Il partito radicale e il radicalismo italiano

By Romolo Murri

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italiano, by Romolo Murri

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Title: Il partito radicale e il radicalismo italiano

Author: Romolo Murri

Release Date: August 1, 2008 [EBook #26166]

Language: Italian


*** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK IL PARTITO RADICALE ***




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       BIBLIOTECA POPOLARE DI PROPAGANDA DEMOCRATICA

                            N. 1


                        ROMOLO MURRI
                   DEPUTATO AL PARLAMENTO


              _Il partito radicale
                    e il radicalismo italiano_




                       Primo migliaio

                            ROMA
                  COMITATO DI AZIONE LAICA
                          EDITORE
                    Piazza Trasimeno, 2
                       Prezzo: Lire 1




COMITATO DI AZIONE LAICA


Si è costituito in Roma fra alcuni volonterosi i quali sperano di
veder molti associarsi ad essi, per uno scopo di riscossa morale, di
educazione democratica, di liberazione delle coscienze che sono ancora
serve dell'ignoranza e del pregiudizio, di propaganda idealistica, un
_Comitato di azione laica_.

Esso intende di raggiungere i suoi scopi con tutte le forme di
propaganda diretta che gli saranno possibili: il libro, la rivista, la
conferenza, il convegno. Più, intende raggiungerli, indirettamente,
influendo su tutte le altre iniziative ed istituzioni le quali hanno
anche esse uno scopo di propaganda e di educazione popolare: la
scuola, il periodico, la biblioteca popolare, l'organizzazione di
cultura o professionale o di partito; fornendole di pubblicazioni
opportune, stimolandone l'iniziativa, coordinandone gli sforzi, per
ciò che riguarda la lotta per la libertà religiosa e l'educazione
morale.

Al comitato di azione laica si può appartenere in tre modi:

o come socio _promotore_, versando una volta tanto lire cento;

o come socio _effettivo_, versando lire dieci annue;

o come socio _aderente_, versando una lira annua.

I periodici aderiranno inviando solo una copia della pubblicazione
alla sede centrale ed impegnandosi a pubblicare le comunicazioni
ufficiali del Comitato.

Le associazioni possono aderire, versando un contributo annuo in
ragione di L. 0,50 per socio ed impegnandosi a collaborare
collettivamente, nei limiti del loro statuto e delle loro possibilità,
ai fini sociali.

La sede provvisoria del Comitato è in Roma, piazza Trasimeno, 2, alla
quale chi voglia può rivolgersi, mediante cartolina con risposta
pagata, per chiedere copia dello statuto ed altre informazioni.

Sezioni del Comitato possono essere istituite dovunque sieno almeno
dieci soci regolarmente inscritti presso il Comitato centrale, e con
l'approvazione di questo.




       BIBLIOTECA POPOLARE DI PROPAGANDA DEMOCRATICA

                            N. 1


                        ROMOLO MURRI
                   DEPUTATO AL PARLAMENTO


              _Il partito radicale
                    e il radicalismo italiano_




                       Primo migliaio

                            ROMA
                  COMITATO DI AZIONE LAICA
                          EDITORE
                    Piazza Trasimeno, 2




                           INDICE


  Che cosa vuol essere la nostra B. P. di propaganda democratica  Pag. 3
  Rinnoviamoci                                                         5
  Alcune indicazioni sicure su quello che è il radicalismo            12
    Clericali contro radicali                                         12
    L'on. Giolitti e la sua politica                                  15
    Dissensi e consensi fra radicali                                  21
  La storia del partito radicale                                      24
  Il partito radicale oggi                                            32
  L'antitesi fondamentale                                             37
  Democrazia e demagogia                                              44
  Radicalismo e socialismo                                            48
  Democrazia e anticlericalismo                                       53
  Programma pratico di laicità                                        58
  Le due concentrazioni                                               63
  La trasformazione dello Stato                                       66
  I Sindacati                                                         71
  Politica di consumi e finanza democratica                           79
  Esercito e spese militari                                           82
  Il programma politico sociale                                       85
  L'organizzazione radicale                                           91
  Concludendo                                                         96





Che cosa vuol essere la nostra B. P. di propaganda democratica


Diciamo nel corso di questo volumetto che cosa è per noi la
democrazia. Essa è la stessa coscienza umana in moto per la conquista
di sè, delle sue fedi, delle istituzioni sociali.

Alla democrazia che è scuola e milizia appartengono quindi solo coloro
i quali sentono in sè l'affanno ed il pungolo di più sicure libertà,
di una più alta giustizia, di una più larga ed efficace bontà umana.
Essa è idealismo ed altruismo in azione; è il senso delle
responsabilità morali, dei doveri, della missione che quelli i quali
vogliono esser dei viventi, e non solo dei passivamente vissuti,
sentono essere inscindibilmente uniti alla vita. Lavorare per la
democrazia è lavorare per l'avvenire.

Oggi, in Italia, alla vigilia delle elezioni generali, si discutono e
si agitano innumerevoli voli problemi: e tutti riguardano non
l'uomo--il popolano, il dotto, il governante--o il partito come
dovrebbe essere, ma quello che qui o là bisognerebbe fare; e si
dimentica che gli uomini operano secondo ciò che sono o hanno
nell'animo; che, divenuti migliori, essi farebbero certamente cose
migliori; accesi di fervore per il bene pubblico e sociale,
troverebbero facilmente dove e come questo bene va fatto.

Contribuire a diffondere il concetto della democrazia come educazione
di sè, come acquisto del senso del _proprio_ dovere sociale, come
accensione di fedi, sarà lo scopo di questi volumetti.

Essi intendono quindi tornare indietro, di là dal periodo della lunga
decadenza, agli uomini i quali nella generazione che fece l'Italia
instillarono il senso del dovere eroico; passare innanzi, sorvolando
su tutte le miserie presenti, associandosi allo sforzo pensoso e
disciplinato dei giovani che vogliono conquistare sè stessi per
dedicarsi alla vita pubblica con animo generoso e disinteressato di
combattenti per una idea.

Un nome, innanzi a ogni altro, vogliamo inscrivere su queste pagine
come auspicio: MAZZINI.




Rinnoviamoci


Alla vigilia del primo esperimento del suffragio universale, è
necessità di vita pei partiti italiani accingersi alla conquista delle
nuove masse elettorali; e, poichè esse hanno scarsa o nulla la cultura
e la preparazione politica, trovar nelle file degli antichi elettori e
fra i giovani e i fervidi un fascio di volontà animose nelle quali
rinnovare e ravvivare la persuasione del proprio programma, per poi
lanciarle alla paziente conquista della massa anonima e delle folle.

Ma la crisi dei partiti italiani non fu forse mai più grave e
profonda. Di tutti meno che del clericale; il quale se, per i
conflitti interni che lo agitano e per la lenta inesorabile
dissoluzione del cattolicismo romano, dovrebbe essere in peggiori
condizioni degli altri, riposa sulla attività di molti per i
quali--rimossa, ogni intima inquietudine religiosa--clericalismo e
sacerdozio sono solo un affare ed una professione, e sulla docile
acquiescenza di masse nella cui coscienza non è ancora accesa, con la
luce di una nascente consapevolezza di sè e della propria storia, la
fiamma della libertà.

Di questa crisi dei partiti si è tanto parlato dal 1876 ad oggi, che
essa è divenuta un luogo comune; e s'intende bene che una crisi la
quale dura da quarant'anni non è più crisi ma un ciclo; e come tale,
nelle condizioni oggettive che la provocarono, va esaminata.

Ma un tale esame sarebbe la storia di questo periodo di vita italiana;
storia la quale, per quel che riguarda l'Estrema sinistra, può essere
idealmente divisa in due periodi: quello della difesa, del
consolidamento, dell'estensione delle libertà civili, che va sino alle
elezioni politiche del 1900 e ai cento deputati di Estrema dinanzi ai
quali cadde il ministero Pelloux; e l'altro che incomincia molto
innanzi, con l'oscura intuizione e il precorrimento di una nuova
rivoluzione sociale che ebbero già i maggiori uomini della Estrema, da
Garibaldi a Bovio, segue e si svolge con il nascere e il crescere del
partito socialista e assicura a questo, con l'opera politica e
parlamentare, le condizioni essenziali di vita e di sviluppo dinanzi
alla reazione delle classi minacciate, sinchè lo risolve in una
politica positiva di riforme sociali da chiedere e raggiungere
mediante l'accordo del proletariato con le più avanzate frazioni di
estrema, e ricaccia i riluttanti verso il rivoluzionarismo.

In questo schema, sostanzialmente così semplice, si svolsero i
contrasti e le lotte, solo a brevi tratti vivaci ed appassionate, dei
partiti politici italiani. Il lento ma sicuro progresso delle idee
democratiche affaticava nelle profondità, onde l'opera superficiale
dei partiti emergeva a tratti, avvivava la coscienza nazionale, e
celebrava silenziosamente le sue conquiste, spostando insensibilmente
i partiti e conducendoli a contatti e a fusioni ed a cozzi
(Cavallotti-Di Rudinì, Sonnino-Pantano, Luzzatti-Sacchi) che la loro
logica avrebbe poco innanzi ripudiati e trovati assurdi.

Poichè, nel parlar di partiti, noi cadiamo sovente in due illusioni;
l'una, suggeritaci dalla storia costituzionale inglese, che essi sieno
o debbano essere unità permanenti e parallele entro le quali si
svolga, in contrasti ed alternative normali, la vita politica di un
paese; cosa che è realmente avvenuta in Inghilterra, ma solo in essa.

L'altra illusione, anche più pericolosa, è quella di applicare alla
storia e allo studio dei partiti, realtà perennemente mutevole e
fluente, schemi, idee astratte, tradizioni, programmi irrigiditi in
formule, i quali sieno venuti perdendo il loro significato sino a non
averne più alcuno o quasi.

Per giudicare utilmente e saggiamente di un partito, bisogna, dunque
riferirsi a tutto il complicato processo della vita sociale e politica
di un paese, al cozzo degl'interessi sociali, alla dialettica
immanente delle grandi idee rinnovatrici, e vedere se di questa
vivente realtà sociale esso si nutre, se per essa mantiene intatte le
sue ragioni di essere, parola e strumento efficace di lotta.

Con questo criterio io esaminerò, come il lettore vedrà, rapidamente
le tradizioni, lo stato attuale, il programma del partito radicale e
del radicalismo italiano.

Del radicalismo, dico, e non solo del partito radicale; poichè quello
è un fatto assai più vasto e profondo che non sia questo. Nel partito
degli ultimi tempi mal si cercherebbe--chi non lo riconosce?--intiera
l'anima del radicalismo italiano; esso fu cosa troppo strettamente
politica e parlamentare: non si arricchì delle nuove correnti ideali,
non partecipò ai moti spirituali che affaticarono profondamente e
rinnovarono in parte la coscienza italiana, non seppe veder subito
quello che, nel socialismo, era cosa e compito suo, non osò erigersi
giudice del parlamento e dello Stato nel nome di un diritto nuovo che
si andava lentamente facendo.

Ma se è facile criticare ed attaccare il partito radicale per quello
che esso non fu e non fece, la critica è sterile e diventa malvagia
quando non riconosce che esso ha conservato una tradizione ed un
organismo, che è un istituto politico nel quale il radicalismo diffuso
e disperso, cercante ancora le sue espressioni e la coesione politica,
può e deve precipitarsi, per rinvigorire il partito e rinnovarlo e
muovere per mezzo di esso alla conquista della vita pubblica.

Abbondano in Italia gl'ingegni e gli animi fervidi e si discute, assai
più vivacemente--ed è buon segno--da qualche tempo, di problemi
pubblici e delle direttive che è necessario imprimere alla nostra vita
nazionale, e gruppi di volonterosi si formano intorno a vecchi
combattenti o ad uomini nuovi e cercano animosamente di chiarire a sè
e al paese e definire le fedi intorno alle quali, come a bandiere,
raccogliersi¹.

  ¹ Ricordiamone alcuni dei più recenti: riformisti di destra,
    nazionalisti, liberisti--i quali hanno recentemente costituito un
    comitato di azione--salveminiani, raccolti intorno
    all'_Unità_--comitato per il mezzogiorno anche esso costituito nel
    giugno scorso in Roma.--E i vecchi partiti di Estrema si vanno
    dividendo e suddividendo in frazioni, per l'affannosa ricerca di
    un programma.  E questo idealismo rinascente ha una grande cura,
    pressochè in tutti, di affermarsi realistico e studiare problemi
    pratici; segno di promettente maturità...  quando non è indizio di
    superstite positivismo.

Ma nessun uomo è così alto da aver l'autorità di un maestro e segno
dell'idea nazionale, quale lo invocava, negli anni della decadenza,
Agostino Bertani¹. E i gruppi e le scuole e le iniziative sorgono e si
moltiplicano e si spezzano e si disperdono perchè, purtroppo, i
giovani italiani non hanno ancora acquistato o educato in sè il senso
della disciplina, della lealtà (la _loyalty_ che è, in Inghilterra, la
base dei partiti e la forza della vita pubblica), del sacrificio che
ciascuno il quale lavora veramente per un'idea deve pur fare ad essa
di una parte di sè, delle sue ambizioni, di ciò che la coscienza gli
dice non esser la sostanza e la ragione della lotta, ma modo
occasionale e personale di vedere.

  ¹ Scrive L. Fera nella prefazione ai discorsi parlamentari di
    Agostino Bertani, pubblicati testè in grosso volume per
    deliberazione della Camera dei deputati:

    «Vigile e severo non mancò di resistere alle deviazioni degli
    uomini e dei partiti nel periodo incerto del trasformismo e in un
    momento rapido di depressione degli spiriti e di smarrimento degli
    ideali proruppe in un grido dell'anima offesa:--Al governo manca
    il sacerdote dell'idea nazionale, che interpreti i plebisciti e
    compia tutto quello che possa giovare alla nuova Italia.--

    «Il sacerdote dell'idea nazionale è l'invocazione fulgida e
    solenne che erompe dall'anima eroica della generazione che ha
    partecipato alla formazione del colossale edificio della patria e
    dovrebbe essere il monito suggestivo delle generazioni che
    all'opera mirabile intendono portare il contributo di nuove
    energie e di nuove speranze».

Le salde coesioni di uomini si formano là dove taluno dirige nel quale
traspare da tutta la vita la devozione generosa ad un grande ideale e
molti seguono, condotti e disciplinati dalla potenza dell'eroe. Dove
questo manca, dove al difetto dei grandi agitatori e conduttori non
supplisce in parte la disciplina dell'unità dello sforzo, non sono che
labili coesioni d'interessi, tentennamenti e discordie, transazioni e
piccole viltà e opportunismi male velati di saggezza politica.

Quelli che anche al partito radicale rimproverano questo oscillare ed
oscurarsi dell'idea in coscienze fiacche ed opache e, dinanzi
all'avvento di cinque milioni di elettori nuovi alla vita pubblica,
invocano una nuova e più vigorosa attività che dirozzi questa massa e
la educhi e trovi nelle sue confuse aspirazioni il segreto di un
programma di nuova attività sociale e politica, debbono più che ogni
altro curar di risalire alla visione della democrazia come di affanno
e slancio e programma di un partito di avanguardia, ricollegarsi con
commosso fervore e ricordo agli uomini eroici che così la intesero e
praticarono, frugar la viva anima popolare per sprigionarne, con la
luce di un programma, l'entusiasmo vittorioso, darsi, con tenace
operosità, ad un lavoro di organizzazione.




Alcune indicazioni sicure su quello che è il radicalismo


I clericali contro i radicali

Molto, come è noto, si discute ora del partito radicale; e molti
maligni sorridono e motteggiano da tutti i canti d'Italia. Ma nello
stesso criticarlo e motteggiarlo che si fa, vengon poi messe
involontariamente in rilievo dagli avversarii le caratteristiche e le
funzioni di esso.

