, nell’Italia centrale, le
sorti dell’unità d’Italia.

Emilio nel settembre fece una scappata a Tirano, e così ci trovammo
riuniti, per qualche giorno almeno, intorno alla nostra buona
mamma, ch’era sempre agitata e perplessa tra l’entusiasmo pei grandi
avvenimenti che si succedevano, e le ansie per la vita randagia de’
suoi figli. Emilio approfittava intanto del suo breve riposo anche per
andare a caccia sui nostri alti monti, poichè fu sempre un cacciatore
appassionato. Io non lo seguivo, perchè con Nembrod ebbi sempre dei
rapporti freddi.

Contro i nostri calcoli e le nostre speranze, la dimora di quei giorni
a Tirano fu breve: Emilio dovette ritornare presto a Modena, e poco
dopo ritornammo noi pure a Milano.

Sul finire di quell’autunno la società milanese si affrettava a
ritornare in città, e a riaprire i propri salotti. C’era in tutti il
desiderio d’avviare un’invernata lieta, festosa, che rispondesse al
giubilo patriottico, e al bisogno di sollevare gli animi depressi per
tanti anni; tanto più che la brusca fermata della pace di Villafranca
principiava a lasciar adito a nuove speranze e a una nuova fiducia. Un
pessimista forse avrebbe potuto fare delle considerazioni meno liete.
E infatti al Mincio stava accampato l’esercito austriaco, mentre gli
italiani si preparavano a rompere il trattato di Zurigo; i principi
spodestati tramavano il ritorno nei loro Stati; Garibaldi aveva
lasciato il comando delle truppe dell’Italia centrale, additando nuove
imprese; tutta l’Europa seccata di noi ci dava sulla voce, e Napoleone
taceva.

Eppure, chi dubitava? Chi non teneva già in mano la vittoria
definitiva? C’era bisogno di credere, si voleva vivere nella certezza,
si voleva il giubilo sereno della vittoria.

Si pensi quale nuova onda di entusiasmi fosse entrata nel salotto
della contessa Maffei: ogni giorno vi comparivano nuovi presentati, e
le conversazioni vi si facevano sempre più animate, e quasi affolate.
Vi si vedevano molti vecchi emigrati allora rientrati in Italia, e
molti emigrati nuovi che venivano dalle provincie venete; parecchi
forestieri, molti ufficiali francesi; e i soliti adoratori del sole
nascente.

Fu sullo scorcio di quell’anno che vi conobbi la principessa Cristina
Belgiojoso Trivulzio, di cui avevo tanto sentito parlare in passato,
in casa mia, e tra gli amici. Essa ci venne qualche sera; le fui
presentato, fu con me gentilissima, e mi invitò a casa sua, di cui
divenni presto un frequentatore assiduo.

Quando la principessa Belgiojoso entrava in un salotto tutti gli occhi
si rivolgevano su lei. Era alta della persona, ma portava il capo un
po’ inclinato sul petto a cagione di una ferita che aveva ricevuta alla
nuca, mentre era in Oriente, da un assassino il quale aveva tentato
di ucciderla con un colpo di coltello. Aveva allora cinquant’anni; i
tratti dell’antica bellezza erano scomparsi dinanzi a una vecchiaia
precoce; ma gli occhi, grandissimi, conservavano tutta la loro antica
espressione.

A rendere più numerose e più gaie le feste, le festicciole e le
conversazioni nelle famiglie, contribuivano non poco i nostri nuovi
ospiti, gli ufficiali piemontesi e francesi. Questi ultimi erano in
maggior numero, anche perchè le nostre truppe erano scaglionate verso
il Mincio, e nell’Italia centrale; mentre a Milano c’era ancora una
forte guarnigione francese, col maresciallo Vaillant, che ne aveva il
comando in capo.

I francesi avevano avuto a Milano e in tutta la Lombardia, quella
calorosa accoglienza ch’era loro ben dovuta. Nelle fantasie popolari
era rimasta, fin dai tempi napoleonici, l’idea fatidica che i francesi
erano i predestinati a scacciare gli austriaci: si aveva quindi
una gran fede in essi e in Napoleone III. In ogni famiglia, d’ogni
classe sociale, era ancor viva la memoria del padre o del nonno che
aveva fatte le ultime campagne napoleoniche, nella _grande armata_,
o nell’esercito italico di Beauharnais. Erano stati sessantamila gli
italiani che Napoleone aveva condotti in Russia, e n’erano ritornati
ventimila, ma per questi Napoleone non aveva cessato d’essere un Dio,
adorato e invocato ancora dopo oltre quarant’anni.

I fantaccini francesi, e soprattutto gli zuavi, avevano presto fatta
amicizia con i popolani milanesi, anch’essi allegri, millantatori, e
poco amanti della disciplina. I soldati del mezzogiorno della Francia
avevano nei loro dialetti molti vocaboli, che somigliavano ai vocaboli
dei dialetti piemontesi e lombardi, sicchè l’intendersi non era
difficile e l’amicizia era più presto fatta.

Le autorità militari e le comunali avevano provveduto, subito dopo la
battaglia di Magenta, a impiantar ospedali pei numerosi feriti che le
ambulanze trasportavano a Milano. C’erano ospedali, antichi o nuovi,
pei feriti italiani, pei francesi, per gli austriaci, tutti diretti e
amministrati con larghezza e con amore. Moltissimi feriti erano stati
nei primi giorni raccolti nelle case private, presso le famiglie dei
cittadini; anzi ve ne furono raccolti troppi, sicchè le direzioni
mediche militari provvidero poi a far trasportare negli ospedali quei
feriti, pei quali erano meno opportuni gli alloggi privati.

Nelle famiglie signorili i feriti francesi ci rimasero più a lungo,
circondati da cure premurose, e talora da simpatie più che ospitali.
Da principio per un sentimento pietoso e generoso, poi anche per
una specie di _moda_, tutti avevano la smania di ospitare un ferito
francese. Non mancavano quindi gli episodi ameni, le storielle
piccanti.

A rannuvolare la luna di miele della libertà erano venute le nuove
leggi amministrative del ministro Rattazzi. Cavour, com’è noto, s’era
dimesso dopo la pace di Villafranca, il 19 luglio 1859, e gli era
successo il Ministero Lamarmora, nel quale era ministro dell’interno il
Rattazzi. Prevalendosi dei _pieni poteri_, votati dal Parlamento alla
vigilia della guerra, il Rattazzi pensò di dare una nuova legislazione
amministrativa alle provincie sardo-lombarde da poco riunite; la
quale sarebbe poi stata applicata a mano a mano alle nuove regioni che
andavano annettendosi. La legislazione del Rattazzi, mirava soprattutto
all’uniformità; al Rattazzi pareva con ciò di riuscire più rapidamente
nel concetto _unitario_, dimenticando che non si trattava di fondere
dei metalli, ma di tener d’accordo degli uomini; degli uomini che
avevano tradizioni secolari diverse nei bisogni, negli usi, e nelle
forme della vita civile e dell’amministrazione pubblica. Il principio
unificatore di Rattazzi divenne poi un dogma, un metodo, che mano mano
fu applicato a tutte le provincie d’Italia, procurando guai e malumori
che si trascinano da tanti anni, e che non cesseranno così presto. Il
Minghetti, spirito alto e coltissimo, propose poco dopo un sistema di
amministrazione regionale destinato a preparare il paese gradatamente
all’amministrazione unitaria; ma il _dottrinarismo livellatore_ ebbe il
disopra, e il Minghetti ebbe scarso seguito.

Nelle sue leggi affrettate il Rattazzi, impressionato forse
dall’amministrazione degli ultimi tempi del Governo austriaco, non
aveva pensato che le provincie lombarde avevano pur avuto, nella
seconda metà del secolo antecedente, delle amministrazioni saggie e
illuminate, quella austriaca di Maria Teresa e la napoleonica, che vi
avevano lasciato gli ordinamenti e le tradizioni amministrative di due
grandi Stati.

Queste provincie, rapidamente assimilate, si trovarono a disagio; e
ciò fu causa d’una grande impopolarità che in quei giorni piombò sul
capo del Rattazzi in Lombardia, suscitando discussioni e opposizioni,
ch’ebbero pure cattiva influenza politica.

In mezzo a questi malumori, imprudentemente suscitati, l’anno volgeva
alla fine: l’anno dei grandi avvenimenti, che mettevano la pietra
fondamentale dell’indipendenza e della libertà d’Italia. E ora spuntava
il 1860, che doveva, con altri mirabili fatti, darci l’unità della
Patria.

La storia d’Italia cercherà lungamente notizie, episodi, carteggi,
che possano illustrare le fortunose vicende di quei anni memorabili.
Questo pensiero mi spinge a scrivere ancora alcune pagine, per giungere
all’ultima meta, la proclamazione del Regno d’Italia, il faro di così
lunghe aspirazioni.


  NOTA.

  [37] Iniziatore del Comitato di soccorso per l’emigrazione veneta
  fu l’ingegnere Achille Villa; ne furono membri il conte Gaetano
  Manci, già podestà di Trento, il conte Stefano Medin di Venezia;
  il dottor Giovanni Soresina e Vito Bassano, mantovani; i signori
  Enrico Fano, conte Ignazio Crivelli, Antonio Grassi, Antonio
  Comerio, nob. Carlo Cagnola, marchese Carlo Ermes Visconti, Achille
  Villa di Milano: io ne fui eletto presidente, e fu segretario
  il conte Tiepolo veneto. Sorse anche un Comitato politico
  dell’emigrazione di cui furono membri i conti Giustiniani e Correr;
  comitato ch’ebbe pure molta parte nell’inviare un gran numero
  d’emigrati ad arrolarsi nell’Emilia; alle spese provvedeva il
  Comitato di soccorso per l’emigrazione.




CAPITOLO XXXV.

1860.


I.

