Il signor Io

By Salvatore Farina

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Title: Il signor Io

Author: Salvatore Farina

Release date: September 7, 2024 [eBook #74389]

Language: Italian

Original publication: Milano: A. Brigola, 1883

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL SIGNOR IO ***


                            SALVATORE FARINA


                              IL SIGNOR IO


                       Terza Edizione illustrata



                                 MILANO
                          ALFREDO BRIGOLA E C.
                         5 — Via A. Manzoni — 5




                          PROPRIETÀ LETTERARIA
                    DIRITTI DI TRADUZIONE RISERVATI

                  Varese, 1883 — Tip. Macchi e Brusa.




AVVERTENZA


La nuova edizione del _Signor Io_, che oggi pubblichiamo, offre ai
lettori un fenomeno singolare, che si può dire nuovo nella libreria
italiana; ed è che la novella originale viene in luce con illustrazioni
fatte per una splendida edizione spagnuola. Avendo avuto sott’occhio
il volume stampato a Barcellona, e dove, oltre il _Signor Io_, si
contengono _Fra le corde d’un contrabasso_ e _Fante di picche_, ed
avendo riconosciuto il merito non comune dei disegni a penna che
illustrano le novelle del nostro autore, ci siamo rivolti alla casa
editrice Verdaguer e ci riuscì di acquistare le foto-incisioni per
l’Italia. Abbiamo voluto che la nuova edizione italiana, la quale così
riesce una curiosità libraria, fosse anche nel rimanente degna dei
bibliofili.

Se, come non dubitiamo, i disegni spagnuoli piaceranno al pubblico
italiano, quanto piacquero a noi ed a molti artisti, faremo presto
seguire nel medesimo stile della presente, una nuova edizione del
_Fante di picche_.

                                                         GLI EDITORI.




I.

IL MIO TEMPO PRESENTE

_(Dal taccuino di Marcantonio)._


Egli era così alto, che, per entrare dal grande arco nella galleria
Vittorio Emanuele, fu costretto a piegarsi ed a camminare colle
manaccie puntate sui femori poderosi, e solo nell’ottagono potè
lasciare l’incomoda positura; ma nel rizzarsi, avendo preso male le
misure, diè del testone nella cupola, e ruppe parecchie lastre di
vetro, che gli caddero ai piedi con fracasso. Poco dopo si mosse ed
uscì, come era entrato, da un arco laterale. Per le vie camminava
spedito, ed in pochi passi fu ai vecchi portoni di Porta Nuova che
scavalcò senza arrestarsi; quando giunse in piazza Cavour, seguito da
una moltitudine a cui egli non badava, spinse uno sguardo enorme sopra
i tetti della città di Milano, poi si chinò verso il gruppo di giovani
acacie piantate dal Municipio per dar ombra alle generazioni future,
ne prese una delicatamente, e se la infilò con garbo nell’occhiello del
farsetto....

Chi era costui?

Il personaggio del mio sogno.

Ma il mio sogno non era inutile, e me ne compiaccio, perchè non ci è
dato spesso occupare utilmente i nostri sogni — il mio sogno era una
allegoria.

Riconoscete quel sentimento, che cammina solitario nella sua
sterminata grandezza, che non guarda in faccia a nessuno, che si mette
all’occhiello gli alberi piantati per dar ombra alle generazioni future
— si chiama l’egoismo.

Io non sono egoista; avrò forse molti difetti che non conosco, ma
siccome non posso soffrire una gran parte dei miei simili, sento
che odierei me stesso se fossi egoista come loro, e vi sarebbe
contraddizione nei termini. Mi sono studiato e mi voglio bene, lo
confesso candidamente; dicasi pure che sono un po’ vanesio, ma egoista,
no.

Alla vigilia di prendere una determinazione, che muterà il corso
della mia esistenza, metto me in faccia a me medesimo, e getto ancora
una volta lo scandaglio nel mio cuore, dove spero di non trovare un
rimorso.

E prima di tutto, chi sono io?

Io sono Marco Antonio Abate, professore di filosofia in due licei
privati, ho dieci lustri compiti, sono vedovo da quindici anni, ed ho,
non so dove, una figlia ingrata.

Ma lasciamo stare mia figlia; io non mi rifiuto di parlare della mia
disgrazia; vi pensai già molto, ed ancora non sono riuscito a non
pensarvi affatto, ma non ho nulla da rimproverarmi; ve lo farò toccare
con mano più tardi.

Vedrete a suo tempo come fu malamente pagato un padre, che aveva fatto
a sua figlia una sorte invidiabile e che, dopo averle dato una casa in
cui, fanciulla ancora, essa era già regina, lavorava nel segreto del
suo cuore amoroso a prepararle nuove dolcezze... ma non è ancora il
momento.

Serafina — io le aveva dato anche un bel nome, ma fu inutile — Serafina
tradì tutte le speranze che avevo riposte in lei. Oggi Serafina è
assente, ed io sono solo.

Ma nessuno s’impietosisca sul mio destino: non ho professato filosofia
per ventisette anni senza attingervi qualche consolazione. La scienza
non è di natura umana, e non mi rifiuta mai il conforto che le domando.

Quando dico _solo_, non comprendo la grossa Anna Maria, che mi rifà il
letto e dà sesto alle stanze. Sono vent’anni che Anna Maria mi rifà
il letto e dà sesto alle mie stanze; essa fa queste cose alla lesta,
dacchè sono solo, forse perchè, vedendomi taciturno, mi crede afflitto,
ed il suo egoismo le consiglia di fuggire la compagnia dell’umor
melanconico. Una volta essa faceva anche la spesa, si tratteneva in
cucina a cianciare con mia figlia, e, probabilmente, a raccogliere gli
avanzi del desinare: io faccio questa riflessione amara ogni giorno,
quando mi vedo venire incontro la mia vecchia, un po’ impacciata, cogli
occhi vaganti e colle mani in tasca, che mi dice: «Io ho finito e me ne
posso andare... comanda nulla?»

Io non comando nulla, ed Anna Maria se ne va, cavando di tasca,
prima una mano, poi l’altra, e nell’attraversare il cortile sgambetta
allegramente, qualche volta corre.

Le mie abitudini d’oggi sono rimaste quelle di trent’anni fa; lascio il
letto all’alba, perchè credo che, se si facesse una buona statistica,
si troverebbe che gli uomini mattinieri, purchè non siano sopraffatti
dal bisogno, dal digiuno e dall’ignoranza, sono sempre quelli che un
giorno o l’altro, nel corso dei secoli, si fanno rifare il letto dai
dormiglioni che si levano tardi. Appena sveglio, apro la finestra alla
luce ed all’aria; e siccome, per mia disgrazia, a quell’irrompere del
primo mattino nella stanza, la mia povera moglie non si sveglia più,
assonnata e lamentosa, ma certamente felice in fondo, così do fuoco io
stesso alla macchinetta del caffè, che è sempre rimasta sul tavolino da
notte, fra i due letti gemelli. Mi vesto, e intanto non perdo una nota
della misteriosa canzone della caffettiera; all’ultima strofa io sono
sempre pronto a spegnere con un soffio solo la fiamma azzurrina.

Bevo il mio caffè andando su e giù per la camera, dal tavolino da
notte all’armadio a specchio e viceversa, chiudo il fornelletto nel
canterano, ed abbandono la posatura ad Anna Maria, la quale dice di
buttarla via, ma non lo fa, ve lo assicuro. So ben io quanto valga la
posatura, so che, ribollita con un po’ d’acqua, essa fornisce un caffè
leggiero ed igienico che mia figlia preferiva al mio — ma mi lascio
ingannare da questa povera Anna Maria, perchè non ignoro quanto grave
fardello è la gratitudine al cuore dell’uomo incivilito.

Mentre Anna Maria rifà i letti e le stanze, io me ne vado a girellare
nel vicino boschetto dei giardini pubblici; sulla cantonata della
villa reale incontro il mio vecchio amico, mendicante di professione,
filosofo per istinto.

Egli mi vede, e subito si avvicina sorridendo, per salutarmi.

— Buon giorno — mi dice; ed io gli ripeto: — Buon giorno! — e tiro
dritto, oppure mi fermo a discorrere con lui. Non gli ho mai dato
un soldo, e non gli darò mai un quattrino, non per avarizia, ma per
principio. Egli lo sa e non mi dà torto. Talvolta mi seggo sopra una
panca, egli si addossa ad un ippocastano, ed io lo interrogo:

— Avete guadagnato molto ieri?

Egli ribatte la domanda di sbieco, dicendo che i tempi sono tristi e
che gli uomini non hanno più paura dell’inferno.

— Ma le donne? — insisto.

— Le donne — risponde con un risolino — le donne fanno qualche cosa per
salvarsi l’anima.

Bisogna sentire che ironia profonda quando dice «_per salvarsi
l’anima!_»

— Ma la carità — dico io — il cuore?

— La carità — dice lui — il cuore... — e mi spiega la sua teorica,
frutto maturo di trent’anni di pratica. La carità, egli me lo assicura,
non è se non segreto terrore della miseria. Togliete l’istinto
superstizioso — egli mi dice — e tutti faranno come voi, non mi daranno
un soldo.

— È un mestiere faticoso il vostro? — gli domandai un giorno.

— Mi era faticoso — mi rispose — nei primi tempi; ora no.

Quando, giovane ed inesperto, correva di qua e di là come un ossesso,
zoppicando forse più del necessario, oppure si addossava al muro e si
sfiatava a gridare a quanti passavano la sua miseria, allora sì, era
faticoso; ma un po’ alla volta aveva imparato a zoppicare con metodo,
a giudicare la sua clientela dalla faccia e dal passo, ed ora non
isbagliava quasi mai.

Mentre discorriamo, passa accanto a noi una gente varia, a cui egli non
bada neppure; a un tratto invece, tronca il discorso e mi pianta per
attraversare un viale e presentarsi a riscuotere il suo denaro. Io lo
interrogo alla muta, egli mi indovina e dice col suo risolino:

— Mi ha dato due soldi; quel giovinetto aveva l’aria felice. Deve
essere un innamorato; gli innamorati sono buoni clienti, io non so
spiegare perchè...

Lo so ben io. L’amore è un momento egoistico. Gli innamorati sono
la gente più egoista che sia al mondo, ma fanno l’elemosina per
spensieratezza, o anche perchè sentono in sè stessi una falsa
grandezza, uno stordimento, che li spinge alle imprese generose ed
al fasto; il meno che possano fare per pigliarsi sul serio, è far
l’elemosina ad un mendicante.

Compiangiamo questa povera umanità, bambina e decrepita.

Torno a me stesso.

Dopo la passeggiata, me ne vado, senza fretta, alla scuola, dove giungo
aspettato, ma non desiderato, da una ventina d’alunni punto affamati
della mia scienza.

È cosa intesa fra noi che _l’ente crea l’esistente_. Combattuta da
questa bugia enorme, la nostra amicizia non è molto cordiale, e non
durerà un pezzo. Appena entrato in iscuola, io leggo in faccia ai miei
scolari, non uno eccettuato, una gran speranza tradita: la speranza
d’una infreddatura, o d’un febbrone, o d’un altro qualsiasi accidente,
che mi avesse inchiodato in letto per una lezione almeno.

La lezione comincia e finisce; qualche volta interrogo i più attenti,
per accertarmi che non hanno capito nulla, poi ci separiamo con
piacere. Io me ne vado portando meco il mio segreto contrario al
programma d’insegnamento, essi mi guardano a bocca aperta, stupiti
della conformazione del mio cranio, che ha potuto accogliere una
filosofia così tenebrosa. Io penso: se un giorno solo annunziassi
dalla cattedra che l’_esistente_ ha creato l’_ente_ perchè gli faceva
comodo, quale scompiglio! e che luce! Io credo che la freddezza dei
miei scolari svanirebbe come per incantesimo, e che la mia dottrina si
farebbe strada attraverso i crani più duri. Ma il programma non vuole.

Dopo la scuola del mattino, e prima della scuola pomeridiana, io faccio
colazione alla birreria Trenk; ho esperimentato che la birra tedesca
bisogna mandarla giù come la filosofia tedesca, a onde, meglio che a
sorsi, e cogli occhi chiusi. Il prosciutto cotto merita più attenzione;
io mi raccomando al cameriere perchè il destino, che regola le cose
umane, non mi faccia le fette di prosciutto troppo sottili, e non mi
riempia mezzo il bicchiere di spuma.

A desinare, mi trovo in compagnia numerosa; i miei compagni di mensa
sono giovani uffiziali allegri, che non fanno molta fatica a sopportare
con una certa rassegnazione il commensale taciturno. Alla loro età
si è tanto felici e spensierati, che quasi si dimentica d’essere
egoisti. E poi, io sono l’ombra del raggio di sole che cade sulla
loro mensa comune; mi pigliano come un contrasto; quando vogliono
dire qualche corbelleria, mi guardano sott’occhi, e mi sorridono per
placarmi anticipatamente, ed appena la corbelleria è detta, ne ridono
con gran chiasso. In compenso, vogliono che io sia il primo a servirmi
di minestra e di lesso, e mi fanno altre garbatezze con modi un po’
soldateschi, ma piacevoli.

«Ecco gli uomini! — dico dentro di me — questi ufficialetti, che si
reputerebbero violati nell’onore se, per istrada, uno si fermasse a
squadrarli da capo a piedi, senza intenzione di offenderli, subiscono
il segreto fascino d’un disprezzo, che si estende a tutto il genere
umano!»

Alle frutta, fa regolarmente la sua apparizione il professor Gerolamo,
mio buon amico e collega, maldicente instancabile, il quale viene a
prendere il suo uditorio a tavola per menarselo a spasso attraverso i
campi.

— Hai un sigaro? — mi dice appena siamo all’aperto.

— Ne ho uno solo — rispondo.

— Bisognerà che io ne compri — conclude.

Sì, è necessario; ma pure, ogni giorno, egli si dimentica di fornirsi
di sigari, e ne chiede a me, che mi sono fatto la regola di comprarne
uno solo prima di desinare.

Quando il professor Gerolamo ha il sigaro fra i denti, incomincia a
mordere — prima il sigaro, poi il prossimo. La letteratura è per lui
un buon pretesto per isfogare il malumore; è in collera più che tutto,
col suo collega di storia e geografia, il quale ha pubblicato un libro
sulle origini..... su quali origini?.... ed ha osato scrivere _gli_ per
_le_, proprio nella prima pagina, e altrove _ci_ per _vi_, e non è un
errore di stampa, e _tavolo_ per _tavola_, e _sentire_ per _udire_, e
non so quanti altri errori ed orrori, poichè io gli bado appena. Dopo
il collega della storia e della geografia, l’amico Gerolamo se ne va di
qua e di là a pigliare pel bavero il signor _Ipsilon_, il signor _Zeta_
ed altri signori lodati dalla stampa (la stampa? si chiede lui tra
parentesi... quattro ragazzi bocciati agli esami di licenza liceale) e
letti avidamente dal _pubblico_ (il pubblico? quale? in Italia non c’è
pubblico!). Il prof. Gerolamo protesta che quelli non sono scrittori,
che la letteratura non è quella cosa scempia che i giornali lodano e
che il pubblico paga, ma è ben altro; del resto, egli lascia intendere
che del disgraziato _Ipsilon_ e dell’infelice _Zeta_ ha letto una
dozzina di pagine, a dir molto, e non ne ha pagate nemmeno una.

Se non ho altro per il capo, la ciancia mordace di Gerolamo mi diverte
tanto tanto, ma non al modo che egli immagina.

— Pare anche a te? — mi domanda.

— Se mi pare! — dico alzando gli occhi al cielo; ed egli s’infervora,
ed io mi diverto a contemplare da tutti i lati quella sua curiosissima
mania di credersi offeso dalla notorietà degli scrittori moderni più
celebrati, solo perchè egli ha intenzione di scrivere un libro e di
farsi celebrare.

Mi sembra ingegnoso il suo metodo di pigliare un letterato oscuro e
di metterlo con enfasi accanto ai più noti, per sentenziare che vale
più di tutti quanti presi insieme, sebbene non valga gran che. Certo
è ingegnosissimo quell’altro espediente di disseppellire un morto
per accoppare un vivo; ma, più di tutto, mi riempie di meraviglia la
sicurezza con cui, dopo avermi circondato di rovine, egli, per riposare
il mio spirito sbigottito, tenta di condurlo con dolce violenza alla
contemplazione estatica dell’_idea_ del libro che scriverà un giorno.

Tenta, ma non sempre riesce, anzi non riesce quasi mai, perchè il
più delle volte, mentre il suo egoismo s’infervora a distruggere
biblioteche per preparare uno scaffale al gran libro nascituro, io lo
pianto alla chetichella, e me ne vado con altri pensieri altrove.

Non avviene più che io parli di me stesso e delle cose mie; ci cascai
una volta e subito mi avvidi che egli era distratto — perciò taccio,
mi godo il suo cicaleccio finchè mi accomoda, e quando ne sono
infastidito, lascio che il rumore uscente dalle sue labbra si confonda
per l’aperta campagna col chiasso che fanno i grilli sul limitare
delle loro tane e le raganelle sui gelsi. Io non pretendo già che il
professor Gerolamo stia zitto; sparli finchè vuole, ma si accontenti
d’un cenno del capo per risposta, e mi accompagni, nel fervore delle
sue notturne dimostrazioni, fino all’uscio di casa.

— Buona notte, dolcissimo amico. — Buona notte! — Egli se ne va a casa,
ed io me ne vado a letto.

La mia giornata è finita.




II.

IL MIO TEMPO PASSATO

_(Dal taccuino di Marcantonio)_


Le mie tribolazioni cominciano dal giorno che morì Faustina, buon’anima.

Faustina era mia moglie da quattordici anni; essa era scesa fino al
fondo del mio cuore, mi apprezzava degnamente, e compativa le mie
debolezze. La parola, fra lei e me, era quasi diventata inutile: io
gettava uno sguardo intorno, ed essa accorreva, perchè aveva letto
il mio pensiero. Era riuscita a levarsi spesso prima di me, e lo
faceva senza aprire le imposte delle finestre; si vestiva al buio
e se n’andava in punta di piedi per non turbare un riposo di cui io
doveva avere tanto bisogno — così si ostinava a dire, ed io non le
contraddiceva, perchè è cosa dolce abbandonarsi alle carezze senza
resistere, e con certe anime deboli e gentili è perfino cosa meritoria.
La natura carezzevole di Faustina ne era contenta, la mia pure. Quello
era il tempo felice!

Negli ultimi mesi che fu al mondo, mia moglie era d’umore melanconico,
e spesso si nascondeva per piangere liberamente. In mia presenza però
sorrideva sempre, qualche volta rideva ancora; non voleva gettare il
turbamento nell’anima mia. Così mi sorrise fino all’ultimo; una mattina
mi chiamò al suo capezzale, e mi annunziò che non si sarebbe alzata, nè
quel giorno, nè mai. Me ne chiedeva scusa, come se ci avesse colpa.

— Come farai? — mi disse.

— Come farò? — risposi scherzando: — ecco come farò.

E diedi fuoco alla macchinetta del caffè.

— Bravo! — mi disse melanconicamente; ed io le raccomandai di non
affannarsi, di non darsi pensiero di nulla, di pensare solo a guarire
presto per togliermi d’imbarazzo.

— Quanto sei buono! — mormorò.

Disse proprio così; la notte, queste tre parole suonano ancora
nell’aria chiusa della mia cameretta. Io le sento e me ne compiaccio,
perchè non mentiscono; sebbene gli uomini ed il destino abbiano fatto
di tutto per guastarmi, io sono buono.

Faustina morì raccomandandomi di non mi lasciar abbattere dal dolore,
di non mi ammalare, di vivere per la felicità della nostra creatura,
che allora aveva dodici anni.

Le ultime volontà della mia povera compagna mi furono sacre: io feci
tutto quanto ella aveva desiderato, e non mi lasciai abbattere dal
dolore, e non mi ammalai, e vissi.

Dinanzi al cadavere bianco di Faustina, tutto ciò mi pareva
impossibile, ma la mia volontà trionfò del mio aspro tormento.

Cominciò la nuova vita, la mia vita quasi monastica, che dura da
quindici anni, e che ho sopportato fortemente fino ad oggi.

Serafina era un grave impiccio per un uomo solo: bisognava metterla in
collegio, e le ottenni un posto semi-gratuito in un istituto del mio
paese, a Bergamo. Essa vi andò piangendo, e mi bagnò le mani di lagrime
nel separarsi da me.

— Pensa a tua madre — provai a dirle; — essa non piangeva mai; essa
attraversò la vita sorridendo sempre; impara anche tu a sorridere al
tuo povero padre abbandonato.

Udendo questo, Serafina ricominciò a piangere, e non ci fu verso di
farla smettere. Mi toccò lasciarla fra le braccia della direttrice
per non perdere il treno del mezzodì, proponendomi di scriverle appena
arrivato a Milano; ma essa fu più sollecita di me, e mi fece trovare
quattro giorni dopo a scuola una lettera di quattro pagine tutta
bagnata di lagrime. Quella epistola, giunta con tre giorni di ritardo,
perchè diretta ad un «Abate professore Marco Antonio», mi diede
da pensare; vi notai un’anticipata abbondanza di frasi e di parole
romantiche. Mia figlia, che era sempre stata la più timida creatura
fra quante portano le gonnelle corte, mia figlia, che nel darmi
la buona notte non osava aggiungere un bacio, se io dimenticava di
incoraggiarla, mia figlia, che aveva per me tanta reverenza da mettere
me stesso in imbarazzo, mia figlia che mi considerava, non so perchè,
più come professore d’una scienza difficile che non come padre, lei,
lei stessa, a dodici anni, trovava nell’assenza un insolito frasario di
tenerezze per l’autore dei suoi giorni.

Essa pure, come sua madre buon’anima, mi scriveva: «tu sei buono, tu
hai l’anima generosa» e simili.

Il caso mi sembrò grave, e mi affrettai a rispondere per consigliarle
di andar cauta nella scelta delle letture e nell’uso delle frasi che
trovava stampate nei libri. Mi ricordo che le dicevo:

«Bisogna scrivere alla buona, semplicemente, più col cuore che colla
fantasia, e sopratutto bisogna essere sinceri; impara fin d’ora
a sospettare delle frasi che suonano molto, perchè, per lo più,
sono piene di vento; e finchè tu non abbia acquistata l’esperienza
necessaria, meglio è rifiutare quelle parole che non sono d’uso comune,
perchè potrebbero essere monete false.»

Mi rispose prontamente per dichiararmi che aveva inteso benissimo, e
ringraziarmi dei preziosi consigli, i quali, diceva, già erano scolpiti
nel suo cuore. Ma la lettera cominciava così: «_padre adorato_!»

La mania epistolare di mia figlia era tale, che diventava necessario
mettervi un argine, anche per non aggravare il bilancio domestico
con una spesa eccessiva di francobolli. Presi dunque il partito
di ritardare le mie risposte, proponendomi di aprire l’animo mio a
Serafina nelle vacanze pasquali.

Avevo promesso, un po’ sbadatamente, di andarla a pigliare per condurla
a casa durante queste benedette vacanze, e non ci fu verso di farle
intendere che, dopo matura riflessione, non avendo io tutti gli agi
di una volta, non avrei potuto riceverla in casa senza grave disturbo.
Non volevo spingermi fino ad un rifiuto esplicito, che sarebbe sembrato
crudele a quella testolina piena di frasette; ma avrei avuto caro che
essa stessa, sebbene fanciulla, comprendesse il grave impiccio che mi
doveva dare colla sua venuta. — Non comprese un’acca, e nel suo egoismo
infantile volle a tutti i costi che io lasciassi le mie occupazioni
per pensare a farmi la valigia, ed andarmene alla stazione, e poi a
Bergamo, a prenderla.

Vedendomi, battè le mani e mi si buttò al collo, come mi prometteva il
suo stile epistolare, ma si calmò in modo inaspettato; in carrozza, in
vagone ed a casa durante le vacanze riescì ad ingannarmi interamente
colle sembianze della bimba più giudiziosa della creazione.