Notate, innanzi tutto. Il grido: dagli al radicale, fu gettato da una
sala del patriarcato di Venezia, in quel famigerato discorso del conte
Dalla Torre che rinnovava procacemente l'ipoteca del Vaticano su Roma
e su tutta la nostra vita pubblica. Giova ricordare le precise parole
del conte padovano:

«È a questo nemico più pericoloso d'ogni altro che noi non possiamo e
non dobbiamo dar tregua. Dobbiamo ricordare che l'azione del
radicalismo è subdola quanto il suo programma di adattamenti e
d'infingimenti, atti a farlo apparire quasi il partito del giusto
mezzo; e se osa ufficialmente proclamarsi anticlericale, sa
privatamente trovare anche per ciò il giusto mezzo, promettendo
neutralità... per giungere al potere, ove non tarderà al tradimento.
Ricordiamo che il radicalismo è l'agente politico della massoneria¹,
più e meglio che il socialismo non ne sia l'agente sociale; ricordiamo
che chi precipitò l'êra del laicismo, chi determinò la laicità della
scuola, chi proporrà qualsiasi attentato ai nostri diritti ed ai
nostri principi fu e sarà, questo organismo, indefinibile nel suo
intento e nel suo programma, ma tenace ed inconvertibile quanto lo può
essere l'ambizione dei suoi, prima ed unica sua ragione di essere»².

  ¹ La Massoneria fu per lungo tempo ed è lo spauracchio del quale i
    clericali si servono per commuovere i loro; ed oggi trovano
    opportuno riagitarlo. In questi ultimi tempi si ebbe alla Camera e
    al Senato una levata di scudi, da parte di clericali e moderati,
    contro la Massoneria; ed altri (nazionalisti, giovani socialisti,
    Unità) si uniscono nell'assalto. E, dall'altro lato, un notevole
    risveglio della Massoneria va avvenendo; non avviene all'aperto,
    ma lo si scuopre a numerosi indizi.

    Certo a noi dispiace che la questione della libertà religiosa sia
    posta in Italia come questione fra clericalismo e massoneria; e
    tutti sanno il lungo sforzo che andammo e andiamo facendo per
    porla su di un terreno più largo, scevro d'ombre e di pregiudizi.

    Ma parecchie cose sono da notare: e, prima, la solita ipocrisia
    clericale, che s'adombra e si allarma del tentativo di conquista
    dei poteri pubblici e dell'esercito da parte della Massoneria,
    quando i clericali stanno facendo altrettanto. Il segreto, che si
    rimprovera a quella, non muta sostanza alla cosa; e ad esso fa
    riscontro l'abuso della protezione che i cattolici godono come
    Chiesa per avvantaggiarsi come partito. La Massoneria, inoltre,
    non ha mai figurato nelle graduazioni dei partiti e delle dottrine
    politiche come cosa a sè; essa va dal partito democratico
    costituzionale--se pure non si spinge, saltando i clericali, sino
    all'Estrema destra--ai socialisti. Quello che in taluni luoghi la
    Massoneria ha fatto e va ora facendo: blocco delle forze popolari,
    risveglio dei partiti di sinistra, propaganda anticlericale, è,
    evidentemente, negli interessi della democrazia.

    La questione della Massoneria è quindi piuttosto una questione di
    metodi e di mezzi. Se, per opera di essa, la lotta contro il
    clericalismo dovesse un giorno assumere forme giacobine ed andare
    oltre le intenzioni di quelli i quali hanno cura di distinguere il
    clericalismo e l'azione politica della gerarchia cattolica (ai
    quali non va data tregua) dalla fede popolare, che dalla scuola, e
    non dalla politica, attende le sue rinnovazioni, la colpa non sarà
    nostra.

  ² Parecchi radicali del Mezzogiorno mi esprimevano l'opinione che
    non convenisse al partito prendere un più energico atteggiamento
    in materia di anticlericalismo per non complicare situazioni
    elettorali delicate e pericolose. Ecco, ora, che cosa rispondono i
    cattolici.

    Il _Giornale d'Italia_, il 12 giugno, dava, sull'atteggiamento dei
    cattolici nelle elezioni, un'intervista con un cattolico,
    evidentemente bene informato, nella quale si legge:

    «--Dunque guerra anche ai radicali?

    «--Come e anche più che agli altri bloccardi. Anzi, sono i più
    pericolosi, poichè sono facili a vestirsi con la pelle
    dell'agnello nei Collegi salvo a tramutarsi in lupi alla
    Camera. Le dirò che specialmente nel Mezzogiorno si è dovuta
    richiamare l'attenzione dei cattolici sul pericolo appunto di
    lasciar riuscire dei candidati che reggono magari il baldacchino
    nelle processioni al paese e viceversa si schierano col blocco
    anticlericale a Roma. Si è raccomandato a tutti di non lasciarsi
    sedurre da simpatie personali e d'inspirarsi esclusivamente ad un
    criterio politico. Ormai non è più il tempo di trastullarsi;
    bisogna difendersi».

Poi, dopo il noto discorso Giolitti del 15 marzo alla Camera, sono i
giornali del _trust_ cattolico, recenti dalla confessione e dalla
assoluzione papale e ancora in debito della penitenza, che diguazzano
allegramente e si dilettano nella critica al radicalismo, in una lunga
serie di interviste debitamente commentate. Prima e non spregevole
indicazione, dunque: _il radicalismo è il partito che i clericali
papali sentono il dovere di combattere furiosamente, prima che ogni
altro avversario antico o recente_.


L'on. Giolitti e la sua politica

Ma l'attacco, iniziato con l'invettiva sonora, diviene motteggio e
scherno dopo il noto discorso dell'on. Giolitti sul bilancio
dell'interno e la risposta data in esso all'on. Fera. È inutile
negarlo: i sorrisi ironici dell'on. Giolitti, che già nella bocca dei
deputati della maggioranza negreggiante divennero risa, si son diffusi
pel paese nel suono di una risata allegra e malvagia, nella quale
taluni han corso il rischio di spostar le mascelle¹.

  ¹ Diceva Bovio nel discorso in morte di B. Cairoli: «Sulle rovine
    dei vecchi partiti suonò arguta l'ironia del vecchio (Depretis) e
    si rise spensieratamente fino a Dogali». E rispondendo il 30 marzo
    nella _Tribuna_ a Francesco Crispi, il quale aveva detto pochi
    giorni innanzi alla Camera: «Non c'è più nulla di partiti
    parlamentari alla Camera; i partiti politici sono morti ai piedi
    del Campidoglio», scriveva: «Chi consegna all'archeologia i vecchi
    partiti ufficialmente ha il dovere di accennare non le sue idee ma
    dove sorgono i partiti nuovi. Se egli non li vede o li ha in
    dispetto, sostituisce sè alla storia».

L'on. Fera aveva detto, in sostanza, al presidente del Consiglio: noi
radicali siamo una tradizione, una dottrina e una tendenza; tendenza
di affrancamento dell'anima italiana dal dominio del prete, di riforme
radicali nella finanza e nell'amministrazione, di conquiste sociali.
Intende, l'on. Giolitti, continuando a valersi della partecipazione e
dell'appoggio nostro al suo governo, continuare a secondare questa
tendenza, far suo, per quanto le esigenze di una politica positiva
permettono, questo programma? Intende avvalorarlo con le forze che un
governo può legittimamente ed onestamente, dare alla diffusione nel
paese delle idee ed al prevalere degli uomini di parte radicale?

E l'on. Giolitti rispose schermendosi; osservo che all'attuazione del
programma di questo ministero, il quale era piaciuto ai radicali,
uomini di tutti i settori della Camera avevano concorso; disse di
sentirsi radicale anche lui, se radicalismo era intento positivo e
realistico di riforme, ma di non vedere quale programma, di tutti i
radicali e solo di essi, proponesse l'on. Fera al governo; mentre
invece pareva a lui che anche nel partito radicale fossero molte
opinioni diverse, se non addirittura _tot sententiae quot capita_;
esser quindi meglio non insistere; non tentar neanche di definire;
perchè _omnis definitio periculosa_.

Non so se proprio il collega Luigi Fera inducesse con il suo discorso
il presidente del Consiglio ad occuparsi del gruppo radicale. Certo
l'occasione fu buona; ma le parole dell'on. Giolitti rivelavano un
pensiero che doveva esser spuntato da tempo e maturatosi poi del
malumore di molti giolittiani e assumere, nel momento opportuno,
importanza di una chiara designazione di tattica elettorale del capo
del Governo.

Della legittimità e dell'opportunità della partecipazione dei radicali
al ministero Giolitti dirò brevemente appresso.

Qui giova notare come chi conosca, le più certe tradizioni della
politica giolittiana dovè prendere quell'accordo per ciò che esso
valeva nel fatto e nell'atto, senza sperarne un valore programmatico e
di avvenire. Valeva per quello che i radicali erano e potevano quando
fu stretto, non perchè ulteriori conquiste fossero dall'accordo
assicurate ad essi; significava consenso in punti di programma
definiti--quelli che poi l'opera legislativa venne attuando non
indirizzo recisamente democratico-radicale dato al Governo per la
preparazione di una nuova situazione politica, al radicalismo ancora
più favorevole.

E quando il lato, diremmo, positivo dell'accordo era quasi esaurito,
dinanzi ad una Camera moribonda e senza opposizione, conveniva all'on.
Giolitti, per tranquillizzare i suoi, e ripigliare intera--se pur ce
n'era bisogno--la sua libertà dinanzi e di sopra ai partiti, metterne
in rilievo il lato negativo.

E del resto, anche da parte dei radicali, l'andata al potere insieme
con l'on. Giolitti fu riconoscimento di una situazione di fatto più
forte di ogni riluttante proposito, e che la loro permanenza nel
ministero, lungi dal modificare, ha consolidato.

Molti deputati sono--l'on. De Bellis lo dichiara a ogni
momento--giolittiani, non ministeriali. Votano anche proposte
radicali, purchè sieno persuasi che esse vengono dall'onorevole
Giolitti; questi deve esser garante della bontà del programma e,
rimanendo al potere, della saggezza delle applicazioni. Hanno
tollerato i radicali al potere, non tollererebbero certo un Giolitti
trascinato dai radicali, poichè questi non sarebbe più il loro
Giolitti.

Poichè questa è la situazione, bene fecero e fanno i radicali a
prestare il consenso e l'opera loro là dove essa è chiesta per
l'attuazione di riforme che essi vollero e come riconoscimento della
forza che l'idea radicale ha nel paese e parlamentarmente; ma è loro
dovere, è per il partito suprema esigenza, non lasciarsi imprigionare
dalla mutevole situazione parlamentare, e cercare di modificarla nelle
feconde agitazioni della coscienza e dell'opinione pubblica. In più
ampi cicli di attività democratiche il partito deve rinnovarsi, per il
governo o per la battaglia.

Nè ciò farà dispiacere allo stesso on. Giolitti. Egli è oramai, per
antonomasia, il governo, e il governo--come il regno dei
cieli--subisce violenza e i violenti lo conquistano.

Mirabile tecnico del governare, egli ha anche, e lo ha confessato,
benchè sia pronto a sacrificarla agli eventi, una leggera inclinazione
a sinistra. Conscio, assai più di quelli che gli attribuiscono
un'astuzia e un'efficacia illimitate, dei limiti veri dell'opera sua,
e del prevalere degli eventi, le cui complesse condizioni a nessuno è
possibile abbracciare con l'occhio e con l'opera previdente, egli
governa a cicli.

Chiamato al potere, egli si crea intorno l'equilibrio politico e
parlamentare che gli par meglio rispondente alle esigenze del momento,
cautamente valutate, e governa con esse. Quando sente che il vecchio
equilibrio è perduto e la legge del nuovo non apparisce, se ne va: e
dà un piccolo colpo al barometro, perchè la lancetta indicatrice si
muova. Finite le oscillazioni un nuovo ministero Giolitti è pronto.

Mai l'on. Giolitti si adatterebbe a fare del barometro politico di un
gruppo il suo barometro, della lancetta dell'on. Fera la sua lancetta.
Accoglie i partiti nel suo equilibrio, torcendoli un poco e deviandoli
dal loro piano; non ama le correnti impetuose, che trascinano, nè le
polarizzazioni che diminuiscono il settore sul quale gli sia possibile
scorrere liberamente.

Quindi altra indicazione: _nella presente politica giolittiana di
equilibrio e di sintesi instabile il partito radicale entra nella
maggioranza diminuito, costretto a fare parziale sacrificio di sè, per
accomodarsi alle esigenze parlamentari e politiche; ma un disagio
assiduo ed a volte acuto lo avverte che esso deve, se non vuol
perdersi e dileguare, prepararsi a pesar sulla bilancia con un più
fresco corredo di idealità e più alacre temperamento di lotta e più
largo consenso popolare_.


Dissensi e consensi fra radicali

Ma più autorevole, in materia, sarà l'opinione dei radicali medesimi.
Gli avversari nostri ci chieggono, con ironia, se c'è un'opinione
radicale; comune, cioè, a tutti coloro i quali si sentono e si muovono
nell'ambito della politica radicale. L'on. Giolitti insinuava che no;
molti gridano, egualmente, che no. E pure, se io potessi porvi sotto
gli occhi le dimostrazioni più autorevoli, individuali o collettive,
degli uomini del partito, dal congresso del novembre scorso, per non
risalire più indietro, ad oggi, non vi sarebbe difficile discernere
alcune direttive costanti.

Due, almeno, sono evidentissime: la laicità, come difesa contro il
clericalismo e come concezione dello Stato e della sua attività nel
campo della cultura, e il pensiero che il radicalismo sia in potenza e
debba praticamente essere come il nucleo centrale di una nuova
coesione ed organizzazione politica delle forze democratiche¹.

  ¹ Nel celebre opuscolo _L'Italia aspetta_, (1878), A. Bertani,
    chiestosi se esistesse una Estrema sinistra, e risposto che sì,
    aggiungeva: «Ma questa Estrema sinistra non avrebbe ragione
    d'essere se le mancasse l'appoggio della democrazia e se questa
    non avesse propositi fermi per far accettare le sue idee ed
    _arrivare con essa_, sia pure incerto il dì, al governo
    d'Italia. E queste idee e questi propositi debbono manifestarsi
    oggidì nella questione ecclesiastica, ecc.». E G. Bovio così
    indicava la funzione dell'Estrema: «L'Estrema sinistra compie il
    suo ufficio educando la coscienza nazionale, affinchè intenda la
    parte sempre crescente che le è dovuta nella funzione della
    sovranità. Tende al potere perchè non è ascetica, ma vi tende in
    una rivoluzione più larga, cioè non puramente parlamentare, ma
    nazionale». Ed ancora egli le attribuiva «le funzioni, così
    feconde di ottimi risultati, di esploratrice di avanguardia del
    grande partito di sinistra».

L'affermazione di laicità militante voi trovate nell'ordine del giorno
del congresso ricordato sulla tattica del partito, nel discorso
dell'onorevole Fera, nelle interviste di radicali autorevoli, nel
recente ordine del giorno della direzione del partito, nel programma
di recenti derivazioni del radicalismo, come sono le nuove
associazioni democratiche di Milano e di Cremona.

Documentare sarebbe lungo e poco utile. Uomini insigni della politica
e dell'università hanno partecipato a questi dibattiti. E
nell'incrociarsi di attacchi, di difese, di critiche, di proposte,
nella varietà delle opinioni intorno a ciò che il partito radicale
dovrebbe _fare_, il concetto dell'esistenza e della necessità di esso
si profilava nettamente come di un partito di _riforma_; ma di quelle
riforme che, esigendo una maggiore audacia di visione e di confidenza
nell'avvenire e spostando troppi interessi consolidati, sono dai
partiti unilaterali di estrema ritenute possibili solo mediante uno
sforzo rivoluzionario, dai conservatori avversate tenacemente, dai
radicali sostenute e volute come normale progresso; come esigenze dei
gruppi nuovi, delle energie giovani e in formazione, degli interessi
sino ad ora sacrificati ad altri politicamente più forti; e quindi
esigenze di tutta la società, considerata non staticamente ma nel
complessivo sviluppo suo, come giustizia e diritto che si realizzano.