  _Sommario:_ Finisce il giornale il _Crepuscolo_. — Vado a Modena
  dal Farini, poi a Bologna. — La famiglia e i segretari di Farini.
  — Cavour ritorna al Governo. — Massimo d’Azeglio Governatore di
  Milano. — I Municipii del Lombardo-Veneto al tempo del Governo
  austriaco. — Le nuove elezioni amministrative. — Antonio Beretta
  Sindaco di Milano. — L’ospitalità e i ricevimenti di casa Beretta.
  — Feste e ricevimenti in molte famiglie. — Casa Crivelli. — I
  coriandoli. — Le signore d’allora. — Gli ufficiali francesi. — Il
  maresciallo Vaillant. — Entrata di Vittorio Emanuele in Milano il
  18 febbraio. — Ricevimenti del Re a Corte. — Alessandro Manzoni.
  — Sottoscrizione, proclamata da Garibaldi, per un milione di
  fucili. — Elezioni politiche pel 25 marzo. — Riunioni elettorali.
  — Il Circolo politico detto delle _Galline_. — I giornali. — Il
  _Pungolo_, la _Perseveranza_ e l’_Unità Italiana_. — Le elezioni
  politiche eclettiche di Milano. — Crispi negli uffici della
  _Perseveranza_. — Notizie e preparativi per la spedizione di
  Sicilia.

Col principiare del 1860 il giornale il _Crepuscolo_ cessò la sua
pubblicazione. Quella prima domenica, in cui non comparve il vecchio
e glorioso _Crepuscolo_, fu mesta come il giorno in cui scompare per
sempre un amico fidato, col quale si sono divisi i dolori e le ansie
di giorni memorabili nella vita. Ma la missione del _Crepuscolo_
era finita; il giornale la _Perseveranza_ aveva fin dal novembre
principiato le sue pubblicazioni.

Carlo Tenca diventò poi in quell’anno deputato al Parlamento,
Assessore Municipale e membro della Commissione per gli studi. Fu il
fondatore della scuola superiore femminile municipale, che pel sapiente
ordinamento venne poi in Italia presa a modello per altri istituti
simili.

In Parlamento e in Municipio, circondato da un’alta stima, il Tenca fu
indefessamente e modestamente operoso. Morì il 4 settembre del 1883. I
suoi ultimi anni furono conturbati dal fallimento d’una banca, in cui
aveva depositato i risparmi del suo lavoro e della sua parsimonia: si
ritirò allora dalla vita politica, e senza querimonie chiuse la vita
povero, in un dignitoso silenzio.

Nell’Emilia il Farini mirava a radunare il maggior numero di volontari
per opporli alle truppe estensi, che il duca di Modena teneva presso il
Po, pronte a oltrepassare il confine e a rioccupare il ducato. Intanto
tra il dittatore e il Comitato milanese per l’emigrazione veneta
correvano trattative e intelligenze per dirigere su Modena tutti gli
emigrati validi alle armi, e per aggregarli ai corpi che si andavano
formando e aumentando.

Durante quelle intese, desiderai vedere il Farini, e mi recai a Modena
ove fui ospite di lui nel palazzo ducale.

Qualche giorno dopo seguii a Bologna Emilio, che vi si recava
per affari d’ufficio, e ci si stette alcuni giorni. Bologna era
animatissima, tutta movimento ed entusiasmo patriottico. Le contesse
Tattini e Zucchini, sorelle, nate Pepoli, la cui madre era una figlia
dell’ex Re di Napoli Murat, riunivano alternativamente nei loro
salotti il _mondo elegante_, militare e politico, bolognese; e a quelle
conversazioni dava non poca attrattiva la bellezza e lo spirito delle
padrone di casa. Il conte Gioacchino Pepoli, loro fratello, che fu poi
deputato, ministro e ambasciatore a Pietroburgo, era in quei giorni uno
dei capi, nelle Romagne, del partito liberale e annessionista.

Il dittatore Farini aveva riuniti in sè, direttamente, tutti i poteri,
con un gabinetto composto di giovani segretari, tra i quali c’erano
il Riccardi, piemontese, per gli affari interni, e mio fratello per
gli affari esteri; questi giovani, di cui nessuno passava la trentina,
vivevano quasi come figli nella famiglia del Farini.

Il maggiore dei figliuoli del Farini, Domenico, era ufficiale del
Genio: fu poi maggiore di Stato Maggiore, deputato e presidente della
Camera, e alla fine presidente del Senato. L’altro figlio, Armando, era
ufficiale dei bersaglieri: ferito in guerra, morì poco dopo. Finita la
dittatura la figlia Ada sposò il Riccardi, che poco dopo il matrimonio
morì a Napoli. Questa sventura domestica diede una scossa fatale alla
salute del Farini.

Il Farini, nella conversazione e nel tratto, era piacevole e franco,
con una certa solennità romagnola. Amico e ammiratore di Cavour, ne
interpretava e ne seguiva la politica, con audacia e con senno: guidò
e compì con mano ferma e sicura l’annessione dell’Emilia al Piemonte,
traverso le più gravi difficoltà diplomatiche, ed esercitò la Dittatura
con idee larghe e liberali, e colla fermezza dell’uomo di Stato.
Nei giorni in cui fui a Modena, voleva trattenermi e mi fece le più
gentili offerte: aveva nominato in quei giorni Governatore di Ravenna
il marchese Di Rorà torinese, e voleva che lo accompagnassi come
consigliere delegato. Pensai alla mia buona mamma, che già s’affliggeva
per le assenze di Emilio, e non accettai l’offerta.

Il ritorno al potere del conte di Cavour, il 21 gennaio 1860,
richiamato si può dire da tutta Italia, veniva a rinfrancare in tutti
la fiducia e ad imprimere alla politica italiana l’audacia e insieme la
sicurezza. La notizia del suo richiamo veniva accolta e festeggiata da
tutti come una gioia domestica.

Al ritorno di Cavour seguì la nomina del d’Azeglio a Governatore di
Milano: così quelle sale del palazzo di Governo, che per quasi mezzo
secolo erano state la sede di governatori forestieri, ora accoglievano
il fiore della società milanese che andava ai ricevimenti di Massimo
d’Azeglio. Parevano sogni!

L’Azeglio appariva allora di molto invecchiato, ed era di salute
cagionevole: ma era sempre lui; giovane d’animo e ricco di spirito.
La sua conversazione era piacevolissima, ricca di aneddoti, di
osservazioni argute e di fine ironia. Non sempre però egli partecipava
ai nostri entusiasmi pel Cavour, di cui apprezzava l’ingegno, ma non
approvava sempre l’audacia. Tra i due uomini illustri c’era un dissenso
latente, che gli avvenimenti andarono sempre più aggravando.

Uno dei primi atti del governo in Milano del d’Azeglio, governo
durato pochi mesi, fu l’inaugurazione del nuovo Consiglio Comunale.
L’amministrazione del Comune, libera e affidata a un corpo elettivo,
era un fatto nuovo pei nostri paesi, indipendenti da poco.

I Municipii, colla legge austriaca, erano divisi in municipii cittadini
e rurali. I consiglieri nelle città erano scelti a vicenda tra i primi
cento più altamente censiti. Il Consiglio aveva a capo una Giunta, e un
Podestà nominato dal Governo: nei piccoli comuni era formato da tutti
i censiti, e si chiamava _Convocato_. La parte esecutiva era affidata
a tre _deputati_; e il _primo deputato_ poteva anche essere una donna,
che però si faceva rappresentare. I Podestà, le Giunte, i Deputati,
facevano eseguire i regolamenti di sanità e di sorveglianza municipale.
Ma erano corpi soltanto consultivi e ogni loro deliberazione doveva
ottenere l’approvazione del Governo.

Pur nei limiti ristretti delle loro attribuzioni, questi municipi
avevano amministrato con saviezza e con onestà. Prima del ’43 ne
avevano fatto parte le più notabili persone tra i possidenti lombardi;
ma poi, durante lo stato d’assedio, e nel decennio della resistenza,
i rapporti colle autorità militari e civili austriache allontanarono
anche dalle cariche municipali i migliori; così gli avvenimenti del
1859 trovarono i Municipi lombardi deboli e impopolari. Nei primi
giorni della nostra liberazione, il Governo, non potendo provvedere
subito alla rinnovazione delle autorità municipali e delle Giunte, le
rinforzò coll’aggiungervi dei cittadini noti pel loro patriottismo e
per la loro rispettabilità.

Le elezioni comunali di Milano furono indette pel 15 gennaio
1860, e vennero, naturalmente, precedute dal costituirsi di vari
circoli e da riunioni. La lotta elettorale, in questa luna di
miele dell’indipendenza, non fu però difficile, e si riuscì a una
lista unica, solo alquanto ingiusta verso taluni degli antichi
amministratori, che pure avevano reso dei servigi, come il Podestà
conte Luigi Belgiojoso.

Il sindaco era di nomina governativa; e il ministero, ossia Cavour,
scelse tra i consiglieri comunali a sindaco di Milano Antonio Beretta.
La scelta non poteva essere migliore, come il fatto provò durante i
sette anni in cui egli fu a capo dell’amministrazione cittadina.

Antonio Beretta era stato membro del Municipio, poi del Governo
Provvisorio di Lombardia nel 1848. Aveva amministrato le finanze
durante il Governo Provvisorio, e l’Austria non riconoscendo tra
gli atti di lui che quelli dell’amministrazione ordinaria, gli aveva
addebitato tutte le altre spese mettendogli sotto sequestro l’intero
patrimonio, che a quel tempo era abbastanza cospicuo. Il Beretta aveva
intentato una lite al Governo austriaco per questo fatto, mettendosi
sotto l’egida del trattato di pace stipulato tra l’Austria e il
Piemonte. La lite, abilmente condotta dai suoi avvocati, si protrasse
fino al 1859, e così si evitò che l’intero patrimonio fosse confiscato.

Il Beretta non era un uomo di alto ingegno, o di molta coltura, ma
era grande in lui l’equilibrio della mente e del carattere: era buono,
generoso, conciliante. Abile amministratore, amante della sua città,
ne intravvide i destini prosperi a cui era chiamata, e ne preparò
l’avvenire iniziando grandi lavori pubblici, e riforme in ogni civile
istituzione. La galleria Vittorio Emanuele fu pensata e voluta da
lui[38].