Temo per altro che, in quei giorni pasquali, la poveretta si
annoiasse un poco, perchè a divertire le fanciulle io allora non
ci aveva pratica, e nella mia libreria, quanto erano abbondanti i
libri metafisici, etici, od altrimenti filosofici, altrettanto erano
scarsamente rappresentate le belle lettere. Non vi mancavano Dante,
Guicciardini, Machiavelli, ma Serafina non era in età di gustarli; vi
erano pure i _Promessi Sposi_, e mia figlia si adattò a rileggerli per
disperazione. Ma appena giungeva Anna Maria, Alessandro Manzoni era
piantato dove capitava, sul canapè, sopra una seggiola, sul tavolino, e
Serafina correva con impeto di gioia a rifare i letti.

Era un buon indizio, e il mio cuore di padre lo notò con grande
compiacenza. Avrei voluto farle intendere che doveva di buon’ora
rivolgere il pensiero allo sviluppo di quelle facoltà... che...

— Bravissima! — le dissi una mattina, e vedendo la faccia di mia
figlia illuminata dalla gioia di questa approvazione esplicita ed
incondizionata, ripetei più moderamente: — Bravissima! In collegio
devono rifarlo le alunne il letto?

Mi rispose di sì, e che ogni mattina, nelle camerate era una gara muta
a chi faceva più presto e meglio. Allora cominciai:

— Vedi, bimba mia, la lettura è una buona cosa, io te l’ho sempre
raccomandata, e te la raccomando ancora; ma bisogna scegliere le
letture e saper leggere, altrimenti ogni libro è un pericolo. Accanto
poi alle facoltà intellettuali, le fanciulle devono.... di buon’ora....
curare.... lo sviluppo di quelle altre facoltà.... che....

Col _che_, il periodo non andava, e io corressi:

— .... di quelle facoltà con cui....

Ma anche così il periodo non faceva cammino, se non era Serafina a
spingerlo.

— Con cui si rifanno i letti — essa disse semplicemente, e disse benone.

— Con cui si rifanno i letti — ripetei — che sono poi le medesime
facoltà in virtù delle quali si diventa donne di casa, cioè a dire
buone figlie, buone mogli e buone madri di famiglia.

— Babbo — esclamò Serafina con un lampo di quel lirismo che le dettava
le lettere — babbo, devo stare con te a rifare i letti e a dar sesto
alla casa; invece di andartene a desinare alla trattoria, desineremo
insieme qui... proprio qui... Anna Maria farà la cucina, ed io
l’aiuterò. In collegio ho imparato a cuocere le uova nel tegamino;
imparerò il resto.

Io baciai mia figlia in fronte per ringraziarla; ma essa ripetè:

— Vuoi?

— Non è ancora il momento — dissi; — hai dodici anni soltanto.

— E mezzo...

— Devi compiere almeno almeno gli studi elementari; ma ti prometto che,
quando sarai più grandicella, non ti negherò questa consolazione, e
piglierai tu il posto della tua povera madre...

Che cosa diamine mi era venuto in mente di tirare in ballo i morti?
Eccoti Serafina in lagrime, come una fontana.

                                   *
                                  * *

Quando mia figlia se ne andò, ed io mi ritrovai un’altra volta
solo nelle mie stanze, dissi a me stesso che quella difficile prova
della paternità era andata meglio di quanto potessi ragionevolmente
presumere, e che l’idea di Serafina di lasciare il collegio prima del
tempo per fare la padroncina di casa aveva del buono. Ne aveva tanto,
che cominciai a pensarvi sul serio. Era cosa certa che io spendeva più
che non comportassero i miei bisogni — la mia casa era troppo ampia per
me solo, ed io non mi sarei più potuto adattare alla prigionia di una
cella da scapolo; la mezza pensione del collegio, anche così dimezzata,
si mangiava tutto intero uno stipendio di professore di filosofia; a
mangiarmi io l’altro, non avrei avuto bisogno d’un grande appetito; e
se il mio appetito era robusto e rimaneva soddisfatto, lo dovevo agli
interessi dotali della mia defunta, la quale mi aveva voluto nominare
usufruttuario del suo piccolo patrimonio.

Certamente, mia figlia doveva assomigliare in tutto a sua madre; essa
sarebbe vigilante, affettuosa, ed un poco indovina per prevenire i
miei desiderii. Si spenderebbe meno e si starebbe meglio, lei ed io —
sopratutto lei. Cominciai a non potermi togliere dal capo questo sogno;
— ogni mattina, quando entrava in casa Anna Maria, mi pareva di vedere
quel donnone massiccio sotto gli ordini d’una donnina minuscola, e,
non so perchè, ci trovavo gusto; era una immagine non ancora abbozzata,
che già mi prometteva un capolavoro. Non succede forse così ai grandi
artisti?

La tentazione fu lunga, perchè bisognava guardare le cose da tutti i
lati, e almeno almeno aspettare il termine dell’anno scolastico prima
di dare quella grande felicità a mia figlia. Fu un giorno che, sul
punto di dar fuoco al fornelletto per farmi il caffè, mi avvidi che
mancava l’alcool e che non ce n’era nemmeno in cucina; fu quel giorno
che presi la determinazione.

«Serafina — dissi a me stesso — verrà a passare le vacanze col babbo,
ma ignorerà tutta la sua felicità per un poco: se essa, e non ne
dubito, farà la padrona di casa con un certo garbo, se, sottoposta da
te ad un esame quotidiano, ti darà saggio di aver imparato almeno ciò
che le ragazze non devono ignorare, promettimi che l’anno venturo non
la manderai più in collegio.»

Lo promisi.

Serafina venne durante le vacanze, e fu messa alla prova senza che se
ne avvedesse. Quella ragazza era nata colle chiavi della dispensa e
della guardaroba in tasca! Aveva tredici anni appena, ma ne dimostrava
più di quindici, tanto era sviluppata; rizzandosi in punta di piedi,
arrivava non solo ai cassetti più alti per chiuderli e per aprirli, ma
anche all’orologio a pendolo del salotto per caricarlo. Serafina non
poteva vedere un bruscolo di polvere sopra uno stipite senza sentirselo
addosso; — dove non arrivava colle sedie adoperava lo scaleo, o
chiedeva l’aiuto di Anna Maria, e quando era riuscita nel suo intento,
non era soddisfatta ancora, guardava in alto come cercando il nemico.

— Chi sa — mi diceva talvolta sospirando — quanta polvere vi è sul
cornicione che corre in giro alla vôlta!

— Chi lo sa? — rispondevo scherzando; — spero bene che non ti sarai
arrampicata fin lassù.

A me quella guerra spietata alla polvere sembrava soverchia.

— Un giorno o l’altro, la polvere si vendica — dissi a mia figlia; —
ma essa non comprese il significato profondo della mia sentenza, ed io
stesso non credeva che ne potesse avere un altro; bisognerebbe guardare
sugli stipiti ora che la polvere della mia casa non ha altro nemico che
Anna Maria, per intendere quanto si è vendicata.

Serafina teneva i miei conti con un’esattezza mirabile; mi sapeva dire
a memoria quanto avevamo speso ogni giorno ed ogni settimana, poi mi
offriva una prova della sua infallibilità: il registro della spesa
diaria.

Da questo lato le cose andavano benone, ed io fui più d’una volta
tentato di darle la notizia della felicità che le serbavo; ma se
le chiedevo chi era Sesostri, chi era Tutmes o chi era Demetrio
Poliorcete, la mia donnetta di casa diventava ad un tratto una bambina,
si faceva rossa rossa, e dopo un disperato tentativo per indovinare, mi
confessava che non lo sapeva.

— Ma non studiavate la storia in collegio?

Sì, la studiavano, ma di Tutmes e di Sesostri se ne era dimenticata.

Qualche volta sbagliava io stesso nell’interrogarla; le chiedevo, per
esempio, chi era Carlo Alberto, o perchè un corpo abbandonato a sè
stesso cade. Essa apriva tanto d’occhi a guardarmi estatica, e quando
io diceva con accento di rimprovero: è _storia patria moderna_, è
_fisica elementare_, essa alzava la voce, e le splendeva la gioia in
viso nel farmi sapere che, in collegio, quelle cose non si insegnavano
ancora.

— Sai bene? — diceva — non ero che in quarta!

La sua educazione letteraria era abbozzata appena; quanto alla storia,
alla geografia, alla storia naturale, alla fisica, alle prime nozioni
filosofiche, era tutto da fare.

— Non sa proprio nulla! — dicevo disperatamente. — Come si fa? Non sa
proprio nulla!

Nulla proprio, no; delle quattro operazioni, per esempio, era padrona;
sapeva anche i numeri decimali e le frazioni. Mettendole in mano dei
buoni libri, facendo patti chiari e severi, forse era possibile ancora
combinare il mio desiderio coi miei doveri paterni, e renderla felice.
Forse... La guardavo e non le dicevo nulla.

Quando si vedeva così guardata, Serafina, temendo forse un’insidia
storica o geografica, si affrettava a mettere tutta la sua attenzione
in qualche cassetto, e, appena poteva, se ne andava in un’altra stanza.
Io, rimasto solo, pensava alle cose che le fanciulle _devono sapere_,
e riconoscevo che, a conti fatti, non sono molte, e che quelle che
_possono ignorare_ sono assai più.

Un giorno, qualcuno mi suggerì: «Le ragazze ne sanno sempre di
troppo per un marito accorto.» Ed io ripetei fra me e me con una
piccola variante: «Le ragazze ne sanno sempre abbastanza per un babbo
indulgente.»

— Sai? — dissi forte a Serafina, che erasi arrampicata sullo scaleo
e stava nettando la cornice d’un quadro — mancano venti giorni a
rientrare in collegio, ma io ho deliberato di renderti felice; scendi
e vieni ad abbracciare tuo padre. Sulle prime non comprese; ma si voltò
e mi vide ai piedi dello scaleo, a braccia aperte, come la provvidenza.
Allora mi si buttò addosso, dall’alto, scrollandomi tutto.

— Dici davvero? Non andrò più in collegio?

— Sì — risposi, cercando inutilmente di staccarmela di dosso — non vi
andrai più; sei contenta? Ma bisognerà fare dei patti.

— Facciamoli.

— Tu studierai la storia e la geografia in casa.

— Sì... sì... le studierò.

— Leggerai i libri che ti darò io.

— Sì... sì... leggerò i libri che mi darai tu.

— Studierai anche il francese.

— Sì... si... studierò il francese.

Prometteva tutto.

— Ed avendo sempre in mente — soggiunsi con un po’ di solennità — che
se io faccio questo sacrifizio è perchè ho promesso alla tua povera
madre di renderti felice, t’ingegnerai di pigliare nella nostra casetta
il posto della cara defunta. Me lo prometti?

Essa stentava a dire di sì; le scostai il viso dal mio panciotto, e
vidi che aveva incominciato a piangere.

— Mi devi pure promettere che non piangerai con tanta frequenza;
il povero babbo lavora per la tua felicità, e tu lo compenseresti
malamente facendogli vedere delle lagrime quando torna da scuola...

Allora essa si asciugò il volto e rise.

                                   *
                                  * *

Qui comincia il mio secondo tempo felice. Furono sei anni di pace,
durante i quali mia figlia cresciuta fino a non aver bisogno della
seggiola per arrivare col piumino agli stipiti delle porte, si fece
anche bella e vezzosa. Assomigliava in tutto a sua madre buon’anima,
ed a me pareva di aver ritrovato quel tempo della mia vita, in cui,
professore e marito novellino, ero ugualmente contento della mia sposa
e della mia cattedra. Più tardi, mi si era ammalata la moglie, e mi si
era ammalata la filosofia; e più tardi ancora, anche quell’ombra della
prima felicità mi doveva essere contesa — si ammalò mia figlia.

Si ammalò all’improvviso, una brutta sera di maggio, attraversando la
Galleria Vittorio Emanuele al mio fianco. Fu una specie di colpo di
sole all’ombra, e quando essa, ridotta alle ultime trincee dalla mia
dialettica, me lo confessò piangendo, io non seppi credere alle mie
orecchie, e la pregai di ripetere. Essa, invece di contentarmi, pianse
più forte e se ne fuggì nella sua camera — ed io rimasi là, colle
braccia in croce, a contemplare sull’ammattonato il mio bel balocco
infranto.

Serafina dunque si era innamorata; aveva 19 anni appena, e già pensava
di abbandonare suo padre, e per chi? per un giovincello non mai veduto,
coi baffetti a punta, l’occhialetto sul naso, bruno, piccolo e grasso
— forse un tenore od un baritono a spasso, domiciliato in Galleria
Vittorio Emanuele.

Quel messere aveva visto mia figlia, e mia figlia aveva visto lui;
io non aveva visto nulla. Egli ci era venuto dietro fino al portone
di casa, e da quel giorno aveva cominciato a passeggiare sotto le mie
finestre. Me lo trovavo fra i piedi sempre che andavo a scuola, e un
giorno l’imprudente ebbe anche l’audacia di sorridermi e di salutarmi.

Avevo sperato sul principio che mia figlia facesse giudizio, ma invano.
Essa non mi trascurava, tutt’altro; era sempre attenta e pronta, sempre
in guerra colla polvere di casa; ma da poco in qua, cantava delle
romanze, mentre non ne aveva cantato mai, e piangeva più del solito.

Era chiaro che mia figlia aveva capito, come me, che il suo innamorato
cantava, ed io temeva che sapesse già in che chiave, e in quali piazze
e quale era il suo repertorio. Questa gente di teatro è avvezza agli
intrighi del melodramma, e perciò è ardita. «Forse le ha scritto!»
pensavo. Sapevo mia figlia afflitta da un’antica mania epistolare, e
dicevo: «Forse gli ha risposto, forse, a quest’ora, si scrivono e si
rispondono liberamente, in barba alla filosofia di un padre minchione.»

Sospettavo di Anna Maria; guardando quel donnone col mio sospetto, lo
vedevo tutto imbottito di lettere e di mistero.

Un giorno la presi in disparte, per dirle a bruciapelo:

— Anna Maria, voglio sapere la verità.

Ella si fece rossa in viso, ma mi rispose con franchezza che di bugie
non ne aveva dette mai.

— Ebbene, allora confessa che quel signorino che passeggia sotto le
finestre.... tu lo conosci quel signorino, devi averlo visto anche tu,
non lo negherai.

— Un signore bruno, un bel giovane...

— Non è quello, è anzi piuttosto brutto, ma è bruno, è piccolo, ha i
baffetti a punta...

— Sissignore, l’ho visto.... un bel giovane bruno, piuttosto piccolo,
ma non troppo, coi baffetti a punta... Sissignore, l’ho visto.

— Ebbene, quel signore non ti ha mai dato qualche lettera per mia
figlia?

— Me le voleva dare, ma non le ho volute prendere, e gli ho detto
che trovasse un’altra... così gli ho detto, ma che Anna Maria questi
servigi non li faceva.

— E tu credi che abbia trovato un’altra?...

— Non ne so nulla io...

— E mia figlia non ti ha mai pregato di...

— La signorina mi conosce meglio di lei: del resto, senta, se due
innamorati vogliono scriversi, ci è la posta, mi pare, ci sono i
fattorini di piazza.

Quelle parole fecero la luce nel mio cervello.

Il seduttore di mia figlia, quando mi vedeva uscire per andare alla
scuola, poteva benissimo mandare una lettera a casa ed aspettare la
risposta; un giorno o l’altro poteva anche fare di peggio, portar la
lettera in persona.

— Anna Maria — dissi — hai tu mai veduto capitare in casa dei fattorini
di piazza durante la mia assenza?

Tremavo aspettando la risposta.

Anna Maria non seppe mentire.

— Ne ho visto venire uno — disse... — uno solo — soggiunse, come per
temperare la crudezza di quella rivelazione.

— Una volta sola o più volte? — insistei, volendo arrivare al fondo
della mia disgrazia.

— Due volte, mi pare, o tre; ma sempre lo stesso fattorino.

— Grazie, Anna Maria, grazie!

Io me n’andava difilato nella camera di mia figlia, e Anna Maria,
volendo rimediare alla propria sincerità, mi venne dietro.

— Non la faccia soffrire, la povera creatura — mi diceva: — se sapesse
come piange per il timore di affliggere lei!... Deve essere un bravo
giovinotto anche quell’altro... Lasci che si sposino.

Ero giunto all’uscio della camera di mia figlia; mi voltai e dissi
semplicemente, guardando la mia consigliera ben bene in faccia:

— Grazie, Anna Maria, grazie!

Non osò più fiatare, ed io picchiai all’uscio.

— Avanti! — disse la voce di Serafina.

Entrai. Mia figlia stava ritta dinanzi al letto; aveva gli occhi rossi
e gonfi di pianto; sul guanciale s’indovinava ancora l’impronta della
sua faccia e delle sue lagrime.

— Non sono io tuo padre? — dissi senza collera; — non vivo io forse
per la tua felicità, e non hai tu promesso di considerarmi come il tuo
migliore amico?

— Oh! babbo, babbo mio! — esclamò; e tese le braccia verso di me senza
muoversi.

Compresi subito che le mie parole lasciavano aperta la via
all’equivoco, poichè vidi brillare negli occhi di Serafina una speranza
irragionevole. Brillano anch’esse le speranze irragionevoli, tali e
quali come le altre.

— È mai possibile — proseguii — che mia figlia abbia dimenticato sè
stessa fino a ricevere lettere da un giovinotto e forse scriverne?

Essa chinò il capo sul petto — non negava nulla.

— Sai tu almeno chi è quest’uomo che hai preso sulla strada per
metterlo fra te e tuo padre? Sai tu che egli è un commediante, peggio
ancora, un cantante, un tenorino forse, che ieri ancora faceva
il parrucchiere od il macellaio, e domani canterà in un teatro di
provincia?

Serafina faceva di no col capo, ma non osava rispondermi.

— Dove sono le lettere che ti ha scritto? — dissi.

Non isperavo già che essa mi avesse a consegnare le lettere, come
fece, estraendole dal seno; e fu quest’atto romantico, ma leale, che mi
troncò in bocca le parole.

Io presi quei fogli colla punta delle dita, guardando da un’altra
parte. Non volevo vedere la preghiera muta che mia figlia mi faceva
cogli occhi, per non lasciarmi vincere dalla debolezza, ed uscii
tranquillamente com’ero venuto. Nel richiudermi l’uscio alle spalle,
giunse fino a me un singhiozzo ed il rumore d’un corpo che ripiombava
sul letto.

Andai a chiudermi nella mia camera, e lessi quelle lettere. — Erano
tre in tutto, e le lessi in ordine di data. Nella prima, Iginio Curti
domandava a sè stesso se egli avesse o no la fortuna d’essere stato
_veduto_ da mia figlia; nella terza, Iginio Curti chiedeva a mia figlia
se si sarebbe lasciata sposare. Soltanto a quest’ultima mia figlia
aveva risposto per iscritto; appariva chiaro dal tenore delle altre due
che prima si era solamente ingegnata di rispondere cogli sguardi e coi
languori; quando essa mi camminava al fianco in Galleria e quando io
beveva ingenuamente la birra di Vienna al caffè Gnocchi, allora appunto
essa tradiva la fiducia di suo padre.

Dalle tre lettere risultava che Iginio Curti non cantava nè in chiave
di tenore, nè in chiave di baritono, ma bensì in chiave di basso,
e che faceva il basso comico, in altri termini, il _buffo_. Era di
buona famiglia — diceva lui — suo padre faceva l’avvocato, e solo
l’amore dell’arte aveva spinto lui nella carriera del teatro. Non era
ricco, ma possedeva pure qualche cosuccia; metteva ai piedi di mia
figlia ogni cosa presente e futura, egli diceva «_il suo avvenire_» —
questo avvenire doveva essere bello; già aveva cantato a Vigevano ed a
Lecco, e v’aveva _fatto furore_ (era costretto a confessarlo vincendo
la modestia) — le _scritture_ non gli mancavano; doveva _fare_ il
_Barbiere di Siviglia_ e i _Falsi monetari_ a Taganrog in primavera.
Il suo proposito era di sposarsi subito e passare la luna di miele in
Taganrog.

Si stenta a comprendere che una fanciulla di diciannove anni non
cascasse dall’alto trovando un buffo dove aveva sicuramente immaginato
un tenore; ma superato questo passo difficile, si capisce benissimo
tutto il resto. Iginio Curti era, come volgarmente si dice, un bel
giovane, aveva della baldanza, scriveva con un certo spirito e faceva
balenare alla ragazza l’allettatrice idea d’un matrimonio immediato,
d’un lungo viaggio di nozze e d’una luna di miele all’estero.

Io afferrai subito ciò che v’era di buono in questa lettera — la
scrittura di Taganrog. Cacciai l’autografo di Iginio Curti in un
cassetto, e proibii a mia figlia di ricevere lettere in mia assenza.

Che fanno le ragazze quando non vogliono dire nè sì, nè no? Piangono.
Così fece Serafina, ed io mi fidai, perchè le sue lagrime mi parevano
spremute dal pentimento.

Due giorni dopo, Iginio Curti scriveva a me stesso, facendomi la
domanda esplicita della mano di mia figlia. Non mi nascondeva d’aver
fretta, essendo scritturato per cantare nel teatro di Taganrog; mi dava
ampie notizie della sua famiglia e del suo parentado, e mi pregava di
prendere subito le informazioni. Non chiedeva se mia figlia avesse
dote, dichiarandosi pieno di fiducia nella bell’arte del canto, che
doveva nutrire il buffo, la moglie del buffo e i figli nascituri del
buffo.

Ai lumini della ribalta aveva un ben di Dio; anche qualche cosa al sole
non gli mancava. Dunque?...

Egli scriveva colla baldanza di chi si crede sicuro del fatto suo;
faceva la cosa più seria della vita in uno stile vivace e allegro. La
mia risposta fu breve, ma pronta.

«Serafina — dicevo al buffo — ha diciannove anni soltanto, e non
pensa ancora al matrimonio; sa che il suo povero padre non ha che
lei al mondo, e non vorrà abbandonarlo mai per seguire il marito in
paesi lontani, per esempio a Taganrog. Mia figlia — conchiudevo —
piglierà marito a suo tempo, lo piglierà di suo genio, col consenso del
babbo, e lo sceglierà fra gli uomini che non viaggiano. Dolente......
eccetera....»

Non avevo voluto informare Serafina di questo carteggio per risparmiare
a me ed a lei nuove lagrime; mi lusingavo d’aver condotto il negozio
con arte e di essermi sbarazzato per sempre di Iginio Curti. Invece no.
Il basso comico tornò alla carica con una lettera di quattro pagine
fitte, in cui negava con sfacciata ipocrisia tutte le mie parole.
_Forse_ non era vero che mia figlia non fosse disposta a seguire
il marito anche agli antipodi, sebbene adorasse il babbo; _forse_
non era vero che mia figlia si adatterebbe a sposare più tardi un
uomo qualunque scelto fra quelli che non viaggiano. Bensì era vero,
proseguiva, lasciando risolutamente la sua parte di _Don Basilio_, che
i genitori devono rassegnarsi a fare la felicità delle loro ragazze,
anche col sacrificio dei propri affetti e dei propri comodi.

Conchiudeva con una sentenza: «l’eccesso di zelo nel preparare la
felicità dei figliuoli, qualche volta è egoismo, o almeno sembra.»
Implorava dal mio cuore paterno.... eccetera.

Questa volta mi parve d’aver in pugno la distruzione del basso comico,
o di tutte le sue speranze almeno.

— Leggi — dissi a mia figlia — e apprendi a quale uomo tu eri disposta
a legarti per tutta la vita; leggi e giudica tu stessa, quanto valga
questo buffo che anteponevi a tuo padre.

Essa lesse piangendo, e dopo aver letto pianse ancora.

— È vero quello che egli dice, che tu saresti disposta a seguirlo anche
in Taganrog? Rispondi.

Nessuna risposta.

— È vero che abbandoneresti tuo padre per seguire un ignoto anche agli
antipodi? Rispondi.

Nessuna risposta.

— Lo sapevo bene io che non è vero. Ma questa commedia ha durato
troppo; il signor Curti non avrà nemmeno l’onore di una risposta
alle sue insolenze, e dimostrerai a quel basso comico di avere un
padre diverso da quelli che egli rappresenta nelle opere buffe. Mi
raccomando, non se ne parli più.

Non se ne parlò più, ma io vedeva bene che la cosa non era finita.
La vigilia di partire per Taganrog, il buffo ebbe l’impertinenza di
mandarmi il suo biglietto di visita p. p. c.; dopo di che, non ne seppi
più nulla per un buon mese.

