Terremoto

By Parmenio Bettoli

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Title: Terremoto

Author: Parmenio Bettoli

Release date: July 12, 2024 [eBook #74026]

Language: Italian

Original publication: Milano: Galli e Omodei, 1878

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This book was produced from scanned images of public domain material from the Google Books project.)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK TERREMOTO ***


                            PARMENIO BETTÒLI


                               TERREMOTO

                         STORIA DEL SECOLO XVI



                                 MILANO
                    GALLI E OMODEI, EDITORI-LIBRAI.
                    Galleria Vittorio Emanuele, 17.
                                 1878.




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

                      Milano. Tip. Fratelli Treves




TERREMOTO




_PARTE PRIMA_.

CAMIA E NICELLI




CAPITOLO I.

L’arrivo del Papa.


Chi, sul finir d’aprile dell’anno di grazia 1538, nel pomeriggio del
sabato precedente la domenica delle Palme, si fosse trovato fra le mura
allora nuovamente instaurate della buona città di Parma, non avrebbe
mancato di meravigliarsi dello insolito moto e della ressa tumultuosa
che ne animava le vie.

Un’onda fitta — in cui uomini e donne, giovani e vecchi, laici
e religiosi, cavalieri e pedoni, nobili e plebei, andavano
necessariamente confusi — scaturendo, a mo’ di fiumana, dalla piazza
maggiore e gonfiandosi vievia de’ confluenti che le tributavano le
varie strade sboccanti in quella di San Michele; procedeva ansiosa,
per questa verso la porta del medesimo nome, che aprivasi allora, come
adesso, nel lato orientale della città.

A differenza delle folle de’ nostri giorni che — per la modestia e la
uniformità del vestire — sembrano reggimenti di truppa o migrazioni
di formiche; quelle de’ tempi andati offrivano le più gradevoli
varietà e di tinte e di fogge: pannolani e sciamiti da’ smaglianti
colori, bianchi zendadi, lucidi elmetti, piume svolazzanti, gonfaloni
effigiati in testa alle associazioni artegiane e fratesche, pertugiane,
archibugi, picche, bandierole, zagaglie; tutto un assieme variopinto
e screziato da disgradarne la giubba, onde dovette camuffarsi
quell’Angelo Beolco da Padova, che inventò la maschera dello
Arlecchino.

Dal palazzo della Corte di Giustizia che guardava la piazza, sino alle
mura terminanti la strada percorsa dalla moltitudine, tutte le case
vedevansi pavesate a festa, e le chiese, ch’erano sette, adorne al di
fuori di ricchi arazzi storiati, splendidamente illuminate di dentro,
con le reliquie e gli argenti in mostra su le porte laterali, custoditi
da scaccini e ramarri, e su la porta maggiore il proposto, i sacerdoti
e i chierici in grande pontificato.

Tutte le campane della città suonavano a festa.

Era, senza dubio, uno insueto e solenne avvenimento, che traeva a
subbuglio tutta quella popolazione, ed anco di natura gradevole, se
si doveva giudicarne dal gaio insieme e premuroso affollarsi dei più.
— E tale era infatti poichè si trattasse nient’altro che dello arrivo
di Sua Beatitudine papa Paolo III, il quale — partito di Roma il 23
marzo — doveva transitare per Parma, d’onde, per Piacenza, portarsi a
Nizza, chiamatovi dal vivo desiderio di comporre a pace que’ due grandi
lottatori del secolo, che avevan nome Francesco I re di Francia, e
Carlo V di Spagna, imperator di Lamagna e re dei romani.

Di un tanto arrivo Parma si allietava a due titoli: e per salutare il
rappresentante di quella potestà, a cui — da poc’oltre un decennio —
l’aveva ridata, insieme a Piacenza, la cessione fattane da Francesco
II Sforza, duca di Milano, a papa Leone X; e per rivedere nel nuovo
pontefice, eletto quattro anni innanzi, quello istesso cardinale
Alessandro Farnese, ch’era già stato suo vescovo.

A degnamente riceverlo, sin dal primo luglio dello istesso mese, il
Consiglio degli Anziani aveva fermato il partito di «poter trovare e
spendere una somma di scudi cinquecento».

Però venivano in testa alla folla che sempre più si accalcava lungo
la via principale, primo di tutti, il Magnifico messer Tarusi da
Montepulciano vicelegato apostolico, in luogo del cardinale Gianmaria
Del Monte, vescovo di Siponto, che un amorazzo con un’accattona del
Valnurese teneva inchiodato a Piacenza; poi il podestà Gabriello
Boccabarile, dottore in ambo le leggi; poi gli oratori eletti dalla
comunità per baciare i piedi e prestare omaggio al Santo Padre in nome
del popolo parmense, ch’erano i dottori Federico Del-Prato, Nicola
Lalatta e Gianmarco Colla, i nobili Gerolamo Tagliaferri, Agostino
Carissimi e Marcello Cautelli, il cavalier Francesco Baiardi ed il
merciaiuolo Marco Garsi; e dietro: un codazzo di signori feudali, il
collegio de’ dottori, i bacellieri dello studio, gli anziani del Comune
e delle arti, il Capitan di Giustizia, i birri della Corte e gli uomini
d’arme del patriziato.

Al popolo minuto, al servidorame, a’ villici convenuti dal contado in
città, per assistere al festoso momento, mescevansi soldati di ventura,
mercatanti ed artisti, fra i quali notavansi due personaggi, su cui ci
è mestieri richiamare particolarmente l’attenzione de’ nostri lettori.

Era l’uno di essi un giovine poco più che quadrilustre, alto,
pallido in viso, dagli occhi pensosi e melanconici, bruni come le
chiome inanellate ed i leggeri mustacchi che gli ombravano il labro,
dall’ampia fronte, il naso sottile, il portamento marziale. Una
corazza di buffalo, che portava al disopra di un giustacuore di rascia
a maniche sparate con sbuffi di tela rensa; una lunga spada a guaina
di ferro e il pugnaletto che gli pendevano dalla cintola; un piccolo
casco pure di cuoio a costoloni di acciaio e i grandi calzari che gli
salivano su su fino quasi al ginocchio a mo’ di schinieri, dicevano
chiaro come egli appartenesse al mestiere dell’arme. — Dal fare, a un
tempo apatico e curioso, lo si sarebbe detto forestiere e nuovo giunto,
e tanto più poteva tenerlo per tale chi ne avesse udito le dimande
che — tratto tratto — volgeva a’ passanti sul nome delle strade, delle
chiese, de’ palagi, delle persone.

L’altro era un gramo omiciatto su la quarantina, basso di statura,
adusto, angoloso, giallastro, dagli occhi porcini, la fronte ed il
mento scappanti, il naso a tromba e la bocca tutt’amore per entrambe
le orecchie. — Vestiva giubbetto e brache d’un rozzo burello color di
cenere e calze nere sbiadate e sdrucite. — Egli pure — a udirlo parlare
— denotavasi forestiero, ma, non che a Parma, all’Italia. — Veniva
infatti, di Germania e, precisamente, da Leuthen di Slesia, sua patria,
donde — così almanco si mormorava — lo aveano costretto a fuggire
non sappiamo quali imputazioni di ladroneggi e di broglio, e fra noi
si andava accreditando quale antiquario e raccoglitore di medaglie e
cimeli. — Ciò che veramente fosse ce lo dirà il seguito: ci basti,
per ora, lo averne stretto la personale conoscenza e sapere ch’e’
rispondeva al nome di Pellegrino.

Poco più oltre la chiesa del Santo Sepolcro egli ed il giovane soldato
vennero a trovarsi l’uno al fianco dell’altro e giusto nel punto
in cui li costringeva ad arrestarsi il regurgito della calca, che
indietreggiava e retrocedeva al sopraggiungere del pontefice entrato
allora col suo seguito in città.

Due paggi a cavallo, in farsettino cremisi trapunto de’ _bei gigli
d’oro_ di casa Farnese, aprivano il corteo, in capo del quale
inoltravasi Paolo III, montato s’una bianca giumenta — simbolo di quel
tributo di vassallaggio che il reame di Napoli doveva annualmente alla
Santa Sede Apostolica — e seguito da un nugolo di principi, cardinali,
abati, gente d’armi e staffieri.

Comechè lo immaculato candore della lunghissima barba, che gli scendeva
sino a mezzo il petto, lo accusasse — qual’era — più che settuagenario;
nella vivacità degli sguardi, nelle calde tinte del colorito, egli
conservava tuttavia alcunchè di giovanile e di baldo e, nella fronte
alta e rugosa, e nel naso lungo e piovente, il tipo caratteristico
della sua possente famiglia: e tanto meno vecchio appariva da che un
rosso cappello cardinalizio a cordoni e nappine di oro ne occultasse
la quasi completa calvizie. — Sopra una sottana di fino saione bianco
ricamato, che gli toccava il malleolo, portava un’ampia cappa di
porpora a maniche bordate da ormesino: sul petto una massiccia croce
tempestata di gemme sospesa al collo per una grossa catena.

Fu solamente alla sua vista che il giovine soldato parve riscuotersi;
impallidì, corrugò fieramente le sopracciglia e, spintosi inanzi
a suono di gomitate e rizzandosi su la punta de’ piedi per meglio
vedere; domandò ansioso al tedesco, che aveva profittato dei suoi
movimenti per avanzarsi a sua volta, chi fossero le diverse persone che
accompagnavano il papa.

— Tirfelo supito, supito! — gli rispose premurosamente Pellegrino
di Leuthen, che cincischiava l’italiano al modo di tutti i suoi
compatrioti — quello fetete sua testra, star gartinale Jagope Satolete,
motenese.... prafe gartinale nominate gartinale anne bassate.

— E quello alla sua sinistra? — chiese il soldato.

— Quello star gartinale Casbare Contareno, fenesciane.... altre prafe
gartinale nominate anche anne bassate.

— E quel giovinetto, che a pena mette barba e che cavalca pure alla sua
sinistra?

— Oh, quello.... più gartinale di tutti.... star suo nibote, gartinale
Alessantro Farnese.... nominate guattro anni sono.... lui aferne
solamente guattordici....

— E chi è quel piccolo, magro, vestito di nero, che gli vien subito
dietro?

— Quello?... referentissime signor Recalcate.... lui scrifere prefi,
polle, lettere, tutto... lui secretarie Sua Peatitudine....

— E quel garzoncello che gli sta al fianco?

— Il brincipe Ottavio Farnese.... _der bruder_, fratelle del gartinale
Alessantre....

— E accanto a lui?

— Suo patre, il signor tuca ti Castre, figliuole del papa....

A queste parole, il giovine soldato, di pallido che era, si fece
livido in volto, strinse le pugna, digrignò i denti e — come se tutta
la tempesta d’odio profondo, che certamente gli ribolliva nel cuore,
avesse potuto trovare uno sfogo pel veicolo de’ suoi sguardi — li
affisò fulminanti su Pierluigi Farnese, che, in quel momento gli
transitava d’inanzi, cavalcando un superbo ginetto di Spagna.

Pellegrino continuava indarno a sciorinargli la sua dotta nomenclatura
delle notabilità che seguivano il papa; lo tirava per la manica, onde
mostrargli i giovinetti principi Ranuccio ed Orazio, altri figliuoli
del signor duca di Castro, e il loro precettore Baldassare Molossi da
Casalmaggiore, detto _il Tranquillo_, e i capitani Giambattista Savelli
ed Alessandro Tommasoni da Terni, e il segretario del duca, Apollonio
Filareto, ed altri ed altri: il soldato non gli prestava più ascolto.
Pareva che tutte le facoltà gli si fossero concentrate negli occhi, i
quali — con fissità spaventosa — seguivano sempre il Gonfaloniere di
Santa Madre Chiesa, che andavasi intanto perdendo in mezzo alla folla.

Come lo intero corteo fu loro sfilato dinanzi, eglino pure — il
soldato e Pellegrino di Leuthen — si risolvettero di piegare verso la
cattedrale, dove quello doveva far capo; ma — per quanto studiassero di
affrettare il passo e di mettersi per iscorciatoie — tale e tanta era
la ressa che queste pure ingombrava, che non poterono giungervi se non
molto in ritardo e quando già scesa la notte.

La piazza del duomo risplendeva d’infinito numero di torce, o infitte
allo ingiro nelle muraglie, o recate in mano da valletti del vescovado
e della comunità. — Su la gradinata adducente al magnifico tempio,
che l’antipapa Cadalo fondava nel secolo XII, circondato dall’alto
clero ed in solenne pontificale, il cardinale Guidascanio Sforza di
Santafiora, che, a soli vent’anni, era già vescovo di quella città,
stava aspettando nel Santo Padre il proprio avo materno.

Tanti nipoti del papa scombuieranno senza dubio la intelligenza del
nostro lettore, ond’è che reputiamo debito nostro fornirgli qualche più
preciso cenno sul conto dell’avo.

Nato da Pierluigi Farnese e da Giovanna Caetani, Alessandro, ch’era
salito al trono pontificio il 12 ottobre 1534, doveva tutto il proprio
credito alla celebre Giulia Bella, sua germana, una delle concubine
di papa Alessandro VI, il quale, creatolo cardinale nel 1493, lo inviò
nelle Marche suo legato apostolico. — Ivi il Farnese — per non parere
da manco dell’ottimo e massimo suo protettore — s’imbizzarrì d’una
Lolla Ruffina di Ancona, che lo fece padre di parecchi figliuoli, tra’
quali Costanza e Pierluigi. — Ma, per un buon papa di que’ giorni, non
bastava lo aver prole, come se n’ebbe Rodrigo Lençol-Borgia e Giulio
de’ Medici: gli occorrevano eziandio nepoti da farne altrettanti
cardinali, vicari, priori e scrittori di lettere apostoliche. — Però,
sin da molti anni prima, il Farnese aveva procacciato a prepararsene,
maritando la figlia a Bosio II Sforza di Santafiora, signore di
Castell’Arquato e dei dazi di Chiavenna e della Rocchetta, ed il
figlio, nel 1519, a Girolama di Luigi Orsini, conte di Pitigliano. —
Costanza, vedova da tre anni, aveva undici figli: Guidascanio, Carlo,
Sforza, Mario, Paolo, Alessandro, Giustina, Camilla, Francesca, Giulia
e Fausta; Pierluigi per contro, non ne aveva che cinque: Alessandro,
Ottavio, Ranuccio, Orazio e Vittoria. — E l’ottimo avolo, che, più che
papa, potevasi chiamar patriarca, appena cinta la tiara, s’affrettò a
nominar cardinali i due primogeniti, Guidascanio di Costanza, che non
contava sedici anni, ed Alessandro di Pierluigi, appena quattordicenne.
— Poi creò il suo proprio figlio Gonfaloniere della Chiesa, gli
dètte la signoria di Nepi e il ducato di Castro, compro da Gerolamo
Estontevilla: ed in quel torno stava industriandosi per investire il
nepote Ottavio della ducea di Camerino e fargli ottenere in moglie
Margherita d’Austria, bastarda di Carlo V, che il pugnale di Lorenzino
de’ Medici e la draghignazza dello Scoroncocolo avevano vedovata, dopo
sette mesi di matrimonio, la notte del 6 gennaio dell’anno precedente.

Il giovane soldato, col quale abbiamo stretto testè conoscenza,
erasi spinto giù per le vie secondarie che, da quella maggiore di San
Michele, conducono al duomo; ma, impedito dalla fitta di gente che si
accalcava dovunque, non eravi potuto giungere se non quando già vi si
trovavano il papa e la sua corte.

Lungo la via, erasi separato da Pellegrino di Leuthen, che un orafo
aveva trattenuto in cammino per mostrargli alquante vecchie monete di
rame, scoperte negli scavi di fondazione delle nuore mura, e quando
— rasentando il Battistero da quel lato in cui sorgevano, un tempo,
le case de’ Salimbene — giunse a metter piede su la piazza della
cattedrale; uno strano ed inatteso spettacolo gli si spiegò sotto gli
occhi.

Era un agitarsi incomposto di fiaccole, un tempestoso scalpitar di
cavalli, un accozzarsi di spade, un gridìo d’imprecazioni e di lagni,
un fuggi fuggi generale di tutto lo immenso popolo ivi raccolto, un
trambusto, un tumulto, una indescrivibile confusione.

In quello istesso momento, una giovinetta, che pareva fuggisse
inseguita da un gentiluomo a cavallo, gli corse inanzi spaurita come
invocando soccorso.

Il soldato la riparò dietro di sè, facendole scudo del proprio corpo,
e, cacciata la mano in su l’elsa attese di piè fermo il cavaliere,
il quale, per altro — visto appena quell’atto minatorio — fe’ voltar
fianco alla sua cavalcatura, e si allontanò.

— Sempre lui! — mormorò trasalendo il soldato, perocchè, nel
gentiluomo, avesse riconosciuto Pierluigi Farnese; e tratta la
fuggitiva a ricovrare entro la più vicina porta del Battistero, vi si
piantò ritto dinanzi a mo’ di sentinella.

Vediamo adesso cosa fosse accaduto.




CAPITOLO II.

La bianca chinea.


Quantunque il medio evo avesse compiuto la sua parabola con lo spirare
del secolo XV e fossero insieme cessate le sanguinose lotte fratricide
de’ guelfi e de’ ghibellini, che ne furono sintesi; non s’erano
tuttavia ancora totalmente attutite certe rivalità di famiglia, che, da
quelle fazioni, ripetevano il loro antico rancore.

Nel piacentino, in particolare, scoppiettavano pur sempre, sotto la
cinigia de’ nuovi tempi, le mal sopite faville di quegl’intestini
dissidi e, tra le possenti casate de’ guelfi Camia e de’ ghibellini
Nicelli, emoli nel contrastrarsi il primato del Valnurese, durava
sempre acerrimo l’odio, perenni gli sfregi e l’arrecarsi vicendevole
danno.

Notammo già del basso amore che il legato pontificio risiedente a
Piacenza nudriva per una misera mendicante di quelle istesse regioni.
Ora, siccome costei era già stata vassalla dei Camia e dalle costoro
famiglie frequentemente beneficata, egli, di rimpatto, mostravasi
verso di loro sovrammodo benevolo e parziale; dal che un sempre
maggiore argomento all’astio de’ Nicelli. I quali, irritati da un
siffatto contegno e resoluti di muoverne querela alla istessa Sede
Pontificia; come riseppero che il papa in persona, traendo di Roma,
doveva trattenersi alcuni giorni a Parma, fermarono spedirgli il
conte Stefano, loro capo principale, ed il marchese Giambattista
da Cattaragna, affinchè gli denunziassero i tristi procedimenti del
cardinal Del Monte e ne suscitassero le ire contro i loro abborriti
rivali. — Ma del partito preso e dello scopo di tale deputazione questi
s’ebbero vento e non mancarono, a tempo acconcio, d’inviargli eglino
pure i loro più validi rappresentanti.

I due Nicelli contavano in Parma vari aderenti ed amici, primi tra’
quali un Andrea Baiardi ed un Massimiliano Balestieri, giovinastri
arrischiati, lesti di mano e facili al sangue, che già più volte
avevano stretto parentela con la berlina e sculacciato la pietra e —
forse per quell’adagio francese che _qui se ressemble s’assemble_ — fu
su costoro che quelli fecero il loro maggiore assegnamento, per trovare
appoggio presso la persona del papa.

Abbigliati de’ loro abiti più sfolgoranti; tutti broccato, oro, gemme,
pennacchi; seguiti da una serqua di ceffi patibolari in livrea; mossero
quindi ad incontrarlo insieme alla folla e lo accompagnarono sino alla
piazza del duomo, dov’era proposito di Stefano Nicelli il farglisi
inanzi e presentargli certo suo memoriale.

Paolo III — sempre a cavallo della sua bianca chinea — andò ad
arrestarsi appiè della gradinata, su cui lo stava aspettando il nipote
cardinale, e — mentre questi gli reggeva umilmente la staffa — scese di
sella. — Colse la propizia occasione il Nicelli per islanciarsi, nel
duplice intento di stendergli il suo memoriale e sostenerne la mula
pel morso, onore di que’ giorni ambitissimo; ma un altro il prevenne:
un altro, che — circondato pure da congiunti e famigli — teneasi su la
scalea poco discosto dal vescovo, si avanzò in pari tempo e, prima di
lui, afferrò le briglie della cavalcatura papale.

Quell’altro era un Camia.

Misurando tutto il proprio svantaggio, Stefano Nicelli intravide, d’un
tratto, di quale odioso maneggio fosse stato vittima insieme a’ suoi: i
Camia, istrutti de’ loro intendimenti e forti dell’amicizia de’ conti
di Santafiora e dello stesso vescovo di Parma, li avevano prevenuti e
soverchiati in guisa, che non c’era più nulla a sperare.

Acciecato, quindi, da un subitaneo accesso di rabbia:

— Nicelli! Nicelli! — si pose a gridare e, dato un passo inanzi, ghermì
quelle istesse briglie che già stavano in mano del suo avversario.

— Camia! Camia! — gridò questi, a sua volta, e, indietreggiando, trasse
a sè la chinea, che — per non voler salire su la gradinata — cominciò a
recalcitrare e a scuotere impazientemente la testa.

Alla chiamata di Stefano, accorsero subito i suoi, insieme al marchese
di Cattaragna, capitanati dal Baiardi e dal Balestrieri, con nuda in
pugno la spada: altrettanto fecero i seguaci del Camia al suo grido
di allarme; onde ne nacque una colluttazione, una zuffa, un parapiglia
d’inferno.

Il mastro di stalla pontificio — dabben galantuomo, più tenero delle
sue bestie che non madre de’ figli — erasi intanto introdotto fra’ due
litiganti, che a furia di strappate di morso, squarciavano brutalmente
la bocca della sua preziosa giumenta, e si destreggiava in varie guise
pur di riuscire a levarla loro di mano.

Non lo avesse mai fatto!

L’impetuoso Baiardi — tratto presumibilmente in abbaglio dallo
incerto ed oscillante chiaror delle faci — credendo tôrre di mezzo il
principale antagonista dell’amico suo; gli vibrò tale una stoccata nel
petto da trapassarlo fuor fuora, sì che il meschino andò a ruzzolare
boccheggiante traverso i gradini della scalea, mettendo gemiti
disperati e contorcendosi nell’agonia.

A simil vista, il papa spaurito e commosso, corse a rifugiarsi entro
la chiesa insieme a’ più del suo seguito; il magnifico messer Tarusio
Tarusi impartì l’ordine a’ suoi uomini e a quelli del Capitan di
Giustizia di far forza d’armi e di sgomberare la piazza; e la folla
incalzata e sgomenta, cominciò ad agitarsi, a strillare, a fuggire.

Fu in questo punto che sovraggiunse il nostro giovine soldato.

La fanciulla, di cui s’era creato difensore e campione, non aveva
assistito al solenne ingresso di Paolo III in città, ma ne aveva
atteso l’arrivo da piedi della scalinata del duomo. — Erale compagno
e scorta un vecchio signore di venerando e maestoso esteriore, il
quale, non così vide il pontefice scendere d’arcione, che le si
staccò dal fianco per essere ammesso tra’ primi al sommo onore del
baciapiede. — In quello istesso momento scoppiò l’alterco a cagione
della bianca chinea. — Le grida furibonde dei contendenti e, forse più
ancora, certe occhiate di fuoco, onde la facea segno un gentiluomo
del seguito papale venuto a situarlesi presso, spaurì siffattamente
la giovinetta, che, senz’altro riflettere, si dètte a correre verso il
Battistero, mentre il gentiluomo, o fosse per trattenerla o fosse per
chetarla con rassicuranti parole, spronava il cavallo e le galoppava
dietro, cagionandole un sempre maggiore sbigottimento. — Fu allora che
intervenne il nostro giovine soldato e che il gentiluomo si allontanò.

Per chi, raffigurando in costui il signor principe Pierluigi Farnese,
figliuolo di Sua Santità, duca di Castro e di Nepi e Gonfaloniere della
Chiesa, del quale erano abbastanza noti i rotti costumi, si fosse
arrestato a contemplare la sgomentata e fuggente fanciulla; facile
sarebbe riuscito il trovare una ragione allo strano contegno di quello
nella rara bellezza di questa.

Si narra d’uno statuario greco, il quale, volendo plasmare la più bella
imagine di Venere, che mai fosse uscita da scalpello scultorio, ricorse
allo spediente di modellarne le varie parti su di altrettante donne di
beltà peregrina, senza che un simile avvedimento lo facesse approdare
a nulla di buono. — Vera o fittizia che sia, questa leggenda giova,
se non altro, a mostrare come non basti la innappuntabile perfezione
delle forme a rendere una donna attraente, ove non congiunta a quella
cara leggiadria dello assieme, che è già, per sè sola, la più efficace
estrinsecazione del bello; è l’armonizzanza omogenea di contorni e
di tinte, che i pittori dicono _intonazione_; la qualità che aumenta
pregio alle gemme e che i gioiellieri chiamano _aqua_. Ed era appunto
di cosiffatte doti, che si abbelliva particolarmente la giovinetta di
cui favelliamo.

