The Project Gutenberg eBook of Il signor Io This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Il signor Io Author: Salvatore Farina Release date: September 7, 2024 [eBook #74389] Language: Italian Original publication: Milano: A. Brigola, 1883 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL SIGNOR IO *** SALVATORE FARINA IL SIGNOR IO Terza Edizione illustrata MILANO ALFREDO BRIGOLA E C. 5 — Via A. Manzoni — 5 PROPRIETÀ LETTERARIA DIRITTI DI TRADUZIONE RISERVATI Varese, 1883 — Tip. Macchi e Brusa. AVVERTENZA La nuova edizione del _Signor Io_, che oggi pubblichiamo, offre ai lettori un fenomeno singolare, che si può dire nuovo nella libreria italiana; ed è che la novella originale viene in luce con illustrazioni fatte per una splendida edizione spagnuola. Avendo avuto sott’occhio il volume stampato a Barcellona, e dove, oltre il _Signor Io_, si contengono _Fra le corde d’un contrabasso_ e _Fante di picche_, ed avendo riconosciuto il merito non comune dei disegni a penna che illustrano le novelle del nostro autore, ci siamo rivolti alla casa editrice Verdaguer e ci riuscì di acquistare le foto-incisioni per l’Italia. Abbiamo voluto che la nuova edizione italiana, la quale così riesce una curiosità libraria, fosse anche nel rimanente degna dei bibliofili. Se, come non dubitiamo, i disegni spagnuoli piaceranno al pubblico italiano, quanto piacquero a noi ed a molti artisti, faremo presto seguire nel medesimo stile della presente, una nuova edizione del _Fante di picche_. GLI EDITORI. I. IL MIO TEMPO PRESENTE _(Dal taccuino di Marcantonio)._ Egli era così alto, che, per entrare dal grande arco nella galleria Vittorio Emanuele, fu costretto a piegarsi ed a camminare colle manaccie puntate sui femori poderosi, e solo nell’ottagono potè lasciare l’incomoda positura; ma nel rizzarsi, avendo preso male le misure, diè del testone nella cupola, e ruppe parecchie lastre di vetro, che gli caddero ai piedi con fracasso. Poco dopo si mosse ed uscì, come era entrato, da un arco laterale. Per le vie camminava spedito, ed in pochi passi fu ai vecchi portoni di Porta Nuova che scavalcò senza arrestarsi; quando giunse in piazza Cavour, seguito da una moltitudine a cui egli non badava, spinse uno sguardo enorme sopra i tetti della città di Milano, poi si chinò verso il gruppo di giovani acacie piantate dal Municipio per dar ombra alle generazioni future, ne prese una delicatamente, e se la infilò con garbo nell’occhiello del farsetto.... Chi era costui? Il personaggio del mio sogno. Ma il mio sogno non era inutile, e me ne compiaccio, perchè non ci è dato spesso occupare utilmente i nostri sogni — il mio sogno era una allegoria. Riconoscete quel sentimento, che cammina solitario nella sua sterminata grandezza, che non guarda in faccia a nessuno, che si mette all’occhiello gli alberi piantati per dar ombra alle generazioni future — si chiama l’egoismo. Io non sono egoista; avrò forse molti difetti che non conosco, ma siccome non posso soffrire una gran parte dei miei simili, sento che odierei me stesso se fossi egoista come loro, e vi sarebbe contraddizione nei termini. Mi sono studiato e mi voglio bene, lo confesso candidamente; dicasi pure che sono un po’ vanesio, ma egoista, no. Alla vigilia di prendere una determinazione, che muterà il corso della mia esistenza, metto me in faccia a me medesimo, e getto ancora una volta lo scandaglio nel mio cuore, dove spero di non trovare un rimorso. E prima di tutto, chi sono io? Io sono Marco Antonio Abate, professore di filosofia in due licei privati, ho dieci lustri compiti, sono vedovo da quindici anni, ed ho, non so dove, una figlia ingrata. Ma lasciamo stare mia figlia; io non mi rifiuto di parlare della mia disgrazia; vi pensai già molto, ed ancora non sono riuscito a non pensarvi affatto, ma non ho nulla da rimproverarmi; ve lo farò toccare con mano più tardi. Vedrete a suo tempo come fu malamente pagato un padre, che aveva fatto a sua figlia una sorte invidiabile e che, dopo averle dato una casa in cui, fanciulla ancora, essa era già regina, lavorava nel segreto del suo cuore amoroso a prepararle nuove dolcezze... ma non è ancora il momento. Serafina — io le aveva dato anche un bel nome, ma fu inutile — Serafina tradì tutte le speranze che avevo riposte in lei. Oggi Serafina è assente, ed io sono solo. Ma nessuno s’impietosisca sul mio destino: non ho professato filosofia per ventisette anni senza attingervi qualche consolazione. La scienza non è di natura umana, e non mi rifiuta mai il conforto che le domando. Quando dico _solo_, non comprendo la grossa Anna Maria, che mi rifà il letto e dà sesto alle stanze. Sono vent’anni che Anna Maria mi rifà il letto e dà sesto alle mie stanze; essa fa queste cose alla lesta, dacchè sono solo, forse perchè, vedendomi taciturno, mi crede afflitto, ed il suo egoismo le consiglia di fuggire la compagnia dell’umor melanconico. Una volta essa faceva anche la spesa, si tratteneva in cucina a cianciare con mia figlia, e, probabilmente, a raccogliere gli avanzi del desinare: io faccio questa riflessione amara ogni giorno, quando mi vedo venire incontro la mia vecchia, un po’ impacciata, cogli occhi vaganti e colle mani in tasca, che mi dice: «Io ho finito e me ne posso andare... comanda nulla?» Io non comando nulla, ed Anna Maria se ne va, cavando di tasca, prima una mano, poi l’altra, e nell’attraversare il cortile sgambetta allegramente, qualche volta corre. Le mie abitudini d’oggi sono rimaste quelle di trent’anni fa; lascio il letto all’alba, perchè credo che, se si facesse una buona statistica, si troverebbe che gli uomini mattinieri, purchè non siano sopraffatti dal bisogno, dal digiuno e dall’ignoranza, sono sempre quelli che un giorno o l’altro, nel corso dei secoli, si fanno rifare il letto dai dormiglioni che si levano tardi. Appena sveglio, apro la finestra alla luce ed all’aria; e siccome, per mia disgrazia, a quell’irrompere del primo mattino nella stanza, la mia povera moglie non si sveglia più, assonnata e lamentosa, ma certamente felice in fondo, così do fuoco io stesso alla macchinetta del caffè, che è sempre rimasta sul tavolino da notte, fra i due letti gemelli. Mi vesto, e intanto non perdo una nota della misteriosa canzone della caffettiera; all’ultima strofa io sono sempre pronto a spegnere con un soffio solo la fiamma azzurrina. Bevo il mio caffè andando su e giù per la camera, dal tavolino da notte all’armadio a specchio e viceversa, chiudo il fornelletto nel canterano, ed abbandono la posatura ad Anna Maria, la quale dice di buttarla via, ma non lo fa, ve lo assicuro. So ben io quanto valga la posatura, so che, ribollita con un po’ d’acqua, essa fornisce un caffè leggiero ed igienico che mia figlia preferiva al mio — ma mi lascio ingannare da questa povera Anna Maria, perchè non ignoro quanto grave fardello è la gratitudine al cuore dell’uomo incivilito. Mentre Anna Maria rifà i letti e le stanze, io me ne vado a girellare nel vicino boschetto dei giardini pubblici; sulla cantonata della villa reale incontro il mio vecchio amico, mendicante di professione, filosofo per istinto. Egli mi vede, e subito si avvicina sorridendo, per salutarmi. — Buon giorno — mi dice; ed io gli ripeto: — Buon giorno! — e tiro dritto, oppure mi fermo a discorrere con lui. Non gli ho mai dato un soldo, e non gli darò mai un quattrino, non per avarizia, ma per principio. Egli lo sa e non mi dà torto. Talvolta mi seggo sopra una panca, egli si addossa ad un ippocastano, ed io lo interrogo: — Avete guadagnato molto ieri? Egli ribatte la domanda di sbieco, dicendo che i tempi sono tristi e che gli uomini non hanno più paura dell’inferno. — Ma le donne? — insisto. — Le donne — risponde con un risolino — le donne fanno qualche cosa per salvarsi l’anima. Bisogna sentire che ironia profonda quando dice «_per salvarsi l’anima!_» — Ma la carità — dico io — il cuore? — La carità — dice lui — il cuore... — e mi spiega la sua teorica, frutto maturo di trent’anni di pratica. La carità, egli me lo assicura, non è se non segreto terrore della miseria. Togliete l’istinto superstizioso — egli mi dice — e tutti faranno come voi, non mi daranno un soldo. — È un mestiere faticoso il vostro? — gli domandai un giorno. — Mi era faticoso — mi rispose — nei primi tempi; ora no. Quando, giovane ed inesperto, correva di qua e di là come un ossesso, zoppicando forse più del necessario, oppure si addossava al muro e si sfiatava a gridare a quanti passavano la sua miseria, allora sì, era faticoso; ma un po’ alla volta aveva imparato a zoppicare con metodo, a giudicare la sua clientela dalla faccia e dal passo, ed ora non isbagliava quasi mai. Mentre discorriamo, passa accanto a noi una gente varia, a cui egli non bada neppure; a un tratto invece, tronca il discorso e mi pianta per attraversare un viale e presentarsi a riscuotere il suo denaro. Io lo interrogo alla muta, egli mi indovina e dice col suo risolino: — Mi ha dato due soldi; quel giovinetto aveva l’aria felice. Deve essere un innamorato; gli innamorati sono buoni clienti, io non so spiegare perchè... Lo so ben io. L’amore è un momento egoistico. Gli innamorati sono la gente più egoista che sia al mondo, ma fanno l’elemosina per spensieratezza, o anche perchè sentono in sè stessi una falsa grandezza, uno stordimento, che li spinge alle imprese generose ed al fasto; il meno che possano fare per pigliarsi sul serio, è far l’elemosina ad un mendicante. Compiangiamo questa povera umanità, bambina e decrepita. Torno a me stesso. Dopo la passeggiata, me ne vado, senza fretta, alla scuola, dove giungo aspettato, ma non desiderato, da una ventina d’alunni punto affamati della mia scienza. È cosa intesa fra noi che _l’ente crea l’esistente_. Combattuta da questa bugia enorme, la nostra amicizia non è molto cordiale, e non durerà un pezzo. Appena entrato in iscuola, io leggo in faccia ai miei scolari, non uno eccettuato, una gran speranza tradita: la speranza d’una infreddatura, o d’un febbrone, o d’un altro qualsiasi accidente, che mi avesse inchiodato in letto per una lezione almeno. La lezione comincia e finisce; qualche volta interrogo i più attenti, per accertarmi che non hanno capito nulla, poi ci separiamo con piacere. Io me ne vado portando meco il mio segreto contrario al programma d’insegnamento, essi mi guardano a bocca aperta, stupiti della conformazione del mio cranio, che ha potuto accogliere una filosofia così tenebrosa. Io penso: se un giorno solo annunziassi dalla cattedra che l’_esistente_ ha creato l’_ente_ perchè gli faceva comodo, quale scompiglio! e che luce! Io credo che la freddezza dei miei scolari svanirebbe come per incantesimo, e che la mia dottrina si farebbe strada attraverso i crani più duri. Ma il programma non vuole. Dopo la scuola del mattino, e prima della scuola pomeridiana, io faccio colazione alla birreria Trenk; ho esperimentato che la birra tedesca bisogna mandarla giù come la filosofia tedesca, a onde, meglio che a sorsi, e cogli occhi chiusi. Il prosciutto cotto merita più attenzione; io mi raccomando al cameriere perchè il destino, che regola le cose umane, non mi faccia le fette di prosciutto troppo sottili, e non mi riempia mezzo il bicchiere di spuma. A desinare, mi trovo in compagnia numerosa; i miei compagni di mensa sono giovani uffiziali allegri, che non fanno molta fatica a sopportare con una certa rassegnazione il commensale taciturno. Alla loro età si è tanto felici e spensierati, che quasi si dimentica d’essere egoisti. E poi, io sono l’ombra del raggio di sole che cade sulla loro mensa comune; mi pigliano come un contrasto; quando vogliono dire qualche corbelleria, mi guardano sott’occhi, e mi sorridono per placarmi anticipatamente, ed appena la corbelleria è detta, ne ridono con gran chiasso. In compenso, vogliono che io sia il primo a servirmi di minestra e di lesso, e mi fanno altre garbatezze con modi un po’ soldateschi, ma piacevoli. «Ecco gli uomini! — dico dentro di me — questi ufficialetti, che si reputerebbero violati nell’onore se, per istrada, uno si fermasse a squadrarli da capo a piedi, senza intenzione di offenderli, subiscono il segreto fascino d’un disprezzo, che si estende a tutto il genere umano!» Alle frutta, fa regolarmente la sua apparizione il professor Gerolamo, mio buon amico e collega, maldicente instancabile, il quale viene a prendere il suo uditorio a tavola per menarselo a spasso attraverso i campi. — Hai un sigaro? — mi dice appena siamo all’aperto. — Ne ho uno solo — rispondo. — Bisognerà che io ne compri — conclude. Sì, è necessario; ma pure, ogni giorno, egli si dimentica di fornirsi di sigari, e ne chiede a me, che mi sono fatto la regola di comprarne uno solo prima di desinare. Quando il professor Gerolamo ha il sigaro fra i denti, incomincia a mordere — prima il sigaro, poi il prossimo. La letteratura è per lui un buon pretesto per isfogare il malumore; è in collera più che tutto, col suo collega di storia e geografia, il quale ha pubblicato un libro sulle origini..... su quali origini?.... ed ha osato scrivere _gli_ per _le_, proprio nella prima pagina, e altrove _ci_ per _vi_, e non è un errore di stampa, e _tavolo_ per _tavola_, e _sentire_ per _udire_, e non so quanti altri errori ed orrori, poichè io gli bado appena. Dopo il collega della storia e della geografia, l’amico Gerolamo se ne va di qua e di là a pigliare pel bavero il signor _Ipsilon_, il signor _Zeta_ ed altri signori lodati dalla stampa (la stampa? si chiede lui tra parentesi... quattro ragazzi bocciati agli esami di licenza liceale) e letti avidamente dal _pubblico_ (il pubblico? quale? in Italia non c’è pubblico!). Il prof. Gerolamo protesta che quelli non sono scrittori, che la letteratura non è quella cosa scempia che i giornali lodano e che il pubblico paga, ma è ben altro; del resto, egli lascia intendere che del disgraziato _Ipsilon_ e dell’infelice _Zeta_ ha letto una dozzina di pagine, a dir molto, e non ne ha pagate nemmeno una. Se non ho altro per il capo, la ciancia mordace di Gerolamo mi diverte tanto tanto, ma non al modo che egli immagina. — Pare anche a te? — mi domanda. — Se mi pare! — dico alzando gli occhi al cielo; ed egli s’infervora, ed io mi diverto a contemplare da tutti i lati quella sua curiosissima mania di credersi offeso dalla notorietà degli scrittori moderni più celebrati, solo perchè egli ha intenzione di scrivere un libro e di farsi celebrare. Mi sembra ingegnoso il suo metodo di pigliare un letterato oscuro e di metterlo con enfasi accanto ai più noti, per sentenziare che vale più di tutti quanti presi insieme, sebbene non valga gran che. Certo è ingegnosissimo quell’altro espediente di disseppellire un morto per accoppare un vivo; ma, più di tutto, mi riempie di meraviglia la sicurezza con cui, dopo avermi circondato di rovine, egli, per riposare il mio spirito sbigottito, tenta di condurlo con dolce violenza alla contemplazione estatica dell’_idea_ del libro che scriverà un giorno. Tenta, ma non sempre riesce, anzi non riesce quasi mai, perchè il più delle volte, mentre il suo egoismo s’infervora a distruggere biblioteche per preparare uno scaffale al gran libro nascituro, io lo pianto alla chetichella, e me ne vado con altri pensieri altrove. Non avviene più che io parli di me stesso e delle cose mie; ci cascai una volta e subito mi avvidi che egli era distratto — perciò taccio, mi godo il suo cicaleccio finchè mi accomoda, e quando ne sono infastidito, lascio che il rumore uscente dalle sue labbra si confonda per l’aperta campagna col chiasso che fanno i grilli sul limitare delle loro tane e le raganelle sui gelsi. Io non pretendo già che il professor Gerolamo stia zitto; sparli finchè vuole, ma si accontenti d’un cenno del capo per risposta, e mi accompagni, nel fervore delle sue notturne dimostrazioni, fino all’uscio di casa. — Buona notte, dolcissimo amico. — Buona notte! — Egli se ne va a casa, ed io me ne vado a letto. La mia giornata è finita. II. IL MIO TEMPO PASSATO _(Dal taccuino di Marcantonio)_ Le mie tribolazioni cominciano dal giorno che morì Faustina, buon’anima. Faustina era mia moglie da quattordici anni; essa era scesa fino al fondo del mio cuore, mi apprezzava degnamente, e compativa le mie debolezze. La parola, fra lei e me, era quasi diventata inutile: io gettava uno sguardo intorno, ed essa accorreva, perchè aveva letto il mio pensiero. Era riuscita a levarsi spesso prima di me, e lo faceva senza aprire le imposte delle finestre; si vestiva al buio e se n’andava in punta di piedi per non turbare un riposo di cui io doveva avere tanto bisogno — così si ostinava a dire, ed io non le contraddiceva, perchè è cosa dolce abbandonarsi alle carezze senza resistere, e con certe anime deboli e gentili è perfino cosa meritoria. La natura carezzevole di Faustina ne era contenta, la mia pure. Quello era il tempo felice! Negli ultimi mesi che fu al mondo, mia moglie era d’umore melanconico, e spesso si nascondeva per piangere liberamente. In mia presenza però sorrideva sempre, qualche volta rideva ancora; non voleva gettare il turbamento nell’anima mia. Così mi sorrise fino all’ultimo; una mattina mi chiamò al suo capezzale, e mi annunziò che non si sarebbe alzata, nè quel giorno, nè mai. Me ne chiedeva scusa, come se ci avesse colpa. — Come farai? — mi disse. — Come farò? — risposi scherzando: — ecco come farò. E diedi fuoco alla macchinetta del caffè. — Bravo! — mi disse melanconicamente; ed io le raccomandai di non affannarsi, di non darsi pensiero di nulla, di pensare solo a guarire presto per togliermi d’imbarazzo. — Quanto sei buono! — mormorò. Disse proprio così; la notte, queste tre parole suonano ancora nell’aria chiusa della mia cameretta. Io le sento e me ne compiaccio, perchè non mentiscono; sebbene gli uomini ed il destino abbiano fatto di tutto per guastarmi, io sono buono. Faustina morì raccomandandomi di non mi lasciar abbattere dal dolore, di non mi ammalare, di vivere per la felicità della nostra creatura, che allora aveva dodici anni. Le ultime volontà della mia povera compagna mi furono sacre: io feci tutto quanto ella aveva desiderato, e non mi lasciai abbattere dal dolore, e non mi ammalai, e vissi. Dinanzi al cadavere bianco di Faustina, tutto ciò mi pareva impossibile, ma la mia volontà trionfò del mio aspro tormento. Cominciò la nuova vita, la mia vita quasi monastica, che dura da quindici anni, e che ho sopportato fortemente fino ad oggi. Serafina era un grave impiccio per un uomo solo: bisognava metterla in collegio, e le ottenni un posto semi-gratuito in un istituto del mio paese, a Bergamo. Essa vi andò piangendo, e mi bagnò le mani di lagrime nel separarsi da me. — Pensa a tua madre — provai a dirle; — essa non piangeva mai; essa attraversò la vita sorridendo sempre; impara anche tu a sorridere al tuo povero padre abbandonato. Udendo questo, Serafina ricominciò a piangere, e non ci fu verso di farla smettere. Mi toccò lasciarla fra le braccia della direttrice per non perdere il treno del mezzodì, proponendomi di scriverle appena arrivato a Milano; ma essa fu più sollecita di me, e mi fece trovare quattro giorni dopo a scuola una lettera di quattro pagine tutta bagnata di lagrime. Quella epistola, giunta con tre giorni di ritardo, perchè diretta ad un «Abate professore Marco Antonio», mi diede da pensare; vi notai un’anticipata abbondanza di frasi e di parole romantiche. Mia figlia, che era sempre stata la più timida creatura fra quante portano le gonnelle corte, mia figlia, che nel darmi la buona notte non osava aggiungere un bacio, se io dimenticava di incoraggiarla, mia figlia, che aveva per me tanta reverenza da mettere me stesso in imbarazzo, mia figlia che mi considerava, non so perchè, più come professore d’una scienza difficile che non come padre, lei, lei stessa, a dodici anni, trovava nell’assenza un insolito frasario di tenerezze per l’autore dei suoi giorni. Essa pure, come sua madre buon’anima, mi scriveva: «tu sei buono, tu hai l’anima generosa» e simili. Il caso mi sembrò grave, e mi affrettai a rispondere per consigliarle di andar cauta nella scelta delle letture e nell’uso delle frasi che trovava stampate nei libri. Mi ricordo che le dicevo: «Bisogna scrivere alla buona, semplicemente, più col cuore che colla fantasia, e sopratutto bisogna essere sinceri; impara fin d’ora a sospettare delle frasi che suonano molto, perchè, per lo più, sono piene di vento; e finchè tu non abbia acquistata l’esperienza necessaria, meglio è rifiutare quelle parole che non sono d’uso comune, perchè potrebbero essere monete false.» Mi rispose prontamente per dichiararmi che aveva inteso benissimo, e ringraziarmi dei preziosi consigli, i quali, diceva, già erano scolpiti nel suo cuore. Ma la lettera cominciava così: «_padre adorato_!» La mania epistolare di mia figlia era tale, che diventava necessario mettervi un argine, anche per non aggravare il bilancio domestico con una spesa eccessiva di francobolli. Presi dunque il partito di ritardare le mie risposte, proponendomi di aprire l’animo mio a Serafina nelle vacanze pasquali. Avevo promesso, un po’ sbadatamente, di andarla a pigliare per condurla a casa durante queste benedette vacanze, e non ci fu verso di farle intendere che, dopo matura riflessione, non avendo io tutti gli agi di una volta, non avrei potuto riceverla in casa senza grave disturbo. Non volevo spingermi fino ad un rifiuto esplicito, che sarebbe sembrato crudele a quella testolina piena di frasette; ma avrei avuto caro che essa stessa, sebbene fanciulla, comprendesse il grave impiccio che mi doveva dare colla sua venuta. — Non comprese un’acca, e nel suo egoismo infantile volle a tutti i costi che io lasciassi le mie occupazioni per pensare a farmi la valigia, ed andarmene alla stazione, e poi a Bergamo, a prenderla. Vedendomi, battè le mani e mi si buttò al collo, come mi prometteva il suo stile epistolare, ma si calmò in modo inaspettato; in carrozza, in vagone ed a casa durante le vacanze riescì ad ingannarmi interamente colle sembianze della bimba più giudiziosa della creazione. Temo per altro che, in quei giorni pasquali, la poveretta si annoiasse un poco, perchè