Un giorno, mi capitò sotto fascia una gazzetta teatrale, in cui si
narrava che il pubblico di Taganrog aveva fatto non so che feste a
Iginio Curti, insuperabile nella parte di _Don Basilio_. La gazzetta
era diretta _al Signor Abate prof. Marco Antonio_, tale e quale come le
lettere che mi scriveva un tempo mia figlia.

Non occorre dire che Serafina non vide la gazzetta, e che di Taganrog,
di _Don Basilio_, di battimani e d’altro, almeno da me, non seppe
nulla.

Io intanto veniva studiando sul viso e nei modi della mia ragazza come
si fosse accomodata all’idea di perdere il suo cantante. Mi pareva
propriamente che non vi pensasse più; non la vedevo piangere più del
solito, e la trovavo mattina e sera pronta a far la guerra alla polvere
domestica. Solamente, non aveva più smesso di cantare, ed erano le
cabalette del repertorio buffo quelle che essa preferiva. Per esempio,
quando seppi che Iginio Curti si era fatto applaudire a Taganrog nella
parte di _Don Basilio_, notai che Serafina cantava da qualche tempo:
_Ma se mi toccano dov’è il mio debole;_ e quando un’altra gazzetta
venne a farmi sapere che Iginio Curti si era coperto di gloria facendo
la parte di _Crispino_, Serafina, già da una settimana, non aveva altro
in bocca che: _Se trovasti una comare, io trovar saprò un compare_.

Salvo questi indizi, che in fondo non provavano nulla di male, non
notai altro. La mia casa era sempre la più netta fra tutte le case dei
professori: la mia camera non era indegna di albergare un filosofo
mondano, e la mia mensa modesta poteva nutrire benissimo un paio di
filosofi epicurei.

Bisognava, a buon conto, prevenire il ritorno trionfale di Iginio
Curti. Quando il buffo fosse un’altra volta a Milano con un carico di
allori esotici da deporre ai piedi di mia figlia, le ostilità potevano
ricominciare, ed io non mi sentiva voglia di leticare con _Crispino_
dei Tacchetti imbaldanzito dai battimani. Il mio disegno era semplice:
maritare mia figlia, darle uno sposo di mio genio, che non ispiacesse
nemmeno a lei, s’intende, perchè non volevo sacrificare il mio sangue;
uno sposo che non fosse costretto a viaggiare e che appartenesse alla
nostra famiglia, fosse cioè professore d’un liceo.

Ci era appunto il preside d’uno degli Istituti in cui facevo scuola;
era uomo ben conservato, valido certamente più di tanti giovinastri,
e da qualche tempo pensava ad alta voce al matrimonio. Egli era anche
professore di matematica, e un giorno mi aveva parlato con un risolino
molto strano d’una X incognita, che ci cammina accanto per tutta la
vita e ci piglia poi all’improvviso. L’allusione ad una sposa generica
era evidente; ma egli era mio superiore, e non si faceva lecito di
alludere apertamente a mia figlia — bisognava rendergli facile la
cosa, fare magari mezza la strada io. Più ci pensavo, e più vedevo la
convenienza di quelle nozze; il preside Martini era un partitone; aveva
forse quarant’anni, forse quarantacinque, ma non più; colla carica
di preside e colla scuola di matematica, si guadagnava le sue cinque
mila lire tonde; quando volesse, potrebbe guadagnarne anche più dando
lezioni private; era cavaliere della Corona d’Italia e dei Ss. Maurizio
e Lazzaro, membro di tre o quattro Accademie scientifiche — era anche
un bell’uomo, alto, robusto, un po’ calvo, ma pieno di dignità. Ah! se
la mia ragazza avesse avuto un po’ di giudizio!

Le svelai la mia idea, e voi indovinate subito come l’accolse:
piangendo. Dopo questo preambolo, mi disse addirittura che non pensava
al matrimonio.

— Ma ci penso io — dichiarai; — io non sono eterno, e non posso
lasciarti sola nel mondo.

Sapete che cosa mi rispose? Che nemmeno il preside Martini era eterno,
e in questo non aveva torto. Messa alle strette, finì col dirmi che
essa aveva _giurato_ d’essere del buffo o di rimanere zitella.

— Rimarrai zitella — dissi.

Chinò il capo, ed io voltai le spalle per non vederla piangere.

In quel tempo, giunse la notizia che in Russia era scoppiato il colera,
e che mieteva molte vittime. «Se infierisce il colera, pensai, i teatri
russi si chiudono, la stagione di Taganrog finisce prima del tempo,
e fra una settimana il buffo Curti passeggierà in Galleria Vittorio
Emanuele.» La notizia aveva pure un lato buono. Poichè il colera
mieteva, per esempio, cento vittime il giorno, ed io non aveva alcuna
speciale affezione al buffo Curti, potevo benissimo, senza desiderare
il male del prossimo, far voti perchè il buffo Curti pigliasse il
posto d’un’altra persona seria, che fosse padre di famiglia, sostegno
di parecchi figliuoli, e magari d’un vecchio padre ottuagenario. Ma il
colera è una epidemia senza giudizio; andò a Taganrog, fece chiudere
i teatri, spedì all’altro mondo parecchi galantuomini ammogliati con
prole, e lasciò intatto Iginio Curti, il quale, quindici giorni dopo,
si arricciava i baffi dinanzi al caffè Gnocchi in Galleria, e contava i
suoi trionfi e quelli del colera in Taganrog nello stile dei cantanti e
dei superstiti.

Non tardai a ricevere un’altra lettera del mio persecutore.

Mi annunziava che egli era sempre fermo nel proposito di sposare mia
figlia, e che io, per fare proprio una bella cosa, dovevo affrettarmi a
dare il consenso per il matrimonio; si farebbero le nozze alla lesta,
poi si partirebbe per le isole Azzorre, dove egli era scritturato per
sei mesi. Mi pregava d’una risposta sollecita.

Piegai la lettera in quattro, e la misi a dormire colle altre due in un
cassetto.

Che fece allora Iginio Curti? Si presentò incognito all’uscio di casa
mia, chiese del professore Abate, senza dire il proprio nome (così
assicura Anna Maria), e si fece introdurre alla mia presenza.

Al primo vederlo, sentii che la filosofia mi abbandonava, e che io
stava per commettere qualche grosso marrone, ma egli mi prevenne,
mettendo le mani innanzi, e dicendo con accento dimesso:

— La prego di non andare in collera.

Io non risposi ed egli proseguì:

— La prego di lasciarmi parlare, non mi respinga senza avermi
ascoltato: poi me ne andrò io stesso.

Si guardò intorno cercando una sedia, il che m’indispettì;
fortunatamente, nel mio studiolo tutte le seggiole erano ingombre
di libri, ed avendo io finto di non badare alla sua mimica, egli fu
costretto a parlare stando in piedi.

Mi ripetè tutto ciò che mi aveva scritto; aggiunse solo che non era
sua intenzione fare sempre la vita del vagabondo; non era già balzato
dalla platea sul palco scenico, come ora s’usa, aveva fatto buoni studi
nel Conservatorio di Milano, e se avesse voluto dar lezioni di canto
all’estero, i dilettanti lo avrebbero pagato meglio degli impresari.

Quando ebbe finito di dire, uscì tranquillamente senza aspettare la
risposta. Ero rimasto a sedere e non avevo neppure alzato gli occhi
a guardarlo; ma quando egli fu fuori dell’uscio, mi balenò in mente
l’idea che si potesse incontrare con Serafina in anticamera — perciò
mi mossi e gli venni dietro a passi gravi: giunsi in tempo a vedere mia
figlia che fuggiva in cucina.

— Serafina! chiamai con voce severa.

Iginio Curti, che si avviava all’uscio d’ingresso, si fermò di botto.

— Chiamo mia figlia — gli dissi semplicemente; ed egli se ne andò.

                                   *
                                  * *

La scena che seguì in cucina fu breve.

Anna Maria era rimasta in anticamera, non osando venirmi dietro; io
trovai mia figlia gettata bocconi sulla catasta delle legna, come se
volesse abbracciarla.

Mi appoggiai al fornello, e lo dissi tranquillamente:

— Serafina, è venuto il momento di scegliere fra tuo padre e il tuo
seduttore. Serafina, che cosa hai detto poco fa a quell’uomo?

E poichè mia figlia rispose solo a singhiozzi, ripetei la domanda con
una lentezza calcolata.

— Serafina, che cosa hai detto poco fa a quell’uomo?

Essa sollevò la faccia lagrimosa, e mi disse con voce spenta:

— Gli ho giurato d’amarlo sempre.

Quell’ostinazione avrebbe fatto andare in collera un santo.

— Ed io giuro — le dissi solennemente — giuro che non darò mai il
mio consenso. Giuro — proseguii accalorandomi — che se tu sposerai
quell’uomo contro il mio volere, cesserai d’essere mia figlia per
sempre.

— Non giurare, babbo mio, non giurare! — mormorava essa.

Io mi mossi, ed essa si trascinò dietro a me fin sull’uscio, mormorando
sempre:

— Babbo mio, non giurare!

Ho pensato tante volte a quella strana miscela di lagrime e di
ostinazione di cui era formata la mia ragazza; essa mi adorava, non
potevo dubitarne, ma aveva promesso di esser di quel buffo, a costo
della propria pace, del proprio avvenire, della pace e dell’avvenire di
suo padre; e perchè aveva promesso doveva mantenere. Mi avrebbe ucciso
piangendo, e poi sarebbe morta di dolore ella stessa per non venir meno
al giuramento fatto.

Le conoscevo queste povere anime combattenti, che hanno per arme la
debolezza; esse sono le anime vinte, ma invincibili.

Cominciò ad entrarmi nel cervello l’amaro pensiero che mi toccherebbe
cedere alla debolezza di mia figlia; due giorni dopo ne fui persuaso.

Ecco quello che mi scriveva il buffo Curti:

«Fra nove mesi vostra figlia avrà compiuto i ventun anni, e sarà
padrona di sè, in forza delle leggi civili che ci governano. Essa
ha giurato di esser mia, ed io giuro che saprò esser per lei marito,
padre, amico, ogni cosa. Decidete.»

Ebbi presto deciso; non risposi a quella lettera, ed aspettai dal
tempo giorni migliori. Il tempo mi ridonò i giorni d’una volta tali e
quali; mia figlia si rasserenò quando il buffo fu partito per le Isole
Azzorre; picchiò sul suo pianoforte il _Barbiere_ ed il _Crispino_
quando giunsero le notizie dei trionfi del suo innamorato, finchè una
mattina si svegliò piangendo più del solito, tanto che venne a sedersi
a mensa cogli occhi rossi; era il giorno in cui compiva il ventunesimo
anno.

Un mese dopo, Iginio Curti era di nuovo in Milano, e si portava via
la mia ragazza per farla sua moglie. Di questa brutalità, commessa
per eccitamento del Codice civile, ho scolpiti in mente tutti i
particolari.

I due disgraziati — lui sempre ridente, lei sempre lagrimosa — volevano
risparmiare gli scandali, ed attesero da me il consenso necessario;
ma io volli invece che mi intimassero l’obbligo di dare il mio divieto
inutile; e lo diedi per iscritto, dopo di che partii. Era tacitamente
inteso che, al mio ritorno, avrei trovato la mia casa abbandonata.
Durante la mia assenza, essi si sposarono e partirono, e, quindici
giorni dopo, rientravo nella mia casa vuota, per ripigliare la vita da
scapolo.

Sulla scrivania, Serafina aveva lasciato un foglio, in cui implorava il
mio perdono, e mi dava il suo recapito.... all’estero.

Scrissi sotto quel foglio medesimo queste sole parole: «_io non ho più
figlia_» — e lo mandai a Bucarest, salvo errore.

                                   *
                                  * *

Stentai ad avvezzarmi alla nuova vita; nei primi tempi non mi sapevo
raccapezzare. Il caffè, dove già io soleva andare a prendere il
_vermut_ ed a leggere la gazzetta, prima di desinare, aveva fallito;
la famiglia che mi aveva tenuto a dozzina, a causa d’un’eredità avuta,
aveva rinunciato alla sua piccola industria; i brodi delle trattorie mi
sembravano troppo grassi, il vino aspro mi bruciava la gola, il vino
denso mi pesava sullo stomaco; la sera, non sapevo che fare del mio
tempo, perchè la commedia, in Milano, costa un occhio, e l’opera in
musica m’indispettiva dopo il tiro che mi aveva fatto.

Prima di convertirmi alla birra di Vienna ed al prosciutto cotto, prima
di trovare il mio posto d’onore alla mensa degli ufficialetti, prima di
godermi le maldicenze serotine del mio collega di letteratura italiana,
ci volle del tempo parecchio e della filosofia molta.

Del resto, lo confesso, io non soffriva tutto quello che m’era pensato;
credo d’essere un padre tenero quanto qualsiasi altro, ma il mio cuore
è forte nel sopportare le offese dell’ingratitudine. D’altra parte,
i miei affetti hanno una sensibilità così squisita, che offenderli ed
ucciderli è quasi tutt’uno. Quando mia figlia ebbe voltato le spalle
alla casa paterna, io la considerai come perduta nel mondo, e mi
proposi di non pensare più a lei come se fosse morta.

Da Bucarest una volta, poi un anno dopo da Barcellona, mi giunsero
lettere di Serafina.

Per quanto vi fossi preparato, la prima volta, la vista dei caratteri
di mia figlia sulla soprascritta mi fece battere il cuore — sentii, per
essere schietto, curiosità e tenerezza dispettosa.

Mi ricordo che presi la lettera in mano, ne guardai lungamente la
soprascritta, ed esaminai il bollo postale di Bucarest per decifrare
la data che vi si leggeva — ma che poi chiusi la lettera in un cassetto
e me ne andai a desinare. Tornato a casa, era entrato un po’ di ordine
nelle mie idee; presi la lettera di mia figlia, e, questa volta senza
batticuore, ne cancellai la soprascritta e vi scrissi di mio pugno:
_si respinge al mittente Iginio Curti, buffo nel Teatro italiano di
Bucarest_.

La stessa cosa feci colla lettera che mi giunse un anno dopo da
Barcellona.

Quello che avvenne di poi, me lo aspettavo.

«Mio genero — avevo detto dentro di me — per costringermi a leggere le
lettere lagrimose di sua moglie, mi farà un tiro un giorno o l’altro —
ma egli non sa che io ricevo pochissime lettere, perchè non ne scrivo
mai, e che non mi sarà difficile riconoscere la perfidia anche se
abbiano fatto fare la soprascritta dal tenore, o dal baritono, o dalla
seconda donna, specialmente se mi verrà dall’estero.

Eppure, fui ad un pelo di cascarci, e fu un vero lampo di genio
inquisitorio che mi risparmiò questa piccola sconfitta. Un giorno mi
capitò una lettera d’aspetto innocentissimo; veniva da Pavia, dove ho
dei colleghi e degli antichi compagni di scuola. Stavo già per lacerare
la busta, quando domandai a me stesso: «chi mi può scrivere da Pavia?
Il professore Leonardi, no, perchè ne conoscerei la scrittura, il
Ponzio nemmeno.... Guardai la soprascritta, e lessi: _Al signor Abate
prof. Marco Antonio_, come scriveva un tempo mia figlia, come, dopo
mia figlia, mi chiamava sulle soprascritte delle sue lettere il buffo
Curti, e come, prima e dopo di loro, nessuno mai mi aveva chiamato.

Questa trasposizione di nomi non era innocente come può parere; mi
ricordo d’una lettera di mia figlia così indirizzata, che non pervenne
al suo recapito se non dopo essere andata per la città in cerca d’un
reverendo che si chiamasse Marco. Mia figlia, tenace come il solito,
non aveva smesso di dirigere le sue lettere a quel modo, sebbene io
l’avvertissi; e siccome oramai i fattorini delle poste sapevano che era
inutile cercare in Milano il reverendo Marco, non ne era nato più verun
inconveniente, ed io aveva lasciato che facesse.

Ammirate la semplicità dei mezzi di cui si serve l’_ente_ per
scompigliare i disegni e punire le colpe dell’_esistente!_ — Io, senza
perdere tempo, cancellai la soprascritta, e scrissi bravamente «_si
respinge_...» ed il resto.

Ma quando ebbi fatto ciò, mi rifeci a pensare: «E se questa lettera
non fosse di mia figlia?» Allora immaginai di comprare l’ultimo numero
di un giornale teatrale, e di accertarmi se a Pavia si rappresentava
l’opera buffa. Seppi così che nel Teatro Comunale si rappresentava
l’opera di Lauro Rossi, _I falsi monetari_, e che il buffo Curti era
molto applaudito dalla scolaresca.

Una voce domandò dentro di me: «Che fa tua figlia? È sana? È felice?»
Ma io mi affrettai a rispondere che non me ne importava un fico, che
avevo giurato di considerare Serafina come perduta nel mondo, e che mia
figlia era morta.

Il buffo Curti dovette rimanere senza fiato quando si vide restituire
integra la lettera fatta a trappola, in cui aveva immaginato di
pigliarmi. Da quella volta non ricevei più lettere di Serafina.




III.

IL MIO AVVENIRE

_(Dal taccuino di Marcantonio)_


Addio piccole compiacenze, addio piccoli dolori della mia vita passata;
ora getto lo sguardo innanzi a me, sulla via deserta, e mi rifaccio
serio.

Ah! sì, la via è proprio deserta, e non è mia colpa. Io avrei voluto
schierarvi la figliolanza di mia figlia e gli amici vecchi e fedeli;
mi sarebbe stato caro disseminarvi una folla di conoscenti cordiali,
vivaio d’affetti futuri, dove il dolore avesse potuto venire ogni
tanto a prendere per mano un nuovo amico e condurmelo dinanzi dicendo:
«costui è degno di te.»

Ma lo spettacolo dell’umano egoismo ha chiuso tutte le porte del mio
cuore, e da un pezzo non v’entra più nessuno. Talvolta m’affliggo di
questa virtù di pensiero che mette fra uomo ed uomo quell’intervallo
medesimo che separa l’umana creatura dal bruto. Vi sono de’ miei simili
che cianciano fra di loro come i passeri, che si fiutano, o si adirano,
o si acciuffano per le vie come i cani, ed amano, e sono amati, e si
sentono felici perchè non pensano. Il pensiero è un tarlo che rode i
cuori generosi.

A me, nato per l’amore, non è rimasto neppure un affetto; sono solo!

Uscito or ora, e forse non ancora uscito, dalla calda virilità,
l’avvenire mi promette gli anni freddi della vecchiaia, quegli anni in
cui l’uomo più generoso ha diritto ad un po’ d’egoismo.

Sono sano ancora, ma sento che la gotta mi aspetta; io posso deluderla
per un po’ astenendomi dai cibi troppo azotati o troppo grassi, ma un
giorno essa trionferà della mia volontà, come ha trionfato di mio padre
e di mio nonno; è una malattia di casa.

Mi sono guardato nello specchio, ed ho visto che potrei illudere me
stesso; non dimostro più di quarantacinque anni; i capelli che mi
rimangono sono quasi neri; la mia barba invece sarebbe bianca, ma io
non la lascerò crescere; mi raderò ogni mattina.

Sento che posso ancora fare la felicità d’una donna, ed ho deciso.

Riprenderò moglie.

Dopo tanti anni di vedovanza, non si dirà che cedo ad un sentimento
frivolo; mi arrendo alla necessità; prenderò moglie per avere una donna
che abbia la missione d’amarmi.

Voglio che la massima indifferenza di cuore regoli questa _scelta:
giudicare e scegliere_ veramente, ecco il punto difficile. Nelle
prime nozze ciò è quasi impossibile; ancora non si sa bene che cosa ci
convenga e che cosa noi possiamo dare — per questo, le prime nozze sono
sempre un giuoco in cui ha troppo parte la fortuna. Ma quello che è
fatale la prima volta, non sarebbe scusabile la seconda. Un vedovo che
si riammoglia ha l’obbligo di proporsi il quesito della felicità della
sua compagna, e di scioglierlo con regole severamente matematiche.

Io conosco parecchie ragazze da marito, ma so che si fanno un
romanzetto, di cui non potrei essere il protagonista; di vedove
smaniose di passare a seconde nozze ne conosco pure, ma vecchie e
brutte — ora la vecchiaia e la bruttezza della sposa non sono in
nessun caso elementi necessari di felicità matrimoniale. Io non
tradirò me stesso, la mia sposa sarà giovine e bella. Perchè essa
mi ami col tempo, basterà che io diventi amabile, ed apprenderò dai
vecchi quest’arte ignota ai giovani. E perchè essa mi sposi senza
amarmi, bisognerà che il benefizio la tenti. La mia donna deve essere
sventurata, sola nel mondo come me, e dovrà gettarsi nelle mie braccia
come in un porto sicuro.

Dove e come trovare questa sposa?

Nell’ampio mondo, così...




IV.

INVITO AL TALAMO DI MARCANTONIO.


Qui, nel taccuino di Marcantonio Abate manca un foglietto visibilmente
strappato, poi non si legge altro. Queste note, incominciate col fermo
proposito di essere il commento dei casi poco ordinarii che il nostro
eroe si aspettava, ebbero la sorte di tutte le _memorie_: furono
lasciate in tronco.

Senza avvedersene, il filosofo Marcantonio Abate era vittima di quella
identica illusione, che incomincia le _memorie_ dei collegiali dei
due sessi: affidava alla carta le impressioni non bene determinate e
non ancora sue, o già scolorite dal tempo, e non più sue, quasi per
guardarle da vicino o per appropriarsele; se egli non riusciva a fare
qualche cosa col nulla, come le collegiali volonterose, è merito dei
cinquant’anni che aveva vissuti; certo è che oggi — il domani della
gran deliberazione — Marcantonio non scrive più una sillaba delle
sue giornate, perchè cominciano per lui speranze, compiacenze, dolci
incertezze, fantasticherie faticose, mille sentimenti inaspettati
che egli sdegnerebbe di colorire colla penna e di vedere riprodotti
malamente sulla carta. Anche per le signorine, quando sono uscite di
collegio, viene un giorno che fanno così. Si offenderà Marcantonio
Abate d’un paragone che lo ringiovanisce un poco? Forse no; appena
egli ha fatto il suo tiro, appena ha buttato nel mondo la sua rete,
subito si è guardato nello specchio, è corso dal parrucchiere per farsi
radere, è passato dal calzolaio per comperare un paio di stivaletti
verniciati, ha fatto chiamare il sarto a consulto — e il sarto verrà
domani.

Che tiro ha fatto Marcantonio Abate? Che sorta di rete ha gettato
nell’ampio mondo?

Egli ha scritto in un foglietto strappato dal suo taccuino, pesando
ad una ad una le parole, precedentemente scelte e misurate con grande
scrupolo, questo avvisetto:

«_Invito al talamo._ — Un signore di buona età, agiato, sano, di non
spiacevole aspetto e di umore eguale, si unirebbe in matrimonio con una
signorina o con una vedova che non avesse passato la trentina, fosse
di buona famiglia e d’indole modesta. Non si richiede alcuna dote.
Dirigere le proposte al signor I. O., fermo in posta, Milano.»

Ha scritto col suo più bel rondo, curando sopratutto la chiarezza, e
dopo aver scritto, non contento ancora, ha rifatto amorosamente gli
occhi a tutti gli _e_, che sotto la sua penna erano nati ciechi, ha
allungato le code agli _a_, assicurato i tagli ai _t_, e rimessi sugli
_i_ i puntini che non avevano lasciato traccia o non erano caduti a
piombo.

Quando ogni equivoco gli è sembrato impossibile, senza malizia dei
tipografi, ha chiuso il foglietto in una busta e mandato il tutto
all’agenzia d’annunzi del _Secolo_ per mezzo di Anna Maria.

Anche la scelta di questo messaggiero gli è costata fatica; gli
bisognava una persona di cui potesse fidarsi, un po’ ingenua, un
poco ignorante, che stentasse a leggere e non fosse prontissima a
indovinare; dunque, i bidelli degli istituti, no, perchè leggevano
e indovinavano benissimo, e il portiere nemmeno, perchè non leggeva
affatto — dunque Anna Maria.

Sulla busta è scritto, e Anna Maria dovrà ripetere all’occorrenza: «da
inserirsi la domenica e il giovedì, per due settimane.»