La storia del partito radicale


È teoria e fatto e proposito del partito radicale, in questi ultimi
anni di vita italiana e per i prossimi, la politica dei cosidetti
blocchi. I socialisti e i repubblicani, dopo averla largamente
favorita negli anni nei quali c'era da impiegare la somma mirabile di
energie popolari liberate e fatte erompere da quella riconquista della
libertà che si ebbe nella memorabile lotta del 1900, se ne sono
stancati e ne sono divenuti oggi i critici più aspri; effetto, questo,
in parte della pertinace ideologia rivoluzionaria e di una febbre di
riforme che fanno parer lento ogni moto sociale normale, ed in parte
del successo medesimo della politica dei blocchi, che deluse quelle
frazioni le quali non tanto desideravano i progressi della democrazia,
realisticamente intesa, quanto quello delle loro pregiudiziali e del
loro sistema.

E si è voluto vedere nei blocchi come l'ultima fase del trasformismo
politico, e il partito radicale, assunto prima dall'on. Luzzatti poi
dall'on. Giolitti al potere, affogare in quel trasformismo. Sicchè
oggi, all'infuori delle due pregiudiziali, la repubblicana e quella
della lotta di classe, non ci sarebbe più che confusionismo e
arrivismo; quello causa insieme ed effetto di questo. Anche i
socialisti riformisti, appunto perchè non accettano nè l'una nè
l'altra pregiudiziale, son dichiarati dai loro compagni di ieri
transfughi e traditori e arrivisti; e soffia allegramente sul fuoco la
destra.

L'ampiezza stessa e l'esagerazione della condanna, debbono avvertirvi
che un grosso equivoco si nasconde in essa. Io non saprei spiegarvelo
meglio che rifacendo, brevissimamente, la storia del partito radicale
italiano.

La democrazia radicale italiana ebbe da principio tradizioni, intenti,
animo repubblicano. Ma rivelatasi nel 1848-49 l'insufficienza di moti
popolari a costituire l'unità italiana, e avendo la monarchia di
Savoia fatta sua questa causa, il pensiero della repubblica fu messo
da parte per costituire intanto l'unità. Raggiunta questa, incominciò
il distacco del radicalismo dall'idea repubblicana, fra il 1870 e il
1876, quando, nelle prime lotte fra i mazziniani puri ed altri che
facevano capo a Giuseppe Garibaldi, all'idea di un'azione direttamente
rivoluzionaria, volta a rovesciare la monarchia, o all'astensionismo
di altri che vedevano l'inanità di questo sforzo e suggerivano di
attendere tempi migliori, accelerando intanto l'educazione delle
masse, si sostituì il criterio di esplicare, pur nell'orbita delle
istituzioni e dell'attività parlamentare, un'opera positiva diretta al
raggiungimento delle conquiste democratiche compatibili con il
monarcato; prima fra queste il suffragio universale, per il quale
furono più tardi tenuti i cento comizi del 1880, ed il comizio de'
comizi in Roma, nel febbraio 1881.

Per la prima volta il radicalismo ebbe forma e veste concreta di
organizzazione nazionale nella «Lega della democrazia» costituita in
Roma, sotto l'egida del prestigio di G. Garibaldi, il 21 aprile 1879,
e da Garibaldi stesso annunziata all'Italia con un manifesto in data
26 aprile¹.

  ¹ Giova riprodurre questa pagina, memoranda nella storia del
    radicalismo:

      «Agli italiani,

      Il fascio della democrazia è formato.

      Mi glorio che questo fatto importante, lungamente desiderato e
      studiato, e prima invano tentato, siasi compiuto sotto gli occhi
      miei, il 21 aprile.

      Cospicui patrioti di ogni classe, nobili ingegni--decoro del
      nostro, paese--i quali si illustrarono nel preparare e nel
      comporre ad unità di nazione l'Italia, dal 1821 in poi, militano
      nel campo della Democrazia e vi milita la gioventù generosa.

      E come alla Democrazia riescirà fatto di spandere la sua
      influenza con l'agitazione che essa verrà promuovendo per la
      rivendicazione o l'esercizio effettivo della sovranità
      nazionale, per il men aspro vivere dei diseredati dalla fortuna,
      per la giustizia sociale, per la libertà inviolabile, una
      moltitudine di cittadini egregi, che assistono sfiduciati e
      increduli al governo delle minorità, le quali si succedettero e
      si esaurirono durante venti anni, s'aggiungerà certamente e
      rapidamente alle sue schiere.

      Oggimai la Democrazia, è un valore di prim'ordine fra i valori
      costituenti la nazione, è una potenza con cui quelle minorità,
      di buon grado o di mala voglia, hanno da fare i conti. Le sue
      varie scuole sonsi collegate e affermate in un ordine di idee e
      di fini comuni e convennero nell'adozione dell'istesso metodo di
      apostolato e degli stessi mezzi di agitazione palesi e sinceri
      dentro l'orbita giuridica--da cui la loro forza--e fondarono la
      Lega della Democrazia.....

      Ogni scuola della Democrazia serba la individualità propria
      nello svolgimento e nella propaganda delle rispettive dottrine,
      e ad ognuna appartiene l'arbitrio delle inerenti iniziative, ma
      ognuna altresì ne risponde. Pur sono sicuro che tutte, animate
      da un elevato sentimento di carità di patria e guidate da quella
      sapienza civile che anche le altre genti riconoscono negli
      italiani, vorranno coordinare la loro opera particolare e
      specifica, e contemperarla a quella generale del Comitato della
      Lega».

    Il manifesto fu, dicesi, scritto da A. Bertani: del quale
    giustamente scrive L. Fera (l. c.) «Egli seppe e volle raccogliere
    l'impeto rivoluzionario popolare delle tradizioni mazziniane e
    garibaldine per disciplinarlo nel regime normale di libertà e per
    regolarne il moto traverso un sistema di istituti che
    progressivamente traducono i nuovi rapporti sociali ed economici».

Un comitato fu costituito nel quale figuravano i migliori nomi della
democrazia militante: e della Commissione esecutiva, residente in
Roma, nominata da esso, fecero parte: Bertani, Bovio, Campanella,
Canzio, Cavallotti, Fratti, Lemmi, Mario, Saffi ed altri, oltre lo
stesso Garibaldi.

Repubblicani, come il lettore vede, molti di essi; ma giudicavano
dover oramai la repubblica, non essere imposta da faziosi artifici di
rivoluzionari, sibbene esser gradualmente preparata, perchè potesse
più tardi fiorire spontanea dallo sviluppo stesso delle istituzioni
democratiche e della nuova coscienza di popolo che le andava facendo e
vi si andava facendo dentro¹. Quindi collaborazione con uomini
politici di altri partiti, di Destra anche, per il raggiungimento, via
via, di queste riforme, e per assicurarne, contro pericoli varî, le
condizioni essenziali. La tutela delle libertà, la difesa delle forze
economiche del paese, alle quali bisognavano raccoglimento e
parsimonia nelle spese pubbliche, contro i pericoli dell'espansionismo
megalomane, gli inizi di una legislazione protettrice del lavoro,
quando ancora il socialismo non era entrato nel giuoco dei dibattiti
parlamentari, alcune poche riforme democratiche nell'amministrazione,
furono il compito del partito radicale in quegli anni.

  ¹ Scriveva G. Bovio nel 1878: «Cominciamo dal troncare un'ultima
    illusione: l'E. S. non è repubblicana...  (Essa) va fino al
    suffragio universale. Questa è l'estrema delle riforme delle quali
    si estima fecondo il principato quando si disposi con la
    libertà. Estrema delle riforme monarchiche vuoi dire E. S.».

    E Bertani, in quello stesso anno (op. cit.):

    «Finchè la monarchia mostra di comprendere di essere stata per
    l'Italia quello che realmente fu, mezzo, cioè, alla sua
    ricostituzione, epperò dura nell'attitudine passiva che le
    conviene, non opponendosi al progressivo affermarsi della
    coscienza nazionale, nè si adombra della espressione che deve man
    mano acquistare quella sovranità, io non vedo ancora che gli
    interessi della patria esigano di staccarsene».

    E ancora, G. Bovio:

    «L'Estrema compie il suo ufficio: educando la coscienza nazionale,
    affinchè intenda la parte sempre crescente che le è dovuta nella
    funzione della sovranità.  Tende al potere, perchè non è ascetica;
    ma vi tende in una evoluzione più larga, cioè non puramente
    parlamentare ma nazionale».

Ma la «Lega della Democrazia» ebbe breve vita. Il radicalismo era
insidiato da due lati; dal fascino che conservava l'idea repubblicana
verso la quale le delusioni amare che si ebbero dal passaggio del
potere alla Sinistra storica risospingevano molti; e, dalla parte
opposta, dalla conversione di molti--tipiche quelle di Giosuè Carducci
e di A. Fortis--alla monarchia, reputata necessaria al consolidamento
delle libertà e all'opera di riforma.

Nel celebre _patto di Roma_, del Congresso del maggio 1890, fu
elaborato da Cavallotti e approvato dai convenuti un vasto programma
di riforme immediate da propugnare: delle quali poi talune furono
abbandonate, altre ebbero sanzione legislativa, altre, infine, e le
più essenziali, rimangono come programma di domani.

Certo c'è qualche cosa di triste per i partiti di avanguardia, cioè
idealisti, in questa degradazione storica degli ideali che si
realizzano; e le ore meno liete nella vita di un partito e di un
popolo sono quelle nelle quali consumano, senza rinnovarli, gli
impulsi e le energie ideali del momento anteriore.

Ma questa è dura legge della vita. Chi vorrebbe amare l'idea solo
perchè essa rimanesse nella chiusa bellezza della sua pura verginità?

Grande è il desiderio umano e raramente uno scopo, che pur merita di
esser raggiunto, solleverebbe gli entusiasmi e spingerebbe ai
sacrifici che la lotta richiede se esso fosse sin dal principio veduto
nella concreta limitazione che gli eventi gli assegneranno. Ma della
modestia dei risultati l'animo forte prende le sue vendette
raccogliendosi e disciplinandosi per il compimento del dovere nuovo
che emerge dal dovere compiuto.

Se, dopo la magnifica lotta dell'ostruzionismo, nella quale la
Sinistra parve riacquistare coscienza di sè, il partito radicale cerca
invano, ripetutamente, di riorganizzarsi e di avere una parte decisiva
nella politica del paese, non per questo vien meno la sua importanza.
L'_Estrema sinistra_, attraverso alla quale il gruppo crescente dei
socialisti e il repubblicano intervengono, con una politica positiva e
fattiva, nel giuoco delle forze parlamentari, fronteggiano i moderati
ed impongono ai governi una politica democratica, è essenzialmente
opera radicale. E ai radicali l'on. Giolitti sente il bisogno di
rivolgersi quando vuol fare accettare dalla Camera riforme
democratiche. E le vicende del ministero Giolitti provano come sia
inefficace e quasi nulla l'opposizione dei due gruppi estremi, quando
essi si scindono dal radicalismo o fanno da sè.




Il partito radicale oggi


Dell'appoggio dato a questo ministero il partito non deve in alcun
modo pentirsi, poichè non mancò il risultato in vista del quale
l'accordo fu stretto; e a due grandi riforme, il suffragio universale
e il monopolio delle assicurazioni sulla vita¹, per tacere del resto,
il partito potè legare l'opera e il nome.

    ¹ Di molte e severe critiche fu oggetto questo monopolio.  Nè
    venivano tutte e solo da parte de' liberali moderati, i quali
    concepiscono lo Stato come un supremo moderatore di libertà o di
    attività private e veggono nelle imprese industriali in cui si
    mette falsato il suo carattere e degeneranti le sue funzioni.

    E ciò è vero secondo l'antica e classica concezione dello Stato e
    della sua sovranità.

    Ma noi vediamo in questa iniziata nazionalizzazione del servizio
    delle assicurazioni, come in altre iniziative industriali dello
    Stato moderno, non un processo di assorbimento da parte del potere
    pubblico e di limitazione delle attività libere e di
    burocratizzazione; sì bene, al contrario, un interiore processo di
    sviluppo della previdenza medesima e degli altri servizi sociali;
    i quali si organizzano e costituiscono in grandi sindacati,
    appropriandosi una parte delle attribuzioni dello Stato ed
    incorporandole in sè. Con che esse lo diminuiscono e lo
    modificano, nella sostanza, anche se pel momento sembrano subirne
    l'invadenza ed annientarne la pletorica pesantezza. E un segno
    evidente di ciò si ha nel nome; poichè non si parla di regie
    ferrovie e di regie assicurazioni, ma di ferrovie e di
    assicurazioni nazionali.  Sono veri sindacati che, attraversando
    l'atmosfera Stato, si fanno il corpo e le forme giuridiche nuove.

Ma l'accordo vincola la nostra azione parlamentare, non limita la
nostra propaganda. Io riconosco i meriti dell'on. Giolitti, i servigi
che egli ha reso al paese, la moderazione con la quale usò del potere,
il vantaggio della tregua interna che un periodo di gravi difficoltà
internazionali rese necessaria, la fiducia del paese nella abilità
dell'uomo, possibile. Posteriore a lui di una generazione, io ritengo
che nella generazione alla quale egli appartiene lo si debba
giudicare, tenendogli conto delle necessità di governo, e a questa
generazione opporre una diversa e più alta concezione che noi abbiamo
dei doveri dell'uomo di Stato e della democrazia, specialmente in quel
che riguarda la libertà del mandato elettorale, così nelle origini
come nell'esercizio.

Lottando per sè, per i suoi ideali, per una più chiara definizione dei
partiti, per una ripresa di attività rinnovatrice, il partito radicale
lotta per creare altre condizioni ed altri metodi alla attività dei
partiti e dei governi. E se i più e i maggiori dei radicali, uomini,
come Giulio Alessio, che non possono essere sospettati di
opportunismo, hanno giudicato che non conveniva, alla vigilia delle
elezioni, staccarsi dal governo, nè dar sì gran gioia a quelli che si
sarebbero affrettati a prendere la parte di potere lasciata dai
nostri, è dovere riconoscere la gravita delle ragioni che militano per
questa condotta. Non fare quello che l'avversario vostro vedrebbe
fatto con immenso piacere è ancora buona prudenza, quando un più
diretto e sicuro criterio non soccorra.

Del resto, lottiamo oggi per la conquista del corpo elettorale;
indichi esso le vie di domani.

Il radicalismo italiano fu adunque quello che doveva essere; la
tradizione gloriosa del più puro idealismo del partito d'azione, che
si fa via via politica positiva e realistica, secondo i tempi;
l'organo più sensibile delle necessità di una politica di difesa e di
sviluppi democratici; l'integrazione parlamentare dei partiti più
estremi e il vincolo di unione fra essi e le maggioranze.