Per avventura, quella sua taglia sottile e flessibile, quel pallido
sembiante, quei suoi grandi occhi bruni languidi e vellutati, ed una
certa cascaggine di tutta la gentile personcina; tradivano in lei
alcunchè di un po’ troppo gracile e dilicato. Ma queste leggere pecche
— seppur tali apparivano agli occhi di chi sa di stare alla donna come
broncone alla vite — venivano largamente compensate da una espressione
di angelica dolcezza e di elevato sentire, che le traspariva da tutta
la bella persona come profumo da fiore. — E le sue molte attrattive
attingevano anco una grazia maggiore da una specie di vezzoso camauro,
guarnito di trine, che le stringeva le copiose trecce, e da una veste
di ciambellotto cilestrino a leggeri punti di argento, sparata nel
mezzo della gonna, con maniche ampie e cadenti, e sovrammessa ad una
semplice sottana di bianco zendado.

Tale era la fanciulla, che il nostro giovine soldato aveva impreso
a proteggere e che — addossata ad una delle colonnette spirali
fiancheggianti la porta del Battistero — teneva le mani incrociate,
come pregasse, e gli occhi fisi verso il punto, in cui ferveva tuttora
la mischia.

Sino da’ primi rumori, i valletti della Curia e dell’Anzianato,
s’erano posti in salvo, l’un dopo l’altro, o nella chiesa o nel palazzo
vescovile; attalchè, grado grado, non rimaneva più un solo sprazzo di
luce a diradare le tenebre. — Intanto gli armigeri del Vicelegato e
della Corte di Giustizia — respinti per le strade adiacenti que’ più
arrischiati de’ curiosi, cui la paura non avea fatto spuntare le ali —
ritornarono in mezzo alla piazza, nel proposito di far cessare la zuffa
e d’impadronirsi de’ tumultuanti. — Ma, caduto nel proprio sangue uno
de’ Camia e rifugiatisi anche costoro nella cattedrale, solo i Nicelli
ed i loro aderenti restavano sul terreno; di maniera che il tafferuglio
si poteva considerare finito. — Senonchè il Baiardi e il Balestrieri,
che, pe’ castighi frequentemente patiti, avevano il sangue grosso
contro il Vicelegato, non paghi ancora del trambusto promosso, vollero
compier l’opera, ribellandosi ed opponendo resistenza a’ suoi birri;
e così, tra il buio pesto della notte, ammenando giù colpi da ciechi,
all’uno squarciarono sconciamente il viso, all’altro fracassarono
bestialmente le gambe; poi — battendosi in ritirata — si evasero con
gli amici per le minori viuzze, che toccano al fianco settentrionale
del duomo.

Pochi minuti dopo, i soli gemiti dei feriti e dei morienti rompevano il
silenzio di quella notte funesta.

Affrettiamoci, intanto, a dire che il giorno 12 del susseguente mese
di maggio, raunatisi gli anziani, deliberarono unanimi il partito
di dimostrare la «displicentia» grande per la «noglia» causata
al pontefice dall’orrendo caso occorso, nella notte fra il sabato
e la domenica delle Palme, con lo imporre e promettere «talea di
quattrocento ducati d’oro da pagare a ciascuno che amazarà gli capi,
cioè Andrea Baijardo et Maximiliano Balistrero, et gli altri loro
sequaci cento per ciascuno di loro come rebelli de N. S. et inimici de
la patria propria.» — I Nicelli e i Camia, siccome assai meno noti e
non cittadini di Parma, andavano compresi tra i «sequaci» del Baiardi e
del Balestrieri.

Come parve sedato il tafferuglio, si schiusero le porte della
cattedrale, e papa Paolo III, seguito da tutta la sua Corte e da’ più
ragguardevoli rappresentanti della cittadinanza, traversò la piazza
portandosi al Vescovado; mentre i confratelli della Misericordia
raccoglievano d’in sul lastrico i morti ed i malvivi.

Il nostro giovine soldato erasi frattanto mantenuto in fazione su la
porta del Battistero, nel vano della quale stava rimpiattata, gemendo e
piangendo sommessamente, la leggiadra creatura, ch’egli aveva preso in
tutela e su la quale non sapeva astenersi dal volgere, tratto tratto,
sguardi improntati del più vivo interessamento. — Avrebbe voluto e non
osava indirizzarle la parola, e, siccome gli pareva di scorgerla sempre
più accuorata ed inquieta, cominciava a sentirsi in qualche imbarazzo
sul partito, cui meglio gli convenisse appigliarsi; quando — all’uscire
del corteo pontificio, che tornò a rischiarare la piazza con le sue
faci — vide un vecchio gentiluomo guatare ansioso tutto all’ingiro
e, preceduto da un fante che recava una torcia, dirigersi verso di
lui: nel tempo istesso la giovane sua protetta slanciarsi dal proprio
ripostiglio e corrergli incontro a braccia aperte.

Il vecchio se la strinse al seno affettuosamente, chiedendole sollecito
ove fosse riparata e per qual modo scampata ad ogni pericolo e — come
lo intese — si avvicinò premurosamente al soldato e:

— Il tuo nome, giovinotto? — gli dimandò.

— Neruccio Nerucci — questi rispose.

— Bene! — soggiunse il vecchio, traendosi di collo e porgendogli una
pesante catenella di oro — serba questa in ricordo nostro: quanto a
noi, stà riposato che nulla al mondo potrà mai farci dimentichi del
servigio che tu ci hai reso!

E, con la fanciulla ed il servo, tirò via alla volta della Piazza
maggiore.

Quella, per altro, prima di andarsene, rivolse al suo difensore un così
tenero sguardo di viva riconoscenza, che a lui riuscì anco più caro del
prezioso monile.

Rimasto solo, stette in forse un momento, poi lasciò egli pure la
piazza.




CAPITOLO III.

Il nipote del vescovo di Fano.


Benedetto Varchi — nelle ultime pagine delle sue _Istorie Fiorentine_
— narra per filo e per segno come, nell’anno precedente, il duca
Pierluigi Farnese, recatosi a zonzo per le Romagne, in compagnia
di Giulio da Piè-di-Luco e di Nicolò Orsini, conte di Pitigliano,
perpetrasse il più nefando de’ misfatti su la persona di Cosimo Gheri
da Pistoia, vescovo di Fano.

Chi ha scorso quelle pagine, conosce abbastanza lo abbominevole caso:
chi no, meglio lo ignori.

Sappia unicamente che — per la vergogna del sanguinoso oltraggio patito
— il giovine ed infelice prelato cadde sì gravemente infermo che —
scorso un mese da quello — trovossi ridotto in fil di vita.

Non contava egli allora nessun altro congiunto fuori di un nipote, solo
di un lustro a lui minore d’età.

Era questi l’unico figliuolo di una sua sorella sposatasi giovanissima
ad un cittadino pistoiese, che dissidî di parte aveano tratto ad
esulare e che, accasatosi da prima in Cortemaggiore, come operaio
tipografo presso Benedetto Dolcibello da Carpi; rimasto vedovo, era
passato col figlio a Busseto, dove morì nel 1535, mentr’era castellano
e mastro di casa di que’ marchesi Pallavicino.

Suo cognato, che trovavasi in quel torno semplice vicario a Borgo San
Sepolcro — saputone a pena la immatura fine — s’affrettò subito ad
avvocarne presso di sè il figliuolo, che non toccava per anco i suoi
sedici anni, e lo tenne poi sempre al suo fianco, servendogli, a un
tempo, e da secondo padre e da fratello maggiore.

L’indole del giovane orfano era forse più che altro proclive agli
esercizi del corpo ed alla vita militare; ma così sotto la tutela del
padre, che le dure sperienze avevano reso aborrente da agitazioni e
da rischi, e tanto più sotto quella dello zio prete, tutto mitezza
evangelica e amore intenso pe’ suoi prediletti studi di latino e di
greco; egli dovette, suo malgrado ed anche con qualche mostra di buona
volontà, occuparsi esclusivamente di lettere e d’arti.

Pertanto queste — comunque imparate a rintronico — ma più in ispecie
il salutare influsso delle parole e degli esempli che il buon sacerdote
gli andava del continuo porgendo, valsero possentemente ad ingentilirne
la congenita selvatichezza, a rammollirne la tempra, a renderlo vievia
così dolce e mansueto, che non lo si sarebbe tenuto capace di torcere
il collo ad una pollanca senza provarne ribrezzo.

Lo zio, che avrebbe aspirato ad identificarselo il più che gli
tornasse possibile, lo confortava eziandio a consacrarsi decisamente
alla carriera ecclesiastica, la quale se, da un lato, meglio di ogni
altra conforme a’ gusti del dabben sacerdote, poteva, dall’altro —
massime di que’ tempi — sodisfare interamente anche le più sconfinate
ambizioni. Ma il giovine, benchè non osasse manifestargli tutta la sua
repugnanza, lo teneva in pastura con risposte evasive, cercando a furia
di pretesti, di far conciliare insieme il deliberato proposito di non
secondarlo e il vivo desiderio di non causargli un troppo acerbo dolore
con un formale rifiuto.

Il giovine, malgrado avesse di assai mitigato il proprio carattere
naturalmente vivace ed incline al fantastico, pure — ne’ suoi medesimi
studi — lasciavasi il più sovente regolare da quello, ed a’ libri
ascetici e filosofici, ond’era stipata la biblioteca vescovile dello
zio, preferiva di gran lunga le storie di Tacito e di Livio, il
_Cortegiano_ di Baldassare Castiglioni e i versi del Petrarca e, meglio
ancora, i poemi cavallereschi del conte Matteo Boiardo da Scandiano e
di messer Lodovico Ariosto, che, di que’ giorni appunto, cominciavano a
farsi tanto di voga.

Fingendosi nel pensiero le guerresche vicende, che pur sempre
travagliavano il mondo, pari a quelle poeticamente descritte in
siffatte sue letture; tra i polverosi stalli della sagristia e le
fredde chiostrate dell’episcopio, e’ non sognava che Durlindane e
Belisarde, Vegliantini e Frontini.

Era l’anima di un cavaliere errante, che si dibatteva entro il corpo di
un semplice chiericuzzo.

Quando il suo misero congiunto soggiacque alle bestiali violenze del
Farnese, egli trovavasi nella prossimana borgatella di Cartocceto, dove
— tre dì inanzi — lo aveva mandato lo stesso suo zio, per recare a quel
proposto taluni amuleti e reliquie venuti di Terrasanta.

Una staffetta gli fu subito spedita acciò lo istruisse prudentemente
dell’orrendo accaduto e lo sollecitasse ad immediato ritorno. Nè di
questo eravi mestieri, perchè il giovine — udita una volta la funesta
novella — rompesse ogni indugio ed, inforcato il suo modesto ronzino,
non gli lasciasse smettere il trotto chè non fosse giunto, trafelato ed
ansimante, appiè della scala del vescovado.

Ivi, sceso di sella, divorò i gradini a quattro a quattro.

Era in su l’imbrunire.

Cosimo Gheri, pallido come cadavere, giaceva sul proprio letto.

Non una parola venne profferita tra il nipote e lo zio che alludesse
alla triste circostanza. — Bastò lo scambio di una semplice occhiata
a renderli intesi a vicenda di quanto avrebbero dovuto soffrire
amendue, se l’uno avesse ascoltato, l’altro narrato i particolari della
vituperevole scena, ond’era stato la vittima.

E si tacquero.

Solo il vescovo sporse la mano tremante dalle lenzuola e la stese
al nipote, come per ringraziarlo del suo sollecito accorrere. Questi
glie la strinse, cuoprendola di baci e, caduto ginocchioni appiedi del
letto, ruppe in singhiozzi.

Quaranta giorni dopo, il misero Cosimo Gheri entrava nella sua estrema
agonia.

— Figliuolo — egli diceva con voce spirante al nipote che, pure in
quell’ora, gli stava genuflesso al capezzale — lascia che in questi
brevi momenti che mi rimangono ancora di vita, io ti rinnovi le mie
esortazioni ed i miei consigli.... meglio accetti riescono dalle labra
di un moribondo e più profondamente s’imprimono nel cuore!

— Dite, dite su, zio — gli rispondeva il giovine, raffrenando a
stento le lagrime — ogni vostra parola sarà per me una legge, un altro
vangelo, ma non state a ripetermi, in carità del Signore, che siete
presso a morire!

— È inutile che ti faccia illusioni!.... mi restano pochi minuti a
pena!.... nè di ciò devi affliggerti.... è una grazia della suprema
provvidenza questa di ottenere la morte, quando, nella vita, ogni
scaturìgine di bene m’è inaridita per sempre!

— Oh, il Farnese.... l’infame!

— Chetati, chetati!.... te l’ho già detto che io non amo udirti
favellare in tal guisa!

— Ma io detesto quell’uomo, ecco! io l’odio di un odio legittimo e vi
giuro, zio... sì, lo giuro su questo vostro letto di patimenti e di
angosce; lo giuro su quel crocifisso che tenete fra mani.... dovunque
lo trovi, dovunque il raggiunga, vendicherò nel suo sangue le atroci
torture che vi ha fatto soffrire.

E si drizzò in piedi.

— No, no — soggiunse allora il vescovo, sollevandosi con un ultimo
sforzo sino a sedere sul letto — per la salvezza dell’anima mia non
pronunziare di simili bestemmie!

— E un così nero delitto dovrà rimanere impunito?

— Perdoniamo, figliuolo... obbediamo a’ sublimi precetti del divin
redentore!

— Ma il redentore, a sua volta, si lasciò sopraffare dalla sua collera
santa e flagellò di funate i profanatori del tempio.

— Cristo era un Dio!

— Ed io nol sono, ed io non sono che una fragile creatura umana e,
perciò appunto, nemmanco la suprema sapienza può esigere da me quanto è
attributo esclusivo della divinità.

— Ho perdonato io: devi perdonare tu pure.

— Oh, mai.... mai!

L’accento di energica risolutezza col quale il giovine ripetè questo
semplice monosillabo sbigottì siffattamente Cosimo Gheri, che ricadde
accasciato sul proprio letto, e:

— Misericordia del cielo — sospirò sommesso tentando congiungere le
mani convulse all’atto della preghiera — perchè non affrettate il mio
trapasso così da risparmiarmi questo nuovo tormento?.... perchè dalla
persona che mi fu la più cara sovra la terra debbo ascoltare propositi
d’ira insensata, che sgomentano il mio spirito, che mi turbano
l’agonia?

— Oh, no, no, perdono — fu sollecito a sclamare il nipote, cui già
rimordeva la pena causata all’infelice suo zio — non c’è nissun
proposito in queste mie parole!.... sono uno sfogo, una espansione del
mio dolore.... nient’altro! Oh, non ve ne date pensiero!

Un sorriso lieve come bagliore di tramontano crepuscolo sfiorò le
smorte labra dell’agonizzante, che:

— Grazie, oh, grazie, figliuolo! — mormorò stentatamente — mi hai fatto
del bene.... sì, codesta tua remissione mi ridà un po’ di calma.... ma
non basta.... non basta! tu lo hai giurato... solennemente giurato sul
legno della santa croce.... e un primo giuramento non si proscioglie
che per via di un secondo anche più solenne.... e tu me lo devi.... oh,
non rifiutarmelo, se vuoi vedermi spirare tranquillo!...

— Ma sì, ma sì — fece il nipote, cercando di rassecurarlo e di
schermirsi ad un tempo — come vi ho detto, zio, quelle parole mi sono
sfuggite nell’impeto del dolore; ma non dovete dar loro importanza di
sorta.

— E tanto meglio.... tanto meglio!... così potrai farmi, in tutta
coscienza, la formale promessa che ti domando.... potrai giurarmela su
questa medesima croce...

E, in così dire, cercava brancicando su le lenzuola il piccolo
crocifisso che gli era sfuggito di mano:

— Giurami — soggiunse quindi, a pena se ne fu impadronito — giurami
che rinunzierai alle tue stolte idee di vendetta.... che dovunque ti
avvenga d’incontrare, di raggiungere quell’uomo.... il signor duca di
Castro.... tu non tenterai nulla in suo danno.... tu gli perdonerai!...

Il giovine stornava gli sguardi per non affisarli in volto allo zio e
si teneva muto ed immobile come una statua.

Ma quello:

— Oh, non esitare — continuò a dire, con voce già resa afonica
dall’agonia — non lasciarmi morire con lo sgomento e la disperazione
nell’animo.... giurami.... giurami che gli perdonerai.... giurami che
gli hai già perdonato!...

E fatto un altro e più penoso sforzo per raddrizzarsi di nuovo, non
riuscendovi, con la mano che restavagli libera, afferrò intanto la mano
del nipote.

Al gelido contatto, questi rabbrividì in tutta la persona, come
se côlto dal fricasmo della terzana, e con un senso indefinibile
di angoscia tôrse lo sguardo sul povero moribondo, il quale —
non potendolo più della voce — gl’indicava con gli occhi vitrei e
semispenti il sacro legno che gli tremolava tuttavia fra le dita.

Il giovine non resse a simile vista; una pietà profonda lo strinse
al cuore; allungò la mano sul mistico simbolo della redenzione
e già era sul punto di pronunziare il suo secondo e più solenne
giuramento; quando Cosimo Gheri, che — a quell’atto aveva dato segno di
rasserenarsi, — lasciò sfuggire di un tratto e il crocifisso e la mano
del nipote, e s’arrovesciò supino sopra il guanciale.

Con moto irresistibile, il giovine lo seguì della testa; lo stette a
contemplare un istante preso da una specie di vago terrore; lo palpò
su la fronte, alle mani, quasi non prestasse fede a’ propri occhi,
lo sentì freddo, rigido, stecchito, ed, allora, vinto dall’affanno ma
senza lacrime, ricadde alla sua volta in ginocchio.

Cosimo Gheri non era più.

Cresciuto di povera gente, tratto dalla sua eccessiva pietà a dividere
i benefizi e le decime tra’ suoi diocesani peggio conciati dalla
fortuna; il buon vescovo non lasciava dietro di sè che una lunga e
copiosa eredità di rimpianto; attalchè suo nipote non soltanto rimaneva
isolato nel mondo, ma con l’isolamento rincarato dalla miseria.

Su le prime, per altro — assorbito qual’era dall’intenso dolore della
sciagura che lo aveva colpito — nemmanco davasi pensiero della triste
sua situazione; continuava a soggiornare nell’episcopio; si compiaceva
di abitare quelle medesime stanze, di assidersi su que’ medesimi
scanni, che — per così dire — serbavano tuttora l’impronta ed il
profumo del suo caro estinto.

Sono le voluttà del dolore.

Ma non istette guari chi si pigliasse lo ingrato incarico d’illuminarlo
sul vero e misero suo stato: e fu il governatore della città, un
frate sbandito della Mirandola, che — per la sua cupidigia e sordida
tirchieria — erasi guadagnato il nomignolo di _Vescovo della Fame_.

Costui lo fece chiamare ed, avutoselo inanzi, gli intimò brutalmente
di lasciar sgombri gli ambienti del vescovado e di sbrattare il luogo
issofatto.

Fu allora che — senza nobiltà di casato, senza nè beni di fortuna, nè
aderenti, nè più casa e focolare domestico — il meschinello, gittato
nudo e crudo sul lastrico dalla ruvidità del governatore, richiamò
a presidio della disperata sua situazione le proprie fantasticherie
giovenili e fermò in animo di dedicarsi al mestiere delle armi.

Barattò, quindi, la sua lunga cappa e le sue negre calze da chierico
e tutto il resto dal berretto alle scarpe, contro le vesti e gli
arredi soldateschi d’un lanzo, che gli furono ceduti da mastro Efraimo
d’Ancona, rigattiere ambulante, e con que’ pochi che gli guernivano il
borsello, s’avviò alla bella pedona ed a piccole giornate in busca di
migliore ventura, pigliando per Pesaro, Rimini, Cesena, Forlì, Faenza,
Imola, Bologna, Modena e Parma.

E adesso il lettore lo avrà già indovinato. Il nipote del vescovo
di Fano, della misera vittima di Pierluigi Farnese, altri non era
che Neruccio Nerucci, il giovine soldato che imparammo a conoscere
nell’ultima delle mentovate città, quando vi giunse Sua Beatitudine
papa Paolo III.




CAPITOLO IV.

Una occhiata in giro.


Quanto eragli occorso in circostanza della zuffa tra i Camia ed i
Nicelli per la mula papale, aveva suscitato nel cervello del nostro
Neruccio un tumulto d’insueti pensieri e forse nell’animo un primo e
nuovo ed incompreso affetto.

Orbato della madre sino da’ suoi più teneri anni, privo di una sorella,
di una congiunta; l’elemento feminile non aveva mai esercitato nessuna
influenza su la monotona e triste sua vita trascorsa sino a quell’ora
sequestre dal mondo, al fianco, prima, di un padre operaio, poscia, di
uno zio sacerdote. Laonde la leggiadra fanciulla inseguita dal Farnese
e, per un momento, affidata dal caso alla sua salvaguardia doveva
necessariamente produrgli un’assai viva impressione.

L’ultimo sguardo lanciatogli da quella giovinetta nell’atto di
staccarsi da lui, eragli parso come un’arcana promessa e gli aveva
fatto germogliare nel cuore tutto un vivaio di care speranze, delle
quali, per altro, non giungeva a comprendere nè la natura, nè il vero
obbiettivo.

Ci volle la notte ed il sonno per restituirgli la calma.

L’indomani gli parve aver sognato.

Pure l’imagine diletta gli si riaffacciava pertinace alla mente; ma
egli si studiava cacciarnela quasi pensiero molesto.

Ed, invero, a quale pro’ trattenersi a vagheggiarla? — Sapeva egli solo
chi ella fosse? — L’avrebbe mai più riveduta nell’avvenire? — Il suo
destino non lo spingeva forse lontano da quella terra, in cui l’aveva
per la prima volta incontrata?.....

Partì, infatti, il dì successivo da Parma e, pei monti del piacentino,
si diresse in Piemonte, dove prese soldo, alla fine, nelle milizie di
don Alfonso d’Avalos, marchese di Pescara e del Vasto, governator di
Milano per Sua Maestà Cattolica il re di tutte le Spagne.

Prima di più oltre procedere, o — a dir meglio — prima d’internarci
nel drama di cui non abbiam fatto che presentare taluno de’ personaggi
principali a’ nostri lettori; gettiamo, per un momento l’occhio su
una carta geografica d’Italia e vediamo in qual maniera si trovasse
frazionata nella primavera del 1538.

È uno studio che — se non altro — può tornare alquanto proficuo a quei
non pochi giovanetti, i quali — per esser nati ieri ed aver trovato
la patria risorta a dignità di nazione e fatta una, senza loro fatica
— non sanno capacitarsi della via lunga, penosa ed accidentata che
dovette percorrere per giungere a tanto; onde — per un’arcadica ubbia
imparata a strafalcione dalla prima mala copia di Robespierre che
abbiano il malanno di rasentare — si arrischiano a cimentarne le sorti
come si trattasse di nulla.

Si curvino alcuni istanti con noi sovra l’italico stivale, che oggi si
disegna su la carta d’Europa con una sola linea unicolore e veggano
come — a que’ dì — fosse in siffatto modo screziato da offrire tutti
quanti i colori dell’iride.

Facciamoci dal Piemonte che — sin d’allora — cominciava a manifestarsi
siccome stella polare degl’italiani e che Carlo III il Buono, duca
di Savoia, recuperò da’ francesi nel 1539, in forza del trattato di
Cambrai conchiuso tra Carlo V di Spagna, suo cognato, e Francesco I
di Francia, suo nipote. — Questi, tuttavia, oltre al mantenersi in
possesso delle valli di Oulx e di Fenestrelle, antiche dependenze del
Delfinato, erasi creato arbitrariamente tutore di Gabriele, ultimo
de’ saluzzesi, e ne teneva il marchesato per sè; mentre quello di
Monferrato — morto improle nel 1533 Giangiorgio Paleologo che il
reggeva indipendente — passava, dopo tre anni di litigio, a Federico II
Gonzaga, duca di Mantova, Pizzighettone, Goito e Canneto.

Il Milanese, che stendevasi dall’Alpi alla Sesia, dalla Brenta al Po,
abbracciando Pavia, Lodi, Cremona, Alessandria, Tortona, Novara, Como,
la Valtellina con le contee di Bormio e Chiavenna, Angera e Geradadda
— per testamento del suo duca Francesco II, ultimo degli Sforza — era
scaduto alla Spagna, che vi teneva a governo il sunnominato marchese
del Vasto.

La serenissima di Venezia possedeva, tra l’Isonzo ed il Mincio,
dal litorale Adriatico alle foci eridanie, le provincie di Bergamo,
Brescia, Verona, Padova e Vicenza, la marca Trevisana con Feltre,
Belluno, Cadore, il Polesine di Rovigo, Ravenna, il Friuli, l’Istria
meno Trieste città imperiale, la contea di Gorizia, Zara, Spalatro,
le isole fronteggianti la Dalmazia e l’Albania, quelle di Veglia e
di Zante. — Fuori d’Italia poi, in Grecia, occupava Corfù, Lepanto
e Patrasso; nella Morea, Morone, Corone, Napoli di Romania, Argo e
Corinto, varie isolette dell’Arcipelago e, finalmente, le isole di
Cipro e di Candia. — Ne reggeva il dogato quello istesso Andrea Gritti
che — già capitano e proveditor generale della republica — cacciò
gl’imperialisti da Padova ed i francesi da Brescia e che — battuto a
sua volta e menato prigioniero a Parigi da Gastone di Foix — seppe sì
finamente destreggiarsi con re Luigi XII da volgerlo in favore della
sua patria e stipulare secolui un vantaggioso trattato di pace.