Il Sindaco e la Giunta si misero al lavoro con assiduità e con
entusiasmo, dovendo riformare, a seconda delle nuove leggi,
l’amministrazione lasciata dall’Austria.

Nei primi mesi io tenni la pubblica istruzione e la sopraintendenza
scolastica: poi il Beretta volle affidarmi la sorveglianza urbana,
nella quale s’era avviata una larga riforma di regolamenti e di
istituzioni. Rimasi però nella Commissione scolastica, una delle nuove
istituzioni deliberate dalla Giunta: era una Commissione consultiva
permanente, rinnovabile, che sorvegliava e faceva proposte su quanto,
nella pubblica istruzione, spettava al Comune; destinata a conservare
le tradizioni negli ordinamenti, di fronte alla mutabilità degli
assessori; e ad essa dovevano appartenere dei cittadini notoriamente
autorevoli nella istruzione pubblica.

Per ogni ramo dell’amministrazione ferveva in quei giorni, negli
ufficî municipali, una assidua attività di studi e di lavori, sotto
l’instancabile impulso del sindaco Beretta, il quale aveva occhio a
tutto e prendeva iniziative in tutto. Oltre di ciò egli esercitava
in casa sua una larga ospitalità: i ricevimenti, i pranzi, i balli di
casa Beretta andavano famosi per la festività e la cordialità che vi
regnavano.

Il Beretta diventò in breve popolarissimo, e Cavour soleva dire che la
nomina di lui era stata veramente indovinata.

Durò in carica sette anni, ma alla fine anche la sua stella si offuscò;
ed egli dovè lasciare la carica di fronte ad un’accanita opposizione di
carattere politico. Nominato senatore, lasciò Milano, e prese dimora
a Roma. La sua fine non fu quella che avrebbe meritata un uomo tanto
benemerito, e fu rattristata da mali fisici e da sventure domestiche.
Diventò cieco, e cadde in condizioni di fortuna così misere, che a lui
dovette provvedere l’affetto degli amici.

Oltre alle feste di casa Beretta, in quell’invernata ci furono non
pochi ricevimenti e feste nelle principali case del patriziato e
della borghesia ricca. C’era in tutti una smania, si sarebbe detto, di
rifarsi del passato, e di dimenticare i lutti degli anni scorsi.

Il giorno 16 febbraio Vittorio Emanuele faceva l’entrata ufficiale
in Milano, a cavallo, tra l’entusiasmo della popolazione, che gli
affollava intorno e non ristava dall’acclamarlo, quasi con delirio: lo
seguivano Cavour e il corpo diplomatico. Poche sere dopo diede un gran
ballo con inviti estesissimi.

Per la prima volta, la nuova generazione entrava nel palazzo di Corte.
Gli invitati non ristavano dall’ammirare le ampie e sfarzose sale,
e guardandosi d’attorno, con nuovo e grande compiacimento tutti si
dicevano l’un l’altro: Non ci sono più (gli austriaci s’intende), sono
proprio andati!

Seguirono i ricevimenti ufficiali, e poi per parecchi giorni quelli
di infinite deputazioni milanesi e della provincia, e le udienze, e le
visite private. Vittorio Emanuele, con quel suo fare franco e risoluto,
che pareva sprezzasse ogni etichetta, più di quanto ciò fosse vero, e
trovando sempre il modo di piacere, esercitava un fascino grandissimo,
e tutti uscivano dalle sue udienze entusiasti.

In quei giorni ebbi l’occasione d’esser ricevuto con delle deputazioni,
tre volte; e per tre volte sentii dal Re parole e discorsi differenti,
intonati a quanto presumibilmente poteva piacere a quelle deputazioni
stesse. Colle une parlava il linguaggio della prudenza politica e della
gravità del momento; con altre aveva l’aria di sfogare tutto l’ardore
del suo animo, e usciva nei più audaci propositi. Così ce n’era per
tutti, e discorreva con quella finezza o furberia politica, che gli fu
sempre di guida nelle fortunose vicende del suo Regno.

Tra quelli che gli chiesero udienza ci fu Alessandro Manzoni, che, per
la prima volta in vita sua, rendeva omaggio a un principe, e andava
modestamente a ringraziarlo di quegli atti di favore e di quegli onori,
che aveva sempre rifiutati da tutti i Sovrani per poter rifiutare gli
onori del Governo austriaco.

Vittorio Emanuele accolse il Manzoni colla gentile familiarità e
coll’espansione con cui avrebbe potuto accogliere un suo pari; e quando
si congedarono, il Re, datogli il braccio, lo accompagnò traverso le
sale e, per lo scalone, fino nella corte del palazzo. Il Manzoni, nella
sua modestia, non parlò mai di questo episodio, e lo seppi poi da suo
figlio Pietro ch’era con lui.

Tra i balli di quei giorni, ce ne fu uno sfarzosissimo nel palazzo
della duchessa Visconti di Modrone, al quale intervennero Cavour e
il corpo diplomatico; e un ballo pure elegantissimo in costume ci fu
in casa del marchese Trotti, e venne poi ripetuto alla Società degli
Artisti.

In questo rifiorir di feste e di divertimenti pubblici dovevano
necessariamente rifiorire anche i _coriandoli_. I corsi mascherati, e
il getto dei coriandoli, nei giorni del carnevalone milanese, erano
stati proibiti, nè sarebbero stati possibili durante gli anni dello
_stato d’assedio_. Il divertimento dei coriandoli aveva in sè qualcosa
di sfrenato, eppure non trascendeva quasi mai a quegli eccessi che
si potrebbero ora supporre. Era un freno l’antica consuetudine; la
gente d’ogni classe, ciascuno a suo modo, ci si divertiva; tutti ci
mettevano della benevolenza e del buon umore, poichè tra le classi alte
e le classi basse, nell’antico popolo milanese, non c’erano odii, non
c’erano antipatie. La servitù straniera aveva reso tutti eguali nel
dolore, solidali nelle speranze; e nelle classi alte era tradizionale
l’inesauribile carità, che era riconosciuta e ricambiata con un
sentimento di rispetto e di benevolenza.

Un divertimento sfrenato come quello dei coriandoli non sarebbe
più possibile nella nuova Milano, affaccendata e composta di tanti
elementi così diversi, in mezzo ai quali i vecchi milanesi si trovano
in minoranza. Anche la lotta dei coriandoli diventerebbe una _lotta
di classe_; il coriandolo ilare e benevolo non sarebbe ora neppure
_programma minimo_; ma ci sarebbe il coriandolo violento e iroso. La
lotta a coriandoli tra i carri mascherati e i terrazzini delle signore
non sarebbe ora possibile che colla scorta dei carabinieri; se pure...

Gli ufficiali francesi prendevano una larga parte al getto dei
coriandoli, tanto nuovo per loro, e ci godevano un mondo. Frequentavano
pure in gran numero le feste e i ricevimenti cittadini, ove si
incontravano anche molti forestieri, venuti a veder Milano in quei
giorni di commozioni politiche e di pubblici festeggiamenti.

Inutile dire che tra i venuti c’era uno sciame di _reporters_ e di
uomini politici a spasso. Tra i _reporters_ ricorderò anche una nota
scrittrice francese, _madame Colet_, che avevo conosciuta in casa
Maffei, e a cui dovetti far da cavaliere più volte, poichè amava
cacciarsi dappertutto. Era venuta a raccogliere notizie e episodî
italiani per un suo libro futuro; e certamente non a divertire quelli
da cui li voleva attingere.

Quando sfoglio qualche mio vecchio _album_ di quel tempo, quante
ricordanze e quante meditazioni! Li chiamavo, a quel tempo, gli
_albums_ delle belle signore, e ora son gli _albums_ delle nonne, e
anche pur troppo dei cimiteri!

In quegli anni del risorgimento politico si sarebbe detto che ci
fosse anche un risorgimento della _Bellezza_: nelle feste di ballo,
nei teatri, ai passeggi, le signore bellissime erano in una grande
maggioranza; i forestieri ne erano ammirati.

I vecchi _albums_, chi li osserva e li medita, hanno sempre un fascino
irresistibile; quello del passato, che ci par di tanto più bello,
perchè è il fascino della gioventù e del tempo che fu nostro.

Quei ritratti che ci passano dinanzi ci risvegliano nella memoria nomi
cari d’amici, dolorosi rimpianti, e storie ed episodi, ora ameni, ora
tristi, ora scabrosi, ma che il tempo, che è giusto, ha già ravvolti
nel suo velo indulgente. Tra i ritratti delle persone d’allora, rivedo
quelli degli ufficiali francesi, che prendevano una parte sincera e
gaia alle nostre feste: conservo un _album_ tutto dedicato a loro.
Ecco, sfogliandolo, i capitani Magnan, figlio del maresciallo, e
Teodoro Yung, che appartenevano allo Stato Maggiore del maresciallo
Vaillant. L’Yung sposò poi una contessa Kaula, che nel 1870 fu accusata
di spionaggio, e levò un rumore infinito: divenne segretario generale
del ministro della guerra Boulanger, ma seppe togliersi in tempo da
quelle acque torbide. Si conservò amico attivo dell’Italia, e fondò la
lega Franco-Italiana.

Ecco due brillanti capitani degli usseri, ammiratori ed ammirati nelle
nostre feste, il marchese di Louvencour, e il conte di Vogüé, che fu
tra i primi a morire a Wörth nel 1870. Poi viene un gruppo d’ufficiali
d’artiglieria, Laprade, la Ville Huchet, Flye de Saint Marie e il conte
di Novion che s’era distinto assai a Solferino; questi aveva molta
coltura, specialmente artistica, e conservo di lui parecchi dipinti
all’acquarello. Rimanemmo amici, e un giorno nel 1871 ricevetti una sua
lettera da una fortezza tedesca, ove era stato condotto prigioniero
da Sedan. Egli voleva ottenere, per mezzo di mio fratello, ch’era
ministro, e dell’ambasciata italiana a Berlino, di far parte del corpo
francese di spedizione contro la Comune, chiesto da Thiers a Bismark. E
l’ottenne. Quali terribili vicende! Più tardi passò in Algeria, e morì
generale di divisione.