Anna Maria dovrà anche pagare il prezzo anticipato delle inserzioni;
se vedrà ridere, starà seria, e se mai da un figliuolo d’Eva le venga
chiesto chi fa l’inserzione, risponderà tranquillamente: un figliuolo
di Adamo.

Il donnone tutto d’un pezzo ha ricevuto questa gran prova di fiducia
del suo padrone colla solita compostezza, cioè colle mani sotto il
grembiale, poi ha cavato una mano per afferrare la busta, poi ha cavato
l’altra per ricevere il denaro.

— È uno scherzo — ha ripetuto il professore — ma tu bada bene a star
seria.

— Sissignore.

— E non dire chi ti manda.

— Sissignore.

— Paghi quanto vogliono, senza ribattere.

— Sissignore.

— Pigli la ricevuta, e torni a casa.

— Sissignore.

Dopo di che Anna Maria si è avviata; il suo padrone l’ha vista passare
in cortile, ed ha notato il suo contegno straordinario, perchè il
donnone, quest’oggi, non si è permesso di cavare la mano dalla tasca
che custodisce il segreto del professore.

Questo tiro ha fatto Marcantonio Abate! E se ora passeggia per la sua
casa un po’ agitato, e se tratto tratto si guarda nello specchio, è
perchè egli ha avuto tempo d’andare dal parrucchiere e dal calzolaio, e
Anna Maria non è tornata ancora.

Dunque, il signor I. O. passeggia e pensa.

Quell’insolito modo di cercar la moglie nella quarta pagina d’un
giornale è veramente degno d’un filosofo. A guardarci bene, gli uomini,
in questa delicata congiuntura del matrimonio, si comportano assai
male; alcuni s’innamorano, e sono i giocatori d’azzardo delle giuste
nozze; altri scherzando, si compromettono, e si trovano legati senza
saperlo — sono i distratti; altri si informano delle ricchezze e del
parentado, non del cuore — e sono i monocoli; il signor I. O. invece
con quanto giudizio fa la cosa! Egli si propone apertamente a tutte le
ragazze disponibili; non s’impegna a nulla, vede, interroga, scruta;
non s’innamora, non si accalora, non s’impazienta — giuoca e lascia
giocare sul sicuro — guadagneranno entrambi pigliandosi, guadagneranno,
e forse più, lasciandosi. Le trattative di nozze incominciate nella
quarta pagina d’una gazzetta mettono il negozio nella vera luce; i
falsi scrupoli non vi possono entrare, non vi entrerà l’amor proprio.
Una donna che accetta un marito da un giornale, è una donna sicura,
senza grilli per la testa, senza sentimentalismi vani; porterà in dote
un sodo criterio.

Il Signor Io si promette un altro vantaggio dalla sua trovata.
Egli manderà la gazzetta a parecchie ragazze di sua conoscenza, a
cui non oserebbe fare la domanda espressa per timore d’un rifiuto
— e quante altre ragazze gli verrà fatto di conoscere in seguito,
tutte riceveranno per posta la medesima gazzetta, finchè egli sia
disponibile.

Perciò, del giornale che conterrà l’avviso, il Signor Io farà una
provvista abbondante. Forse taluna delle fanciulle, a cui egli non osa
neppur pensare, si disporrà a pigliar marito anche in quel bizzarro
modo. Contenta d’un simile matrimonio in genere, chi sa? la giudiziosa
fanciulla potrà contentarsi facilmente della specie. Il Signor Io, raso
di fresco, coi capelli tirati con garbo a dissimulare la calvizie, fa
la sua figura — un uomo ne vale un altro, e un professore di filosofia
così rimesso a nuovo, cogli stivaletti di vernice...

Il Signor Io si guarda nello specchio, si ammira senza concedere troppo
alla vanità, e continua a passeggiare. Anna Maria non viene, e il
Signor Io si frega le mani promettendosi un altro vantaggio dalla sua
trovata.

Non potrà egli conoscere la fanciulla che è disposta ad entrare in un
talamo anonimo, avvicinarla e studiarla senza svelarsi mai? Non potrà
egli lasciar credere alla ragazza che il suo tentativo di trovar marito
nella quarta pagina si è perduto nel mondo, ma che la provvidenza le
ha, per altre vie, mandato un altro sposo verisimilmente migliore? Al
Signor Io non spiace lasciare questa illusione alla sua seconda metà,
non è egoista il Signor Io; quanto a lui, rinunzia alle illusioni; non
l’offenderà il sapere che la sua compagna era andata in cerca di marito
nella gazzetta, tutt’altro; pigliando moglie un’altra volta, egli vuol
pigliarla per bene, e gli pare che, conoscendo egli il segreto di lei,
e non sapendo essa nulla di nulla, la sposa gli starà meglio in pugno.

Ecco il passo d’Anna Maria, ecco Anna Maria. Il donnone è serio, ed ha
le due mani sotto il grembiale.

— Hai fatto? — domanda Marcantonio con un po’ di tremito nella voce.

Anna Maria ha fatto; essa cava una mano di tasca e porge la ricevuta:
ha pagato L. 22 e centesimi 40 per quattro inserzioni di 14 linee da
farsi il giovedì e la domenica. Il professore piglia la ricevuta con
disinvoltura, ma gli batte il cuore come se ricevesse la fanciulla dei
suoi pensieri futuri.

Qual’è la fanciulla dei futuri pensieri del Signor Io?

Dolce incertezza! Dov’è la fanciulla dei pensieri futuri del Signor Io?

Oggi è mercoledì; domani il _Secolo_ porterà l’invito al talamo di
Marcantonio nella città, nei paesi e nelle ville; e un numero del
giornale cadrà sotto gli occhi di una bella pensosa che aspetta.
Marcantonio si accorge che, sebbene egli abbia invitato alla gara anche
le vedove sulla trentina, la sua fantasia finora non gli presenta che
fanciulle di vent’anni e di diciotto. Marcantonio si guarda ancora
nello specchio, e non è atterrito della propria audacia. Egli pensa
che se una fanciulla di diciott’anni si contenterà di pigliar lui, darà
prova d’avere un criterio sodo.

— E che cosa hanno detto nell’uffizio del giornale? — domanda il
professore, rivolgendosi ancora alla fantesca.

— Hanno riso sotto i baffi.

Anche Anna Maria pare che riderebbe volentieri sotto qualche cosa — ma
sta seria fin troppo.




V.

LA GARA.

FASI E CATASTROFE.


Valichiamo una sera lunga, una notte insonne.

Comincia un giovedì eterno.

Oggi Marcantonio Abate ha vacanza; egli depone dall’alba quell’incomodo
fardello di filosofia scolastica che negli altri giorni della settimana
è costretto a portare in due licei per l’afflizione dei suoi alunni;
sembra egli stesso un suo scolaro, tanto si sente sciolto. Esce,
s’avvia, e ad ogni passo si allontana sempre più dalla metafisica.
Giunge al boschetto dei giardini: il vecchio amico suo è là, tentando
il prossimo.

— Buon giorno!

— Mille giorni come questo — risponde il mendicante con un sorriso
malizioso.

— Mille son pochi. Auguramene dieci mila, se mi credi felice; ma tu
sbagli.

— Vossignoria è giovane.

— Davvero?

— Vossignoria oggi ha quarant’anni. Appena l’ho visto spuntare dalla
cantonata ho detto: il professore oggi ha quarant’anni: che cosa ha
fatto degli altri dieci?

Marcantonio si sente lusingato dall’osservazione, e non ha forza di
offendersi.

L’altro insiste con malizia crescente:

— Che cosa vuol fare degli altri dieci? ho detto.

Il professore guarda di qua e di là; la metafisica e l’etica sono
scomparse, nessuno lo vede, ed egli ride. Gli viene oggi una tentazione
non mai sentita: far l’elemosina al suo vecchio amico: ma resiste per
decoro.

— Buona fortuna! — dice, e si avvia saltellando.

— Diecimila giorni come questo! — ripete il vecchio, e s’incammina
egli pure, zoppicando, incontro ad una vecchia signora, che passa nel
prossimo viale e che ha già cacciato una mano in tasca.

Marcantonio prosegue rapidamente la via che mena alla sua felicità;
incontra un collega e lo schiva, incontra uno scolaro che schiva lui,
giunge alla trattoria prima dell’ora della colazione. Non importa,
mangerà solo; l’uomo deve bastare a sè stesso, tanto più a tavola.

Mangia, poi legge una gazzetta che non è il _Secolo_, poi aspetta gli
ufficialetti, ed è divertito dalla compiacenza con cui essi appendono
le loro sciabole all’attaccapanni, lasciandole spenzolare per le calate
della cintura in modo che urtino ripetutamente, prima a terra, poi
nella parete.

Sente dentro di sè una forza nuova, qualche cosa che non è entusiasmo,
nè baldanza, nè spensieratezza, ma che somiglia a tutto ciò; ogni tanto
abbassa la gazzetta e mette una parolina nel discorso scucito degli
ufficialetti, una parolina scelta bene, una parolina lucente, che al
solito, riempie di stupore i suoi commensali, e gli obbliga a dirgli
_bravo!_ o _bravissimo!_

Per far passare il tempo, propone una partita a scacchi o al domino,
magari al biliardo, e se ne scusa dicendo: «ho vacanza» — ma gli
ufficiali non chiedono scuse; sono contenti che il signor professore si
degni di uscire dalla sua dottrina melanconica per carambolare come uno
studente. Marcantonio è stato in altri tempi un giocatore fortissimo;
brandisce molte stecche più volte prima di sceglierne una, poi giuoca e
vince; i suoi avversari generosi fanno di tutto per fargli dimenticare
la modestia, ma il professore vince modestamente e si dichiara grato
alla fortuna; chiede un sigaro al cameriere, e gliene vengono offerti
cinque dagli ufficiali — grazie, grazie... egli non fuma sigari
_Cavour_, accetta un sigaro _Virginia_ dal signor tenente, accetta uno
zolfanello dal signor sottotenente, ringrazia gli altri.

Il professore non fu mai così amabile.

Finalmente Marcantonio esce all’aperto; esce lanciando innanzi a sè le
nuvolette del suo Virginia — e subito un monello, mandato dal destino,
gli offre il _Secolo_ uscito or ora. Il Signor Io compera la gazzetta,
corre coll’occhio alla quarta pagina, e legge subito: _Invito al
talamo_.

Non vede altro; caccia la gazzetta in tasca, e si guarda intorno. Ora
si sente debole, e non sa bene perchè.

Il suo Virginia è spento.

                                   *
                                  * *

Non è certamente perchè Marcantonio vi ha collaborato in quarta pagina,
non è neppure per il gran fatto avvenuto a Porta Tenaglia, perchè
sia non si sa, ma è indubitabile che oggi il _Secolo_ ha uno spaccio
straordinario; i rivenditori sbucano da tutte le cantonate e sono
trattenuti dai curiosi, e per le vie si vede molta più gente del solito
che nasconde la faccia dietro il _Secolo_.

Anche Marcantonio è impaziente di leggere la sua prosa, e quando può
chiudersi nella stanza da letto, stendere il giornale sul tavolino e
leggere: _Invito al talamo_ con tutto quel che segue, egli è veramente
contento come se avesse veduto la seconda moglie che gli è destinata, e
trovatala di suo genio. Gira gli occhi per la camera e fantastica.

Non muterà stanze; quel quartierino e lui si conoscono, oramai egli vi
si è avvezzo e vi si trova bene; la stanza da letto è abbastanza ampia;
entrano per l’unica finestra molti più metri cubi d’aria respirabile
che non siano necessarii per due. Tutt’al più farà mutare le carte
delle pareti e riverniciare il talamo; aggiungerà al lavamani due
catinelle compagne, perchè sull’unica rimasta è oramai indelebile il
giro dell’acqua che vi si versa ogni mattina da tanto tempo. Aggiungerà
fors’anco una lampada da notte, che scenda dal soffitto nel mezzo della
camera, ed abbia i vetri azzurri o color di rosa, ma per la scelta del
colore, bisognerà sentire il parere della fidanzata. Altri mutamenti
non vorrebbe fare; pure, se la sposa ne avesse desiderio...

Un’ora dopo egli ha trasformato dieci volte tutta la casa, col
pensiero, ed è ritornato cogli occhi e colla fantasia al modesto talamo
di noce che gli sta dinanzi e all’invito così audacemente gettato
in mezzo alle vedovelle ed alle ragazze, specialmente in mezzo alle
ragazze.

Ora teme che quel titolo erotico — _Invito al talamo_ — da lui premesso
all’avviso perchè non passi inavvertito, possa dare un’intonazione
burlesca alla faccenda, e guastarne il significato serio — ora invece
si lusinga d’aver dato con quelle tre parole una caparra del proprio
valore alle fanciulle da marito.

Quando cominceranno a piovere le lettere al Signor Io? Domani stesso
dalla città; dalle provincie doman l’altro. Ma il professore non andrà
alla posta venerdì, perchè, sebbene un filosofo della sua fatta sia
inaccessibile alle superstizioni volgari, preferisce incominciare le
trattative del matrimonio in un giorno generalmente considerato come
innocente. Andrà alla posta sabato.

Ma il domani, l’impazienza lo vince; assolutamente non è superstizioso
il professore, e d’altra parte è meglio che si faccia conoscere al
distributore delle lettere _ferme in posta_, come il Signor Io.

La cosa gli sembra innocentissima fino a piazza del Duomo; infilando la
via Rastrelli che mena all’ufficio postale, Marcantonio è turbato, e,
giunto alla posta, ha perduto affatto il sussiego. Guardando un poco
in distanza l’impiegato che si muove entro il casellario come in un
gabbione, gli pare che abbia una certa faccia, come se, avendo letto il
Secolo di ieri sera, tutta la mattina non aspetti altro che il Signor
Io per farne la personale conoscenza. Marcantonio è da un pezzo sul
portone della posta, e nota che tutti quelli che l’hanno visto entrando
ed escono poi senza che egli si sia mosso, lo guardano curiosamente.
Si volta; attraverso la inferriata dirimpetto, egli vede l’impiegato
delle lettere _ferme in posta_ che continua a muoversi nel suo
gabbione. Sicuramente a quest’ora l’ha già visto, e ne ha già notato
l’irresolutezza; rimanendo ancora all’uscio peggiorerà le cose, si darà
a conoscere meglio, diventerà il Signor Io della favola, il Signor Io
indimenticabile.

Una risoluzione coraggiosa — ecco Marcantonio avviato incontro allo
sportello delle lettere _ferme in posta_. Ma un’occhiata partita
dall’interno di quella gabbia lo scompiglia, lo sgomenta; quel
distributore ha una penna d’oca cacciata sopra l’orecchio sinistro in
modo che sembra cresciuta là naturalmente, ha il naso adunco (stavamo
per dire il becco), e una guardatura di sotto in su a cui Marcantonio
non è preparato. Con un passo di traverso, il professore si affaccia ad
un altro sportello.

— Lettere per il professore Marcantonio Abate?... — domanda, tanto per
dire qualche cosa.

Un momento di silenzio, durante il quale il professore cerca di
radunare tutte le sue forze, ma pensa che ha peggiorato ancora le
cose, perchè si è fatto vedere da un impiegato, dicendo nome, cognome e
professione; poi la voce del distributore gli annunzia: _Niente Abate_.

È virtù vecchia l’eroismo: vecchia, ma eterna..

Ammiriamo il _Signor Io_ dinanzi allo sportello temuto faccia a faccia
col distributore dal naso adunco, dalla penna d’oca cacciata sopra
l’orecchio.

— Giungeranno.... — comincia a dire — ma il suo avversario lo guarda, e
con questo mezzo semplicissimo gli fa perdere la parola.

— Sono da lei — dice il pennuto cacciando in una casella una lettera
raminga.

— Giungeranno — ripiglia il professore vilmente — giungeranno forse
lettere ferme in posta dirette al professore Marcantonio Abate....
favorisca farmele mandare a casa.

— Dove? — chiede l’impiegato strappandosi la penna d’oca e accingendosi
a scrivere in un registro.

E Marcantonio deve anche svelare la strada, il numero del portone,
la scala e il piano. Ci è altro a fare per tagliarsi le braccia?
Null’altro, il Signor Io ha fatto tutta quanta l’operazione, e gli è
riuscita benissimo.

Ora può andarsene tranquillamente a casa.

                                   *
                                  * *

Marcantonio Abate ha mandato alla posta un uomo messo certamente
al mondo coll’intenzione di fare il messaggero modello in questa
congiuntura.

Battista, il portinaio, non sa leggere affatto, ma vuol far credere che
sa quanto chicchessia; messo faccia a faccia colla carta scritta, egli
la guarda severamente, poi sorride, e quando può se ne allontana.

Non potendo sfuggire il foglietto su cui il professore ha scritto
_Al signor I. O., fermo in posta_, Battista lo ha cacciato in tasca,
ha ascoltato tutte le istruzioni verbali, ed è corso alla posta nel
massimo turbamento.

E un’ora dopo ritorna con un sorriso trionfante, porge la carta al
professore e dice:

— Niente per il Signor Io.

Marcantonio si fa rosso, perchè gli sembra di capire che Battista abbia
fatto leggere il foglio da qualche amico fidato, ma pensa che in fin
dei conti non è facile arrivare alla radice del piccolo intrigo. Quanto
al silenzio delle sue pretendenti, non se ne sgomenta ancora — a dire
il vero, egli ha avuto troppa fretta; saper aspettare bisogna.

Domenica riappare nel Secolo l’_Invito al talamo_, e lunedì Battista è
rimandato alla posta.

Il Signor Io attende il ritorno del messaggero, ma checchè accada,
vuole essere contento di sè, e non aspetta altro. Per convincersi che
non ispera nulla ancora, dice a sè stesso ogni tanto: «È troppo presto:
gli avvisi di quarta pagina fruttano talvolta parecchi mesi dopo — io
posso aspettare.»

Ma quando Battista ritorna a mani vuote, Marcantonio vede con
un’occhiata la vanità di tutti gli umani propositi, e s’accorge che
egli non è riuscito ad ingannare sè stesso.

Il giorno dopo, tornato a casa da scuola, Marcantonio Abate si vede
venir dietro Battista con una grand’aria di mistero.

— Lei mi ha detto di non le lasciar vedere a nessuno — dice il degno
portinaio — ed io le ho tutte qui.

Così dicendo, accenna alla tasca interna della giacchetta. Oh! come
batte il vecchio cuore del Signor Io!

— Calmati, Marcantonio — dice a sè stesso. — Seguimi — dice a Battista;
ma non ha quasi la forza di salire le scale, perchè la mano poderosa
del suo destino lo afferra.

— Dà qua — dice allora il Signor Io; e Battista consegna tre lettere ed
un giornale.

Il professore raccomanda ancora una volta il silenzio al suo messaggero
e gli dà una mancia, — poi si arresta a ripigliar fiato, fa le
scale con una pacatezza filosofica, penetra nelle sue stanze senza
precipitazione, e depone sopra un tavolino della stanza da letto le tre
lettere e il giornale. Chiude gli usci ed apre la finestra.... «Calmati
Marcantonio!....»

Eccolo solo nel suo _harem_.

                                   *
                                  * *

Le tre lettere e il giornale hanno la soprascritta medesima, senza
alcuna variante: _Al Signor I. O., ferma in posta — Milano_.

Ma i caratteri sono differenti.

La prima lettera aperta da Marcantonio è scritta con gran parsimonia di
parole; dice:

«Io sono giovine, sono bella, e sono ricca; — non posso soffrire
gli sciocchi che mi fanno la corte. Datevi a conoscere se avete la
coscienza di meritarmi; se mi meritate, vi sposerò. Per vostra norma,
è inutile presentarvi se avete sessant’anni, o la parrucca, o i denti
finti, se siete sordo o guercio, o invalido. Sul rimanente, Virginia
chiuderà un occhio. Scrivete a Virginia Malvisi, fermo in posta,
Milano.»

Marcantonio sta un poco immobile a contemplare quelle parole ardite;
si sente un po’ scoraggiato, senza sapere perchè; forse qualcuno a cui
egli non dà ancora retta, qualcuno, dentro di sè, comincia a dirgli che
Virginia è troppo distante da lui, o troppo matta. Ma egli si scuote
da quel torpore, e guardando rapidamente il foglio spiegato e le due
lettere chiuse, e le altre lettere dirette al Signor Io che a quest’ora
giacciono in fondo alle cassette postali, fa un’esclamazione allegra,
ed afferra il giornale.

È un _Secolo_ del giorno innanzi. Fin dalla prima pagina, una mano
disegnata con matita rossa allunga il dito verso la seconda pagina,
dove un’altra mano, dovuta alla stessa matita, accenna alla terza
pagina, nella quale una terza mano addita la pagina delle inserzioni a
pagamento.

In quarta pagina le mani sono quattro; dall’alto del giornale,
dal basso e dai due lati, allungano indici enormi verso un avviso
incorniciato pure di rosso.

Quell’avviso dice:

«Una signorina di 22 anni, agiata, di aspetto non ispiacevole, sana,
d’umore eguale, sposerebbe volentieri un vedovo sulla cinquantina.
Dirigere le offerte alla signora X. Y. Z. — Milano.»

Marcantonio rilegge attentamente questo avviso, e stentando ancora ad
afferrarne il significato, chiede a voce alta: che significa ciò?

Significa, evidentemente, che vi è in Milano una signorina di 22 anni,
la quale ha letto l’_Invito al talamo_ del Signor Io, ed è disposta
a pigliarlo d’assalto, solo che il Signor Io le piaccia e che essa
piaccia al Signor Io; ma non vuole far lei il primo passo, non stima
decoroso offrirsi, e pretende d’essere ricercata. Nulla di male in
fondo, è anzi una forma di pudore che Marcantonio apprezza; solamente,
non se ne farà nulla. Che si direbbe d’un ragno il quale si lasciasse
pigliare nella tela di un altro ragno? D’un formicaleone che andasse
a cascare storditamente nell’imbuto di un suo collega, che cosa si
direbbe? La signora X. Y. Z. sarà forse un partito eccellente, ma
siccome non mancano le spose, come si vede, a chi si dà la briga
di farne ricerca, Marcantonio sarebbe il grande ingenuo se desse la
preferenza a quella che fa la preziosa.

Rimangono altre due lettere sulla scrivania. In una, il Signor Io è
pregato di mandare il suo ritratto ad un’incognita ornata di tutte
le virtù, la quale deciderà poi: nell’altra si raccomanda al Signor
Io di recarsi infallibilmente questa sera prima delle nove al caffè
Biffi, in galleria, badando di occupare il tavolino in faccia alla
porta dell’ottagono, e di mettere una cravatta bianca ed un fiore
rosso all’occhiello. Questo è il desiderio d’una signora giovine e non
brutta, la quale sarà vestita di nero, porterà un mazzolino di fiori
sul petto ed entrerà nel caffè verso le ore nove.

Il Signor Io è furbo.

Non manderà il proprio ritratto a nessuno, non andrà alla berlina in
cravatta bianca e col fiore rosso all’occhiello, per mettere di buon
umore quattro ragazzi che forse si sono dati la posta al caffè Biffi.

La sua fantasia, insoddisfatta ancora, va dalla capricciosa e bella
Virginia alla timida X. Y. Z., e non si arresta a nessuna delle due. Se
fosse costretto a scegliere ora, pena il celibato, Marcantonio, che è
filosofo, continuerebbe a viver solo; ma se, pena la vita, egli dovesse
fare la scelta subito, senza conoscer meglio quelle incognite, quale
credete che il professore di filosofia si tirerebbe addosso? Ahi! non
già la pudica, ma quell’altra.

La signorina Virginia è proprio tentatrice colla sua baldanza; già, non
si è mai tanto audaci, senza essere un poco belle. Com’è la signorina
Virginia? È alta, piuttosto magra, ha gli occhi neri, due grosse
ciglia che spiccano anche sulla tinta bruna, denti bianchissimi che
l’obbligano ad un sorriso pieno di malizia, ha il naso parigino, ma può
anche averlo greco.

La signorina X. Y. Z. invece è pallida e bianca, oppure ha una faccetta
paffuta e rossa da collegiale — e quest’incertezza la guasta un poco.

Fra le due figure, una terza, respinta di continuo, si ostina a farsi
vedere ogni tanto — è la signora vestita di nero, col mazzolino di
fiori sul petto, l’incognita che dovrebbe entrare nel caffè Biffi alle
ore nove di questa sera, se la lettera che gli dà la posta non fosse
una monelleria di qualche sventato.