Genova non occupava di territorio italiano chè la esigua striscia delle
sue due Riviere, il marchesato del Finaro e la Corsica. In compenso —
da Costantinopoli, da Caffa, dalla Tana — esercitava i suoi commerci
col Levante per una serie di scali toccanti, da un lato, sino alla
Cina, dall’altro, alle coste del golfo arabico, e molti ancora ne
teneva nella Romania, nella Macedonia, nell’Arcipelago, nelle Sporadi
e nell’Anatolia. — Da trent’anni, il settuagenario Andrea Doria avea
dato un migliore assetto ed una nuova costituzione alla sua republica,
escludendo da’ publici affari le antiche e faziose casate degli Adorno
e de’ Fregoso. — Onnipotente nella sua patria, che da lui ripeteva il
riconquisto della propria indipendenza, per alcun tempo erasi legato
a’ francesi; ma poi — scontento della costoro iattanza e massime della
malafede del loro monarca — si dètte animo e corpo a Carlo V di Spagna,
del quale si rese uno dei più devoti e validi campioni.

Ferrara, Modena e Reggio obbedivano al duca Ercole II d’Este,
figliastro alla famigerata Lucrezia Borgia, che il Gregorovius,
addì nostri, ha tentato riabilitare, e marito alla celebre Renata di
Francia.

Firenze, che val quanto dire: Toscana tutta — ad eccezione di Lucca e
Siena che si reggevano a popolo — dacchè due anni inanzi erasi liberata
da quell’anima nera del bastardo il papa Clemente VII, che fu il duca
Alessandro — un po’ per amore e molto più per intrigo, aveva chiamato a
signore il non ancor quadrilustre Cosimo de’ Medici, figliuolo a messer
Giovanni dalle Bande Nere, creato duca nell’istesso anno dall’imperator
Carlo V ed unitosi allora allora in matrimonio con donna Eleonora di
Toledo.

Oltre del Milanese, anco le due Sicilie e l’isola di Sardegna
spettavano a Carlo V di Spagna, scendente, per via del padre, dallo
imperatore Massimiliano e da Maria di Borgogna e, per via della madre,
da Ferdinando il Cattolico ed Isabella. — Così dall’ava paterna, aveva
eredato gran parte de’ Paesi Bassi e la Franca Contea: dalla madre
i regni di Leon e di Castiglia; dall’avo materno, que’ di Aragona e
Valenza, le contee di Barcellona e del Rossiglione, i regni di Navarra,
Napoli, Sicilia e Sardegna; poi, da Massimiliano, l’Austria, la Stiria,
la Carinzia, la Carniola, il Tirolo e la Svezia australe, che cedette
poscia a suo fratello Ferdinando: arroge un lembo di Africa e metà
buona di America e si comprende come potesse ripetere: sovra i miei
regni mai non tramonta il sole! — Di Napoli era vicerè don Pedro di
Toledo; di Sicilia, don Ferrante Gonzaga, duca di Guastalla.

Tolgansi adesso Urbino e Camerino, quello del duca Francesco-Maria
dalla Rovere e questo di suo figlio Guidubaldo, siccome marito di
Giulia da Varano, che lo teneva dal padre; Sabbioneta, ch’era del duca
Rodomonte Gonzaga; Mirandola, Quarantola e Concordia, dei conti Pico;
Malta, dei cavalieri gerosolomitani; le signorie di Castiglione, del
Finale di Modena, di Luzzara, Poviglio, Montechiarugolo, Masserano e
alcune altre; un cento di feudi imperiali situati nelle Langhe, nel
Genovesato ed in Lunigiana, e la microscopica republica di San Marino;
e poi tutto il restante — di dritto o di traverso — apparteneva a
quella istessa Chiesa, cui oggi si contendono persino le poche sale del
Vaticano e di San Giovanni Laterano.

Ciò che maggiormente contribuì ad aumentare i dominî di questa — dopo
le donazioni di Pipino il Breve, di Carlomagno e della contessa Matilde
— furono le scellerate imprese di un altro figlio di papa, il duca
Cesare Borgia, il quale — domati, a furia di tradimenti, di veleni
e pugnali, i Savelli, gli Orsini, i Colonna, i Gaetani, i Riario, i
Freducci, gli Sforza, i Malatesta, i Manfredi — aggregò al Patrimonio
di San Pietro tutta Campagna di Roma, Sermoneta, Imola, Forlì, Fermo,
Pesaro, Rimini e Faenza: Giulio II, nel 1513, vi aggiunse Perugia;
Leone X, nel 1520, Bologna, e poi, come il dicemmo, Parma e Piacenza. —
Così la Chiesa fece come il fiocco di neve che, dal vertice alla china
del monte, si converte in valanga.

Forse il Valentino, per un’audacia tutta sua peculiare rimbaldanzita
dall’essere figliuolo al pontefice, genero al re di Navarra e carissimo
a quello di Francia e dalle molte spogliazioni già allegramente
compiute; forse più ancora di lui quello scaltrito di messer Nicolò
Machiavelli, segretario della Signoria Fiorentina, s’ebbero qualche
proposito di raccogliere in un corpo solo le sparte membra d’Italia
e di levarle il giogo straniero di collo; ma di sentimento patrio e
nazionale, quale lo s’intende addì nostri, non se ne aveva nemmanco il
più piccolo indizio.

Era cessata la lotta secolare e titanica fra il papato e l’impero;
sminuita la tracotante indipendenza de’ signorotti feudali; spirato
cioè il medio evo: di questo rimaneva tuttavolta la coda, che — dice
il proverbio — è la più dura da rodere: le istituzioni abbastardite,
ma non mutate; le nimicizie intestine non più nascenti da un principio
costante, ma sempre vive ed acerbe; la stessa ignavia, gli stessi vizî,
lo stesso ordinamento gerarchico nelle costituzioni sociali.

Si era nel periodo di transizione, il quale non aveva per anco assunto
nissuna nuova e caratteristica fisonomia, allo infuori del sempre
crescente gonfiare delle riforme religiose, scaturite — come tutte
le altre invasioni — da’ settentrionali recessi, e di quella sorta
d’immane duello, che — già da quasi vent’anni — si andava combattendo
fra due personali ambizioni, che rinnovavano in grande le guerricciuole
di casato dei tempi precedenti e cui lo sventurato nostro paese serviva
spesso di palestra e sempre di pallio.

Francesco I di Francia, il quale già — come scendente dallo angioino
Carlo di Provenza e da Valentina Visconti — armava pretese sul reame
delle Due Sicilie e sul Milanese, che appartenevano a Carlo V di
Spagna; al sangue grosso che però nodriva contro di questi, aggiunse
altro maggior soggetto di risentimento e d’invidia, quando se lo vide
anteporre dagli elettori di Aquisgrana che, nel 1519, lo proclamarono
imperatore e re de’ romani. — Come la rana delle favole esopiane
gonfiò talmente dinanzi al bue sino a schiattarne. — E non perennità
di sfortuna, non esauste finanze, non reiterate sconfitte e prigionia
della sua istessa persona, valsero ad acchetarne il rabbioso dispetto.

Era un francese puro sangue: tutto francese dalla radice de’ capelli
alla pianta dei piedi: avventato, loquace, vago di lettere, di belle
arti e d’amori, azzardoso in ogni sua impresa, vanesio, smargiasso, il
proto-tipo de’ paladini ariosteschi, l’uomo di due secoli prima.

Il suo emulo, per contro, vario di qualità quanto di dominî; fiammingo
per nascita, tedesco per prudenza, spagnolo per gravità e per buon
senso, italiano; era l’uomo di due, di tre secoli dopo; l’uomo che —
senz’anacronismo — avrebbe potuto esser padre del terzo Napoleonide,
tanto — al pari di questi — era freddo, calcolato, di lunghi
divisamenti e, nell’arte del menare un intrigo, promettere, eludere,
corrompere, a nessuno secondo.

Naturale però fosse sempre sua la prevalenza.

Laonde — meno Venezia, riamicatasi alla Francia pel trattato di pace
conchiuso dal Gritti; meno Ercole II Estense, legato a questa da
stretti vincoli di sangue; e meno, se vogliamo, Carlo III di Savoia,
che stava infra due, non tanto per simpatia maggiore dell’uno o
dell’altro, ma forse perchè mal sofferente che stranieri la facessero
da padroni in casa sua — tutto il restante d’Italia, direttamente od
indirettamente, non solo gli obbediva, ma parteggiava per lui.

Tra’ ciurlatori nel manico potevasi, per altro, mettere in lista anche
Paolo III, il quale — nel suo carattere di pontefice — non giungeva
probabilmente a dimenticare come Carlo V — benchè spagnuolo — fosse
divenuto il legittimo successore di quell’Enrico IV di Franconia, che
ammanì tanto refe da dipanare a papa Gregorio VII, e di quel Federico
II di Hohenstaufen che non ne dètte manco a Gregorio IX e ad Innocenzo
IV. — Non sapeva ciecamente fidarsene: tuttavia ne temeva troppo la
strapotenza, perchè avesse mai il coraggio di chiarirglisi aperto
nimico — Stava, invece, a sportello; lavorava sott’aqua e giuocava con
dadi segnati: uso codesto assai comune a’ successori di San Pietro,
non pochi de’ quali seppero egregiamente valersi del _gesuitismo_
anche molto prima che i proseliti del da Loiola ne avessero conseguito
privilegio. — E papa Farnese — volpe fina se ce ne avea una — doveva
esser primo del numero, se fu egli stesso che, nel 1540, ne rilasciò il
brevetto d’invenzione a Sant’Ignazio in persona.

Quando Paolo III mosse da Roma per condursi a Nizza, ferveva più che
mai accanita la guerra in Piemonte, dove i francesi, col Montmorency
— il famoso contestabile de’ _paternostri_ — e con Guido Rangone da
Modena, occupavano tutto il paese tra Moncalieri e le Alpi; mentre
gl’imperiali, col marchese Alfonso d’Avalos e Giangiacomo Medici da
Trezzo, detto _Il Medeghino_, tenevano presidio in Asti, Fossano e
Vercelli. Ma, in quel torno, volgevano allo imperatore poco prospere
le sorti ne’ Paesi Bassi, che mal comportando di vedersi spogliati
in uno con la libertà religiosa, anche delle comunali franchigie, si
ribellavano contro la tirannide spagnolesca; nel contempo, il granturco
Solimano — sospintovi dal re Francesco — invadeva l’Ungheria e — con
l’aiuto dell’algerino Haireddin, _Barbarossa_ — minacciava Napoli e
Toscana.

Il furbo Farnese colse a volo la propizia occasione di portarsi inanzi
mediatore, non già per schietta e cristiana tenerezza di pace; ma
perchè — certo di rendere per tal modo un servizio a Carlo V — si
riprometteva di farglielo pagare al più alto prezzo. — Voleva tradurre
in pratica il detto che, fra due litiganti il terzo gode, e conseguire
dalla imperiale riconoscenza l’agognata ducea di Milano pel suo
prediletto Pierluigi, l’ingrandimento della propria famiglia essendo,
non solo il primo, ma quasi l’esclusivo suo pensiero. Nè di ciò tanto
poteasi muovergli troppo acerbo rimprovero, perocchè «non fosse tenuta
in quel secolo cosa degna d’infamia, che un papa avesse figliuoli
bastardi, nè che cercasse per ogni via di farli ricchi e signori; anzi
erano avuti per prudenti e per astuti e di buon giudizio pontefici
tali».

Partito da Parma due giorni dopo la sanguinosa scena per noi descritta,
egli giunse a Nizza il successivo 17 dello stesso mese di maggio e —
non potendo penetrare in città, perchè chiusone il castello dal duca
di Savoia — s’attendò ne’ dintorni, dove si trattenne per un mese di
seguito, sprecando la sua più fina dialettica in appartati convegni
or con l’uno or con l’altro, dei due regali antagonisti, senza mai
approdare a nulla di concreto e di buono.

Finalmente, ai 18 di giugno — acchetandosi al fringuello dacchè
sfuggitogli il tordo dal paretaio — potè comporre i due sovrani ad
una tregua decennale stabilita — come oggidì si direbbe — su la base
dell’_uti possedetis_.

Ma, di Milano, Carlo V non volle intenderne verbo.

Per quanto il papa si avvolpacchiasse in studiati argomenti ed
artefiziose girandole, gli fece sempre le orecchie da mercante.

Solo — per non lasciarlo andare troppo scontento e con tutte le pive
nel sacco — gli concedette il marchesato di Novara per Pierluigi, e —
pel costui figlio Ottavio — la mano della sua Margherita di Austria.

Quindi si separarono.

Egli, l’imperatore, per correre a domare i riottosi fiamminghi, nel
che raggiunse il suo scopo, e per combattere — in alleanza con le
armi pontifice e con quelle di Venezia, che aveva tratto dalla sua — i
turchi e gli algerini, nel che fece un buco nell’aqua: e il papa per
ricondursi a Roma, e preparare le feste per le nozze del nipote e la
conquista di Camerino, onde s’era prefisso infeudarlo.

Non fu, per conseguenza, se non tra la primavera e la state del 1539
che si cominciarono a provare i benefici influssi della tregua conclusa
e che, dagl’imperiali in ispecie, molti uomini di truppa raccogliticcia
vennero mandati in congedo.

Era tra questi il nostro Neruccio Nerucci, che noi seguiremo.




CAPITOLO V.

Castel Canafurone.


Sul confine piacentino verso il genovesato, alla destra dell’Aùto,
poco prima del punto in cui questo modesto torrentello, che sgorga da’
pinacoli del Barbagelata, va a mettere foce nella Trebbia; sorgeva
di que’ giorni, o — a più giusto dire — già cominciava a cascare in
ruina un castellaccio dell’undecimo secolo, eretto nel più orrido a
settentrione del Groppo della Vèzzera e appartenente a’ conti Nicelli,
allora potenti e prepotenti in Valle di Nure.

Lo si chiamava Castel Canafurone.

Adesso non ne rimane altro vestigio che il nome.

E — sin d’allora — scassinato e cadente in più parti, con rotte le
catene de’ levatoi e arrugginite a’ subbi quelle delle serracinesche,
senza più nè mobilio, nè arredi, nè imposte di usci o finestre; lo si
lasciava in balia de’ quattro venti abbandonato e deserto.

Le inevitabili leggende di scellerati delitti ivi compiuti in
remotissimi tempi, e di spiriti maligni che vi convenivano la notte
in diabolici sinedri, e d’ombre vagolanti e gementi che ne popolavano
i più secreti penetrali; circolavano naturalmente accreditate più che
vangeli per le circostanti campagne e non c’era familio, o servo che
— indugiato per via, oltre lo imbrunire — non la pigliasse lunga,
descrivendo un arco di circolo per evitarlo, o — se costretto a
passargli di costa — non si lasciasse vincere dalla battissoffia e non
iscongiurasse tutt’i santi del paradiso a tenergli lontani i cattivi
incontri.

E come fondate sul vero quelle paurose dicerie, meglio lo avrebbe
creduto chi vi fosse passato in su la mezzanotte del 4 giugno 1539,
tanto n’era strano e spaventevole l’aspetto.

Su la bassa fronte del tozzo e diforme edificio, che disegnava la sua
negra mole s’un cielo annuvolato e procelloso, brillavano altrettanti
occhi di brage: erano le finestre del pianterreno, dalle quali
traspariva una luce rossastra e fumosa come d’incendio. Dallo interno
s’udiva un confuso frastuono d’armi e di persone e un alternarsi
di voci minacciose e di esecrande bestemmie. Ci sarebbe stato a
scommettere che là dentro si celebrasse la messa nera o, per lo meno,
si ripetessero le mostruose orgie di sangue, per cui, cento anni prima,
quel Gilles di Laval, ch’erasi guadagnato il nome di _Barbe-Bleu_,
lasciò il capo sul ceppo.

Un mistero vi si nascondeva di certo.

Ma non mancava probabilmente chi proponevasi penetrarlo, perocchè vi
fosse qualcuno che — strisciando catellon catellone fra l’intricatoio
di licheni e di arbusti che circondavano il castello e ne vestivano il
piede — cercasse accostarsi ad una di quelle sue finestre che davano
luce.

Adagio adagio e proprio come la dònnola quando s’insinua nel pollaio,
vi giunse finalmente e — mascherato dal fogliame d’un càppero che ne
otturava gran parte del vano — vi spinse in mezzo la faccia e cacciò
dentro lo sguardo.

L’ambiente era una lurida stanzaccia a vôlto depresso, che
originariamente aveva dovuto servire di tinello pe’ famigli e
gli armigeri, le cui pareti, annerite dalla fuliggine del tempo e
luccicanti per le viscide striscie de’ lumaconi, annebbiava uno spesso
velame di polverosi ragnateli. Vi si tenevano in giro una dozzina
d’uomini da’ ceffi promettenti nulla di buono e più vestiti di armi che
non di panni, taluni de’ quali — i peggio in arnese — reggevano a mano
torce resinose, d’ond’emanava la luce rossastra che si travedeva di
fuori.

Erano signori e servi.

A capo di quelli figurava uno, col quale femmo già conoscenza a
Parma in occasione della contesa per la mula papale; era il compagno
di Stefano Nicelli, il conte Giambattista Nicelli, marchese della
propinqua terra di Cattaragna e signore eziandio delle crollanti mura
di Castel Canafurone, che — una volta fattesi inette alla difesa — egli
aveva derelitto e lasciava cadere completamente in isfascio.

Intorno a lui, stavano diversi altri Nicelli, tra i quali i conti
Melchiorre da Niceto e Gianfrancesco da Ebbio: e — dallo atteggio di
tutti e specie da’ loro discorsi — chiaro appariva come attendessero
persone, con le quali s’erano dati la posta in quel luogo solitario e
selvaggio.

Nè queste tardarono gran pezza ad arrivare.

Primo fu il capitano Lorenzo Villa, con dietro un centinaio d’uomini
d’arme, uno de’ quali il nostro Neruccio: poscia, il conte Giovanni
Nicelli da Monte Ochino, uomo prepotente e feroce, il quale, dopo di
Stefano, vantava la maggiore primazia su le genti del suo casato.

Apparentemente era costui che gli altri aspettavano, poichè quasi
tutti — al suo sovraggiungere — dèttero in una esclamazione di
sodisfacimento: ed il marchese di Cattaragna, affrettandosi ad
incontrarlo:

— Ebbene? — gli chiese con ansia.

— Ebbene — rispose il nuovo venuto, mentre gli altri gli formavano
cerchio d’intorno — il tradimento è proceduto dai Santafiora e dai
Camia!

— N’ero certo! — fece il da Niceto.

— Scellerati! — sciamò il da Ebbio.

— E come sono andate le faccende? — dimandò il marchese di Cattaragna.

— Ve lo dico subito — soggiunse l’interrogato — e, perdio, se avete
sangue che vi scuota i polsi dovrete inorridirne con me. V’è noto
come al nostro misero Stefano, nella sua qualità di capo delle
nostre famiglie, grandemente premesse il portarsi a Piacenza, per ivi
regolare co’ Mandelli e coi Landi le questioni pendenti su i dazi dello
Spettine e della Crocelobbia e su gli scavi delle Ferriere; ma non vi
si affidava, la cagione del malaugurato affare ch’ebbe l’anno scorso
a Parma e che gli tirò su la testa la taglia di cento ducati. Stava
appunto nella maggiore incertezza, quando, imbattutosi a Fiorenzuola
nel Legato, cardinal Del Monte, gli parve saggio umiliarglisi e
richiederlo d’un salvacondotto, che questi non gli ricusò. Ma Sforza
Pallavicino, il signore del luogo, ne dètte subito aviso secreto a’
Santafiora di Castellarquato, i quali sapete quanto agognerebbero
spogliarci ed impadronirsi de’ nostri feudi del Valnurese. Costoro però
s’accontarono coi Camia e concertarono insieme la trama infernale.
Quando Stefano, valendosi del suo salvocondotto, fu penetrato in
Piacenza e mentre il Legato, per un intrigo de’ Santafiora, portavasi
a Busseto presso Gerolamo Pallavicino, i Camia lo denunziarono
codardamente all’Orsini di Farfa, luogotenente della legazione, il
quale, senza tener calcolo del salvocondotto e senza nessun riguardo
per quei molti nostri aderenti e parziali, che s’intromisero e lo
scongiuravano a soprassedere fintanto almeno che si fosse ricorso a
Roma ed avutone risposta; fece procedere alla cattura di Stefano e
volle, senz’altro, mandare ad esecuzione il bando degli Anziani di
Parma.

— Maledizione! — mormorarono cupamente taluni.

— Il ventotto dello scorso aprile — seguitò a dire il conte Giovanni da
Monte Ochino — sono oggi trentasei giorni, il conte Stefano Nicelli,
il nostro congiunto, il nostro capitano, l’amico nostro, s’ebbe mozzo
il capo in cittadella e il cadavere abbandonato ignudo su la piazza,
scherno alla bordaglia, ludibrio alle cornacchie ed ai cani.

Un sordo mormorio di mal represso furore tornò a circolare fra gli
astanti.

— Il Farfa — continuò il Monte Ochino — fu compro dalle blandizie e
dall’oro de’ nostri giurati nemici; ma siccome non voleva apparirlo
e che costoro andavano sfrontatamente millantando d’aver cavato la
castagna dal fuoco con la zampa del gatto; tanto per scagionarsi, e’
ne fece sovraccogliere due, Gilberto Camia e Alfisio Malvicino, e,
dichiarando publicamente..... buono per cui ci crede!.... di non aver
ceduto a nissuna subornazione, ma solo ottemperato agli ordinamenti,
li dannò a quattro giorni di berlina, che queglino, come potete
idearvi, scontarono del più lieto core, ben sapendo quanto mite ed
insignificante fosse la pena in raffronto dello enorme benefizio
ottenuto. Ecco in qual modo andarono le faccende!

Ed erano andate veramente così, come ce lo attesta il dabben cronista,
il quale, dopo averci narrato essersi detto «che mirando la Santa
Costantia filiola di nostro papa e signora de Castello Arquato farse
signora della valle per esserne Stepheno da Nicelle il capo, che
avendolo tolto via luio facilmente havrebbe ottenuto lo intento suo» —
ingenuamente conclude: «pur sia come se volia, luio morse.»

I raunati accolsero le ultime parole del Monte Ochino con più chiassose
manifestazioni di sdegno.

— Ah, scontarono di lieto core la pena! — sclamò ghignando il marchese
di Gattaragna — penseremo noi ad infliggerne loro una più aspra.

— Altro che berlina.... le forche! — aggiunse il conte da Ebbio.

— E a filo di spada tutti i loro aderenti, i loro familiari, i loro
servi! — urlò il da Niceto.

— E saccheggiate e diroccate le loro case — concluse il capitano
Lorenzo Villa, il quale — naturalmente — pensava anzitutto al bottino.

— È appunto per codesto — disse il conte Giovanni — che vi ho dato
convegno in quest’avanzo di rôcca ed incarico a voi, capitano, di
raggranellarci il più possibile d’uomini d’arme.

— Ed io l’ho fatto, mi pare! — osservò spavaldamente il Villa, segnando
della mano i suoi molti gregari che gli si schieravano dietro — ce n’è
che vengono di Piemonte, ce n’è che vengono di Lamagna, ce n’è persino
che vengono dalle coste di Barberia... e ce n’è d’italiani, ce n’è di
svizzeri, ce n’è di spagnuoli.... una vera insalata cappuccina!

— Provenienza e nazione non ci fan nulla — fece il conte Giovanni —
sappiano menar bene le mani ed arrisicare la pelle e, per noi, son
tutti pari: la nazione cui apparteniamo noi stessi non è più ormai che
il nostr’odio e la nostra vendetta!

— E come intendete regolarvi? — gli chiese il Cattaragna.

— Semplicemente — rispose, con riso feroce, il Monte Ochino — i Camia
ci hanno colpito nel nostro capitaneo, e noi colpirli nel loro; che
Giovanni il Grosso paghi per Stefano il Giovine: occhio per occhio,
dente per dente.... la pena del taglione!

— E quando? — interrogarono più voci.

— Quando più presto si possa: se non stanotte, la notte di domani!

A queste parole, pronunziate solennemente dal conte di Monte Ochino,
la forma umana, ch’erasi tenuta speculando ed origliando fuori
della finestra, sgattaiolò carpone tra i rovi e le ortiche e sparve
nell’ombra della notte.




CAPITOLO VI.

Giovanni il Grosso.


Da castello a castello.

È necessità questa, ed è, in uno, carattere distintivo de’ tempi che
abbiamo impreso a descrivere.

Dalla crollante torre de’ Nicelli, passiamo alla rôcca dei Camia, sita
in luogo avvallato e pantanoso su la riva sinistra della Nure, quattro
miglia più in su di San Giovanni di Bèttola, tra Olmo e Revigozzo.