a divertire le fanciulle io allora non ci aveva pratica, e nella mia libreria, quanto erano abbondanti i libri metafisici, etici, od altrimenti filosofici, altrettanto erano scarsamente rappresentate le belle lettere. Non vi mancavano Dante, Guicciardini, Machiavelli, ma Serafina non era in età di gustarli; vi erano pure i _Promessi Sposi_, e mia figlia si adattò a rileggerli per disperazione. Ma appena giungeva Anna Maria, Alessandro Manzoni era piantato dove capitava, sul canapè, sopra una seggiola, sul tavolino, e Serafina correva con impeto di gioia a rifare i letti. Era un buon indizio, e il mio cuore di padre lo notò con grande compiacenza. Avrei voluto farle intendere che doveva di buon’ora rivolgere il pensiero allo sviluppo di quelle facoltà... che... — Bravissima! — le dissi una mattina, e vedendo la faccia di mia figlia illuminata dalla gioia di questa approvazione esplicita ed incondizionata, ripetei più moderamente: — Bravissima! In collegio devono rifarlo le alunne il letto? Mi rispose di sì, e che ogni mattina, nelle camerate era una gara muta a chi faceva più presto e meglio. Allora cominciai: — Vedi, bimba mia, la lettura è una buona cosa, io te l’ho sempre raccomandata, e te la raccomando ancora; ma bisogna scegliere le letture e saper leggere, altrimenti ogni libro è un pericolo. Accanto poi alle facoltà intellettuali, le fanciulle devono.... di buon’ora.... curare.... lo sviluppo di quelle altre facoltà.... che.... Col _che_, il periodo non andava, e io corressi: — .... di quelle facoltà con cui.... Ma anche così il periodo non faceva cammino, se non era Serafina a spingerlo. — Con cui si rifanno i letti — essa disse semplicemente, e disse benone. — Con cui si rifanno i letti — ripetei — che sono poi le medesime facoltà in virtù delle quali si diventa donne di casa, cioè a dire buone figlie, buone mogli e buone madri di famiglia. — Babbo — esclamò Serafina con un lampo di quel lirismo che le dettava le lettere — babbo, devo stare con te a rifare i letti e a dar sesto alla casa; invece di andartene a desinare alla trattoria, desineremo insieme qui... proprio qui... Anna Maria farà la cucina, ed io l’aiuterò. In collegio ho imparato a cuocere le uova nel tegamino; imparerò il resto. Io baciai mia figlia in fronte per ringraziarla; ma essa ripetè: — Vuoi? — Non è ancora il momento — dissi; — hai dodici anni soltanto. — E mezzo... — Devi compiere almeno almeno gli studi elementari; ma ti prometto che, quando sarai più grandicella, non ti negherò questa consolazione, e piglierai tu il posto della tua povera madre... Che cosa diamine mi era venuto in mente di tirare in ballo i morti? Eccoti Serafina in lagrime, come una fontana. * * * Quando mia figlia se ne andò, ed io mi ritrovai un’altra volta solo nelle mie stanze, dissi a me stesso che quella difficile prova della paternità era andata meglio di quanto potessi ragionevolmente presumere, e che l’idea di Serafina di lasciare il collegio prima del tempo per fare la padroncina di casa aveva del buono. Ne aveva tanto, che cominciai a pensarvi sul serio. Era cosa certa che io spendeva più che non comportassero i miei bisogni — la mia casa era troppo ampia per me solo, ed io non mi sarei più potuto adattare alla prigionia di una cella da scapolo; la mezza pensione del collegio, anche così dimezzata, si mangiava tutto intero uno stipendio di professore di filosofia; a mangiarmi io l’altro, non avrei avuto bisogno d’un grande appetito; e se il mio appetito era robusto e rimaneva soddisfatto, lo dovevo agli interessi dotali della mia defunta, la quale mi aveva voluto nominare usufruttuario del suo piccolo patrimonio. Certamente, mia figlia doveva assomigliare in tutto a sua madre; essa sarebbe vigilante, affettuosa, ed un poco indovina per prevenire i miei desiderii. Si spenderebbe meno e si starebbe meglio, lei ed io — sopratutto lei. Cominciai a non potermi togliere dal capo questo sogno; — ogni mattina, quando entrava in casa Anna Maria, mi pareva di vedere quel donnone massiccio sotto gli ordini d’una donnina minuscola, e, non so perchè, ci trovavo gusto; era una immagine non ancora abbozzata, che già mi prometteva un capolavoro. Non succede forse così ai grandi artisti? La tentazione fu lunga, perchè bisognava guardare le cose da tutti i lati, e almeno almeno aspettare il termine dell’anno scolastico prima di dare quella grande felicità a mia figlia. Fu un giorno che, sul punto di dar fuoco al fornelletto per farmi il caffè, mi avvidi che mancava l’alcool e che non ce n’era nemmeno in cucina; fu quel giorno che presi la determinazione. «Serafina — dissi a me stesso — verrà a passare le vacanze col babbo, ma ignorerà tutta la sua felicità per un poco: se essa, e non ne dubito, farà la padrona di casa con un certo garbo, se, sottoposta da te ad un esame quotidiano, ti darà saggio di aver imparato almeno ciò che le ragazze non devono ignorare, promettimi che l’anno venturo non la manderai più in collegio.» Lo promisi. Serafina venne durante le vacanze, e fu messa alla prova senza che se ne avvedesse. Quella ragazza era nata colle chiavi della dispensa e della guardaroba in tasca! Aveva tredici anni appena, ma ne dimostrava più di quindici, tanto era sviluppata; rizzandosi in punta di piedi, arrivava non solo ai cassetti più alti per chiuderli e per aprirli, ma anche all’orologio a pendolo del salotto per caricarlo. Serafina non poteva vedere un bruscolo di polvere sopra uno stipite senza sentirselo addosso; — dove non arrivava colle sedie adoperava lo scaleo, o chiedeva l’aiuto di Anna Maria, e quando era riuscita nel suo intento, non era soddisfatta ancora, guardava in alto come cercando il nemico. — Chi sa — mi diceva talvolta sospirando — quanta polvere vi è sul cornicione che corre in giro alla vôlta! — Chi lo sa? — rispondevo scherzando; — spero bene che non ti sarai arrampicata fin lassù. A me quella guerra spietata alla polvere sembrava soverchia. — Un giorno o l’altro, la polvere si vendica — dissi a mia figlia; — ma essa non comprese il significato profondo della mia sentenza, ed io stesso non credeva che ne potesse avere un altro; bisognerebbe guardare sugli stipiti ora che la polvere della mia casa non ha altro nemico che Anna Maria, per intendere quanto si è vendicata. Serafina teneva i miei conti con un’esattezza mirabile; mi sapeva dire a memoria quanto avevamo speso ogni giorno ed ogni settimana, poi mi offriva una prova della sua infallibilità: il registro della spesa diaria. Da questo lato le cose andavano benone, ed io fui più d’una volta tentato di darle la notizia della felicità che le serbavo; ma se le chiedevo chi era Sesostri, chi era Tutmes o chi era Demetrio Poliorcete, la mia donnetta di casa diventava ad un tratto una bambina, si faceva rossa rossa, e dopo un disperato tentativo per indovinare, mi confessava che non lo sapeva. — Ma non studiavate la storia in collegio? Sì, la studiavano, ma di Tutmes e di Sesostri se ne era dimenticata. Qualche volta sbagliava io stesso nell’interrogarla; le chiedevo, per esempio, chi era Carlo Alberto, o perchè un corpo abbandonato a sè stesso cade. Essa apriva tanto d’occhi a guardarmi estatica, e quando io diceva con accento di rimprovero: è _storia patria moderna_, è _fisica elementare_, essa alzava la voce, e le splendeva la gioia in viso nel farmi sapere che, in collegio, quelle cose non si insegnavano ancora. — Sai bene? — diceva — non ero che in quarta! La sua educazione letteraria era abbozzata appena; quanto alla storia, alla geografia, alla storia naturale, alla fisica, alle prime nozioni filosofiche, era tutto da fare. — Non sa proprio nulla! — dicevo disperatamente. — Come si fa? Non sa proprio nulla! Nulla proprio, no; delle quattro operazioni, per esempio, era padrona; sapeva anche i numeri decimali e le frazioni. Mettendole in mano dei buoni libri, facendo patti chiari e severi, forse era possibile ancora combinare il mio desiderio coi miei doveri paterni, e renderla felice. Forse... La guardavo e non le dicevo nulla. Quando si vedeva così guardata, Serafina, temendo forse un’insidia storica o geografica, si affrettava a mettere tutta la sua attenzione in qualche cassetto, e, appena poteva, se ne andava in un’altra stanza. Io, rimasto solo, pensava alle cose che le fanciulle _devono sapere_, e riconoscevo che, a conti fatti, non sono molte, e che quelle che _possono ignorare_ sono assai più. Un giorno, qualcuno mi suggerì: «Le ragazze ne sanno sempre di troppo per un marito accorto.» Ed io ripetei fra me e me con una piccola variante: «Le ragazze ne sanno sempre abbastanza per un babbo indulgente.» — Sai? — dissi forte a Serafina, che erasi arrampicata sullo scaleo e stava nettando la cornice d’un quadro — mancano venti giorni a rientrare in collegio, ma io ho deliberato di renderti felice; scendi e vieni ad abbracciare tuo padre. Sulle prime non comprese; ma si voltò e mi vide ai piedi dello scaleo, a braccia aperte, come la provvidenza. Allora mi si buttò addosso, dall’alto, scrollandomi tutto. — Dici davvero? Non andrò più in collegio? — Sì — risposi, cercando inutilmente di staccarmela di dosso — non vi andrai più; sei contenta? Ma bisognerà fare dei patti. — Facciamoli. — Tu studierai la storia e la geografia in casa. — Sì... sì... le studierò. — Leggerai i libri che ti darò io. — Sì... sì... leggerò i libri che mi darai tu. — Studierai anche il francese. — Sì... si... studierò il francese. Prometteva tutto. — Ed avendo sempre in mente — soggiunsi con un po’ di solennità — che se io faccio questo sacrifizio è perchè ho promesso alla tua povera madre di renderti felice, t’ingegnerai di pigliare nella nostra casetta il posto della cara defunta. Me lo prometti? Essa stentava a dire di sì; le scostai il viso dal mio panciotto, e vidi che aveva incominciato a piangere. — Mi devi pure promettere che non piangerai con tanta frequenza; il povero babbo lavora per la tua felicità, e tu lo compenseresti malamente facendogli vedere delle lagrime quando torna da scuola... Allora essa si asciugò il volto e rise. * * * Qui comincia il mio secondo tempo felice. Furono sei anni di pace, durante i quali mia figlia cresciuta fino a non aver bisogno della seggiola per arrivare col piumino agli stipiti delle porte, si fece anche bella e vezzosa. Assomigliava in tutto a sua madre buon’anima, ed a me pareva di aver ritrovato quel tempo della mia vita, in cui, professore e marito novellino, ero ugualmente contento della mia sposa e della mia cattedra. Più tardi, mi si era ammalata la moglie, e mi si era ammalata la filosofia; e più tardi ancora, anche quell’ombra della prima felicità mi doveva essere contesa — si ammalò mia figlia. Si ammalò all’improvviso, una brutta sera di maggio, attraversando la Galleria Vittorio Emanuele al mio fianco. Fu una specie di colpo di sole all’ombra, e quando essa, ridotta alle ultime trincee dalla mia dialettica, me lo confessò piangendo, io non seppi credere alle mie orecchie, e la pregai di ripetere. Essa, invece di contentarmi, pianse più forte e se ne fuggì nella sua camera — ed io rimasi là, colle braccia in croce, a contemplare sull’ammattonato il mio bel balocco infranto. Serafina dunque si era innamorata; aveva 19 anni appena, e già pensava di abbandonare suo padre, e per chi? per un giovincello non mai veduto, coi baffetti a punta, l’occhialetto sul naso, bruno, piccolo e grasso — forse un tenore od un baritono a spasso, domiciliato in Galleria Vittorio Emanuele. Quel messere aveva visto mia figlia, e mia figlia aveva visto lui; io non aveva visto nulla. Egli ci era venuto dietro fino al portone di casa, e da quel giorno aveva cominciato a passeggiare sotto le mie finestre. Me lo trovavo fra i piedi sempre che andavo a scuola, e un giorno l’imprudente ebbe anche l’audacia di sorridermi e di salutarmi. Avevo sperato sul principio che mia figlia facesse giudizio, ma invano. Essa non mi trascurava, tutt’altro; era sempre attenta e pronta, sempre in guerra colla polvere di casa; ma da poco in qua, cantava delle romanze, mentre non ne aveva cantato mai, e piangeva più del solito. Era chiaro che mia figlia aveva capito, come me, che il suo innamorato cantava, ed io temeva che sapesse già in che chiave, e in quali piazze e quale era il suo repertorio. Questa gente di teatro è avvezza agli intrighi del melodramma, e perciò è ardita. «Forse le ha scritto!» pensavo. Sapevo mia figlia afflitta da un’antica mania epistolare, e dicevo: «Forse gli ha risposto, forse, a quest’ora, si scrivono e si rispondono liberamente, in barba alla filosofia di un padre minchione.» Sospettavo di Anna Maria; guardando quel donnone col mio sospetto, lo vedevo tutto imbottito di lettere e di mistero. Un giorno la presi in disparte, per dirle a bruciapelo: — Anna Maria, voglio sapere la verità. Ella si fece rossa in viso, ma mi rispose con franchezza che di bugie non ne aveva dette mai. — Ebbene, allora confessa che quel signorino che passeggia sotto le finestre.... tu lo conosci quel signorino, devi averlo visto anche tu, non lo negherai. — Un signore bruno, un bel giovane... — Non è quello, è anzi piuttosto brutto, ma è bruno, è piccolo, ha i baffetti a punta... — Sissignore, l’ho visto.... un bel giovane bruno, piuttosto piccolo, ma non troppo, coi baffetti a punta... Sissignore, l’ho visto. — Ebbene, quel signore non ti ha mai dato qualche lettera per mia figlia? — Me le voleva dare, ma non le ho volute prendere, e gli ho detto che trovasse un’altra... così gli ho detto, ma che Anna Maria questi servigi non li faceva. — E tu credi che abbia trovato un’altra?... — Non ne so nulla io... — E mia figlia non ti ha mai pregato di... — La signorina mi conosce meglio di lei: del resto, senta, se due innamorati vogliono scriversi, ci è la posta, mi pare, ci sono i fattorini di piazza. Quelle parole fecero la luce nel mio cervello. Il seduttore di mia figlia, quando mi vedeva uscire per andare alla scuola, poteva benissimo mandare una lettera a casa ed aspettare la risposta; un giorno o l’altro poteva anche fare di peggio, portar la lettera in persona. — Anna Maria — dissi — hai tu mai veduto capitare in casa dei fattorini di piazza durante la mia assenza? Tremavo aspettando la risposta. Anna Maria non seppe mentire. — Ne ho visto venire uno — disse... — uno solo — soggiunse, come per temperare la crudezza di quella rivelazione. — Una volta sola o più volte? — insistei, volendo arrivare al fondo della mia disgrazia. — Due volte, mi pare, o tre; ma sempre lo stesso fattorino. — Grazie, Anna Maria, grazie! Io me n’andava difilato nella camera di mia figlia, e Anna Maria, volendo rimediare alla propria sincerità, mi venne dietro. — Non la faccia soffrire, la povera creatura — mi diceva: — se sapesse come piange per il timore di affliggere lei!... Deve essere un bravo giovinotto anche quell’altro... Lasci che si sposino. Ero giunto all’uscio della camera di mia figlia; mi voltai e dissi semplicemente, guardando la mia consigliera ben bene in faccia: — Grazie, Anna Maria, grazie! Non osò più fiatare, ed io picchiai all’uscio. — Avanti! — disse la voce di Serafina. Entrai. Mia figlia stava ritta dinanzi al letto; aveva gli occhi rossi e gonfi di pianto; sul guanciale s’indovinava ancora l’impronta della sua faccia e delle sue lagrime. — Non sono io tuo padre? — dissi senza collera; — non vivo io forse per la tua felicità, e non hai tu promesso di considerarmi come il tuo migliore amico? — Oh! babbo, babbo mio! — esclamò; e tese le braccia verso di me senza muoversi. Compresi subito che le mie parole lasciavano aperta la via all’equivoco, poichè vidi brillare negli occhi di Serafina una speranza irragionevole. Brillano anch’esse le speranze irragionevoli, tali e quali come le altre. — È mai possibile — proseguii — che mia figlia abbia dimenticato sè stessa fino a ricevere lettere da un giovinotto e forse scriverne? Essa chinò il capo sul petto — non negava nulla. — Sai tu almeno chi è quest’uomo che hai preso sulla strada per metterlo fra te e tuo padre? Sai tu che egli è un commediante, peggio ancora, un cantante, un tenorino forse, che ieri ancora faceva il parrucchiere od il macellaio, e domani canterà in un teatro di provincia? Serafina faceva di no col capo, ma non osava rispondermi. — Dove sono le lettere che ti ha scritto? — dissi. Non isperavo già che essa mi avesse a consegnare le lettere, come fece, estraendole dal seno; e fu quest’atto romantico, ma leale, che mi troncò in bocca le parole. Io presi quei fogli colla punta delle dita, guardando da un’altra parte. Non volevo vedere la preghiera muta che mia figlia mi faceva cogli occhi, per non lasciarmi vincere dalla debolezza, ed uscii tranquillamente com’ero venuto. Nel richiudermi l’uscio alle spalle, giunse fino a me un singhiozzo ed il rumore d’un corpo che ripiombava sul letto. Andai a chiudermi nella mia camera, e lessi quelle lettere. — Erano tre in tutto, e le lessi in ordine di data. Nella prima, Iginio Curti domandava a sè stesso se egli avesse o no la fortuna d’essere stato _veduto_ da mia figlia; nella terza, Iginio Curti chiedeva a mia figlia se si sarebbe lasciata sposare. Soltanto a quest’ultima mia figlia aveva risposto per iscritto; appariva chiaro dal tenore delle altre due che prima si era solamente ingegnata di rispondere cogli sguardi e coi languori; quando essa mi camminava al fianco in Galleria e quando io beveva ingenuamente la birra di Vienna al caffè Gnocchi, allora appunto essa tradiva la fiducia di suo padre. Dalle tre lettere risultava che Iginio Curti non cantava nè in chiave di tenore, nè in chiave di baritono, ma bensì in chiave di basso, e che faceva il basso comico, in altri termini, il _buffo_. Era di buona famiglia — diceva lui — suo padre faceva l’avvocato, e solo l’amore dell’arte aveva spinto lui nella carriera del teatro. Non era ricco, ma possedeva pure qualche cosuccia; metteva ai piedi di mia figlia ogni cosa presente e futura, egli diceva «_il suo avvenire_» — questo avvenire doveva essere bello; già aveva cantato a Vigevano ed a Lecco, e v’aveva _fatto furore_ (era costretto a confessarlo vincendo la modestia) — le _scritture_ non gli mancavano; doveva _fare_ il _Barbiere di Siviglia_ e i _Falsi monetari_ a Taganrog in primavera. Il suo proposito era di sposarsi subito e passare la luna di miele in Taganrog. Si stenta a comprendere che una fanciulla di diciannove anni non cascasse dall’alto trovando un buffo dove aveva sicuramente immaginato un tenore; ma superato questo passo difficile, si capisce benissimo tutto il resto. Iginio Curti era, come volgarmente si dice, un bel giovane, aveva della baldanza, scriveva con un certo spirito e faceva balenare alla ragazza l’allettatrice idea d’un matrimonio immediato, d’un lungo viaggio di nozze e d’una luna di miele all’estero. Io afferrai subito ciò che v’era di buono in questa lettera — la scrittura di Taganrog. Cacciai l’autografo di Iginio Curti in un cassetto, e proibii a mia figlia di ricevere lettere in mia assenza. Che fanno le ragazze quando non vogliono dire nè sì, nè no? Piangono. Così fece Serafina, ed io mi fidai, perchè le sue lagrime mi parevano spremute dal pentimento. Due giorni dopo, Iginio Curti scriveva a me stesso, facendomi la domanda esplicita della mano di mia figlia. Non mi nascondeva d’aver fretta, essendo scritturato per cantare nel teatro di Taganrog; mi dava ampie notizie della sua famiglia e del suo parentado, e mi pregava di prendere subito le informazioni. Non chiedeva se mia figlia avesse dote, dichiarandosi pieno di fiducia nella bell’arte del canto, che doveva nutrire il buffo, la moglie del buffo e i figli nascituri del buffo. Ai lumini della ribalta aveva un ben di Dio; anche qualche cosa al sole non gli mancava. Dunque?... Egli scriveva colla baldanza di chi si crede sicuro del fatto suo; faceva la cosa più seria della vita in uno stile vivace e allegro. La mia risposta fu breve, ma pronta. «Serafina — dicevo al buffo — ha diciannove anni soltanto, e non pensa ancora al matrimonio; sa che il suo povero padre non ha che lei al mondo, e non vorrà abbandonarlo mai per seguire il marito in paesi lontani, per esempio a Taganrog. Mia figlia — conchiudevo — piglierà marito a suo tempo, lo piglierà di suo genio, col consenso del babbo, e lo sceglierà fra gli uomini che non viaggiano. Dolente...... eccetera....» Non avevo voluto informare Serafina di questo carteggio per risparmiare a me ed a lei nuove lagrime; mi lusingavo d’aver condotto il negozio con arte e di essermi sbarazzato per sempre di Iginio Curti. Invece no. Il basso comico tornò alla carica con una lettera di quattro pagine fitte, in cui negava con sfacciata ipocrisia tutte le mie parole. _Forse_ non era vero che mia figlia non fosse disposta a seguire il marito anche agli antipodi, sebbene adorasse il babbo; _forse_ non era vero che mia figlia si adatterebbe a sposare più tardi un uomo qualunque scelto fra quelli che non viaggiano. Bensì era vero, proseguiva, lasciando risolutamente la sua parte di _Don Basilio_, che i genitori devono rassegnarsi a fare la felicità delle loro ragazze, anche col sacrificio dei propri affetti e dei propri comodi. Conchiudeva con una sentenza: «l’eccesso di zelo nel preparare la felicità dei figliuoli, qualche volta è egoismo, o almeno sembra.» Implorava dal mio cuore paterno.... eccetera. Questa volta mi parve d’aver in pugno la distruzione del basso comico, o di tutte le sue speranze almeno. — Leggi — dissi a mia figlia — e apprendi a quale uomo tu eri disposta a legarti per tutta la vita; leggi e giudica tu stessa, quanto valga questo buffo che anteponevi a tuo padre. Essa lesse piangendo, e dopo aver letto pianse ancora. — È vero quello che egli dice, che tu saresti disposta a seguirlo anche in Taganrog? Rispondi. Nessuna risposta. — È vero che abbandoneresti tuo padre per seguire un ignoto anche agli antipodi? Rispondi. Nessuna risposta. — Lo sapevo bene io che non è vero. Ma questa commedia ha durato troppo; il signor Curti non avrà nemmeno l’onore di una risposta alle sue insolenze, e dimostrerai a quel basso comico di avere un padre diverso da quelli che egli rappresenta nelle opere buffe. Mi raccomando, non