Quel vestito nero e quel mazzolino di fiori perseguitano il Signor Io,
il quale ha bisogno di ripetere a sè stesso che al caffè Biffi non ci
andrà.

Intanto, che fare? Le pretendenti aspetteranno una risposta....
«Aspettino» sentenzia severamente Marcantonio.

Tutto quanto il giorno, egli sta saldo nel suo doppio proposito di
aspettare altre offerte prima di rispondere, e di non andare al caffè
Biffi col fiore rosso e colla cravatta bianca. Ma giunta la sera,
quando fa per avviarsi ai bastioni, le gambe non gli obbediscono
e lo portano in galleria; se si distrae ancora un poco, lo faranno
entrare dove egli non vuole assolutamente. Marcantonio non si distrae
più; invece guarda l’orologio e pensa: «se io entrassi, che male vi
sarebbe?»

Veramente che male vi sarebbe se Marcantonio entrasse? Non ha la
cravatta bianca, non porta fiori di nessun colore all’occhiello, e
il caffè è pieno di gente. Sono le otto e mezza. Egli può mettersi
in sentinella a un piccolo tavolino, dietro la vetrata della porta
d’ingresso; se l’incognita viene davvero, la vedrà, perchè dovrà
passargli davanti; se invece hanno voluto fargli un tiro, i risancioni
ci rimetteranno il francobollo.

Marcantonio ha già passato l’uscio, ed ha conquistato il suo posto
d’osservazione.

È curiosa. Ora che il negozio gli si presenta pel suo verso giusto,
non gli pare più che debba essere una burletta. Per assicurarsi gira
lo sguardo intorno; senza parere, scruta la faccia dei vicini; tutta
gente innocua che beve la birra come lui o piglia lentamente il gelato.
Non vede a nessun tavolino quel tal crocchio di giovinastri che gli ha
messo tanta paura; se ora l’incognita venisse, egli la vedrebbe benone,
ma essa non vedrebbe lui. Peccato!

Sono le nove meno un quarto ed entra sempre gente nel caffè; signore e
signorine poche. Eccone una vestita di rosso carico: è bella, ed ha un
mazzolino sul petto; eccone un’altra vestita di seta bigia: è brutta,
ed ha un mazzolino sul petto. To’! tutte le signore che sono nel caffè
hanno un mazzolino sul petto! È moda, e il professore di filosofia non
lo sapeva.

Ah! eccola. È dessa! Il cuore del Signor Io la riconosce e batte forte
— una figurina angelica, una magnifica bionda, dalla carnagione bianca
e liscia come il fior della magnolia sbocciato appena, con certi occhi
azzurri grandi così; ha il mazzolino come le altre, e veste di nero,
d’una stoffa trasparente, a cui Marcantonio non sa dare un nome, ma
che ne merita uno capace d’esprimere la gratitudine mascolina per tutto
quel poco che fa vedere e per quel moltissimo che lascia indovinare.

La bella incognita passa, ed avendo l’aria di guardare di qua e di
là in cerca d’un tavolino disoccupato, sicuramente va in traccia del
Signor Io, che si nasconde. Ah! il Signor Io è acerbamente punito
della sua incredulità! Per espiare la colpa e correggerla, credo che
Marcantonio si cingerebbe il collo col moccichino e pagherebbe un fiore
rosso con tutto lo stipendio d’un mese, se.... se, guardando meglio,
non vedesse finalmente che la signora bionda non è sola, che un signore
l’accompagna ed ha tutta l’aria sbadata e non curante d’un marito,
e che dietro ad essi giungono, senza pietà per le dolci illusioni
di Marcantonio, altre due signore mature e brutte, vestite di nero,
coll’inevitabile mazzolino sul petto. Pietosa più del destino, la
stoffa che ricopre quelle due anticaglie non lascia trasparire nulla.

Mezz’ora dopo, Marcantonio paga la birra amara che ha bevuto e se ne
va. Ma sull’uscio è costretto a farsi da parte per lasciar passare
ancora due signore vestite di nero e col mazzolino di fiori sul petto.

Ora il Signor Io lo sa; quest’anno usa il nero.

                                   *
                                  * *

Oggi Marcantonio è allegro; tornando da scuola, dove ha spiegato il
sistema di Spinoza, si sente pieno di speranza e d’appetito. Grandi
cose lo aspettano a casa, egli ne è sicuro; ma non perciò andrà
incontro alle commozioni a stomaco digiuno.

Prima va dal trattore e mangia, poi si avvia a casa. Battista è là,
sulla porta. Buon segno! Il portiere esce più volte sulla strada e
rientra nel portone, mentre il professore si avvicina a passo misurato;
e quando finalmente Marcantonio è in luogo sicuro, Battista cava di
tasca una lettera.

Tanto mistero per una lettera sola! Ma qual lettera! Appena il Signor
Io ne ha lacerato la busta, sente un tremito per tutta la persona ed è
costretto a fermarsi sul pianerottolo.

Quella lettera, nella sua forma semplice e sentimentale, dice:

«Sono giovine ancora, sono vedova, sono infelice. Altro non posseggo
che il cuore e la mia bell’arte. Vivere per la felicità d’un uomo
onesto è la mia missione. Abito in via Torino, numero 60, al piano
secondo. Chiedete della signora Marina, comprimaria.»

Marcantonio rilegge quattro volte queste poche righe, poi le ripete,
balbettando, a memoria — e non riesce ancora ad afferrarne bene il
senso. Si stringe la fronte fra le mani, guarda fisso innanzi a sè, poi
passeggia, si arresta, passeggia ancora — in ultimo si lascia cadere
fra le braccia d’un seggiolone a rotelle, che rincula sino alla parete
come per grande sgomento.

Che significa tutta questa mimica del Signor Io?

Significa che nelle poche righe di quel foglio, che ora giace a terra,
il Signor Io ha riconosciuto i caratteri di sua figlia!




VI.

MARCANTONIO GIOCA.


All’estremità della camera, dove la sorte, servendosi d’una lettera e
d’una volgare poltroncina a rotelle, lo ha buttato peggio d’un rottame,
Marcantonio Abate guarda l’ammattonato, che gli appare come uno
scacchiere.

Qui giocherà egli la sua gran partita. L’avversario è forte — il signor
Io lo sa — e sa pure che, protetti dall’anonimo, giuocano contro di lui
molti avversari, non uno. Sentimento paterno, decoro della famiglia,
riguardi sociali, stanno lì, schierati lungo la parete opposta;
hanno fatto la prima mossa crudele, ed aspettano che il Signor Io vi
risponda.

Marcantonio esita un poco. Prima di giocare quella partita decisiva,
egli ha bisogno di guardare ben bene in faccia il suo multiforme
avversario, e di dirgli: «La so ben io la tua intima natura; tu sei lo
scrupolo che conturba, e l’ipocrisia allettatrice; tu sei la maldicenza
affamata e lo scandalo che schiamazza. Molto è difficile contentarti;
pure, qualche volta, se hai avuto la tua vittima, fingi d’essere
placato, ti asciughi gli occhi o batti le mani, e ti fai chiamare il
compianto o la gloria — ma io ti strappo la maschera e ti grido in
faccia il tuo vero nome: tu sei l’_egoismo pubblico_. Ed ora, giuoca!»

Ha già giocato, e la sua mossa è astuta molto — ora tocca te, Signor Io!

Serafina dunque è viva! Quale certezza! Marcantonio non ha mai pensato
che fosse morta, nè che potesse morire; ma pure aver la prova scritta
che essa è viva, proprio viva,... quale certezza!

La figlia che egli credeva perduta oramai nell’ampio mondo, era
semplicemente smarrita; il buffo l’aveva nascosta dietro le scene; oggi
il buffo è morto, e la vedova abbrunata esce dalle quinte per chiedere
al pubblico della platea un secondo marito.

Serafina, la fanciulla modesta e timida che Marcantonio aveva allevato
a somiglianza della sua povera madre buon’anima, quella creatura che
sembrava venuta al mondo solo per far la guerra ai ragnateli, senza
uscire di casa, annunzia che possiede _la sua bell’arte_, cioè che alla
scuola del buffo, suo defunto marito, si è messa a cantare essa pure.
Quel nome di Marina, con cui bisogna domandare di lei in via Torino
numero 60, è un nome di guerra!

Serafina dunque vive e canta; è sola al mondo, è povera, non possiede
che la bell’arte sua, piena di pericoli; ha 22 anni ed è vezzosa
ancora; abbisognando di un uomo che la protegga, è pronta a buttarsi
nelle braccia del primo venuto, sia pur vecchio e pieno d’acciacchi,
per trovarsi al sicuro. Serafina è in Milano, a poche centinaia di
passi da suo padre, a un passo forse dal disonore.

La mossa dell’egoismo pubblico significa tutto questo; ora tocca a te,
Signor Io.

Marcantonio si raggomitola nella poltroncina, e guardando fissamente a
terra si prova a dire: «Non vi è più nulla di comune fra lei e me; l’ho
giurato.»

Ma uno dei suoi avversari risponde sdegnoso: «Fole! non si fa spergiuro
quando il giuramento è indegno» — e un altro, carezzevole, soggiunge:
«Checchè tu faccia e dica, siano pur grandi le colpe di Serafina, non
è vero che tu nulla abbia di comune con essa. Serafina è il tuo sangue;
Serafina è la tua carne, è una particella della generosa anima tua.»

«Dunque — prorompe Marcantonio — quella disgraziata avrà fatto il voler
suo, sdegnando i consigli e le preghiere della prudenza e dell’affetto,
avrà tradito suo padre, lo avrà lasciato solo nel mondo per correre di
teatro in teatro, ed ora tutto ciò dovrà essere dimenticato, perchè è
infelice?»

Una voce intima, un’eco delle sue stesse parole, ripete nel profondo
dell’anima: «Perchè è infelice.»

Ma il Signor Io non l’ascolta. Egli pensa che la disgrazia da cui fu
colpita sua figlia è una punizione del cielo, e gli sembra d’averla
persino preveduta. Sicuramente l’ha preveduta. Quel buffo che egli
ha visto poche volte appena, aveva scritto sulla faccia il proprio
destino; Marcantonio non si era, no, lasciato trappolare (ora se ne
ricorda) da quell’apparenza di giocondità e di salute; quella faccia
paffuta era una maschera, quel corpo tondo era un inganno. Solo che
Serafina gli avesse detto: «Babbo, esamina l’uomo che mi vuol sposare,»
egli non avrebbe tardato ad indovinare l’ipertrofia o la tisi. Ora il
buffo è morto, e coi morti il Signor Io è generoso. Così il cielo gli
perdoni, come la grande anima di Marcantonio gli ha perdonato! Quanto
a Serafina, che può egli fare? Perchè mai bisogna che il caso venga a
prenderla per mano e condurla, dopo tanti anni, al cospetto dell’autore
dei suoi giorni?

La domanda è fatta. Marcantonio ha appena il tempo di pentirsene
inutilmente — la risposta dell’avversario è pronta.

«Pensa — gli dice — alle lettere che hai respinto senza aprirle. Che ne
sai tu, se, in una di quelle, la poveretta, alla cui felicità è mancata
la benedizione paterna, non ti apprendesse la sua grande sventura?»

Marcantonio non sa nulla, non vuol saper nulla; cioè, no, sa questo
solo, che la _grande sventura_ non sarebbe poi nè grande nè piccola,
se egli aprisse le braccia a sua figlia. Serafina ritroverebbe la nota
casa dove aveva vissuta fanciulla, ripiglierebbe le sue occupazioni
domestiche; affacendata da mattina a sera nel combattere i ragni e
la polvere, nell’aprire e chiudere i cassetti, nel regolare la spesa
diaria, confortata dall’affetto punto frenetico del babbo, col suo
mazzo di chiavi in tasca, coi suoi registri in regola, qual donna più
felice di lei? Dopo di aver provato l’uggia d’un’esistenza diversa,
al fianco d’un uomo che non era suo padre, la vedova ridiventerebbe
fanciulla; si cancellerebbe dal tempo un passato che....

Marcantonio s’interrompe nel corso dei suoi pensieri, perchè quella
medesima vocetta d’eco, che ha parlato nel buio fondo della coscienza,
incomincia lentamente così: «Si cancelli dal tempo un breve passato.
Dopo aver provato l’uggia d’un’esistenza diversa, quanto sarà più
attenta ed amorosa la vedova ridiventata fanciulla! Essa ritroverà le
note stanze e ripiglierà le sue occupazioni: affacendata da mattina a
sera nel combattere i ragni e la polvere, nel regolare la spesa diaria
e nel dar sesto alla casa, avrà la dolce illusione di contribuire a
rendere tranquilli e felici i giorni d’un padre che, per disperazione,
si voleva buttare nelle braccia di una donna qualsiasi.»

«D’aspetto non ispiacevole, fanciulla o vedova sulla trentina» ribatte
fiaccamente il signor Io. «La signorina Virginia non è una donna
qualsiasi; la signora X. Y. Z. che ha 22 anni non è una donna qualsiasi
— non è neppure una donna qualsiasi quella signora vestita di nero
col mazzolino di fiori sul petto che ieri Marcantonio non ha saputo
riconoscere al caffè Biffi. E poi, nessuno lo costringe a sposare la
prima donna che gli si presenti; egli può aspettare e scegliere. Fra
le concorrenti al talamo di Marcantonio non ci possono essere altre
giovinette belle ed adorabili quanto.... quanto Serafina, posto che vi
è Serafina?»

Rendiamo giustizia a Marcantonio.

L’idea che sua figlia si offre di sposarlo e di renderlo felice,
questa volta lo turba anche peggio. Se obbedisse al suo primo impulso,
andrebbe in via Torino, al numero 60, chiederebbe della falsa Marina,
comprimaria, rimedierebbe all’egoismo d’un uomo che, povero, aveva
voluto incatenare alla propria miseria una donna, e per cavarsi
d’impiccio non aveva trovato di meglio che morire.

Ma un’altra idea lo trattiene un istante ancora, forse perchè egli
corra più spedito dopo.

«Serafina si dice povera; infatti essa non ha avuto dote, nè ha mai
preteso la porzione legittima dell’eredità di sua madre lasciata in
usufrutto a Marcantonio. Forse non sa neppure che il Codice gliene dà
il diritto. — Quanto al buffo Curti, sebbene figlio d’un avvocato, che
poteva avergli appreso il mondo veduto dalla ribalta?»

La gran partita sta per finire; una mossa ancora, e Marcantonio si
darà vinto. Ma non è più un avversario che parla nella sua coscienza
turbata, è quasi un amico: egli conosce tutte le vie per arrivargli al
cuore, e la sua voce suona come una carezza.

«Tu non sei egoista — gli dice; — in mezzo a tutte le filosofie
grette o bugiarde, tu hai serbato una grandezza veramente filosofica
— tu disprezzi l’uomo, ma stimi grandemente te stesso. Non già tu
andresti a nozze tardive per goderti con un’altra donna la poca
ricchezza che Faustina destinava a sua figlia. Ti conosco; sposando la
signorina Virginia, o quest’altra, o quell’altra, subito rinunzieresti
all’usufrutto. Ebbene, no, Marcantonio, tu non rinunzierai
all’usufrutto, ma qui stesso, in questo momento, rinunzierai alla
signora Virginia e a tutte le altre pretendenti anonime presenti e
future, darai ordine a Battista di non andare più alla posta a ritirare
le lettere del Signor Io, riscatterai tua figlia dal teatro che l’ha
presa a tradimento, le aprirai la casa paterna — le aprirai anche
il tuo cuore di padre, un cuore retto, che non fu turbato mai dalle
frenesie dell’amore, e vivrai gli ultimi anni della vita consolato
dalla coscienza di esserti sacrificato per la felicità di tua figlia.»




VII.

«SONO QUA!»


Quanto è igienica la virtù! quanto è sana la grandezza d’animo!

Quando l’egoismo pubblico dà battaglia ad un cuore generoso e lo vince,
non è vero che la vittoria è umile, che gloriosa è la sconfitta?

Marcantonio raccatta da terra la lettera con cui la sorte ed il mondo
hanno intimato a lui di combattere, e va a mettersi dinanzi alla
scrivania.

Egli scrive:

«Serafina! So che tu sei sventurata, e perciò sento un’altra volta
d’esserti padre e d’amarti. Siano cancellati dal tempo quegli anni che
tu hai passato lontana dal tuo genitore; ritorna alla casa paterna e vi
troverai il posto ancora caldo che occupasti nella tua infanzia beata.
Una sola condizione io faccio, ed è che non si parli d’un passato che
non avrebbe dovuto esistere. Prometti a te stessa, prima di rientrare
nella casa e nel cuore di tuo padre, che non farai alcuna allusione al
tempo del nostro comune dolore. Troverai tutte le chiavi sul canterano,
dove le deponesti nell’andartene; ripigliale e riannoda il filo della
nostra esistenza felice là dove fu rotto dal tuo capriccio. Anna Maria,
che ti porta questa lettera, sarà sempre ai tuoi ordini, e ti aspetterà
in cucina. Io ti ritroverò domani, ritornando dalla scuola, come se tu
non fossi mai stata assente. Tu ritroverai me quale ero, forse un po’
invecchiato, ma forte ancora tanto da bastare alla tua felicità. Il tuo
babbo.»

«Le piacerà! — pensa Marcantonio quando ha riletto il suo piccolo
capolavoro. — Serafina è sempre stata tenera; leggendo questa lettera,
piangerà dal principio alla fine; ma qui dove dice: _prima di rientrare
nel cuore di tuo padre_, vorrà essere un diluvio.»

Marcantonio suona il campanello per chiamare Anna Maria, la quale, a
quest’ora, suol essere nella cucina melanconica, contemplando il camino
spento, ed aspettando che il padrone se ne vada pei fatti suoi, per
rigovernare lo scrittoio e le altre camere. E Anna Maria, all’insolito
rumore che il campanello fa sul suo capo, leva gli occhi in alto e
vede, sospeso ad un filo, un ragno che si affretta a risalire fino al
soffitto.

«Ragno di sera, spera,» pensa Anna Maria, poi accorre coraggiosamente.

— Anna Maria — le dice il professore guardando l’ammattonato — questa è
una lettera.

— Sissignore.

— Tu la porterai in via Torino, numero 60.

Anna Maria non dice _sissignore_, e Marcantonio alza gli occhi per la
meraviglia.

— Mettitelo bene in mente, in via Torino, al numero 60. È scritto anche
qui.

— Sissignore.

— Domanderai della signora Serafina Abate.

— La padroncina! — esclama Anna Maria battendo palma a palma senza far
rumore. — Lo so.

— Che cosa sai?

— So dov’è.... il numero 60 in via Torino.... ci sono già stata altre
volte.

— Quando?

— Non ricordo più quando; ma lo so.... ecco, e sono contenta.

— Di che cosa sei contenta? — interroga il professore coll’accento
melato d’un esaminatore; e siccome Anna Maria non è pronta a
rispondere, egli soggiunge con indulgenza: — Poniamo che tu sia
contenta senza saper di che, nessuno dice il contrario; intaschi la
lettera, te ne vai subito a recapitarla, non ti trattieni a far ciance
coi portinai, e torni a casa.

— A portare la risposta....

— Non vi è risposta; tu vai e torni, e non fiati nemmeno.

— Sissignore.... Vado subito.

— Va subito.

— Vado.

Non si muove, e il padrone già volta le spalle, quando Anna Maria
diventa a un tratto un’eroina antica.

— Signor padrone — dice ingrossando la voce — la padroncina sta bene?

— Sta bene.

— Proprio?

Marcantonio si volta a guardarla, e l’eroina antica ridiventa Anna
Maria.

                                   *
                                  * *

Oggi Marcantonio ha confutato il sistema di Spinoza, ed è stato così
felice nella parola, così stringente nelle argomentazioni, che quasi
quasi ha potuto credere che tutta la scolaresca lo abbia inteso. E
veramente la maggior parte della scolaresca ha inteso che il sistema
di Spinoza è inutile, e che si può vivere lasciandolo stare a Spinoza.
I più arditi hanno enunciato un sospetto, il quale in fondo è un
desiderio, cioè che tutta quanta la filosofia insegnata nelle scuole
possa essere prima confutata in una lezione un po’ più divertente delle
solite, poi lasciata stare per sempre.

A buon conto così ha fatto Marcantonio.

Appena il bidello, socchiudendo l’uscio, ha gettato nell’aula quella
magnifica parola latina — _finis_ — ecco un’immagine, rimasta nella
scuola per tutta la lezione, è balzata sulla cattedra ed ha tirato giù
il professore.

Quell’immagine si chiama Serafina.

Camminandole al fianco speditamente, Marcantonio pensa: «A quest’ora è
a casa e mi aspetta!»

Ma un dubbio, che s’è tenuto celato finora, aspettando il buon momento
di farsi innanzi, s’affaccia bruscamente, come un aggressore alla
svolta d’una via.

E se non ci fosse nulla di vero in tutto il romanzetto che gli affatica
il cervello da 24 ore, salvo una singolare somiglianza di scrittura?
Se Marina, la comprimaria, esistesse, e sua figlia fosse invece sempre
lontanissima... o morta?

Fermo nella sua idea di voler evitare le spiegazioni e di cancellare
interamente il passato, ieri il professore non ha atteso il ritorno
di Anna Maria, e stamane non ne ha aspettata la venuta. Invece di
Serafina, già così franca nella parte impostale dal padre, sino
ad essere quasi padrona delle proprie lagrime (così Marcantonio la
vorrebbe e così la immagina), può benissimo venirgli incontro Anna
Maria colla lettera in una mano e l’altra mano sotto il grembiale, e
dirgli: «Lei ha sbagliato, in via Torino, al numero 60, la signorina
non c’è...»

E allora? Che sarà allora? Marcantonio ci pensa, e dice a sè stesso
che sarà una specie di rovina. Quell’edificio che egli ha tirato su
lavorandovi ventiquatt’ore filate (perchè anche dormendo non ha cessato
un minuto di fantasticare, e quando demoliva Spinoza, altro non faceva
che preparare nuovi materiali di fabbrica), quell’edifizio è già così
alto e massiccio, che se dovrà crollare, ingombrerà colle sue rovine
tutta la via futura di Marcantonio. Invano egli chiederà consolazioni
alla bizzarra Virginia od all’anonima vestita di nero — le fanciulle
più bizzarre dell’universo mondo e tutte le vedove dello stato civile
non gli potranno pagare il suo sogno. Egli lo sa e lo ripensa: misero
l’uomo che chiede alla vita il prezzo d’un bel sogno svanito!

Marcantonio deve aver in tasca la lettera di Marina; la ricerca
trepidante, la trova, la esamina... Ah! non vi può essere dubbio, sono
proprio i caratteri di sua figlia. Ecco le sue _s_ che paiono _f_, ecco
le sue code svolazzanti che vanno a mettere dei tagli illegittimi alle
sue _l_. Ogni dubbio è inutile, anzi è dannoso, perchè, già quasi alla
porta di casa sua, il professore non ha ancora pensato alla scena che
deve seguire.

Vediamo. Che cosa dirà egli entrando? che cosa farà? Piglierà per mano
sua figlia, senza guardarla in faccia, ed alla grossa fantesca, che
senza dubbio vorrà stare fra i piedi, dirà: «Anna Maria, nulla è mutato
nella mia casa, mia figlia vi rientra fanciulla come ne è uscita — ed
ora va in cucina.»

E dirà a Serafina: «Tu, figliuola mia, abbracciami; la commozione non
serve a nulla; perciò ti raccomando di non piangere e di dimenticare il
passato.»

Riuscendo a fare ed a dire così, non un gesto di più, non una parola di
meno, Marcantonio Abate spera che per il primo e più difficile incontro
ce ne sarà abbastanza.

Ma che cosa dirà Serafina?

Il professore è giunto alla porta di casa sua, e si arresta un momento
per aver tempo a rispondere a questa domanda. È strano — il suo vecchio
cuore batte come per l’imminenza d’una catastrofe; da gran tempo non ha
battuto così il vecchio cuore del Signor Io. Gli tornano in mente il
primo sorriso d’una povera morta, allora piena di vita e d’amore, la
prima lezione davanti ad una scolaresca non abbastanza disattenta, il
primo bacio sopra la gota di una neonata piangente — anche allora gli
batteva il cuore forte, ma non così.

Che cosa dirà Serafina?