Poi ne seguono altri, d’ogni arma e d’ogni grado, e l’_album_ continua
a rievocarmi storielle amene, e vicende tragiche. Chi avrebbe detto a
quei giovani francesi, giustamente alteri per le recenti vittorie, e
a cui tutto arrideva nell’avvenire, che dopo dieci anni li aspettava
una così grande sventura! Ne rividi ben pochi; parecchi morirono nella
guerra del 1870 e del ’71.

Ma non c’erano solo gli ufficiali giovani e socievoli, tra i francesi;
c’erano anche i vecchi, i brontoloni, poco amici dell’Italia, che non
si divertivano, e che andavano poco o punto in società. Di questi ne
rammento alcuni, ma non li ritrovo negli _albums_.

«C’est beau votre carnaval» brontolava in un crocchio, una sera di
veglione alla Scala, un colonnello di fanteria, «c’est beau, mais c’est
cher; ça nous coûte quatorze mille fantassins français couchés sur vos
plaines. On aurait pu bien s’amuser à meilleur marché!»

Chi brontolava più di tutti, apertamente e senza troppi riguardi, era
il maresciallo Vaillant, rimasto in Lombardia, quale comandante in capo
dell’esercito francese d’occupazione, dopo i preliminari della pace di
Villafranca, e dopo il ritorno in Francia di Napoleone.

Il maresciallo alloggiava, e ci aveva il suo quartier generale, nella
Villa Reale, situata nei vecchi giardini pubblici, nella quale pochi
anni prima era morto il maresciallo Radetzki.

Il sindaco Beretta procurava in tutti i modi di essergli ospitale e
cortese, ma il maresciallo, riservato e freddo aveva sempre il fare
annoiato d’uno che adempie a un ufficio di malincuore. Era il vero tipo
del militare _grognard_.

Il Municipio e i cittadini lo invitavano sempre alle feste pubbliche, o
private, ed egli si scusava sempre, e non ci interveniva mai. Di solito
riceveva le visite nel bel giardino della villa. Riceveva vestito d’una
giacca di tela, e con un gran cappello di paglia, come un coltivatore,
non scomodandosi troppo nelle sue occupazioni preferite, ch’eran quelle
di giardiniere.

Eravamo nei giorni in cui gli avvenimenti dell’Italia centrale tenevan
gli animi nostri sospesi in una continua ansia patriottica, e il
maresciallo evitava ogni discorso politico non parlandoci che di
_greffages_ e di _boutures_. Fu in uno di quei giorni di tanta ansietà
per noi, che scrisse al sindaco domandandogli che gli procurasse...
cinquanta rospi per risanare il giardino invaso da non so quali
insetti; e scusandosi, come di solito, per un invito, finì col dire al
sindaco, senza far complimenti, _vos annexions me désanexionnent_.

Intanto Napoleone lasciava dire, e ci lasciava fare.

Mentre gli animi erano rivolti ansiosamente alle difficoltà in mezzo
alle quali Cavour conduceva con fermezza la politica italiana, già
apparivano sull’orizzonte nuove aspirazioni, e l’inizio di nuovi fatti.

Garibaldi, con un proclama, s’era rivolto agli italiani aprendo una
sottoscrizione per _un milione di fucili_. Il milione di fucili era
una parola d’ordine, che pur ispirandosi al linguaggio figurato di
Garibaldi, alludeva a nuove imprese, e a nuove iniziative. Ma Garibaldi
stesso, forse per non sollevare delle inquietudini e per far atto di
concordia, mise a capo della sottoscrizione Giuseppe Finzi ed Enrico
Besana, due patriotti amici suoi e di Cavour. La sottoscrizione servì
poi a provvedere, non un milione, ma un buon numero di fucili, e
preparò in parte le spedizioni per la Sicilia, soprattutto, credo,
quella del Medici.

Cavour, intanto, si preparava a far le elezioni, per avere anche
l’appoggio parlamentare delle vecchie e nuove provincie del Regno,
nella sua politica nazionale. Il 25 di marzo anche Milano fu chiamato
per la prima volta ad eleggere i suoi deputati al Parlamento.

Le elezioni milanesi furono, naturalmente, precedute da riunioni e da
qualche circolo elettorale. Quella concordia che aveva presieduto alle
elezioni comunali, per quanto recente, si andava già dissipando. Il
principale dei circoli politici, che si formò allora, fu soprannominato
il circolo delle _Galline_, perchè si radunava nei locali d’una scuola
posta su una piccola piazza detta appunto delle _Galline_, dietro la
via Bassano Porrone, scomparsa ora e sepolta in parte sotto il palazzo
del _Credito Italiano_.

Questo circolo, che per molti anni ebbe in Milano una grande influenza
elettorale, fu un circolo _di terzo partito_, ed ebbe a suo portavoce
e a ispiratore un giornale chiamato il _Pungolo_, diretto da Leone
Fortis. Vi appartenevano in gran numero avvocati, che colla parola
abbondante e facile, in quei primi tempi preceduti da così lungo
silenzio, vi esercitavano un assoluto predominio. In quegli avvocati
il senso politico era spesso velato o travolto dalle sottigliezze
giuridiche. Il circolo delle _Galline_ non era coi radicali, ma era di
opposizione al Governo quasi sempre, perchè non gli pareva mai d’essere
_indipendente_ abbastanza.

I suoi primi attacchi furono contro quel gruppo di persone che
negli anni antecedenti in secreto o palesemente, avevano avuto negli
avvenimenti del paese una parte dirigente. L’intendersi, tra le due
parti, non avrebbe dovuto essere difficile; ma tra loro si conoscevan
poco, e si guardavano con sospetto; e gli uomini, come dice Manzoni,
tra le loro prerogative, hanno anche quella di amarsi o di odiarsi
senza conoscersi. Gli uni erano rappresentati dalla _Perseveranza_, per
gli altri stava con la lancia in resta il _Pungolo_. Questo introdusse
più tardi un nomignolo che fece fortuna, e chiamò _consorti_ gli
amici dei ministeri moderati. Così la _consorteria_, nome astratto
e misterioso, e perciò tanto più adatto a commovere le fantasie,
allignò subito anche in altri paesi; anzi parecchi se ne contesero
l’invenzione, e diventò per un pezzo un bersaglio comodo per tutti,
come se avesse corpo e forma.

I repubblicani, naufraghi del passato, avevano un’associazione, e un
giornale, diretto da Maurizio Quadrio, chiamato l’_Unità Italiana_,
giornale che aveva poca influenza, astioso soprattutto contro gli amici
d’un tempo; attaccò più volte anche mio fratello Emilio, che, più tardi
poi, ebbe un duello con Maurizio Quadrio.

In quelle prime elezioni due collegi proclamarono a Milano la
candidatura di Cavour e di Farini, due nomi superiori ad ogni
discussione, che furono acclamati e eletti da tutti. Le _Galline_
accettarono, per quella prima volta, Carlo Tenca, cavouriano; vollero
l’avvocato Antonio Mosca, nuovo nella politica e indipendente; e fecero
votare pel dottor Agostino Bertani mazziniano, e per Carlo Cattaneo
repubblicano, federalista, e anche astensionista. Che pasticcio!

Queste prime elezioni sorpresero Cavour, il quale avrebbe voluto avere
dalle principali città una dimostrazione che in faccia all’Europa lo
appoggiasse nella sua politica delle annessioni dirette alla formazione
del Regno d’Italia. «Non so con quale criterio» esclamò «a Milano mi
abbiano messo insieme con un mazziniano e con un federalista!» Cavour
in quelle elezioni era stato eletto nel Regno in otto collegi.

In quei giorni il Farini aveva mandato mio fratello Emilio a Parigi
con una missione che riguardava la questione delle annessioni, e
fu questa la sua prima missione diplomatica. A Parigi ricevette la
notizia della sua nomina a deputato di Tirano: aveva appena qualche
mese prima compiuto i trent’anni. Una seconda missione l’ebbe l’anno
dopo da Cavour, che lo mandò a Londra per dare ai ministri inglesi
quelle informazioni, sui plebisciti e sugli affari di Napoli, che
meglio potevano giovare per mantenerli in disposizioni favorevoli,
e porli in grado di difendere la nostra causa contro le accuse che,
nel Parlamento, ci erano mosse dagli irlandesi e dai conservatori
clericali.

Nell’aprile di quell’anno vidi per la prima volta e conobbi il Crispi.
Lo conobbi negli uffici della _Perseveranza_, ov’egli andava a scrivere
delle corrispondenze e dei telegrammi, che venivano dalla Sicilia e nei
quali erano amplificati fatti e notizie sui successi e sull’estendersi
di alcuni moti rivoluzionari dell’isola. Egli faceva capo alla
_Perseveranza_, appunto perchè le sue notizie fossero meglio credute,
e anche perchè vi erano premurosamente accolte. Quei moti, in realtà,
languivano, e si temeva che i borbonici in breve disperdessero gli
ultimi insorti. Ma il Crispi, che meditava la spedizione di Sicilia, e
voleva indurre i suoi amici a parteciparvi, e prima di tutti Garibaldi,
era intento a convincere che la rivoluzione siciliana trionfava, e che
s’aspettavano solo soccorsi e volontari.

Sulla fine dell’aprile, Crispi ci confidò che ogni esitazione era vinta
in tutti, e che si organizzava rapidamente una spedizione capitanata da
Garibaldi. Il Sirtori, che fino allora s’era tenuto in riserbo, decise
di unirsi alla spedizione. Giuseppe Finzi, che raccoglieva il milione
di fucili, fu chiamato a Torino da Cavour.