Io non l'esalto con questo oltre misura. Ombre e incertezze e
transazioni e debolezze vi furono; ma la colpa fu innanzi tutto di
tempi singolarmente avversi a ogni salda e nitida coerenza e
continuità e personalità di partiti politici. Mancò alla vita italiana
la passione politica, vigorosa e veemente, mancò quella che è
condizione prima di ogni politica sana, la sincerità. La sincerità è
chiarezza e costanza del vincolo che lega gli uomini alle cose, in
politica. Poichè in questa l'individuo per sè non è molto; la pienezza
del significato e del valore dell'opera sua è data dai gruppi di
interessi, dalle tendenze e volontà di dominio alle quali serve. Ora
per molto tempo, in Italia, per l'opportunismo che ha invaso tutta la
nostra vita pubblica e per la difficoltà di distinguere e definire
interessi, correnti e tendenze, uomini e cose hanno, si direbbe,
seguito due vie diverse e ne è risultata una confusione
indescrivibile. Avvocati intimamente borghesi per coltura per
colleganze sociali per visione realistica della vita hanno preso, per
aprirsi la via, l'etichetta socialista o repubblicana. I maggiori
impulsi a riforme democratiche sono talora venuti da prudenti
conservatori. Viceversa, le necessità economiche del proletariato
giovano spesso ai fini di una politica reazionaria. Un deputato di
estrema sinistra, per opportunità elettorali, diviene strumento di
dominio politico nelle mani di un gruppo clericale o di un vescovo. Un
nazionalista tresca, per diventar deputato, col partito che, per
volontà del papa, è ostile, per definizione, alla patria. Il
socialismo, frutto mirabile di una critica poderosa di tutti i dogmi
del passato, diventa, nell'intransigenza, dogmatico e si chiude nelle
sue teorie e, per preparar la rivoluzione, facilita la via alla
reazione. Chi, in tali circostanze, ha il diritto di alzar la voce a
condannare?

Un partito politico, diceva G. Bovio, è una idea che ha la sua
antitesi. Dove l'antitesi langue, la tesi si attenua; dove gli animi
son fatti incapaci di posizioni vigorose, i partiti si fiaccano e
divengono imbelli; poichè una invincibile solidarietà li lega
all'intiero processo dello spirito e della coscienza di un paese.




L'antitesi fondamentale


Ma giova tentare oramai questa «pericolosa» definizione del
radicalismo. Il radicalismo è la politica del _dover essere_ contro la
politica stazionaria; è la democrazia che si fa, che diviene, la
liberazione di quelli che sono ancora servi, una coscienza data alle
forze sociali che non hanno ancora la loro espressione politica, la
conquista dell'autonomia. Autonomia è la parola che potremmo oramai
sostituire a quella vecchia e abusata di libertà; tanto vecchia e
tanto abusata, che il partito moderato-clericale, in questo tentativo
di ricostituzione che affatica anche esso, l'ha presa quasi a sua
parola d'ordine, auspice e interprete recente l'on. Salandra.

La libertà era un programma radicale, quando appariva manifesto il
nemico contro il quale, nell'ordine politico o economico o sociale,
bisognava condurre la lotta per la liberazione degli oppressi. La
Chiesa, organismo politico privilegiato, la mano morta, i piccoli
sovrani per diritto divino, il potere politico patrimonio di una
classe e chiuso alle categorie più umili e numerose, il potere
esecutivo esorbitante dal suo ufficio nelle prevenzioni e repressioni
poliziesche, questo il tiranno; e contro di esso si predicava e si
promoveva la libertà. Vigili, per ogni conquista nuova, contro ogni
insidia rinascente, i radicali. Esecutori, sotto la pressione delle
forze nuove e di necessità politiche impellenti, i liberali di destra
e di sinistra; fuori dell'agone, torbidi e minacciosi, nel nome del
Sillabo, i clericali, aspettanti la vendetta divina e la restituzione
del potere temporale al papato.

Oggi quei nemici, esterni, visibili, quei limiti imposti dal di fuori,
quei poteri reclamanti una origine altra che la sovranità popolare non
esistono più. C'è, sola, come vedremo, la Chiesa; ma con tattica
mutata.

Eppure chi oserebbe dire che la libertà è conquistata per tutti, se
essa è possesso di sè e se tanti sono posti dalla superstizione,
dall'ignoranza, dalla miseria, in balia di chi ne ha in mano le
coscienze, l'opera, il voto? Chi non vede che, dove ogni potere
dispotico e dominio sui servi è abolito legalmente, esso ripullula
spontaneo nella esorbitanza della forza dello Stato, nel giuoco delle
camarille e clientele, nella stessa intolleranza dogmatica dei
partiti, là dove sono turbe di uomini incapaci di autonomia,
spiritualmente estranee ed inferiori ad ogni opera, di governo
autonomo, e quindi bisognose di padroni, per muoversi ed agire? La
libertà è spiritualità che opera sulle forme e sugli istituti sociali;
e questi son sempre in arretrato per le coscienze più generose, in
anticipazione per le coscienze pigre e sonnolente e servili. E dove la
libertà è raggiunta e signoreggia da tempo, chi oserebbe dire che alla
sola nozione di diritto che essa suggerisce ed integra, non se ne
debba oramai aggiungere un'altra, quella di dovere, di responsabilità,
di funzione utile, di coesioni sociali più vaste e più salde?

Vi ho detto che radicalismo è la democrazia come _farsi_, non come
_fatto_. La democrazia, come fatto, è il partito liberale, equilibrio
instabile, opportunità, trasformismo: che qui ricalcitra, là concede,
che oscilla fra il passato e il da fare, fra il vecchio e il nuovo. La
negazione immanente della democrazia, nel mondo moderno, è la chiesa e
il clericalismo. L'affermazione, egualmente immanente, pungente,
assillante, è il radicalismo¹.

  ¹ Nella sua «teoria dei partiti», G. Bovio caratterizzava i momenti
    storici e ideali dello sviluppo democratico nei termini seguenti:

    1° C'è una filosofia della evoluzione ed una filosofia della
    rivoluzione: la vera filosofia le comprende entrambe, perchè, a
    determinato tempo, l'evoluzione esplode e la rivoluzione si
    evolve;

    2° la rivoluzione intera procede per tre periodi: prima è
    rivoluzione religiosa, poi è politica, poi è sociale, perchè il
    pensiero prima si ribella contro il dogma, poi contro lo Stato,
    poi contro la casta;

    3° nessuna ribellione è vera, se non comincia contro il dogma,
    fondamento di ogni vecchio ordine sociale;

    4° essendo stata europea la rivoluzione religiosa, tale fu la
    rivoluzione politica e tale dev'essere la rivoluzione sociale;

    5° i partiti radicali devono essere studiati tra la rivoluzione
    politica che è fatta e la sociale che si annuncia; i partiti
    conservatori debbono essere studiati fra la Chiesa che tramonta, e
    lo Stato che le si sostituisce.

Ricordate le origini della democrazia e il suo sviluppo. Essa
rumoreggia nel medio evo con l'eresia, utopia libertaria e
comunistica, affranca le coscienze della teologia medioevale con
l'umanismo e col Dio immanente di Bruno, si svincola dal papato con la
riforma, si costituisce un sapere autonomo con la scienza positiva,
elabora lentamente, da Bruno a Hegel e ai continuatori di lui, la
concezione nuova della vita sociale: la dottrina dell'umanità, e delle
sue esigenze insopprimibili in ciascun uomo, della relatività delle
leggi o delle istituzioni sociali, della sovranità dello spirito umano
sulla sua storia, della attività creatrice dell'autocoscienza. L'uomo
moderno non accetta, non subisce, ma fa e pone; le leggi e gli
istituti sociali sono condizioni date non norme; la norma egli la
porta con sè nel suo spirito, e alla scorta di essa fa, o meglio rifà
perennemente, nelle condizioni date, la sua storia.

Questa è la sovranità democratica, sovranità non di molti o di tutti,
non del numero, ma dello spirito, della ragione, della volontà
consapevole; in una parola, dell'autocoscienza. La sete, che è in
tutti, di riforme, l'incessante estendersi delle facoltà e delle
attività politiche, individuali ed organizzate, sono appunto dovute a
questo senso acquisito che la società e la storia sono perennemente da
fare e da rifare. Il farsi della democrazia è in queste due forze:
l'ascensione di ogni individuo umano alla pienezza della personalità
umana, la collaborazione, la coesione, l'unità sociale affidata
all'efficacia spontanea di interessi consaputi, di tendenze
spirituali, di norme accettate con libera adesione interiore.

Questa concezione fondamentale vi permette di interpretare e di
graduare nella loro successione dialettica e storica tutte le dottrine
e tutti gli sforzi democratici. La proclamazione del diritto dei
singoli, delle libertà, dà il primo periodo storico e costituisce il
primo momento della democrazia; ma questo, non corretto da un pensiero
ulteriore, finisce nell'individualismo sfrenato e nelle rinascenti
tendenze egoarchiche ed autoritarie. La proclamazione del dovere,
delle responsabilità e degli uffici sociali, integra il concetto di
libertà, con quello di funzione e apre il passo a una concezione nuova
e più intima delle autonomie collettive, della organizzazione dei
fini, dello Stato medesimo.

Da questa posizione di criterî direttivi emergono chiare alcune
conseguenze che è opportuno ribadire. Il liberalismo, la destra
e la sinistra che, perduto il loro primo significato, divengono
aggruppamenti mutevoli per la conquista del potere, la democrazia
come _fatto_, vi danno una situazione ambigua, un oscurarsi delle
differenze sostanziali, una contraddizione permanente e affannosa,
un tentativo assiduo ed opportunistico di equilibrio; vi danno il
trasformismo e il giolittismo, gli ultimi quaranta anni di politica
italiana. Con la democrazia sono accettati i principî che la fecero,
ma viceversa essi son negati quando se ne nega l'ulteriore sviluppo.
E poichè il corpo sociale non si arresta, e una logica delle cose,
più forte delle volontà degli uomini, pone problemi nuovi e ne
matura le soluzioni, si accettano le soluzioni mature, ma come
necessità, per istinto di difesa più che di progresso, e quindi con
il concorso promiscuo di democratici, accettanti il progresso, di
conservatori, mossi dall'istinto della difesa. Dai principî
accettati, per es. da quello dello Stato laico, si è indotti a
prender posizione contro i clericali; ma, viceversa, dalla
ripugnanza ad applicare quei principî alle necessità e ai doveri
emergenti si è indotti ad appoggiarsi ai clericali, a lasciarne
ricostituire l'organizzazione politico-ecclesiastica e ad
assecondarne le pretese. Per governare, si ricorre volta a volta
agli uni e agli altri, coltivando amicizie nei campi opposti,
stemperando i partiti nell'opportunismo, impedendo alle tendenze
politiche opposte di polarizzarsi e di scendere in campo ad armi
aperte.

Di qui le tentazioni e l'opportunità per il partito radicale, di
profittare, a volte, di questa tendenza dei partiti medi verso riforme
ritenute necessarie per governare; ma insieme il dovere di non
esaurire nelle opportunità la sua azione, di non ucciderla
nell'opportunismo; di opporre ai facili doveri degli adempimenti
l'austero dovere della preparazione per i compiti di domani. Il senso
vigile di questo rompe gli accordi degeneranti in rinuncia e rinnova i
contrasti.




Democrazia e demagogia


Questo che siamo venuti dicendo ci dispensa dall'esame delle molte
critiche e censure e biasimi che sono stati mossi alla democrazia da
gruppi estremi di destra e di sinistra. Tali biasimi, se muovono da
destra, p. es., dei nazionalisti, vanno piuttosto a colpire le
esagerazioni demagogiche; se da sinistra, le attenuazioni e gli
infingimenti e le soste.

Ma della demagogia, che è la maschera, e la calunnia della democrazia,
ci conviene ancora dire qualche parola.

Tre, fra le molte varietà di essa, distingueremo. La prima è, diremmo
quasi, la malattia professionale dei grandi sindacati operai e di chi
lavora a costituirli. Non ostanti le parentele, il sindacalismo è,
nella sostanza sua, dottrina diversa dal socialismo, cozzante anzi con
esso in quanto mira a ricostituire le classi ed a ricomporre sulle
basi di queste l'unità sociale e politica, sminuzzata e frantumata
dall'individualismo della rivoluzione francese. Corporazioni, unioni
professionali, sindacati sono forme di associazioni e di attività
collettiva che riguardano, non certo i soli operai salariati, ma le
più varie professioni ed uffici sociali, ed, in luogo di unificare lo
sforzo proletario, come voleva Carlo Marx, tendono ad articolarlo e
differenziarlo, dando alle varie categorie di lavoratori il senso vivo
di interessi diversi e talora antitetici.

Per impossessarsi del movimento e dirigerlo, i socialisti hanno dovuto
sovrapporre artificiosamente al programma dei singoli sindacati un
generico e ambiguo rivoluzionarismo che li tenesse ancora associati,
nella lotta contro il capitale e lo Stato. Espressione di questo
rivoluzionarismo è il mito dello sciopero generale, attraverso al
quale, arrestando di un tratto il funzionamento dell'attuale economia
capitalistica, si passerebbe alla presa di possesso, da parte dei
sindacati, degli strumenti di lavoro e del governo della società.

Un esempio tipico di questo demagogico confusionismo si ha nella C. G.
T. francese e nei mezzi violenti predicati ed insegnati da molti
socialisti per _saboter_ la produzione capitalistica e i servizi
pubblici. In Italia esso fermenta e sussulta a tratti nelle grandi
città.

Un'altra forma di demagogismo, la quale si allea volentieri con questa
prima, è il rivoluzionarismo fatto di reminiscenze e di sentimento,
eredità delle rivoluzioni politiche, da quella del 1789 in poi, per il
quale si pretende applicare alla rivoluzione sociale i metodi,
appunto, delle rivoluzioni politiche. Pareva che il 1898 avesse
liberato il nostro paese dal vagheggiamento e dal timore di simili
minacce; ma esse son come una malattia di crescenza di una democrazia
sociale immatura e irrequieta. Le riforme politiche attuate dalla
borghesia hanno reso possibile a qualunque gruppo sociale di aspirare
a quel maggior potere che si esplica nella conquista dello Stato; non
c'è idea nè partito nè gruppo di forze il cui successo non possa
subito tradursi in potere politico, per la via degli organi
rappresentativi. In fatto, la violenza--le sommosse e la
rivolta--apparisce di quando in quando nella società nostra o come
esasperazione di conflitti di interessi o di scioperi sorti e svoltisi
nei limiti della legalità, da parte di chi si sente mancare il
successo, o come tumulto di masse non ancora impossessatesi dei
diritti civili.

C'è, infine, una terza forma di demagogismo, la più comune ed anche la
più superficiale: quella che serve agli arrivisti per commuovere e
guadagnare le masse, per eccitare una folla, per trar partito da una
coscienza politica di classi ancora immature, per sfruttare la
mobilità e l'impazienza e le collere della fanciullesca anima
popolare. È, alla Camera, il discorso politico e il gesto che ha in
vista soltanto l'impressione da far sulle masse; è, nei comizi,
l'oratoria vuota, veemente, rotonda, confusionaria; è l'arte di
lusingare le passioni popolari, di eccitare le fantasie, di alimentare
le illusioni e di volger la collera delle delusioni contro avversari
fantastici.

Da queste varie forme di demagogia il radicalismo deve serbarsi
immune; ed in ciò starà la sua forza.

Esso che la cura degli interessi e dell'educazione dei lavoratori
compone nell'armonia di una più vasta visione degli interessi sociali,
che nei sindacati riconosce ed apprezza i nuclei vivi e vitali di una
nuova organizzazione della società democratica, che non eleva l'ordine
costituito e il diritto vigente a pregiudiziale contro qualsiasi nuova
conquista sociale e giuridica, deve saper dominare i moti popolari e
dirigerli a fini positivi, verso una più alta giustizia.

E deve rifuggire dalla così frequente e così dolorosa illusione,
largamente distribuita al popolo dai demagoghi, che per rinnovare si
richiede solo lo sforzo violento delle masse e del popolo contro chi è
in alto; mentre solo sono durevoli e feconde le conquiste alle quali
corrisponda una cresciuta maturità e virilità delle classi che debbono
compierle.




Radicalismo e socialismo


Quella posizione media d'un liberalismo oscillante ed ambiguo, della
quale ho parlato, potè lungamente prevalere in Italia e impaludare
nell'opportunismo la vita parlamentare per le difficoltà nelle quali,
per diversi motivi, vennero contemporaneamente a trovarsi le due
opposte frazioni: la clericale e la radicale. La prima, per il _non
expedit_, era in parte fuori della vita pubblica e non poteva quindi
spiegare in questa a suo agio le tendenze native; essa occupava la sua
parte nel potere politico quasi per delegazione.