Ivi dimora Giovanni il Grosso, capo principale delle famiglie avverse
a’ Nicelli, che contendono a questi il predominio del Valnurese.

È il mattino poco più tardi dell’alba.

Un omicciatto dalle grame apparenze, tutto da capo a’ piedi, vestito
di bigio — traghettato che s’ebbe il torrente su la barchetta del
navichiere — s’avvicinava al castello e — fattone scendere il ponte col
declinare il suo essere — penetrava ne’ cortili e richiedeva del signor
conte.

Seguiamolo.

In una piccola stanza tappezzata a scuri arabeschi, che, addì nostri,
diremmo gabinetto, dove — su una grezza e pesante tavola di quercia
voluminosi in folio de’ filosofi greci s’affastellavano con seste e
fiale ed altri arnesi di matematica e di alchimia, tenevasi seduto il
conte Giovanni Camia il Grosso, vecchio più che settuagenario, alto
e corpulento, cui una lunga e candida barba dava severo aspetto di
autorevole maestà, mentre un cotal risolino che gli errava continuo su
le labra e negli occhi lo diceva ad un tempo benevolo ed astuto.

Noi lo trovammo già a Parma, compagno alla vezzosa fanciulla, che
vedemmo fidarsi alla custodia del nostro Neruccio.

Era sua nipote.

Bianca — perocchè tale il nome di costei — era nata a Perugia da una
sua figlia e da Sigismondo della Staffa gentiluomo di quella città.

Nel 1534 fu questi tra i non pochi che, nella notte del 1.º ottobre,
ne apersero le porte al fuoruscito Ridolfo Baglioni e gli tennero mano
ad impadronirsi del vescovo di Terracina, vice-legato pontificio, che,
poscia, in uno co’ suoi auditori e cancellieri, venne posto a’ tormenti
e decapitato su la publica piazza.

L’anno di poi, papa Paolo III vi spedì le sue genti capitanate da
Alessandro Vitelli, il quale volse in fuga il Baglione, diroccò dalle
fondamenta le sue terre di Spello, Bettona e Bastia e fece mettere a
morte vari de’ suoi fautori, tra’ quali Sigismondo della Staffa.

Fu allora che Bianca trasse presso dell’avolo, insieme alla propria
madre, la quale — uscita quasi di senno pel tragico fine del consorte —
morì di crepacuore pochi mesi dopo.

Bianca della Staffa, orfana a quindici anni, rimase però sola col
vecchio nonno, i cui molti figliuoli — uno de’ quali quel Gilberto,
che udimmo menzionare dal Monte Ochino siccome dannato alla gogna in
seguito del supplizio di Stefano Nicelli — vivevano con le mogli e la
prole sparsi per altre terre e castella della valle di Nure.

Quando un valletto salì ad annunziare a Giovanni il Grosso la persona
che chiedeva parlargli:

— Pellegrino di Leuthen? — fece questi, inarcando le ciglia — che
diamine può mai volere da me?.... digli pure che salga!

E chiuse il volume, cui stava leggendo, cacciandovi trammezzo come
indice la lama di un pugnale, mentre il servo introduceva quel mal
sagomato tedesco, che pure vedemmo a Parma, in occasione dello ingresso
del papa.

— Ben venga il nostro mastro Pellegrino — gli disse affabilmente il
conte Giovanni, appena lo scorse — qual vento vi sbatte quaggiù nella
rôcca di Camia?

— Fente cattife, magnifiche messere — rispose il tedesco nel suo solito
gergo, allungando il labro inferiore in aria sconsolata e crollando
melanconicamente la testa — prutte notiscie.... crante prutte notiscie!

— Oh! oh! voi mi sbigottite, Pellegrino!.... forse che Sua Beatitudine
si trova male in salute, o che Sua Maestà Cattolica non attiene le sue
promesse?

— Niente! niente! Sua Peatitudine sempre fegete e ropuste, sempre
ciofine malcrado fecchiaia.... Sua Maestà mantate da Parcellone
tiplome infestitura marchesate Nofare Sua Eccellensce il tuca di
Castre, con penscione tuemila seicento cinquanta scuti d’oro da
cinque lire imberiali ogni scuto.... matrimonie brincipe Ottafie
con tonna Marcherite celeprate Rome.... lui afute tucate Camerine da
Cuitupalte dalla Rofere... Farnesi tutti gontenti, molto gontenti....
ma io barlare di foi, magnifiche messere, di foi che state minacciate
crantissime tiscrazie.

— Io?

— Foi... foi, magnifiche messere!.... conti Nicelle, topo Stefene
lasciate testa Biacenza, molto arrapiate, molto stegnate, molto
tesiderio fenticascione.... oh, cente furba e cattifa conti
Nicelle!.... supito capito fostro tratimente.... supito tetto: Camia
fatto ammazzare Stefene, noi ammazzare Camia.... tente ber tente.....
pena del taglione!

— Poter del mondo, mastro Pellegrino, voi mi parete la Cassandra,
di cui stavo appunto leggendo le profezie in questi oscuri versi di
Licofrone!... e d’onde viene che mi scioriniate di siffatte malinconie?

— Fiene, magnifiche messere, che Bellecrine stare ciorno e notte sempre
ficilante per suoi poni batroni.... io bresentemente essere incaricato
Santo Batre scantagliare medalli delle Ferriere.... io essere da fari
ciorni in quelle barti.... ieri sera, passanto Gastelle Ganafurone
fetute crante luciore fenire dalle finestre.... _der teifel!_ subito
tetto a io metesimo, qui star cosa straortinaria e, biane biane, atace
atace, antate ficine una di quelle finestre e fetute e sentite tutto
quanto si facefa e ticefa di dentro... stare tutte Nicelle condurate,
Mont’Ochine, Gattaragne, Eppie, Nicete e capitani e soltati, e tire e
ciurare questa notte metesima folere voi assaltare e brentere fostre
gastelle e foi e fostra cento e tutti fostri barenti e sequaci tutti
bassare file di spate e rufinare fostre gase e rupare fostri guadrini e
fare crante cenerale fenticascione sopra di foi!

Il conte Giovanni, che aveva seguito la tartagliata del tedesco con un
misto crescente d’interessamento e di stupore, come quello si tacque,
corrugò fieramente la fronte e, rizzandosi in piedi:

— Voi avete udito tutto codesto? — esclamò, ficcandogli gli occhi negli
occhi.

— Udite e fetute come io fetere e utire foi metesimamente — rispose il
tedesco.

— Erano molti?

— Aferne gontate tuecento.

— E dite che questa notte?...

— Folere foi assaltare e fare crante fenticascione sopra di foi.

— E sia: mi troveranno pronto a riceverli!.... intanto vi sono grato
della vostra sollecitudine: uomo avvisato, mezzo salvato!

— Foi pone amiche conti Sandafiore; conti Sandafiore pone barente e
niboti Sua Peatitudine; Sua Peatitudine mio pone batrone: io niente
fatto chè mio tofere pono e fetel serfitore.

— Lo so, lo so: mi ripeteste codeste istesse dichiarazioni quando
assumeste sopra di voi di denunziare al pro-legato la clandestina
intrusione in Piacenza di quello sciagurato di Stefano....

— Ciustamente!... conti Sandafiore molto tesiterare sua scompariscione
del mondo.... io molto tesiterare serfirli.... poi afere cento pelli
ducali da cuataniare.

— Comunque sia e per allora e per adesso so di dovervi una gratitudine
che non verrà mai meno.

— Troppe penefole.... troppe intulcente!

— Ma, dico: per giungere da Castel Canafurone sin qui, a quest’ora
del mattino, dovete aver galoppato più di un cervo.... sarete stanco,
affamato....

— Stanco no: oh, io afere campe di ferre.... fiacciare come temonio....
ma anche fame come temonio... fentricole parere porsa senza guadrini!

— E voi affrettatevi a ristorarlo — gli disse il conte Giovanni e —
richiamato il valletto — commise a costui di menarlo dal credenziere
con ordine gl’imbandisse quanto di meglio serbava in dispensa.

Chetàti, con un mezzo pollo allo spiedo, un quaccino dì segala ed un
buon fiasco di vino del sito, i morsi dello stomaco; intascati, senza
cerimonie, gli scudi d’oro, che il conte gli snocciolò in compenso del
salutare suo avvertimento; mastro Pellegrino di Leuthen riprese la via
dei monti, diretto, com’e’ diceva, ad istruire di quanto accadeva i
feudatarî di Castell’Arquato.

Pellegrino di Leuthen — come lo avranno già avvertito i nostri lettori
— sotto la maschera di metallurgo e antiquario, altro non era che un
attivissimo spione del papa e di tutti i costui aderenti. — Paolo III,
infatti, sino dal 1538, gli aveva dato incarico, con apposito Breve, di
ormare e consegnare in potere della giustizia i non pochi falsari, che,
abusando il nome pontificio, avevano preso a fare spaccio di apocrife
patenti largitrici di dispense, di perdono e d’altro, per mezzo delle
quali andavano squattrinando a scapito dell’altrui buona fede, e — più
tardi — quello di scandagliare e studiare le miniere della valle di
Nure; ma, nel medesimo, era segretamente istruito di tener d’occhio
agl’interessi tutti di casa Farnese e di riferire a tempo e luogo,
quanto gli accadesse notare che ne valesse la pena.

In altri termini, Pellegrino di Leuthen era niente più niente meno
di ciò che al giorno d’oggi si chiama un agente secreto di publica
sicurezza.

Mentre costui saziava il suo vorace appetito tedesco e si rimetteva in
via per la montagna; Giovanni il Grosso — fatti venire i suoi familiari
ed uomini d’arme ed impartiti loro gli ordini opportuni perchè
procacciassero il necessario alle difese — aveva spedito procacci e
staffette a cavallo a’ suoi figliuoli e congiunti, alfine che prima
dello annottare convenissero tutti al suo castello.

Il sole non aveva, infatti, per anco raccolto i suoi ultimi raggi, che
— alla spicciolata, l’uno dal monte, l’altro dal piano — vi giunsero
tutti, di guisa che quando, alla ritirata serale, si rialzarono i ponti
e si situarono le scolte su i merli, più di quattrocento uomini parati
al combattere trovavansi chiusi entro la rôcca di Camia.

Ma quella notte trascorse, e un’altra, e un’altra ancora, senza che di
nemici si avesse il minimo indizio.

Si ritenne allora che Pellegrino avesse preso un granchio a secco
e, a poco a poco, i convenuti si licenziarono e fecero ritorno alle
rispettive dimore: compagni al vecchio Giovanni non rimasero ultimi
chè suo figlio Gilberto, suo genero Alfisio Malvicino, un Cristoforo
Chinello, e un Battistino ed un Franceschino Zazzera, i quali pure —
traendo ottimo auspicio da una quarta notte passata nella più completa
tranquillità — cominciavano a parlare di andarsene l’indomani.




CAPITOLO VII.

La via sotterranea.


Ma la pace perfetta goduta in quelle quattro notti dagli abitanti della
rôcca di Camia potevasi paragonare alla bonaccia di mare precurritrice
quasi sempre di spaventose procelle.

Pellegrino di Leuthen — noi lo sappiamo — non s’era punto ingannato; e
se i Nicelli riuniti in Castel Canafurone non avevano dato compimento
a’ loro feroci propositi nel tempo e nel modo deputati, lo si
doveva appunto allo averne egli istrutto Giovanni il Grosso e alle
disposizioni assunte da costui.

Per mezzo de’ loro parziali, disseminati qua e là nella valle, eglino
pure erano stati, a lor volta, messi in su l’avviso del frettoloso
accorrere che i Camia facevano dai dintorni al castello paterno e
avevano compreso come il loro divisamento di cogliere il nemico alla
sprovista e di sopraffarlo fosse interamente frustrato. — Il vecchio
Camia era avvertito: impossibile, quindi, trovarlo con le mani
alla cintola; arduo già forse il solo avvicinarsi al suo covo senza
destare l’allarme. — Due cose decisero però: l’una di aggiornare la
loro spedizione; l’altra di affidarla piuttosto all’astuzia che alla
violenza.

Come il più dei castelli medioevali anche la rôcca di Camia possedeva
una via sotterranea, che — dalle sue casematte — andava a riuscire in
un punto rimoto su l’alveo della Nure.

Destinata ad offrire uno estremo scampo quando il sostenere la piazza
fosse reso impossibile; e del suo accesso nello interno della rôcca e
del suo sfogo in riva al torrente, il segreto era gelosamente custodito
dal signore del luogo, siccome quello da cui sapeva dipendere e la sua
propria salvezza e quella de’ suoi.

Eravi tuttavia qualcun’altro che lo conosceva: l’ottuagenario Luca
Rinolfo, antico castaldo de’ Camia, il quale, allora, viveva ritirato,
con la moglie ed un unico figliuolo, nel vicino casolare della Chiappa
appiedi di monte Osèro.

Fu sopra di costui che volsero il pensiero i Nicelli e principalmente
il conte di Monte Ochino, che — se non certezza — ragioni molte
inducevano a supporre dovesse Luca non ignorare del tutto il segreto di
quella via.

Con un drappello de’ suoi tra’ più resoluti ed audaci, camuffati
da villano al pari di lui, ma con le vesti soppannate di stocchi e
pugnali, scese egli però la quarta sera dopo il convegno in Castel
Canafurone sino alle falde del monte Osèro e — a notte chiusa —
intorniò ed invase la modesta casuccia del vecchio castaldo.

Non ci tratteremo molto su i particolari di tale invasione.

Troppe scene di sangue sono destinate a cadere sotto la nostra penna,
perchè non accogliamo, con piacere, la opportunità di accennarne a pena
talune e di sopprimerne altre del tutto.

Basti al lettore, che gli sgherri del Monte Ochino colsero l’infelice
vegliardo nel più intenso del sonno lo imbavagliarono per soffocarne
le grida; lo avvolsero entro un lenzuolo per schermirlo dal freddo
pungente della notte e — gittatoselo così su le spalle più a mo’ di
cosa chè di persona — lo portarono via.

Il Monte Ochino, rimasto ultimo — mal sapendo come chetarne la
consorte che strillava a squarciagola e per tema il compromettesse col
denunziar l’accaduto — stimò del suo meglio assecurarsene il silenzio
con due stilettate che la freddarono sul colpo quindi raggiunse i suoi
cagnotti, i quali — col loro fardello umano su gli omeri — si erano
intanto ridotti presso la sponda della Nure a pochi tiri d’arco dal
castello di Camia.

Buon per costoro che il figlio delle loro vittime fosse stato costretto
ad abbandonare i vecchi ed amati suoi genitori, per chiudersi nella
rôcca insieme agli altri vassalli, e non dovesse chè due dì dopo
apprendere in parte ed in parte indovinare l’atroce colpo che gli era
toccato. — Sventura a loro se fosse stato presente! — E il Monte Ochino
lo sapeva così che s’era fatto accompagnare da dodici scherani scelti
fra’ più arrisicati; mentre — lui assente — due sarebbero stati più che
sufficenti a sbrigar la bisogna.

Arcangelo Rinolfo — meglio conosciuto per tutta la valle sotto il
nomignolo di _Terremoto_ — era, infatti, tale uomo da lottare da solo
anche contra quei dodici e da fornir loro una brutta gatta da pelare.

S’imagini il lettore un colosso di due metri d’altezza, con un torace
da cavallo meclemburghese, le spalle larghe e quadrate, il dorso
leggermente curvo e le braccia e le gambe con quegl’istessi muscoli
esagerati che si osservano in alcune statue del Buonarroto. — La testa
aveva piccina, i capelli biondi, occhi cilestri, i lineamenti dolci e
regolari e sarebbesi anche potuto dir bello, se un fendente buscatosi
in guerra non gli avesse mozzato il naso e parte del labro superiore
sì da renderlo orribilmente deforme. — Ad una forza eccezionale,
prodigiosa, tale da accreditare le mitologiche e bibliche leggende
dell’Ercole greco e dello israelita Sansone, accoppiava la destrezza
del ginnasta, la elasticità di membra dell’acrobata: nessuno che — al
paro di lui — fosse capace di sollevare enormi pesi, di abbattere una
giumenta di un pugno, di puntarsi alla spalla una colubrina come altri
un archibugio ordinario; ma e nessuno che lo sapesse vincere al corso e
lo eguagliasse nella rapidità con la quale s’arrampicava s’un albero, o
si lasciava scivolare giù da una fune.

Lo dicevano _Terremoto_ e, all’opera, lo era dassenno.

Sotto gli ordini di un Camia e al soldo di Spagna aveva militato più
volte in Lombardia e operato prodigi di valore. — Pei suoi signori
professava una devozione ed una reverenza che avevano del culto. Il
suo carattere somigliava a quello dei cani di Terranova: non troppa
intelligenza, ma una fedeltà a tutte prove. Ciò che non gli suggeriva
il cervello, il cuore glie lo dettava; dove non giungeva con la mente,
toccava col braccio.

Ci siamo dilungati alcun poco a ragionare di costui, appena ci accadde
di nominarlo, per la parte rilevante che deve rappresentare in questa
nostra istoria.

Torniamo adesso al suo misero padre, che inutilmente si dibatteva fra
le braccia de’ suoi rapitori.

Come costoro l’ebbero steso supino su le ghiare del torrente e toltogli
d’in su la bocca il bavaglio, il conte di Monte Ochino gli si chinò
sopra col ferro sguainato in pugno e tinto ancora del sangue della sua
vecchia compagna e:

— Suvvia — gli susurrò con voce sorda e imperiosa all’orecchio — tu sai
dove si trova lo sbocco della via sotterranea che mena alla rôcca di
Camia: o indicamelo subito, o tu se’ morto!

— Ah, è per codesto — rispose quasi tranquillamente l’antico castaldo —
che voi mi avete in cotal maniera azzannato e tratto sin qui?

— È per codesto.... parla!

— Nemmanco se mi minacciaste di tôrmi di corpo l’anima che è del buon
Dio e di darla al demonio: pensate la vita!

— Non vuoi?... bada, Rinolfo, che tu giuochi un’assai mala carta!...
hai lasciato in casa la tua donna anch’essa nelle mani de’ nostri....
parli, ed è salva, e, salvo a tua volta, torni immediatamente a
raggiungerla.... taci, ed è morta, morta con te, morta prima ancora di
te.

— Oh, la mia Annalena! — sospirò il malcapitato senza null’altro
aggiungere.

— Ti decidi! — soggiunse il Nicelli, coi denti stretti per l’impazienza.

— Lo sono.

— Ebbene?

— Penso che se io tocco gli ottant’uno al _Corpus Domine_, Annalena
ne compie settantasette a Natale... abbiam vissuto sin di troppo
amendue.... ella stessa preferirà sapermi morto e morire con me, a
trascinar meco qualche anno ancora di grama esistenza esacerbata dal
disprezzo e dall’ignominia.

Il Nicelli si rodeva pel dispetto e durava fatica a contenersi;
tuttavia, facendosi forza:

— Sia pure — continuò — ma, dopo tua moglie, c’è il tuo figliuolo....

— Arcangelo? — fece il vegliardo, fissando gli occhi spaventati sul suo
tormentatore.

— Appunto, quello smargiasso, quel cospettone, quello ammazzasette e
storpiaquattordici del tuo figliuolo.... noi lo abbiamo ridotto al
dovere... egli è laggiù, poco stante da Revigozzo, legato come un
prosciutto mani e piedi ad un albero, che aspetta la sua sentenza.

— O Vergine Santa da’ sette dolori! — si dètte a gemere il meschino.

— Se parli — insistè cinicamente il Nicelli — sciogliamo lui pure e,
prima che aggiorni, tornate a ritrovarvi uniti nella vostra capanna; se
no, tienlo per ispacciato insieme a te e alla tua vecchia.

— Oh, ma no... ma no — mormorò l’ottuagenario, cominciando a sbattere
i denti un po’ pel freddo, un po’ pel terrore — voi lo dite per
spaurirmi; ma non è vero, non può esser vero!.... il mio Arcangelo
è troppo destro, è troppo forte per lasciarsi pigliare.... e poi chi
siete voi per volerci sì male.... a noi, povera gente?

— Chi sono?.... non mi riconosci alla voce?

— No, no.... prima d’ora non l’ho mai più udita!

— Sono Giovanni Nicelli.... il conte di Monte Ochino!

A questo nome, il disgraziato Luca Rinolfo rimase mutolo, allibito, con
gli occhi sbarrati come se avesse dinanzi la Versiera.

E non c’era a stupirne.

Quanta fama godeva suo figlio di coraggioso e di forte per tutta la
valle di Nure, altrettanta il Monte Ochino di feroce e di tristo. —
Le costui minacce, che il vecchio s’era sforzato di considerare sino
allora come un semplice spauracchio, gli apparvero in quel momento in
tutta la loro disperante realtà; dietro gli sgherri che gli facevano
corona gli parve scorgere orrendamente squarciati e sanguinanti i
cadaveri della moglie e del figlio; sentì la fredda lama del suo
carnefice penetrargli nel cuore: e lo spavento, l’angoscia lo vinsero
così che si mise a piangere e a tremare in tutta la persona, come
scosso dalla terzana.

Il Nicelli ghignò di diabolica gioia: quel pianto, quel tremito
segnavano il suo trionfo.

Raddolcendo però del proprio meglio l’aspro metallo della voce:

— Perchè accuorarti? — gli disse — la tua sorte e quella de’ tuoi non è
forse in tue mani?.... parla, e non avrai più nulla a temere nè per te,
nè per loro.

— Ma, Eccellenza — balbutì, fra singhiozzi, il misero Luca — se v’hanno
dato a credere che io vi possa giovare in cotesto, foste tratto in
errore.... io so nulla; vi assicuro, Eccellenza, che so proprio nulla!

Era un ultimo tentativo.

— Ah, ti ostini in siffatto modo? — ruggì il Nicelli con piglio
rabbioso — e facciamola dunque finita!

E, voltosi a due de’ suoi:

— A te, Bislacco da Grondone — disse loro — subito al tugurio di
costui e scannami quel suo carcame di vecchia.... e tu, Picchione
Scianchino....

— No, no.... — lo interruppe allora il vegliardo, stendendo le ignude
braccia fuor del lenzuolo — no, magnifico messere... che restino, che
restino e... dirò tutto!

— Ah, finalmente! — mormorò fra sè stesso lo scellerato e si pose in
ginocchio per non perdere nessuna delle parole di Luca.

E questi cominciò sospirando:

— Poco più in qua della rôcca, c’è il navalestro, nevvero?.... ebbene.
Eccellenza: da codesto luogo, camminando verso qui, dove siamo, contate
dodici passi incirca e vi troverete a un punto della ripa, dove sorgono
due grossi ed alti pioppi abbinati; tra l’uno e l’altro, proprio nel
froldo, c’è una sorta di sassaia, che sembra formata dal caso... ivi è
lo sbocco che voi cercate.

— Davvero?

— Quanto è vero che io soffro adesso le pene dell’inferno!

— Stà cheto — fece nel rialzarsi il conte Nicelli in tono di mal celato
sarcasmo — stà cheto che cesseranno tra breve, non appena mi consti che
non hai voluto ingannarci.

E andò a susurrare alcuni ordini all’orecchio di tre o quattro de’
suoi, i quali si allontanarono frettolosi costeggiando il torrente in
direzione della rôcca di Camia.

Mezz’ora dopo ritornarono e scambiarono a bassa voce poche parole con
lui.

Nel frattempo, il vecchio Rinolfo s’era andato congegnando in cervello
tutto uno ingenuo piano di condotta, mercè il quale si confortava
di uscirne pel rotto della cuffia, tanto nello interesse della sua
famiglia che de’ suoi padroni, e di salvare capra e cavoli a un tempo.
— Nella sua dabbenaggine, mai più supponendo che un personaggio della
levatura del conte Nicelli potesse covare un tradimento a suo danno;
e’ si vedeva già libero e restituito al suo casolare, d’onde sarebbesi
avacciato alla rôcca per istruire Giovanni il Grosso di quanto eragli
occorso e dello stremo a cui s’era visto ridotto per scampare la vita
propria e de’ suoi. — Messer Giovanni non avrebbe mancato a mettersi in
collera; ma poi, buono qual era — sbollito il primo furore — avrebbe
finito per perdonargli ed avvisare al modo più acconcio affinchè i
Nicelli non potessero trarre nessun profitto dello estorto segreto. —
In tal maniera, tranquillava la propria coscienza e seco medesimo si
rallegrava della usata scaltrezza.

Stava appunto in simili pensieri, quando gli stessi uomini del Monte
Ochino, reduci allora dalla loro breve escursione — su di un cenno di
costui — gli si accostarono e se lo tolsero nuovamente in groppa e —
siccome egli protestava e chiedeva se il riconducessero a casa, o che
intendessero fargli — per non essere importunati o compromessi da’ suoi
clamori, gli cacciarono un’altra volta il bavaglio alla bocca.

Il meschino vegliardo comprese allora, ma troppo tardi di aver fatto
assai male i suoi calcoli.




CAPITOLO VIII.

Sorpresa.