se ne parli più. Non se ne parlò più, ma io vedeva bene che la cosa non era finita. La vigilia di partire per Taganrog, il buffo ebbe l’impertinenza di mandarmi il suo biglietto di visita p. p. c.; dopo di che, non ne seppi più nulla per un buon mese. Un giorno, mi capitò sotto fascia una gazzetta teatrale, in cui si narrava che il pubblico di Taganrog aveva fatto non so che feste a Iginio Curti, insuperabile nella parte di _Don Basilio_. La gazzetta era diretta _al Signor Abate prof. Marco Antonio_, tale e quale come le lettere che mi scriveva un tempo mia figlia. Non occorre dire che Serafina non vide la gazzetta, e che di Taganrog, di _Don Basilio_, di battimani e d’altro, almeno da me, non seppe nulla. Io intanto veniva studiando sul viso e nei modi della mia ragazza come si fosse accomodata all’idea di perdere il suo cantante. Mi pareva propriamente che non vi pensasse più; non la vedevo piangere più del solito, e la trovavo mattina e sera pronta a far la guerra alla polvere domestica. Solamente, non aveva più smesso di cantare, ed erano le cabalette del repertorio buffo quelle che essa preferiva. Per esempio, quando seppi che Iginio Curti si era fatto applaudire a Taganrog nella parte di _Don Basilio_, notai che Serafina cantava da qualche tempo: _Ma se mi toccano dov’è il mio debole;_ e quando un’altra gazzetta venne a farmi sapere che Iginio Curti si era coperto di gloria facendo la parte di _Crispino_, Serafina, già da una settimana, non aveva altro in bocca che: _Se trovasti una comare, io trovar saprò un compare_. Salvo questi indizi, che in fondo non provavano nulla di male, non notai altro. La mia casa era sempre la più netta fra tutte le case dei professori: la mia camera non era indegna di albergare un filosofo mondano, e la mia mensa modesta poteva nutrire benissimo un paio di filosofi epicurei. Bisognava, a buon conto, prevenire il ritorno trionfale di Iginio Curti. Quando il buffo fosse un’altra volta a Milano con un carico di allori esotici da deporre ai piedi di mia figlia, le ostilità potevano ricominciare, ed io non mi sentiva voglia di leticare con _Crispino_ dei Tacchetti imbaldanzito dai battimani. Il mio disegno era semplice: maritare mia figlia, darle uno sposo di mio genio, che non ispiacesse nemmeno a lei, s’intende, perchè non volevo sacrificare il mio sangue; uno sposo che non fosse costretto a viaggiare e che appartenesse alla nostra famiglia, fosse cioè professore d’un liceo. Ci era appunto il preside d’uno degli Istituti in cui facevo scuola; era uomo ben conservato, valido certamente più di tanti giovinastri, e da qualche tempo pensava ad alta voce al matrimonio. Egli era anche professore di matematica, e un giorno mi aveva parlato con un risolino molto strano d’una X incognita, che ci cammina accanto per tutta la vita e ci piglia poi all’improvviso. L’allusione ad una sposa generica era evidente; ma egli era mio superiore, e non si faceva lecito di alludere apertamente a mia figlia — bisognava rendergli facile la cosa, fare magari mezza la strada io. Più ci pensavo, e più vedevo la convenienza di quelle nozze; il preside Martini era un partitone; aveva forse quarant’anni, forse quarantacinque, ma non più; colla carica di preside e colla scuola di matematica, si guadagnava le sue cinque mila lire tonde; quando volesse, potrebbe guadagnarne anche più dando lezioni private; era cavaliere della Corona d’Italia e dei Ss. Maurizio e Lazzaro, membro di tre o quattro Accademie scientifiche — era anche un bell’uomo, alto, robusto, un po’ calvo, ma pieno di dignità. Ah! se la mia ragazza avesse avuto un po’ di giudizio! Le svelai la mia idea, e voi indovinate subito come l’accolse: piangendo. Dopo questo preambolo, mi disse addirittura che non pensava al matrimonio. — Ma ci penso io — dichiarai; — io non sono eterno, e non posso lasciarti sola nel mondo. Sapete che cosa mi rispose? Che nemmeno il preside Martini era eterno, e in questo non aveva torto. Messa alle strette, finì col dirmi che essa aveva _giurato_ d’essere del buffo o di rimanere zitella. — Rimarrai zitella — dissi. Chinò il capo, ed io voltai le spalle per non vederla piangere. In quel tempo, giunse la notizia che in Russia era scoppiato il colera, e che mieteva molte vittime. «Se infierisce il colera, pensai, i teatri russi si chiudono, la stagione di Taganrog finisce prima del tempo, e fra una settimana il buffo Curti passeggierà in Galleria Vittorio Emanuele.» La notizia aveva pure un lato buono. Poichè il colera mieteva, per esempio, cento vittime il giorno, ed io non aveva alcuna speciale affezione al buffo Curti, potevo benissimo, senza desiderare il male del prossimo, far voti perchè il buffo Curti pigliasse il posto d’un’altra persona seria, che fosse padre di famiglia, sostegno di parecchi figliuoli, e magari d’un vecchio padre ottuagenario. Ma il colera è una epidemia senza giudizio; andò a Taganrog, fece chiudere i teatri, spedì all’altro mondo parecchi galantuomini ammogliati con prole, e lasciò intatto Iginio Curti, il quale, quindici giorni dopo, si arricciava i baffi dinanzi al caffè Gnocchi in Galleria, e contava i suoi trionfi e quelli del colera in Taganrog nello stile dei cantanti e dei superstiti. Non tardai a ricevere un’altra lettera del mio persecutore. Mi annunziava che egli era sempre fermo nel proposito di sposare mia figlia, e che io, per fare proprio una bella cosa, dovevo affrettarmi a dare il consenso per il matrimonio; si farebbero le nozze alla lesta, poi si partirebbe per le isole Azzorre, dove egli era scritturato per sei mesi. Mi pregava d’una risposta sollecita. Piegai la lettera in quattro, e la misi a dormire colle altre due in un cassetto. Che fece allora Iginio Curti? Si presentò incognito all’uscio di casa mia, chiese del professore Abate, senza dire il proprio nome (così assicura Anna Maria), e si fece introdurre alla mia presenza. Al primo vederlo, sentii che la filosofia mi abbandonava, e che io stava per commettere qualche grosso marrone, ma egli mi prevenne, mettendo le mani innanzi, e dicendo con accento dimesso: — La prego di non andare in collera. Io non risposi ed egli proseguì: — La prego di lasciarmi parlare, non mi respinga senza avermi ascoltato: poi me ne andrò io stesso. Si guardò intorno cercando una sedia, il che m’indispettì; fortunatamente, nel mio studiolo tutte le seggiole erano ingombre di libri, ed avendo io finto di non badare alla sua mimica, egli fu costretto a parlare stando in piedi. Mi ripetè tutto ciò che mi aveva scritto; aggiunse solo che non era sua intenzione fare sempre la vita del vagabondo; non era già balzato dalla platea sul palco scenico, come ora s’usa, aveva fatto buoni studi nel Conservatorio di Milano, e se avesse voluto dar lezioni di canto all’estero, i dilettanti lo avrebbero pagato meglio degli impresari. Quando ebbe finito di dire, uscì tranquillamente senza aspettare la risposta. Ero rimasto a sedere e non avevo neppure alzato gli occhi a guardarlo; ma quando egli fu fuori dell’uscio, mi balenò in mente l’idea che si potesse incontrare con Serafina in anticamera — perciò mi mossi e gli venni dietro a passi gravi: giunsi in tempo a vedere mia figlia che fuggiva in cucina. — Serafina! chiamai con voce severa. Iginio Curti, che si avviava all’uscio d’ingresso, si fermò di botto. — Chiamo mia figlia — gli dissi semplicemente; ed egli se ne andò. * * * La scena che seguì in cucina fu breve. Anna Maria era rimasta in anticamera, non osando venirmi dietro; io trovai mia figlia gettata bocconi sulla catasta delle legna, come se volesse abbracciarla. Mi appoggiai al fornello, e lo dissi tranquillamente: — Serafina, è venuto il momento di scegliere fra tuo padre e il tuo seduttore. Serafina, che cosa hai detto poco fa a quell’uomo? E poichè mia figlia rispose solo a singhiozzi, ripetei la domanda con una lentezza calcolata. — Serafina, che cosa hai detto poco fa a quell’uomo? Essa sollevò la faccia lagrimosa, e mi disse con voce spenta: — Gli ho giurato d’amarlo sempre. Quell’ostinazione avrebbe fatto andare in collera un santo. — Ed io giuro — le dissi solennemente — giuro che non darò mai il mio consenso. Giuro — proseguii accalorandomi — che se tu sposerai quell’uomo contro il mio volere, cesserai d’essere mia figlia per sempre. — Non giurare, babbo mio, non giurare! — mormorava essa. Io mi mossi, ed essa si trascinò dietro a me fin sull’uscio, mormorando sempre: — Babbo mio, non giurare! Ho pensato tante volte a quella strana miscela di lagrime e di ostinazione di cui era formata la mia ragazza; essa mi adorava, non potevo dubitarne, ma aveva promesso di esser di quel buffo, a costo della propria pace, del proprio avvenire, della pace e dell’avvenire di suo padre; e perchè aveva promesso doveva mantenere. Mi avrebbe ucciso piangendo, e poi sarebbe morta di dolore ella stessa per non venir meno al giuramento fatto. Le conoscevo queste povere anime combattenti, che hanno per arme la debolezza; esse sono le anime vinte, ma invincibili. Cominciò ad entrarmi nel cervello l’amaro pensiero che mi toccherebbe cedere alla debolezza di mia figlia; due giorni dopo ne fui persuaso. Ecco quello che mi scriveva il buffo Curti: «Fra nove mesi vostra figlia avrà compiuto i ventun anni, e sarà padrona di sè, in forza delle leggi civili che ci governano. Essa ha giurato di esser mia, ed io giuro che saprò esser per lei marito, padre, amico, ogni cosa. Decidete.» Ebbi presto deciso; non risposi a quella lettera, ed aspettai dal tempo giorni migliori. Il tempo mi ridonò i giorni d’una volta tali e quali; mia figlia si rasserenò quando il buffo fu partito per le Isole Azzorre; picchiò sul suo pianoforte il _Barbiere_ ed il _Crispino_ quando giunsero le notizie dei trionfi del suo innamorato, finchè una mattina si svegliò piangendo più del solito, tanto che venne a sedersi a mensa cogli occhi rossi; era il giorno in cui compiva il ventunesimo anno. Un mese dopo, Iginio Curti era di nuovo in Milano, e si portava via la mia ragazza per farla sua moglie. Di questa brutalità, commessa per eccitamento del Codice civile, ho scolpiti in mente tutti i particolari. I due disgraziati — lui sempre ridente, lei sempre lagrimosa — volevano risparmiare gli scandali, ed attesero da me il consenso necessario; ma io volli invece che mi intimassero l’obbligo di dare il mio divieto inutile; e lo diedi per iscritto, dopo di che partii. Era tacitamente inteso che, al mio ritorno, avrei trovato la mia casa abbandonata. Durante la mia assenza, essi si sposarono e partirono, e, quindici giorni dopo, rientravo nella mia casa vuota, per ripigliare la vita da scapolo. Sulla scrivania, Serafina aveva lasciato un foglio, in cui implorava il mio perdono, e mi dava il suo recapito.... all’estero. Scrissi sotto quel foglio medesimo queste sole parole: «_io non ho più figlia_» — e lo mandai a Bucarest, salvo errore. * * * Stentai ad avvezzarmi alla nuova vita; nei primi tempi non mi sapevo raccapezzare. Il caffè, dove già io soleva andare a prendere il _vermut_ ed a leggere la gazzetta, prima di desinare, aveva fallito; la famiglia che mi aveva tenuto a dozzina, a causa d’un’eredità avuta, aveva rinunciato alla sua piccola industria; i brodi delle trattorie mi sembravano troppo grassi, il vino aspro mi bruciava la gola, il vino denso mi pesava sullo stomaco; la sera, non sapevo che fare del mio tempo, perchè la commedia, in Milano, costa un occhio, e l’opera in musica m’indispettiva dopo il tiro che mi aveva fatto. Prima di convertirmi alla birra di Vienna ed al prosciutto cotto, prima di trovare il mio posto d’onore alla mensa degli ufficialetti, prima di godermi le maldicenze serotine del mio collega di letteratura italiana, ci volle del tempo parecchio e della filosofia molta. Del resto, lo confesso, io non soffriva tutto quello che m’era pensato; credo d’essere un padre tenero quanto qualsiasi altro, ma il mio cuore è forte nel sopportare le offese dell’ingratitudine. D’altra parte, i miei affetti hanno una sensibilità così squisita, che offenderli ed ucciderli è quasi tutt’uno. Quando mia figlia ebbe voltato le spalle alla casa paterna, io la considerai come perduta nel mondo, e mi proposi di non pensare più a lei come se fosse morta. Da Bucarest una volta, poi un anno dopo da Barcellona, mi giunsero lettere di Serafina. Per quanto vi fossi preparato, la prima volta, la vista dei caratteri di mia figlia sulla soprascritta mi fece battere il cuore — sentii, per essere schietto, curiosità e tenerezza dispettosa. Mi ricordo che presi la lettera in mano, ne guardai lungamente la soprascritta, ed esaminai il bollo postale di Bucarest per decifrare la data che vi si leggeva — ma che poi chiusi la lettera in un cassetto e me ne andai a desinare. Tornato a casa, era entrato un po’ di ordine nelle mie idee; presi la lettera di mia figlia, e, questa volta senza batticuore, ne cancellai la soprascritta e vi scrissi di mio pugno: _si respinge al mittente Iginio Curti, buffo nel Teatro italiano di Bucarest_. La stessa cosa feci colla lettera che mi giunse un anno dopo da Barcellona. Quello che avvenne di poi, me lo aspettavo. «Mio genero — avevo detto dentro di me — per costringermi a leggere le lettere lagrimose di sua moglie, mi farà un tiro un giorno o l’altro — ma egli non sa che io ricevo pochissime lettere, perchè non ne scrivo mai, e che non mi sarà difficile riconoscere la perfidia anche se abbiano fatto fare la soprascritta dal tenore, o dal baritono, o dalla seconda donna, specialmente se mi verrà dall’estero. Eppure, fui ad un pelo di cascarci, e fu un vero lampo di genio inquisitorio che mi risparmiò questa piccola sconfitta. Un giorno mi capitò una lettera d’aspetto innocentissimo; veniva da Pavia, dove ho dei colleghi e degli antichi compagni di scuola. Stavo già per lacerare la busta, quando domandai a me stesso: «chi mi può scrivere da Pavia? Il professore Leonardi, no, perchè ne conoscerei la scrittura, il Ponzio nemmeno.... Guardai la soprascritta, e lessi: _Al signor Abate prof. Marco Antonio_, come scriveva un tempo mia figlia, come, dopo mia figlia, mi chiamava sulle soprascritte delle sue lettere il buffo Curti, e come, prima e dopo di loro, nessuno mai mi aveva chiamato. Questa trasposizione di nomi non era innocente come può parere; mi ricordo d’una lettera di mia figlia così indirizzata, che non pervenne al suo recapito se non dopo essere andata per la città in cerca d’un reverendo che si chiamasse Marco. Mia figlia, tenace come il solito, non aveva smesso di dirigere le sue lettere a quel modo, sebbene io l’avvertissi; e siccome oramai i fattorini delle poste sapevano che era inutile cercare in Milano il reverendo Marco, non ne era nato più verun inconveniente, ed io aveva lasciato che facesse. Ammirate la semplicità dei mezzi di cui si serve l’_ente_ per scompigliare i disegni e punire le colpe dell’_esistente!_ — Io, senza perdere tempo, cancellai la soprascritta, e scrissi bravamente «_si respinge_...» ed il resto. Ma quando ebbi fatto ciò, mi rifeci a pensare: «E se questa lettera non fosse di mia figlia?» Allora immaginai di comprare l’ultimo numero di un giornale teatrale, e di accertarmi se a Pavia si rappresentava l’opera buffa. Seppi così che nel Teatro Comunale si rappresentava l’opera di Lauro Rossi, _I falsi monetari_, e che il buffo Curti era molto applaudito dalla scolaresca. Una voce domandò dentro di me: «Che fa tua figlia? È sana? È felice?» Ma io mi affrettai a rispondere che non me ne importava un fico, che avevo giurato di considerare Serafina come perduta nel mondo, e che mia figlia era morta. Il buffo Curti dovette rimanere senza fiato quando si vide restituire integra la lettera fatta a trappola, in cui aveva immaginato di pigliarmi. Da quella volta non ricevei più lettere di Serafina. III. IL MIO AVVENIRE _(Dal taccuino di Marcantonio)_ Addio piccole compiacenze, addio piccoli dolori della mia vita passata; ora getto lo sguardo innanzi a me, sulla via deserta, e mi rifaccio serio. Ah! sì, la via è proprio deserta, e non è mia colpa. Io avrei voluto schierarvi la figliolanza di mia figlia e gli amici vecchi e fedeli; mi sarebbe stato caro disseminarvi una folla di conoscenti cordiali, vivaio d’affetti futuri, dove il dolore avesse potuto venire ogni tanto a prendere per mano un nuovo amico e condurmelo dinanzi dicendo: «costui è degno di te.» Ma lo spettacolo dell’umano egoismo ha chiuso tutte le porte del mio cuore, e da un pezzo non v’entra più nessuno. Talvolta m’affliggo di questa virtù di pensiero che mette fra uomo ed uomo quell’intervallo medesimo che separa l’umana creatura dal bruto. Vi sono de’ miei simili che cianciano fra di loro come i passeri, che si fiutano, o si adirano, o si acciuffano per le vie come i cani, ed amano, e sono amati, e si sentono felici perchè non pensano. Il pensiero è un tarlo che rode i cuori generosi. A me, nato per l’amore, non è rimasto neppure un affetto; sono solo! Uscito or ora, e forse non ancora uscito, dalla calda virilità, l’avvenire mi promette gli anni freddi della vecchiaia, quegli anni in cui l’uomo più generoso ha diritto ad un po’ d’egoismo. Sono sano ancora, ma sento che la gotta mi aspetta; io posso deluderla per un po’ astenendomi dai cibi troppo azotati o troppo grassi, ma un giorno essa trionferà della mia volontà, come ha trionfato di mio padre e di mio nonno; è una malattia di casa. Mi sono guardato nello specchio, ed ho visto che potrei illudere me stesso; non dimostro più di quarantacinque anni; i capelli che mi rimangono sono quasi neri; la mia barba invece sarebbe bianca, ma io non la lascerò crescere; mi raderò ogni mattina. Sento che posso ancora fare la felicità d’una donna, ed ho deciso. Riprenderò moglie. Dopo tanti anni di vedovanza, non si dirà che cedo ad un sentimento frivolo; mi arrendo alla necessità; prenderò moglie per avere una donna che abbia la missione d’amarmi. Voglio che la massima indifferenza di cuore regoli questa _scelta: giudicare e scegliere_ veramente, ecco il punto difficile. Nelle prime nozze ciò è quasi impossibile; ancora non si sa bene che cosa ci convenga e che cosa noi possiamo dare — per questo, le prime nozze sono sempre un giuoco in cui ha troppo parte la fortuna. Ma quello che è fatale la prima volta, non sarebbe scusabile la seconda. Un vedovo che si riammoglia ha l’obbligo di proporsi il quesito della felicità della sua compagna, e di scioglierlo con regole severamente matematiche. Io conosco parecchie ragazze da marito, ma so che si fanno un romanzetto, di cui non potrei essere il protagonista; di vedove smaniose di passare a seconde nozze ne conosco pure, ma vecchie e brutte — ora la vecchiaia e la bruttezza della sposa non sono in nessun caso elementi necessari di felicità matrimoniale. Io non tradirò me stesso, la mia sposa sarà giovine e bella. Perchè essa mi ami col tempo, basterà che io diventi amabile, ed apprenderò dai vecchi quest’arte ignota ai giovani. E perchè essa mi sposi senza amarmi, bisognerà che il benefizio la tenti. La mia donna deve essere sventurata, sola nel mondo come me, e dovrà gettarsi nelle mie braccia come in un porto sicuro. Dove e come trovare questa sposa? Nell’ampio mondo, così... IV. INVITO AL TALAMO DI MARCANTONIO. Qui, nel taccuino di Marcantonio Abate manca un foglietto visibilmente strappato, poi non si legge altro. Queste note, incominciate col fermo proposito di essere il commento dei casi poco ordinarii che il nostro eroe si aspettava, ebbero la sorte di tutte le _memorie_: furono lasciate in tronco. Senza avvedersene, il filosofo Marcantonio Abate era vittima di quella identica illusione, che incomincia le _memorie_ dei collegiali dei due sessi: affidava alla carta le impressioni non bene determinate e non ancora sue, o già scolorite dal tempo, e non più sue, quasi per guardarle da vicino o per appropriarsele; se egli non riusciva a fare qualche cosa col nulla, come le collegiali volonterose, è merito dei cinquant’anni che aveva vissuti; certo è che oggi — il domani della gran deliberazione — Marcantonio non scrive più una sillaba delle sue giornate, perchè cominciano per lui speranze, compiacenze, dolci incertezze, fantasticherie faticose, mille sentimenti inaspettati che egli sdegnerebbe di colorire colla penna e di vedere riprodotti malamente sulla carta. Anche per le signorine, quando sono uscite di collegio, viene un giorno che fanno così. Si offenderà Marcantonio Abate d’un paragone che lo ringiovanisce un poco? Forse no; appena egli ha fatto il suo tiro, appena ha buttato nel mondo la sua rete, subito si è guardato nello specchio, è corso dal parrucchiere per farsi radere, è passato dal calzolaio per comperare un paio di stivaletti verniciati, ha fatto chiamare il sarto a consulto — e il sarto verrà domani. Che tiro ha fatto Marcantonio Abate? Che sorta di rete ha gettato nell’ampio mondo? Egli ha scritto in un foglietto strappato dal suo taccuino, pesando ad una ad una le parole, precedentemente scelte e misurate con grande scrupolo, questo avvisetto: «_Invito al talamo._ — Un signore di buona età, agiato, sano, di non spiacevole aspetto e di umore eguale, si unirebbe in matrimonio con una signorina o con una vedova che non avesse passato la trentina, fosse di buona famiglia e d’indole modesta. Non si richiede alcuna dote. Dirigere le proposte al signor I. O., fermo in posta, Milano.» Ha scritto col suo più bel rondo, curando sopratutto la chiarezza, e dopo aver scritto, non contento ancora, ha rifatto amorosamente gli occhi a tutti gli _e_, che sotto la sua penna erano nati ciechi, ha allungato le code agli _a_, assicurato i tagli ai _t_, e rimessi sugli _i_ i puntini che non avevano lasciato traccia o non erano caduti a piombo. Quando ogni equivoco gli è sembrato impossibile, senza malizia dei tipografi, ha chiuso il foglietto in una busta e mandato il tutto all’agenzia d’annunzi del _Secolo_ per mezzo di Anna Maria. Anche la scelta di questo messaggiero gli è costata fatica; gli bisognava una persona di cui potesse fidarsi, un po’ ingenua, un poco ignorante, che stentasse a leggere e non fosse prontissima a indovinare; dunque, i bidelli degli istituti, no, perchè leggevano e