Rifà la domanda, poi non bada a rispondere; è sulle scale, il portinaio
non l’ha visto passare, ed egli è quasi contento di non essere stato
fermato per sentirsi dire: «Sa? ci è di sopra la signorina...» ma
ora cerca sui gradini, senza saperlo, le traccie del passaggio di sua
figlia, e non trovando nulla, è oppresso dalla freddezza non dissimile
della ringhiera di ferro e del bracciuolo di ottone, ma sempre senza
saperlo.

A un tratto si scuote da quella inerzia della sua volontà, che va
perdendo terreno dinanzi ad un avversario ancora invisibile, fa
rapidamente i pochi gradini che lo separano dal pianerottolo e si
arresta all’uscio di casa sua.

Deve sonare il campanello, oppure aprire colla chiave che porta sempre
in tasca, ed entrare in casa all’improvviso? Meglio è che Serafina ed
Anna Maria siano avvertite — perciò suona. La fantesca non è pronta ad
accorrere, ma si facesse anche aspettare fino a notte, Marcantonio non
sonerà più; non sa neppure se troverà la forza di aprir l’uscio di casa
colla chiave che ha in tasca. Non è il cuore — ora lo comprende — sono
i nervi. Finalmente si ode un passo dietro la porta, che si socchiude
lentamente. Marcantonio entra, Anna Maria spalanca la bocca e gli occhi
e non dice nulla.

La poveraccia ha pianto, ma il suo padrone non se ne avvede.

— Dov’è Serafina? — riesce a dire con un tremito nella voce.

Anna Maria, per parlare, comincia dal chiudere la bocca ed inghiottire
la saliva, poi accenna col capo alla camera vicina; non può dir altro.

Il professore Marcantonio Abate si sente piegare le ginocchia, ed è
costretto a sedersi sopra uno sgabello. Allora soltanto Anna Maria
trova le parole.

— Se la vedesse! — comincia a dire — ma anche il padrone ritrova il suo
proposito.

— Anna Maria — dice con dignità — nulla è mutato nella mia casa: mia
figlia vi rientra fanciulla, come ne è uscita; ed ora va in cucina.

La dignità con cui ha pronunziato queste parole gli vieta di rimanere
un minuto di più sopra un volgare sgabello d’anticamera. Si alza ed
entra storditamente nel salotto, ma, per sua fortuna, Serafina non vi
è. Pure, il cuore ricomincia a martellargli forte. Perchè? Unicamente
perchè, entrando, egli ha visto il lembo d’una veste sparire da un
altro uscio, e una pezzuola bianca cadere dal tavolino a terra.

Marcantonio si arresta nel mezzo della sala e raccatta la pezzuola. È
bagnata di lagrime; lo sapeva.

Cerca, come per gustare un po’ d’amarezza, e forse per guadagnare
tempo, le iniziali ricamate del nuovo nome di sua figlia, e trova
invece il nome intero della sua povera morta — _Faustina!_ Quasi allo
stesso tempo, una voce gentile, la voce medesima della donna che lo
aveva amato tanto, dice timidamente:

— Sono qua!

E perchè egli, trattenuto da una folla di vecchi sentimenti che
rifioriscono nel suo cuore, non è pronto a rizzarsi in piedi, la voce
ripete più forte: «Sono qua.» Ed appare nel vano d’un uscio, che si
è aperto senza rumore, la visione melanconica di lei, di lei stessa,
di Faustina, pallida e scarna come nella malattia che l’ha uccisa, ma
ringiovanita e fatta più bella dalla morte.

Ah! come potrebbe Marcantonio reggere a quell’urto? Egli sente che
un tremito gli agita tutta la persona, e che un brivido dolce, forse
un’onda di pietà, gli corre nelle vene come un lavacro.

Ha chiuso gli occhi, e chi sa? forse ha aperto le braccia senza
avvedersene, perchè sente sul petto il peso di un corpo dilicato, e
sulle labbra il bacio della sua cara defunta.

Riapre gli occhi e non dice nulla. Finchè dura quel fascino, non
potrebbe parlare, anche volendo; ma perchè parlare quando piange?
Piangi, Marcantonio, le tue vecchie lagrime pagano tutto il pianto
versato da tua figlia. La poveretta, mettendo il visino patito sotto
quella benefica pioggia, sorride e pare che pianga anch’essa, mentre
dice teneramente:

— Babbo, non fare così!

Non le badare, Marcantonio; piangi, lascia cadere le tue vecchie
lagrime sulla faccia di tua figlia; sta certo, non le faranno male.




VIII.

SI PARLA DI LUI.


Marcantonio si prova a sorridere a sua figlia, la guarda negli occhi
spalancati da una grande dolcezza, le accarezza le guance scolorite dai
patimenti, e ancora non sa che dirle.

— Sono qua — ripete Serafina colla voce di sua madre; — questo giorno
doveva venire, io l’ho aspettato tanto, ed è venuto!

— Come stai? — le chiede Marcantonio facendo la voce grossa per far
tacere tutte le corde del pianto. — Tu soffri molto, non è vero?

— T’inganni, babbo, io non soffro niente, io sto bene, non sono mai
stata così bene; te l’assicuro.

Marcantonio vorrebbe credere, ma non può; al primo vedere Serafina vi
è stato qualcuno a dirgli: «Marcantonio, tua figlia è venuta per morire
nel suo letto di fanciulla.»

— Hai dunque sofferto molto? — domanda facendosi coraggio. — Sei stata
molto malata?

— Ma ora sono guarita.

— Guarirai! — esclama Marcantonio con forza. — Ora devi guarire per
farmi piacere, perchè io lo voglio, e la mia Serafina mi ha sempre
obbedito.

— Non sempre — mormora la giovine donna.

— Lasciamo stare il passato, lasciamolo stare, figliuola mia; per il
tuo bene e per il mio, non se ne parli più. Tanto, l’ieri non esiste;
il solo tempo vivo è l’avvenire, il solo giorno della settimana è
domani. Sei contenta così?

Serafina abbassa il capo sul petto e non dice nulla, e suo padre,
immaginandosi di consolarla, insiste a bassa voce:

— Quanto a me, ho dimenticato ogni cosa; dimentica tu pure, pensa a
star bene. Domani farò venire un medico; egli ti darà delle medicine
che ti faranno guarire presto. Per alcuni giorni è inutile che tu pensi
alla casa; lo vedo bene io, sei troppo debole....

Serafina tace, ed egli prosegue:

— Diremo ad Anna Maria che rimanga in casa anche di notte; essa farà
la cucina, come una volta; terrò io le chiavi della dispensa e della
guardaroba, cercherò di non far sbagli, ma ne farò ad ogni momento, e
tu riderai e riderò anch’io. E appena tu sia guarita, te lo prometto —
aggiunge con solennità burlesca — te lo giuro, io ti renderò tutte le
chiavi, dalla prima all’ultima. Sei contenta, figlia mia? dillo, sei
contenta?

Serafina sorride melanconicamente, ma non risponde, e il disgraziato
Marcantonio ode nel silenzio l’ansia di quel povero petto ammalato
e la voce spietata che ripete: «Tua figlia è venuta per morire nel
suo letto di fanciulla.» La sua anima manda un nuovo grido, altre
fibre paterne si sono svegliate. Che cosa rimane ora del Signor Io?
Una reminiscenza scialba, come di cosa da gran tempo smarrita: ieri
soltanto il Signor Io trepidava nel ricevere le lettere, e pure questo
suo ieri è già fatto così lontano da giustificare quasi la bizzarra
sentenza suggeritagli dal rimorso: «Il solo tempo vivo è l’avvenire; la
settimana ha un giorno solo, ed è domani.»

Quel poco che del Signor Io rimane ancora, è lì, in faccia a
Marcantonio, per parlargli di sua figlia.

Quanto dovette soffrire la poveretta, perchè, ridotta in così misero
stato, pensasse a pigliare un secondo marito! Forse, come tutti gli
ammalati, non credeva al suo male, e si lusingava ancora che le fossero
serbati altri giorni felici; forse altro non isperava fuorchè trovare,
nella casa d’un vecchio egoista a cui non ripugnasse pigliarsi la sua
bellezza e la sua gioventù, il letto tranquillo dove chiudere gli occhi
alla morte.

Un altro grido sordo dell’anima di Marcantonio; ora tutte le sue fibre
paterne sono sveglie e domandano un miracolo. A chi? a chicchessia,
alla natura, all’ente che ha creato l’esistente, all’eterno amore
di cui si sente particella addolorata, agli uomini stessi che ha
disprezzato fino a ieri. Egli vorrebbe gettarsi alle ginocchia di
quella giovinetta patita, che sorridendo ha posto una mano calda nella
sua ed offre ai suoi baci tardivi la fronte bianca e serena, vorrebbe
col proprio sangue darle la vita un’altra volta, pagare la felicità di
lei colla pace a lui tanto cara. Non lo spaventa l’idea di vegliare
intere notti come un fantasma in una cameretta melanconica, chino
sempre sopra un capezzale per ispiare un indizio di guarigione, in
lotta sempre col sonno per non lasciarsi cogliere alla sprovveduta;
non lo spaventa l’idea di agonizzare per sua figlia, purchè sua figlia
guarisca.

Dite: che rimane ora del Signor Io?

Egli stesso si sforza invano di trattenerne l’ultimo atomo, che si va
perdendo nel nuovo amore; invano egli dice che Serafina è una parte
di sè stesso, e che l’affetto paterno è la forma più bella e più
santa dell’egoismo umano. Oggi la sua filosofia astiosa balbetta e si
confonde.

— Serafina — dice mettendo sulla fronte bianca ancora uno dei tanti
baci di cui l’ha privata — Serafina mia, non mi dici nulla, non hai
proprio nulla da dirmi?

— Babbo, che cosa vuoi che io ti dica? Che sono contenta, che mi sento
bene, te l’ho già detto.

— Ripetilo, bimba mia.

— Mi sento bene, sono contenta.

Marcantonio non è soddisfatto, ma non accusa sua figlia; sente che è
colpa sua se quel primo incontro è quasi muto. Egli ha chiuso tutte
le vie per cui si versa la confidenza, credendo di chiudere una sola
porta, il passato.

— Vuoi parlarmi di te — le dice finalmente — vuoi parlarmi del tuo
dolore? Vuoi che colmiamo questo gran vuoto silenzioso che ci separa?
Parla, ti ascolto.

— Il passato non appartiene a me sola — mormora Serafina chinando gli
occhi.

Marcantonio ha inteso, ma non risponde.

— Vuoi tu sapere — le dice abbassando la voce — come ha vissuto questi
anni tuo padre? Gli ha vissuti come un egoista, non pensando quasi a
te, non si ricordando quasi che tu esistessi.

— Non è vero — dice sua figlia; — tu hai sempre pensato a me, ed io ne
ho molte prove. Eccone una; la riconosci?

Serafina, così dicendo, porge la mano a suo padre e gli mostra un
anellino d’oro. Marcantonio, sbigottito, apre la bocca per parlare,
ma non dice nulla. Senza volerlo ha preso un’aria d’ingenuità così
eccessivamente astuta, che Serafina deve minacciarlo col dito prima di
soggiungere:

— Tu credevi che non avessi a scoprire il segreto; infatti io non ci
avrei neppure pensato, ma Iginio, appena lo vide, disse: «Qui c’è sotto
qualche cosa» — e trovò subito quel che c’era sotto. Guarda...

Serafina si toglie l’anello dal dito e fa girare il castone sopra
un’imperniatura nascosta.

— Guarda, non pare che dica _Ama?_

— È vero — balbetta Marcantonio, esagerando senza volere la falsa
espressione d’astuzia — è vero, pare che dica _Ama_.

— E così dice; ma dice anche: Abate Marco Antonio. Sono le iniziali
del tuo nome. Ti dispiace che mio marito abbia scoperto il segreto? Se
sapessi quanto bene mi fece, e in che momento mi giunse questa tacita
consolazione!

A Marcantonio ripugna di mettersi nella condizione di un ladro
incorreggibile, il quale rubi anche gli oggetti che gli vengono donati.
Quel sentimento paterno, di cui forse il caso o forse un tentatore
anonimo di Serafina lo va facendo bello presso sua figlia, è certamente
un bel dono — ma egli sente che, accettandolo, ruba come un borsaiuolo.
Ah! se rifiutare quel vanto significasse solo accettare l’accusa di
uomo smemorato, o puntiglioso, o tenace, egli si affretterebbe a dire
a sua figlia: «Serafina mia, io non so nulla di questo anello, non
so nulla delle altre prove di cui parli — io non ho fatto mai nulla
per avvicinarmi a te, perchè ero puntiglioso, perchè ero tenace;
ma nondimeno ti ho sempre amata, ho sempre seguito ogni tuo passo
col pensiero, il mio amore dispettoso non ti ha perduto d’occhio un
momento.» Potesse egli dir questo e non mentire! Potesse egli, senza
menzogna, non apparire padre snaturato ed egoista.

— Ma tu lo sai — soggiunge Serafina — perchè io te lo scrissi. Le mie
lettere ti pervennero sempre, non è vero?

— Credo di sì.... — balbetta Marcantonio.

— Sì, ti giunsero sempre, quelle almeno che annunziavano una gran gioia
od un gran dolore, perchè ogni volta io ebbi la prova che il tuo cuore
di padre palpitava col mio povero cuore di figlia e di madre.

A quest’ultima parola, Marcantonio, coll’anima negli occhi spalancati,
ha intraveduto i grandi dolori e le grandi gioie di sua figlia, e un
tremito gli agita tutta la persona.

— Basta.... — mormora — per ora basta, ti fa male il parlar troppo....
più tardi mi narrerai il tuo passato, mi dirai tutto....

Serafina, inesorabile, ripete:

— Il passato non appartiene a me sola....

E a Marcantonio non sembra vero di celare la commozione dietro una
nuova arrendevolezza.

— Lo so, lo so — dice con un’impazienza carezzevole — benedetta
ragazza, lo so. Ebbene, sì, mi parlerai anche di lui. L’hai dunque
amato molto?

— Lo amo ancora tanto! — esclama Serafina accendendosi in volto.

— Sta zitta! Ora no, ti potrebbe far male; più tardi.

La faccia di Serafina impallidisce ancora, ma il suo sorriso di bontà e
d’indulgenza non si cancella.

                                   *
                                  * *

Marcantonio ha mutato forma e linguaggio, ma è rimasto quello che era
sempre stato in casa, un tirannetto; egli ha voluto ad ogni costo che
Serafina fosse ammalata e si mettesse a letto per guarire. Invano la
giovinetta ha protestato che il suo pallore e la sua debolezza non
sono se non le ultime traccie d’una recente malattia oramai vinta;
il professore, crollando il capo e affermando che non si lascerà
ingannare, l’ha costretta ad obbedirgli.

Con una commozione che è facile immaginare, Serafina è rientrata nella
sua camera d’una volta per dare la consolazione al babbo di vederla
ancora nel suo letto di fanciulla.

— Quando sarai a letto, mi chiamerai — le ha detto Marcantonio; — io
starò qui e sentirò subito.

Non vi è pericolo che si muova; egli è sempre lì, attento, dietro
l’uscio; ode il fruscio del vestito di seta nera, un vestito elegante
che sua figlia porta con tanto garbo, poi il rumore degli stivaletti
deposti a terra, ed ha appena il tempo di ricordarsi che quegli
stivaletti sono finissimi, e di pensare che in tutta la personcina
svelta di sua figlia egli ha visto le traccie d’un buon gusto che la
sola agiatezza è impotente a dare, ma che senza l’agiatezza non si
legittima, quando la voce di sua figlia lo chiama: «Babbo!»

Ed egli entra commosso, mentre Serafina ride colla testa sotto le
lenzuola, contenta ora di quel giuoco che non immaginava dovesse
riuscire così piacevole. Sulla seggiola, accanto al letto, non si
vede che la veste di seta, e a piè della seggiola gli stivaletti —
ingegnosa, come fu sempre, per dissimulare tutto ciò che non è gentile,
Serafina ha certamente nascosto il rimanente del vestiario.

— Bravissima — dice Marcantonio — bravissima; ora ritrovo la mia
Serafina, la ritrovo tutta, non ne manca nulla, sebbene non se ne vegga
nulla.

Serafina ride più forte, sempre col capo sotto le lenzuola.

— Tu ridi — dice il povero padre contento — dunque la guarigione
incomincia; ed ora lascia che io ti baci, come quando eri ragazza.

Serafina abbassa il lenzuolo che la ricopre, e mostra il bel viso un
po’ arrossato, cogli occhi lucenti per due lagrime che vi ha messo
la contentezza. Suo padre si china sopra di lei, e nel baciarla in
fronte nota che essa ha serbato agli orecchi due grossi diamanti, falsi
certamente, ma che splendono come se fossero veri.

— Sei contento ora? — chiede Serafina. — Per farti piacere sono venuta
a letto; tu per far piacere a me, mi lascerai levare. Vi sono stata
tanto a letto; ora non mi ci posso vedere.

— Sentiremo il medico — si prova a dire Marcantonio.

— Il mio medico, che è famoso in Milano, mi ha consigliato di fare del
moto senza affaticarmi, e di nutrirmi bene senza far indigestione; la
ricetta di chi sta benone.

— Qual è il tuo medico?

— Il dottor D....

— Ah! — esclama Marcantonio grattandosi con un dito le calvizie per non
ismarrirsi nelle congetture.

Lo riconosce, è impossibile durare nel primo proposito.

In quel buio di cui si è voluto circondare rispetto al passato,
penetreranno da ogni parte e ad ogni momento mille bagliori fuggitivi
che lo faranno più pauroso. Meglio cento volte la certezza.

— Se è vero che tu ti senti bene, se non temi che ti manchino le forze
— dice Marcantonio accarezzando colla grossa mano tremante il volto
soave di sua figlia — Serafina mia, parlami del tuo passato.

— Il passato non appartiene a me sola — risponde la giovine donna.

— Lo so, me l’hai detto; ebbene, parlami pure di _lui_.

Serafina non se lo fa ripetere, e comincia con accento in cui vibra una
commozione semplice:

— Iginio mio è l’uomo più stimabile che io abbia conosciuto sulla
terra, dopo mio padre; egli mi ha amato fin dal primo giorno come
doveva amarmi sempre, con una giocondità inalterabile, quasi per dirmi
che il nostro amore era e doveva essere una cosa lieta. Non è colpa mia
se non fu sempre così: anch’io ho fatto di tutto per essere felici, e
quando la disgrazia ha voluto provarci, ci ha trovato forti.

— La disgrazia.... — balbetta Marcantonio. — La disgrazia si chiamava
l’abbandono di tuo padre.

Serafina gli stringe la mano e lo guarda con amore, ma non dice di no.

— Si chiamò prima di tutto l’abbandono di mio padre — prosegue
melanconicamente; — poi prese altro nome più volte; ma sempre ci trovò
sorridenti e felici, perchè ci amavamo. Tu non hai voluto conoscere
Iginio; e pure egli era degno di te.

Il colpo è dato, e Marcantonio l’ha ricevuto senza protestare. Però
egli tace, e Serafina non può proseguire, perchè la commozione le dà
l’ansia.

Si risvegliano nella mente del disgraziato padre tutti i terrori di
poc’anzi.

— Lo vedi! — esclama. — Parliamo d’altro; questo discorso ti fa male.

— Questo discorso mi fa bene — ribatte la figliuola ostinata; — lascia
che io ti parli di lui. Ho sempre creduto di doverlo amare di più e di
non poterlo amare abbastanza, perchè tu non gli avevi dato un posto nel
tuo cuore; vorrei che, almeno ora, tu gli volessi bene.

— Gli ho perdonato tutto! — balbetta Marcantonio.

— Grazie — insiste Serafina; — ma lascia che io ti parli di lui. Quando
eravamo in paesi lontani, al caldo, al gelo, in compagnia della così
detta famiglia artistica, dove nessuno si ama sinceramente, chi mi
asciugava le lagrime, chi mi rendeva le forze, chi mi curava inferma,
sai tu chi era? Lui solo. Chi mi parlava di te senza rancore, sai tu
chi era? Era lui. Quando si aggravava sull’anima mia il tuo silenzio,
era lui che ti scusava. Oh! egli sapeva leggere nel tuo cuore, anche
da lontano, e non isbagliava mai. «Bisogna compatirlo — mi diceva —
egli è un po’ severo perchè è avvezzo a stare sulla cattedra...» Non
ti offende che dicesse così? «La sua scienza medesima è severa — non
devi sperare che ti scriva; egli ha giurato di non riconoscere più
sua figlia, e sono sicuro che alle tue lettere non risponderà per un
pezzo; ma tu scrivigli, è il tuo dovere prima di tutto, e poi, ciò
gli deve far bene.» — E quando, alla vigilia di diventar madre, in
un paese straniero, a Bucarest, mi giunse il tuo primo segno di pace,
quest’anello che non ha più lasciato il mio dito, egli, già delirante
per la febbre tifosa che me lo voleva rapire, mi disse: «Lo vedi,
Serafina, tuo padre ti perdona e ti dice: _ama_; egli ha scelto questa
via di esprimerti l’animo suo; è buono, tuo padre, io lo conosco; ora
fioccheranno i doni, vedrai. Ma non isperare già che ti scriva, non
bisogna pensarci; è fatto così, io lo conosco....» Ed indovinò proprio;
tu non mi scrivesti mai....

— No, io non ti scrissi mai — mormora Marcantonio lasciando cadere la
testa invasa da mille fantasmi fino a picchiare con un colpo sordo sul
marmo del tavolino da notte — no, io non ti scrissi mai.

— È tutt’uno — si affretta a soggiungere Serafina allungando una mano
per porgergli una carezza — è tutt’uno, la tua corrispondenza muta
mi ha consolato abbastanza. Noi ti avevamo offeso e non meritavamo
di più.... Quando nacque il mio povero Marcantonio, Iginio era ancora
convalescente; il tuo dono alla puerpera ci fece guarire più presto....
Mangiavamo la zuppa entrambi nella tua ciotola e colla tua posata,
prima io, poi lui... e un mese dopo egli cantava ancora, ed ebbe un
trionfo. Ti ricordi?

Marcantonio non risponde; egli ha chiuso gli occhi ed ha visto uscire
dal buio pauroso una personcina, che gli fa cento moine per indurlo
a giocare con lui. Il poveraccio vorrebbe fare un gran gioco di baci,
ma il piccino è restìo ai baci, ed egli non osa dirgli: «Io sono tuo
nonno!»

La scena buia si cambia di continuo; ogni parola di Serafina ne muta un
contorno, v’introduce o vi cancella un personaggio. Così sparisce per
sempre il piccolo Marcantonio, e il nonno, rimasto solo non riesce a
soffocare un gemito.

— Quando il mio bambino morì.... — prosegue Serafina; ma si arresta e
si turba, perchè ha udito un singhiozzo.

— Se tu lo avessi veduto! — ripiglia a dire lentamente dopo una breve
pausa. — Era il ritratto d’Iginio; aveva, come lui, gli occhi a fior
di testa, piuttosto grossi e tondi, ed aveva anche il suo sorriso; ma
la fronte l’aveva più alta, come la tua, e gli scendevano sulla nuca i
ricciolini, come a te.

Essa dice queste parole sorridendo, e intanto accarezza i ricciolini di
suo padre, ultime reliquie d’una capigliatura superba, che formava già
la maggior bellezza di Marcantonio.

— Queste cose — prosegue Serafina — io te le ho scritte tutte, ma nel
dirtele a voce, qui, dal mio letto di fanciulla, dove si svegliarono
tutti i miei affetti, dove ho sognato tanta felicità, nel dirtele così,
colla mia mano stretta nella tua, sento una gran dolcezza. Tu, babbo,
non t’infastidisci se ripeto cose che sai?

— No, Serafina mia, non m’infastidisco; dimmi tutto, tutto, tutto,
come se io nulla sapessi, come se il tuo babbo ritornasse da un cattivo
mondo lontano, in cui si dimenticano le persone amate. Dimmi tutto.