La rôcca di Camia — come il dicemmo — sorgeva su la destra riva
della Nure ed era un largo edificio quadrato a duplice giro di mura,
edificato in pietra serpentina, a listelli e cornicioni di smalagtite
d’un lucido verdegrigio scavata su le sponde dello stesso torrente. —
I quartieri gentileschi si elevavano s’un pianerottolo riserbato alle
genti di servizio ed un sotterraneo, ed avevano sovrapposte le terrazze
merlate per le scolte e le vigilie notturne e per la difesa. — La
porta maggiore aprivasi su la fronte a settentrione ed una postierla
di sussidio a levante verso la Nure, e tutte due mettevan capo, per
lunghi e bassi androni, ad un ampio cortile centrale, nel cui mezzo
la cisterna ed intorno gli appartamenti. — Nel braccio settentrionale
erano la sala d’arme, quella de’ negozi e la biblioteca, che Giovanni
il Grosso aveva arricchito di preziosissimi codici e delle migliori
opere uscite allora da’ torchi dello Swenynhein, di Giovanni e
Vindelino da Spira, di Nicolò Jenson, di Antonio Zarotto, di Giovan
Vercelli, di Vincenzo Conti, del Minuciano, del Lavagno del Gallo,
del Dolcibello e degli Aldi; a ponente trovavasi il suo quartiere
particolare, a levante, verso la Nure, quello di sua nipote Bianca;
a mezzogiorno, quello destinato a’ parenti ed agli amici che spesso
convenivano al castello. — Una scala di stile bramantesco biforcavasi
nel lato del cortile opposto a quello in cui sboccava l’andito
principale d’ingresso, e andavasi a ricongiungere s’un pianerottolo
a pesanti balaustrate che ammetteva a’ quartieri. Trammezzo le sue
due prime branche, incontravasi l’altra scendente a’ sotterranei, nel
più riposto de’ quali un pilastro mobile su la sua base mascherava
l’entratura della strada secreta, di cui ci accadde parlare nel
precedente capitolo.

Questi particolari su l’ubicazione della rôcca di Camia li abbiamo
stimati opportuni per agevolare ai lettori la intelligenza dei fatti
che siam per narrare.

Correva la quinta notte dalla visita di Pellegrino di Leuthen al
signore di Camia e — siccome il suo avviso erasi tenuto in conto di
un falso allarme — non rimanevano omai più con le genti del luogo chè
Gilberto Camia, Alfisio Malvicino, il Chinello, i due Zazzera e pochi
loro seguaci. — I medesimi vassalli del circostante territorio che — al
primo sentore di pericolo — avevano dovuto convenire al castello; erano
stati licenziati quel giorno stesso in sul cader della sera. — Tra
questi, Terremoto, il figlio dello sventurato Luca Rinolfo.

Il cielo non era nuvoloso, ma coperto di una leggera distesa di nebbia
biancastra, che ne velava le stelle e metteva per l’aria un caldo
sciroccale, afatico e soffocante. — Non spirava alito di brezza.
Tutto era immoto e silenzioso, immobilità e silenzio che avevano del
malaugurio. — Solo, di tratto in tratto, s’udiva la sentinella ripetere
il monotono suo grido di veglia e i cani della rôcca e que’ de’
dintorni risponderle co’ loro prolungati abbaiamenti.

Meno le guardie che presidiavano i terrazzi, tutti gli abitatori del
castello trovansi raccolti nelle rispettive loro stanze ed immersi nel
sonno. — Se qualcun altro vigilava, era Bianca della Staffa, la giovine
e leggiadra nipote di Giovanni il Grosso, la quale — con quello istinto
divinatorio tutto peculiare alla donna — presentiva probabilmente il
pericolo.

L’istinto feminile in ciò tanto si mantiene sempre più vergine ed
intatto: l’uomo lo attuta e lo perde a furia di temerità e di iattanza.

Dacchè aveva risaputo della visita di Pellegrino e del motivo che
lo traeva al castello, la poverina non s’era più data un momento di
pace. — E poi, due sere inanzi, affacciatasi alla finestra della sua
cameretta prima di coricarsi, l’era sembrato udire lontan lontano nel
torrente degli strani e misteriosi rumori, come un picchiar cauto di
martelli e di picche, e delle grida e dei gemiti, e tutto ciò le aveva
dato al cuore una stretta.

Come tutte le donne de’ suoi tempi, Bianca non era nè vile, nè paurosa;
ma, sino da’ suoi primi anni, la sciagura l’avea sì crudelmente
sperimentata, che le pareva qualche nuovo danno le stesse sempre
sospeso, come spada di Dàmocle, sovra la testa. — E siccome era sempre
stata colpita ne’ più soavi affetti della sua giovine esistenza, era
pe’ suoi cari non per sè che tremava.

Al vecchio nonno — di cui formava la delizia e che teneramente
indulgeva a’ suoi capricetti — erasi provata di comunicare le proprie
istesse impressioni e, con la sua dolce vocina, avea pur voluto metter
bocca nelle discussioni di famiglia, per consigliare timore e prudenza
a chi propugnava l’abbandono di ogni precauzione; ma non le si era
voluto dar retta.

— Oibò, Biancuccia — le aveva detto, tra il serio e il faceto, lo
stesso conte Giovanni — fai torto al tuo sangue!.... se la paura può
tanto sovra di te, in fede, che non sei nè dei Camia nè dei della
Staffa!... che diamine!.... s’ha a stare tutta la vita in su l’allerta
e con la miccia in su l’archibugio e la battisoffiola in corpo d’essere
soprappresi ad ogni volger di ciglia?... se veramente i Nicelli
fossero stati complottando in Castel Canafurone, come mi bestemmiò
quello _slippete slappete_ di tedesco, e nello intendimento di calarci
addosso; e’ mi pare che ce n’abbiano avuto il tempo.... e d’avanzo!
se non si sono visti sino a quest’ora, significa o che il tedesco, in
causa della lingua, ha franteso sì con la vista come con l’udito, o
che, nel frattempo, coloro hanno cambiato d’avviso.... ed, affè mia,
sto per credere che la debba essere precisamente così!.... i Nicelli
mi conoscono; sanno che, se ho acuti gli occhi della fronte, non li ho
manco quelli del comprendonio; avranno subodorato la pratica di quel
gaglioffo di mastro Pellegrino e si saranno dispersi con la coda tra
gambe come cani scottati.

— E pure nonno — aveva voluto insistere la fanciulla — io mi ho un
certo presentimento nel cuore...

— Bùbbole, bùbbole! — erasi affrettato a soggiungere l’ottimo vecchio
— o che ti paion ragioni coteste, i presentimenti?.... le sono ubbie
da lasciarsi alle crelie!... non sai tu che se le genti del contado ti
dovessero udire a spropositare come adesso fai, ti leverebbero il nome
che t’hanno affibiato di _Bella Perugina_, per rimutartelo in quello di
_Brutta Spaventaticcia_?

E lì un ridere e un darle le berte di tutti i congiunti.

Però Bianca dovette intascare le vagheggiate speranze di convertire
altrui nella sua fede; ma non per questo smise le sue molte
apprensioni: ed anco in quella notte esse lo travagliavano tanto che,
per quanto si voltasse e rivoltasse sul suo letticciuolo, non ci fu
modo che il sonno scendesse a chiuderle le palpebre. — Fors’era il
caldo eccessivo che la faceva smaniare in tal guisa; ma ella, al caldo,
nemmanco pensava; secondo una sua arcana voce del cuore, doveva essere,
invece, un funesto presagio: era lo spirito, non il corpo, che pativa
d’insonnia.

Coricata già da varie ore e vagante col pensiero in mille diverse
fantasticherie l’una dell’altra più paurosa; la stanchezza cominciava
finalmente ad intorbidarle la mente e a indurla in quel pesante
dormiveglia, che nasce dal tedio e che, il più delle volte è precursore
del sonno, quando una violenta detonazione la scosse improviso e la
fece sobbalzare seduta sul letto, con gli occhi sbarrati e fisi e le
orecchie ansiosamente tese per lo sgomento.

Un calpestio precipitoso, un vociare confuso, un tintinnìo di
spade, uno scoppio frequente d’armi da fuoco, un bagliore rossigno e
divampante, che — dalle chiuse imposte dell’uscio — giungeva sino a
lei; tenne dietro alla fragorosa detonazione.

Per quanto acuisse la propria perspicacia, Bianca nessun’altra
spiegazione sapeva trovare a quel repentino tumulto, se non lo
avverarsi de’ suoi presentimenti. — Pellegrino di Leuthen non s’era
ingannato: dovevano essere i Nicelli, i Nicelli che invadevano
notturnamente la rocca.

Ned alla sbigottita fanciulla s’appresentava partito degno di essere
prescelto: restando, un’ansia divorante, una opprimente trepidazione,
che le toglieva il respiro; uscendo, mali peggiori.

Ma il clamore cresceva; omai non poteva più restarle alcun dubio d’aver
colto nel segno con le sue induzioni: al cozzo delle armi susseguivano
urla feroci di minaccia, miste a grida strazianti e, fra queste, una
voce che l’era famigliare, quella di suo zio Gilberto, che chiedeva
pietà, misericordia. — Allora non ci resse più: balzò dal letto ed
affrettatamente si accinse a vestirsi.

La pietà la spingeva: amore vince paura.

Erano, infatti, i Nicelli.

Riconosciuta l’esattezza delle indicazioni del vecchio castaldo, e’
s’erano avacciati, sin dalla notte precedente, a disgombrare l’accesso
esterno della via sotterranea ed a cacciarvisi dentro per penetrare
nel castello; ma, toccatone il fine, avevano dato del naso contro una
muraglia, in cui non era apertura, nè apparenza alcuna di riuscita.

Dovettero allora decidersi ad aggiornare la loro impresa, per avvisare
ad altri mezzi, il meglio acconcio de’ quali giudicarono la tremenda
polvere, di cui è attribuita la invenzione al benedettino Bertoldo
Schwartz: una mina.

Impiegarono però tutto il dì successivo a praticare gli scavi necessari
appiè del muro che loro intercludeva il passaggio e — colmatili di
polvere fulminante e ristoppati all’orifizio — v’insinuarono le micce,
cui — nel cuore della notte — appiccarono il fuoco.

La detonazione, che aveva messo tanto spavento nel cuore di Bianca,
altro appunto non era stata chè lo scoppiare di quelle mine, le quali
avevano fatto saltare in rottami il pilastro che mascherava il vano
d’accesso alla via sotterranea.

Per questa, i Nicelli ed i loro dugento seguaci — con le spade fra’
denti e la pertugiana o l’archibugio, nell’una ed una face accesa
nell’altra mano — si precipitarono, come altrettante furie, entro il
castello di Camia e, per le due scale, su fino ai merli più alti e via
tra’ più riposti penetrali, trucidando proditoriamente nel sonno, o
schiacciando col numero, quanti incontravano armigeri o servi.

Per buona ventura di molti di costoro, il castaldo che tuttavia non
dormiva, comprese tosto di che si trattasse ed — abbassato il ponte
della porta principale e rialzatene la serracinesca — se la dette a
gambe prima che gl’invasori giungessero ad azzannarlo; cotalchè, per
quell’àdito aperto, non pochi poterono evadersi e scampare alla strage.

De’ primi a svegliarsi fu pure Giovanni il Grosso. — Al frastuono, alle
grida, indovinò a sua volta il pericolo che gl’incumbeva e — toltosi
subito di letto ed infilata una palandrana, con quella maggior lestezza
che gli consentivano i suoi settant’anni e la sua corpulenza, — accorse
sul pianerottolo della scala, dove si vide immediatamente affiancato da
suo genero Malvicino e da suo figlio Gilberto.

Il maggior nerbo de’ nemici, con alla testa il conte di Monte Ochino,
si gittò sovra di loro.

— Scannatemeli quanti sono — gridava ferocemente costui — tutti, tutti,
fuori del vecchio!... quello lo voglio vivo!... guai a chi gli torce un
capello!

— Scellerato! — gli rispose Giovanni il Grosso — cento contro uno....
la sorpresa e il tradimento!... ecco le gloriose gesta della tua
codarda genìa!

— Addosso! addosso! — rintostò il Monte Ochino, animando i suoi dello
esempio.

Ma Gilberto Camia slanciossi, in quel punto, a far schermo al padre
del proprio corpo e — siccome nel maneggiare una spada non conosceva
maestro, addossatosi alla balaustrata, cominciò, con un rapido e
vorticoso molinello, a farsi largo tra’ nemici, parecchi de’ quali
cacciò a terra feriti.

Taluno di questi lo prese allora di mira con l’archibugio e fece fuoco;
ma le palle deviarono dal segno: una tuttavia andò a colpirgli la spada
a mezza lama e glie la mandò in ischegge.

Vedendosi disarmato e perduto, Gilberto si curvò lesto per raccogliere
lo stocco d’uno dei caduti; ma nel contempo, il Monte Ochino, ch’erasi
avanzato di un passo, gli scagliò in faccia la torcia resinosa onde era
munito, sicchè il fuoco non solo gli arse i capelli e la barba; ma in
breve gli si appigliò alle vesti e alle vive carni.

Lo spasimo gli strappò quelle urla disperate, che avevan sì fieramente
impressionato l’animo di Bianca, e — traendolo quasi fuori di senno —
lo spinse brancolone giù per la scala, come cercasse fuggire.

Dieci stoccate lo colsero alle reni e gli troncarono, in uno, i
patimenti e la vita.

Nel tempo istesso, anche il Malvicino cadeva mortalmente ferito; mentre
Giovanni il Grosso — sopraffatto dall’onda furiosa di armati che gli
si pigiava d’intorno e costretto ad arrendersi — veniva legato mani e
piedi e portato via in groppa da due nicelleschi.

Non più uno de’ Camia che non fosse o fuggito, o prigione, o morto, od
agonizzante.

In quella, due nuovi personaggi misero il piede sul teatro di tanta
carnificina: il nostro Neruccio, che scendeva da’ terrazzi, dove aveva
compiuto il suo mestiere d’uomo d’armi assoldato; e Bianca, che usciva
dalla sua cameretta.




CAPITOLO IX.

Prime gesta di Terremoto.


All’apparire di Bianca, il Monte Ochino mise come un ruggito di gioia
selvaggia e, chinandosi su la balaustrata, gridò al vecchio prigioniero
che i suoi trasportavano altrove:

— Sai, vecchio barbagianni?... ci ho qui anche la tua colombina, che
viene a cacciarsi di sua sponte tra gli artigli del nibbio!... ah, ah,
povera colombina!

E, ghignando d’un infernale cachinno, si lanciò contro la vezzosa
fanciulla, che già s’arretrava atterrita, e:

— Fermati, fermati! — le intimò — e che non ti sorgesse mai per lo
capo di opporci resistenza, o di commuoverci co’ tuoi squasilli!...
e’ ti tornerebbe come il fare la zuppa nel paniere!... siamo Nicelli,
intendi? Nicelli, conti e cavalieri, anco, se vuoi.... ma stanotte,
tutt’altro che disposti a metterci in vena nè di cavalleria, nè tampoco
di misericordia!

— Ah, messere! — sclamò Bianca, continuando a indietreggiare — le sono
ben sconce parole coteste per la bocca d’un gentiluomo!

— Non sono in vena, ti replico.

— Ma del conte Giovanni, del mio povero nonno, cosa ne avete voi fatto?

— Fatto?... nulla!... è anco presto!... e’ viaggia carina!... oh, non
pigliarti fastidio di lui! — stà riposata che, sinora, è il meglio sano
di tutti!

— E mio zio Gilberto?

— Vedilo laggiù, che scoppietta come un lucignolo annaffiato.... oh, ce
n’ha ancora per poco!... due guizzi e.... buonanotte!

— Santi del paradiso! — fece la giovinetta, incrociando le mani in
segno d’orrore e mutando un ultimo passo indietro.

— Basta! — continuò il Monte Ochino, incalzandola — non cercar di
fuggire!...

E stese il braccio per ghermirla.

— E voi, messere, non cercate toccarla! — gl’ingiunse una voce,
armoniosa a un tempo, ma e resoluta, mentre una mano aperta gli si
appoggiava sul petto ed un giovine soldato gli sbarrava la via.

Era il nostro Neruccio.

— Per la croce di Dio! — tuonò il Monte Ochino, rinculando di un passo
e squadrando minaccioso il temerario, che lo arrestava in tal guisa — e
d’onde vieni, e chi sei tu, traditore, perchè ti basti l’animo di dire:
non voglio! ove io dico il converso e di levarmi sopra le mani?

— Ero al vostro soldo, messere — gli rispose tranquillamente Neruccio —
ma, da questo momento, non più! combatto i miei pari, ma non presto il
mio braccio contro femine imbelli.... anzi: le difendo; non le lascio
oltraggiare sotto a’ miei occhi!... sono un uomo, come voi, come quanti
vi attorniano, messere, e vi ripeto: non toccate a madonna, o vivaddio
ve ne avrete pentire!

— Oh, grazie! — mormorò Bianca, riparandosi dietro di lui — qui, come a
Parma, sarete voi che mi avrete salvato.

Con vivo sentimento di gioia, Neruccio riconobbe da quelle sole parole,
come alla nobile donzella non fossero tornate nuove le sue sembianze,
nè caduto di memoria il poco già fatto per lei. — In esse trovava un
primo compenso a’ generosi suoi sforzi un maggiore eccitamento al suo
coraggio.

— Ed io ti dico — gli gridò intanto il Nicelli — che, se non mi
ti levi, e subito, da’ piedi; io ti fo pigliare a vergate da’ miei
valletti ed impiccare al più alto merlo di questo nido di gufi.

E mise mano alla spada.

Neruccio fece altrettanto.

— Animo, animo! — soggiunse allora inframmettendosi, il capitano
Lorenzo Villa — lasciamo andare le baggianate!

E rivoltosi a Neruccio:

— Che roba è cotesta? — continuò — io t’ho ingaggiato a’ confini,
insieme ad altri, che venivate dal genovese, d’onde il signor marchese
del Vasto, dopo la tregua, ha licenziato gli avveniticci... e vi ho
forse taciuto di che si trattasse?.... no, eh?.... servire i magnifici
signori Nicelli contro de’ Camia loro nemici, e di costoro forzare le
castella ed ammazzarne quanti più si potesse.... patti: due ducati
il giorno, le razioni e, in caso di sacco, bazza alle mani lunghe!
chi piglia, piglia!.... o, dunque, cosa ci hai tu a sindacare, se a
messer Giovanni, mio buon padrone, talenta per sua parte cotesta tua
schifalpoco?

— Ci ho a sindacare — rimbeccò animoso il giovine soldato — che io
conosco personalmente madonna, che le sono ligio e divoto e che non
lascerò mai, me presente e me vivo le si arrechi fastidio di sorta.

— Fulmini del cielo! — urlò il Monte Ochino, facendo l’atto di
avventargli addosso e dibattendosi tra le mani del Villa, che il
ratteneva.

— Bella gloria — seguitò imperterrito Neruccio — e degna dassenno
di così nobili sèri e di tanto apparecchio d’armi e di armati!....
vincere e vilipendere una misera ed innocente fanciulla, che null’altro
saprebbe opporvi se non le sue preghiere ed il suo pianto!.... ma che
nessuno di voi abbia nè sorelle, nè figlie?... io faccio bastevole
conto degli stessi uomini che vi hanno venduto il loro braccio per
non supporre che molti di loro debbano dividere i miei sentimenti e la
repugnanza che m’ispira il vostro procedere!

— Sì, sì — esclamarono arditamente taluni, facendosi inanzi — hai
ragione! ben detto!

Erano que’ medesimi, ch’egli s’era avuto commilitoni in Piemonte, i
quali — per la sua valentia ed il suo alto sapere — s’erano abituati a
tenerlo in conto più di superiore chè di semplice compagno.

Avvalorato dalla loro adesione, egli si accingeva già a concionarli,
per raffermarne sempre più i favorevoli intendimenti; quando il Monte
Ochino, che più non sapeva frenarsi, spigliatosi dalle strette del
capitano:

— Una rivolta? — gridò — a me! a me!.... diamo una buona lezione a
cotesti marrani!

E gli rovinò addosso, brandendo ferocemente la spada, mentre
gli sgherri fidati della sua famiglia s’avventavano alla cernite
raccogliticce che s’erano pronunziate per lui.

Ne nacque un’altra orribile mischia.

I lupi divoravano i lupi.

Contro a Neruccio ed alla sua protetta, che si trovavano allo estremo
del corridoio parallelo alle stanze di costei, si slanciarono — in uno
col Monte Ochino — il capitano Villa, il da Ebbio ed il marchese di
Cattaragna; ma fortunatamente per lui, l’angustia del luogo non permise
loro di schierarsi tutti quattro su d’una fila: egli però non s’ebbe di
fronte che i due primi, e — siccome soltanto il capitano portava una
face e che i soldati, nell’arruffarsi, erano scesi tumultuariamente,
dall’alto della scala, sin giù nel cortile — venne a trovarsi con
Bianca quasi nascosto nella penombra.

Comprendendo di quanto maggiore vantaggio gli avrebbero potuto tornare
le tenebre complete, assestò, senza indugio, un vigoroso manrovescio
sul braccio sinistro del Villa; gli fece scappar di pugno la torcia e
ne spense col piede la vampa.

La notte li avvolse.

Traendo seco la fanciulla, che, in pari tempo, gli serviva di
guida, indietreggiò rapidamente ed — infilati, prima il corridoio
settentrionale, e, poi, quello a ponente — si propose di toccare il
ramo della scala opposto a quello che aveva dato sfogo alla mischia de’
sgherri, prima che i suoi quattro avversari gli fossero alle calcagna.

Nè fallì nel suo intento.

I quattro — rimasi inopinatamente al buio — si impacciavano a vicenda:
dovettero abbassare le armi per non correre il rischio di bucarsi l’un
l’altro; procedere confusamente tastone lasciare che, intanto, Neruccio
si slontanasse.

Seguendo le indicazioni di Bianca, questi, infatti, aveva attinto e
superato il primo rampante della scala e già stava per profittare del
tumulto dominante il cortile, per tentare d’attraversarlo inosservato;
quando — ad un richiamo del Monte Ochino — i suoi scherani, che —
sotto il comando del conte di Niceto — erano pervenuti ad aver ragione
de’ ribelli; si riversarono in massa nel vestibolo e gli sbarrarono
improvisamente il passaggio.

Dinanzi, una fitta siepe di spade, di picche, di partigiane, tutte
pronte a ferire; dietro, i suoi quattro inseguitori che s’avacciavano
alla riscossa e de’ quali s’udiva già il calpestìo. Neruccio si
riconobbe perduto e, stringendo con effusione la mano della fanciulla,
in pro’ della quale s’era così temerariamente esposto:

— Il vostro nome, madonna! — le susurrò a bassa voce — che, prima di
morire, io sappia almeno per chi do questa mia povera vita!

— Oh, non mi parlate in tal modo! — gli rispose ella con tenerezza — io
mi chiamo Bianca della Staffa; ma questo nome mi diverrebbe odioso, se
non dovessi più udirmelo ripetere da voi!

— O Bianca! Bianca! — ripetè egli in uno slancio di sublime entusiasmo
e, sollevatala sul braccio, mosse resoluto per gittarsi contro la
barriera vivente che gl’impediva la via e schiudersi, ad ogni costo, un
passaggio.

Ma non aveva così mutato un passo che dovette abbandonar la fanciulla,
la quale lo vide vacillare, incespicare, cadere: un terribile colpo di
punta ammenatogli alle spalle lo fece stramazzar boccone e ruzzolare
sino a pie’ della scala, rigando i gradini di una striscia di sangue.

Era il Monte Ochino, che — sopravvenuto in quel punto — lo aveva
conciato in tal guisa.

Povero Neruccio!

Bianca mise uno strido d’orrore e, sentendosi mancar sotto le gambe,
s’abbrancò a’ balaustri della scala per non cadere a sua volta; ma il
feroce Nicelli le fu subito sopra e — malgrado ogni sua riluttanza — se
la tolse in braccio e la levò alto come trofeo. Poi sceso con gli altri
nel vestibolo:

— Ed ora — gridò in tono di trionfo a’ suoi cagnotti — un tanto di
saccheggio per vostro sollazzo e compenso!

L’agognata proposta venne accolta con un urlo di gioia selvaggia da
quella immonda accozzaglia di farabutti, i quali — ringuainati i ferri
e gittate l’armi più pesanti in un fascio — s’affrettarono a porsi in
moto per l’opera di spogliazione che formava il precipuo obbiettivo del
loro ladro mestiere.

In quella, un essere strano, meraviglioso, quasi fantastico, apparve
improvisamente tra loro, come se sbucato di sotto terra.

Era un uomo di forme atletiche, di smisurate proporzioni, dal volto
diforme e la testa, le braccia e le gambe completamente ignude, il
quale — presentatosi appena e senz’altro profferire che una specie di
sordo grugnito — s’avventò d’un balzo sul Monte Ochino e gli strappò
Bianca della Staffa di braccio.

— Miserabile! — sbraitò questi, traballando per l’urto ricevuto e dando
indietro di un passo.