In quei giorni il mio amico Costantino Garavaglia, allora banchiere,
noto pei suoi sentimenti patriottici, mi confidò d’aver avuta una sera
la domanda urgente d’una somma dal Governatore Massimo d’Azeglio, di
circa trecento mila lire in cambiali, che sarebbero state pagate presso
il gabinetto di Cavour, e che d’intesa con Azeglio lì per lì aveva
consegnate al capitano garibaldino F. Chiassi[39].

Evidentemente quella somma, richiesta in quel giorno e in quell’ora,
doveva servire, come pensammo dopo, alla spedizione di Garibaldi; come
la chiamata del Finzi a Torino si connetteva all’affare del _Piemonte_
e del _Lombardo_, i due vapori della spedizione dei Mille. Tutte cose
che forse si sapranno esattamente un giorno.

Si pensi con quale entusiasmo, e con quale ansietà, ogni patriotta
seguisse col pensiero e col cuore la meravigliosa spedizione, che
pure in quel tempo di avvenimenti straordinari superò quanto di più
fantastico si potesse mai immaginare.


  NOTE.

  [38] Primo atto del Beretta, quale sindaco, fu di scegliere
  la Giunta circondandosi di amici coi quali era maggiormente in
  comunione di opinioni e di intenti. La simpatia che lo circondava
  gli rese facile l’avere il consenso di tutti quelli a cui s’era
  rivolto, e il Consiglio pressochè unanime elesse ad assessori
  l’arch. Brocca, l’ing. Alessandro Cagnoni, Carlo Cagnola, Giuseppe
  Finzi, Tullo Massarani, Marzorati, Giuseppe Robecchi, Luigi Sala,
  Lodovico Trotti, Francesco Vitali, Giovanni Visconti-Venosta. A
  riempire poi qualche vuoto furono poco dopo nominati Carlo Tenca,
  Paolo Belgiojoso e il dottor Giuseppe Terzaghi.

  Furono membri della prima Commissione degli studi, eletta nel 1860,
  Cesare Correnti, i prof. Luigi Rossari e Giovanni Cantoni, gli
  assessori conte Paolo Belgiojoso e Giovanni Visconti-Venosta, con
  Carlo Tenca relatore. Paolo Belgiojoso fu poi per parecchi anni
  sopraintendente scolastico.

  [39] «_Carissimo amico_,

  «Rispondo con piacere alla tua domanda.

  «Un sabato sera, recandomi come di consueto al Club dell’Unione
  verso la mezzanotte, vi trovai un biglietto del marchese Massimo
  d’Azeglio, che mi invitava a recarmi da lui per un affare
  urgentissimo.

  «Vi corro immediatamente e, tosto introdotto, d’Azeglio mi viene
  incontro sorridente e mi dice: Mi occorrono per domattina 250 o 300
  mila lire e le voglio in oro tanti pezzi da 20 franchi. «Risposi
  che li avrebbe avuti alla prima ora di lunedì, ma che in domenica,
  colle banche chiuse, mi era impossibile procurarmi in oro la somma
  che mi chiedeva.

  «Egli allora si avvicinò ad altra persona seduta in fondo alla
  sala, e che nella semioscurità non avevo ancora avvertita, e,
  scambiate con essa alcune parole, tornò da me e mi disse:

  «— Mantenetemi il segreto — ma sappiate che è il Conte di Cavour
  che mi ordina di consegnare domattina al capitano Chiassi la
  somma indicata. Tutto quello che posso concedervi, per lasciarvi
  un’ora di più, è di mandare il Chiassi medesimo al vostro studio a
  prendere la somma.

  «Capii facilmente che si grattava di cosa grave e risposi
  senz’altro che avrei atteso alle ore 11 il capitano.

  «L’Azeglio prendendomi sotto braccio mi accompagnò fino
  all’anticamera, raccomandandomi ancora il più assoluto segreto.

  «Confesso che non ero tranquillo, temevo di non potermi procurare
  una somma relativamente forte in oro, in un giorno festivo ed in
  poche ore, tanto più che non potendo dare spiegazioni di tanta
  urgenza, non potevo rivolgermi che a quei pochi amici che supponeva
  non me ne avrebbero domandate.

  «Il banchiere Carlo Brot ed i fratelli Ronchetti mi diedero tutto
  l’oro che avevano in cassa (circa 7000 marenghi), altri di cui
  non ricordo il nome altrettanto; e un 2000 circa avevo nella cassa
  della mia Ditta: alle ore 10 tutta la somma era pronta.

  «Alle ore undici il Chiassi, che conoscevo, coll’aiuto del facchino
  Scotti portò i sacchetti nella vettura e se ne andò. Mi domandò
  prima se occorreva rilasciare ricevuta, dissi di no, e mi accorsi,
  mentre mi stringeva fortemente la mano, che era molto commosso.

  «Il giorno dopo d’Azeglio mi mandò in rimborso tante sue
  accettazioni di L. 50.000 cadauna pagabili presso il gabinetto del
  ministro Cavour.

  «Due o tre giorni dopo si seppe della partenza di Garibaldi da
  Quarto. Mi parve di capire.

  «Ti stringe cordialmente la mano

                                                        «Tuo aff.mo
                                           _Costantino Garavaglia_.

  «Sig. Comm. _Giovanni Visconti-Venosta_».




CAPITOLO XXXVI.

1860.


II.

  _Sommario:_ Forestieri a Milano. — Faccio la conoscenza di
  Alessandro Manzoni. — La sua famiglia e i frequentatori soliti
  della sua conversazione serale. — Le sue abitudini, i suoi
  discorsi. — L’abate Ceroli e il prof. Luigi Rossari. — Don Pedro
  imperatore del Brasile. — Omaggi pubblici a Manzoni.

Dopo la spedizione dei _mille_, ci fu, com’è noto, quel succedersi
d’avvenimenti nelle provincie meridionali, dai quali uscì l’unità
d’Italia. Alle generazioni future la storia parlerà di quei fatti
memorabili, snebbiando leggende già formate, e coi documenti ne
darà una visione più completa di quella che ne ebbero gli stessi
contemporanei.

I prodigiosi avvenimenti che succedevano in Italia, vi facevano
accorrere in quei giorni uomini politici e giornalisti d’ogni paese,
che venivano a vedervi lo spettacolo d’una nazione che risorge.
Parecchi ammiravano, molti rimanevano scettici, e alcuni parevano quasi
seccati di ritrovare dei vivi, dove erano abituati a passeggiare tra le
ruine e tra i sepolcri.

Di questi forestieri ne incontravo sovente in casa della principessa
Belgiojoso, dove però non era ben accolto chi ne’ suoi discorsi
metteva innanzi de’ dubbi sul trionfo finale della nostra causa, o
moveva critiche agli atti o agli uomini nostri. Nella principessa
sopravviveva intero l’antico entusiasmo patriottico; ed ora che le
antiche aspirazioni stavano per diventare realtà, essa si ribellava
contro chi non festeggiasse il loro trionfo. Ammirava i nostri migliori
uomini politici, e soprattutto Cavour; era intollerante d’ogni critica,
che riteneva in quei momenti dannosa, e non permetteva a nessuno di
turbarle il suo ottimismo.

Ottimista anch’io, e di più senza i disinganni dell’età matura,
s’andava molto d’accordo nei nostri discorsi; sicchè in pochissimo
tempo fui tra quelli con cui la principessa amava discorrere di
politica, e che accoglieva nel modo più cortese e cordiale.

Quando riceveva, nel suo salotto le portavano un _narghilé_, e fumava
non so che cosa, che non era tabacco. Si metteva di solito a un
tavolino, e ricamava facendo conversazione. Qualche volta scriveva
tenendo una cartella sulle ginocchia; scriveva, in mezzo alle
chiacchiere e alle discussioni, opuscoli od articoli per giornali e
riviste, specialmente per la _Revue des deux mondes_; il più delle
volte scriveva in francese, dicendo che le riusciva più facile.

Quand’era ammalata raramente si metteva a letto, ma si adagiava
vestita, e tra scialli, su una gran poltrona, curandosi talora da sè,
poichè aveva il ticchio della medicina; il suo medico, però da molti
anni, era il dottor Maspero, il traduttore dell’_Odissea_.

Pochi giorni prima che morisse, la vidi ancora adagiata nella poltrona.
Ero andato una mattina a domandare le sue notizie, ed essa, sentendo
che mi trovavo nel salotto, volle vedermi: mi fece cenno d’accostarmi,
e di vedermi parlare; poi con un filo di voce mi chiese se quella
mattina ci fossero dei dispacci su non so quale questione politica
importante. La politica e la patria la interessarono fin nelle ultime
ore della vita. Morì pochi giorni dopo, ossia il 5 luglio del 1875.

Gli ultimi suoi amici videro con malinconia e con dolore scomparire
questa donna, che col carattere e coll’ingegno aveva illustrato il
patriottismo italiano, e coi larghi mezzi lo aveva promosso e sorretto
nelle circostanze più difficili.

Nel 1860 feci un’altra preziosa conoscenza, la più preziosa di tutte:
la contessa Maffei mi condusse da Alessandro Manzoni.

Il Manzoni riceveva la sera pochi amici, ma presto m’invitò ad essere
tra questi. Di giorno stava in uno studio a terreno, che metteva
sul giardinetto della sua casa; la sera riceveva nel salotto al
primo piano, seduto a un tavolino nell’estate, e presso il caminetto
nell’inverno, attizzando colle molle il foco continuamente, mentre
ascoltava o discorreva. Gli amici, e il maggiore de’ suoi figli,
Pietro, facevano circolo intorno a lui, mentre la nuora e le nipoti
leggiucchiavano o lavoravano d’ago o di ricamo, sedute a una tavola
ch’era nel mezzo del salotto. Le nipoti erano tre belle signorine,
di cui la maggiore, Vittoria, sposò il senatore Pietro Brambilla, e
la secondogenita, Giulia, diventò moglie del generale Costantini: la
terza si chiamava Sandra. Gli amici che Manzoni a quel tempo vedeva
più di frequente erano l’abate Natale Ceròli, il professore Luigi
Rossari, il bibliotecario di Brera Rossi, il marchese Lorenzo Litta
Modignani, Giulio Carcano, il senatore Piola, il professor Giovanni
Rizzi, il professor Fabris; G. B. Giorgini suo genero e Ruggero Bonghi,
quand’erano a Milano; il figliastro conte Stefano Stampa, e pochissimi
altri. Di giorno riceveva nello studio, cercando di limitare il numero
delle visite, talora persino con dei sotterfugi, schivo qual’era degli
omaggi, e delle conoscenze superficiali. Manzoni passeggiava ogni
giorno per un paio d’ore, e non poteva andar solo, a cagione d’una
malattia nervosa che soffriva da moltissimi anni, e che, se non era
accompagnato, gli dava la sensazione che gli mancasse il terreno sotto
i piedi, o che gli cadessero addosso le case; sensazione che non si
verificava se gli era accanto qualcuno.