Marcantonio rialza il capo e sorride a sua figlia; la quale continua:

— Ti parlerò di lui, sempre di lui, poichè me lo permetti. Se tu
fossi penetrato nel suo cuore, se tu avessi visto di quanta bontà
egli era ricco, prima d’ora gli avresti perdonato l’offesa che ti
fece amandomi. A Barcellona, una sera, dinanzi ad un caffè, un povero
diavolo cantava la _Calunnia_ del _Barbiere_, accompagnandosi con una
chitarra. Ridevano tutti, ma erano risa di beffa, perchè la voce del
cantore era rauca, e la chitarra scordata; quando il disgraziato, che
aveva la fame scritta in tutta la persona, ma più negli occhi, andò
in giro per raccogliere l’elemosina, il primo a cui si accostò gli
disse una villania, e il secondo gli volse le spalle. Il meschinello
allora non osò proseguire il suo giro, mandò intorno uno sguardo
smarrito, raccattò il berretto, che aveva deposto a terra, e fece atto
di andarsene. Noi eravamo seduti lì presso, ed io aspettava, col mio
obolo in mano, che il disgraziato cantore si accostasse. Sai tu che
fece Iginio? Con uno sguardo ridente mi disse: Aspettami — poi lasciò
il tavolino e raggiunse il mendicante. «_Prestami la tua chitarra_.»
gli disse. — E là, in faccia a tutta la gente del caffè, in mezzo alla
folla dei passanti che ingrossava sempre intorno a noi, cantò, come
sapeva far lui, l’aria della _Calunnia_. — Era una cosa bella, babbo
mio, una cosa bella, sebbene la chitarra fosse scordata. Gli applausi
che scoppiarono in ultimo mi commossero più di quelli che mio marito
raccoglieva ogni sera in teatro. Restituì la chitarra al poveraccio, e
lo mandò in giro a raccogliere l’obolo.... Ad ogni moneta che veniva
buttata nel suo berretto, quell’infelice vi lasciava cadere una
lagrima; vi lasciai cadere anch’io la mia moneta e la mia lagrima, e
forse più d’una signora, debole come me, fece altrettanto. Ma io feci
qualche cosa di più, dissi al mio Iginio: _Andiamcene_, e ce ne andammo
subito, e appena ci fummo dilungati alquanto in un viale, gli diedi un
bacio furtivo, come se fossi la sua innamorata.

Serafina tace un momento, poi ripiglia:

— Iginio mio non si smentì mai; dal primo giorno che gli fui al fianco,
egli m’ispirò quel coraggio tranquillo e ridente, che è tanto raro
anche negli uomini. Quando tornai dal Cairo in Italia, e ci fu fatta
fare la quarantena a Napoli, in un brutto casone, come ingannammo noi
il tempo lungo? Cantando certe parodie in cui mio marito faceva molte
parti ad un tempo; il tenore e la prima donna, ammalati davvero, erano
rimasti al Cairo, ma non per questo si sopprimeva il duetto d’amore,
anzi era il pezzo più desiderato e più applaudito; faceva mio marito
le due parti. Faceva anche il coro, perchè i coristi e le coriste non
viaggiavano con noi, ed era impossibile star seri alla mimica del
coro maschile ed alle voci calanti del coro di donne. Era lui che
improvvisava certe festicciuole da ballo, in cui egli non ballava;
lui che ordinava le cenette, tanto per farci stare allegri. A lasciar
fare agli altri, si sarebbe morti di noia più presto che del colera;
egli accettava i ringraziamenti di tutti ma non era contento se non
sentiva da me che ero stata allegra. Mi domandava spesso: «Non ti
senti infelice molto?» — E quando io gli assicurava che, al contrario,
ero felicissima, egli mi diceva: «Sai bene che ho giurato di farti
felice, quando ti pare che io non riesca o che stia per commettere uno
sproposito, avvertimi.» Poi il cielo mi volle ridare la consolazione
che mi aveva dato e ritolto; mi nacque una bimba, e si chiamò Faustina,
come la povera mamma. Eravamo a Piacenza quando mi giunse tutto il
corredo che tu destinavi a mia figlia; anche allora, quanto bene mi
fecero quelle due parole: _A Faustina!_ Erano di tuo pugno, ed io le
riconobbi e le accolsi come un buon augurio. Io ti scrissi allora che
Faustina, così benedetta dal nonno, non mi sarebbe stata tolta, ma
sarebbe cresciuta bella e buona, immagine della povera morta di cui
portava il nome, per dirti un giorno l’amor suo....

Marcantonio ha sollevato la faccia pallida, e cercando di leggere negli
occhi di sua figlia, non respira più. Quell’ansia è breve; uno scoppio
di pianto la risolve, ma è pianto di tenerezza.

— Quel giorno è giunto — dice titubando la giovine donna. — Faustina
ti aspetta! Oggi ha cinque anni, e si è fatta carina. Dicono che mi
somigli molto, ma a me pare tutta la mia mamma. Essa ti conosce; ha
visto il tuo ritratto e le abbiamo parlato tanto di te! L’altro giorno,
prima che tu mi scrivessi quella lettera che mi ha colmato di gioia e
di turbamento, ha creduto di vederti dalla finestra e ti ha chiamato
forte: «Nonno! nonno!» Io era a letto, e v’era un tale....

Serafina s’interrompe; è rossa in viso ed ha l’ansia anch’essa.

— Un tale?

— Sì, un tale, che quel giorno non aveva nome ancora, ma che oggi ne ha
più d’uno.... egli piangeva perchè aveva appetito, e alla povera mamma
mancava il latte....

— Dio grande! — balbetta Marcantonio — tuo figlio, non è vero? E la tua
malattia era?....

— Sì, era.... — risponde Serafina.

Null’altro. Dopo un breve silenzio, suo padre chiede con voce rauca,
senza scostare la faccia dalle mani:

— Un maschio?

— Sì, un bel maschio; compie oggi il quarantesimo giorno....

— Imprudente! — mormora il padre — e si chiama?

— Marco, Antonio, Corrado, Iginio, Maria.

— Marcantonio! E dov’è ora?

— A balia. Ma Faustina è a casa ed aspetta la mamma.

— Andrò io — dice il povero padre; — la bimba mi conosce; tu non ti
muovere, ti potrebbe far male. Rimani qui tranquilla, sono le tre, è
l’ora della mia lezione al liceo — ma troverò un pretesto per rendere
felici i miei scolari.

Dette queste parole, Marcantonio si china a baciare sua figlia e
si allontana subito senza voltarsi. Ha la mente turbata e un gran
disordine nel cuore. Sente il bisogno d’esser solo. Serafina lo
accompagna cogli occhi fin sull’uscio, poi scende dal letto, dove era
entrata quasi vestita.

Le splende sul volto una gioia maliziosa.




IX.

DEUS EX MACHINA.


Sono le tre, è l’ora della seconda lezione di metafisica al liceo;
ma oggi l’ente, preso da pietà per le sue creature, ha permesso che
Marcantonio, uscito di casa coll’intenzione di andare ad annunziare
dalla cattedra: _brevis lectio!_ non si lasci nemmeno vedere in liceo.
Immaginate la festa degli esistenti della seconda classe liceale!

Marcantonio va verso la lontana via Torino; fedele al proprio costume
di non lasciar impigrire le gambe, egli cammina a piedi; ha fretta e
corre, ma intanto pensa.

Sono entrati nella sua mente alcuni quesiti tenebrosi, a cui ancora non
ha cercato di dare risposta. Eccone uno: «Il buffo Curti buon’anima in
che condizione ha lasciato la vedova?» Scrivendo al Signor Io, Serafina
diceva di non possedere altri capitali al mondo fuor che il cuore e
la sua bell’arte; ma presentandosi al babbo era vestita con eleganza
e portava grossi diamanti agli orecchi. Suo medico curante nell’ultima
malattia era il dottor D..., uno _specialista_ celebre, di quelli che
si fanno pregare due volte e pagare quattro. Stando solo a ciò, anche
se i diamanti sono da palcoscenico, la vedova Curti è _agiata_.

Così dev’essere. Non poteva un buffo onesto, dopo aver messo al mondo
due figliuoli, andarsene _ad patres_ buttando la famiglia addosso al
suocero, che campa malamente di metafisica.

D’altra parte la lettera è esplicita: «Sono povera, altro non posseggo
al mondo fuor che il cuore, eccetera»; e questo è detto ad un Signor
Io ignoto, che va in cerca di moglie nella quarta pagina del _Secolo_.
Che vergogna! pensa Marcantonio; mia figlia, spirato appena il termine
legale della vedovanza, madre di due figli, l’ultimo dei quali ha
trent’otto giorni soltanto, disporsi ad accettare il talamo d’un
anonimo! Che umiliazione se potesse mai sapere che quell’anonimo era
suo padre! Si può star sicuri che Marcantonio ha viscere paterne e non
le dirà nulla.

Ma come mettere d’accordo questa fretta di passare a seconde nozze
coll’amore ardente serbato al marito defunto? Che il cuore della donna
sia bizzarro, Marcantonio lo sa; ma a questo punto! La sola miseria
spiega, non giustifica, la cosa. Certamente, Serafina è povera, come ha
detto; non i suoi diamanti soltanto sono da palcoscenico, ma anche la
veste di seta nera. Già, Marcantonio di vestiti non se ne intende!

Il buffo Curti — quel meraviglioso fiore dei buffi — ha proprio fatto
la prodezza o la burletta — chiamatela come volete — di rubare la
figlia ad un padre, di generare due figli di sesso diverso, e di
morirsene poi per appioppare ogni cosa al suocero tradito.

Non importa! Marcantonio è preparato a tutto. Serafina è ritornata
nella casa paterna per non uscirne mai più; la piccola Faustina e
il piccolo Marcantonio cresceranno fra le pareti in cui è cresciuta
la madre loro, all’ombra della stessa grand’anima, confortati dalle
medesime carezze. Marcantonio non è ricco, ma alcuni soldi alla cassa
di risparmio ce li ha; s’ingegnerà di farli fruttare; alle due scuole
del liceo, ne aggiungerà una terza quando voglia; e così, con un altro
po’ di metafisica e con molta economia, bene o male, si camperà la vita
in quattro. E i registri dello stato civile non sapranno neppure della
doppia corbelleria che una comprimaria (comprimaria! e in che parte, o
lumi della ribalta, avete veduto Serafina sul palcoscenico?), che una
comprimaria e un professore erano lì lì per commettere.

Quando la mente di Marcantonio si è acquetata in questo pensiero,
altri quesiti tenebrosi le si presentano. Eccone uno: «Chi ha mandato a
regalare il fardelletto a Faustina? chi ha donato a Serafina l’anello
col segreto e la parola _Ama_ in caratteri maiuscoli? La parola _Ama_
contiene, è vero, le iniziali del suo nome, ma come? in questa maniera
stramba: Abate Marco Antonio, come si erano ostinati a chiamarlo sua
figlia e suo genero. Le vere iniziali di Marcantonio Abate, invece
di un consiglio amoroso, dovevano fornire una particella dubitativa,
la quintessenza di tutta quanta la umana filosofia. Dunque, chi ha
regalato il fardelletto e l’anello? _Lui!_ Chi ha mandato regolarmente
gli altri doni in risposta ad ogni lettera? _Lui!_ E queste lettere
dove sono andate? Egli ricorda benissimo di averne respinte tre sole; a
chi furono recapitate le altre?»

Così almanaccando, Marcantonio è giunto al numero 60 in via Torino.

Egli passa diritto dinanzi alla portinaia, ma costei lo segue e lo
trattiene.

— Chi cerca?

Chi cerca Marcantonio? La signora Camilla o la signora Curti?

— La signora Curti.

— Secondo piano, l’uscio in faccia alla scala.

Marcantonio sale, e sull’uscio indicatogli vede una scritta d’ottone,
in cui è detto semplicemente _Curti_. Suona il campanello senza
titubare, ma gli sembra d’udire un lieve rumore intorno a sè, si volta
e vede un finestrino con una cortina bianca sollevata da una grossa
mano. La mano sparisce, la cortina ricade: ecco dei passi che si
avvicinano all’uscio.

Strana cosa! il cuore di Marcantonio è aperto, e pure qualcuno vi
picchia forte gridando: «Aprimi, Marcantonio.»

                                   *
                                  * *

Si apre l’uscio, e un servitoruzzo alto quattro spanne, con un
giubbetto nero alto quattro dita, introduce Marcantonio in un’ampia
sala quasi buia. Quivi lo abbandona. Non gli ha chiesto il suo nome,
non gli ha dato tempo di dire chi cerca; è scomparso. Se avesse più
fiato in corpo, il professore richiamerebbe quel bimbo per fargli
intendere.... per fargli intendere che cosa?

Marcantonio guarda la sala in cui si trova; avvezzandosi all’oscurità,
gli occhi suoi cominciano a discernere certi mobili di foggie strane,
un pianoforte a coda, dei quadri con cornici dorate alle pareti;
facendo un passo, inciampa in uno sgabello turco, e chinando lo sguardo
a terra, riconosce che ha una pelle di tigre sotto i piedi. Dal mezzo
del soffitto scende qualche cosa, una lampada, una magnifica lampada di
bronzo antico; in fondo, sopra una colonna, un busto di marmo.

Nessuno viene, ed egli ripensa a quel bimbo che l’ha introdotto, a
quella bimba a cui è venuto a far visita e che gli fa battere il cuore.
Ora si aprirà un uscio in qualche parte e comparirà un altro fanciullo
a dire che la signorina si veste e lo prega d’aspettare. — Si fa un
giuoco infantile ben noto, si giuoca ai _signori_.

Gli occhi di Marcantonio sono già padroni della scarsa luce, e vedono
la sala nell’insieme — pare proprio una bella sala, mobiliata con un
certo disordine artistico. Gli oggetti più lontani si avvicinano per
farsi ammirare; i quadri appesi alle pareti sono ritratti antichi; il
busto marmoreo si modella sotto uno sguardo attento; ecco la faccia
tonda, ecco il naso, ecco i baffetti, ecco gli occhi del buffo Curti.
Ed ecco altri oggetti che prima si nascondevano: una coppa d’argento
sul caminetto: una statuetta di bronzo sorretta da una mensola fra le
due finestre, un grosso albo di ritratti sopra il tavolino di mezzo, un
orologio antico — e che altro?

Una porta si apre, e Marcantonio si volta da quella parte. Non è una
bimba!

— Qui non ci si vede — dice una vocetta fessa; — l’hanno lasciato al
buio.

La signora che ha parlato così si accosta ad una finestra e la
spalanca. Il sole, entrando, fa vedere ad un tratto tutte le sembianze
della sala e della signora. La sala è proprio bella — la signora è
proprio brutta.

— Io amo la luce — dichiara la signora: — e Marcantonio non può
trattenersi dal pensare che essa ha collocato male i suoi affetti.

Non è difficile, anche ad uno spettatore inquieto, accorgersi subito
che, non ostante la sincera bruttezza del suo viso, la povera signora
ha conservato qualche illusione sulle proprie attrattive, perchè il
suo sorriso indiscreto apre con frequenza una porta sgangherata, che
si chiude malamente, lasciando scorgere un dente canino giallo e una
striscia della gengiva superiore. Ha gli occhi tondi e li fa girare
in languido modo, come pallottole, il naso lungo, piantato in mezzo
alla faccia come un manico storto ed altrimenti deteriorato dall’uso.
Badando a queste cose come in sogno, Marcantonio scorge due vezzi di
moda che lo affliggono più della stessa bruttezza: la signora ha una
carnagione magnificamente bianca e rosea, e due sopraciglia tracciate
e dipinte con maestria. Per non mormorare contro l’ente, per non
dire che l’eterno padre, nel fare creature femminine a sua immagine
e somiglianza, da poco in qua viola spesso e volontieri le regole
più elementari del disegno di figura, facendo inopportuno sfoggio di
colorito, Marcantonio vorrebbe accertare se quelle sopraciglia non sono
fatte col sughero bruciato, e se quella pelle non è tinta colla biacca
e col carminio.

— Che cosa desidera il signore? — domanda l’incognita, accennando una
seggiola e lanciando un’occhiata assassina.

Il signore desidererebbe bagnare la punta d’un dito qualunque colla
saliva o con qualsiasi altro liquido incoloro ed inodoro, e fregare
poi pian piano una delle guance e una delle sopraciglia della signora —
non le farebbe alcun male; — ma non potendo esprimere questo desiderio,
dice senza pensarvi:

— Vorrei vedere Faustina....

Si cancella il sorriso dalla faccia della signora, la bocca sua si
chiude quanto è possibile nel domandare:

— Che cosa ci entra Faustina? Il signore non è dunque?...

Marcantonio capisce d’esser preso per un altro e si affretta a
presentarsi:

— Sono Marcantonio Abate, professore di filosofia, padre della signora
Serafina, nonno di Faustina, e vorrei vedere la bimba.

Egli ha messo tutta la dolcezza possibile nel dire queste parole
innocenti, che pure sembrano turbare la signora, la quale, solo dopo un
sospiro prolungato e misterioso, acconsente a sorridere un’altra volta.

— Andrò a vedere — dice.

Dice, e s’allontana con un’andatura sbilenca, mentre Marcantonio, a cui
rimane una gran confusione d’idee nel cervello, fissa gli occhi sulla
porta, d’onde immagina che dovrà entrare la sua bambina.

Intanto un uscio si apre alle sue spalle ed egli non se ne avvede.

— Quello? — domanda una vocetta.

— Sì, quello, corri; abbraccialo.

Marcantonio si volta; due manine gli stringono le gambe, ed egli non ci
bada neppure.

Colle spalle addossate ad uno stipite, colle braccia penzoloni, un uomo
lo guarda e gli sorride. — Ha la faccia liscia e tonda del buffo Curti,
i baffetti, gli occhi, il naso del buffo Curti — e non è uno spettro. È
il buffo Curti in persona!

— Nonno! — dice una vocetta ai piedi di Marcantonio.

Egli non risponde, non abbassa neppure lo sguardo verso la creaturina
che lo chiama per la prima volta con quel dolcissimo nome; altre
voci, irose voci, gli gridano sordamente: «Tu sei schernito, e il tuo
schernitore ride, compiacendosi dell’opera sua.» Come, e perchè? Ancora
non lo intende.

— Nonno! — ripete la vocina della bimba — non guardar _lui_, guarda me!

Egli guarda _lui_, e non ascolta se non la voce che grida: «Tu sei
schernito!»

Come e perchè schernito? Ora vede chiaro.

Anna Maria ha tradito il segreto del _Signor Io_, il buffo Curti ha
pensato alla gherminella, e a Serafina non si è disseccata la mano
destra nel pigliare la penna per beffarsi di suo padre. Così larga è
la voragine che gli si è aperta ai piedi nel momento medesimo in cui
credeva di ritrovare un’altra figlia e una nuova giovinezza del cuore,
che Marcantonio non sa se non balbettare:

— È un tradimento!

— Nonno — ripete la piccola Faustina — pigliami in braccio.

— Ma pigliatela dunque in braccio — gli suggerisce il buffo con una
ingenuità mostruosa; — è Faustina, la nostra ragazza, tua nipote.

— È un tranello, un brutto tranello! — mormora Marcantonio guardando
sempre più addentro nel nero complotto, e sentendosi morire di rossore
all’idea che sua figlia ha conosciuto i suoi disegni matrimoniali, e se
n’è beffata.

— Ma pigliala dunque in braccio — ripete il buffo Curti facendo un
passo incontro al suocero.

— Non si accosti a me — gli dice allora Marcantonio con voce sorda; —
la sua condotta è odiosa, ed io....

Non può finire la frase perchè riappare nella sala la brutta immagine
di poc’anzi, e Marcantonio vuole evitare lo scandalo.

— Ho cercato la bimba da per tutto; dov’è? Ah! sei lì, gioia mia?

Il buffo Curti, niente affatto sbigottito dalla cattiva accoglienza
che gli vien fatta in casa sua, si fa innanzi con gran disinvoltura, e
accennando al professore la signora dal dente giallo e dalla carnagione
di latte, gli dice tranquillamente:

— La signora Camilla, artista di canto, nostra buona amica, che ha la
bontà di occuparsi dell’educazione di mia figlia, invece di accettare
le scritture che non le mancherebbero.

La signora Camilla s’inchina, e (certo senza intenzione maligna),
sorride ed avventa uno sguardo di sotto in su al professore, il quale,
inchinandosi alla sua volta e ritrovando all’altezza del suo ginocchio
un visino petulantello, non si rialza più.

Ah! quanto è bello, e quanto caro, il visino petulantello di Faustina!
E pure, la prima carezza che riceve dalla mano tremante del nonno tanto
aspettato è una carezza sbadata.

Marcantonio va chiedendo a sè stesso se e come l’esistenza reale d’una
signora Camilla, artista di canto, in via Torino al numero 60, assolva
suo genero, o sua figlia, o tutti e due.

— Signora Camilla — dice intanto il padrone di casa — la ringrazio
tanto.

Queste parole significano che la signora Camilla se ne può andare;
infatti essa ripete l’inchino e l’occhiata omicida, e facendo un
tentativo inutile per nascondere il dente ribelle, se ne va più
sbilenca che mai.

Rimasti soli, il buffo Curti avvicina una seggiola al professore, e gli
dice, senza cessare di sorridere:

— Siedi; tu hai molte domande da farmi, ed io sono pronto a rispondere;
la piccina non ci disturberà.

— Signor Curti — risponde Marcantonio con una severità inutile — la
prego di non darmi del _tu_, finchè io non glielo permetta.

— È troppo giusto — dice il buffo senza ombra di canzonatura. — Signor
professore, si accomodi; se la bambina le dà noia, la deponga pure a
terra, oppure la manderemo di là.

— Voglio stare col nonno — dichiara Faustina appiccicandoglisi alle
gambe.

Marcantonio sta un po’ a riflettere a quella singolare posizione, e
sembra tentennare un poco prima di indursi ad accettare la seggiola. Ma
un’idea piena di baldanza, e forse non priva di generosità, gli viene
incontro, e il buffo Curti la vede venire. Marcantonio siede con faccia
severa, poi si piglia sulle ginocchia la bimba, la bacia, l’accarezza,
le sorride; in ultimo volge al genero perverso la faccia ridiventata
severa. Iginio Curti siede anch’egli, si frega le mani ed incomincia:

— Potrei risparmiare a me stesso e alla mia famiglia una collera
giusta, lasciando durare gli equivoci il più possibile e facendo
intendere più tardi che il solo colpevole è il caso; ma non voglio
avere l’impunità coll’inganno. Diciamo così: sua figlia, signor
professore, non sa nulla di nulla; il colpevole è uno solo, e non è il
caso.

— È lei? — domanda Marcantonio cercando invano di star serio, mentre la
piccola Faustina lo guarda e gli dice:

— Nonno, bada a me; perchè l’altro giorno, quando ti ho chiamato dalla
finestra, non ti sei fermato?

— Sono io — dice il buffo Curti, mentre il nonno fa tacere la bimba con
un bacio — io solo. Ieri Serafina, ricevendo la lettera del babbo, non
ci capiva gran cosa; io stesso penai tutta la notte ad intendere che
mio suocero mi faceva l’onore di credermi morto e sepolto. Quest’idea,
per esempio, non mi era venuta, lo dichiaro subito.

— Nonno — dice la piccola chiacchierina — mi hanno detto che tu sei il
babbo della mia mamma; è vero?

— È vero — risponde Marcantonio con un filo di voce, gettando
un’occhiata piena di rimprovero a suo genero.

Quell’occhiata significa: «È colpa tua, uomo scellerato, se io non
copro di baci questa boccuzza che pare un bocciolo di rosa: è colpa tua
se io non le dico tutto quello che vorrei dirle.»

Ma il buffo Curti interpreta male quell’occhiata, e vi risponde con un
gesto modestissimo, che significa: «Si è fatto quel che si è potuto, ed
è riuscita benino, non lo posso negare!»

— Il babbo mi vuol tanto bene — dice la bimba — e tu, non vuoi bene
alla mamma? Perchè non sei mai venuto? È tanto tempo che ti aspetto.

Un silenzio doloroso accoglie queste parole crudeli; ma la piccina è
furba, comprende di aver fatto male e s’ingegna di rimediarvi.

— Lo so, lo so perchè non sei venuto, lo so che alla mamma le volevi
bene; le hai mandato le chicche, le hai mandato la bambola, le hai
mandato....

Iginio Curti si affretta a proseguire:

— Avevo giurato a me stesso di far felice la sua ragazza, ed ho creduto
tante volte d’esservi riuscito, ma una cosa le mancava sempre: il cuore
di suo padre. Quella povera creatura, come lei sa, ha sempre voluto
tanto bene al babbo. A me toccò mentire più d’una volta, per darle una
consolazione.