indovinavano benissimo, e il portiere nemmeno, perchè non leggeva affatto — dunque Anna Maria. Sulla busta è scritto, e Anna Maria dovrà ripetere all’occorrenza: «da inserirsi la domenica e il giovedì, per due settimane.» Anna Maria dovrà anche pagare il prezzo anticipato delle inserzioni; se vedrà ridere, starà seria, e se mai da un figliuolo d’Eva le venga chiesto chi fa l’inserzione, risponderà tranquillamente: un figliuolo di Adamo. Il donnone tutto d’un pezzo ha ricevuto questa gran prova di fiducia del suo padrone colla solita compostezza, cioè colle mani sotto il grembiale, poi ha cavato una mano per afferrare la busta, poi ha cavato l’altra per ricevere il denaro. — È uno scherzo — ha ripetuto il professore — ma tu bada bene a star seria. — Sissignore. — E non dire chi ti manda. — Sissignore. — Paghi quanto vogliono, senza ribattere. — Sissignore. — Pigli la ricevuta, e torni a casa. — Sissignore. Dopo di che Anna Maria si è avviata; il suo padrone l’ha vista passare in cortile, ed ha notato il suo contegno straordinario, perchè il donnone, quest’oggi, non si è permesso di cavare la mano dalla tasca che custodisce il segreto del professore. Questo tiro ha fatto Marcantonio Abate! E se ora passeggia per la sua casa un po’ agitato, e se tratto tratto si guarda nello specchio, è perchè egli ha avuto tempo d’andare dal parrucchiere e dal calzolaio, e Anna Maria non è tornata ancora. Dunque, il signor I. O. passeggia e pensa. Quell’insolito modo di cercar la moglie nella quarta pagina d’un giornale è veramente degno d’un filosofo. A guardarci bene, gli uomini, in questa delicata congiuntura del matrimonio, si comportano assai male; alcuni s’innamorano, e sono i giocatori d’azzardo delle giuste nozze; altri scherzando, si compromettono, e si trovano legati senza saperlo — sono i distratti; altri si informano delle ricchezze e del parentado, non del cuore — e sono i monocoli; il signor I. O. invece con quanto giudizio fa la cosa! Egli si propone apertamente a tutte le ragazze disponibili; non s’impegna a nulla, vede, interroga, scruta; non s’innamora, non si accalora, non s’impazienta — giuoca e lascia giocare sul sicuro — guadagneranno entrambi pigliandosi, guadagneranno, e forse più, lasciandosi. Le trattative di nozze incominciate nella quarta pagina d’una gazzetta mettono il negozio nella vera luce; i falsi scrupoli non vi possono entrare, non vi entrerà l’amor proprio. Una donna che accetta un marito da un giornale, è una donna sicura, senza grilli per la testa, senza sentimentalismi vani; porterà in dote un sodo criterio. Il Signor Io si promette un altro vantaggio dalla sua trovata. Egli manderà la gazzetta a parecchie ragazze di sua conoscenza, a cui non oserebbe fare la domanda espressa per timore d’un rifiuto — e quante altre ragazze gli verrà fatto di conoscere in seguito, tutte riceveranno per posta la medesima gazzetta, finchè egli sia disponibile. Perciò, del giornale che conterrà l’avviso, il Signor Io farà una provvista abbondante. Forse taluna delle fanciulle, a cui egli non osa neppur pensare, si disporrà a pigliar marito anche in quel bizzarro modo. Contenta d’un simile matrimonio in genere, chi sa? la giudiziosa fanciulla potrà contentarsi facilmente della specie. Il Signor Io, raso di fresco, coi capelli tirati con garbo a dissimulare la calvizie, fa la sua figura — un uomo ne vale un altro, e un professore di filosofia così rimesso a nuovo, cogli stivaletti di vernice... Il Signor Io si guarda nello specchio, si ammira senza concedere troppo alla vanità, e continua a passeggiare. Anna Maria non viene, e il Signor Io si frega le mani promettendosi un altro vantaggio dalla sua trovata. Non potrà egli conoscere la fanciulla che è disposta ad entrare in un talamo anonimo, avvicinarla e studiarla senza svelarsi mai? Non potrà egli lasciar credere alla ragazza che il suo tentativo di trovar marito nella quarta pagina si è perduto nel mondo, ma che la provvidenza le ha, per altre vie, mandato un altro sposo verisimilmente migliore? Al Signor Io non spiace lasciare questa illusione alla sua seconda metà, non è egoista il Signor Io; quanto a lui, rinunzia alle illusioni; non l’offenderà il sapere che la sua compagna era andata in cerca di marito nella gazzetta, tutt’altro; pigliando moglie un’altra volta, egli vuol pigliarla per bene, e gli pare che, conoscendo egli il segreto di lei, e non sapendo essa nulla di nulla, la sposa gli starà meglio in pugno. Ecco il passo d’Anna Maria, ecco Anna Maria. Il donnone è serio, ed ha le due mani sotto il grembiale. — Hai fatto? — domanda Marcantonio con un po’ di tremito nella voce. Anna Maria ha fatto; essa cava una mano di tasca e porge la ricevuta: ha pagato L. 22 e centesimi 40 per quattro inserzioni di 14 linee da farsi il giovedì e la domenica. Il professore piglia la ricevuta con disinvoltura, ma gli batte il cuore come se ricevesse la fanciulla dei suoi pensieri futuri. Qual’è la fanciulla dei futuri pensieri del Signor Io? Dolce incertezza! Dov’è la fanciulla dei pensieri futuri del Signor Io? Oggi è mercoledì; domani il _Secolo_ porterà l’invito al talamo di Marcantonio nella città, nei paesi e nelle ville; e un numero del giornale cadrà sotto gli occhi di una bella pensosa che aspetta. Marcantonio si accorge che, sebbene egli abbia invitato alla gara anche le vedove sulla trentina, la sua fantasia finora non gli presenta che fanciulle di vent’anni e di diciotto. Marcantonio si guarda ancora nello specchio, e non è atterrito della propria audacia. Egli pensa che se una fanciulla di diciott’anni si contenterà di pigliar lui, darà prova d’avere un criterio sodo. — E che cosa hanno detto nell’uffizio del giornale? — domanda il professore, rivolgendosi ancora alla fantesca. — Hanno riso sotto i baffi. Anche Anna Maria pare che riderebbe volentieri sotto qualche cosa — ma sta seria fin troppo. V. LA GARA. FASI E CATASTROFE. Valichiamo una sera lunga, una notte insonne. Comincia un giovedì eterno. Oggi Marcantonio Abate ha vacanza; egli depone dall’alba quell’incomodo fardello di filosofia scolastica che negli altri giorni della settimana è costretto a portare in due licei per l’afflizione dei suoi alunni; sembra egli stesso un suo scolaro, tanto si sente sciolto. Esce, s’avvia, e ad ogni passo si allontana sempre più dalla metafisica. Giunge al boschetto dei giardini: il vecchio amico suo è là, tentando il prossimo. — Buon giorno! — Mille giorni come questo — risponde il mendicante con un sorriso malizioso. — Mille son pochi. Auguramene dieci mila, se mi credi felice; ma tu sbagli. — Vossignoria è giovane. — Davvero? — Vossignoria oggi ha quarant’anni. Appena l’ho visto spuntare dalla cantonata ho detto: il professore oggi ha quarant’anni: che cosa ha fatto degli altri dieci? Marcantonio si sente lusingato dall’osservazione, e non ha forza di offendersi. L’altro insiste con malizia crescente: — Che cosa vuol fare degli altri dieci? ho detto. Il professore guarda di qua e di là; la metafisica e l’etica sono scomparse, nessuno lo vede, ed egli ride. Gli viene oggi una tentazione non mai sentita: far l’elemosina al suo vecchio amico: ma resiste per decoro. — Buona fortuna! — dice, e si avvia saltellando. — Diecimila giorni come questo! — ripete il vecchio, e s’incammina egli pure, zoppicando, incontro ad una vecchia signora, che passa nel prossimo viale e che ha già cacciato una mano in tasca. Marcantonio prosegue rapidamente la via che mena alla sua felicità; incontra un collega e lo schiva, incontra uno scolaro che schiva lui, giunge alla trattoria prima dell’ora della colazione. Non importa, mangerà solo; l’uomo deve bastare a sè stesso, tanto più a tavola. Mangia, poi legge una gazzetta che non è il _Secolo_, poi aspetta gli ufficialetti, ed è divertito dalla compiacenza con cui essi appendono le loro sciabole all’attaccapanni, lasciandole spenzolare per le calate della cintura in modo che urtino ripetutamente, prima a terra, poi nella parete. Sente dentro di sè una forza nuova, qualche cosa che non è entusiasmo, nè baldanza, nè spensieratezza, ma che somiglia a tutto ciò; ogni tanto abbassa la gazzetta e mette una parolina nel discorso scucito degli ufficialetti, una parolina scelta bene, una parolina lucente, che al solito, riempie di stupore i suoi commensali, e gli obbliga a dirgli _bravo!_ o _bravissimo!_ Per far passare il tempo, propone una partita a scacchi o al domino, magari al biliardo, e se ne scusa dicendo: «ho vacanza» — ma gli ufficiali non chiedono scuse; sono contenti che il signor professore si degni di uscire dalla sua dottrina melanconica per carambolare come uno studente. Marcantonio è stato in altri tempi un giocatore fortissimo; brandisce molte stecche più volte prima di sceglierne una, poi giuoca e vince; i suoi avversari generosi fanno di tutto per fargli dimenticare la modestia, ma il professore vince modestamente e si dichiara grato alla fortuna; chiede un sigaro al cameriere, e gliene vengono offerti cinque dagli ufficiali — grazie, grazie... egli non fuma sigari _Cavour_, accetta un sigaro _Virginia_ dal signor tenente, accetta uno zolfanello dal signor sottotenente, ringrazia gli altri. Il professore non fu mai così amabile. Finalmente Marcantonio esce all’aperto; esce lanciando innanzi a sè le nuvolette del suo Virginia — e subito un monello, mandato dal destino, gli offre il _Secolo_ uscito or ora. Il Signor Io compera la gazzetta, corre coll’occhio alla quarta pagina, e legge subito: _Invito al talamo_. Non vede altro; caccia la gazzetta in tasca, e si guarda intorno. Ora si sente debole, e non sa bene perchè. Il suo Virginia è spento. * * * Non è certamente perchè Marcantonio vi ha collaborato in quarta pagina, non è neppure per il gran fatto avvenuto a Porta Tenaglia, perchè sia non si sa, ma è indubitabile che oggi il _Secolo_ ha uno spaccio straordinario; i rivenditori sbucano da tutte le cantonate e sono trattenuti dai curiosi, e per le vie si vede molta più gente del solito che nasconde la faccia dietro il _Secolo_. Anche Marcantonio è impaziente di leggere la sua prosa, e quando può chiudersi nella stanza da letto, stendere il giornale sul tavolino e leggere: _Invito al talamo_ con tutto quel che segue, egli è veramente contento come se avesse veduto la seconda moglie che gli è destinata, e trovatala di suo genio. Gira gli occhi per la camera e fantastica. Non muterà stanze; quel quartierino e lui si conoscono, oramai egli vi si è avvezzo e vi si trova bene; la stanza da letto è abbastanza ampia; entrano per l’unica finestra molti più metri cubi d’aria respirabile che non siano necessarii per due. Tutt’al più farà mutare le carte delle pareti e riverniciare il talamo; aggiungerà al lavamani due catinelle compagne, perchè sull’unica rimasta è oramai indelebile il giro dell’acqua che vi si versa ogni mattina da tanto tempo. Aggiungerà fors’anco una lampada da notte, che scenda dal soffitto nel mezzo della camera, ed abbia i vetri azzurri o color di rosa, ma per la scelta del colore, bisognerà sentire il parere della fidanzata. Altri mutamenti non vorrebbe fare; pure, se la sposa ne avesse desiderio... Un’ora dopo egli ha trasformato dieci volte tutta la casa, col pensiero, ed è ritornato cogli occhi e colla fantasia al modesto talamo di noce che gli sta dinanzi e all’invito così audacemente gettato in mezzo alle vedovelle ed alle ragazze, specialmente in mezzo alle ragazze. Ora teme che quel titolo erotico — _Invito al talamo_ — da lui premesso all’avviso perchè non passi inavvertito, possa dare un’intonazione burlesca alla faccenda, e guastarne il significato serio — ora invece si lusinga d’aver dato con quelle tre parole una caparra del proprio valore alle fanciulle da marito. Quando cominceranno a piovere le lettere al Signor Io? Domani stesso dalla città; dalle provincie doman l’altro. Ma il professore non andrà alla posta venerdì, perchè, sebbene un filosofo della sua fatta sia inaccessibile alle superstizioni volgari, preferisce incominciare le trattative del matrimonio in un giorno generalmente considerato come innocente. Andrà alla posta sabato. Ma il domani, l’impazienza lo vince; assolutamente non è superstizioso il professore, e d’altra parte è meglio che si faccia conoscere al distributore delle lettere _ferme in posta_, come il Signor Io. La cosa gli sembra innocentissima fino a piazza del Duomo; infilando la via Rastrelli che mena all’ufficio postale, Marcantonio è turbato, e, giunto alla posta, ha perduto affatto il sussiego. Guardando un poco in distanza l’impiegato che si muove entro il casellario come in un gabbione, gli pare che abbia una certa faccia, come se, avendo letto il Secolo di ieri sera, tutta la mattina non aspetti altro che il Signor Io per farne la personale conoscenza. Marcantonio è da un pezzo sul portone della posta, e nota che tutti quelli che l’hanno visto entrando ed escono poi senza che egli si sia mosso, lo guardano curiosamente. Si volta; attraverso la inferriata dirimpetto, egli vede l’impiegato delle lettere _ferme in posta_ che continua a muoversi nel suo gabbione. Sicuramente a quest’ora l’ha già visto, e ne ha già notato l’irresolutezza; rimanendo ancora all’uscio peggiorerà le cose, si darà a conoscere meglio, diventerà il Signor Io della favola, il Signor Io indimenticabile. Una risoluzione coraggiosa — ecco Marcantonio avviato incontro allo sportello delle lettere _ferme in posta_. Ma un’occhiata partita dall’interno di quella gabbia lo scompiglia, lo sgomenta; quel distributore ha una penna d’oca cacciata sopra l’orecchio sinistro in modo che sembra cresciuta là naturalmente, ha il naso adunco (stavamo per dire il becco), e una guardatura di sotto in su a cui Marcantonio non è preparato. Con un passo di traverso, il professore si affaccia ad un altro sportello. — Lettere per il professore Marcantonio Abate?... — domanda, tanto per dire qualche cosa. Un momento di silenzio, durante il quale il professore cerca di radunare tutte le sue forze, ma pensa che ha peggiorato ancora le cose, perchè si è fatto vedere da un impiegato, dicendo nome, cognome e professione; poi la voce del distributore gli annunzia: _Niente Abate_. È virtù vecchia l’eroismo: vecchia, ma eterna.. Ammiriamo il _Signor Io_ dinanzi allo sportello temuto faccia a faccia col distributore dal naso adunco, dalla penna d’oca cacciata sopra l’orecchio. — Giungeranno.... — comincia a dire — ma il suo avversario lo guarda, e con questo mezzo semplicissimo gli fa perdere la parola. — Sono da lei — dice il pennuto cacciando in una casella una lettera raminga. — Giungeranno — ripiglia il professore vilmente — giungeranno forse lettere ferme in posta dirette al professore Marcantonio Abate.... favorisca farmele mandare a casa. — Dove? — chiede l’impiegato strappandosi la penna d’oca e accingendosi a scrivere in un registro. E Marcantonio deve anche svelare la strada, il numero del portone, la scala e il piano. Ci è altro a fare per tagliarsi le braccia? Null’altro, il Signor Io ha fatto tutta quanta l’operazione, e gli è riuscita benissimo. Ora può andarsene tranquillamente a casa. * * * Marcantonio Abate ha mandato alla posta un uomo messo certamente al mondo coll’intenzione di fare il messaggero modello in questa congiuntura. Battista, il portinaio, non sa leggere affatto, ma vuol far credere che sa quanto chicchessia; messo faccia a faccia colla carta scritta, egli la guarda severamente, poi sorride, e quando può se ne allontana. Non potendo sfuggire il foglietto su cui il professore ha scritto _Al signor I. O., fermo in posta_, Battista lo ha cacciato in tasca, ha ascoltato tutte le istruzioni verbali, ed è corso alla posta nel massimo turbamento. E un’ora dopo ritorna con un sorriso trionfante, porge la carta al professore e dice: — Niente per il Signor Io. Marcantonio si fa rosso, perchè gli sembra di capire che Battista abbia fatto leggere il foglio da qualche amico fidato, ma pensa che in fin dei conti non è facile arrivare alla radice del piccolo intrigo. Quanto al silenzio delle sue pretendenti, non se ne sgomenta ancora — a dire il vero, egli ha avuto troppa fretta; saper aspettare bisogna. Domenica riappare nel Secolo l’_Invito al talamo_, e lunedì Battista è rimandato alla posta. Il Signor Io attende il ritorno del messaggero, ma checchè accada, vuole essere contento di sè, e non aspetta altro. Per convincersi che non ispera nulla ancora, dice a sè stesso ogni tanto: «È troppo presto: gli avvisi di quarta pagina fruttano talvolta parecchi mesi dopo — io posso aspettare.» Ma quando Battista ritorna a mani vuote, Marcantonio vede con un’occhiata la vanità di tutti gli umani propositi, e s’accorge che egli non è riuscito ad ingannare sè stesso. Il giorno dopo, tornato a casa da scuola, Marcantonio Abate si vede venir dietro Battista con una grand’aria di mistero. — Lei mi ha detto di non le lasciar vedere a nessuno — dice il degno portinaio — ed io le ho tutte qui. Così dicendo, accenna alla tasca interna della giacchetta. Oh! come batte il vecchio cuore del Signor Io! — Calmati, Marcantonio — dice a sè stesso. — Seguimi — dice a Battista; ma non ha quasi la forza di salire le scale, perchè la mano poderosa del suo destino lo afferra. — Dà qua — dice allora il Signor Io; e Battista consegna tre lettere ed un giornale. Il professore raccomanda ancora una volta il silenzio al suo messaggero e gli dà una mancia, — poi si arresta a ripigliar fiato, fa le scale con una pacatezza filosofica, penetra nelle sue stanze senza precipitazione, e depone sopra un tavolino della stanza da letto le tre lettere e il giornale. Chiude gli usci ed apre la finestra.... «Calmati Marcantonio!....» Eccolo solo nel suo _harem_. * * * Le tre lettere e il giornale hanno la soprascritta medesima, senza alcuna variante: _Al Signor I. O., ferma in posta — Milano_. Ma i caratteri sono differenti. La prima lettera aperta da Marcantonio è scritta con gran parsimonia di parole; dice: «Io sono giovine, sono bella, e sono ricca; — non posso soffrire gli sciocchi che mi fanno la corte. Datevi a conoscere se avete la coscienza di meritarmi; se mi meritate, vi sposerò. Per vostra norma, è inutile presentarvi se avete sessant’anni, o la parrucca, o i denti finti, se siete sordo o guercio, o invalido. Sul rimanente, Virginia chiuderà un occhio. Scrivete a Virginia Malvisi, fermo in posta, Milano.» Marcantonio sta un poco immobile a contemplare quelle parole ardite; si sente un po’ scoraggiato, senza sapere perchè; forse qualcuno a cui egli non dà ancora retta, qualcuno, dentro di sè, comincia a dirgli che Virginia è troppo distante da lui, o troppo matta. Ma egli si scuote da quel torpore, e guardando rapidamente il foglio spiegato e le due lettere chiuse, e le altre lettere dirette al Signor Io che a quest’ora giacciono in fondo alle cassette postali, fa un’esclamazione allegra, ed afferra il giornale. È un _Secolo_ del giorno innanzi. Fin dalla prima pagina, una mano disegnata con matita rossa allunga il dito verso la seconda pagina, dove un’altra mano, dovuta alla stessa matita, accenna alla terza pagina, nella quale una terza mano addita la pagina delle inserzioni a pagamento. In quarta pagina le mani sono quattro; dall’alto del giornale, dal basso e dai due lati, allungano indici enormi verso un avviso incorniciato pure di rosso. Quell’avviso dice: «Una signorina di 22 anni, agiata, di aspetto non ispiacevole, sana, d’umore eguale, sposerebbe volentieri un vedovo sulla cinquantina. Dirigere le offerte alla signora X. Y. Z. — Milano.» Marcantonio rilegge attentamente questo avviso, e stentando ancora ad afferrarne il significato, chiede a voce alta: che significa ciò? Significa, evidentemente, che vi è in Milano una signorina di 22 anni, la quale ha letto l’_Invito al talamo_ del Signor Io, ed è disposta a pigliarlo d’assalto, solo che il Signor Io le piaccia e che essa piaccia al Signor Io; ma non vuole far lei il primo passo, non stima decoroso offrirsi, e pretende d’essere ricercata. Nulla di male in fondo, è anzi una forma di pudore che Marcantonio apprezza; solamente, non se ne farà nulla. Che si direbbe d’un ragno il quale si lasciasse pigliare nella tela di un altro ragno? D’un formicaleone che andasse a cascare storditamente nell’imbuto di un suo collega, che cosa si direbbe? La signora X. Y. Z. sarà forse un partito eccellente, ma siccome non mancano le spose, come si vede, a chi si dà la briga di farne ricerca, Marcantonio sarebbe il grande ingenuo se desse la preferenza a quella che fa la preziosa. Rimangono altre due lettere sulla scrivania. In una, il Signor Io è pregato di mandare il suo ritratto ad un’incognita ornata di tutte le virtù, la quale deciderà poi: nell’altra si raccomanda al Signor Io di recarsi infallibilmente questa sera prima delle nove al caffè Biffi, in galleria, badando di occupare il tavolino in faccia alla porta dell’ottagono, e di mettere una cravatta bianca ed un fiore rosso all’occhiello. Questo è il desiderio d’una signora giovine e non brutta, la quale sarà vestita di nero, porterà un mazzolino di fiori sul petto ed entrerà nel caffè verso le ore nove. Il Signor Io è furbo. Non manderà il proprio ritratto a nessuno, non andrà alla berlina in cravatta bianca e col fiore rosso all’occhiello, per mettere di buon umore quattro ragazzi che forse si sono dati la posta al caffè Biffi. La sua fantasia, insoddisfatta ancora, va dalla capricciosa e bella Virginia alla timida X. Y. Z., e non si arresta a nessuna delle due. Se fosse costretto a scegliere ora, pena il celibato, Marcantonio, che è filosofo, continuerebbe a viver solo; ma se, pena la vita, egli dovesse fare la scelta subito, senza conoscer meglio quelle incognite, quale credete che il professore di filosofia si tirerebbe addosso? Ahi! non già la pudica, ma quell’altra. La signorina Virginia è proprio tentatrice colla sua baldanza; già, non si è mai tanto audaci, senza essere un poco belle. Com’è la signorina Virginia? È alta, piuttosto magra, ha gli occhi neri, due grosse ciglia che spiccano anche sulla tinta bruna, denti bianchissimi che l’obbligano ad un sorriso pieno di malizia, ha il naso parigino, ma può anche averlo greco. La signorina