Ci raccontò egli stesso che questa malattia nervosa era stata causata
dalla impressione provata quando, trovandosi a Parigi nella piazza
della Concordia, durante le feste pel matrimonio di Napoleone con
Maria Luigia, sospinto e schiacciato in mezzo alla folla, gli svenne
sua moglie tra le braccia, ed ebbe per alcuni momenti l’angoscia di
vedersela strappata e calpestata tra le terribili ondate del popolo.

Da quel giorno le vie e le piazze cominciarono a dargli le vertigini;
e più tardi una nuova commozione venne a rendergli più grave e
inguaribile quella malattia nervosa di cui aveva avuto i primi
sintomi a Parigi. Era nella bottega d’un libraio a Milano, nella via
di S. Margherita, quando gli giunse improvvisamente la notizia della
battaglia di Waterloo. Nella sua mente chiara egli intuì la perdita
della indipendenza, e l’Italia data all’Austria, forse per sempre.
Quasi svenne; si dovette ricondurlo a casa, e da quel giorno non potè
più uscirne se non accompagnato.

Per lunghi anni i fidi compagni delle sue passeggiate furono l’abate
Natale Ceròli e il professore Luigi Rossari. Il Ceròli era un degno
sacerdote, coltissimo, piacevole, e di sentimenti patriottici; il
Rossari era stato per molti anni un modesto professore di lingua
italiana in una scuola tecnica, e la modestia in lui, che aveva tanti
meriti e tanta coltura, era così grande da essere quasi un difetto,
poichè lo teneva appartato da tutti, e quasi nascosto. Ma col suo
Manzoni era legato da una amicizia ch’era un culto. Letterato di
valore, il Rossari istruì egregiamente un’intera generazione, ma non
pubblicò mai nulla. A qualcuno che gli chiese una volta perchè non
avesse mai pensato a qualche lavoro letterario, rispose: «Ebbi tra i
miei amici più cari Manzoni, Grossi, Porta, Azeglio, Giusti, Giorgini,
e vivendo in mezzo a questi _colossi_ come volete che mi passasse
per la mente di pigliar la penna?» Eppure parecchi di questi non
licenziavano mai nulla per le stampe senza aver avuto prima il parere
di Luigi Rossari.

Appena ebbi la fortuna di conoscerlo personalmente, lo pregai di
entrare nella Commissione degli studi del Municipio di Milano: accettò,
e per parecchi anni ebbe una gran parte nelle riforme e nella direzione
delle scuole municipali milanesi. Morì povero; viveva e manteneva una
sorella, colla modesta pensione di professore di scuole tecniche.

Del Manzoni, ossia di don Alessandro, come lo chiamavano tutti a
Milano, la conversazione era semplice, piacevole, piena di bontà e di
arguzia; a sentirlo parlare pareva di leggere i _Promessi Sposi_. In
famiglia, e cogli amici intimi, parlava quasi sempre milanese, come
pressochè tutti a quel tempo. La sua modestia era sincera e grande;
se discorreva con persone che non gli fossero familiari, alle volte,
leggermente balbettava. Aveva una memoria straordinaria, che conservò
fino agli ultimi anni di sua vita. A 85 anni, discorrendosi una sera
dell’Alfieri, recitò a memoria dugento versi di Virgilio e i versi
corrispondenti d’una traduzione, non molto nota, dell’Alfieri.

I suoi discorsi si aggiravano frequentemente sulla Rivoluzione
francese, di cui ricordava ogni menomo particolare, ogni attore anche
secondario, ogni scritto, con una memoria che stupiva. Più tardi
ripensai a quei discorsi, quando il Taine pubblicò la sua opera,
che tanto mi rammenta nell’erudizione e nei giudizi critici ciò che
avevo udito dal Manzoni. Egli, come si sa, meditava una storia della
Rivoluzione francese; l’aveva già forse tutta in mente, ma l’età
avanzatissima non gli permise di scriverne che il principio.

Era ben difficile che il Manzoni pronunziasse giudizî su autori
viventi, e trovava sempre una qualche scappatoia gentile per
sottrarvisi quando n’era richiesto. Peggio ancora se si trattava di
esaminare dei manoscritti, o di dare dei consigli: per massima vi si
rifiutava sempre e soleva rispondere con una formola generale, che cioè
bisognava essere _indulgenti cogli stampati e feroci coi manoscritti_.

Era molto schivo di far conoscenze nuove, e non gli piaceva ricevere
curiosi o forestieri che venissero per visitarlo, se non in casi
speciali. Un illustre forestiero che veniva a visitarlo quasi sempre
in ogni suo viaggio in Europa, era don Pedro, Imperatore del Brasile,
che una volta gli mandò anche una sua traduzione in lingua spagnola del
_Cinque Maggio_, insieme col gran cordone della Rosa ch’era la massima
onorificenza brasiliana.

Il Manzoni gli scrisse lodando la traduzione, lo ringraziò per
l’onorificenza, ma non l’accettò.

Subito dopo il 1859 don Pedro gli mandò di nuovo l’ordine della _Rosa_,
scrivendogli: «Se ho indovinata la ragione per la quale non avete prima
accettata la mia decorazione, spero che l’accetterete questa volta.»
Il Manzoni infatti accettò, e ringraziò con le espressioni della solita
sua gentilezza.

Egli durante la dominazione austriaca aveva rifiutato, per massima,
tutte le decorazioni che gli erano venute da varî governi, per avere
più facilmente il diritto di rifiutare le decorazioni del Governo
austriaco. E queste infatti le rifiutò sempre.

Pur essendo schivo di nuove conoscenze ne aveva sempre avute molte,
e conosceva quasi tutti gli uomini più illustri del suo tempo,
specialmente d’Italia. Alle moltissime lettere che riceveva, se non
eran lettere di amici, faceva di solito rispondere con qualche parola
gentile da suo figlio Pietro. Nello scrivere, incontentabile sempre,
non era infrequente che rifacesse anche le sue lettere familiari.

Dopo la morte di lui, l’abate Ceròli, incaricato di riordinarne i
manoscritti e i carteggi, mi diceva di aver trovato delle centinaia di
lettere di ignoti, uomini e donne, che ricorrevano al Manzoni, senza
conoscerlo, per domandargli consigli e conforti, come a un santo,
dicendo che i suoi scritti avevano messo nelle anime loro la fede, la
pace, la speranza.

A queste lettere commoventi facevano riscontro altre ben diverse, come
si seppe da suo figlio Pietro, che ricevette ne’ suoi ultimi anni da
parecchi intransigenti arrabbiati, che lo insultavano villanamente,
perchè era andato a Torino a votare in Senato l’ordine del giorno che
proclamava Roma capitale d’Italia.

Quando capitava qualcuna di queste lettere, i suoi intimi, se eran
presenti, se ne accorgevano subito. La scorreva con l’occhio, poi la
pigliava colle molle, e con un’espressione di disgusto la metteva
sul foco. Contrario al potere temporale dei Papi, non solo dal
punto di vista dell’italianità, ma pur da quello della più rigorosa
ortodossia cattolica, e in nome degli interessi religiosi, discorreva
frequentemente di questa grave questione, citando brani di storia
ecclesiastica, in cui pure era dottissimo. Le amarezze che gli
procuravano questi scrittori di lettere villane, o qualche libellista
anonimo, gli erano ben largamente compensate in quell’altissima stima,
ch’era una venerazione, da cui era circondato da tutti.

Nelle sue lunghe passeggiate per la città, e fuori, tutti lo
riconoscevano, o lo additavano, tutti gli facevan largo, e lo
salutavano con rispetto affettuoso.

Ne’ suoi ultimi anni, credo nel 71, una sera, contro le sue abitudini,
andò a teatro a sentire non so quale commedia, che in quei giorni era
in voga. Appena fu veduto tutti si levarono in piedi, sventolando i
fazzoletti e acclamandolo; poi lo aspettarono all’uscita e gli fecero
una calorosa dimostrazione.

Una nuova pubblica dimostrazione l’ebbe nell’estate di quell’anno.
Una sera rincasò, dopo la solita passeggiata, più tardi del solito. Lo
aspettavano nel salotto i soliti amici, ed egli cercò giustificare il
ritardo con qualche scusa trovata lì per lì.

«Non credetegli affatto — saltò su l’abate Ceròli che lo aveva
accompagnato — ve la dirò io la causa del ritardo: Eravamo nel giardino
pubblico, e don Alessandro, stava osservando certe nuove piantagioni.
Intanto alcuni lo avevano riconosciuto, e sussurravano: _Manzoni,
Manzoni_. La gente cominciò a fermarsi, poi da ogni parte fu un
accorrere di quanti erano nei giardini, e in un momento don Alessandro
si trovò in mezzo a una folla di uomini, di donne, di fanciulli. Tutti
gli volevano stringere la mano, o almeno toccargli il vestito. Alcune
donne gli chiedevano una benedizione pei loro bambini. Don Alessandro
non potè scappare; s’era ben fatto tutto rosso in viso, ma colla
solita sua buona grazia restituiva fin che poteva le strette di mano,
e accarezzava i bambini. Dopo una buona mezz’ora gli fecero largo, e
si potè finalmente avviarsi verso casa, tra due file di persone che lo
salutavano calorosamente, e gridavano _viva Manzoni_. Insomma, concluse
don Ceròli, fu un’ovazione, una vera ovazione!»