— So tutto....

— Serafina le ha detto?... Spero che lei non l’avrà tolta da
quell’inganno; ciò che le ha fatto bene finora, può continuare a
fargliene in avvenire; non è questa la sua opinione?

Marcantonio fa cenno di sì, che la sua opinione è questa; ma col
pretesto della bimba, la quale gli ha piantato le due mani sul viso e
vuole che egli finga di mordere, non risponde altro.

— Sì, ho dovuto mentire tante volte. Le prime lettere che essa le
mandò, e che tornarono indietro intatte, colla sola soprascritta
mutata, di suo pugno, fortunatamente vennero consegnate a me, ed io le
conservo. Eccole.

Iginio Curti cava dal taccuino tre lettere e le presenta senza alcuna
affettazione a suo suocero, il quale, questa volta, non le rifiuta.

— In seguito — continua il buffo fregandosi le mani — sempre che
Serafina scrisse a suo padre, io intercettai le lettere. Capirà, non
volevo che, tornandomi a casa dopo un viaggio inutile, andassero nelle
mani di mia moglie prima che nelle mie. Ho conservato anche quelle,
ma non le ho indosso, perchè sono parecchie. Faustina, il nonno ora
ce l’hai; digli che non se ne vada più, che rimanga con te, così avrai
tempo di giocare con lui. Ma non cacciargli i pugni in bocca; le buone
bimbe non fanno così.

Faustina si volta tutta stupita a guardare suo padre, che le vieta una
cosa tanto semplice, ma comprende che bisogna obbedire.

— Quando fu necessario che Serafina ricevesse un conforto da suo padre,
io lo feci arrivare anche in paesi lontani.

— Lo so — balbetta Marcantonio.

— Ma tutto era vano. Lei sa com’è Serafina; si era messa in capo che
non poteva essere felice senza le carezze del babbo, ed io capiva
benissimo che queste non gliele poteva dare stando all’estero. Perciò
stavo all’estero.

Marcantonio rialza un tantino la testa, ma comprende subito. È il
segnale dell’ultima battaglia nel cuore del nonno, felice a suo
dispetto; dopo un breve silenzio, di cui Faustina approfitta per
cavare l’orologio dal taschino del nonno ed accostarselo all’orecchio,
Marcantonio, cercando di nascondere una lagrima fra i capelli della
bimba, porge la mano a suo genero senza dir parola. Iginio Curti la
stringe in silenzio e prosegue:

— Un giorno finalmente dico a me stesso che bisogna tentare il gran
colpo; era morto mio padre, lasciandomi erede d’una discreta sostanza
— mi rimaneva poca voce e poca voglia di cantare; dissi a mia moglie:
«andremo a Milano; darò lezioni di canto. Nostro figlio (io era certo
che doveva essere un maschio) sarà milanese e si chiamerà Marcantonio,
ma promettimi che non farai nessun tentativo di avvicinarti a tuo
padre se non te lo dirò io stesso, o se egli non te ne darà licenza.»
Serafina promise, ed eccoci a Milano. Fin dal primo giorno, io ebbi il
piacere di vederti uscire di casa e d’informarmi delle tue abitudini.
Il giorno dopo Anna Maria veniva a salutare la sua antica padroncina.

— Anna Maria?

— Sì, Anna Maria è stata un istrumento innocente; essa non sa quasi
nulla, cioè sa questo solo, che il suo padrone e la sua padroncina
sono lì lì per far la pace, e che intanto bisogna stare molto zitti per
non guastare la faccenda. Pochi giorni sono, quando era?... giovedì mi
pare, sì, giovedì appunto — giovedì dunque, Anna Maria viene da me e mi
dice che tu l’hai mandata all’ufficio del _Secolo_, che ha consegnato
uno scritto da inserire in quarta pagina due volte la settimana, il
giovedì e la domenica, per tre settimane consecutive, che ha pagato
lire 22 e centesimi. — Sai che cosa contiene quello scritto? — No, Anna
Maria non lo sapeva, però aveva notato che l’impiegato del _Secolo_ si
era messo a ridere sotto i baffi leggendolo, e che a quella vista un
altro impiegato si era avvicinato a leggere ed aveva riso anche lui,
ma sempre con discrezione. Divento curioso, curiosissimo, ma non voglio
guastare le buone qualità di Anna Maria, che è una fantesca preziosa, e
non dico altro.

— Nonno — dice Faustina mettendo la sua vocetta nel primo intervallo
del silenzio — me la comperi davvero la bambola che mi hai promesso?

— Sì, bimba mia, sì.

— Una bambola grossa come quell’altra....

— Sì, come quell’altra....

Faustina, entrata in questo argomento piacevole, avrebbe molte cose a
dire, ma non le danno retta, e si deve contentare della carezza muta
del nonno e del _tic-tac_ monotono dell’orologio.

— Si trattava d’indovinare il tuo annunzio perduto nella quarta pagina
del _Secolo_. Non era difficile; sapevo che l’annunzio era breve,
perchè ti costava poco, sapevo in quali giorni doveva essere inserito.
Cominciai dal pigliar nota degli annunzi che si facevano il venerdì e
il sabato — confrontando poi il numero della domenica, non vi trovai
che quattro avvisi nuovi; uno offriva un modo sicuro di vincere al
lotto, un altro una villa in Brianza, con 20 pertiche di terreno per
sole 60,000 lire, il terzo chiamava la gente ad una liquidazione di
bottiglie di Francia, il quarto era il tuo....

Un breve silenzio.

— Quell’altra — dice la bimba — ha perduto un braccio e non parla più,
ma io le voglio bene lo stesso.

— Ho bisogno di tutta la tua indulgenza — prosegue Iginio Curti
abbassando la voce. — La mia prima idea fu di costringerti a leggere
ad una ad una tutte le lettere di tua figlia, mandandole al nuovo
recapito, al Signor Io.... ma mi parve troppa audacia — non potevo
prevenire le conseguenze della tua collera. Bisognava fare altrimenti,
metterti innanzi tua figlia in un modo misterioso, destare non la
tua collera, ma la tua curiosità, e forse il tuo cuore. Ricorsi alla
signora Camilla. L’hai veduta la signora Camilla; non è bella, ma essa
si vanta in credito di un secondo marito, lo va cercando da un pezzo,
e non dispera di trovarlo. Le feci vedere l’articolo, e le misi in
capo di tentare. La signora Camilla mi pregò di scrivere io stesso,
perchè essa è russa ed inciampa ancora nella nostra ortografia, nella
nostra grammatica e nella nostra sintassi; io pregai Serafina. Avevo
una gran fiducia nel mio piccolo intrigo; mi pareva che, riconoscendo
i caratteri di tua figlia, subito si dovesse sciogliere il ghiaccio
del tuo cuore, ma non immaginavo certamente che, non ostante il nome
di Camilla, con cui era firmata la lettera, tu ti mettessi in capo
che il buffo Curti avesse tirato le calze e che tua figlia fosse
vedova davvero. Anche ieri, quando giunse la tua lettera, stentai a
comprenderla. Stamane ho detto a Serafina: «Tuo padre ti chiama, va,
parlagli del nostro passato, dei nostri figli; di me non gli parlare
se non te ne domanda; tieni in mente che, per non so quale concorso
singolare di circostanze, egli mi crede morto. Se ti sembra conveniente
toglierlo dall’inganno subito, fallo; se no, taci, avremo tempo —
ottieni il suo perdono e ritorna.» Così ha fatto.

— Serafina?... — balbetta il povero padre, a cui si sono stenebrati gli
occhi della mente e del cuore...

— È andata e tornata....

— Tornata....

— Forse — corregge il buffo Curti. — Vuole che vada a vedere se è
tornata?

Marcantonio comprende il senso di quella domanda e lotta ancora un
istante dentro di sè per rompere gli ultimi lacci del puntiglio e del
falso amor proprio.

— Tutto è pronto — dice Iginio Curti lentamente — e gli trema per la
prima volta la voce — tutto è pronto per andarcene.... Se lei vuole,
domani stesso partiremo.

— Serafina non sa proprio nulla? — domanda Marcantonio a capo chino.

— Nulla....

— La signora Camilla?....

— Aspetta il _Signor Io_, che non verrà.

Il professore alza il capo; un sorriso illumina la faccia di suo
genero, ma è un sorriso melanconico, che non lo deve offendere.

— Vuole che vada a vedere se è tornata? — ripete Iginio Curti.

— Dammi ancora del tu — mormora il professore senza guardarlo e
chinandosi a baciucchiare la bimba, che ora è occupatissima ad aprire e
chiudere un ciondolo a medaglione.

— Allora vado....

Iginio Curti rimane ancora un momento ad aspettare un’ultima risposta
che non viene; poi si muove e sparisce in punta di piedi.

Marcantonio si guarda intorno — è solo, nessuno lo vede.

— Faustina mia, senti, lascia stare quel ciondolo e guardami in faccia.

La bambina lo guarda in faccia, ma senza abbandonare il ciondolo.

— Chi son io?

— Oh! bella! non lo sai chi sei? sei il nonno!

— Ne sei proprio sicura che io sia il nonno?

Faustina fa una smorfietta di sussiego, e fa per scendere dalle
ginocchia di Marcantonio, ma è trattenuta.

— Aspetta — dice allora — lasciami andare — e il nonno la lascia.

Essa va a prendere sul tavolino di mezzo un grosso albo di ritratti, e
ritorna carica di quel peso, che la fa barcollare.

— Guarda — dice aprendo l’albo sulle ginocchia del nonno, questo qua
lo riconosci? È il babbo. Va vestito così soltanto in teatro, nel
_Don Pasquale_; aspetta, te ne farò vedere un altro più bello....
guarda questo prete.... È _Don Basilio_, ma è il babbo.... Questa è
la mammina, e questo sei tu.... Di’ un po’ se non è vero? Aspetta....
voglio farti vedere....

— Faustina — le dice Marcantonio accarezzandole il visino intelligente
— Faustina, dimmi la verità, gli vuoi proprio bene al nonno?

— Altro! — risponde la bimba fissa nella sua idea; ma aspetta; ti
voglio far vedere....

— Gli vuoi proprio bene tanto?

— Sì, tanto.

— Quanto gliene vuoi?

— Un mondo.

A Marcantonio non basta, e allora Faustina corregge così:

— Tanti mondi, e tante case, e tante stelle, e poi ancora tanti
mondi, e tante case, e tante stelle — finchè al nonno indiscreto pare
finalmente che basti.

— E come hai fatto a voler bene al nonno che non conoscevi, che era
lontano lontano?

— Io non so come ho fatto! mi hanno detto che bisognava voler bene al
_nonno_, ed io te ne ho sempre voluto.

— Chi ti diceva questo?

— La mamma e il babbo. Ogni sera prima d’andare a letto, la mamma mi fa
dire al Signore: «date la vostra benedizione al babbo, alla mamma ed al
nonno.» Te l’ha poi data il Signore la benedizione?

— Sì, cara, me l’ha data!

— Ah! — esclama Faustina seria seria, cercando ancora di voltare le
pagine dell’albo.

— Dunque, al nonno gli hai voluto bene per obbedire al babbo ed alla
mamma? — domanda Marcantonio; — per questo solo?

— No, anche perchè mi mandava le belle bambole e le chicche; ma
lasciami fare, voglio farti vedere i miei fratelli; non lo sai che ho
due fratelli?

— Due fratelli?... — balbetta il nonno.

— Sì, due; ma uno è morto, poverino! — dice Faustina senza ombra di
mestizia. — Eccolo, guarda; si chiamava Marcantonio, come te.... non è
vero che era bello?

Se era bello! Se era bello!

— Non è vero che non doveva morire? Ma è andato in paradiso!

Ah! i bambini non dovrebbero andare in paradiso!

— Questo qui, ripiglia Faustina, non si accorgendo che il nonno
ha gli occhi pieni di lacrime — questo qui è l’altro; è piccolo,
piccolo, piccolo; si chiama Marcantonio anche lui. Ma se vedessi
com’è piccolo!... È piccolo così.... ma è forte, il babbo dice che è
molto forte; bisogna sentire a mettergli un dito in una mano come lo
stringe!...

Marcantonio fissa gli occhi oscurati da un irresistibile bisogno
di pianto su quelle due immagini non mai vedute e già tanto care,
accarezza colla mano tremante la testina della bimba, e non dice nulla.
Poi, una lagrima cade sul libro aperto, e un ditino roseo la cancella.

— Che è stato? — domanda Faustina.

Il nonno ha chiuso gli occhi e piange — la mamma e il babbo abbracciati
nel vano dell’uscio, le fanno cenno di star zitta.

Essa tace; solo quando una lacrima cade sull’albo, la cancella con un
ditino.

Poi il nonno, che ha udito ogni cosa, chiama senza muoversi, senza
neppure aprir gli occhi:

— Serafina! Iginio!

E la bimba ripete inutilmente:

— Che è stato?




X.

L’ULTIMA IDEA DEL SIGNOR IO.


Oggi Marcantonio si sveglia nel suo nuovo letto con un pensiero
crudele, che gli è venuto in sogno: «Tu sei un egoista, dice a sè
stesso a bassa voce, hai veduto la felicità e te la sei presa; rovescia
le tasche, Marcantonio, e restituisci quello che non ti appartiene;
ritorna nella tua casa melanconica, dove soffrirono le persone che ti
hanno amato, ritorna alla tua scuola, e va a contare a quattro monelli,
che non ti daranno retta, la storiella dell’ente e dell’esistente.
Per goderti meglio la dolcezza dei nuovi affetti, che sono entrati per
isbaglio nel tuo vecchio cuore di scettico, tu, furbo, ti sei ammalato;
ma ora stai meglio, professore mio; t’affretta a guarire e vattene.
Vattene, questo non è il tuo letto, questa non è la tua casa, non sono
tuoi i sorrisi che ti salutano ogni mattina.»

Marcantonio si tasta il polso e la fronte. — «Non hai più nemmeno
l’ombra di quella febbre reumatica che ti ha obbligato ad accettare
l’ospitalità in casa di tua figlia: ahi! nemmeno l’ombra. Fatti
giustizia tu stesso, Marcantonio, levati e vattene senza far rumore
per non destare i tuoi figli. Quando tuo genero, quel grullo di tuo
genero, che ti ha conservato l’amore di tua figlia e ti ha fatto nonno
due volte perchè fossero in tre ad amarti, quello scimunito di tuo
genero che ti ha fatto bello d’una virtù da te non conosciuta mai,
che per vendicarsi del tuo disprezzo ti ha risparmiato il ridicolo, ed
ora ti prega a mani giunte di fargli l’onore di accettare la sua casa
e la sua mensa, quel tuo genero minchione che ti vuol strappare ad
ogni costo alla metafisica, perchè tu possa riposarti nel seno della
famiglia secondo il tuo legittimo diritto — quando questo tuo genero
inverisimile troverà il letto vuoto e l’ammalato scomparso, e correrà
a cercarti nella tua vecchia casa, tu gli dirai semplicemente che sei
sempre stato un egoista e che vuoi fare penitenza.»

Marcantonio prova a rizzarsi sui gomiti, poi pianta le palme delle mani
sul guanciale e si regge un momento tentennando; oh! dolcezza! pare che
le pareti della stanza barcollino, che il cassettone, la guardaroba e
l’ammattonato stesso si muovano — oh! dolcezza! Marcantonio è troppo
debole! Non può ancora lasciare il letto.

Marcantonio è troppo debole — ecco la sua scusa. Forse non gli
mancò mai la generosità dell’animo, forse il suo cuore non fu mai
sinceramente egoista; ma non gli si offrì l’occasione di credere alla
generosità degli uomini, e gli venne meno la forza di amare il prossimo
quando lo ebbe accusato di egoismo. O forse a lui stesso mancò la forza
di spegnere il proprio egoismo, e perciò solo ne accusò gli uomini
ed il mondo. Amò la generosità, e fu gretto; amò la grandezza, e fu
piccino — divenne scettico.

«Sì, Marcantonio, vi è lo scetticismo dei deboli, che è composto di
molte virtù andate a male. Tu, come tanti altri, avevi chiuso il cuore,
non per paura che lo ferissero le cose brutte da te viste nel mondo,
ma perchè ti piacque non credere alle virtù che non ti erano riuscite.
Questa è pure una forma dell’egoismo; ma consolati, è la più comune, è
la meno crudele, quella di cui si può guarire coll’amore.»

Il convalescente sorride alla salute che gli ritorna, e abbandona la
testa affaticata sul guanciale.

— Professore! — gli dice una voce, che ora non lo fa più adirare —
professore, come stai?

— Sto meglio, proprio meglio; e voi altri come state? Che fa Faustina?

— Faustina e Serafina dormono. Anna Maria era stanca, e perchè non si
levasse troppo presto, ho chiuso di nascosto le imposte della finestra.
Sono sveglio io solo; è l’alba. Dunque la va bene?

Il buffo Curti fa questa dimanda colla usata festevolezza; egli ha
l’aria di soffocare in ogni frase una risatina indocile, ma innocente.

— Sì — risponde Marcantonio sospirando — la va bene; ma ho provato a
levarmi, e non sono riuscito; sono tanto debole!

Dicendo queste parole coll’accento querulo degli ammalati che hanno
l’amore al capezzale, il professore pare che chieda misericordia collo
sguardo.

— Che bisogno hai di levarti? — domanda suo genero.

— I miei scolari.... — balbetta Marcantonio.

— Tu non ne hai più nemmeno uno; cioè, no, ne hai due di sesso diverso
— i tuoi nipotini. Non hai tu promesso?

— Come ho io potuto promettere una cosa simile?

— Non si domanda il come; ce l’hai promesso, e vi era un testimonio, la
signora Camilla.

Un rossore fuggitivo colorisce le guance dell’infermo, e il buffo Curti
ne comprende il significato.

— Sai? — gli dice senza malizia — ho in serbo molta roba per quando
sarai guarito.

— Che roba?

— Lettere al _Signor Io_.

— Oh! come!... — balbetta Marcantonio tutto stupito che l’accento
bonario di suo genero non permetta al suo amor proprio permaloso
nemmeno l’ombra del dispetto.

— Sono andato alla posta ed ho ritirato le lettere giacenti; e sai?
il distributore mi ha chiesto se il _Signor Io_ era proprio io. Gli
ho risposto di sì. Sono ventidue lettere; avrai da scegliere, se hai
ancora quell’idea....

— Vorresti credere?...

— Io no — risponde Iginio Curti semplicemente — io no davvero; ma
infine, se tu volessi proprio, padronissimo; intanto fino a quel giorno
ti sequestriamo.

— Non posso — dice l’infermo con voce gemente — non posso.

— Perchè?

— Perchè sono stato un egoista, perchè ho amato prima i miei comodi più
di mia figlia, poi la mia dignità di padre offeso più di mia figlia,
e perchè anche ieri, nel riconciliarmi con essa, io ricominciava ad
amare la pace della mia vecchiaia imminente più di mia figlia. Voi
mi offrite l’ozio studioso, gli agi, la tranquillità, e tutte le cose
che ho avute più care e che mi sono mancate in gran parte, ed una che
ho visto sempre da lontano e che ora è giunta fino a me e mi è più
cara di tutte, l’affetto. Lasciate che questo egoista pentito faccia
un atto generoso — io mi piglio l’affetto e vi abbandono il resto.
Tornerò nella mia casa, andrò a dire ad ogni oggetto che mi conosce che
Marcantonio è un altr’uomo; tornerò ai miei licei, e le mie scolaresche
sapranno che sopra tutti i trattati di filosofia ve n’ha uno che
bisogna leggere di buon’ora e studiare fino all’ultimo giorno della
vita.

Il povero Marcantonio sorride nel dire queste parole e si tocca
ripetutamente il petto coll’indice, guardando in faccia a suo genero
per invitarlo ad indovinare.

— Il cuore — dice Iginio Curti; ma suo suocero gli fa osservare che
quella non è che una pagina del gran libro, o tutt’al più un capitolo,
e allora il buffo corregge: — L’amore — e il professore nota che
l’amore è l’essenza della gran dottrina filosofica, ma non è un libro.

Iginio Curti non fiata più; allora Marcantonio dice con molta malizia:

— Il libro in cui bisogna imparare a leggere di buon’ora è un libro
chiuso; s’intitola: _Il Signor Io._

Ride Iginio Curti, oh! quanto ingenuamente ride! e Marcantonio, passato
il primo stupore, gusta una contentezza non provata mai, vedendo
accolta la sua sentenza severa con una risata così cordiale.

All’ultimo, poichè Iginio Curti non vuol smettere, Marcantonio ride
anche lui.

— Insegnerai ai tuoi nipoti a leggere nel gran libro — dice Iginio
Curti facendosi serio a stento — è cosa intesa.

— Me ne vado — insiste Marcantonio; — ti assicuro che me ne vado;
sono stato un grande egoista fino a ieri; da domani voglio fare la
penitenza; me ne vado.

Marcantonio prova a rizzarsi, ma non gli riesce, è troppo debole.

— Ohimè! non posso!

Il buffo Curti non ride più; nel suo cranio profano è entrata un’idea
filosofica, ed egli prima la guarda sbigottito, poi, senza staccarne
gli occhi della mente, perchè non se ne vada com’è venuta:

— Ti voglio fare una domanda — dice.

— Sentiamo.

— Fra le varie forme dell’egoismo umano, non ve n’è, o non ve ne può
essere una che sia come chi dicesse l’egoismo della penitenza?

Marcantonio apre gli occhi e la bocca.

— Non capisco — dice; ma ha quasi capito.

— Tu — prosegue il buffo Curti — rinunziando alle tue occupazioni per
venire a stare con noi, dai una consolazione a tua figlia; contenti me,
che, volere o non volere, sono il padre dei tuoi nipotini; rendi felici
colle tue carezze Faustina, per ora, e Marcantonio più tardi; ma se tu
ti ostinassi a dire che ti vuoi pentire, e ci negassi questa felicità,
non ti pare che saresti un egoista?




INDICE


  AVVERTENZA                              _Pag._  7
  I. — Il mio tempo presente                »     9
  II. — Il mio tempo passato                »    23
  III. — Il mio avvenire                    »    69
  IV. — Invito al talamo di Marcantonio     »    73
  V. — La gara — Fasi e catastrofe          »    83
  VI. — Marcantonio gioca                   »   107
  VII. — «Sono qua!»                        »   115
  VIII. — Si parla di Lui                   »   127
  IX. — Deus ex machina                     »   149
  X. — L’ultima idea del Signor Io          »   177




OPERE DI S. FARINA


  IL ROMANZO D’UN VEDOVO — 3ª ediz. corretta      L. 2. —
  AMORE BENDATO — 3ª ediz. diamante legato
    in tela                                        » 4. —
  IL TESORO DI DONNINA — 3ª ediz.                  » 4. —
  RACCONTI E SCENE — 2ª ediz.                      » 2. —
  CAPELLI BIONDI — 3ª ediz. leg. alla bodoniana    » 4. —
  UN TIRANNO AI BAGNI DI MARE — 3ª ediz.           » 1.20
  DALLA SPUMA DEL MARE — 3ª ediz.                  » 2.50
  FRUTTI PROIBITI — 3ª ediz.                       » 2. —
  ORO NASCOSTO — 3ª ediz. con ritratto             » 4. —
  PRIMA CHE NASCESSE — 2ª ediz.                    » 1.50
  LE TRE NUTRICI — 2ª ediz.                        » 1.50
  CORAGGIO E AVANTI! — 2ª ediz.                    » 1.50
  MIO FIGLIO STUDIA — 2ª ediz.                     » 1. —
  L’INTERMEZZO E LA PAGINA NERA                    » 1.50
  MIO FIGLIO S’INNAMORA                            » 1.50
  IL MARITO DI LAURINA                             » 2. —
  NONNO                                            » 1.50
  FRA LE CORDE DI UN CONTRABASSO                   » 1.20
  MIO FIGLIO! — ediz. comune, elegantissima        » 5. —
  AMORE HA CENT’OCCHI — Un grosso volume
    di 450 pagine                                  » 5. —





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL SIGNOR IO ***


    

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in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO
OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT
LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE.

1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied
warranties or the exclusion or limitation of certain types of
damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement
violates the law of the state applicable to this agreement, the
agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or
limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

This website includes information about Project Gutenberg™,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
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