X. Y. Z. invece è pallida e bianca, oppure ha una faccetta paffuta e rossa da collegiale — e quest’incertezza la guasta un poco. Fra le due figure, una terza, respinta di continuo, si ostina a farsi vedere ogni tanto — è la signora vestita di nero, col mazzolino di fiori sul petto, l’incognita che dovrebbe entrare nel caffè Biffi alle ore nove di questa sera, se la lettera che gli dà la posta non fosse una monelleria di qualche sventato. Quel vestito nero e quel mazzolino di fiori perseguitano il Signor Io, il quale ha bisogno di ripetere a sè stesso che al caffè Biffi non ci andrà. Intanto, che fare? Le pretendenti aspetteranno una risposta.... «Aspettino» sentenzia severamente Marcantonio. Tutto quanto il giorno, egli sta saldo nel suo doppio proposito di aspettare altre offerte prima di rispondere, e di non andare al caffè Biffi col fiore rosso e colla cravatta bianca. Ma giunta la sera, quando fa per avviarsi ai bastioni, le gambe non gli obbediscono e lo portano in galleria; se si distrae ancora un poco, lo faranno entrare dove egli non vuole assolutamente. Marcantonio non si distrae più; invece guarda l’orologio e pensa: «se io entrassi, che male vi sarebbe?» Veramente che male vi sarebbe se Marcantonio entrasse? Non ha la cravatta bianca, non porta fiori di nessun colore all’occhiello, e il caffè è pieno di gente. Sono le otto e mezza. Egli può mettersi in sentinella a un piccolo tavolino, dietro la vetrata della porta d’ingresso; se l’incognita viene davvero, la vedrà, perchè dovrà passargli davanti; se invece hanno voluto fargli un tiro, i risancioni ci rimetteranno il francobollo. Marcantonio ha già passato l’uscio, ed ha conquistato il suo posto d’osservazione. È curiosa. Ora che il negozio gli si presenta pel suo verso giusto, non gli pare più che debba essere una burletta. Per assicurarsi gira lo sguardo intorno; senza parere, scruta la faccia dei vicini; tutta gente innocua che beve la birra come lui o piglia lentamente il gelato. Non vede a nessun tavolino quel tal crocchio di giovinastri che gli ha messo tanta paura; se ora l’incognita venisse, egli la vedrebbe benone, ma essa non vedrebbe lui. Peccato! Sono le nove meno un quarto ed entra sempre gente nel caffè; signore e signorine poche. Eccone una vestita di rosso carico: è bella, ed ha un mazzolino sul petto; eccone un’altra vestita di seta bigia: è brutta, ed ha un mazzolino sul petto. To’! tutte le signore che sono nel caffè hanno un mazzolino sul petto! È moda, e il professore di filosofia non lo sapeva. Ah! eccola. È dessa! Il cuore del Signor Io la riconosce e batte forte — una figurina angelica, una magnifica bionda, dalla carnagione bianca e liscia come il fior della magnolia sbocciato appena, con certi occhi azzurri grandi così; ha il mazzolino come le altre, e veste di nero, d’una stoffa trasparente, a cui Marcantonio non sa dare un nome, ma che ne merita uno capace d’esprimere la gratitudine mascolina per tutto quel poco che fa vedere e per quel moltissimo che lascia indovinare. La bella incognita passa, ed avendo l’aria di guardare di qua e di là in cerca d’un tavolino disoccupato, sicuramente va in traccia del Signor Io, che si nasconde. Ah! il Signor Io è acerbamente punito della sua incredulità! Per espiare la colpa e correggerla, credo che Marcantonio si cingerebbe il collo col moccichino e pagherebbe un fiore rosso con tutto lo stipendio d’un mese, se.... se, guardando meglio, non vedesse finalmente che la signora bionda non è sola, che un signore l’accompagna ed ha tutta l’aria sbadata e non curante d’un marito, e che dietro ad essi giungono, senza pietà per le dolci illusioni di Marcantonio, altre due signore mature e brutte, vestite di nero, coll’inevitabile mazzolino sul petto. Pietosa più del destino, la stoffa che ricopre quelle due anticaglie non lascia trasparire nulla. Mezz’ora dopo, Marcantonio paga la birra amara che ha bevuto e se ne va. Ma sull’uscio è costretto a farsi da parte per lasciar passare ancora due signore vestite di nero e col mazzolino di fiori sul petto. Ora il Signor Io lo sa; quest’anno usa il nero. * * * Oggi Marcantonio è allegro; tornando da scuola, dove ha spiegato il sistema di Spinoza, si sente pieno di speranza e d’appetito. Grandi cose lo aspettano a casa, egli ne è sicuro; ma non perciò andrà incontro alle commozioni a stomaco digiuno. Prima va dal trattore e mangia, poi si avvia a casa. Battista è là, sulla porta. Buon segno! Il portiere esce più volte sulla strada e rientra nel portone, mentre il professore si avvicina a passo misurato; e quando finalmente Marcantonio è in luogo sicuro, Battista cava di tasca una lettera. Tanto mistero per una lettera sola! Ma qual lettera! Appena il Signor Io ne ha lacerato la busta, sente un tremito per tutta la persona ed è costretto a fermarsi sul pianerottolo. Quella lettera, nella sua forma semplice e sentimentale, dice: «Sono giovine ancora, sono vedova, sono infelice. Altro non posseggo che il cuore e la mia bell’arte. Vivere per la felicità d’un uomo onesto è la mia missione. Abito in via Torino, numero 60, al piano secondo. Chiedete della signora Marina, comprimaria.» Marcantonio rilegge quattro volte queste poche righe, poi le ripete, balbettando, a memoria — e non riesce ancora ad afferrarne bene il senso. Si stringe la fronte fra le mani, guarda fisso innanzi a sè, poi passeggia, si arresta, passeggia ancora — in ultimo si lascia cadere fra le braccia d’un seggiolone a rotelle, che rincula sino alla parete come per grande sgomento. Che significa tutta questa mimica del Signor Io? Significa che nelle poche righe di quel foglio, che ora giace a terra, il Signor Io ha riconosciuto i caratteri di sua figlia! VI. MARCANTONIO GIOCA. All’estremità della camera, dove la sorte, servendosi d’una lettera e d’una volgare poltroncina a rotelle, lo ha buttato peggio d’un rottame, Marcantonio Abate guarda l’ammattonato, che gli appare come uno scacchiere. Qui giocherà egli la sua gran partita. L’avversario è forte — il signor Io lo sa — e sa pure che, protetti dall’anonimo, giuocano contro di lui molti avversari, non uno. Sentimento paterno, decoro della famiglia, riguardi sociali, stanno lì, schierati lungo la parete opposta; hanno fatto la prima mossa crudele, ed aspettano che il Signor Io vi risponda. Marcantonio esita un poco. Prima di giocare quella partita decisiva, egli ha bisogno di guardare ben bene in faccia il suo multiforme avversario, e di dirgli: «La so ben io la tua intima natura; tu sei lo scrupolo che conturba, e l’ipocrisia allettatrice; tu sei la maldicenza affamata e lo scandalo che schiamazza. Molto è difficile contentarti; pure, qualche volta, se hai avuto la tua vittima, fingi d’essere placato, ti asciughi gli occhi o batti le mani, e ti fai chiamare il compianto o la gloria — ma io ti strappo la maschera e ti grido in faccia il tuo vero nome: tu sei l’_egoismo pubblico_. Ed ora, giuoca!» Ha già giocato, e la sua mossa è astuta molto — ora tocca te, Signor Io! Serafina dunque è viva! Quale certezza! Marcantonio non ha mai pensato che fosse morta, nè che potesse morire; ma pure aver la prova scritta che essa è viva, proprio viva,... quale certezza! La figlia che egli credeva perduta oramai nell’ampio mondo, era semplicemente smarrita; il buffo l’aveva nascosta dietro le scene; oggi il buffo è morto, e la vedova abbrunata esce dalle quinte per chiedere al pubblico della platea un secondo marito. Serafina, la fanciulla modesta e timida che Marcantonio aveva allevato a somiglianza della sua povera madre buon’anima, quella creatura che sembrava venuta al mondo solo per far la guerra ai ragnateli, senza uscire di casa, annunzia che possiede _la sua bell’arte_, cioè che alla scuola del buffo, suo defunto marito, si è messa a cantare essa pure. Quel nome di Marina, con cui bisogna domandare di lei in via Torino numero 60, è un nome di guerra! Serafina dunque vive e canta; è sola al mondo, è povera, non possiede che la bell’arte sua, piena di pericoli; ha 22 anni ed è vezzosa ancora; abbisognando di un uomo che la protegga, è pronta a buttarsi nelle braccia del primo venuto, sia pur vecchio e pieno d’acciacchi, per trovarsi al sicuro. Serafina è in Milano, a poche centinaia di passi da suo padre, a un passo forse dal disonore. La mossa dell’egoismo pubblico significa tutto questo; ora tocca a te, Signor Io. Marcantonio si raggomitola nella poltroncina, e guardando fissamente a terra si prova a dire: «Non vi è più nulla di comune fra lei e me; l’ho giurato.» Ma uno dei suoi avversari risponde sdegnoso: «Fole! non si fa spergiuro quando il giuramento è indegno» — e un altro, carezzevole, soggiunge: «Checchè tu faccia e dica, siano pur grandi le colpe di Serafina, non è vero che tu nulla abbia di comune con essa. Serafina è il tuo sangue; Serafina è la tua carne, è una particella della generosa anima tua.» «Dunque — prorompe Marcantonio — quella disgraziata avrà fatto il voler suo, sdegnando i consigli e le preghiere della prudenza e dell’affetto, avrà tradito suo padre, lo avrà lasciato solo nel mondo per correre di teatro in teatro, ed ora tutto ciò dovrà essere dimenticato, perchè è infelice?» Una voce intima, un’eco delle sue stesse parole, ripete nel profondo dell’anima: «Perchè è infelice.» Ma il Signor Io non l’ascolta. Egli pensa che la disgrazia da cui fu colpita sua figlia è una punizione del cielo, e gli sembra d’averla persino preveduta. Sicuramente l’ha preveduta. Quel buffo che egli ha visto poche volte appena, aveva scritto sulla faccia il proprio destino; Marcantonio non si era, no, lasciato trappolare (ora se ne ricorda) da quell’apparenza di giocondità e di salute; quella faccia paffuta era una maschera, quel corpo tondo era un inganno. Solo che Serafina gli avesse detto: «Babbo, esamina l’uomo che mi vuol sposare,» egli non avrebbe tardato ad indovinare l’ipertrofia o la tisi. Ora il buffo è morto, e coi morti il Signor Io è generoso. Così il cielo gli perdoni, come la grande anima di Marcantonio gli ha perdonato! Quanto a Serafina, che può egli fare? Perchè mai bisogna che il caso venga a prenderla per mano e condurla, dopo tanti anni, al cospetto dell’autore dei suoi giorni? La domanda è fatta. Marcantonio ha appena il tempo di pentirsene inutilmente — la risposta dell’avversario è pronta. «Pensa — gli dice — alle lettere che hai respinto senza aprirle. Che ne sai tu, se, in una di quelle, la poveretta, alla cui felicità è mancata la benedizione paterna, non ti apprendesse la sua grande sventura?» Marcantonio non sa nulla, non vuol saper nulla; cioè, no, sa questo solo, che la _grande sventura_ non sarebbe poi nè grande nè piccola, se egli aprisse le braccia a sua figlia. Serafina ritroverebbe la nota casa dove aveva vissuta fanciulla, ripiglierebbe le sue occupazioni domestiche; affacendata da mattina a sera nel combattere i ragni e la polvere, nell’aprire e chiudere i cassetti, nel regolare la spesa diaria, confortata dall’affetto punto frenetico del babbo, col suo mazzo di chiavi in tasca, coi suoi registri in regola, qual donna più felice di lei? Dopo di aver provato l’uggia d’un’esistenza diversa, al fianco d’un uomo che non era suo padre, la vedova ridiventerebbe fanciulla; si cancellerebbe dal tempo un passato che.... Marcantonio s’interrompe nel corso dei suoi pensieri, perchè quella medesima vocetta d’eco, che ha parlato nel buio fondo della coscienza, incomincia lentamente così: «Si cancelli dal tempo un breve passato. Dopo aver provato l’uggia d’un’esistenza diversa, quanto sarà più attenta ed amorosa la vedova ridiventata fanciulla! Essa ritroverà le note stanze e ripiglierà le sue occupazioni: affacendata da mattina a sera nel combattere i ragni e la polvere, nel regolare la spesa diaria e nel dar sesto alla casa, avrà la dolce illusione di contribuire a rendere tranquilli e felici i giorni d’un padre che, per disperazione, si voleva buttare nelle braccia di una donna qualsiasi.» «D’aspetto non ispiacevole, fanciulla o vedova sulla trentina» ribatte fiaccamente il signor Io. «La signorina Virginia non è una donna qualsiasi; la signora X. Y. Z. che ha 22 anni non è una donna qualsiasi — non è neppure una donna qualsiasi quella signora vestita di nero col mazzolino di fiori sul petto che ieri Marcantonio non ha saputo riconoscere al caffè Biffi. E poi, nessuno lo costringe a sposare la prima donna che gli si presenti; egli può aspettare e scegliere. Fra le concorrenti al talamo di Marcantonio non ci possono essere altre giovinette belle ed adorabili quanto.... quanto Serafina, posto che vi è Serafina?» Rendiamo giustizia a Marcantonio. L’idea che sua figlia si offre di sposarlo e di renderlo felice, questa volta lo turba anche peggio. Se obbedisse al suo primo impulso, andrebbe in via Torino, al numero 60, chiederebbe della falsa Marina, comprimaria, rimedierebbe all’egoismo d’un uomo che, povero, aveva voluto incatenare alla propria miseria una donna, e per cavarsi d’impiccio non aveva trovato di meglio che morire. Ma un’altra idea lo trattiene un istante ancora, forse perchè egli corra più spedito dopo. «Serafina si dice povera; infatti essa non ha avuto dote, nè ha mai preteso la porzione legittima dell’eredità di sua madre lasciata in usufrutto a Marcantonio. Forse non sa neppure che il Codice gliene dà il diritto. — Quanto al buffo Curti, sebbene figlio d’un avvocato, che poteva avergli appreso il mondo veduto dalla ribalta?» La gran partita sta per finire; una mossa ancora, e Marcantonio si darà vinto. Ma non è più un avversario che parla nella sua coscienza turbata, è quasi un amico: egli conosce tutte le vie per arrivargli al cuore, e la sua voce suona come una carezza. «Tu non sei egoista — gli dice; — in mezzo a tutte le filosofie grette o bugiarde, tu hai serbato una grandezza veramente filosofica — tu disprezzi l’uomo, ma stimi grandemente te stesso. Non già tu andresti a nozze tardive per goderti con un’altra donna la poca ricchezza che Faustina destinava a sua figlia. Ti conosco; sposando la signorina Virginia, o quest’altra, o quell’altra, subito rinunzieresti all’usufrutto. Ebbene, no, Marcantonio, tu non rinunzierai all’usufrutto, ma qui stesso, in questo momento, rinunzierai alla signora Virginia e a tutte le altre pretendenti anonime presenti e future, darai ordine a Battista di non andare più alla posta a ritirare le lettere del Signor Io, riscatterai tua figlia dal teatro che l’ha presa a tradimento, le aprirai la casa paterna — le aprirai anche il tuo cuore di padre, un cuore retto, che non fu turbato mai dalle frenesie dell’amore, e vivrai gli ultimi anni della vita consolato dalla coscienza di esserti sacrificato per la felicità di tua figlia.» VII. «SONO QUA!» Quanto è igienica la virtù! quanto è sana la grandezza d’animo! Quando l’egoismo pubblico dà battaglia ad un cuore generoso e lo vince, non è vero che la vittoria è umile, che gloriosa è la sconfitta? Marcantonio raccatta da terra la lettera con cui la sorte ed il mondo hanno intimato a lui di combattere, e va a mettersi dinanzi alla scrivania. Egli scrive: «Serafina! So che tu sei sventurata, e perciò sento un’altra volta d’esserti padre e d’amarti. Siano cancellati dal tempo quegli anni che tu hai passato lontana dal tuo genitore; ritorna alla casa paterna e vi troverai il posto ancora caldo che occupasti nella tua infanzia beata. Una sola condizione io faccio, ed è che non si parli d’un passato che non avrebbe dovuto esistere. Prometti a te stessa, prima di rientrare nella casa e nel cuore di tuo padre, che non farai alcuna allusione al tempo del nostro comune dolore. Troverai tutte le chiavi sul canterano, dove le deponesti nell’andartene; ripigliale e riannoda il filo della nostra esistenza felice là dove fu rotto dal tuo capriccio. Anna Maria, che ti porta questa lettera, sarà sempre ai tuoi ordini, e ti aspetterà in cucina. Io ti ritroverò domani, ritornando dalla scuola, come se tu non fossi mai stata assente. Tu ritroverai me quale ero, forse un po’ invecchiato, ma forte ancora tanto da bastare alla tua felicità. Il tuo babbo.» «Le piacerà! — pensa Marcantonio quando ha riletto il suo piccolo capolavoro. — Serafina è sempre stata tenera; leggendo questa lettera, piangerà dal principio alla fine; ma qui dove dice: _prima di rientrare nel cuore di tuo padre_, vorrà essere un diluvio.» Marcantonio suona il campanello per chiamare Anna Maria, la quale, a quest’ora, suol essere nella cucina melanconica, contemplando il camino spento, ed aspettando che il padrone se ne vada pei fatti suoi, per rigovernare lo scrittoio e le altre camere. E Anna Maria, all’insolito rumore che il campanello fa sul suo capo, leva gli occhi in alto e vede, sospeso ad un filo, un ragno che si affretta a risalire fino al soffitto. «Ragno di sera, spera,» pensa Anna Maria, poi accorre coraggiosamente. — Anna Maria — le dice il professore guardando l’ammattonato — questa è una lettera. — Sissignore. — Tu la porterai in via Torino, numero 60. Anna Maria non dice _sissignore_, e Marcantonio alza gli occhi per la meraviglia. — Mettitelo bene in mente, in via Torino, al numero 60. È scritto anche qui. — Sissignore. — Domanderai della signora Serafina Abate. — La padroncina! — esclama Anna Maria battendo palma a palma senza far rumore. — Lo so. — Che cosa sai? — So dov’è.... il numero 60 in via Torino.... ci sono già stata altre volte. — Quando? — Non ricordo più quando; ma lo so.... ecco, e sono contenta. — Di che cosa sei contenta? — interroga il professore coll’accento melato d’un esaminatore; e siccome Anna Maria non è pronta a rispondere, egli soggiunge con indulgenza: — Poniamo che tu sia contenta senza saper di che, nessuno dice il contrario; intaschi la lettera, te ne vai subito a recapitarla, non ti trattieni a far ciance coi portinai, e torni a casa. — A portare la risposta.... — Non vi è risposta; tu vai e torni, e non fiati nemmeno. — Sissignore.... Vado subito. — Va subito. — Vado. Non si muove, e il padrone già volta le spalle, quando Anna Maria diventa a un tratto un’eroina antica. — Signor padrone — dice ingrossando la voce — la padroncina sta bene? — Sta bene. — Proprio? Marcantonio si volta a guardarla, e l’eroina antica ridiventa Anna Maria. * * * Oggi Marcantonio ha confutato il sistema di Spinoza, ed è stato così felice nella parola, così stringente nelle argomentazioni, che quasi quasi ha potuto credere che tutta la scolaresca lo abbia inteso. E veramente la maggior parte della scolaresca ha inteso che il sistema di Spinoza è inutile, e che si può vivere lasciandolo stare a Spinoza. I più arditi hanno enunciato un sospetto, il quale in fondo è un desiderio, cioè che tutta quanta la filosofia insegnata nelle scuole possa essere prima confutata in una lezione un po’ più divertente delle solite, poi lasciata stare per sempre. A buon conto così ha fatto Marcantonio. Appena il bidello, socchiudendo l’uscio, ha gettato nell’aula quella magnifica parola latina — _finis_ — ecco un’immagine, rimasta nella scuola per tutta la lezione, è balzata sulla cattedra ed ha tirato giù il professore. Quell’immagine si chiama Serafina. Camminandole al fianco speditamente, Marcantonio pensa: «A quest’ora è a casa e mi aspetta!» Ma un dubbio, che s’è tenuto celato finora, aspettando il buon momento di farsi innanzi, s’affaccia bruscamente, come un aggressore alla svolta d’una via. E se non ci fosse nulla di vero in tutto il romanzetto che gli affatica il cervello da 24 ore, salvo una singolare somiglianza di scrittura? Se Marina, la comprimaria, esistesse, e sua figlia fosse invece sempre lontanissima... o morta? Fermo nella sua idea di voler evitare le spiegazioni e di cancellare interamente il passato, ieri il professore non ha atteso il ritorno di Anna Maria, e stamane non ne ha aspettata la venuta. Invece di Serafina, già così franca nella parte impostale dal padre, sino ad essere quasi padrona delle proprie lagrime (così Marcantonio la vorrebbe e così la immagina), può benissimo venirgli incontro Anna Maria colla lettera in una mano e l’altra mano sotto il grembiale, e dirgli: «Lei ha sbagliato, in via Torino, al numero 60, la signorina non c’è...» E allora? Che sarà allora? Marcantonio ci pensa, e dice a sè stesso che sarà una specie di rovina. Quell’edificio che egli ha tirato su lavorandovi ventiquatt’ore filate (perchè anche dormendo non ha cessato un minuto di fantasticare, e quando demoliva Spinoza, altro non faceva che preparare nuovi materiali di fabbrica), quell’edifizio è già così alto e massiccio, che se dovrà crollare, ingombrerà colle sue rovine tutta la via futura di Marcantonio. Invano egli chiederà consolazioni alla bizzarra Virginia od all’anonima vestita di nero — le fanciulle più bizzarre dell’universo mondo e tutte le vedove dello stato civile non gli potranno pagare il suo sogno. Egli lo sa e lo ripensa: misero l’uomo che chiede alla vita il prezzo d’un bel sogno svanito! Marcantonio deve aver in tasca la lettera di Marina; la ricerca trepidante, la trova, la esamina... Ah! non vi può essere dubbio, sono proprio i caratteri di sua figlia. Ecco le sue _s_ che paiono _f_, ecco le sue code svolazzanti che vanno a mettere dei tagli illegittimi alle sue _l_. Ogni dubbio è inutile, anzi è dannoso, perchè, già quasi alla porta di casa sua, il professore non ha ancora pensato alla scena che deve seguire. Vediamo. Che cosa dirà egli entrando? che cosa farà? Piglierà per mano sua figlia, senza guardarla in faccia, ed alla grossa fantesca, che senza dubbio vorrà stare fra i piedi, dirà: «Anna Maria, nulla è mutato nella mia casa, mia figlia vi rientra fanciulla come ne è uscita — ed ora va in cucina.» E dirà a Serafina: «Tu, figliuola mia, abbracciami; la commozione non serve a nulla; perciò ti raccomando di non piangere e di dimenticare il passato.» Riuscendo a fare ed a dire così, non un gesto di più, non una parola di meno, Marcantonio Abate spera che per il primo e più difficile incontro ce ne sarà abbastanza. Ma che cosa dirà Serafina? Il professore è giunto alla porta di casa sua, e si arresta un momento per aver tempo a rispondere a questa domanda. È strano — il suo vecchio cuore batte come per l’imminenza d’una catastrofe; da gran tempo non ha battuto così il vecchio cuore del Signor Io. Gli tornano in mente il primo sorriso d’una povera morta, allora piena di vita e d’amore, la prima lezione davanti ad una scolaresca non abbastanza disattenta, il primo bacio sopra la gota di una neonata piangente — anche allora gli batteva il cuore forte, ma non così. Che cosa dirà Serafina? Rifà la domanda, poi non bada a rispondere; è sulle scale, il portinaio non l’ha visto passare, ed egli è quasi contento di non essere stato fermato per sentirsi dire: «Sa? ci è di sopra la signorina...» ma ora cerca sui gradini, senza saperlo, le traccie del passaggio di sua figlia, e non trovando nulla, è oppresso dalla freddezza non dissimile della ringhiera di ferro e del bracciuolo di ottone, ma sempre senza saperlo. A un tratto si scuote da quella inerzia della sua volontà, che va perdendo terreno dinanzi ad un avversario ancora invisibile, fa rapidamente i pochi gradini che lo separano dal pianerottolo e si arresta all’uscio di casa sua. Deve sonare il campanello, oppure aprire colla chiave che porta sempre in tasca, ed entrare in casa all’improvviso? Meglio è che Serafina ed Anna Maria siano avvertite — perciò suona. La fantesca non è pronta ad accorrere, ma si facesse anche aspettare fino a notte, Marcantonio non sonerà più; non sa neppure se troverà la forza di aprir l’uscio di casa colla chiave che ha in tasca. Non è il cuore — ora lo comprende — sono i nervi. Finalmente si ode un passo dietro la porta, che si socchiude lentamente. Marcantonio entra, Anna Maria spalanca la bocca e gli occhi e non dice nulla. La poveraccia ha pianto, ma il suo padrone non se ne avvede. — Dov’è Serafina? — riesce a dire con un tremito nella voce. Anna Maria, per parlare, comincia dal chiudere la bocca ed inghiottire la saliva, poi accenna col capo alla camera vicina; non può dir altro. Il professore Marcantonio Abate si sente piegare le ginocchia, ed è costretto a sedersi sopra uno sgabello. Allora soltanto Anna Maria trova le parole. — Se la vedesse! — comincia a dire — ma anche il padrone ritrova il suo proposito. — Anna Maria — dice con dignità — nulla è mutato nella mia casa: mia figlia vi rientra fanciulla, come ne è uscita; ed ora va in cucina. La dignità con cui ha pronunziato queste parole gli vieta di rimanere un minuto di più sopra un volgare sgabello d’anticamera. Si alza ed entra storditamente nel salotto, ma, per sua fortuna, Serafina non vi è. Pure, il cuore ricomincia a martellargli forte. Perchè? Unicamente perchè, entrando, egli ha visto il lembo d’una veste sparire da un altro uscio, e una pezzuola bianca cadere dal tavolino a terra. Marcantonio si arresta nel mezzo della sala e raccatta la pezzuola. È bagnata di lagrime; lo sapeva. Cerca, come per gustare un po’ d’amarezza, e forse per guadagnare tempo, le iniziali ricamate del nuovo nome di sua figlia, e trova invece il nome intero della sua povera morta — _Faustina!