— Ammazza! ammazza! — soggiunse il capitano Villa, precipitandosi con
una picca in pugno sul nuovo giunto, il quale rinculava frettoloso tra
le due branche della scala.

— Terremoto! Terremoto! — mormorarono sommesso i più paurosi de’ birri
ritraendosi in disparte; mentre que’ molti de’ loro compagni, che o nol
conoscevano, o non lo avevano ravvisato, inanimiti dalle grida e dallo
esempio del capitano, correvano eglino pure sopra di lui.

Terremoto, con la sua preda in braccio, trovavasi già sul vano della
postierla, che ammetteva a’ sotterranei, quando il Villa gli giunse
presso e gli misurò un colpo della sua picca.

Il gigante, in luogo di continuare a retrocedere, spiccò un salto
inanzi, stese il braccio destro che solo gli rimaneva libero ed,
afferrata l’arma a mezz’asta mentre scendeva, glie la svelse di mano:
poi, ghermitolo al petto, lo sollevò di peso come fosse un bambino e
lo scaraventò contro l’onda d’armigeri, che giungeva in seconda linea
con le spade appuntate. — Il corpo del capitano, rovinando sconciamente
sopra di loro, produsse il medesimo effetto d’una granata: molti ne fe’
tentennare, molti cascare a terra, tutti li sbaragliò.

E Terremoto riprese la sua marcia regressiva.

A ritentare la prova sì mal riuscita al capitano, si fece inanzi il
conte da Niceto, con una daga nell’una ed una pertugiana nell’altra
mano, e — raggiuntolo quando già dispariva ne’ sotterranei — gli si
gittò sopra, con tutta violenza, e con l’armi in resta, nella fiducia
di trapassarlo fuor fuora. Ma il colosso — come il dicemmo — ad una
forza eccezionale accoppiava una felina destrezza; per cui nè cercò
sfuggirgli, nè fargli resistenza, ma — deposta a terra Bianca e
respintala garbatamente da parte — si lasciò cader boccone subito al di
là della soglia della postierla.

Tratto dalla irruenza della propria corsa, il da Niceto inciampò di tal
guisa nell’ostacolo imprevisto, che, a sua volta, andò a dar del naso
su’ gradini della scala, fracassandosi la faccia.

Terremoto allora — risorgendo d’un salto nel tempo stesso che quello
tracollava — lo aggavignò con la mano destra alle reni, mentre con
l’altra risollevava la donzella, e mantenendosi dinanzi il corpo di
lui maniera di scudo — tornò a retrocedere, camminando a ritroso e sul
fianco sinistro, sino allo sbocco del secreto cuniculo, rimasto aperto
e senza presidio.

Malgrado ciò, i nicelleschi si misero ad aormarlo passo passo, nel
persuadimento che una volta pervenuto a quello sbocco, o dovesse
arrestarsi, o, qualora ne uscisse, offrir loro il modo di attaccarlo di
ricapo.

Ma il Monte Ochino, che incoraggiava i suoi alla impresa, confortandoli
di simile speranza, anco nello intento di liberare il congiunto;
mostrava di non conoscere ancora con qual sorta d’uomo si avesse a che
fare.

Costui, infatti, giunto allo estremo della intercapedine e senza punto
uscirne, tornò a far sdrucciolare Bianca a terra; quindi — preso per
così dire, il rincorso — rinnovò l’esperimento già sì felicemente
tentato col corpo del Villa, lanciando quello del da Niceto contro
i suoi medesimi difensori. Poscia, dato di piglio agli enormi massi,
che costoro istessi avevano smosso dal froldo per schiudersi il varco
e quante altre grosse pietre trovò a portata di mano nell’alveo del
torrente, cominciò a fulminarli con tanto impeto e frequenza, che,
non solo li costrinse a fermarsi ed a rinculare; ma ebbe in breve
nuovamente otturato la foce della via sotterranea.

Allora si tolse in braccio anco una volta la sua giovine signora e
— traverso stoppie e brugaie — si ricondusse al suo diserto casolare
della Chiappa.




CAPITOLO X.

Ciò che Terremoto aveva fatto prima e ciò che fece dopo.


Il lettore ha pieno diritto di domandarci come e per quale miracolosa
coincidenza il figlio di Luca Rinolfo fosse penetrato nella rôcca di
Camia giusto a puntino per trarre a salvamento Bianca della Staffa, e
noi ci affretteremo ad appagarne la legittima curiosità.

Congedato egli pure per la supposta inesistenza di ogni pericolo, n’era
uscito sul pomeriggio del giorno istesso, e, ridottosi affrettatamente
al suo povero abituro, verso cui lo attraeva l’intenso desiderio di
riabbracciare i vecchi suoi genitori.

Lo scorgerne spalancata e penzolante su i cardini la porta, con segni
manifesti di subìta violenza, gli fu come funesto presagio. — S’arrestò
su la soglia, sporgendo inanzi la faccia a speculare nello interno e
tese ansioso l’orecchio: il buio pesto, il silenzio di tomba, che vi
dominavano, gli strinsero maggiormente il cuore.

Si avanzò allora, facendosi lume con le mani e andò ad aprire una delle
finestruole, che davano luce a que’ miseri ambienti, poi volse intorno
un trepido sguardo.

Un grido straziante, che ricordava, in qualche modo l’ululato del cane
quando è smarrito o patisce di freddo, gli uscì nel tempo istesso dal
petto.

Aveva scôrto la sua vecchia madre, col seno orrendamente squarciato da
una sconcia ferita, stesa resupina sul proprio letticciuolo.

Le corse presso; si curvò per sollevarla; era freddo, stecchito
cadavere.

Non c’era più da dubitare: sua madre era morta assassinata.

E suo padre?

Questo secondo e altrettanto penoso pensiero gli soccorse, con terrore,
alla mente; onde — fatta luce anche per le altre finestre — si dètte
a percorrere il casolare in ogni senso, a rovistarne, a frugarne ogni
angolo più rimoto, a chiamare il padre per nome con voce sempre più
commossa, che finì per ispegnersi in un singulto.

Quel colosso piangeva come un fanciullo.

Asciugatesi le lacrime col dorso della mano e fatto un violento sforzo
su di sè stesso per padroneggiare la propria emozione:

— Cosa sarà mai avvenuto? — pensò, tornando a contemplare il cadavere
di sua madre — cosa sarà mai avvenuto?... Dio buono e misericordioso,
come mai avete potuto permettere che la scellerata mano di un sicario
scendesse su questa cara ed innocua creatura, che null’altro ha mai
saputo al mondo fuorchè amare e pregare?... oh, c’è un mistero in
codesto che io debbo penetrare a ogni costo!... forse, per altri, la
sarebbe faccenda subito spiccia; ma io sono di cervello sì grosso, sì
ottuso che.... ci vorrà pazienza, tempo maggiore, ma a vederci chiaro
ci ho anch’io da riuscire!... intanto, è positivo che gli assassini
hanno forzata la porta e si sono introdotti qui durante la notte.... la
mamma era coricata, poveretta!... ed il babbo anche.... lo si conosce
dal suo letto disfatto....

E, in ciò dire, ne palpò le rozze lenzuola e si mise a girargli
lentamente d’attorno.

Alcuni oggetti, che vi si trovavano affastellati dappiedi, chiamarono
vivamente la sua attenzione.

Erano gli abiti di suo padre; la camicia di canape, la giubba di
bigello, le brache di fustagno verghettato, il berretto di pelo di
lepre, le calze di lana nera e gli zoccoli di crudo scheriolo.

— Dunque — così tornò a riflettere a quella vista — egli se n’è ito
di qua, senza tampoco darsi il tempo di cuoprirsi la persona delle sue
vesti!... oh, ma ci ha ad essere il modo di verificarlo: le pedate.

Ed, uscito fuor del limitare, si gittò carpone a studiare accuratamente
il circostante terreno.

Vi si scorgevano, infatti, moltissime orme di piedi incrociate,
confuse, sovrammesse le une alle altre, ma tutte recanti il segno de’
grossi chiodi ond’erano munite le scarpe di chi le aveva improntate:
non una sola che accusasse un piè scalzo.

E Luca Ridolfo non possedeva altra calzatura eccetto quella che si
trovava presso il suo letto.

— Non è, dunque, uscito su le sue gambe! — continuò a pensare
Terremoto, rientrando in casa — ce lo debbono aver trasportato a
braccia, per forza.... ma chi?... il diavolo?...

E si fece, in tutta fretta e con aria paurosa, il segno della croce.

— Eh, no, no — soggiunse poscia — se fosse stato il diavolo, invece
delle pedate di cristiani, vi sarebbero quelle de’ piedi di un’oca!...
e’ sono stati uomini, uomini, di carne, di pelle e di ossa, e maledetti
per giunta.... ma quali?... e perchè assassinarmi la mia povera
mamma?... e lui, il babbo, dove me lo avranno menato?

Un’altra circostanza, che in quel punto, gli accadde rimarcare, lo
impressionò, lo allarmò maggiormente. Al letto di suo padre mancava una
delle due lenzuola.

Che egli pure fosse rimasto vittima de’ notturni invasori della sua
casa e quel lenzuolo gli avesse servito di sudario?

A simil dubio un gelo ricercò tutte le fibre del gigante.

Dinanzi alla salma materna, aveva mandato un grido di suprema angoscia;
aveva pianto; ma sentivasi già più forte del proprio cordoglio. — Su le
anime robuste, le sciagure irreparabili hanno codesto di reattivo che
le affortificano vieppiù nel tempo istesso che le colpiscono, attalchè
— scorso il primo momento — comincia subito per esse quella lotta
contro il dolore da cui escono sempre vincitrici. — Ma, dinanzi alle
incertezze che avvolgevano il destino del suo genitore, egli si sentiva
scoraggiato, debole, inetto.

Quella sventura risguardava unicamente il suo cuore, cui — da lungo —
erasi abituato ad imporre: questo mistero, per contro, toccava la sua
fantasia che facilmente si scombuiava.

Gli parve, nullameno, che le orme osservate nei pressi del suo casolare
potessero giovargli e guidarlo alla scoperta del vero.

Dopo aver baciato in fronte il freddo cadavere della madre e copertone
il capo del lenzuolo; rinchiuse alla meglio l’uscio della propria
abitazione e si mise ad esaminar di nuovo ed a seguir le pedate che, da
questa, declinavano verso la valle.

L’indagine lo trasse sino ad un punto su l’alveo della Nure, che
appariva manifesto aver servito di luogo di sosta a molte persone,
tanto quelle orme vi si accavalciavano disordinate e profonde, e dal
quale si spiccavano, quindi, per due direzioni diametralmente opposte
fra loro, le une seguendo, le altre risalendo il corso delle aque.

Per alcuni istanti, Terremoto — che temeva smarrirne lo itinerario —
oscillò perplesso nella scelta; ma finì ad optare per le ultime, che —
a breve tratto — lo ricondussero sopra la riva ed, in prossimità della
parochia dell’Olmo, lo spinsero di nuovo verso la montagna.

Ma la notte cominciava a cadere; il cielo s’infoschiva rannuvolato; nè
però gli restava modo di continuare le ricerche.

Valicati gli aridi greppi di Costalta, si trovava già presso le ruine
del monastero di San Savino, attrattovi più da una arcana intuizione
che dagl’indizi di nessuna traccia; quando il pesante calpestìo ed il
sommesso bisbigliare di molta gente, lo consigliò ad arrestarsi ed a
sfuggire la curiosità de’ passanti col nascondersi appunto fra quelle
ruine.

I sopravegnenti erano uomini armati, la gente dei Nicelli, che da
Castel Canafurone — luogo de’ loro convegni — scendevano alla pianura.

Nel rasentare gli avanzi dello antico chiostro:

— Ehi, dico, Bislacco da Grondone — mormorò l’uno di essi ad uno de’
suoi compagni — il vecchio sarà ancora là dentro!....

— Probabile! — rispose questi — pur che i lupi lo abbiano rispettato!...

E tirarono di lungo.

Terremoto provò come una fitta al cuore.

Perchè?

Siamo tutti fatti così.

Quando ci predomina un pensiero esclusivo, qualunque cosa — per casuale
ed avventiccia ella sia — ci capiti sotto i sensi; pare a noi debba
intimamente connettersi a quanto ci preoccupa.

Laonde:

— Il vecchio?... i lupi?... — pensò il colosso fra sè — che abbiano
voluto parlare del mio povero padre?...

E stette ad un pelo di uscire dal suo nascondiglio, per correr dietro
a’ sconosciuti, che avevano scambiato quelle misteriose parole e
chiederne loro la spiegazione. Ma, in quello istante medesimo, un certo
mugolio, che partiva dallo interno di quelle istesse ruine, tra le
quali egli trovavasi celato, e che mal si distingueva se d’animale, o
se d’uomo, venne a ferirgli l’orecchio.

Era una specie di braìto roco e monotono, che aveva insieme del rantolo
e dello sbadiglio.

Terremoto col sudore ghiacciato su la fronte, tanto era il suo terrore,
si diresse a tastoni verso il punto donde procedeva la voce, che,
a misura egli le si accostava, andava sempre più assumendo il tuono
querimonioso del gemito.

Nel mutare un ultimo passo per farlese anche più vicino, urtò del piede
in alcunchè di cedevole e molle, che stette per farlo traboccare.

Chinandosi, allungò allora una mano e — dopo aver brancicato un momento
per l’aria — riuscì a posarla su di un corpo steso sul lastrico, che
non tardò guari a riconoscere per una creatura umana ravvolta entro un
lenzuolo.

Quel lenzuolo fu per lui tutta una rivelazione.

L’uomo in esso racchiuso doveva essere necessariamente suo padre.

Si piegò, quindi, su le ginocchia, stringendoselo fra le braccia e
susurrandogli amoroso:

— Babbo, babbo.... oh, siete voi, ne vo’ certo!... mi ascoltate, eh!...
è il vostro figliuolo Arcangelo che vi sta presso.... fatevi core!...
ma cosa v’è mai accaduto?... oh, parlatemi!... ditemi che siete voi per
davvero.... rassicuratemi con una vostra sola parola!...

Ma l’uomo non gli rispondeva verbo: solo reiterava, tratto tratto, il
suo primo mugolio.

Palpandolo meglio, Terremoto si avvide come, sotto il lenzuolo, fosse
completamente ignudo ed avesse gli stinchi ed i polsi legati con due
pezzi di fune.

Mercè un largo coltello da caccia che portava sempre alla cintola, il
gigante si affrettò a reciderli, nella speranza che — a pena libere
— le braccia di quell’uomo, ch’egli reputava suo padre, dovessero
stendersi verso di lui per abbracciarlo: invece gli ricaddero inerti
lungo le cosce. Le toccò: erano fredde.

Un nuovo terrore lo colse.

Pure quell’uomo non poteva esser morto. Un alitare frequente ed
affannoso ne agitava il petto; la voce — comechè fioca e languente —
n’era tuttavia bastevolmente sonora; ma perchè non parlava?... perchè
non rispondeva alle sue dimande?

Impaziente d’uscire da una sì penosa incertezza lo sollevò di peso d’in
sul pavimento e, raddrizzandosi, se lo tolse in braccio e mosse cauto
verso gli sfasciati avanzi di un arco a sestacuto, che serviva d’unico
accesso e d’unico sfogo alle ruine del monastero.

Pure al di fuori regnavano fitte le tenebre, perocchè l’ora fosse
già molto inoltrata; ma quel biancastro bagliore che schiara sempre
le aperte campagne, anco nelle notti più buie, doveva bastargli per
riconoscere le sembianze dell’uomo che si recava in collo, massime ove
questi fosse veramente suo padre.

E lo era.

Allora soltanto, nell’affisarlo in volto, Terremoto potè rendersi
ragione del come nè gli avesse risposto, nè mai potuto articolare
parola.

Il misero aveva lo sbadacchio.

Era un grosso frammento di legno, che altri gli aveva confitto tra le
mandibole a forza sgangherate.

Terremoto gliel tolse subito di bocca; ma non per questo il vecchio
potè far altro che ringraziarlo di un tenero sguardo. — Levò una mano,
mosse le labra per dir qualche cosa; ma le forze lo abbandonarono di un
tratto e si lasciò cadere su la spalla del figlio privo di sensi.

Così, come portasse un bambino, Terremoto, col suo vecchio genitore tra
le braccia, ricalcò lento lento la via già percorsa e — schivando la
parochia dell’Olmo con l’obliquare a sinistra — lo riportò su quello
istesso suo letticciuolo d’onde le avevano strappato i birri del Monte
Ochino e sul quale un sorso di vin generoso ministratogli dal figlio
valse a farlo rientrare in sè stesso.

Rinunzieremo a dipingerne il dolore quando si vide al fianco la spoglia
inanimata della sua donna e ne riseppe la morte.

Non ebbe nè lacrime, nè sospiri, nè parole: rimase muto a contemplarla,
poi volse gli occhi in alto e pregò.

Il suo Arcangelo intanto, nell’apprestargli altro vino e un po’ di
cibo, lo andava incalzando perchè lo istruisse di quanto gli era
accaduto.

Domata la piena del primo affanno e ripreso alquanto delle sue
forze, il padre gli espose, infatti, per filo e per segno tutte le
vicende dell’abbominevole violenza, onde i Nicelli lo avevano reso
vittime, aggiugnendo come lo scellerato Monte Ochino — giunti a Cogno
— lo avesse fatto legare da’ suoi e, con un badacchio alla bocca,
abbandonare tra le ruine del convento di San Savino, dov’egli lo aveva
rinvenuto e dove trovavasi da tre giorni senza nè moto nè cibo.

Uditi que’ particolari, Terremoto voleva accingersi a dar sepoltura al
cadavere della madre; ma Luca vi si oppose; disse quella pia bisogna
essere di suo esclusivo diritto ed a lui spettarne, invece, altra non
manco doverosa ed ancora più urgente: quella di appurare cosa i Nicelli
avessero macchinato d’iniquo di prevenire i signori di Camia del
sovrastante pericolo.

Padre e figlio mettevano in cima d’ogni loro dovere il rendere servizio
a’ loro padroni.

Terremoto non gli fece, per conseguenza, la minima obiezione, ed —
abbracciatolo rispettoso e baciata anco una volta in fronte la salma
materna — si ripose immediatamente in cammino. — Solo, in luogo di
portarsi, difilato al castello, volle riconoscere prima se nulla
avessero tentato i Nicelli e — seguendo le indicazioni fornitegli dal
padre — si recò anzitutto in sul punto della Nure dove cadeva lo sbocco
della via sotterranea.

Trovatolo aperto, penetrò di là nello interno della rôcca, dove lo
vedemmo arrivare in buon punto per trarre a salvamento Bianca della
Staffa dalle mani de’ nicelleschi.

Quando fu secolei di ritorno alla propria casuccia, trovò Luca Rinolfo
che, nel frattempo, aveva compiuto il pietoso ufficio d’inumare i resti
della sua vecchia consorte.

Di fianco della casa, un piccolo rialto di terra allora allora remossa
ne segnava la tomba.

A pena la scôrse, Terremoto strappò due rami da un giovine pioppo ed,
incastratili l’un nell’altro, ve li collocò sopra a maniera di croce.

Indi pregò.

La _Bella Perugina_ — come Bianca veniva chiamata da’ valligiani
— trovavasi in preda d’una specie di orgasmo febrile, che non le
consentiva un attimo di requie. — Nè tanto l’agitava il dolore pe’
suoi congiunti e familiari miseramente periti in difesa della rôcca,
nè tanto il pericolo onde, a miracolo, era stata sottratta, quanto
la sorte ignorata dell’avolo, quanto il ricordo del giovine generoso
ch’erasi visto scannare sotto gli occhi, mentre le faceva baluardo del
proprio petto.

A’ due rispettosi vassalli, che le si affaccendavano attorno con ogni
maniera di sollecitudini e profferte, ella non faceva che ripetere:

— E il nonno?.... e il nonno?.... e quel povero giovine?...

— Dio buono — le chiese un volta Luca Rinolfo — ma che gli è dunque
intervenuto a Sua Eccellenza?

— È appunto il non saperlo che mi rattrista così — rispose la fanciulla
— que’ furibondi se lo hanno levato in collo e portato via secoloro e
sa il cielo dove l’avranno trascinato, cosa gli avranno fatto.... ecco
ciò che mi accuora!... e quel povero giovine?...

— Chi è, madonna — le dimandò Terremoto — cotesto giovine, per cui sì
vi affliggete?

— È un soldato, che incontrai già a Parma, nell’aprile dell’anno
scorso, quando ci fummo ad incontrare il Santo Padre.... e non
ci fossimo mai stati, che anche allora ci fu sangue e da quella
malaugurata circostanza si rincrudirono le inimicizie.... e anche
allora egli si levò in mia difesa ed ha fatto altrettanto pure testè,
quantunque mi sia parso militasse contro di noi.... e l’ho visto io
stessa cadere.... e adesso non so se sia nè vivo nè morto.

— E com’è, madonna? — fece risolutamente il colosso — come si chiama?

— Si chiama Neruccio Nerucci.... ci disse il suo nome quando lo
incontrai la prima volta e non m’è più mai uscito di mente... è un
giovine che non conterà ancora trent’anni... bello, oh, bello come un
angiolo del Signore!.... ha un’aria dolce, nobile, attraente.... alto,
bruno di chiome, con due leggeri mustacchi...

— E in qual modo è vestito?

— Allo incirca come un lanzo imperiale.

— E dov’è caduto?

— Poco scosto dal punto in cui mi avete trovato.... su’ gradini
dell’ultima scala.

— E Sua Eccellenza?

— Il nonno?.... oh, di lui, lo ripeto, so nulla.... è in balìa di que’
mostri!

— Ebbene, madonna: io vado e, se Dio non m’abbandona, o di tutti due, o
dell’uno, o dell’altro, saprò darvi contezza.

— Oh, grazie, buon Terremoto!

E la donzella gli stese affettuosamente la mano.

Il gigante piegò un ginocchio a terra e glie la baciò reverente.




CAPITOLO XI.

Altre gesta di Terremoto.


Affidata e raccomandata la giovine signora alle cure del vecchio
castaldo, Terremoto passò in una contigua stanzetta, ch’era sua
personale, dove teneva appesa ad un gancio tutta una panoplia di lucide
armi che avevano già corruscato a’ soli di Marignano e di Pavia.

Erano un pesante morione spennato ed una corazza con bracciali, guanti
e cosciali, che — insieme ad un lungo spadone, una daga ed un pugnale —
aveva preso, come sua parte di bottino, ad un cavaliere francese caduto
morto d’arcione nell’ultima delle menzionate battaglie e che uscivano
dalla rinomata armeria milanese della Lupa.

Se ne coperse; calzò due ampli stivaloni di buffalo; s’appese alla
cintola il corno della polvere e la borsa de’ piombi; si tolse in
ispalla un grosso e rugginoso archibugio a rocchetto e, con tutto
quell’arsenale indosso, uscì di casa per cimentarsi all’arduo incarico
ch’erasi assunto.

Spuntava l’alba.

Come i Nicelli — accingendosi alla proditoria impresa contro la rôcca
di Camia — avevano in pari tempo spedito accozzaglie di berrovieri e
soldati a minacciare le altre diverse terre de’ loro nemici e che la
novella delle loro correrie s’era diffusa, con la misteriosa rapidità
dello elettrico, per tutti i dintorni; non uno de’ sbigottiti villani
osava tampoco far capolino da’ proprî abituri, onde le circostanti
campagne vedevansi completamente deserte.

Prenunziato da una fresca brezzolina tagliente, il sole s’inoltrava
come trionfatore inerpicandosi a’ più alti pinacoli e cacciandosi
inanzi i suoi due eterni nemici: le nubi giù dall’opposto orizonte; le
tenebre, giù ne’ burroni della vallea.

Grado grado, e tocchi appena de’ rossastri suoi raggi, le vette, le
castella, i casolari, le selve spiccavano improvisi quasi emergessero
per incanto dall’ombre della notte, evocati dagli scongiurî di un
mago, e le alternative mobili e fuggenti di oscurità e di splendori che
correvano le campagne davano imagine di flutti incalzati dalla marea.

Era la marea montante della luce.

E l’antica natura — inconscia e noncurante delle umane vicissitudini
— accoglieva con un fremito di gioia quel primo bacio del suo antico
signore.

Le piante parevano storpidirsi dal sonno e, tra la ridda delle loro
frasche, inviargli un saluto: qui il passeraio, là le cicale, di mezzo
il folto de’ cedui, un inno interminabili di stridori e pispigli,

    E l’augello dal triplice strido
    Che rammenta l’apostolo infido

faceva eco con le sue chicchiriate.

Era bello e strano spettacolo, per lo mezzo di quelle ondulate pendici,
sì gaie di rigogliosa vegetazione e così squallide per l’assoluta
assenza d’ogni essere umano; lo scorgere quell’uno solo che le
traversava a passo lento e solenne.

La maestà della statura, le titaniche forme, le armi scintillanti e
già di mezzo secolo più antiche che non ne corresse la usanza; gli
prestavano alcunchè di fantastico e pauroso.

Lo avresti detto la divinizzata statua di Arminio scesa dal granitico
suo piedistallo dell’Ereburgo, per passeggiare le fiorenti rive della
Prader.