Il radicalismo si trovò invece sopraffatto e disorientato dal sorgere
e rapido crescere del partito socialista. E dirò qui cosa che
sorprenderà molti ma che pure sarà riconosciuta come vera da chi ha
inteso quel che poco anzi dicevamo della democrazia e che, accettata,
molti fatti spiega ed ha nella spiegazione di essi la riprova della
sua verità. Il movimento socialista non è al di là del radicalismo, ma
è essenziale esplicazione di questo; esso non ha realtà vera ed
efficacia pratica se non in quanto coincide con la _democrazia_,
intesa nel suo più ricco e profondo significato dinamico; all'infuori
di questa e contro questa, stagna nel suo sistema chiuso, dogmatizza,
si esaspera in un rivoluzionarismo inconcludente, può perfino finire
con l'essere presidio della reazione ed aprirle la via, come fu con lo
sciopero generale del 1904.

Come, infatti, il socialismo giuridico fu ulteriore applicazione
dell'eguaglianza proclamata nell'89, il socialismo scientifico,
mirabile moto di rivendicazioni proletarie ed umane, fu l'applicazione
del principio democratico dell'autonomia e della sovranità dello
spirito umano sulla storia alla attività politica incipiente delle
classi lavoratrici; nelle quali esso accese l'autocoscienza, la
consapevolezza di ciò che erano come forza produttrice, del servaggio
nel quale l'ignoranza e la miseria le avevano trattenute, e insieme la
volontà dello sforzo liberatore. Questa è l'anima viva del marxismo;
le condizioni economiche dei lavoratori, lo sviluppo dei mezzi tecnici
e dei rapporti di produzione, il costituirsi della borghesia
capitalistica, colti e osservati nell'immediatezza del loro essere
vero, nell'intimo processo della complicata realtà sociale, nel
continuo concretarsi e sorpassarsi dello spirito, di negazione in
negazione, di posizione in posizione, di sintesi in sintesi, nei
rovesciamenti della praxis; ed insieme l'inserzione, in questa grande
massa proletaria, di una coscienza e di una volontà nuove.

E punto di partenza di questo grande moto fu la coscienza creata nelle
masse della loro situazione di servaggio economico; sentir questa
profondamente e dolorosamente non più come individui presi
nell'ingranaggio di un insuperabile fatalismo sociale, ma come classe,
capace di insorgere, di ribellarsi, era già un opporre alle cose la
propria volontà, un liberarsi interiormente; vedere tutta la storia
come un complesso di rapporti economici, era un rendersi nella
consapevolezza e nel proposito padroni della produzione, un collocarsi
al centro della storia, una volta che di contro a quei rapporti
economici se ne affermavano vigorosamente degli altri, radicalmente
rinnovatori.

E dentro a questa verità psicologica e prammatica c'era un'intima
verità filosofica, che il marxismo traeva dall'eghelianismo: che la
realtà è innanzi tutto spirito, la storia dialettica dell'idea, e che
quindi ciascuna singola coscienza umana, vedendo se stessa come
coscienza e come spirito, usciva dalla necessità per collocarsi sul
terreno della libertà, dalla dialettica _subìta_ per passare alla
dialettica operante, dalla servitù per essere assunta al dominio. E
chi non vede, pur nelle inevitabili esagerazioni, questa grandezza
ideale del socialismo, non ha inteso nulla della storia degli ultimi
due secoli.

L'impeto polemico portò la dottrina, sorta tra le battaglie, a
chiudersi nelle esagerazioni del punto di vista proletario; ma la
saggezza dialettica di due mirabili ingegni, Marx ed Engels,
approntava le correzioni e suggeriva vedute più larghe. La revisione
del marxismo ha ricondotto il socialismo alla democrazia; o meglio, ha
corretto con i principî democratici le esagerazioni polemiche e le
espressioni mitiche del socialismo sorgente. E oggi i socialisti
riformisti sono dei radicali perchè il moto proletario si è composto
nel più vasto processo della democrazia che si fa e diviene, del quale
è idealmente una derivazione e praticamente un aspetto; mentre il
socialismo intransigente ci si presenta oggi come una ribellione
contro la realtà riformistica, per la teoria rivoluzionaria.

Di qui, nel socialismo mussoliniano, l'andatura dogmatica e
chiesastica, l'intolleranza, il dispregio per il contenuto reale delle
riforme democratiche, la rivoluzione come letteratura, la preparazione
a freddo dello sciopero generale e di giornate di sangue, e sino,
indice certo dei risultati che si minacciano, le confessate preferenze
per la reazione; di qui ad esso le mal celate simpatie di quanti sanno
che mettere il socialismo contro il radicalismo significa spezzare lo
sforzo democratico, impedire al partito radicale la sua essenziale
funzione, che è quella di raccogliere in un fascio, contro la
reazione, le forze di avvenire, per organizzare e preparare una
democrazia di governo; di qui, negli imminenti comizii, lo spettacolo,
ad es., di una candidatura di Zibordi contro Bonomi, di Montemartini
contro Cabrini e le polemiche ardenti di socialisti contro socialisti.

E questo intimo dissidio della democrazia, questo antiradicalismo che
è così grato spettacolo agli occhi dei clericali, avviene proprio
mentre dall'altra parte due fatti si compiono: la discesa in campo
aperto del partito clericale, rotti gli argini del _non-expedit_, e la
mobilitazione, mediante il suffragio quasi universale, del _lumpen
proletariat_, delle riserve analfabete ed ignare della reazione. Quale
demone maligno e beffardo susurra all'orecchio dei dirigenti il
partito _ufficiale_ i suoi perversi consigli?

E la colpa maggiore è forse di quei riformisti _sinistri_ che
l'inerzia morale e il timore di perdere i suffragi delle masse
organizzate han fatto prigionieri dei rivoluzionari e divisi, in
un'ora solenne e decisiva, dal socialismo bissolatiano, onesto e
coraggioso tentativo di realistica democrazia.




Democrazia e anticlericalismo


Certo un esempio dell'illanguidirsi dell'idea e del temperamento
radicale si ha nell'abbandono in cui fu lasciata la questione della
laicità. Se, da una parte, il radicalismo italiano era stato disarmato
dalla assenza dei clericali dalla lotta politica, dall'altra,
associandosi nell'Estrema sinistra socialisti e repubblicani, esso
dovè un poco subire l'unilateralità del programma pregiudiziale di
queste frazioni. Ma più importante motivo è l'aver esso partecipato a
quel profondo disagio e malore spirituale che aveva preso, negli
ultimi decennii, tutta la borghesia italiana; e intendo borghesia non
nel significato economico ma in quello di classe dei colti e dei
dirigenti, inclusi quindi gli intellettuali del socialismo medesimo.

Poichè, se io mi son bene spiegato, voi intenderete che radicali si è
non per la semplice accettazione dei principî democratici e della loro
dialettica viva nella storia, ma sì per la calda ed energica volontà
operatrice; per le fedi e gli entusiasmi e le intuizioni precorritrici
e le audacie di un vigoroso partito di azione. E partito di azione si
chiamò, nelle origini e nel periodo eroico, il radicalismo; quando
uomini di fede ardente, nella cui vita pura e operosa si rivelava la
dedizione a un ideale, uomini come Mazzini, Bovio, Saffi, Mario, Abba,
Imbriani, erano ritti in armi contro il presente, e disdegnavano
compromessi e opportunismi, battagliando per l'avvenire.

E dove sono caratteri integri e fedi ardenti, quivi la questione
religiosa è sentita; poichè religione è il culto sincero ed eroico
degli ideali della vita¹. E quando le fedi si stemperano e la volontà
si infiacchisce e i combattenti di ieri si lasciano lusingare dai
riposi del facile comando e del potere, allora i problemi religiosi
sembrano quisquilie di preti e di follaiuoli, perchè langue la lotta
per la conquista delle coscienze, per la suscitazione delle fedi
nuove. Con il sacerdozio si trova in lotta vera ed assidua solo chi
vuol destare e liberare coscienze e suscitar fedi e entusiasmi.

  ¹ Per questo G. Mazzini--giova ricordarlo--scriveva, nel programma
    della _Roma del Popolo_ (1872): «Noi possiamo, senza timore di
    prestare armi al nemico, dichiarare le religioni espressione
    successiva delle serie di Epoche educatrici del genere umano; e
    riconoscere eterna nell'anima la facoltà religiosa, eterno il
    vincolo fra cielo e terra». E, più energicamente (v. Saffi,
    _Scritti_, XI, p. 442): «Le religioni muoiono, ma la religione
    vive eterna nel cuore dell'uomo».

Così, mancando l'interessamento, mancò la critica e la revisione di
dottrine e la consapevolezza di situazioni e deduzioni nuove che ne è
l'effetto; e l'anticlericalismo divenne luogo comune e diatriba e
dimostrazione di folla; fu fatto a sproposito, e senza che alcuno
sapesse o dicesse chiaro quel che si voleva. Pochi giuristi studiosi
ed insigni raccoglievano, inascoltati, l'eredità gloriosa dei loro
antecessori.

Nella prassi, la concezione del clericalismo e dei mezzi di
fronteggiarlo fu rinnovata da un moto, prima interno al cattolicismo,
poi dai dominatori di questo cacciato fuori e condotto a cercare
altrove il suo punto d'appoggio, dal _modernismo_. Blaterino a lor
agio i saccenti ignari che nelle pieghe dell'anima corrotta e venale
celano una spontanea simpatia per il prete politicante: io sostengo,
non più solo nè inascoltato, che _il modernismo religioso, nel suo
aspetto politico e nelle sue applicazioni alla politica delle fedi e
delle Chiese, era ed è il più autentico radicalismo_.

Il modernismo, infatti, non è eresia, non dogma contro dogma, nè
chiesa contro chiesa; esso è, nel campo religioso, quel medesimo
processo di autocoscienza che abbiamo veduto compiersi nella
borghesia, con i grandi moti del razionalismo e del romanticismo, e
nel proletariato per opera del socialismo scientifico. Rinnovando
dall'interno il fervore religioso e considerando le religioni nel
processo delle concrete formazioni storiche, esso ha staccato dalla
coscienza cattolica il vecchio dogma e la vecchia gerarchia, che vi
aderivano come incrostazioni soffocanti, ed ha colto le religioni
nella interna dialettica della _praxis_ che le suscita e le rovescia.
Il modernismo non nega, ma spiega; non distrugge ma risolve i dogmi,
perchè trova in essi una verità relativa e provvisoria e li riconosce
simboli e miti già suscitatori di energie; non distrugge ma smonta
l'organismo ecclesiastico, perchè lo ritiene strumento fatto dagli
uomini, ma destinato, come tutte le istituzioni sociali, a subire la
sovranità riformatrice ed innovatrice dello spirto. Non dice agli
uomini: voi dovete non creder questo o creder quello, disertare le
chiese o le sinagoghe o le logge; ma dice: qualunque cosa voi
crediate, qualunque chiesa vi piaccia, voi dovete credere liberamente,
fare delle vostre fedi l'espressione sincera della vostra vita morale
e, se la fede è in voi la più intima parte di voi, difenderla
gelosamente contro ogni intromissione o sopraffazione, ma insieme
rispettare--non solo tollerare--le fedi degli altri, perchè esse sono
la stessa coscienza loro. In religione il modernismo non ha che un
nemico: l'ipocrisia; e l'ipocrisia, cioè, non una fede, ma l'assenza
di una fede e la simulazione e l'imposizione di essa, l'abuso della
religione ingenua e esteriore a scopo di dominio, questo esso combatte
nel clericalismo.

Ora che cosa altro è la laicità, principio e programma del
radicalismo, se non appunto ed esattamente questa dottrina modernista?
Se per aver lo Stato laico si dovesse attendere di aver proscritto i
cattolici, o fatto tutti i cittadini di una fede, o tutti egualmente
senza fede, lo Stato laico sarebbe da attendere per l'anno tremila e
si dovrebbe andare verso di esso rinnovando sopraffazioni e
persecuzioni di esecrata memoria. Solo di liberi credenti--ed uso
questa parola così che essa si applichi ad ogni coscienza, poichè
nessuna coscienza umana c'è o può esserci la quale, se cerca sè stessa
e la libertà, non ponga a sè i fini e le norme supreme della vita,
velate di una nube eterna, ma scintillanti di folgori, mediante la
fede--solo di liberi credenti può risultare lo Stato laico;
collaborazione serena e cordiale di uomini che l'intimità loro
vogliono immune da violenze e passioni di parte o privilegi e coazioni
di poteri pubblici, contenti di derivarne la fiamma di un comune
ideale civile.




Programma pratico di laicità


Il programma pratico, in materia di laicità, deriva facilmente dalla
concezione di questa, che io ho esposto: lotta, con ogni mezzo
consentito dalle leggi, contro ogni forma di organizzazione
ecclesiastico-economica ed ecclesiastico-politica; obbligo alle
istituzioni di convivenza e di educazione clericale di rispettare le
leggi; uso consapevole dei mezzi e modi di intervento che, a sua
difesa, lo Stato volle conservare, negli affari ecclesiastici;
riordinamento della proprietà ecclesiastica¹, amministrata oggi dallo
Stato ma vuotata in gran parte di quei fini sociali utili che soli lo
Stato protegge; educazione di Stato, dalle elementari all'Università,
intieramente e sinceramente laica, abolizione della legge delle
guarentigie². Quanto al catechismo nelle scuole, noi non possiamo
consentire all'on. Giolitti che il pensiero e il programma dello Stato
moderno nella più delicata delle sue funzioni, che è la scuola
primaria, sia composto, luogo per luogo, dal sindaco, dal maestro e
dal ragazzetto; mirabile concilio di pedagoghi, contro la cui sentenza
non c'è appello.

  ¹ Nel «Patto di Roma», Cavallotti proponeva un prestito «garantito
    sul residuo patrimonio ecclesiastico, del quale--_eccezione fatta
    dei benefici parrocchiali_--e cioè delle rimanenti 336 mense
    vescovili, dei 400 capitoli cattedrali e dei 286 seminari che
    letificano l'Italia, sarebbe a decretarsi la conversione,
    esercitandosi una buona volta il diritto conferito allo Stato
    persino dallo stesso art. 18 della legge Bonghi sulle guarentigie.

    Nella conversione avrebbero pure a comprendersi i beni di quelle
    corporazioni religiose di Lombardia il cui incameramento venne
    impedito dall'articolo II_j_, del trattato di Zurigo del 1859...

    La conversione... permetterebbe di provvedere in pari tempo, con
    un più equo riordinamento dell'ingente patrimonio, anche al
    miglioramento delle condizioni veramente infelici del basso e
    infimo clero, popolo e plebe anche esso; verso di questo sarebbe
    giustizia; verso le intemperanze dell'alto clero, verso i semenzai
    dell'oscurantismo, verso la propaganda insidiatrice della vita
    sacra della patria sarebbe utile difesa dello Stato e della
    civiltà.

    Poichè se la democrazia non intende di offendere menomamente la
    libertà del culto cattolico, come di qualsiasi altro culto, tutti
    eguali innanzi a lei nel grande principio della libertà di
    coscienza; se nemmeno è nei suoi metodi di combattere i principî
    con rappresaglie personali, vi ha però un limite nella mente
    segnato che ella non consente a nessuno di varcare; e lo segnano i
    diritti degli altri cittadini ed i diritti della grande
    collettività nazionale.

    Del resto alla conversione del patrimonio ecclesiastico dovrà
    provvedersi tosto o tardi in ogni modo, con una o con altra
    soluzione qualsiasi».