_ Quasi allo stesso tempo, una voce gentile, la voce medesima della donna che lo aveva amato tanto, dice timidamente: — Sono qua! E perchè egli, trattenuto da una folla di vecchi sentimenti che rifioriscono nel suo cuore, non è pronto a rizzarsi in piedi, la voce ripete più forte: «Sono qua.» Ed appare nel vano d’un uscio, che si è aperto senza rumore, la visione melanconica di lei, di lei stessa, di Faustina, pallida e scarna come nella malattia che l’ha uccisa, ma ringiovanita e fatta più bella dalla morte. Ah! come potrebbe Marcantonio reggere a quell’urto? Egli sente che un tremito gli agita tutta la persona, e che un brivido dolce, forse un’onda di pietà, gli corre nelle vene come un lavacro. Ha chiuso gli occhi, e chi sa? forse ha aperto le braccia senza avvedersene, perchè sente sul petto il peso di un corpo dilicato, e sulle labbra il bacio della sua cara defunta. Riapre gli occhi e non dice nulla. Finchè dura quel fascino, non potrebbe parlare, anche volendo; ma perchè parlare quando piange? Piangi, Marcantonio, le tue vecchie lagrime pagano tutto il pianto versato da tua figlia. La poveretta, mettendo il visino patito sotto quella benefica pioggia, sorride e pare che pianga anch’essa, mentre dice teneramente: — Babbo, non fare così! Non le badare, Marcantonio; piangi, lascia cadere le tue vecchie lagrime sulla faccia di tua figlia; sta certo, non le faranno male. VIII. SI PARLA DI LUI. Marcantonio si prova a sorridere a sua figlia, la guarda negli occhi spalancati da una grande dolcezza, le accarezza le guance scolorite dai patimenti, e ancora non sa che dirle. — Sono qua — ripete Serafina colla voce di sua madre; — questo giorno doveva venire, io l’ho aspettato tanto, ed è venuto! — Come stai? — le chiede Marcantonio facendo la voce grossa per far tacere tutte le corde del pianto. — Tu soffri molto, non è vero? — T’inganni, babbo, io non soffro niente, io sto bene, non sono mai stata così bene; te l’assicuro. Marcantonio vorrebbe credere, ma non può; al primo vedere Serafina vi è stato qualcuno a dirgli: «Marcantonio, tua figlia è venuta per morire nel suo letto di fanciulla.» — Hai dunque sofferto molto? — domanda facendosi coraggio. — Sei stata molto malata? — Ma ora sono guarita. — Guarirai! — esclama Marcantonio con forza. — Ora devi guarire per farmi piacere, perchè io lo voglio, e la mia Serafina mi ha sempre obbedito. — Non sempre — mormora la giovine donna. — Lasciamo stare il passato, lasciamolo stare, figliuola mia; per il tuo bene e per il mio, non se ne parli più. Tanto, l’ieri non esiste; il solo tempo vivo è l’avvenire, il solo giorno della settimana è domani. Sei contenta così? Serafina abbassa il capo sul petto e non dice nulla, e suo padre, immaginandosi di consolarla, insiste a bassa voce: — Quanto a me, ho dimenticato ogni cosa; dimentica tu pure, pensa a star bene. Domani farò venire un medico; egli ti darà delle medicine che ti faranno guarire presto. Per alcuni giorni è inutile che tu pensi alla casa; lo vedo bene io, sei troppo debole.... Serafina tace, ed egli prosegue: — Diremo ad Anna Maria che rimanga in casa anche di notte; essa farà la cucina, come una volta; terrò io le chiavi della dispensa e della guardaroba, cercherò di non far sbagli, ma ne farò ad ogni momento, e tu riderai e riderò anch’io. E appena tu sia guarita, te lo prometto — aggiunge con solennità burlesca — te lo giuro, io ti renderò tutte le chiavi, dalla prima all’ultima. Sei contenta, figlia mia? dillo, sei contenta? Serafina sorride melanconicamente, ma non risponde, e il disgraziato Marcantonio ode nel silenzio l’ansia di quel povero petto ammalato e la voce spietata che ripete: «Tua figlia è venuta per morire nel suo letto di fanciulla.» La sua anima manda un nuovo grido, altre fibre paterne si sono svegliate. Che cosa rimane ora del Signor Io? Una reminiscenza scialba, come di cosa da gran tempo smarrita: ieri soltanto il Signor Io trepidava nel ricevere le lettere, e pure questo suo ieri è già fatto così lontano da giustificare quasi la bizzarra sentenza suggeritagli dal rimorso: «Il solo tempo vivo è l’avvenire; la settimana ha un giorno solo, ed è domani.» Quel poco che del Signor Io rimane ancora, è lì, in faccia a Marcantonio, per parlargli di sua figlia. Quanto dovette soffrire la poveretta, perchè, ridotta in così misero stato, pensasse a pigliare un secondo marito! Forse, come tutti gli ammalati, non credeva al suo male, e si lusingava ancora che le fossero serbati altri giorni felici; forse altro non isperava fuorchè trovare, nella casa d’un vecchio egoista a cui non ripugnasse pigliarsi la sua bellezza e la sua gioventù, il letto tranquillo dove chiudere gli occhi alla morte. Un altro grido sordo dell’anima di Marcantonio; ora tutte le sue fibre paterne sono sveglie e domandano un miracolo. A chi? a chicchessia, alla natura, all’ente che ha creato l’esistente, all’eterno amore di cui si sente particella addolorata, agli uomini stessi che ha disprezzato fino a ieri. Egli vorrebbe gettarsi alle ginocchia di quella giovinetta patita, che sorridendo ha posto una mano calda nella sua ed offre ai suoi baci tardivi la fronte bianca e serena, vorrebbe col proprio sangue darle la vita un’altra volta, pagare la felicità di lei colla pace a lui tanto cara. Non lo spaventa l’idea di vegliare intere notti come un fantasma in una cameretta melanconica, chino sempre sopra un capezzale per ispiare un indizio di guarigione, in lotta sempre col sonno per non lasciarsi cogliere alla sprovveduta; non lo spaventa l’idea di agonizzare per sua figlia, purchè sua figlia guarisca. Dite: che rimane ora del Signor Io? Egli stesso si sforza invano di trattenerne l’ultimo atomo, che si va perdendo nel nuovo amore; invano egli dice che Serafina è una parte di sè stesso, e che l’affetto paterno è la forma più bella e più santa dell’egoismo umano. Oggi la sua filosofia astiosa balbetta e si confonde. — Serafina — dice mettendo sulla fronte bianca ancora uno dei tanti baci di cui l’ha privata — Serafina mia, non mi dici nulla, non hai proprio nulla da dirmi? — Babbo, che cosa vuoi che io ti dica? Che sono contenta, che mi sento bene, te l’ho già detto. — Ripetilo, bimba mia. — Mi sento bene, sono contenta. Marcantonio non è soddisfatto, ma non accusa sua figlia; sente che è colpa sua se quel primo incontro è quasi muto. Egli ha chiuso tutte le vie per cui si versa la confidenza, credendo di chiudere una sola porta, il passato. — Vuoi parlarmi di te — le dice finalmente — vuoi parlarmi del tuo dolore? Vuoi che colmiamo questo gran vuoto silenzioso che ci separa? Parla, ti ascolto. — Il passato non appartiene a me sola — mormora Serafina chinando gli occhi. Marcantonio ha inteso, ma non risponde. — Vuoi tu sapere — le dice abbassando la voce — come ha vissuto questi anni tuo padre? Gli ha vissuti come un egoista, non pensando quasi a te, non si ricordando quasi che tu esistessi. — Non è vero — dice sua figlia; — tu hai sempre pensato a me, ed io ne ho molte prove. Eccone una; la riconosci? Serafina, così dicendo, porge la mano a suo padre e gli mostra un anellino d’oro. Marcantonio, sbigottito, apre la bocca per parlare, ma non dice nulla. Senza volerlo ha preso un’aria d’ingenuità così eccessivamente astuta, che Serafina deve minacciarlo col dito prima di soggiungere: — Tu credevi che non avessi a scoprire il segreto; infatti io non ci avrei neppure pensato, ma Iginio, appena lo vide, disse: «Qui c’è sotto qualche cosa» — e trovò subito quel che c’era sotto. Guarda... Serafina si toglie l’anello dal dito e fa girare il castone sopra un’imperniatura nascosta. — Guarda, non pare che dica _Ama?_ — È vero — balbetta Marcantonio, esagerando senza volere la falsa espressione d’astuzia — è vero, pare che dica _Ama_. — E così dice; ma dice anche: Abate Marco Antonio. Sono le iniziali del tuo nome. Ti dispiace che mio marito abbia scoperto il segreto? Se sapessi quanto bene mi fece, e in che momento mi giunse questa tacita consolazione! A Marcantonio ripugna di mettersi nella condizione di un ladro incorreggibile, il quale rubi anche gli oggetti che gli vengono donati. Quel sentimento paterno, di cui forse il caso o forse un tentatore anonimo di Serafina lo va facendo bello presso sua figlia, è certamente un bel dono — ma egli sente che, accettandolo, ruba come un borsaiuolo. Ah! se rifiutare quel vanto significasse solo accettare l’accusa di uomo smemorato, o puntiglioso, o tenace, egli si affretterebbe a dire a sua figlia: «Serafina mia, io non so nulla di questo anello, non so nulla delle altre prove di cui parli — io non ho fatto mai nulla per avvicinarmi a te, perchè ero puntiglioso, perchè ero tenace; ma nondimeno ti ho sempre amata, ho sempre seguito ogni tuo passo col pensiero, il mio amore dispettoso non ti ha perduto d’occhio un momento.» Potesse egli dir questo e non mentire! Potesse egli, senza menzogna, non apparire padre snaturato ed egoista. — Ma tu lo sai — soggiunge Serafina — perchè io te lo scrissi. Le mie lettere ti pervennero sempre, non è vero? — Credo di sì.... — balbetta Marcantonio. — Sì, ti giunsero sempre, quelle almeno che annunziavano una gran gioia od un gran dolore, perchè ogni volta io ebbi la prova che il tuo cuore di padre palpitava col mio povero cuore di figlia e di madre. A quest’ultima parola, Marcantonio, coll’anima negli occhi spalancati, ha intraveduto i grandi dolori e le grandi gioie di sua figlia, e un tremito gli agita tutta la persona. — Basta.... — mormora — per ora basta, ti fa male il parlar troppo.... più tardi mi narrerai il tuo passato, mi dirai tutto.... Serafina, inesorabile, ripete: — Il passato non appartiene a me sola.... E a Marcantonio non sembra vero di celare la commozione dietro una nuova arrendevolezza. — Lo so, lo so — dice con un’impazienza carezzevole — benedetta ragazza, lo so. Ebbene, sì, mi parlerai anche di lui. L’hai dunque amato molto? — Lo amo ancora tanto! — esclama Serafina accendendosi in volto. — Sta zitta! Ora no, ti potrebbe far male; più tardi. La faccia di Serafina impallidisce ancora, ma il suo sorriso di bontà e d’indulgenza non si cancella. * * * Marcantonio ha mutato forma e linguaggio, ma è rimasto quello che era sempre stato in casa, un tirannetto; egli ha voluto ad ogni costo che Serafina fosse ammalata e si mettesse a letto per guarire. Invano la giovinetta ha protestato che il suo pallore e la sua debolezza non sono se non le ultime traccie d’una recente malattia oramai vinta; il professore, crollando il capo e affermando che non si lascerà ingannare, l’ha costretta ad obbedirgli. Con una commozione che è facile immaginare, Serafina è rientrata nella sua camera d’una volta per dare la consolazione al babbo di vederla ancora nel suo letto di fanciulla. — Quando sarai a letto, mi chiamerai — le ha detto Marcantonio; — io starò qui e sentirò subito. Non vi è pericolo che si muova; egli è sempre lì, attento, dietro l’uscio; ode il fruscio del vestito di seta nera, un vestito elegante che sua figlia porta con tanto garbo, poi il rumore degli stivaletti deposti a terra, ed ha appena il tempo di ricordarsi che quegli stivaletti sono finissimi, e di pensare che in tutta la personcina svelta di sua figlia egli ha visto le traccie d’un buon gusto che la sola agiatezza è impotente a dare, ma che senza l’agiatezza non si legittima, quando la voce di sua figlia lo chiama: «Babbo!» Ed egli entra commosso, mentre Serafina ride colla testa sotto le lenzuola, contenta ora di quel giuoco che non immaginava dovesse riuscire così piacevole. Sulla seggiola, accanto al letto, non si vede che la veste di seta, e a piè della seggiola gli stivaletti — ingegnosa, come fu sempre, per dissimulare tutto ciò che non è gentile, Serafina ha certamente nascosto il rimanente del vestiario. — Bravissima — dice Marcantonio — bravissima; ora ritrovo la mia Serafina, la ritrovo tutta, non ne manca nulla, sebbene non se ne vegga nulla. Serafina ride più forte, sempre col capo sotto le lenzuola. — Tu ridi — dice il povero padre contento — dunque la guarigione incomincia; ed ora lascia che io ti baci, come quando eri ragazza. Serafina abbassa il lenzuolo che la ricopre, e mostra il bel viso un po’ arrossato, cogli occhi lucenti per due lagrime che vi ha messo la contentezza. Suo padre si china sopra di lei, e nel baciarla in fronte nota che essa ha serbato agli orecchi due grossi diamanti, falsi certamente, ma che splendono come se fossero veri. — Sei contento ora? — chiede Serafina. — Per farti piacere sono venuta a letto; tu per far piacere a me, mi lascerai levare. Vi sono stata tanto a letto; ora non mi ci posso vedere. — Sentiremo il medico — si prova a dire Marcantonio. — Il mio medico, che è famoso in Milano, mi ha consigliato di fare del moto senza affaticarmi, e di nutrirmi bene senza far indigestione; la ricetta di chi sta benone. — Qual è il tuo medico? — Il dottor D.... — Ah! — esclama Marcantonio grattandosi con un dito le calvizie per non ismarrirsi nelle congetture. Lo riconosce, è impossibile durare nel primo proposito. In quel buio di cui si è voluto circondare rispetto al passato, penetreranno da ogni parte e ad ogni momento mille bagliori fuggitivi che lo faranno più pauroso. Meglio cento volte la certezza. — Se è vero che tu ti senti bene, se non temi che ti manchino le forze — dice Marcantonio accarezzando colla grossa mano tremante il volto soave di sua figlia — Serafina mia, parlami del tuo passato. — Il passato non appartiene a me sola — risponde la giovine donna. — Lo so, me l’hai detto; ebbene, parlami pure di _lui_. Serafina non se lo fa ripetere, e comincia con accento in cui vibra una commozione semplice: — Iginio mio è l’uomo più stimabile che io abbia conosciuto sulla terra, dopo mio padre; egli mi ha amato fin dal primo giorno come doveva amarmi sempre, con una giocondità inalterabile, quasi per dirmi che il nostro amore era e doveva essere una cosa lieta. Non è colpa mia se non fu sempre così: anch’io ho fatto di tutto per essere felici, e quando la disgrazia ha voluto provarci, ci ha trovato forti. — La disgrazia.... — balbetta Marcantonio. — La disgrazia si chiamava l’abbandono di tuo padre. Serafina gli stringe la mano e lo guarda con amore, ma non dice di no. — Si chiamò prima di tutto l’abbandono di mio padre — prosegue melanconicamente; — poi prese altro nome più volte; ma sempre ci trovò sorridenti e felici, perchè ci amavamo. Tu non hai voluto conoscere Iginio; e pure egli era degno di te. Il colpo è dato, e Marcantonio l’ha ricevuto senza protestare. Però egli tace, e Serafina non può proseguire, perchè la commozione le dà l’ansia. Si risvegliano nella mente del disgraziato padre tutti i terrori di poc’anzi. — Lo vedi! — esclama. — Parliamo d’altro; questo discorso ti fa male. — Questo discorso mi fa bene — ribatte la figliuola ostinata; — lascia che io ti parli di lui. Ho sempre creduto di doverlo amare di più e di non poterlo amare abbastanza, perchè tu non gli avevi dato un posto nel tuo cuore; vorrei che, almeno ora, tu gli volessi bene. — Gli ho perdonato tutto! — balbetta Marcantonio. — Grazie — insiste Serafina; — ma lascia che io ti parli di lui. Quando eravamo in paesi lontani, al caldo, al gelo, in compagnia della così detta famiglia artistica, dove nessuno si ama sinceramente, chi mi asciugava le lagrime, chi mi rendeva le forze, chi mi curava inferma, sai tu chi era? Lui solo. Chi mi parlava di te senza rancore, sai tu chi era? Era lui. Quando si aggravava sull’anima mia il tuo silenzio, era lui che ti scusava. Oh! egli sapeva leggere nel tuo cuore, anche da lontano, e non isbagliava mai. «Bisogna compatirlo — mi diceva — egli è un po’ severo perchè è avvezzo a stare sulla cattedra...» Non ti offende che dicesse così? «La sua scienza medesima è severa — non devi sperare che ti scriva; egli ha giurato di non riconoscere più sua figlia, e sono sicuro che alle tue lettere non risponderà per un pezzo; ma tu scrivigli, è il tuo dovere prima di tutto, e poi, ciò gli deve far bene.» — E quando, alla vigilia di diventar madre, in un paese straniero, a Bucarest, mi giunse il tuo primo segno di pace, quest’anello che non ha più lasciato il mio dito, egli, già delirante per la febbre tifosa che me lo voleva rapire, mi disse: «Lo vedi, Serafina, tuo padre ti perdona e ti dice: _ama_; egli ha scelto questa via di esprimerti l’animo suo; è buono, tuo padre, io lo conosco; ora fioccheranno i doni, vedrai. Ma non isperare già che ti scriva, non bisogna pensarci; è fatto così, io lo conosco....» Ed indovinò proprio; tu non mi scrivesti mai.... — No, io non ti scrissi mai — mormora Marcantonio lasciando cadere la testa invasa da mille fantasmi fino a picchiare con un colpo sordo sul marmo del tavolino da notte — no, io non ti scrissi mai. — È tutt’uno — si affretta a soggiungere Serafina allungando una mano per porgergli una carezza — è tutt’uno, la tua corrispondenza muta mi ha consolato abbastanza. Noi ti avevamo offeso e non meritavamo di più.... Quando nacque il mio povero Marcantonio, Iginio era ancora convalescente; il tuo dono alla puerpera ci fece guarire più presto.... Mangiavamo la zuppa entrambi nella tua ciotola e colla tua posata, prima io, poi lui... e un mese dopo egli cantava ancora, ed ebbe un trionfo. Ti ricordi? Marcantonio non risponde; egli ha chiuso gli occhi ed ha visto uscire dal buio pauroso una personcina, che gli fa cento moine per indurlo a giocare con lui. Il poveraccio vorrebbe fare un gran gioco di baci, ma il piccino è restìo ai baci, ed egli non osa dirgli: «Io sono tuo nonno!» La scena buia si cambia di continuo; ogni parola di Serafina ne muta un contorno, v’introduce o vi cancella un personaggio. Così sparisce per sempre il piccolo Marcantonio, e il nonno, rimasto solo non riesce a soffocare un gemito. — Quando il mio bambino morì.... — prosegue Serafina; ma si arresta e si turba, perchè ha udito un singhiozzo. — Se tu lo avessi veduto! — ripiglia a dire lentamente dopo una breve pausa. — Era il ritratto d’Iginio; aveva, come lui, gli occhi a fior di testa, piuttosto grossi e tondi, ed aveva anche il suo sorriso; ma la fronte l’aveva più alta, come la tua, e gli scendevano sulla nuca i ricciolini, come a te. Essa dice queste parole sorridendo, e intanto accarezza i ricciolini di suo padre, ultime reliquie d’una capigliatura superba, che formava già la maggior bellezza di Marcantonio. — Queste cose — prosegue Serafina — io te le ho scritte tutte, ma nel dirtele a voce, qui, dal mio letto di fanciulla, dove si svegliarono tutti i miei affetti, dove ho sognato tanta felicità, nel dirtele così, colla mia mano stretta nella tua, sento una gran dolcezza. Tu, babbo, non t’infastidisci se ripeto cose che sai? — No, Serafina mia, non m’infastidisco; dimmi tutto, tutto, tutto, come se io nulla sapessi, come se il tuo babbo ritornasse da un cattivo mondo lontano, in cui si dimenticano le persone amate. Dimmi tutto. Marcantonio rialza il capo e sorride a sua figlia; la quale continua: — Ti parlerò di lui, sempre di lui, poichè me lo permetti. Se tu fossi penetrato nel suo cuore, se tu avessi visto di quanta bontà egli era ricco, prima d’ora gli avresti perdonato l’offesa che ti fece amandomi. A Barcellona, una sera, dinanzi ad un caffè, un