Tutt’altri che il figlio di Luca Rinolfo — nell’appressarsi, com’ei
faceva, al castello di Camia — avrebbe dovuto temere di correre
incontro a inevitabil morte. — Ma Terremoto no, e non perchè facesse a
fidanza con la propria forza, ma per altro anche più strano argomento.

Nel militare in Lombardia, toccando quel di Gallarate, s’era imbattuto,
insieme al suo capitano, nel famoso Gerolamo Cardano, il quale —
richiesto da amendue di un oroscopo — a lui personalmente, per certo
segno nero che gli macchiava l’unghia del pollice sinistro, aveva
predetto dover cessare di vivere nel cuore di un verno durante il quale
cadesse strabocchevole copia di neve.

Superstizioso come i più del suo tempo, Terremoto teneva i pronostici
del visionario pavese in conto di altrettanti evangeli e reputava per
fermo non poter morire se non quando scoccasse la profetata sua ora.
Ferveva la piena state; dunque nulla aveva a temere.

Malgrado ciò — prima di avventurarsi alla cieca nella temeraria impresa
di penetrare nella rôcca — volle scandagliare le adiacenze di questa e
tentare di riconoscere da’ segni esterni quali ne fossero le interne
condizioni. — Girandole intorno intorno, due cose, infatti, rimarcò:
l’una, che non vi si trovava anima viva a presidio de’ merli, sicchè
tornava possibile il rasentarne le mura, senza svegliare allarmi;
l’altra, che tutti i ponti n’erano abbassati e schiusa la porta
maggiore.

Su di questa, tre soli uomini si tenevano a guardia, e l’uno di essi,
sdraiato a terra, dormiva.

Terremoto — toccato un punto della via d’approccio, più oltre il quale
non avrebbe potuto spingersi senza mostrarsi — s’arrestò su’ due piedi
e sovrastette alcuni momenti, digrumando il partito, cui meglio gli
convenisse abbracciare, per introdursi, senza troppi ostacoli, nella
rôcca.

Paura di perderci la vita non lo premeva — come il dicemmo —
minimamente; ma sibbene quella di essere sopraffatto, respinto ed
impedito così nello scopo, cui intendeva.

Per questo si crogiuolava il cervello.

Di primo acchito — obbedendo a’ congeniti istinti della sua forza
brutale — gli avrebbe sorriso il proposito di gittarsi inanzi a
chius’occhi e di passar oltre, rovesciando violentemente quanti
ostacoli gli si parassero intorno: ed a simile partito lo eccitava
non meno il suo personale rancore, il suo odio. — Ma la prudenza nel
ratteneva. — Que’ tre non avevano che a ributtarlo un istante e a
profittare d’un suo transitorio sbalordimento per rialzare il ponte
levatoio, acciocchè l’accesso al castello gli fosse interdetto e forse
per sempre.

Come succede a’ cervelli grossi, incapaci di nessuna spontanea
iniziativa, che non giungono mai a concepire un progetto ove non sia
suggerito loro, quasi per caso, da una consecuzione d’idee; quella del
pericolo cui altrimenti sarebbesi esposto, gli fece nascere l’altra
di tentare egli stesso a danno de’ suoi imminenti avversari quanto
supponeva e’ dovessero tentare contro di lui.

Tutto stava nel poterli trar fuori della soglia, su cui si tenevano,
ed oltre la impalcatura del ponte. A riuscirvi, conveniva ricorrere
all’astuzia, ginnastica delle facoltà mentali spesso assai più efficace
e possente di quella del corpo.

Aspettarsi artefiziose e ben congegnate gherminelle dal figlio di Luca
Rinolfo, ed altrettanto il domandar melagrani ad un salice: e’ non
poteva imaginarne e compirne che di grossolane e contadinesche.

Avventurosamente per lui che nemmanco i merli cui stava per tendere il
paretaio, erano di perspicacia tanto della sua più sottile e che poteva
applicar loro il converso dello adagio francese _à trompeur, trompeur
et demi_.

Terremoto, pertanto, si accomodò pian piano l’archibugio ad armacollo;
si calò bene in su gli occhi la visiera dell’elmo; quindi — datosi
improvisamente lo scatto — balzò su le tavole del ponte, stendendo
inanzi le braccia e gridando con accento tra il querulo e lo
sgomentito:

— Gesummaria, che orrore!.... guardate... oh, ma guardate laggiù,
subito svoltata la via!....

E, giunto presso le sentinelle, voltò loro confidenzialmente la schiena
segnando col dito steso il punto d’ond’era venuto e continuando a
gridare:

— Oh, ma guardate.... guardate!....

Alla subitanea sua apparizione, l’uno de’ tre nicelleschi aveva posto
in resta la sua partigiana e l’altro portato il pugno in su l’elsa;
mentre il terzo — ridesto di trabalzo — stropicciavasi gli occhi e
si ridrizzava barellante su le gambe aggranchite. — Ma tutti tre — al
veder lui in sembianza così amichevole e fidente, con l’armi tutt’altro
che preparate ad offesa e, nella voce e nel gesto, più di preghiera che
di minaccia — si lasciarono prendere all’amo e — vinti dalla curiosità,
che suscitavano le sue grida e le sue indicazioni — smisero l’atteggio
minatorio e mutarono un passo inanzi, domandandogli confusamente.

— Che diamine c’è?.... cos’è, dunque, accaduto?...

È fatto comprovato da frequenti sperienze che, in un duello tra uno
spadaccino ed uno affatto ignaro di scherma, chi le tocca è quasi
sempre il primo. — Forse per la istessa ragione, il tardo ingegno, la
nissuna sagacia del buon Terremoto assai più gli giovarono che non gli
nocquero a trarre i suoi nemici in inganno.

Inetto ad improvisare, lì per lì, qualche acconcia fiaba da rispondere
alle loro domande — la quale poi, o perchè troppo marchiana, o perchè
destituita di ogni fondamento, avrebbe potuto farli insospettire e
metterli in su l’aviso — egli si limitò a gesticolare, ripetendo:

— Ma guardate.... guardate che orrore!....

Tra una filatessa di _oh_, di _ih_ e di _ah_, da non rifinirne.

L’arte casuale attinse lo scopo.

I tre — l’un dietro l’altro — valicarono il ponte e si slanciarono di
corsa su per la strada di approccio.

Terremoto, nel contempo — giovandosi della perfetta sua cognizione del
luogo — corse sollecito nella vicina stanzuccia del castaldo; abbrancò
i piuoli del verricello e con cinque o sei rapidi giri, tirò a sè le
catene del ponte e lo sollevò.

I nicelleschi s’accorsero subito del tiro briccone che loro si
preparava e retrocessero a perdilena; ma non giunsero a toccare l’orlo
del fossato prima che il ponte fosse già alto e la serracinesca cadesse
cigolando a sbarrare la porta del castello.

Terremoto rimaneva padrone della piazza.

Solo gli occorreva riconoscere quanti altri uomini, oltre a que’ tre
posti sì felicemente fuori d’azione, vi si potessero trovare racchiusi.

Dalla camera del castaldo, scese, quindi, nel cortile e, mascherandosi
dietro un pilastro, tese ansiosamente l’orecchio.

Tutto era silenzio.

Preso da ciò maggiore animo, si fece inanzi in punta di piedi e —
sguisciando tra’ pilastri de’ porticati fiancheggianti il cortile
— si portò sino all’opposto suo lato, dove si aprivano le scale e
dove — secondo le indicazioni della sua giovine signora — sperava
rinvenire, morto o ferito, quel tale soldato, cui ella tanto vivamente
s’interessava.

Taluni frammenti d’arme sparsi più in qua più in là e varie macchie di
un rosso nerastro, che chiazzavano il lastrico, erano testimone della
lotta accanita ivi combattuta, ma nessun’altro indizio de’ combattenti,
eccetto tre cadaveri che ingombravano i gradini ed il ripiano al sommo
delle scalinate.

Quello situato più in basso e che necessariamente si guadagnò pel
primo l’attenzione di Terremoto, non presentava omai più che un lurido
ammasso di carname arsiccio ed abbrustolito.

Era il cadavere del misero Gilberto Camia; ma in così sconcia maniera
reso diforme e ributtante, che — per quando il suo fido vassallo
si arrestasse lungamente a considerarlo — non era possibile il
raffigurasse; e questo gl’insinuò un primo dubio nel cuore.

Nel secondo ravvisò Cristoforo Chinello e, nel terzo, Alfisio
Malvicino, il genero di Giovanni il Grosso.

Salì a’ piani superiori; rovistò gli appartamenti, le sale, le
terrazze; non lasciò luogo inesplorato e, quinci e quindi, insieme alle
traccie sanguinose, rinvenne cinque nuovi cadaveri: quelli cioè, di
Battistino e Franceschino Zazzera, di Domenico de’ Maggi, detto _Monte
Osero_, di suo figlio Marino e d’un birro soprannominato _Tiraluscio_.
Ma del giovine soldato, che ricercava, non il più leggero vestigio.

Laonde si ribadì viemmaggiormente nel suo dubio che a costui dovesse
appartenere lo sformato cadavere giacente a’ pie’ delle scale, tanto
più che vi concorreva anche il luogo su cui Bianca diceva averlo visto
cadere.

Simile persuasione stava per deciderlo ad abbandonare sollecitamente il
castello, dove le sue indagini avevano fallito lo scopo, per condursi
altrove a raccogliere notizie del suo disgraziato signore.

Era già sceso di nuovo nel cortile e lo attraversava frettoloso,
allorchè il suono di una voce, che usciva da una stambergaccia a
terreno, dov’era il dormitorio del servidorame, lo rattenne di botto e
richiamò tutta la sua attenzione.

Si accostò a piccoli passi a quel dormitorio e — postosi in ginocchio —
applicò l’occhio ad una finestrella ferrata che gli dava luce e vi mise
dentro gli sguardi.

Sei uomini, e tutti di parte nicellesca, occupavano il vasto stanzone:
quattro corcati su di altrettanti grossolani pagliaricci, e due, che
parevano servir loro da custodi — o meglio — da infermieri, essendo
chiaro come quelli fossero o feriti o malati.

Terremoto non istette guari a dar loro un nome a ciascuno. — De’
giacenti, nell’uno riconobbe il capitano Lorenzo Villa, nell’altro
il conte Melchiorre da Niceto, que’ medesimi ch’egli aveva sì
spietatamente malconci, buttandoli a mo’ di proiettili, contro la
linea irta di spade e di picche de’ loro istessi seguaci: nel terzo un
venturiero lombardo, che sapeva a’ soldi del marchese di Cattaragna,
e nei due, che fungevano da serventi, due suoi convalligiani servi a’
Nicelli. — Solo il sesto gli rimaneva ignoto, nè poteva scernerne le
fattezze del volto, perchè sdraiato in modo che gli voltava le terga.

Il suo vestito era, tuttavia, quello di un lanzo.

Tale osservazione lo impressionò.

Che fosse appunto colui, per raccapezzare il quale erasi sobbarcato
alla perigliosa impresa d’introdursi nella rôcca di Camia?

Non c’era nulla d’inverosimile. — Bianca gli aveva espressa la sua
convinzione ch’egli pure militasse contra de’ suoi: dunque, a sua
volta, egli apparteneva a’ nicelleschi; ovvio però che costoro lo
avessero raccolto quando era caduto e se ne pigliassero pensiero.

Nè Terremoto mal si apponeva.

I nicelleschi, che lo avevano incalzato lungo la via sotterranea
— riconosciuta la impossibilità di raggiungerlo — s’erano decisi a
battere in ritirata e — nel farlo — avevano man mano raccattato di
terra i loro qualche feriti. — Tra questi — oltre a’ due ricordati
— trovavasi appunto il nostro Neruccio, di cui — se nissuno doveva
interessarsi — ebbero pietà i suoi commilitoni di Piemonte.

Quantunque la spada del Monte Ochino — penetrandogli tra le spalle
sotto la scapola destra e scendendo in linea verticale — gli fosse
andata a riuscire poco più giù della mammella; egli respirava ancora.

L’uno sotto le ascelle, l’altro sotto le anche, così se lo pigliarono
i compagni, e, insieme a’ tre ricordati più sopra lo trasportarono
nel dormitorio dei servi, dove, pressati com’erano dal Monte Ochino,
impaziente di attendere ad altre bisogna, li affidarono tutti quattro
al governo di due de’ loro, non feriti, ma per urti e cadute, rimasi
alquanto pesti e contusi.

Vedremo nel seguito come e perchè abbandonassero poi tutti la rôcca,
non lasciandovi che altri tre uomini a guardia ed anche de’ meglio noti
per gli attributi del coniglio e del lepre.

Ritorniamo intanto a Terremoto.

Le vesti che indossava lo sconosciuto giacente gli avevano posto in
capo l’idea dovesse essere non altri che l’uomo ricercato dalla sua
padroncina.

Fosse stato più arguto, e molti diversi avvedimenti gli sarebbero
forse soccorsi per accertarsene; ma egli non era nemmanco da tanto da
trattenersi ad escogitarli. — S’appigliò, quindi, al più elementare
e più spiccio: quello di richiederne coloro istessi che vedeva far da
custodi.

Si drizzò in piedi, s’appoggiò delle larghe palme al davanzale della
finestruola, e, col fare più naturale di questo mondo:

— Ehi, voialtri!... — gridò loro, con la sua rauca voce taurina.

I due guardiani si volsero trasalendo, e:

— Chi è là? — sclamarono, nello affisare estatici, ed anche un po’
atterriti, il colosso che otturava col suo immenso torace quasi tutto
il vano della piccola finestra.

In pari tempo, taluni de’ feriti mutarono fianco su loro giacigli e
rivolsero eglino pure la faccia verso di lui.

Del novero fu il nostro Neruccio.

Al primo scorgerlo, Terremoto constatò come rispondesse esattamente
a’ connotati, che Bianca gli aveva fornito, e prese maggiore animo;
tanto più che, nel contempo, si avvide del come i due guardiani lo
considerassero ad occhi sgranati e in atto di sempre crescente paura.

I due guardiani credevano di riconoscerlo.

— Sono io! — rispos’egli al loro appello — sono un uomo che non ha
nissuno intendimento di arrecarvi male; patto siate secolui compiacenti
e rispondiate esatto ad una sua domanda.

— Quale? — balbettò uno dei due.

— Che mi diciate chi sia e come si nomini colui de’ vostri compagni,
che giace là, alla vostra mancina.... quello che adesso mi guarda fiso
e che ha la corazza di bufalo tutta imbrodolata di sangue.

— Io?... — domandò con flebile voce lo stesso Neruccio.

— Appunto voi, messere, se non vi dispiace — fece placidamente il
colosso.

— E perchè cotesta dimanda? — tornò a chiedere il ferito, sollevandosi
a gran fatica su l’uno dei gomiti.

— Perchè? — gli rispose Terremoto — oh, il perchè lo saprete, ma lo
saprete a suo luogo, messere!... per adesso tanto, comanda chi può e
obbedisce chi deve: questo vi basti!... e ditemi solo: siete voi, o non
siete, un tale ser Neruccio Nerucci?

Il ferito non ebbe mestieri di rispondere.

Il vivo incarnato di cui si soffusero improvisamente le sue pallide
guance, ne constatavano a bastanza la identità, perchè il gigante
— malgrado la sua corta intelligenza — avesse duopo di prove più
evidenti.

— Lo siete, dunque — egli soggiunse.

— Ebbene? — gli dimandò timidamente l’altro dei due scherani.

— Oh, un nonnulla, figliuoli.... sono venuto a pigliarlo e me lo porto
con me!

E — senz’altro attendere — Terremoto girò alla sua sinistra, dov’era
l’ingresso del dormitorio, e vi si cacciò dentro resolutamente.

I due non fecero altri moti, che per slontanarsi da lui; non mutarono
altri passi, che per indietreggiare sin contro la parete opposta alla
porta d’entrata.

Il terrore li rendeva imbecilli.

— È lui, è lui! — si andavano susurrando l’un l’altro all’orecchio — è
Terremoto.... che Gesù buono e la Madonna Santissima ci scampi!

E osavano a pena guardarlo.

Il figlio di Luca Ridolfo, addatosi — siccome si era — della
battisoffia che la sua presenza aveva incusso ne’ suoi nemici, stimò
prudente ribadirgliela viemmeglio in corpo col distruggere ogni avanzo
di dubio che loro potesse restare sul conto di lui. Nello entrare, si
alzò, per conseguenza, la visiera mettendo in luce le sue sgraziate
sembianze, cui le cicatrici del naso e della bocca davano impronta di
ributtante ferocia.

Quindi si avvicinò al pagliariccio, sul quale il giovine soldato erasi
lascialo ricadere supino, e, situando un ginocchio a terra:

— Messere — gli disse, con voce sovrattenuta così che gli altri nol
potessero udire — io vengo a voi, per ordine e conto di madonna Bianca
della Staffa, mia ottima signora e padrona.

Ad un tal nome, le guance di Neruccio tornarono ad imporporarsi e:

— Salva.... — mormorò egli sommessamente, rizzandosi di nuovo sul
fianco — ella è salva?...

— La è stata, messere; la è stata, mercè il Dio buono, che ha voluto
assistere e secondare gli sforzi di questo indegno suo servitore... e
com’ella lo è, vuole che voi pure, per mio mezzo, lo siate!

— Che dite mai?... ella vuole?...

— Vi trovate voi tante forze che bastino a sostenere gli strapazzi di
un trasporto da qui a più di un miglio di distanza?

— Oh, sì, sì... l’un di costoro m’ha assai valentemente medicato le mie
ferite e.... pur che qualcuno mi sorregga....

— Ma io stesso, messere, vi porterò su le mie braccia.

— Voi?

— Oh, non temiate che vi lasci cascare.

— Non è codesto.... ma una sì rude fatica per voi?

— Croce del Gesù benedetta!... ma non sapete ch’ei mi parerà d’avermi
in collo un marmocchino da latte?

— Quando così vogliate.

— Siete pronto?

— Pronto ed ansioso!

Terremoto si rimise su le sue due gambe, poi — come appunto una mamma
avrebbe potuto farlo col proprio poppante — sollevò il giovine soldato
dal suo pagliariccio e delicatamente se lo recò su le spalle.

In quella, uno scoppio fragoroso rintronò pe’ chiostri del cortile e
gli tenne dietro un confuso vociare.

I due birri si rincantucciarono anche più allibiti di spavento; il
capitano Villa strabuzzò gli occhi e il da Niceto uscì in una truce
bestemmia, mentre l’altro ferito mormorava una preghiera.

Costoro pure avevano raffigurato Terremoto, e s’imaginavano fosse il
vanguardo de’ Camia, che ritornassero alla riscossa.

Il gigante, tuttavia — col suo umano fardello tra le braccia — erasi
affrettato ad uscire, per raggiungere la porta maggiore.

Suo intendimento era quello di riabbassare il levatoio e di trarsi
dalla rôcca.

Ma, a pena nel cortile, s’avvide d’aver fatto male i suoi calcoli.

La porta — giusto in quel momento — cedendo al formidabile impeto
di una bombarda, volava in schegge e — per la breccia — una mano di
nicelleschi, capitanati dal Monte Ochino in persona e dal marchese di
Cattaragna, erompevano furibondi nel cortile, brandendo ferocemente le
spade e mettendo urla bestiali.




CAPITOLO XII.

Il pozzo dalle cento taglie.


Diciamo un tratto come fossero andate le cose.

Vendicare la morte del cugino Stefano — se il principale — non
era stato l’unico movente del conte di Monte Ochino, il quale —
impadronendosi della rôcca di Camia — mirava eziandio ad altro scopo e
— come si suol dire — a pigliare due colombi ad una fava.

In quell’anno medesimo, tutta la valle erasi vivamente commossa
per un’atroce scena di sangue, ond’era stata teatro l’abazia di San
Savino, discosta un tiro di freccia da quelle ruine, entro cui vedemmo
Terremoto rinvenire legato ed abbavagliato il proprio genitore.

Reggeva quell’abazia un conte Giambattista Marazzani, uomo bisbetico
ed originale che — al dire de’ valligiani — occupavasi più assai di
scienze occulte e d’alchimia che non del proprio breviario, e nelle
quali occupazioni aveva spesso compagno e confidente il conte Giovanni
il Grosso de’ Camia.

Col Marazzani conviveva una giovine donna — non bellissima — ma
sovrammodo piacevole ed attraente, ch’egli faceva passare come propria
sorella, ma che le dicerie de’ villici accusavano di ben altro.

Malgrado ciò, uno de’ meglio illustri e valenti cavalieri piacentini,
il conte Giovanni Anguissola, erasi così perduto di amore per lei, da
porre in dimenticanza il livore antico che — per ragioni di parte —
divideva la sua famiglia da’ Marazzani, e destreggiarsi in ogni più
acconcio modo per rendersi propizio l’abate ed insinuarsi in sua casa.

I loro buoni rapporti non ebbero tuttavia che la durata dell’ignoranza
dell’ultimo circa i veri motivi che gli traevano l’altro sì di
frequente tra’ piedi.

Come li indovinò, provide subito a’ casi propri, allontanando
segretamente da sè la sorella ed affidandola alla custodia di donna
Costanza di Santafiora, contessa di Castell’Arquato, senza che anima
viva ne trapelasse e senza mutare però il suo contegno verso del nuovo
amico.

Ma altrettanto non accadde dell’Anguissola.

Com’era consueto fare un giorno almeno ogni decade, costui si rese una
volta ancora all’abazia, nello esclusivo intento di rivedere l’adorata
sua Olimpia, — che tale era il nome della sorella.... o quel che altro
fosse del Marazzani. — L’abate lo accolse con l’ordinaria benevolenza,
gli fece festa, lo convitò anche, ma di Olimpia non gli tenne parola.

Olimpia non c’era.

L’altro attese paziente l’ora del desinare, persuaso che, a questo,
non dovesse mancare d’intervenire. — E l’ora ne giunse, e la campana
refettoriale l’annunziò con la sua chiama, e i vari convitati, tra’
quali Giovanni Camia, si assisero a mensa. — Ma non un segno di
Olimpia; nemmanco la posata al suo solito posto.

Decisamente Olimpia non c’era.

Messo in sospetto e desioso in pari tempo di uscire d’incertezza,
l’Anguissola si volse all’abate, che gli siedeva presso, e francamente
glie ne chiese. — L’abate, sbirciandolo di sottecchi con uno sguardo
maligno, tutto suo peculiare, crollò un momento la testa in aria
beffarda, poi gli rispose Olimpia trovarsi così lontana, che neppure
su l’ippogrifo del mago Merlino avrebbe potuto raggiungerla, e si
togliesse bene dal capo la matta speranza di mai più rivederla.

Tale risposta risvegliò tutto l’antico e mal sopito odio gentilizio nel
cuore dell’Anguissola e gli fece montare il sangue al cervello. — Non
disse verbo, non mise fiato; ma — sgranando tanto d’occhi spiritati e
digrignando i denti — si scagliò su l’abate e — trattosi di cintura il
pugnale — glie lo immerse replicatamente nel petto.

Il Marazzani dètte uno strillo e cadde rovescio.

I convitati accorsero a sollevarlo.

L’Anguissola — quasi uscito di senno — gittò il ferro sanguinolento sul
desco, corse alle scuderie, inforcò il suo cavallo e si evase.

Poche ore dopo l’abate spirò.

Ma corse voce che — prima di spirare — egli consegnasse in segreto
e gelosamente raccomandasse al Camia un cofanetto di sandalo,
borchiellato d’argento, entro il quale indubiamente custodito un
tesoro. — Chi diceva diamanti e zaffiri e smeraldi a dovizie già
appartenenti a quello infelice Zizimo fratello di Bajazet II, che
vuolsi papa Alessandro VI facesse avvelenare; chi preziosi amuleti e
talismani, riportati di Terra Santa da un Ugo Marazzano, che aveva
seguito Carlo d’Angiò all’ultima crociata; chi, finalmente, lo
specifico infallibile per fare la _grande opera_.

Già il modo di fabbricare _oro ispanico_ era divenuto il segreto di
Pulcinella. — Conveniva riporre due galli vecchi tra i dodici e i
quindici anni entro una camera sotterranea tutta di pietra, con due
finestruole, per cui appena si vedesse traverso, ed ingrassarli di
guisa che prendessero caldo ed accoppiatisi insieme facessero ova.
A covare queste ova — tolti via i galli — mettere rospi, nutrendoli
di mollica di pane, sicchè ne nascessero pulcini maschi, come quei
delle chiocce, ai quali, in capo a sei o sette giorni, spuntavano
code di serpente. — Questi erano basilischi. — Si pigliavano allora,
s’intromettevano in certe bombole di rame a bucherelli, che si
sotterravano, lasciando che i basilischi si nodrissero di terra per sei
mesi consecutivi: quindi si traevano e, circondate le bombole di fuoco,
si faceva che vi abbrustolissero dentro. Macinati poi, vi si misturava
aceto, sangue umano e rame rosso, — e l’_oro ispanico_ era fatto.

Ma molti vi si erano cimentati, senza a nulla approdare.