    Al criterio di colpire in alto, favorendo il basso clero, taluni
    fecero opposizione allora, così come a un eguale programma
    sostenuto dall'illustre prof. F. Scaduto al recente congresso
    tenuto in Roma dal partito costituzionale democratico, taluni dei
    congressisti si opposero.  E nella relazione della Commissione
    nominata per giudicare delle modificazioni ed aggiunte presentate
    al Patto di Roma, relazione stesa da Enrico Ferri, si legge:

    «I signori... vorrebbero tolte le proposte relative alla
    distinzione fra basso e alto clero, pensando che al clericalismo
    di ogni grado nulla si debba concedere mai.  La Commissione, pur
    consentendo nel principio generale, ritiene che nella attualità
    pratica ed economica del nostro paese non si possano disconoscere
    le diversissime condizioni dell'alto e del basso clero, e la
    miseria, sempre dolorosa da chiunque sofferta, che a quest'ultimo
    è inflitta dai preti più gaudenti perchè altolocati».

    Ma non è questo il solo motivo della distinzione da fare; nel
    basso clero noi possiamo rispettare una religione e una chiesa
    popolare alla quale ancora molta parte del popolo aderisce, il cui
    pensiero non può essere mutato chiudendo le chiese; mentre il
    papato e l'alto clero fanno, imponendosi al basso clero e ai
    fedeli, una politica di intolleranze e di dominio clericale e
    mutano la chiesa in partito.

  ² Verrà giorno che il Paese, sinceramente rappresentato nei suoi
    Consigli legislativi, casserà la legge delle guarentigie,
    dichiarando:

    «Che la Chiesa cattolica non è riconosciuta dallo Stato se non
    come libera Associazione di credenti; che, come tale, è posta, nei
    singoli sodalizi che la compongono, sotto gli auspici del Diritto
    Comune, di cui gode, come ogni altra Associazione religiosa e
    civile, tutte le libertà; sottostando nello stesso tempo, in caso
    di abuso, alle sue sanzioni». (SAFFI, _Scritti_, XI, pag. 260).

    Nell'opuscolo _L'Italia aspetta_, A. Bertani scriveva:

    «E vogliate la liberazione sociale da ogni ingerenza del clero
    nella pubblica istruzione. Generalizzate, vogliate, imponete la
    scuola comune, laica, ed avrete debellato ogni influenza della
    Chiesa nell'ordine civile. La legge comune basti per tutti, senza
    guarentigie che stabiliscano due monarchi, due qualità di sudditi,
    due poteri».

    E nel 1875 egli aveva svolto alla Camera un suo ordine del giorno
    chiedente l'abolizione della legge delle guarentigie, con sereno
    spirito di libertà, ritenendo che la legge comune dovesse bastare
    anche per il papa.

Al riordinamento della proprietà ecclesiastica lo Stato, come è noto,
aveva preso impegno di provvedere nella legge delle guarentigie. Esso
pareva allora urgente, ed oggi nessuno vi pensa, talmente si è
smarrito ogni desiderio di azione o criterio prammatico in tale
materia. Senza affrontar qui il complesso problema, sul quale dovrei
ripetere cose già scritte, mi basterà accennare ad un provvedimento
per il quale molte buone ragioni militano, contro il quale nessuna
difficoltà seria può essere addotta--salvo per quel che riguarda i
modi di esecuzione--e che le speciali condizioni dell'erario
renderebbero oggi opportunissimo: la alienazione e conversione in
rendita della proprietà terriera che è parte cospicua del patrimonio
degli enti conservati. Le parrocchie--per questa sola operazione--non
perderebbero economicamente nulla, poichè avrebbero in titoli di
rendita quel che oggi hanno in terre, e ne guadagnerebbe la
spiritualità del loro ministero, la quale è dalla Curia di Roma così
spesso e volentieri sacrificata ai suoi interessi di dominio terreno;
lo Stato intascherebbe il mezzo miliardo (certo non meno;
probabilmente assai più; e la colpa dell'incerta previsione non è
nostra, ma della scandalosa assenza di qualsiasi dato statistico
sicuro) che quei beni valgono, e potrebbe provvedere al gravoso onere
tributario lasciatoci dalla guerra libica senza altro peso che quello
dei diciassette milioni e mezzo annui di interesse; onere il quale
potrebbe essere notevolmente ridotto dalla soppressione economica di
talune categorie di beneficî maggiori e dalla perequazione delle
parrocchie.

Inutilmente io ho fatto la proposta alla Camera; inutilmente ho
pregato taluni dei maggiori uomini della democrazia di dare ad essa
l'appoggio della loro autorità. I tempi (cioè le volontà degli uomini)
non sono maturi, neanche per una così modesta operazione finanziaria,
della quale la vecchia Destra, quando ancora non c'era l'uso di
conteggiare nell'ombra i voti dei preti, non si sarebbe certamente
spaventata.




Le due concentrazioni


Dalla politica ecclesiastica, adunque, intesa come politica delle
chiese e delle fedi, modernista perchè diretta a svincolare lo Stato
da ogni forma di confessionalismo e di complicità confessionale e le
coscienze da ogni forma di soggezione supina e servile a vecchi credo
e istituti, il nuovo _partito d'azione_ prenderà le mosse, ritemprato
nel suffragio universale, per un nuovo ciclo di feconde battaglie.
Come intorno al partito clericale, a destra, si raccolgono le forze di
stasi e di reazione, perchè solo esso possiede una dottrina e una
tradizione essenzialmente antidemocratiche, così intorno al partito
radicale si raccoglieranno, vinte le pregiudiziali e le secessioni, le
difese della democrazia militante e conquistatrice.

E come dall'una parte si va ricostituendo la sovranità effettiva del
papa, con i poteri assoluti dell'assistente ecclesiastico nelle
organizzazioni economiche--e lo dimostrava testè limpidamente Leonida
Bissolati--col dominio del vescovo nelle _Unioni_ popolare e sociale
ed elettorale, con le imposizioni formali ai deputati che dei
cattolici sollecitano i voti, così dall'altra parte, a sinistra, è
necessario ricostituire la sovranità popolare, indice e pratica della
sovranità dello spirito umano, perennemente creatore, sulle
istituzioni sociali. Ed è da desiderare che, nella nuova legislatura,
le due sovranità incompatibili e nemiche, quella del papa e quella del
popolo, si schiereranno, vinte le confusioni e le ambiguità
opportunistiche, nettamente l'una incontro all'altra.

Questo senso della sovranità dello spirito, e del dio interiore che
Fichte vide ascendere con esso, sulle istituzioni sociali, solo nel
radicalismo, giova ripeterlo, è conservato integro e puro. Poichè il
socialismo ufficiale lo esalta bensì applicandolo al proletariato,
grande schiera di oppressi vendicatori, ma lo diminuisce, poi,
limitandolo ad esso, che non è tutta la società degli oppressi, e
all'economia, che non è tutta la storia. E lo esalta il partito
repubblicano, chiedendone una più diretta espressione nelle
costituzioni civili, ma lo diminuisce a sua volta non intendendo che
il monarcato fu ed è e può essere ancora istituto democratico, sinchè
alle ascensioni democratiche non si contrappone, ostacolo e barriera,
ma anzi le seconda e le garantisce contro il pericolo che viene da
coscienze immature e dall'invidia del costante nemico. Intendere e
vedere il monarcato come strumento anche esso, al pari di ogni altra
forma costituzionale,--_non populus propter regem, sed rex propter
populum_--di vita, di armonia e di progresso sociale, questa è
autentica democrazia, la quale giustifica oggi la lealtà monarchica
dei radicali, come giustificherebbe domani, mutate le condizioni,
l'insurrezione repubblicana; astrarre dalla realtà concreta e
oggettivarlo e farne un istituto estraneo alla dialettica della
prassi--fosse anche per combatterlo e rovesciarlo--è eccesso ed errore
di frazioni mal vive, inacidite ed irritate dall'ostilità di eventi
che esse non seppero dominare.




La trasformazione dello Stato


Ho cercato di delinearvi, sin qui, il partito radicale e il
radicalismo come tradizione e concezione generale della vita e
tendenza politica; e di dire in che cosa esso differisce dalle altre
frazioni e gruppi e scuole politiche presenti.

Ma ad un partito di avvenire e di governo insieme--e in questo essere
il radicalismo partito di avvenire e di governo a un tempo è la
sintesi di quanto abbiamo detto--conviene chiedere qualche cosa di
più; sapere quali precisi compiti di riforma assegna alla sua prossima
attività di partito parlamentare, sia esso all'opposizione o al
governo.

Poichè lo stesso compito dei partiti di opposizione, che già parve
così facile, dovendo esso limitarsi alla critica di ciò che gli altri
facevano, è difficile in un periodo, come questo, di transizione, nel
quale un partito moderato esiste anche esso come tendenza diluita e
diffusa, non come preciso proposito di governo. Sicchè ai partiti di
avvenire incombe l'onere di creare in qualche modo, da che le
occasioni non la offrono, la ragione del dissenso e del contrasto
politico.

E questa vi sarebbe nell'anticlericalismo, come abbiamo detto. Ma
l'anticlericalismo, la ripresa e la prosecuzione della lotta per la
libertà religiosa e la laicità dello Stato, non può essere da solo
programma di governo; deve essere anzi, secondo che ho detto, quasi il
nucleo centrale e lo spirito animatore di tutto un fecondo moto di
rinnovantesi e rinnovante democrazia.

C'è una parte, sempre ripetuta e sempre rinviata, del programma
radicale, la quale può forse essere per noi la freccia indicatrice, in
questa nuova ricerca: il decentramento, la tutela e l'incremento delle
autonomie locali, le riforme dell'amministrazione statale centrale,
della burocrazia; formidabile groviglio di difficoltà che il nostro
partito sentì sempre, ma contro il quale non ha osato ancora,
cimentarsi, se pur qualche volta non ha contribuito ad aggravarlo ed
accrescerlo.

Poichè non solo esso vide venire alla tribuna legislativa innumerevoli
proposte di incremento di burocratici, di complicazione degli organi
della pubblica amministrazione senza quasi muover lamento; ma appoggiò
e favorì le richieste degl'impiegati, subì, salendo e partecipando al
governo, il sistema d'invasione perturbatrice del potere legislativo
nel campo dell'amministrazione, di questa nel campo della vita locale.

Sono stati aumentati in questi ultimi anni gli stipendi di tutte o
quasi le categorie dei funzionari dello Stato. Ed era giusto; e non si
è ancora fatta ad essi una posizione conveniente: ma ogni aumento di
stipendi si aggiungeva a un aumento di organici, e le due cose parvero
quasi una sola.

Le attività e le funzioni dello Stato crescono, e cresce anche per
questo verso la burocrazia. Talora si provvede con amministrazioni
autonome, come nel caso delle ferrovie o delle assicurazioni vita; ma,
in questo caso, tali amministrazioni si _burocratizzano_; sicchè, in
sostanza, viene a esser la stessa cosa.

Delle due, dunque, l'una: o sbagliava la democrazia quando essa
intravedeva nel moltiplicarsi ed estendersi degli organi dello Stato
un pericolo per la vita pubblica e, ad ogni più solenne affermazione
del suo pensiero, tornava ad iscrivere il decentramento fra i suoi
postulati fondamentali; ovvero essa non è ancora riuscita a vedere
chiaro, nè l'istinto, sicuro ma impreciso, a tradursi in proposito
consapevole.

Io credo che questa seconda cosa è la vera.

L'amministrazione centrale, già così mastodontica, così lenta nel
lavoro, esigente nelle rimunerazioni, complicata nei controlli, si
accresce ogni giorno, centralizza sempre più, escogita, come rimedio
ai mali dai quali è afflitta, nuovi controlli e nuove complicazioni,
riuscendo così ad aggravare, nell'insieme, il male. Pesa sempre più
sulle amministrazioni locali, alle quali resta ancora una larva di
autonomia, trasformandole in altrettanti uffici burocratici. Vincola a
sè più strettamente il potere esecutivo, via via che, attenuandosi le
divisioni di partiti, il Ministero non è più governo di un partito, ma
partito del governo contro gli uomini che gli dispiacciono; ed essa
gli rende servigi politici ed elettorali¹.

  ¹ Vedi N. R. NICOLAI: _Burocrazia e funzionarismo_.  Note e
    raffronti. Roma, Tipografia del Senato, 1913.

E la burocrazia si attribuisce una parte sempre più larga del potere
legislativo, non solo preparando le leggi complicatissime, nelle quali
le due Camere male riescono a veder chiaro, ma dando una crescente
importanza effettiva ai regolamenti, che son leggi sovrapposte alle
leggi.

Ma c'è qualche cosa di fatale in questo crescere dei poteri dello
Stato e delle attribuzioni dei suoi organi esecutivi; e la democrazia
non ha ancora trovato un punto di appoggio per far forza contro questa
crescente invadenza, per contenere e limitare la burocrazia con altre
forze, organizzazioni ed espressioni d'interessi, che sieno fuori
dello Stato e delle sue presenti delimitazioni amministrative, e che
possano domani, rompendo queste delimitazioni, entrare più
efficacemente nel giuoco della vita pubblica e ristabilire
l'equilibrio.

E da ciò la debolezza, in questi ultimi tempi, dei partiti della
democrazia estrema: del socialismo ufficiale che, dall'avvertito
dissenso fra i miti originarii e la realtà dei processi sociali tenta
di liberarsi rigettando la colpa su questa realtà e rifacendosi
rivoluzionario; e dei partiti positivi e realistici di riforma
(radicali e socialisti riformisti) che, non vedendo ancora le linee di
una larga ed organica ricostituzione sociale, si attardano nell'esame
di piccole riforme, non atte a distinguerli dai partiti medi ed a
farne leva e strumento di profonde trasformazioni.




I sindacati


E tuttavia questo punto di appoggio c'è. Non sono i partiti, i quali
hanno essi stessi bisogno di essere risanati e fatti forti contro la
burocrazia. E non sono le regioni, alle quali spesso si pensa quando
si tratta di decentramento, più per reminiscenze letterarie che per
chiaro intuito politico.

Se lo Stato burocratico è forte, perchè è esso solo una colossale
organizzazione, mentre ogni altro vecchio vincolo di coesione sociale
si va disgregando, fuori di esso e sovente in lotta con esso, noi non
vediamo che un altro vincolo di coesione, la comunità d'interessi
professionali, la classe, il sindacato.

I sindacati--preghiamo il lettore di non confonderli con il
sindacalismo rivoluzionario, dottrina in uso di un solo
sindacato--iniziano un processo di reintegrazione organica della
società. Essi empiranno della loro storia il secolo XX.

Creeranno delle coesioni così salde da poter vittoriosamente resistere
alla burocrazia che ne è gelosa, modificare lentamente la generica e
metafisica rappresentanza politica in disciplinata e positiva
rappresentanza d'interessi. Non annulleranno lo Stato, perchè avranno
anche essi bisogno di rappresentanze collettive, della nazione, unità
etnica, giuridica, economica, di uno strumento di equilibrio e di
sintesi; ma ne limiteranno le funzioni, ponendolo dinanzi, non ad
innumerevoli atomi dispersi, ma ad un numero non grande di potenti
organizzazioni nazionali.

Il sindacalismo teorizzato per uso e consumo degli operai
rivoluzionari non vede che una classe, di fronte all'affermata e
postulata compagine del blocco borghese; e assegna ai sindacati un
compito di resistenza e di lotta che ci rinvia a nebulose palingenesi
remote e dal quale mal si trarrebbe un qualsiasi criterio di politica
positiva e realistica e di riorganizzazione sociale.

Il moto sindacale nel quale noi vediamo il primo inizio del
decentramento che la democrazia presentiva e invocava si estende a
tutte le classi, e celebra quasi ogni giorno silenziosamente le sue
conquiste. Ieri, ad es., si annunziava la costituzione del sindacato
degl'industriali cotonieri. Non _trust_, che la moltiplicità di
componenti non permette di temere, ma sindacato vero di produttori.

E tutte le categorie di funzionari dello Stato si vanno sindacando,
dai magistrati ai custodi di musei. E taluni sindacati più numerosi
fanno già capo a dei parlamentini, riconosciuti per legge; benchè
questa si ostini poi a voler trattare solo con la classe delle
tabelle, non con quella che si disciplina e si organizza nei liberi
sindacati.