povero diavolo cantava la _Calunnia_ del _Barbiere_, accompagnandosi con una chitarra. Ridevano tutti, ma erano risa di beffa, perchè la voce del cantore era rauca, e la chitarra scordata; quando il disgraziato, che aveva la fame scritta in tutta la persona, ma più negli occhi, andò in giro per raccogliere l’elemosina, il primo a cui si accostò gli disse una villania, e il secondo gli volse le spalle. Il meschinello allora non osò proseguire il suo giro, mandò intorno uno sguardo smarrito, raccattò il berretto, che aveva deposto a terra, e fece atto di andarsene. Noi eravamo seduti lì presso, ed io aspettava, col mio obolo in mano, che il disgraziato cantore si accostasse. Sai tu che fece Iginio? Con uno sguardo ridente mi disse: Aspettami — poi lasciò il tavolino e raggiunse il mendicante. «_Prestami la tua chitarra_.» gli disse. — E là, in faccia a tutta la gente del caffè, in mezzo alla folla dei passanti che ingrossava sempre intorno a noi, cantò, come sapeva far lui, l’aria della _Calunnia_. — Era una cosa bella, babbo mio, una cosa bella, sebbene la chitarra fosse scordata. Gli applausi che scoppiarono in ultimo mi commossero più di quelli che mio marito raccoglieva ogni sera in teatro. Restituì la chitarra al poveraccio, e lo mandò in giro a raccogliere l’obolo.... Ad ogni moneta che veniva buttata nel suo berretto, quell’infelice vi lasciava cadere una lagrima; vi lasciai cadere anch’io la mia moneta e la mia lagrima, e forse più d’una signora, debole come me, fece altrettanto. Ma io feci qualche cosa di più, dissi al mio Iginio: _Andiamcene_, e ce ne andammo subito, e appena ci fummo dilungati alquanto in un viale, gli diedi un bacio furtivo, come se fossi la sua innamorata. Serafina tace un momento, poi ripiglia: — Iginio mio non si smentì mai; dal primo giorno che gli fui al fianco, egli m’ispirò quel coraggio tranquillo e ridente, che è tanto raro anche negli uomini. Quando tornai dal Cairo in Italia, e ci fu fatta fare la quarantena a Napoli, in un brutto casone, come ingannammo noi il tempo lungo? Cantando certe parodie in cui mio marito faceva molte parti ad un tempo; il tenore e la prima donna, ammalati davvero, erano rimasti al Cairo, ma non per questo si sopprimeva il duetto d’amore, anzi era il pezzo più desiderato e più applaudito; faceva mio marito le due parti. Faceva anche il coro, perchè i coristi e le coriste non viaggiavano con noi, ed era impossibile star seri alla mimica del coro maschile ed alle voci calanti del coro di donne. Era lui che improvvisava certe festicciuole da ballo, in cui egli non ballava; lui che ordinava le cenette, tanto per farci stare allegri. A lasciar fare agli altri, si sarebbe morti di noia più presto che del colera; egli accettava i ringraziamenti di tutti ma non era contento se non sentiva da me che ero stata allegra. Mi domandava spesso: «Non ti senti infelice molto?» — E quando io gli assicurava che, al contrario, ero felicissima, egli mi diceva: «Sai bene che ho giurato di farti felice, quando ti pare che io non riesca o che stia per commettere uno sproposito, avvertimi.» Poi il cielo mi volle ridare la consolazione che mi aveva dato e ritolto; mi nacque una bimba, e si chiamò Faustina, come la povera mamma. Eravamo a Piacenza quando mi giunse tutto il corredo che tu destinavi a mia figlia; anche allora, quanto bene mi fecero quelle due parole: _A Faustina!_ Erano di tuo pugno, ed io le riconobbi e le accolsi come un buon augurio. Io ti scrissi allora che Faustina, così benedetta dal nonno, non mi sarebbe stata tolta, ma sarebbe cresciuta bella e buona, immagine della povera morta di cui portava il nome, per dirti un giorno l’amor suo.... Marcantonio ha sollevato la faccia pallida, e cercando di leggere negli occhi di sua figlia, non respira più. Quell’ansia è breve; uno scoppio di pianto la risolve, ma è pianto di tenerezza. — Quel giorno è giunto — dice titubando la giovine donna. — Faustina ti aspetta! Oggi ha cinque anni, e si è fatta carina. Dicono che mi somigli molto, ma a me pare tutta la mia mamma. Essa ti conosce; ha visto il tuo ritratto e le abbiamo parlato tanto di te! L’altro giorno, prima che tu mi scrivessi quella lettera che mi ha colmato di gioia e di turbamento, ha creduto di vederti dalla finestra e ti ha chiamato forte: «Nonno! nonno!» Io era a letto, e v’era un tale.... Serafina s’interrompe; è rossa in viso ed ha l’ansia anch’essa. — Un tale? — Sì, un tale, che quel giorno non aveva nome ancora, ma che oggi ne ha più d’uno.... egli piangeva perchè aveva appetito, e alla povera mamma mancava il latte.... — Dio grande! — balbetta Marcantonio — tuo figlio, non è vero? E la tua malattia era?.... — Sì, era.... — risponde Serafina. Null’altro. Dopo un breve silenzio, suo padre chiede con voce rauca, senza scostare la faccia dalle mani: — Un maschio? — Sì, un bel maschio; compie oggi il quarantesimo giorno.... — Imprudente! — mormora il padre — e si chiama? — Marco, Antonio, Corrado, Iginio, Maria. — Marcantonio! E dov’è ora? — A balia. Ma Faustina è a casa ed aspetta la mamma. — Andrò io — dice il povero padre; — la bimba mi conosce; tu non ti muovere, ti potrebbe far male. Rimani qui tranquilla, sono le tre, è l’ora della mia lezione al liceo — ma troverò un pretesto per rendere felici i miei scolari. Dette queste parole, Marcantonio si china a baciare sua figlia e si allontana subito senza voltarsi. Ha la mente turbata e un gran disordine nel cuore. Sente il bisogno d’esser solo. Serafina lo accompagna cogli occhi fin sull’uscio, poi scende dal letto, dove era entrata quasi vestita. Le splende sul volto una gioia maliziosa. IX. DEUS EX MACHINA. Sono le tre, è l’ora della seconda lezione di metafisica al liceo; ma oggi l’ente, preso da pietà per le sue creature, ha permesso che Marcantonio, uscito di casa coll’intenzione di andare ad annunziare dalla cattedra: _brevis lectio!_ non si lasci nemmeno vedere in liceo. Immaginate la festa degli esistenti della seconda classe liceale! Marcantonio va verso la lontana via Torino; fedele al proprio costume di non lasciar impigrire le gambe, egli cammina a piedi; ha fretta e corre, ma intanto pensa. Sono entrati nella sua mente alcuni quesiti tenebrosi, a cui ancora non ha cercato di dare risposta. Eccone uno: «Il buffo Curti buon’anima in che condizione ha lasciato la vedova?» Scrivendo al Signor Io, Serafina diceva di non possedere altri capitali al mondo fuor che il cuore e la sua bell’arte; ma presentandosi al babbo era vestita con eleganza e portava grossi diamanti agli orecchi. Suo medico curante nell’ultima malattia era il dottor D..., uno _specialista_ celebre, di quelli che si fanno pregare due volte e pagare quattro. Stando solo a ciò, anche se i diamanti sono da palcoscenico, la vedova Curti è _agiata_. Così dev’essere. Non poteva un buffo onesto, dopo aver messo al mondo due figliuoli, andarsene _ad patres_ buttando la famiglia addosso al suocero, che campa malamente di metafisica. D’altra parte la lettera è esplicita: «Sono povera, altro non posseggo al mondo fuor che il cuore, eccetera»; e questo è detto ad un Signor Io ignoto, che va in cerca di moglie nella quarta pagina del _Secolo_. Che vergogna! pensa Marcantonio; mia figlia, spirato appena il termine legale della vedovanza, madre di due figli, l’ultimo dei quali ha trent’otto giorni soltanto, disporsi ad accettare il talamo d’un anonimo! Che umiliazione se potesse mai sapere che quell’anonimo era suo padre! Si può star sicuri che Marcantonio ha viscere paterne e non le dirà nulla. Ma come mettere d’accordo questa fretta di passare a seconde nozze coll’amore ardente serbato al marito defunto? Che il cuore della donna sia bizzarro, Marcantonio lo sa; ma a questo punto! La sola miseria spiega, non giustifica, la cosa. Certamente, Serafina è povera, come ha detto; non i suoi diamanti soltanto sono da palcoscenico, ma anche la veste di seta nera. Già, Marcantonio di vestiti non se ne intende! Il buffo Curti — quel meraviglioso fiore dei buffi — ha proprio fatto la prodezza o la burletta — chiamatela come volete — di rubare la figlia ad un padre, di generare due figli di sesso diverso, e di morirsene poi per appioppare ogni cosa al suocero tradito. Non importa! Marcantonio è preparato a tutto. Serafina è ritornata nella casa paterna per non uscirne mai più; la piccola Faustina e il piccolo Marcantonio cresceranno fra le pareti in cui è cresciuta la madre loro, all’ombra della stessa grand’anima, confortati dalle medesime carezze. Marcantonio non è ricco, ma alcuni soldi alla cassa di risparmio ce li ha; s’ingegnerà di farli fruttare; alle due scuole del liceo, ne aggiungerà una terza quando voglia; e così, con un altro po’ di metafisica e con molta economia, bene o male, si camperà la vita in quattro. E i registri dello stato civile non sapranno neppure della doppia corbelleria che una comprimaria (comprimaria! e in che parte, o lumi della ribalta, avete veduto Serafina sul palcoscenico?), che una comprimaria e un professore erano lì lì per commettere. Quando la mente di Marcantonio si è acquetata in questo pensiero, altri quesiti tenebrosi le si presentano. Eccone uno: «Chi ha mandato a regalare il fardelletto a Faustina? chi ha donato a Serafina l’anello col segreto e la parola _Ama_ in caratteri maiuscoli? La parola _Ama_ contiene, è vero, le iniziali del suo nome, ma come? in questa maniera stramba: Abate Marco Antonio, come si erano ostinati a chiamarlo sua figlia e suo genero. Le vere iniziali di Marcantonio Abate, invece di un consiglio amoroso, dovevano fornire una particella dubitativa, la quintessenza di tutta quanta la umana filosofia. Dunque, chi ha regalato il fardelletto e l’anello? _Lui!_ Chi ha mandato regolarmente gli altri doni in risposta ad ogni lettera? _Lui!_ E queste lettere dove sono andate? Egli ricorda benissimo di averne respinte tre sole; a chi furono recapitate le altre?» Così almanaccando, Marcantonio è giunto al numero 60 in via Torino. Egli passa diritto dinanzi alla portinaia, ma costei lo segue e lo trattiene. — Chi cerca? Chi cerca Marcantonio? La signora Camilla o la signora Curti? — La signora Curti. — Secondo piano, l’uscio in faccia alla scala. Marcantonio sale, e sull’uscio indicatogli vede una scritta d’ottone, in cui è detto semplicemente _Curti_. Suona il campanello senza titubare, ma gli sembra d’udire un lieve rumore intorno a sè, si volta e vede un finestrino con una cortina bianca sollevata da una grossa mano. La mano sparisce, la cortina ricade: ecco dei passi che si avvicinano all’uscio. Strana cosa! il cuore di Marcantonio è aperto, e pure qualcuno vi picchia forte gridando: «Aprimi, Marcantonio.» * * * Si apre l’uscio, e un servitoruzzo alto quattro spanne, con un giubbetto nero alto quattro dita, introduce Marcantonio in un’ampia sala quasi buia. Quivi lo abbandona. Non gli ha chiesto il suo nome, non gli ha dato tempo di dire chi cerca; è scomparso. Se avesse più fiato in corpo, il professore richiamerebbe quel bimbo per fargli intendere.... per fargli intendere che cosa? Marcantonio guarda la sala in cui si trova; avvezzandosi all’oscurità, gli occhi suoi cominciano a discernere certi mobili di foggie strane, un pianoforte a coda, dei quadri con cornici dorate alle pareti; facendo un passo, inciampa in uno sgabello turco, e chinando lo sguardo a terra, riconosce che ha una pelle di tigre sotto i piedi. Dal mezzo del soffitto scende qualche cosa, una lampada, una magnifica lampada di bronzo antico; in fondo, sopra una colonna, un busto di marmo. Nessuno viene, ed egli ripensa a quel bimbo che l’ha introdotto, a quella bimba a cui è venuto a far visita e che gli fa battere il cuore. Ora si aprirà un uscio in qualche parte e comparirà un altro fanciullo a dire che la signorina si veste e lo prega d’aspettare. — Si fa un giuoco infantile ben noto, si giuoca ai _signori_. Gli occhi di Marcantonio sono già padroni della scarsa luce, e vedono la sala nell’insieme — pare proprio una bella sala, mobiliata con un certo disordine artistico. Gli oggetti più lontani si avvicinano per farsi ammirare; i quadri appesi alle pareti sono ritratti antichi; il busto marmoreo si modella sotto uno sguardo attento; ecco la faccia tonda, ecco il naso, ecco i baffetti, ecco gli occhi del buffo Curti. Ed ecco altri oggetti che prima si nascondevano: una coppa d’argento sul caminetto: una statuetta di bronzo sorretta da una mensola fra le due finestre, un grosso albo di ritratti sopra il tavolino di mezzo, un orologio antico — e che altro? Una porta si apre, e Marcantonio si volta da quella parte. Non è una bimba! — Qui non ci si vede — dice una vocetta fessa; — l’hanno lasciato al buio. La signora che ha parlato così si accosta ad una finestra e la spalanca. Il sole, entrando, fa vedere ad un tratto tutte le sembianze della sala e della signora. La sala è proprio bella — la signora è proprio brutta. — Io amo la luce — dichiara la signora: — e Marcantonio non può trattenersi dal pensare che essa ha collocato male i suoi affetti. Non è difficile, anche ad uno spettatore inquieto, accorgersi subito che, non ostante la sincera bruttezza del suo viso, la povera signora ha conservato qualche illusione sulle proprie attrattive, perchè il suo sorriso indiscreto apre con frequenza una porta sgangherata, che si chiude malamente, lasciando scorgere un dente canino giallo e una striscia della gengiva superiore. Ha gli occhi tondi e li fa girare in languido modo, come pallottole, il naso lungo, piantato in mezzo alla faccia come un manico storto ed altrimenti deteriorato dall’uso. Badando a queste cose come in sogno, Marcantonio scorge due vezzi di moda che lo affliggono più della stessa bruttezza: la signora ha una carnagione magnificamente bianca e rosea, e due sopraciglia tracciate e dipinte con maestria. Per non mormorare contro l’ente, per non dire che l’eterno padre, nel fare creature femminine a sua immagine e somiglianza, da poco in qua viola spesso e volontieri le regole più elementari del disegno di figura, facendo inopportuno sfoggio di colorito, Marcantonio vorrebbe accertare se quelle sopraciglia non sono fatte col sughero bruciato, e se quella pelle non è tinta colla biacca e col carminio. — Che cosa desidera il signore? — domanda l’incognita, accennando una seggiola e lanciando un’occhiata assassina. Il signore desidererebbe bagnare la punta d’un dito qualunque colla saliva o con qualsiasi altro liquido incoloro ed inodoro, e fregare poi pian piano una delle guance e una delle sopraciglia della signora — non le farebbe alcun male; — ma non potendo esprimere questo desiderio, dice senza pensarvi: — Vorrei vedere Faustina.... Si cancella il sorriso dalla faccia della signora, la bocca sua si chiude quanto è possibile nel domandare: — Che cosa ci entra Faustina? Il signore non è dunque?... Marcantonio capisce d’esser preso per un altro e si affretta a presentarsi: — Sono Marcantonio Abate, professore di filosofia, padre della signora Serafina, nonno di Faustina, e vorrei vedere la bimba. Egli ha messo tutta la dolcezza possibile nel dire queste parole innocenti, che pure sembrano turbare la signora, la quale, solo dopo un sospiro prolungato e misterioso, acconsente a sorridere un’altra volta. — Andrò a vedere — dice. Dice, e s’allontana con un’andatura sbilenca, mentre Marcantonio, a cui rimane una gran confusione d’idee nel cervello, fissa gli occhi sulla porta, d’onde immagina che dovrà entrare la sua bambina. Intanto un uscio si apre alle sue spalle ed egli non se ne avvede. — Quello? — domanda una vocetta. — Sì, quello, corri; abbraccialo. Marcantonio si volta; due manine gli stringono le gambe, ed egli non ci bada neppure. Colle spalle addossate ad uno stipite, colle braccia penzoloni, un uomo lo guarda e gli sorride. — Ha la faccia liscia e tonda del buffo Curti, i baffetti, gli occhi, il naso del buffo Curti — e non è uno spettro. È il buffo Curti in persona! — Nonno! — dice una vocetta ai piedi di Marcantonio. Egli non risponde, non abbassa neppure lo sguardo verso la creaturina che lo chiama per la prima volta con quel dolcissimo nome; altre voci, irose voci, gli gridano sordamente: «Tu sei schernito, e il tuo schernitore ride, compiacendosi dell’opera sua.» Come, e perchè? Ancora non lo intende. — Nonno! — ripete la vocina della bimba — non guardar _lui_, guarda me! Egli guarda _lui_, e non ascolta se non la voce che grida: «Tu sei schernito!» Come e perchè schernito? Ora vede chiaro. Anna Maria ha tradito il segreto del _Signor Io_, il buffo Curti ha pensato alla gherminella, e a Serafina non si è disseccata la mano destra nel pigliare la penna per beffarsi di suo padre. Così larga è la voragine che gli si è aperta ai piedi nel momento medesimo in cui credeva di ritrovare un’altra figlia e una nuova giovinezza del cuore, che Marcantonio non sa se non balbettare: — È un tradimento! — Nonno — ripete la piccola Faustina — pigliami in braccio. — Ma pigliatela dunque in braccio — gli suggerisce il buffo con una ingenuità mostruosa; — è Faustina, la nostra ragazza, tua nipote. — È un tranello, un brutto tranello! — mormora Marcantonio guardando sempre più addentro nel nero complotto, e sentendosi morire di rossore all’idea che sua figlia ha conosciuto i suoi disegni matrimoniali, e se n’è beffata. — Ma pigliala dunque in braccio — ripete il buffo Curti facendo un passo incontro al suocero. — Non si accosti a me — gli dice allora Marcantonio con voce sorda; — la sua condotta è odiosa, ed io.... Non può finire la frase perchè riappare nella sala la brutta immagine di poc’anzi, e Marcantonio vuole evitare lo scandalo. — Ho cercato la bimba da per tutto; dov’è? Ah! sei lì, gioia mia? Il buffo Curti, niente affatto sbigottito dalla cattiva accoglienza che gli vien fatta in casa sua, si fa innanzi con gran disinvoltura, e accennando al professore la signora dal dente giallo e dalla carnagione di latte, gli dice tranquillamente: — La signora Camilla, artista di canto, nostra buona amica, che ha la bontà di occuparsi dell’educazione di mia figlia, invece di accettare le scritture che non le mancherebbero. La signora Camilla s’inchina, e (certo senza intenzione maligna), sorride ed avventa uno sguardo di sotto in su al professore, il quale, inchinandosi alla sua volta e ritrovando all’altezza del suo ginocchio un visino petulantello, non si rialza più. Ah! quanto è bello, e quanto caro, il visino petulantello di Faustina! E pure, la prima carezza che riceve dalla mano tremante del nonno tanto aspettato è una carezza sbadata. Marcantonio va chiedendo a sè stesso se e come l’esistenza reale d’una signora Camilla, artista di canto, in via Torino al numero 60, assolva suo genero, o sua figlia, o tutti e due. — Signora Camilla — dice intanto il padrone di casa — la ringrazio tanto. Queste parole significano che la signora Camilla se ne può andare; infatti essa ripete l’inchino e l’occhiata omicida, e facendo un tentativo inutile per nascondere il dente ribelle, se ne va più sbilenca che mai. Rimasti soli, il buffo Curti avvicina una seggiola al professore, e gli dice, senza cessare di sorridere: — Siedi; tu hai molte domande da farmi, ed io sono pronto a rispondere; la piccina non ci disturberà. — Signor Curti — risponde Marcantonio con una severità inutile — la prego di non darmi del _tu_, finchè io non glielo permetta. — È troppo giusto — dice il buffo senza ombra di canzonatura. — Signor professore, si accomodi; se la bambina le dà noia, la deponga pure a terra, oppure la manderemo di là. — Voglio stare col nonno — dichiara Faustina appiccicandoglisi alle gambe. Marcantonio sta un po’ a riflettere a quella singolare posizione, e sembra tentennare un poco prima di indursi ad accettare la seggiola. Ma un’idea piena di baldanza, e forse non priva di generosità, gli viene incontro, e il buffo Curti la vede venire. Marcantonio siede con faccia severa, poi si piglia sulle ginocchia la bimba, la bacia, l’accarezza, le sorride; in ultimo volge al genero perverso la faccia ridiventata severa. Iginio Curti siede anch’egli, si frega le mani ed incomincia: — Potrei risparmiare a me stesso e alla mia famiglia una collera giusta, lasciando durare gli equivoci il più possibile e facendo intendere più tardi che il solo colpevole è il caso; ma non voglio avere l’impunità coll’inganno. Diciamo così: sua figlia, signor professore, non sa nulla di nulla; il colpevole è uno solo, e non è il caso. — È lei? — domanda Marcantonio cercando invano di star serio, mentre la piccola Faustina lo guarda e gli dice: — Nonno, bada a me; perchè l’altro giorno, quando ti ho chiamato dalla finestra, non ti sei fermato? — Sono io — dice il buffo Curti, mentre il nonno fa tacere la bimba con un bacio — io solo. Ieri Serafina, ricevendo la lettera del babbo, non ci capiva gran cosa; io stesso penai tutta la notte ad intendere che mio suocero mi faceva l’onore di credermi morto e sepolto. Quest’idea, per esempio, non mi era venuta, lo dichiaro subito. — Nonno — dice la piccola chiacchierina — mi hanno detto che tu sei il babbo della mia mamma; è vero? — È vero — risponde Marcantonio con un filo di voce, gettando un’occhiata piena di rimprovero a suo genero. Quell’occhiata significa: «È colpa tua, uomo scellerato, se io non copro di baci questa boccuzza che pare un bocciolo di rosa: è colpa tua se io non le dico tutto quello che vorrei dirle.» Ma il buffo Curti interpreta male quell’occhiata, e vi risponde con un gesto modestissimo, che significa: «Si è fatto quel che si è potuto, ed è riuscita benino, non lo posso negare!» — Il babbo mi vuol tanto bene — dice la bimba — e tu, non vuoi bene alla mamma? Perchè non sei mai venuto? È tanto tempo che ti aspetto. Un silenzio doloroso accoglie queste parole crudeli; ma la piccina è furba, comprende di aver fatto male e s’ingegna di rimediarvi. — Lo so, lo so perchè non sei venuto, lo so che alla mamma le volevi bene; le hai mandato le chicche, le hai mandato la bambola, le hai mandato.... Iginio Curti si affretta a proseguire: — Avevo giurato a me stesso di far felice la sua ragazza, ed ho creduto tante volte d’esservi riuscito, ma una cosa le mancava sempre: il cuore di suo padre. Quella