«No, no» rispose il Manzoni «lei non ha capito. Quella buona gente,
vedendo questo vecchio, che non ha più il diritto d’essere al mondo, lo
vollero festeggiare come un _invitato_.»

Si sarebbe detto che quella buona gente avessero il presentimento che
festeggiavano il loro Manzoni per l’ultima volta. Alcuni mesi dopo, il
6 gennaio 1873, il Manzoni cadde sulla gradinata della Chiesa di S.
Fedele, e battè la fronte sugli scalini: da quel giorno la sua mente
cominciò a intorbidirsi, e dopo continue alternative di lucidità e
delirî, ai quali alcune volte ho malinconicamente assistito, il 22
maggio di quell’anno moriva.




CAPITOLO XXXVII.

1860.


III.

  _Sommario:_ Continuazione dei fatti del 1860. — Tentativo di Cavour
  per promuovere un pronunziamento militare a Napoli. — Garibaldi
  entra in Napoli. — Le truppe regie entrano nell’Umbria e nelle
  Marche. — Il conte Pasolini Governatore di Milano. — I ricevimenti
  e le feste alla Prefettura. — L’ufficio di _Questura_ affidato
  provvisoriamente dal Governo ai principali Municipi. — L’ufficio di
  Questura nel Municipio di Milano. — Suo ordinamento provvisorio.
  — Un agente della Polizia imperiale francese. — Ordinamento
  regolare delle Questure. — Il cav. Setti, primo questore. — Il
  Farini nominato luogotenente a Napoli. — Mio fratello Emilio
  lo accompagna. — La salute di Farini va declinando. — I grandi
  avvenimenti che si succedono sul finire del 1860. — Un detto di
  Alessandro Manzoni. — Proclamazione del Regno d’Italia, con Roma
  capitale. — Il riconoscimento della Francia, dopo la morte di
  Cavour.

Torniamo agli avvenimenti del 1860: ce n’erano dei nuovi ogni giorno,
con nuove trepidazioni, e nuove gioie. Mentre s’era tutti in un
indicibile orgasmo per le notizie di Garibaldi e della Sicilia, i
battaglioni della Guardia Nazionale si scambiavano di città in città
visite, per festeggiare la luna di miele della fraternità. Ne partirono
anche da Milano, tutti s’intende in assetto di guerra, più o meno. Tra
questi ne partì uno anche da Milano per Bologna, per ragioni militari,
e di pubblica sicurezza che in quei giorni vi reclamavano misure
speciali. In tutto questo affratellarsi, quanti ricevimenti, quanti
banchetti, quanti discorsi!

Ma intanto, succedevano altrove rapidamente fatti serî e decisivi. Con
un incarico confidenziale di Cavour, Giuseppe Finzi e mio fratello
Emilio erano partiti per Napoli, ove da alcuni giorni era arrivato
Persano con un legno da guerra. Cavour aveva avuto da prima la
speranza che Napoli, dopo gli avvenimenti di Sicilia, si sollevasse;
poi aveva desiderato che almeno l’esercito napoletano facesse un
_pronunziamento_; con ciò l’effetto in Europa sarebbe stato più
grande, e l’esercito napoletano avrebbe potuto rimanere compatto;
Cavour pensava associarlo alle altre forze italiane, per mandarle
tutte assieme ai confini, dove l’Austria era accampata in attitudine
minacciosa. Così anche l’esercito napoletano sarebbe diventato subito
una forza nazionale.

I tentativi di Cavour, aiutati da illustri napoletani, e da molti suoi
amici od emissarî, andarono falliti. Il regno si sfasciò rapidamente,
e Garibaldi l’11 settembre, pressochè da solo, entrò in Napoli tra un
indicibile entusiasmo popolare che lo acclamava liberatore.

Dopo l’entrata di Garibaldi in Napoli, Cavour, con una coraggiosa
ispirazione politica, ruppe le tergiversazioni diplomatiche, e
deliberò l’entrata delle truppe regie nelle Marche e nell’Umbria,
riprendendo l’iniziativa e la direzione della rivoluzione italiana.
La deliberazione fu presa sulla fine del mese di agosto, e Cavour
considerando le difficoltà che avrebbe potuto incontrare poi nei
Gabinetti d’Europa, pensò di prevenire l’amico segreto, Napoleone.

Approfittandosi d’una visita alla Savoia, che in quei giorni faceva
l’Imperatore, mandò a complimentarlo da Torino il Farini e il generale
Cialdini, coll’incarico di comunicargli la presa risoluzione. Napoleone
mostrò loro tutte le difficoltà, i suoi impegni colla diplomazia, e gli
sdegni che tal fatto avrebbe provocati. Alle dimostrazioni insistenti
degli inviati di Cavour Napoleone rispose alla fine colla celebre
parola: _faites vite_. Le truppe, come è noto, condotte dal Fanti
entrarono a Perugia; il Cialdini batteva Lamoricière a Castelfidardo, e
fu espugnata Ancona.

Nell’ottobre fu mandato a Milano un nuovo Governatore. Per certi screzî
politici con Cavour, il d’Azeglio si dimise, e fu nominato al suo posto
il conte Giuseppe Pasolini di Ravenna, patriotta colto e liberale, uno
dei principali personaggi delle Romagne. Nel 1848 aveva fatto parte
del primo ministero liberale di Pio IX col Minghetti e col Mamiani. A
Milano rimase poco più d’un anno e mezzo, fino all’aprile del 1862.

Il Pasolini e il Beretta ressero Milano, in momenti non facili, con
mano sicura, imprimendo nelle classi dirigenti, che hanno bisogno
talora d’essere dirette anch’esse, energia ed unità di pensiero. Nel
pubblico c’era quella inesperienza di chi è appena uscito da un governo
assoluto e straniero, e si trova lanciato d’improvviso in un governo
nazionale, e nella libertà. I successi meravigliosi di Garibaldi,
dovuti alla natura eccezionale del capitano, e ad eventi affatto
straordinarî, di quelli che non si ripetono una seconda volta, avevano
in moltissimi offuscato il senso della possibilità delle cose, e tolto
ogni freno alla fantasia. Intanto gli austriaci erano ancora padroni
del Veneto, e accampati sul Mincio.

L’azione dei Governatori doveva interpretare il pensiero di Cavour,
l’_audacia_ e la _prudenza_; doveva far apprezzare i nuovi ordinamenti,
e abituare alle cose nuove, che suscitano malcontenti anche quando si
muta il peggio col meglio.

Comandante in Milano del corpo d’armata era il generale Lamarmora
circondato da tutto l’antico prestigio, e da una grande popolarità.
Pasolini soleva dire: «Quella bella faccia di soldato, sulla quale
tutti possono leggere la lealtà, la fermezza, il valore, inspira la
tranquillità come se qui ci fosse un esercito; abbiamo gli austriaci
minacciosi a pochi passi, ma tutti si sentono sicuri, e sono
tranquilli.»

Il Pasolini e il Beretta diedero alle pubbliche amministrazioni una
nuova vita, e vi portarono riforme sollecite e sagge, governando con
larghezza e genialità di pensiero. Nelle loro case ospitali accorreva
quanto c’era di meglio nella cittadinanza milanese; e così Governo e
Municipio, vivevano giornalmente la vita del paese. Il conte Pasolini
era non solo un uomo politico e un amministratore di vaglia, ma
rappresentava il governo signorilmente, e colla cordialità e collo
spirito dava una indimenticabile attrattiva ai suoi ricevimenti e alle
sue feste. Tra le quali devo ricordare, in queste note di cronaca, un
ballo in costume, che rammentò alle nonne il ballo famoso del conte
Batyani, di trent’anni prima.

Ne’ suoi ricevimenti il conte Pasolini aveva pure la fortuna d’essere
coadiuvato da sua moglie, la contessa Antonietta Bassi, milanese, che
per la bontà dell’animo e la squisita gentilezza delle maniere era
amatissima da per tutto e da tutti; talchè, quando Ricasoli nel 1862
mutò i governatori in prefetti, la contessa Pasolini in Milano fu
soprannominata la _Perfetta_.

Quale assessore del Municipio avevo occasioni frequenti di trovarmi col
Pasolini, e potei apprezzarne le belle e non comuni qualità. Durante
alcuni mesi specialmente, nella seconda metà del 1860, un incarico poco
grato, ma che per desiderio del Sindaco mi dovetti assumere, mi misi
col Pasolini in rapporti quasi giornalieri.

Le vecchie _Polizie_ austriache, coll’entrata delle truppe alleate nel
59, erano scomparse; non ci rimanevano che qualche impiegato secondario
e i carabinieri, da poco venuti. Le nuove _Questure_ non erano state
ancora ordinate, e il Governo aveva dato l’incarico ad alcuni tra
i principali Municipi di esercitare provvisoriamente gli uffizî di
Polizia, come nel Belgio.

Cavour, nella sua mente larga, liberale, aveva poca fede nell’efficacia
delle Polizie, e come tutti i liberali del suo tempo ricordandone gli
abusi politici, le aveva in sospetto, e non le vedeva di buon occhio.
In quei giorni, a un Governatore che gli domandava un maggior numero di
funzionarî per la sua questura, rispose: «Ci crede lei nella Polizia?
Quando l’ordine è turbato si ricordi che nelle sue caserme ci sono dei
buoni soldati.»

Il Sindaco di Milano, d’accordo col Governatore, per disimpegnare gli
uffizî della Polizia aveva destinato un capo divisione municipale,
certo Francesco Crippa, che già sovraintendeva alla sorveglianza urbana
dei servizi pubblici. Il Crippa era un antico burocratico, di molto
ingegno e di molta astuzia, sagace conoscitore anche degli infimi ceti
della città. Il Sindaco mise l’uffizio del Crippa alla dipendenza d’un
assessore, delegando a me questo incarico.