Certo anche i sindacati hanno oggi, specialmente presso di noi, una
vita tumultuaria, vincono a stento l'individualismo diffidente ed
astuto, che è cosa caratteristicamente italiana; seguono la pressione
di un immediato interesse, non discernono una loro funzione durevole.
Sono polemici e battaglieri, accampano sulle trincee, non intendono
ancora che il primo dovere è quello di correggere, migliorare,
disciplinare la funzione sociale sulla quale il sindacato riposa.

Ma quello che oggi non è, verrà col tempo; perchè, come dicevo, questo
moto che oggi si inizia è destinato a ricostituire dalle sue basi la
società.

E intanto esso accelera la trasformazione dei partiti e dello Stato
moderno. Insieme con l'altro della libertà spirituale o, ci si passi
la frase, della politica dello spirito e delle fedi, dell'educazione,
dell'autonomia come fatto interiore e di coscienza, è il maggiore
problema della democrazia, perchè riguarda l'organizzazione di essa,
il ricostituirsi delle funzioni sociali in unità corporative,
l'armonia e l'equilibrio fra di queste, la tutela dei supremi
interessi dei consumatori contro le coalizioni e le possibili
esorbitanze dei singoli gruppi di produttori.

Una concezione idealistica insieme e realistica della società e dello
Stato, quale noi vagheggiamo, non vede negli individui, innanzi tutto,
dei _soggetti di diritto_; in ciascuno di essi è, desunta dalle
esigenze della comune umanità, ma definita dalle condizioni storiche
date, nelle quali egli è posto ad operare, una vocazione nativa, un
fine, una funzione, una responsabilità ed un dovere. E il primo
diritto di ciascuno è quello di fare il proprio dovere; primo, anche
nella protezione che lo Stato deve accordargli. Un fine da perseguire,
non come singolo, ma nella società degli uomini, una funzione sociale
da compiere, fine e funzione che cercano di chiarirsi e di esplicarsi,
questo sono gli individui, nell'immensa rete di generazioni e di
rapporti sociali nella quale hanno esistenza.

E dove la posizione e quindi la funzione sociale è eguale od affine in
molti individui, quivi essa costituisce un vincolo morale e spirituale
che non può essere soppresso, una affinità di tendenze, una comunità
di interessi che associa i singoli e li costituisce in gruppi o in
classi; con questo dovere supremo e fondamentale di cercare insieme il
migliore svolgimento e compimento della propria funzione. I
miglioramenti economici sono legati a questo e dipendenti da questo
fine; poichè anche i sindacati non hanno che il diritto di esser messi
nelle condizioni più atte a compiere il proprio dovere.

Non è dunque una lotta di interessi, nella quale mancherebbe qualsiasi
norma, all'infuori delle composizioni mediante la forza, per i
contendenti, ma un moto spirituale di riaggregazione e di
riordinamento che i sindacati compiranno. Essi incominciano, nel loro
processo, a sottrarre forza ai partiti, organizzazioni di tendenze
politiche economicamente e moralmente eterogenee. Le confederazioni
generali del lavoro dichiarano, ad es., di essere libere da ogni
dipendenza ufficiale di partito: talora giungono a dichiararsi
apolitiche; non fanno che la politica della classe organizzata.

Gl'impiegati, in Italia, i maestri, i professori sono gruppi di forze
che agiscono spesso, anche elettoralmente, per loro conto, spostando
l'equilibrio dei partiti.

(Taluni professori hanno poi creato in questi ultimi tempi una specie
di radicalismo loro, ereticale e dotto, più critico che fattivo, ma
lievito fecondo di rinnovazioni, che ha nell'_Unità_ di G. Salvemini
il suo organo).

E lo Stato è anche indebolito da queste organizzazioni, in molti modi.
Spesso, ad es., si determinano dei conflitti complicati, minaccianti
l'ordine pubblico, che esso non ha modo di scongiurare o di reprimere,
perchè sono fra forze organizzate, che hanno fondi di guerra e
disciplina ferrea e una tattica loro, lungamente meditata. Altri
sindacati sono così forti e vasti che non riesce ad essi difficile
creare, anche contro lo Stato, un movimento di opinione pubblica che
lo trascini.

Altri, poi, investono da vicino l'opera stessa dello Stato, e sono i
sindacati dei funzionari pubblici. Discutere se questi abbiano o no il
diritto di sciopero è vano; poichè si tratta solo di un fatto che per
i sindacati è un'arma delicata, ma necessaria (almeno come minaccia)
di rivendicazione di classe, e che lo Stato, da sua parte, vieta e
cerca naturalmente, quanto e come può, d'impedire.

Dove due forze tendono a misurarsi e a lottare, il diritto è il
segreto che il conflitto chiude nel grembo.

L'Italia non può, senza gettare improvvidamente i germi di una
rivoluzione sociale, porsi contro questo moto di organizzazione
sindacale. Con il suffragio universale essa è giunta all'estremo delle
riforme genericamente democratiche e formali; conviene ora affrontare
la questione sostanziale, quella cioè del nuovo assetto delle forze
sociali e dei rapporti fra esse e i poteri pubblici.

Ma anche accettare e secondare il moto dei sindacati lo Stato non può
se insieme non li domini con una visione più alta di equilibrio e di
armonia, e se non cerchi e non trovi nel corpo sociale delle forze con
le quali sia capace di fronteggiarli ed imporre ad essi i loro limiti.

Due vie per giungere a questo ha lo Stato aperte dinanzi a sè:
appoggiarsi sui ceti medi, farsi interprete degli interessi generali
dei consumatori.

I ceti medi, per la loro stessa struttura sociale, per la molteplicità
e complessità dei servigi che rendono, per la iniziativa individuale
che richiedono, sono i meno capaci di organizzazione rigidamente
sindacale; anche essi hanno bisogno di solidarietà e di
organizzazione: ma di una organizzazione varia, molteplice, plastica e
adattabile. Il piccolo proprietario rurale, l'artigiano, il piccolo
commerciante, questi tre grandi strati sociali, non fanno blocco così
facilmente come il salariato, l'impiegato, l'industriale, il grosso
proprietario; ed essi sono sopra a ogni altro minacciati dalle
esorbitanze e dal prepotere dei sindacati. Su di essi quindi lo Stato
deve appoggiarsi per contenere questi nei giusti limiti, per
circondarsi di una opinione pubblica la quale lo accompagni e lo
assista nel suo difficile incarico¹.

  ¹ Un saggio suggestivo di questa concezione nuova del radicalismo
    sociale si ha nello scritto di MASSIMO FOVEL: _Intorno a una
    democrazia radico-sociale. Rivista d'Italia_, ottobre 1912.




Politica dei consumi e finanza democratica


In secondo luogo, mentre i sindacati sono di produttori, sta dinanzi e
di fronte ad essi l'interesse dei consumatori e specialmente di quei
consumatori--e sono la grandissima maggioranza---per i quali ogni
aumento notevole di costo delle merci o dei servizi pubblici sarebbe
oramai gravissimo, ogni diminuzione utilissima.

Verso di essi, troppo sovente presi di mira e tartassati dal fisco--il
nostro sistema tributario grava particolarmente sui consumi, ai quali
chiede quasi un miliardo e mezzo delle sue entrate--, sfruttati dai
monopoli e dal protezionismo cui lo Stato fu così largo di appoggio,
questo deve oramai andare con coraggio e con fiducia; e rinnovare
gradatamente e prudentemente, ma sostanzialmente anche, il suo sistema
tributario, spostandone l'onere verso gli alti redditi e la ricchezza.

Meravigliosa è stata, come taluno disse, la pazienza del contribuente
italiano: ma si rischia di spingerla al limite estremo riversando sui
consumi popolari il peso degli oneri nuovi che si annunziano per la
finanza italiana, oneri che saranno non leggeri, comunque si voglia
far fronte ad essi, o con prestiti o con imposte.

Finchè di pari passo con le spese cresceva il gettito delle imposte
vigenti e qualche leggero ritocco di tariffe e tasse potè portare non
lievi incrementi, non si osò affrontare una riforma tributaria su
larga base, che avrebbe turbato e sconvolto l'economia nazionale; e si
diceva che convenisse attendere un periodo di più sicura floridezza
per tentare. Oggi, invece, sarà l'opposto criterio che prevarrà. E in
un momento difficile per l'Europa e per noi, di spese crescenti, di
preoccupazioni intense, le quali non saranno così facilmente sopite,
di crisi di talune industrie e di scarsezza di denaro, converrà osare
un riordinamento tributario che abbia insieme l'effetto di aumentare
le risorse dell'erario e dei comuni e di sgravare i consumi popolari.

Possono le classi ricche italiane sopportare il nuovo onere? Io non mi
addentro nell'esame delle proposte fatte o di nuove imposte o di
riduzioni e dei loro probabili effetti, una volta che venissero
adottate. Ma trovo ovvio ed accettabile il pensiero dei liberisti, i
quali vogliono che alle esigenze opposte e concorrenti dell'erario e
dei consumatori sia sacrificato senza ritardo il vantaggio di quelle
piccole categorie di industriali ai quali il protezionismo permise di
intascare lauti guadagni: gli zuccherieri, innanzi tutto, ed il
_trust_ siderurgico.

L'abolizione del dazio sul grano si impone anche essa, se il diritto
al pane deve essere considerato dalla democrazia come uno dei più
sacri e fondamentali, l'imposta su di esso come la più odiosa che sia
possibile immaginare. Riconoscere che essa dovrà tuttavia aver luogo
per graduali e lente diminuzioni, perchè l'economia agraria e l'erario
non ne siano troppo gravemente turbati, è rendere omaggio,
nell'interesse stesso dei lavoratori, alla dura necessità delle cose.
E si dovrebbe esser soddisfatti se, nel corso della nuova legislatura,
si potesse tentare una riduzione di L. 3.50 il quintale. Al di sopra
di ogni preoccupazione e timore d'indole strettamente finanziaria e
fiscale deve essere la sicura fiducia e la certezza che facilitare la
vita del popolo, e con esso tutte le molteplici attività creatrici
della ricchezza, non può in alcun modo significare metter l'economia
nazionale in grado di contribuire meno largamente che oggi non faccia,
e con più sacrificio, all'erario pubblico. Qui, come in ogni campo,
l'idea è la più profonda e ricca realtà.




Esercito e spese militari


Quando scoppiò la guerra di Libia fu fatto rimprovero al partito
radicale di non aver preso nell'opinione pubblica una posizione
dirigente e di aver quasi velato il suo pensiero in proposito.

Ma che cosa gli sarebbe convenuto fare o dire? Esso era davvero
equidistante dai due estremi: dal piccolo gruppo della spavalderia
nazionale che andava invocando da tempo la guerra vittoriosa, senza
neanche sapere contro chi, e solo per un rinascente istinto di dominio
e di egoismo (e da questa paternità la parentela, rivelatasi poi, con
il partito clericale, antinazionale per definizione... pontificia),
applicato all'esame dei problemi nazionali; e dal partito socialista
ufficiale, che dell'impresa non volle vedere la necessità storica e
l'importanza--sia pure lontana--per gli ulteriori sviluppi della
cultura italiana ed umana.

Nè amavamo confonderci nei facili entusiasmi della anonima
maggioranza; pensosi soprattutto delle difficoltà che il peso della
guerra poteva creare agli ulteriori sviluppi della politica sociale
nel nostro paese. Poichè, se sarebbe stato indegno dei continuatori
del grande sforzo rivoluzionario non vedere la bellezza ideale e
l'efficacia profonda del gesto di una generazione di italiani che
sacrifica vite e denaro alla continuità ed alla grandezza futura della
patria, era pur doveroso vigilare che il sacrificio fosse strettamente
commisurato alle necessità dell'impresa e non ci conducesse alle
audacie ed ai rischi di una politica spavalda e di crescenti spese
militari.

Chiusa la guerra, noi siam qui per ricordare che la politica italiana
deve essere, dal punto di vista militare, essenzialmente difensiva e
nell'opera diplomatica pacifica e acceleratrice di pacifici accordi,
anche per la limitazione degli armamenti. Gravarci, come pretendono
far i socialisti ufficiali, della responsabilità dei sogni e delle
pretese del «militarismo» è assurdo. Noi sentiamo che le spese
militari schiacceranno l'Europa continentale, che essa va diventando
una grande caserma, che è pazzo profondere tanto denaro negli
armamenti. Ma quale capo di Stato si assumerebbe la responsabilità del
disarmo, anche solo parziale, del suo paese? Faccia ogni gruppo e ogni
partito quello che può per rimuovere ragioni di conflitto, per
moltiplicare rapporti amichevoli, per prevenire le guerre, per
contenere le spese: noi saremo volentieri fra i primi.

Intanto, noi radicali non possiamo consentire, anche per supreme
necessità di esistenza come partito, che le spese militari
compromettano lo sviluppo dei servizi civili e degli ancora invocati
provvedimenti sociali.

_Noi vogliamo quindi che la massima parte degli introiti normali del
bilancio sia assicurata a questa politica di pace operosa; e che a
fronteggiare le spese della guerra passata, che gli avanzi non
copersero, e quelle altre che eventualmente fossero dichiarate
inevitabili per la difesa nazionale, pensino solo le classi ricche,
mediante una imposta progressiva sul reddito_¹.

  ¹ Un tale punto di vista fu, quando già queste pagine erano scritte
    e pubblicate, sostenuto alla Camera per conto del gruppo radicale
    ed accettato formalmente dal Governo, quando fu discussa la legge
    che modificava il reclutamento militare. Anche dei socialisti
    ufficiali taluni, smettendo il pessimismo catastrofico, sembrano
    avvicinarsi a un programma di riforme tributarie o sociali
    associate.




Il programma politico-sociale


Più arduo lavoro è definire il radicalismo, quando si tratti di
delineare le concrete e immediate rivendicazioni giuridiche,
politiche, economiche nelle quali debba inverarsi, pei prossimi anni,
il cammino e il divenire della democrazia. Vi si provava recentemente
l'associazione radicale romana, in uno schema di programma, perdendosi
nel laberinto di una interminabile serie di articoli e di capoversi.

La vita pubblica italiana non offre oggi una questione prevalente e
assorbente in una sua soluzione della quale si concreti lo spirito
democratico: lo sgravio dei piccoli consumatori con imposte che pesino
più direttamente sulla ricchezza, la liberazione del consumo e
dell'industria da taluni dazi doganali (zucchero o ferro) che pesano
su di essi più fortemente, il minacciato fallimento dei comuni a corto
di risorse, la trasformazione dell'agricoltura, la colonizzazione
interna, problemi gravissimi tutti, non sono intesi così potentemente
che sia necessario porre l'uno o l'altro o più di essi in primissima
linea; e tutti insieme si disputano l'attenzione e le preferenze.

Un altro gravissimo problema, da lungo tempo agitato, quello del
miglioramento delle condizioni di vita delle plebi del Mezzogiorno,
attende non dalle leggi, ma da uomini nuovi e da iniziative vigorose,
la sua soluzione. Scuole, strade, acqua, le supreme necessità alle
quali lo Stato possa direttamente provvedere, furono già offerte con
più larghezza, da leggi recenti, a queste regioni¹.

  ¹ Un meridionale osservava testè nella _Voce_ (19 giugno) la
    questione meridionale esser faccenda di riduzione dei tributi,
    innanzi tutto; trovava modo di dichiarare, passando, che la
    questione religiosa ed ecclesiastica non c'entra proprio per
    nulla. Le intendenze di finanza hanno sole il segreto della vita
    dello spirito nelle plebi meridionali! Queste ricadute in un
    ingenuo materialismo economico sono oramai paradossali.