povera creatura, come lei sa, ha sempre voluto tanto bene al babbo. A me toccò mentire più d’una volta, per darle una consolazione. — So tutto.... — Serafina le ha detto?... Spero che lei non l’avrà tolta da quell’inganno; ciò che le ha fatto bene finora, può continuare a fargliene in avvenire; non è questa la sua opinione? Marcantonio fa cenno di sì, che la sua opinione è questa; ma col pretesto della bimba, la quale gli ha piantato le due mani sul viso e vuole che egli finga di mordere, non risponde altro. — Sì, ho dovuto mentire tante volte. Le prime lettere che essa le mandò, e che tornarono indietro intatte, colla sola soprascritta mutata, di suo pugno, fortunatamente vennero consegnate a me, ed io le conservo. Eccole. Iginio Curti cava dal taccuino tre lettere e le presenta senza alcuna affettazione a suo suocero, il quale, questa volta, non le rifiuta. — In seguito — continua il buffo fregandosi le mani — sempre che Serafina scrisse a suo padre, io intercettai le lettere. Capirà, non volevo che, tornandomi a casa dopo un viaggio inutile, andassero nelle mani di mia moglie prima che nelle mie. Ho conservato anche quelle, ma non le ho indosso, perchè sono parecchie. Faustina, il nonno ora ce l’hai; digli che non se ne vada più, che rimanga con te, così avrai tempo di giocare con lui. Ma non cacciargli i pugni in bocca; le buone bimbe non fanno così. Faustina si volta tutta stupita a guardare suo padre, che le vieta una cosa tanto semplice, ma comprende che bisogna obbedire. — Quando fu necessario che Serafina ricevesse un conforto da suo padre, io lo feci arrivare anche in paesi lontani. — Lo so — balbetta Marcantonio. — Ma tutto era vano. Lei sa com’è Serafina; si era messa in capo che non poteva essere felice senza le carezze del babbo, ed io capiva benissimo che queste non gliele poteva dare stando all’estero. Perciò stavo all’estero. Marcantonio rialza un tantino la testa, ma comprende subito. È il segnale dell’ultima battaglia nel cuore del nonno, felice a suo dispetto; dopo un breve silenzio, di cui Faustina approfitta per cavare l’orologio dal taschino del nonno ed accostarselo all’orecchio, Marcantonio, cercando di nascondere una lagrima fra i capelli della bimba, porge la mano a suo genero senza dir parola. Iginio Curti la stringe in silenzio e prosegue: — Un giorno finalmente dico a me stesso che bisogna tentare il gran colpo; era morto mio padre, lasciandomi erede d’una discreta sostanza — mi rimaneva poca voce e poca voglia di cantare; dissi a mia moglie: «andremo a Milano; darò lezioni di canto. Nostro figlio (io era certo che doveva essere un maschio) sarà milanese e si chiamerà Marcantonio, ma promettimi che non farai nessun tentativo di avvicinarti a tuo padre se non te lo dirò io stesso, o se egli non te ne darà licenza.» Serafina promise, ed eccoci a Milano. Fin dal primo giorno, io ebbi il piacere di vederti uscire di casa e d’informarmi delle tue abitudini. Il giorno dopo Anna Maria veniva a salutare la sua antica padroncina. — Anna Maria? — Sì, Anna Maria è stata un istrumento innocente; essa non sa quasi nulla, cioè sa questo solo, che il suo padrone e la sua padroncina sono lì lì per far la pace, e che intanto bisogna stare molto zitti per non guastare la faccenda. Pochi giorni sono, quando era?... giovedì mi pare, sì, giovedì appunto — giovedì dunque, Anna Maria viene da me e mi dice che tu l’hai mandata all’ufficio del _Secolo_, che ha consegnato uno scritto da inserire in quarta pagina due volte la settimana, il giovedì e la domenica, per tre settimane consecutive, che ha pagato lire 22 e centesimi. — Sai che cosa contiene quello scritto? — No, Anna Maria non lo sapeva, però aveva notato che l’impiegato del _Secolo_ si era messo a ridere sotto i baffi leggendolo, e che a quella vista un altro impiegato si era avvicinato a leggere ed aveva riso anche lui, ma sempre con discrezione. Divento curioso, curiosissimo, ma non voglio guastare le buone qualità di Anna Maria, che è una fantesca preziosa, e non dico altro. — Nonno — dice Faustina mettendo la sua vocetta nel primo intervallo del silenzio — me la comperi davvero la bambola che mi hai promesso? — Sì, bimba mia, sì. — Una bambola grossa come quell’altra.... — Sì, come quell’altra.... Faustina, entrata in questo argomento piacevole, avrebbe molte cose a dire, ma non le danno retta, e si deve contentare della carezza muta del nonno e del _tic-tac_ monotono dell’orologio. — Si trattava d’indovinare il tuo annunzio perduto nella quarta pagina del _Secolo_. Non era difficile; sapevo che l’annunzio era breve, perchè ti costava poco, sapevo in quali giorni doveva essere inserito. Cominciai dal pigliar nota degli annunzi che si facevano il venerdì e il sabato — confrontando poi il numero della domenica, non vi trovai che quattro avvisi nuovi; uno offriva un modo sicuro di vincere al lotto, un altro una villa in Brianza, con 20 pertiche di terreno per sole 60,000 lire, il terzo chiamava la gente ad una liquidazione di bottiglie di Francia, il quarto era il tuo.... Un breve silenzio. — Quell’altra — dice la bimba — ha perduto un braccio e non parla più, ma io le voglio bene lo stesso. — Ho bisogno di tutta la tua indulgenza — prosegue Iginio Curti abbassando la voce. — La mia prima idea fu di costringerti a leggere ad una ad una tutte le lettere di tua figlia, mandandole al nuovo recapito, al Signor Io.... ma mi parve troppa audacia — non potevo prevenire le conseguenze della tua collera. Bisognava fare altrimenti, metterti innanzi tua figlia in un modo misterioso, destare non la tua collera, ma la tua curiosità, e forse il tuo cuore. Ricorsi alla signora Camilla. L’hai veduta la signora Camilla; non è bella, ma essa si vanta in credito di un secondo marito, lo va cercando da un pezzo, e non dispera di trovarlo. Le feci vedere l’articolo, e le misi in capo di tentare. La signora Camilla mi pregò di scrivere io stesso, perchè essa è russa ed inciampa ancora nella nostra ortografia, nella nostra grammatica e nella nostra sintassi; io pregai Serafina. Avevo una gran fiducia nel mio piccolo intrigo; mi pareva che, riconoscendo i caratteri di tua figlia, subito si dovesse sciogliere il ghiaccio del tuo cuore, ma non immaginavo certamente che, non ostante il nome di Camilla, con cui era firmata la lettera, tu ti mettessi in capo che il buffo Curti avesse tirato le calze e che tua figlia fosse vedova davvero. Anche ieri, quando giunse la tua lettera, stentai a comprenderla. Stamane ho detto a Serafina: «Tuo padre ti chiama, va, parlagli del nostro passato, dei nostri figli; di me non gli parlare se non te ne domanda; tieni in mente che, per non so quale concorso singolare di circostanze, egli mi crede morto. Se ti sembra conveniente toglierlo dall’inganno subito, fallo; se no, taci, avremo tempo — ottieni il suo perdono e ritorna.» Così ha fatto. — Serafina?... — balbetta il povero padre, a cui si sono stenebrati gli occhi della mente e del cuore... — È andata e tornata.... — Tornata.... — Forse — corregge il buffo Curti. — Vuole che vada a vedere se è tornata? Marcantonio comprende il senso di quella domanda e lotta ancora un istante dentro di sè per rompere gli ultimi lacci del puntiglio e del falso amor proprio. — Tutto è pronto — dice Iginio Curti lentamente — e gli trema per la prima volta la voce — tutto è pronto per andarcene.... Se lei vuole, domani stesso partiremo. — Serafina non sa proprio nulla? — domanda Marcantonio a capo chino. — Nulla.... — La signora Camilla?.... — Aspetta il _Signor Io_, che non verrà. Il professore alza il capo; un sorriso illumina la faccia di suo genero, ma è un sorriso melanconico, che non lo deve offendere. — Vuole che vada a vedere se è tornata? — ripete Iginio Curti. — Dammi ancora del tu — mormora il professore senza guardarlo e chinandosi a baciucchiare la bimba, che ora è occupatissima ad aprire e chiudere un ciondolo a medaglione. — Allora vado.... Iginio Curti rimane ancora un momento ad aspettare un’ultima risposta che non viene; poi si muove e sparisce in punta di piedi. Marcantonio si guarda intorno — è solo, nessuno lo vede. — Faustina mia, senti, lascia stare quel ciondolo e guardami in faccia. La bambina lo guarda in faccia, ma senza abbandonare il ciondolo. — Chi son io? — Oh! bella! non lo sai chi sei? sei il nonno! — Ne sei proprio sicura che io sia il nonno? Faustina fa una smorfietta di sussiego, e fa per scendere dalle ginocchia di Marcantonio, ma è trattenuta. — Aspetta — dice allora — lasciami andare — e il nonno la lascia. Essa va a prendere sul tavolino di mezzo un grosso albo di ritratti, e ritorna carica di quel peso, che la fa barcollare. — Guarda — dice aprendo l’albo sulle ginocchia del nonno, questo qua lo riconosci? È il babbo. Va vestito così soltanto in teatro, nel _Don Pasquale_; aspetta, te ne farò vedere un altro più bello.... guarda questo prete.... È _Don Basilio_, ma è il babbo.... Questa è la mammina, e questo sei tu.... Di’ un po’ se non è vero? Aspetta.... voglio farti vedere.... — Faustina — le dice Marcantonio accarezzandole il visino intelligente — Faustina, dimmi la verità, gli vuoi proprio bene al nonno? — Altro! — risponde la bimba fissa nella sua idea; ma aspetta; ti voglio far vedere.... — Gli vuoi proprio bene tanto? — Sì, tanto. — Quanto gliene vuoi? — Un mondo. A Marcantonio non basta, e allora Faustina corregge così: — Tanti mondi, e tante case, e tante stelle, e poi ancora tanti mondi, e tante case, e tante stelle — finchè al nonno indiscreto pare finalmente che basti. — E come hai fatto a voler bene al nonno che non conoscevi, che era lontano lontano? — Io non so come ho fatto! mi hanno detto che bisognava voler bene al _nonno_, ed io te ne ho sempre voluto. — Chi ti diceva questo? — La mamma e il babbo. Ogni sera prima d’andare a letto, la mamma mi fa dire al Signore: «date la vostra benedizione al babbo, alla mamma ed al nonno.» Te l’ha poi data il Signore la benedizione? — Sì, cara, me l’ha data! — Ah! — esclama Faustina seria seria, cercando ancora di voltare le pagine dell’albo. — Dunque, al nonno gli hai voluto bene per obbedire al babbo ed alla mamma? — domanda Marcantonio; — per questo solo? — No, anche perchè mi mandava le belle bambole e le chicche; ma lasciami fare, voglio farti vedere i miei fratelli; non lo sai che ho due fratelli? — Due fratelli?... — balbetta il nonno. — Sì, due; ma uno è morto, poverino! — dice Faustina senza ombra di mestizia. — Eccolo, guarda; si chiamava Marcantonio, come te.... non è vero che era bello? Se era bello! Se era bello! — Non è vero che non doveva morire? Ma è andato in paradiso! Ah! i bambini non dovrebbero andare in paradiso! — Questo qui, ripiglia Faustina, non si accorgendo che il nonno ha gli occhi pieni di lacrime — questo qui è l’altro; è piccolo, piccolo, piccolo; si chiama Marcantonio anche lui. Ma se vedessi com’è piccolo!... È piccolo così.... ma è forte, il babbo dice che è molto forte; bisogna sentire a mettergli un dito in una mano come lo stringe!... Marcantonio fissa gli occhi oscurati da un irresistibile bisogno di pianto su quelle due immagini non mai vedute e già tanto care, accarezza colla mano tremante la testina della bimba, e non dice nulla. Poi, una lagrima cade sul libro aperto, e un ditino roseo la cancella. — Che è stato? — domanda Faustina. Il nonno ha chiuso gli occhi e piange — la mamma e il babbo abbracciati nel vano dell’uscio, le fanno cenno di star zitta. Essa tace; solo quando una lacrima cade sull’albo, la cancella con un ditino. Poi il nonno, che ha udito ogni cosa, chiama senza muoversi, senza neppure aprir gli occhi: — Serafina! Iginio! E la bimba ripete inutilmente: — Che è stato? X. L’ULTIMA IDEA DEL SIGNOR IO. Oggi Marcantonio si sveglia nel suo nuovo letto con un pensiero crudele, che gli è venuto in sogno: «Tu sei un egoista, dice a sè stesso a bassa voce, hai veduto la felicità e te la sei presa; rovescia le tasche, Marcantonio, e restituisci quello che non ti appartiene; ritorna nella tua casa melanconica, dove soffrirono le persone che ti hanno amato, ritorna alla tua scuola, e va a contare a quattro monelli, che non ti daranno retta, la storiella dell’ente e dell’esistente. Per goderti meglio la dolcezza dei nuovi affetti, che sono entrati per isbaglio nel tuo vecchio cuore di scettico, tu, furbo, ti sei ammalato; ma ora stai meglio, professore mio; t’affretta a guarire e vattene. Vattene, questo non è il tuo letto, questa non è la tua casa, non sono tuoi i sorrisi che ti salutano ogni mattina.» Marcantonio si tasta il polso e la fronte. — «Non hai più nemmeno l’ombra di quella febbre reumatica che ti ha obbligato ad accettare l’ospitalità in casa di tua figlia: ahi! nemmeno l’ombra. Fatti giustizia tu stesso, Marcantonio, levati e vattene senza far rumore per non destare i tuoi figli. Quando tuo genero, quel grullo di tuo genero, che ti ha conservato l’amore di tua figlia e ti ha fatto nonno due volte perchè fossero in tre ad amarti, quello scimunito di tuo genero che ti ha fatto bello d’una virtù da te non conosciuta mai, che per vendicarsi del tuo disprezzo ti ha risparmiato il ridicolo, ed ora ti prega a mani giunte di fargli l’onore di accettare la sua casa e la sua mensa, quel tuo genero minchione che ti vuol strappare ad ogni costo alla metafisica, perchè tu possa riposarti nel seno della famiglia secondo il tuo legittimo diritto — quando questo tuo genero inverisimile troverà il letto vuoto e l’ammalato scomparso, e correrà a cercarti nella tua vecchia casa, tu gli dirai semplicemente che sei sempre stato un egoista e che vuoi fare penitenza.» Marcantonio prova a rizzarsi sui gomiti, poi pianta le palme delle mani sul guanciale e si regge un momento tentennando; oh! dolcezza! pare che le pareti della stanza barcollino, che il cassettone, la guardaroba e l’ammattonato stesso si muovano — oh! dolcezza! Marcantonio è troppo debole! Non può ancora lasciare il letto. Marcantonio è troppo debole — ecco la sua scusa. Forse non gli mancò mai la generosità dell’animo, forse il suo cuore non fu mai sinceramente egoista; ma non gli si offrì l’occasione di credere alla generosità degli uomini, e gli venne meno la forza di amare il prossimo quando lo ebbe accusato di egoismo. O forse a lui stesso mancò la forza di spegnere il proprio egoismo, e perciò solo ne accusò gli uomini ed il mondo. Amò la generosità, e fu gretto; amò la grandezza, e fu piccino — divenne scettico. «Sì, Marcantonio, vi è lo scetticismo dei deboli, che è composto di molte virtù andate a male. Tu, come tanti altri, avevi chiuso il cuore, non per paura che lo ferissero le cose brutte da te viste nel mondo, ma perchè ti piacque non credere alle virtù che non ti erano riuscite. Questa è pure una forma dell’egoismo; ma consolati, è la più comune, è la meno crudele, quella di cui si può guarire coll’amore.» Il convalescente sorride alla salute che gli ritorna, e abbandona la testa affaticata sul guanciale. — Professore! — gli dice una voce, che ora non lo fa più adirare — professore, come stai? — Sto meglio, proprio meglio; e voi altri come state? Che fa Faustina? — Faustina e Serafina dormono. Anna Maria era stanca, e perchè non si levasse troppo presto, ho chiuso di nascosto le imposte della finestra. Sono sveglio io solo; è l’alba. Dunque la va bene? Il buffo Curti fa questa dimanda colla usata festevolezza; egli ha l’aria di soffocare in ogni frase una risatina indocile, ma innocente. — Sì — risponde Marcantonio sospirando — la va bene; ma ho provato a levarmi, e non sono riuscito; sono tanto debole! Dicendo queste parole coll’accento querulo degli ammalati che hanno l’amore al capezzale, il professore pare che chieda misericordia collo sguardo. — Che bisogno hai di levarti? — domanda suo genero. — I miei scolari.... — balbetta Marcantonio. — Tu non ne hai più nemmeno uno; cioè, no, ne hai due di sesso diverso — i tuoi nipotini. Non hai tu promesso? — Come ho io potuto promettere una cosa simile? — Non si domanda il come; ce l’hai promesso, e vi era un testimonio, la signora Camilla. Un rossore fuggitivo colorisce le guance dell’infermo, e il buffo Curti ne comprende il significato. — Sai? — gli dice senza malizia — ho in serbo molta roba per quando sarai guarito. — Che roba? — Lettere al _Signor Io_. — Oh! come!... — balbetta Marcantonio tutto stupito che l’accento bonario di suo genero non permetta al suo amor proprio permaloso nemmeno l’ombra del dispetto. — Sono andato alla posta ed ho ritirato le lettere giacenti; e sai? il distributore mi ha chiesto se il _Signor Io_ era proprio io. Gli ho risposto di sì. Sono ventidue lettere; avrai da scegliere, se hai ancora quell’idea.... — Vorresti credere?... — Io no — risponde Iginio Curti semplicemente — io no davvero; ma infine, se tu volessi proprio, padronissimo; intanto fino a quel giorno ti sequestriamo. — Non posso — dice l’infermo con voce gemente — non posso. — Perchè? — Perchè sono stato un egoista, perchè ho amato prima i miei comodi più di mia figlia, poi la mia dignità di padre offeso più di mia figlia, e perchè anche ieri, nel riconciliarmi con essa, io ricominciava ad amare la pace della mia vecchiaia imminente più di mia figlia. Voi mi offrite l’ozio studioso, gli agi, la tranquillità, e tutte le cose che ho avute più care e che mi sono mancate in gran parte, ed una che ho visto sempre da lontano e che ora è giunta fino a me e mi è più cara di tutte, l’affetto. Lasciate che questo egoista pentito faccia un atto generoso — io mi piglio l’affetto e vi abbandono il resto. Tornerò nella mia casa, andrò a dire ad ogni oggetto che mi conosce che Marcantonio è un altr’uomo; tornerò ai miei licei, e le mie scolaresche sapranno che sopra tutti i trattati di filosofia ve n’ha uno che bisogna leggere di buon’ora e studiare fino all’ultimo giorno della vita. Il povero Marcantonio sorride nel dire queste parole e si tocca ripetutamente il petto coll’indice, guardando in faccia a suo genero per invitarlo ad indovinare. — Il cuore — dice Iginio Curti; ma suo suocero gli fa osservare che quella non è che una pagina del gran libro, o tutt’al più un capitolo, e allora il buffo corregge: — L’amore — e il professore nota che l’amore è l’essenza della gran dottrina filosofica, ma non è un libro. Iginio Curti non fiata più; allora Marcantonio dice con molta malizia: — Il libro in cui bisogna imparare a leggere di buon’ora è un libro chiuso; s’intitola: _Il Signor Io._ Ride Iginio Curti, oh! quanto ingenuamente ride! e Marcantonio, passato il primo stupore, gusta una contentezza non provata mai, vedendo accolta la sua sentenza severa con una risata così cordiale. All’ultimo, poichè Iginio Curti non vuol smettere, Marcantonio ride anche lui. — Insegnerai ai tuoi nipoti a leggere nel gran libro — dice Iginio Curti facendosi serio a stento — è cosa intesa. — Me ne vado — insiste Marcantonio; — ti assicuro che me ne vado; sono stato un grande egoista fino a ieri; da domani voglio fare la penitenza; me ne vado. Marcantonio prova a rizzarsi, ma non gli riesce, è troppo debole. — Ohimè! non posso! Il buffo Curti non ride più; nel suo cranio profano è entrata un’idea filosofica, ed egli prima la guarda sbigottito, poi, senza staccarne gli occhi della mente, perchè non se ne vada com’è venuta: — Ti voglio fare una domanda — dice. — Sentiamo. — Fra le varie forme dell’egoismo umano, non ve n’è, o non ve ne può essere una che sia come chi dicesse l’egoismo della penitenza? Marcantonio apre gli occhi e la bocca. — Non capisco — dice; ma ha quasi capito. — Tu — prosegue il buffo Curti — rinunziando alle tue occupazioni per venire a stare con noi, dai una consolazione a tua figlia; contenti me, che, volere o non volere, sono il padre dei tuoi nipotini; rendi felici colle tue carezze Faustina, per ora, e Marcantonio più tardi; ma se tu ti ostinassi a dire che ti vuoi pentire, e ci negassi questa felicità, non ti pare che saresti un egoista? INDICE AVVERTENZA _Pag._ 7 I. — Il mio tempo presente » 9 II. — Il mio tempo passato » 23 III. — Il mio avvenire » 69 IV. — Invito al talamo di Marcantonio » 73 V. — La gara — Fasi e catastrofe » 83 VI. — Marcantonio gioca » 107 VII. — «Sono qua!» » 115 VIII. — Si parla di Lui » 127 IX. — Deus ex machina » 149 X. — L’ultima idea del Signor Io » 177 OPERE DI S. FARINA IL ROMANZO D’UN VEDOVO — 3ª ediz. corretta L. 2. — AMORE BENDATO — 3ª ediz. diamante legato in tela » 4. — IL TESORO DI DONNINA — 3ª ediz. » 4. — RACCONTI E SCENE — 2ª ediz. » 2. — CAPELLI BIONDI — 3ª ediz. leg. alla bodoniana » 4. — UN TIRANNO AI BAGNI DI MARE — 3ª ediz. » 1.20 DALLA SPUMA DEL MARE — 3ª ediz. » 2.50 FRUTTI PROIBITI — 3ª ediz. » 2. — ORO NASCOSTO — 3ª ediz. con ritratto » 4. — PRIMA CHE NASCESSE — 2ª ediz. » 1.50 LE TRE NUTRICI — 2ª ediz. » 1.50 CORAGGIO E AVANTI! — 2ª ediz. » 1.50 MIO FIGLIO STUDIA — 2ª ediz. » 1. — L’INTERMEZZO E LA PAGINA NERA » 1.50 MIO FIGLIO S’INNAMORA » 1.50 IL MARITO DI LAURINA » 2. — NONNO » 1.50 FRA LE CORDE DI UN CONTRABASSO » 1.20 MIO FIGLIO! — ediz. comune, elegantissima » 5. — AMORE HA CENT’OCCHI — Un grosso volume di 450 pagine » 5. — Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL SIGNOR IO *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. Project Gutenberg eBooks may be modified and printed and given away—you may do practically ANYTHING in the United States with eBooks not protected by U.S. copyright law. Redistribution is subject to the trademark license, especially commercial redistribution. START: FULL LICENSE THE FULL PROJECT GUTENBERG LICENSE PLEASE READ THIS BEFORE YOU DISTRIBUTE OR USE THIS WORK To protect the Project Gutenberg™ mission of promoting the free distribution of electronic works, by using or distributing this work (or any other work associated in any way with the phrase “Project Gutenberg”), you agree to comply with all the terms of the Full Project Gutenberg™ License available with this file or online at www.gutenberg.org/license. Section 1. General Terms of Use and Redistributing Project Gutenberg™ electronic works 1.A. 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Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. 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