L’ufficio era di solito ingrato e disgustoso; ma qualche volta, lo
confesso, riusciva anche divertente. S’erano improvvisati degli agenti,
e richiamati alcuni abili funzionari della vecchia Polizia, tra i
non compromessi. Tutta questa gente mandava ogni giorno un mucchio di
relazioni e di denunzie, su quanto aveva veduto e sentito in città. A
voler essere curiosi c’era da passar bene il tempo.

Ma c’erano anche i fatti misteriosi e raccapriccianti che mi facevan
correre dal Governatore, a confabulare con lui e col colonnello dei
carabinieri. C’eran poi, tra le cose abbiette, le delazioni anonime, le
vendette, le spie. Gli affari di carattere politico venivano mandati
direttamente al Governatore, che talora li trasmetteva al Ministero
dell’interno.

Ciò che disgustava maggiormente era lo spionaggio, e la ressa dei
delatori. Nè ci voleva meno di tutta l’astuzia del segretario Crippa
per distinguere gli spioni veri dagli spioni falsi. In ogni complotto
di molti, o di pochi, la spia vera o falsa c’è sempre, ed è in ciò che
_brillano_ gli studî e i fasti delle Polizie.

I Municipii, dopo pochi mesi, furono sgravati di quel penoso incarico,
ed entrarono in vigore le nuove Questure. Il primo questore mandatoci
a Milano fu il cav. Setti, un antico repubblicano genovese, funzionario
abilissimo. Nel prendere la consegna del suo ufficio mi disse un motto,
che era evidentemente il suo assioma: _Questura vuol dir denari; molti
denari, buona Questura; pochi denari, Questura inutile_.

Prima che arrivasse il cav. Setti mi capitò un triste personaggio,
con una lettera di calda raccomandazione d’una persona stimabilissima,
deputato subalpino, che salì poi ad alti onori.

La lettera mi esortava a fidarmi completamente della persona che
me l’avrebbe presentata, nota a molti patriotti per importanti
servizi resi in passato alla nostra causa. Accolsi meglio che potei,
naturalmente, il mio personaggio, e dopo parecchi giorni, e parecchie
visite, si entrò in una certa confidenza. Mi fece vedere parecchie
lettere di patriotti italiani, ed alcune dell’antico Comitato di
Londra; lettere autentiche, cioè, di Kossuth, di Ledru-Rollin e
di Mazzini. Mi parlò de’ suoi viaggi secreti fatti in Francia, in
Ungheria, in Italia, per portare le istruzioni del Comitato, e per
riordinare le file rivoluzionarie soprattutto in Italia. E concludeva
che da qualche tempo aveva rinunziato alla vita randagia e piena di
pericoli, lieto che l’Italia nuova gli offrisse finalmente un porto
sicuro.

Ma il porto desiderato era un impiego nel Municipio di Milano; e
siccome l’impiego lì per lì non c’era, così io lo esortava ad aspettare
qualche concorso. Il personaggio intanto diventava impaziente; e un
giorno, nel passare in rassegna gli impieghi, dissi quasi sbadatamente,
che il Governo stava in quei giorni ordinando gli uffici delle nuove
Questure. Credetti che la pigliasse male, ma con mia gran sorpresa,
la pigliò abbastanza bene, e dopo una qualche esitazione, mi disse che
aveva della pratica in simili uffici; poi dopo parecchi giorni, a poco
a poco mi confessò ch’era stato allo stipendio per diversi anni della
Prefettura di Polizia di Parigi... e, alle corte, capii ch’era stato
uno degli agenti secreti di Pietri, il capo della Polizia Imperiale...

Povero Comitato di Londra! Le prove datemi erano pur troppo
convincenti, e rimasi esterrefatto e senza parole. A quanti episodî,
a quanti ricordi degli anni passati, non corse il mio pensiero in quel
momento! Gli risposi che il Municipio non si occupava dell’ordinamento
della Questura, e che si rivolgesse al Governatore. Più tardi seppi
ch’era partito per Napoli, e non ne ebbi più notizie.

Quanti non accorrevano in quei giorni a Napoli, a cercarvi fortuna,
e ad accrescere un disordine che consumò Luogotenenti e Governatori!
Tra questi ci fu il Farini. Alla metà di novembre del 1860 era stato
nominato luogotenente delle Provincie, e aveva chiamato con sè mio
fratello Emilio. La Luogotenenza del Farini non fu lunga; nell’eccesso
del lavoro la forte vigoria della mente affievoliva, e cominciò in lui
quella lunga e progressiva paralisi che lo spense.

Gli avvenimenti di Napoli erano, in quello scorcio del 60, l’argomento
di tutti i discorsi, di tutte le preoccupazioni e talora delle ansietà
di tutti. L’entrata dell’esercito regio nelle Provincie meridionali, i
garibaldini e gli attriti che si temevano, la questione dei plebisciti,
la lotta dei partiti, l’urto tra Cavour e Garibaldi, l’assedio di
Gaeta, le complicazioni diplomatiche erano avvenimenti che eccitavano
gli animi, animavano le conservazioni ed esaltavano i partiti politici.
Dietro le questioni grandi veniva poi la miriade delle piccole, che
affannavano anch’esse tutto quel pubblico, che nelle cose grandi
vede appunto di preferenza le piccole, e che si lascia accecare dai
pulviscoli, quando si leva la bufera.

Una sera in casa di Alessandro Manzoni si parlava appunto di cose
piccole, di cui in quei giorni menavano scalpore giornalisti, uomini
politici e politicanti malcontenti. Alla critica, specialmente
nelle cose pubbliche, la materia non manca mai: leggi inopportune,
regolamenti mal fatti, pedanterie burocratiche, e quelle mille
molestie della vita pubblica che rendono noioso, e talora difficile,
anche l’essere un semplice cittadino: guaio che fu subito grande
nell’amministrazione italiana.

Di questi guai, e di queste noie, se ne passavano in rassegna, quella
sera, parecchie. Il Manzoni ascoltava e taceva: poi, a guisa di
conclusione, prese a dire: «Tra qualche anno, e forse tra pochi mesi,
di tutti questi piccoli guai, che ora ci preoccupano tanto, chi si
ricorderà? D’una cosa sola ci ricorderemo tutti, e per sempre: ci
ricorderemo che in questi due anni s’è fatta l’Italia!»

Pochi mesi dopo avvenivano la resa di Gaeta, e la partenza dell’ex re
di Napoli. Il Parlamento faceva la proclamazione del Regno d’Italia con
Roma capitale: sebbene le provincie venete non fossero ancora unite
all’Italia, l’Italia ormai nella coscienza del mondo era fatta; e le
potenze, che per secoli l’avevano reietta, ora stavano per accoglierla
nel loro grembo, e per un Fato arcano ve la conduceva la morte stessa
di chi n’era stato il grande artefice, Cavour.

Primo a riconoscere il nuovo Regno fu il vecchio amico di Magenta,
Napoleone, che con delicato pensiero si ricordò di noi, riconoscendo il
nuovo Regno nel giorno in cui esso piangeva la sua sventura nazionale.

E ora giunti qui, alla proclamazione del Regno d’Italia, alla mèta
faticosa e fortunata della grande idea che fu la fede appassionata
d’una generazione, metterò fine a questi ricordi. Ho voluto riudire
ancora nell’anima l’eco di giorni, di speranze, di entusiasmi febbrili,
che l’età non ha ancora spenti in noi vecchi di quel tempo.

Queste pagine sono per voi, nipoti miei. Nelle carte di vostro padre
troverete un giorno documenti di maggior valore, ma forse non vi
saranno discare anche le pagine modeste dello zio, che vorrebbero
rispecchiarvi alcuni ricordi dei suoi tempi. Questa non è una storia,
ve lo ripeto, è una _Cronaca_ di cose vedute o sapute da me; è una
cronaca, oltre che dei fatti, delle impressioni e delle opinioni
che correvano nei tempi in cui quei fatti si svolgevano. Molte delle
opinioni e dei giudizi d’allora saranno forse corretti dal tempo, ma
riferendoli quali erano nella comune opinione, la quale reggeva alla
sua volta e determinava i fatti, sono anch’essi documenti di cui la
storia un giorno dovrà pure tener conto.

Possano questi sentimenti, e questi fatti, testimoniarvi parimenti
la fede che animava i giovani d’allora; e se i tempi nuovi saranno
fiacchi, o immemori del passato, conservate negli animi vostri tanto
più salda l’antica divisa: _Tutto per la Patria, e la Patria al di
sopra di tutto_.


  FINE




INDICE


  Capitolo  I                   _pag._   1
      »     II       anno 1847    »     23
      »     III       »   1848    »     39
      »     IV        »   1848    »     53
      »     V         »   1848    »     65
      »     VI        »   1848    »     75
      »     VII       »   1848    »     87
      »     VIII      »   1848    »     95
      »     IX        »   1848    »    107
      »     X         »   1849    »    115
      »     XI        »   1850    »    125
      »     XII       »   1850    »    133
      »     XIII      »   1851    »    145
      »     XIV       »   1852    »    155
      »     XV        »   1853    »    163
      »     XVI       »   1853    »    173
      »     XVII      »   1853    »    187
      »     XVIII     »   1854    »    203
      »     XIX       »   1854    »    211
      »     XX        »   1855    »    221
      »     XXI       »   1856    »    235
      »     XXII      »   1856    »    247
      »     XXIII     »   1857    »    261
      »     XXIV      »   1858    »    277
      »     XXV       »   1858    »    287
      »     XXVI      »   1859    »    299
      »     XXVII     »   1859    »    319
      »     XXVIII    »   1859    »    335
      »     XXIX      »   1859    »    349
      »     XXX       »   1859    »    359
      »     XXXI      »   1859    »    369
      »     XXXII     »   1859    »    381
      »     XXXIII    »   1859    »    389
      »     XXXIV     »   1859    »    387
      »     XXXV      »   1860    »    407
      »     XXXVI     »   1860    »    421
      »     XXXVII    »   1860    »    429





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RICORDI DI GIOVENTÙ ***


    

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