Ma raccogliere intorno ad alcuni argomenti centrali il pensiero
radicale, nel campo della vasta congerie di provvedimenti sociali
auspicati, è pure possibile, rifacendosi ai due cardini indicati:
educazione dell'individuo all'autonomia (umanismo reale e integrale,
dicevano i teorici del socialismo scientifico); ricostituzione della
autonomia degli enti pubblici e delle associazioni d'interessi
professionali; tutela e incremento delle energie vive e fattive della
nazione.

Nel primo campo le categorie che attendono ancora da una ulteriore
democrazia la loro liberazione sono principalmente tre:

  la donna, ancora per molti aspetti giuridicamente minore;

  i vecchi e gli inabili al lavoro, lasciati dalla mancanza di
  protezione sociale alla mercè della beneficenza pubblica o privata;

  i minorenni, che la dura sorte priva della normale protezione della
  famiglia.

Quindi pienezza della capacità giuridica della donna, avviamento alla
sua capacità politica, assicurazione obbligatoria della vecchiaia e
contro le malattie, assistenza dell'infanzia e dei minorenni
abbandonati.

Non osammo parlar senz'altro di piena capacità politica della donna
(elettorato femminile universale) poichè in questo, come negli altri
campi, una democrazia di governo non può perdere di vista l'insieme
delle reali condizioni del paese e dissociare il criterio dottrinale
dell'astratta giustizia da quello pratico del risultato prevedibile,
utile o meno ai paralleli ed ulteriori progressi degli istituti
democratici.

Nel campo delle autonomie collettive:

  riforma e disciplina del diritto di associazione, contemperando ai
  _fini sociali utili_ che le categorie di associazioni si propongono
  l'ampiezza del loro essere giuridico e la facoltà di possedere. E in
  questo campo rientrano anche la limitazione che è necessario imporre
  alle congregazioni, moltiplicantisi oggi, come associazioni di
  fatto, in onta alla legge, il contratto collettivo di lavoro,
  l'esistenza legale e la funzione dei sindacati;

  autonomie degli enti locali, così che esse siano commisurate alla
  capacità di sviluppo dei singoli enti ed ordinate intorno a corpi
  regionali elettivi, muniti di sufficienti poteri e non schiacciati
  dal peso degli organi del potere esecutivo centrale;

  riforma della burocrazia. La necessità e i criteri di questa riforma
  esponeva eloquentemente, nella relazione al bilancio preventivo per
  gli affari interni per il 1913-14, l'on. Aprile.

La politica di tutela e di incremento delle energie sociali riguarda:

  1. la riforma tributaria (imposta progressiva e sgravio di consumi;
  ricostituzione dei bilanci comunali);

  2. la politica doganale. (Riduzione, sino alla quasi abolizione, del
  dazio sullo zucchero e sul ferro, riduzione del dazio sul grano);

  3. la tutela della piccola proprietà rurale;

  4. i lavori pubblici, in ordine ai quali converrà solo continuare il
  possente impulso dato ad essi dall'on. Sacchi;

  5. la politica della scuola.

Di quest'ultimo argomento il radicalismo italiano, partito
idealistico e di cultura, propulsore ed espressione dei progressi
dell'auto-coscienza in ogni gruppo di attività sociali, minoranza
colta che trae il diritto di aspirare al Governo dall'intima
corrispondenza con le aspirazioni confuse ed implicite della
grande massa popolare, si occupa a preferenza di ogni altro. La
formazione dello spirito nazionale deve essere sua primissima
cura. Esso deve quindi volere una radicale riforma della scuola
media e dell'insegnamento superiore; riforma che, conservando la
grande tradizione del pensiero italiano e della cultura classica,
ne presidî efficacemente la formazione, diminuendo il numero delle
università, distribuendole meglio, disciplinandone le funzioni;
riordinando didatticamente l'insegnamento tecnico, facendo
rifiorire, con larghezza di mezzi, il ginnasio-liceo.

Quanto alla scuola popolare, essa va completata con i corsi
professionali, portando l'intiero corso, e l'obbligo della istruzione,
a sette anni subito, e, appena sarà possibile, ad otto anni.

Queste in breve, e per principali capi, le riforme che debbono far
parte di un programma minimo e massimo insieme, perchè intiero e
sintetico programma emergente dalle necessità mature e constatate
della classe democratica, del radicalismo di oggi.

E intorno ad esso è largo il consenso; ma è consenso disperso e
diffuso di singoli, non proposito collettivo intorno al quale si
raccolga un vasto fascio di forze, una volontà risoluta e animosa di
un partito possente. Sicchè questo, dell'organizzazione politica del
radicalismo, è l'ultimo e forse più grave argomento che ci rimane da
esaminare, avviandoci alla conclusione.




L'organizzazione radicale


Questo dell'organizzazione è invero il problema assillante e insoluto
che la democrazia radicale persegue in Italia da quaranta anni. Fu
tentata, nel 1873, una prima riunione dei mazziniani e democratici
radicali; ma li divise, e annullò lo sforzo, il dissidio tra gli
intransigenti e i possibilisti, dei quali gli uni volevano
l'educazione morale delle masse per l'azione repubblicana, gli altri
l'azione riformatrice della democrazia.

Nel 1879 fu costituita in Roma la _Lega della democrazia_ della quale
si è fatto cenno sopra.

Fallito anche questo tentativo, si tentò di nuovo, auspici, con Saffi
alla testa, i maggiori uomini del vecchio partito d'azione, e una
riunione fu tenuta nel maggio 1885 in Bologna per la ricostituzione
della _Lega della democrazia_; e vi fu deciso, il 14 maggio, di
organizzare la democrazia radicale in partito, con schema di statuto
proposto da Socci; e fu istituito un comitato permanente per
l'organizzazione del lavoro elettorale. Parteciparono anche i
repubblicani, salvo alcuni astensionisti, fra i quali il Fratti.

Nel congresso del Patto di Roma, nel maggio del 1890, al quale avevano
aderito 452 associazioni, 30 giornali, 40 deputati, 2 senatori, 122
spiccate personalità della democrazia, fu di nuovo discusso
l'argomento dell'organizzazione del partito, e di nuovo senza effetto
pratico.

Dopo altri 14 anni sorse e tenne il suo primo congresso in Roma, nel
1904, il partito radicale organizzato; in un periodo nel quale lo
sforzo idealistico era assai meno intenso, quando socialisti e
repubblicani avevano largamente mietuto nelle file della democrazia e
quasi per far argine all'assorbimento e alla dispersione. Altri
congressi nazionali furono tenuti nel 1905, 1907, 1909. Ma la vita del
nuovo organismo politico si protrasse lenta e svogliata sino ad oggi;
nè per numero, nè per coesione, nè per efficacia di attività pratica
il partito corrisponde all'ampiezza ed alla forza dell'idea radicale
nel paese.

E il congresso del novembre scorso in Roma servì più a documentare
incertezze e contraddizioni interiori, lentezza di organizzazione,
preoccupazioni elettorali primeggianti ogni altra, che non a trovare
il rimedio. Ma i motivi della debolezza organica di questa idea
radicale non abbisognano, per iscuoprirli, di lunga ricerca; essi
appaiono evidenti a chi consideri le condizioni e le vicende degli
ultimi quaranta anni di vita pubblica italiana.

L'immaturità politica dei ceti medi fra i quali innanzi tutto il
radicalismo dovrebbe reclutare i suoi seguaci, per la non ancora
superata antitesi storica fra i gruppi sociali che detenevano il
potere e la classe nuova; la differenza profonda di regioni per la
quale i moti di cultura e di azione non riescono a vincere la speciale
configurazione che dà ad essi l'ambiente; difficoltà, questa, maggiore
per il radicalismo che non per i proletari, affratellati dalla comune
povertà, ma grande anche per questi; le difficoltà opposte alla
polarizzazione dei partiti dal trasformismo e dall'opportunismo
parlamentari e locali, che stemperavano le migliori energie; la
ripugnanza degli italiani ad ogni durevole e saldo vincolo di
organizzazione sono fatti noti che spiegano molte debolezze.

Inoltre, era appena giunto il radicalismo italiano a discendere, con
Bertani e Cavallotti, dalle altezze del rigido idealismo di Cattaneo e
Mazzini e Bovio nella concreta realtà sociale, non rinunziando agli
ideali ma cimentandoli e incarnandoli nelle prove dell'esperienza,
quando sopravvenne e si diffuse un movimento nuovo, derivazione anche
esso, come ho sopra mostrato, dal radicalismo ma che colpiva con i più
vivaci contorni del suo programma e con la veemenza eroica della lotta
ingaggiata; e molti si credettero e si dissero socialisti che erano,
in realtà, degli ottimi radicali; e che tali, sovente, son riapparsi
più tardi.

Più interessante è cercare se queste condizioni sieno oggi mutate;
così che si possa sperare per il radicalismo un periodo di rinnovato
vigore. Ed io credo che sì, ma non a segno tale che se ne possano
vedere rapidamente gli effetti. Il blocco clerico-moderato che si va
facendo dall'altra parte, il suffragio universale che, aprendo a più
larghe evoluzioni la democrazia, ci costringerà a smettere certi
particolarismi e dottrinarismi infecondi, la più diffusa coltura, la
timidamente iniziatasi rinnovazione, qua e là, delle plebi
meridionali, prepareranno certo larga messe al radicalismo.

E se la democrazia persisterà nell'errore delle scissioni presenti e
il danno sarà grave, noi speriamo che esso non sia nè così grave nè
così lungo da chiudere il cammino ai rinsavimenti riparatori.

Un ceto sopratutto io spero che troverà nel radicalismo sè stesso e le
sue vie, quello degli insegnanti delle scuole medie; perchè questo
della trasmissione da generazione a generazione della cultura
nazionale, della formazione dell'anima e del pensiero dei ceti medi e
dei professionisti è compito sopra a ogni altro radicale, se la
cultura dell'età nuova deve raccogliere in sè e maturare la tradizione
democratica degli ultimi secoli, educare lo spirito al dominio di sè e
della storia, elaborare le grandi idee direttrici, alimentare questa
insaziabile sete di libertà e di riforma che è il nostro tormento e la
nostra gloria.

E contro gli eccessi di un idealismo impaziente che nella visione
dell'umanità e del proletariato di tutto il mondo dimentica le patrie
o le considera come anguste ai suoi sogni, e contro quelli degli altri
che nel nazionalismo mascherano un ritornante istinto di violenza e di
dominio messo a servizio della reazione contro l'umiltà democratica,
il partito radicale dovrà far valere il concetto di una patria vista
nell'unità organica e vivente della sua tradizione e dei suoi legami
di popolo, ma intesa insieme come strumento di più larghi progressi
umani.




Concludendo


Io dissi alla Camera, nella discussione del progetto di legge sul
suffragio universale: l'Italia colta, fatta consapevole della sua
insufficienza, chiama gli analfabeti a salvare la patria. La
democrazia, infatti, estende ora il suo processo evolutivo a nuove
masse di incolti, di trascurati, di sopravvenienti; nel fresco istinto
delle necessità varie di queste masse, nell'opera alacre suscitatrice
e direttrice di queste coscienze novelle, l'Italia colta ritroverà, è
da sperare, sè stessa. O il popolo nuovo le dà la sua sanità rude o
essa dà al popolo nuovo i suoi vizi mentali e morali. Noi, il cui
maggiore orgoglio è quello di essere e di sentirci popolo, con queste
masse, di mettere ai loro servizi la cultura e l'esperienza acquisita,
di servire alacremente all'anima popolare che si cerca e si rivela a
sè stessa e conquista la sua vita e la sua storia, noi lavoreremo
perchè la prima delle due cose avvenga.

Questo è l'ufficio dei dirigenti; farsi pedagoghi di libertà e di
autonomia, portare nell'opera pubblica l'espressione nitida e salda.
delle esigenze ed aspirazioni di un popolo che ascende dalla necessità
alla libertà, e rinnova e ravviva ascendendo le glorie di una
tradizione di coltura che è la traccia luminosa della storia della
civiltà europea.

La rampogna che A. Salandra rivolgeva testè al partito liberale
«consideri ognuno di noi lo stato di marasma senile in cui la parte
nostra è da qualche anno caduta», forse tutti gli altri partiti
possono dire a sè stessi. «È tempo che ognuno prenda il suo posto qui
dentro, chiaramente e francamente: siamo vicini a una crisi del
parlamentarismo; è prossimo il _dies irae_».

E questa rampogna, è eco di altre più solenni rampogne.

Scriveva, nel 1878, uno dei nostri più insigni, Agostino Bertani:

«Noi, generazione cospiratrice e rivoluzionaria, vittoriosa per la
fede nell'ideale di un'Italia redenta, scendiamo a giorni affrettati
nel sepolcro, ravvolti nelle bandiere rivendicate; e con noi scompare
un'epoca, un insegnamento, e si perdono nel passato le ultime note di
un inno, che la storia innalzerà alla virtù di un popolo che volle
esser libero e padrone di sè. La generazione che ci segue, guasta
dalla dualità del dogma politico, educata all'utile, al tecnicismo
scientifico, incalzata dai problemi economici, si difende dallo
sgomento del vuoto con l'indifferenza dello spirito e con l'angustia
dei concetti; ma la negazione ha periodi brevi e la generazione futura
comincerà a impensierirsene».

La generazione nuova alla quale il Bertani volgeva l'occhio e le
speranze, al di là di quella che in quegli anni si precipitava nella
vita pubblica, è questa che intorno a noi fa le prime prove.

Essa è torbida e irrequieta, litigiosa e veemente, insofferente di
disciplina, avida di originalità spuria, raccattatrice di cultura
posticcia, per odio delle lunghe vigilie di preparazione; è quello che
si poteva attendere da una generazione che non ebbe maestri, che fu
dissetata di positivismo e di critica, che imparò a schernire i
maggiori e si rispecchiò in D'Annunzio e si disperde in un
individualismo senza freni.

E pure non tutta è guasta; e brividi e fremiti di idealismo vi corrono
dentro.

Ascolti essa una parola di Giovanni Bovio¹:

  ¹ Discorso citato in morte di B. Cairoli.

«Quando voi vedete qualche straniero indicarvi le nostre piccole lotte
di oggi, le gare personali, lo scetticismo larvato di una classe
dirigente che ogni dì scende, e il potere essere conteso fuori delle
idee, fuori dei metodi oggettivi, innanzi a un popolo che paga, vota e
geme; quando vi si dice che qui il sacerdote è senza Dio, la cultura
senza educazione e il cittadino senza obbiettivo pubblico, per
concludere che una nazione nata ieri è oggi senza giovinezza, levatevi
e costringetelo a voltare la faccia verso Pisa, dove Mazzini muore».

Non lo straniero, oggi, ma noi stessi dobbiamo volgere il viso verso
dove Mazzini muore, verso la luce degli ideali civili e sociali che
egli ed i suoi grandi contemporanei e seguaci accesero nelle
coscienze, inserirono con viva violenza nella vita italiana e dal cui
impulso lentamente degradante essa è stata mossa sino ad oggi.

Oggimai quel moto si arresta e langue e la cultura italiana si va
oscurando e il carattere e l'animo finiscono per corrompersi se un
impeto nuovo di entusiasmi e di ideali non soccorre. Di là dove il
pensiero dei creatori della nostra nuova vita nazionale parve
discendere nell'ombra, ricominciamo.

A noi non il silenzio, custode delle memorie, che pretestavano
tristemente gli ultimi superstiti, a noi la parola e l'azione
evocatrici delle memorie, suscitatrici delle speranze. Fughiamo le
ombre, ripigliamo la battaglia per la sovranità dell'idea sulla
storia, per la democrazia, dalla quale tanta liberazione di umili e
concordia di sforzi nel bene si attende ancora. Più felice, fra noi,
chi getterà nella lotta più di sè stesso e farà della propria anima
ardente la luce sul cammino della folla che sale, che diventa popolo
libero, Italia migliore.





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    Relazione al Congresso internazionale dei liberi credenti
               In Parigi, 16-22 luglio 1913.

  Seguiranno, per il corrente anno 1913, altri volumetti,
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italiano, by Romolo Murri

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