Più de’ gioielli, più delle reliquie di Terra Santa, sarebbe quindi
stato prezioso il contenuto di quel cofanetto, se realmente avesse
potuto insegnare la vera ricetta per fabricare quell’oro.

Qualunque fosse, d’altronde, tutti convenivano nello attribuirgli
uno immenso valore, epperò tra le mire del Monte Ochino eravi appunto
quella di venirne in possesso.

Vinti completamente i Camia, allontanato ogni pericolo di nuove
sorprese, sua prima cura fu, dunque, rovistare da capo a fondo la
rôcca, facendo man bassa su tutto quanto gli parve valerne la pena.

Ma il cofanetto non giunse a trovarlo.

Chiese allora di Giovanni Camia e — risaputo come un drappello de’
suoi gli avesse fatto traghettare la Nure e trascinatolo nell’aperta
campagna poco stante da Borgo San Bernardino — vi accorse con tutti gli
altri, non lasciando a guardia della rôcca che i tre soli sgherri, che
vedemmo sì bene mistificati da Terremoto.

Giunto in sul luogo dove trovavasi il Camia, steso boccone su la nuda
terra e con le mani legate al dorso, cominciò a punzecchiarlo con la
punta della spada alle reni gridandogli brutalmente:

— Ehi, maledetto stregone, sono qui, perchè regoliamo i nostri
conti.... e ne abbiamo di assai vecchi ed infogniti!

— Datemi la morte! — gli rispose pacato il vegliardo — io non vi chiedo
altro!

— Ma io ti chiedo di più — gli mormorò all’orecchio il Nicelli, che,
per far questo, erasi posto su le ginocchia.

— E che mai?

— Ti chiedo dove tu abbia riposto quel famoso còfano, che ti venne
consegnato prima ch’egli morisse, da monsignor abate di San Savino....
che il Signore abbia in gloria.

— Il còfano?.... e quale còfano?.... io di còfani mi so nulla!

— Bada! — ruggì il Monte Ochino — bada che, di grosso che ti si chiama
e che sei daddovero, io ti fo divenire sì mingherlino ed allampanato da
passare a tuo agio pel taglio delle catene di un ponte!... bada che, se
non mi indichi, e subito, dove posso raccapezzare quel còfano, io ti
faccio soffrire tali e così acerbe torture, che quelle della Corte di
Giustizia.... cosa dico?.... gli stessi spasimi dello inferno, saranno
carezze al paragone.

— E voi obedite alla collera vostra, conte Giovanni; ma non isperate
con ciò darmi possibilità di sodisfare il vostro desiderio.... di
quanto voi dite, ve lo replico, conte.... io so nulla!

— Tu menti per la gola, come un dannato di facitore d’ubbìe, che tu sei!

— Dio mi ascolta e mi giudica!

— Invoca Dio a tutore dell’anima tua scellerata, non delle tue menzogne.

— Conte, io vi dico il vero.

— Sei ben deciso al silenzio?

— Non posso fare altrimenti.

— Preparati, dunque...

— A morire?

— No, ma a penare, come fosti tra le ugne di Satanasso.

E, profferite fra’ denti queste tremende parole, il Monte Ochino si
raddrizzò in atto d’impartire a’ suoi birri qualche iniquo comando.

Ma in quel medesimo punto, giunsero correndo dalla banda del torrente i
tre, che Terremoto aveva sì felicemente burlato.

Alle dimande che rivolse loro il Monte Ochino, e’ risposero con
le esclamazioni di chi sa d’aver fatto una triste figura e vuole
non apparire dappoco, e narrarono, esagerando, come fossero stati
sovraccolti da uno spaventoso gigante tutto ricoperto di piastre di
ferro, il quale li aveva ghermiti, ad uno ad uno, pel collo e lanciati
venti passi al di là del ponte; poi — sollevato questo quasi per
incanto — precluso loro il reingresso.

La tema di qualche imprevisto tentativo e d’una sorpresa in sul meglio
del ballo da parte degli altri Camia, o de’ loro parziali; fece sì
che il Nicelli smettesse, pel momento, i suoi crudeli propositi contro
Giovanni il Grosso e, col maggior nerbo de’ suoi, si riconducesse alla
rôcca.

Prevedendo, per altro, quali ostacoli gli convenisse superare per
rientrarvi — transitando pel casolare di Borgo San Bernardino, dove
giaceva grosso deposito di materiali edilizî e di arnesi da guerra,
destinati alla costruzione ed al munimento di una torre, che papa
Paolo III faceva erigere lì presso, per albergarvi i suoi commessarî di
giustizia — eccitò taluni de’ suoi birri a provedersi di tavole e scale
e a pigliar su una petriera e trascinarsela dietro a forza di braccia.

Sul luogo, la caricarono sino all’orifizio della sua tromba, con la
polvere che ciascuno teneva nel fiaschino e con pietre raccattate
intorno intorno; poi, — lanciate le scale e le tavole sul fossato — ve
la spinsero sopra sino a farla combaciare della bocca co’ ritti della
serracinesca, ed allora le misero fuoco.

Fu lo scoppio di quella bombarda che mandò in fascio la porta e che
sorprese Terremoto, nel mentre usciva dal dormitorio col suo giovine
ferito sovra le spalle.

Al vederlo, i nicelleschi, che il riconobbero perchè teneva la visiera
ancora alta:

— Dàlli! dalli! — si misero a urlare.

E gli corsero sopra in massa serrata.

Terremoto comprese d’un tratto come non potesse lottare contro tanto
nugolo di gente, senza esporre — se non sè stesso — il suo protetto ad
inevitabile morte.

Unico scampo, gittarsi di nuovo per quella via sotterranea, che già una
volta gli aveva servito per trarre a salvamento la sua signora.

E non esitò.

Ma la foce esterna di quella via, egli stesso l’aveva nuovamente
otturata.

Consci di ciò:

— Bene! meglio! — sclamavano intanto molti dei suoi avversarî — il lupo
s’accalappia da sè medesimo!... lo sfogo è ristoppato!.... addosso!
addosso!

E si cacciarono inanzi con maggiore irruenza.

Ma — perchè giorno chiaro — non avvisarono di procacciarsi lume, e
dentro quel cunicolo, angusto così, che due costa a costa penavano ad
inoltrarvisi, regnava il buio cieco della notte.

Malgrado ciò, proseguirono animosi ad accalcarsi sotto la sua volta
depressa, tra le sue umide pareti, pigiandosi l’un l’altro alle reni,
nell’ansia che animava gli ultimi di raggiungere i primi.

Alle grida clamorose, era susseguito un bisbigliare sommesso, quasi il
silenzio.

Era il portato delle tenebre.

Quella infornata di carne umana spariva lenta lenta per l’entratura
della intercapedine. — Si capiva che i primi procedevano tastoni.
— Ormai non rimaneva più al di fuori che una coda di pochi, i quali
_marcavano il passo_, scalpicciando come i cavalli impazienti.

Quando improvisamente si manifestò un moto regressivo e come di
regurgito.

Al riguardoso pissi pissi tornò a succedere il clamore; ma questa volta
non erano più voci di collera e di minaccia: erano strida di spavento,
d’orrore.

Cos’era accaduto?

Giunto a capo della via, senza che — per una ragione che non tarderemo
a spiegarci — i suoi aggressori fossero pervenuti a raggiungerlo;
Terremoto aveva, con bel garbo, deposto a terra Neruccio, indi erasi
dato a sgomberarne l’uscita, col trarre a sè e gittarsi a tergo le
grosse pietre, ch’egli stesso — poche ore prima — vi aveva accumulato.

In breve n’ebbe remosse già tante da schiudersi un primo varco, pel
quale uno impaziente guizzo di luce s’insinuò nella via sotterranea e —
lambendone il terroso pavimento — la rischiarò, come pallido raggio di
luna, sino all’opposto lato su cui scendeva la scala.

Un’orribile vista si affacciò allora a quel tanto di nicelleschi che
tuttavia vi si accalcava.

Nello spazio che li divideva da Terremoto, spalancavasi una nera
voragine, entro la quale erano andati man mano precipitando tutti
coloro che li avevano preceduti.

Quella voragine era un pozzo riquadro, coperto d’una specie di
cateratta collegata a cerniera ad uno de’ suoi cigli e che — facendo
girare sopra sè stesso un caviglione di ferro infisso alla parete — gli
cascava nello interno, tutto irto di larghe lame ricurve a mo’ di falci
fienaie suggellate alla camicia e co’ taglienti e le punte rivolti allo
insù.

Era il così detto _pozzo delle cento taglie_, del quale, Luca Rinolfo
aveva confidato il segreto al figliuolo, anche prima che questi
s’introducesse la prima volta nella rôcca, ma senza che allora se ne
fosse potuto servire, e perchè incalzato troppo da vicino, e perchè
con ambe le mani occupate, l’una nel sostenere Bianca della Staffa,
l’altra, il da Niceto.

In compenso se n’era valuto adesso e con qual esito è facile imaginarlo.

Il primo de’ suoi inseguitori erasi improvisamente trovato a mettere un
piede in fallo e traboccare nel vuoto. Chi gli stava alle reni aveva
necessariamente dovuto fare altrettanto: poi un terzo, un quarto,
un quinto, e via via. — Le falci — ingegnosamente alternate così da
non lasciar passare nè trattenere alcunchè — facevano il resto: li
squarciavano, li mutilavano, li affettavano. — E tutti vi sarebbero
andati a finire come pecore di Panurgio, se la provida striscia di
luce, inviata loro dallo stesso Terremoto, non fosse giunta in tempo da
trattenere i sopravenienti, che arretrarono esterrefatti.

Un moto istintivo di paura li respinse fuori del sotterraneo a cercare
l’aria libera, la chiara luce del sole. — Ivi si chiamarono a nome
l’un l’altro, si noverarono: ventun di loro mancavano all’appello;
altrettanti doveva averne inghiottito il baratro traditore.

Scemato tuttavia il primo terrore, un sentimento di vergogna a un
tempo e un desiderio di vendetta, li animò a tentare la riscossa. — Le
tavole, su le quali avevano valicato la fossa circuente il castello,
potevano medesimamente servire per traversare l’orifizio del pozzo. —
Accorsero a munirsene e scesero di nuovo nella via sotterranea.

Ma troppo tardi.

Il colosso, nel frattempo, ne aveva sgombro completamente lo sfogo
esterno e se l’era dato a gambe trasportando seco il loro commilitone
ferito.




CAPITOLO XIII.

Amore.


Sul medesimo lettuccio, che accoglieva poco prima il cadavere della
madre di Terremoto, giaceva adesso il nostro Neruccio, che — nel
tragitto dal castello di Camia alla capanna dello antico castaldo — era
uscito di sentimento.

Al suo capezzale tenevasi seduta s’uno scannello Bianca della Staffa;
da’ piedi del letto, lo stesso castaldo.

Esaurita la prima parte della missione affidatagli dalla sua
padroncina, Terremoto erasi immediatamente riposto in cammino per
adempiere alla seconda: la ricerca del suo vecchio signore.

Nè Luca Rinolfo stette guari a seguirlo, per andarsi a situare come in
vedetta su la soglia della propria casipola.

A ciò lo aveva consigliato il figliuolo, suggerendogli che — qualora
vedesse accostarsi qualcuno in apparenza nimica — aiutasse il giovine
ferito a trarsi di letto ed, insieme a Bianca, lo facesse nascondere
entro una piccola grotta naturale, che s’incontrava a breve tratto al
di là della Chiappa sul piede di monte Osèro.

Per conseguenza, quando Neruccio — riavendo i sensi — aperse gli occhi
e li girò intorno meravigliati, si trovò solo con Bianca.

La vista della gentile donzella gli richiamò d’un subito alla memoria
tutte le traversìe della notte e di quella istessa mattina; onde —
giungendo le mani quasi in atto di rendimento di grazie:

— È, dunque, a voi, madonna — le disse, con tenera voce — che io vo’
debitore della mia salvezza?

— Tsitt! — fece la giovinetta, toccandosi con l’indice della mano
destra la punta del naso e profferendogli, con l’altra mano, una
ciòtola colma di un liquore giallastro — prima che vi fatichiate,
bevete di questo cordiale, che vi rimetterà in forze, e poi applicatevi
alla ferita queste filacciche imbevute di balsamo imperiale, che vi
saranno un tocca e sana.

E glie le porse, dopo ch’egli s’ebbe bevuto il cordiale. Indi continuò:

— Io non so davvero se quel nostro fedele di Terremoto, nel trasferirvi
qui, vi abbia più presto giovato che nociuto.... i miei intendimenti
non si spingevano tant’oltre; ma solo ad avere vostre contezze... è già
la seconda volta che voi mi rendete servigio, per cui vi sono legata da
un debito di riconoscenza, che mi tarda di solvere.... siete voi lieto
che vi si abbia tolto via di frammezzo a’ vostri?

— Non lieto: felice!

— Se la è così, tanto meglio, perocchè mi torni oltremodo piacevole il
potervi giovare.... ma voi soffrite della vostra ferita!

— Al contrario, madonna!.... oltre il balsamo imperiale che
v’è piaciuto offrirmi, ho, per sanarmi, il balsamo della vostra
presenza!.... se ho avuto uno schianto è stato quello di cadere laggiù,
senza potervi nè difendere, nè salvare; ma adesso, al fianco vostro io
sono così contento che mi sarebbe gioia il morire!

— O perchè dite.... perchè pensate codesto?

— Perchè la mia esistenza è sì misera e triste, che non merita nissun
rimpianto.

— Non più della mia, certo!

— Permettetemi di dubitarne.

— Ormai, sono tutta sola al mondo.

— Ed io, dunque?

— Voi pure?

— Non mi resta nemmanco il conforto della vendetta, cui avrei potuto
consacrare il mio intelletto ed il mio braccio, dove la reverenza
dovuta a un estinto non me lo avesse vietato.

— Avete, dunque, molto sofferto?

— Oh, tanto, tanto!

E qui il giovane soldato narrò per diffuso la dolorosa istoria delle
sue vicende alla vezzosa fanciulla, che — di rimpatto — gli espose le
sue.

C’era una strana e quasi fatale conformità ne’ casi di que’ due
giovinetti: orfani amendue, del paro allevati dalla loro terra natia,
del paro nati di gentilesco casato e man mano scesi così in basso, che
ormai la miseria rimaneva il loro unico retaggio.

Terminando la propria narrazione, Bianca si celò il volto tra le mani e
ruppe in singhiozzi.

— Perchè piangete, madonna? — le domandò con premura Neruccio ch’erasi,
nel frattempo, sollevato a sedere sul suo letticciuolo.

— Perchè piango? — gli rispose tra le lacrime la giovinetta — ma se
Terremoto non giunge a salvare il mio vecchio nonno come ha potuto fare
di voi; se i Nicelli me l’avessero ucciso, come mi hanno ucciso lo zio
Gilberto e lo zio Malvicino; cosa volete che avvenga di me?

— Non avete verun altro congiunto?

— Qui, che mi voglia bene, nissuno!.... de’ Camia ce n’è disseminati
per tutta la valle, ma la benvolenza e la predilezione del conte
Giovanni hanno fatto sì che m’invidiassero assai più che non mi
amino... oh, se il nonno mi manca io sono abbandonata!

— Badate, madonna, che Dio c’è per tutti!... so bene anch’io come le
parole di conforto e le promesse di assistenza, che un meschino ferito
pronunzia dal suo letto di dolori, non possano avere bastevole autorità
a tranquillarvi!... ma, fra non guari... lo spero almeno.... sarò
risanato, ed allora, quanto varranno queste mie due povere braccia, e
le poche capacità della mia mente, e i molti.... e tutti gli affetti
dell’animo mio; io ve li offro, madonna.... voi potrete disporne come
meglio vi paia opportuno.

— Oh, grazie, messere!... voi siete un nobile e generoso cuore!... ma,
a quale titolo.... ditemelo voi stesso... potrei io accettare coteste
vostre proposizioni?

— A quello che più vi tornasse gradito: sarò, per voi, un amico, un
fratello....

— Un fratello?....

— E vi amerò come tale.... e anche più, Bianca, inquantochè vi giuro,
per la santa memoria di mia madre, che... dal mio nascere sin qui...
nissuna donna valse mai ad ispirarmi i teneri e soavi sentimenti
che voi mi destaste... e sino dacchè c’incontrammo l’anno passato a
Parma.... il solo vedervi bastò per darmi come un trabalzo al core!....
mi pareva non fosse quella la prima volta che in voi m’imbattessi...
avervi visto altrove, non fosse che ne’ miei sogni di fanciulletto, ne’
miei dormiveglia di adolescente....

E Neruccio diceva il vero.

Sono misteri dello spirito umano codesti, mille volte osservati, ma
inesplicati sempre, che forniscono argomento a cui mette fede nella
palingenesi e nelle nuove dottrine di Alano Kardec e di Flammarion.
Certo che da essi non si giunge a trarre veruna diretta illazione;
sfuggono ad ogni analisi psichica e fisiologica e si smarriscono in
quello sterminato oceano che si chiama: il caso. Certo parimente,
tuttavia, che esercitano soventi una grandissima influenza su le umane
vicende.

Gli amori improvisi, subitanei, determinati da un semplice sguardo,
quasi scintilla determinante lo incendio, noi mal sappiamo spiegarceli,
se non per via di cosiffatti amori, i quali — nella genesi dell’amore —
sono come i tempi preistorici in quella dell’uomo.

Quando una di cotali donne, che — relativamente a voi potrebbesi
chiamare predestinata e fatale — vi cade la prima volta sott’occhio,
voi non avete più indagini a fare, nè dimande a rivolgere al vostro
cuore: amate già, amate quasi di un affetto antico, congenito: quella
donna pare che, in qualche guisa, o sia già stata o debba indubiamente
esser vostra, sicchè vi appartenga ad ogni modo; onde voi — da quel
primo istante — la seguite, pigliate interesse ad ogni suo moto, ad
ogni sua parola, ad ogni suo sguardo, non diversamente appunto che se
si trattasse di persona a voi legata dai vincoli più sacri.

Tanto era avvenuto di Neruccio a proposito di Bianca.

E la giovinetta subiva tanto più il fascino degli orizzonti affatto
nuovi e completamente ignorati, che le andavano schiudendo le calde
dichiarazioni del suo amatore, inquantocchè la situazione istessa
in cui si trovava rimpetto a lui, aggiugnesse loro irresistibili
attrattive.

La circostanza che glie lo aveva fatto incontrare la prima volta,
era stata di natura da legarla a lui con un nodo indissolubile:
quello della riconoscenza. Il transito da questo affetto, già per sè
medesimo sì dolce, a quello anche più dolce dell’amore — sovratutto
col valido efficente delle idee disperate che la predominavano — doveva
necessariamente operarsi spontaneo e rampollare come cosa da cosa.

L’isolamento da cui sentivasi minacciata, le paure che le ispirava
l’avvenire, non potevano che concorrere a spingerla tra le braccia
dell’uomo, che in tanta miseria le profferiva, come refugio, il suo
amore.

— Ebbene, sì — ella gli rispose, arrossendo — vi sono grata, messere,
de’ sentimenti vostri, e li accetto tanto maggiormente di cuore, che
non è più alla nepote invidiata del ricco e possente castellano, ma
alla povera orfanella, priva omai di tetto come di famiglia, che si
rivolgono le generose vostre proposizioni!... noi uniremo insieme i
nostri dolori, per formarne una gioia: quella del nostro reciproco
amore; poichè anch’io vi amo, Neruccio, ah, sì.... e anch’io sino da
quella sera funesta che fu l’origine di tutte le mie sventure.... ci
staccammo allora l’uno dall’altro e per sempre, e pure un’arcana voce
del core mi andava susurrando tratto tratto che vi avrei riveduto....
la vostra imagine mi stava sempre dinanzi!

— E così a me la vostra, madonna! io la serbava nel più intimo del
core, siccome reliquia di Terrasanta, e ogni giorno le inalzava una
prece, un voto, che in questo punto Dio mi concede la suprema gioia di
veder sodisfatta!

Con quelle rapide transizioni, a cui — auspice amore — si abbandona
così facilmente l’età giovanile, i due innamorati dimenticavano d’un
tratto, l’uno le proprie ferite, l’altra le proprie sventure, per
slanciarsi a volo nello sconfinato empireo de’ loro sogni amorosi ed
intessersi un avvenire tutto di fiori.

In simili affettuosi ragionari — sospesi solo un momento dal rientrare
del vecchio Ridolfo, che ammanì loro qualche poco di pasto — i
giovinetti trascorsero tutta quanta la giornata.

Neruccio contava — appena le sue ferite gli consentissero di trarsi
di letto — di pigliare ingaggio come capo bandiera negli eserciti
imperiali, che — malgrado la tregua — tornavano ad ingrossarsi per
le spedizioni contro de’ turchi e de’ barbareschi; e l’ardimentosa
fanciulla — qualora veramente il suo avolo fosse rimasto vittima dei
Nicelli — si proponeva seguirlo dovunque.

Nella loro miseria, nelle loro sventure, que’ due poveretti si
sentivano felici.

Tuttavia, man mano che s’inoltrava la notte, i tristi pensieri
riprendevano il sopravvento nell’animo trangosciato di Bianca, che, dal
prolungarsi dell’assenza di Terremoto, traeva i più funesti presagi.

Poco prima della mezzanotte e mentre le pupille del ferito cominciavano
a farsi pesanti sotto un sonno riparatore; il colosso — con l’aria
stravolta ed i segni del più profondo dolore impressi su le laide
sembianze irruppe finalmente nella stanzetta.

— Ebbene.... ebbene? — gli si fe’ incontro a chiedergli ansiosamente la
giovinetta.

— Ah, eccellenza, — le rispose, con voce rotta e tremante il suo fedele
vassallo — quale orrore, croce del Gesù benedetta!... io n’ho la pelle
anserina!...

— Il nonno, forse?... — interrogò quella con visibile trepidazione.

Terremoto rivolse i suoi occhioni cerulei al soffitto, mettendo un
fragoroso sospiro.

— Sola? — gemè la fanciulla accostandosi istintivamente a Neruccio,
che, ridesto di trabalzo al sopraggiungere del gigante, erasi rimesso a
sedere sul letto — sola!... non mi resta dunque, più nulla!

— E qui ci scotta, eccellenza! — riprese a dire Terremoto. — questo,
madonna, non è più luogo per voi.... bisogna ve ne allontaniate al più
presto!

— Perchè?

— Perchè i Nicelli hanno giurato di sterminare quanti avanzano di
vostra famiglia, di non darsi requie sinchè un Camia respira!




CAPITOLO XIV.

Il cofanetto dello abate di San Savino.


Il punto nel quale i nicelleschi — dopo la presa della rôcca di Camia
— avevano posto il loro bivacco, era una sorta di forra desolata,
tutta paduli e fratte rimbrullite, schiusa tra Borgo San Bernardino e
Roncovero sul margine di un picciol rivo, che sbocca nella Nure e che —
d’allora in appresso — assunse il nome di _Barbarone_.

Quando — per lo allarme recato da’ tre corbellati da Terremoto — il
grosso dell’orda si restituì tumultuariamente al castello con alla
testa il Monte Ochino ed il marchese di Cattaragna, pochi scherani
soltanto rimasero a custodia del prigioniero, che giaceva sempre nel
bel mezzo del campo, steso boccone e co’ polsi allacciati alle reni.

Le fatiche della notte e — più ancora — il caldo della stagione che
— sin dalle prime ore del giorno — si manifestava soffocante; aveva
indotto il più di quegli uomini a sdraiarsi in su l’erba, dove l’un
dopo l’altro, non istettero molto a cadere immersi nel sonno.

Due soli — a mo’ di sentinelle avanzate — teneansi ritti, dando
le terga allo accampamento, l’uno rivolto a mezzodì, l’altro a
settentrione.

Costretto dalla sua scomoda postura a premere il suolo col buzzo enorme
ed a pungersi la faccia contro i brocchi e le ortiche; Giovanni il
Grosso penava crudelmente. — In giunta, un raggio obliquo del primo
sole lo feriva in pieno nel mezzo del capo che aveva scoperto e nudo
così di cappello come di capelli.

A breve andare, si sentì divorare da una sete ardente, e cominciò a
rangolare, chiedendo a bere in carità, prima con calma e dignitosa
preghiera, indi con alto e disperato vociare.

I dormienti non però ruppero il sonno, nè gli badarono i vigilanti.

Solo uno, ch’era pur esso sdraiato a terra e pisolava, o fingeva — al
reiterarsi di quelle grida strazianti — si levò su le ginocchia, e,
sguaraguardato sospettosamente in giro per farsi certo che nissuno lo
avertisse, strisciò carpone sino al ciglio del Barbarone e — dal filo
d’aqua che in esso correva — tanta ne attinse da ricolmarne una sua
borraccetta che portava a tracolla.

Con questa in mano, sempre catellon catellone, si avvicinò al
prigioniero, e:

— Bevete, padron mio! — gli susurrò a voce smessa — bevete!

E gli profferse il refrigerio.

Giovanni il Grosso piegò la faccia di sguincio, e, raffigurato il suo
Longino:

— Ah, sei tu Stefanaccio? — gli disse — ti ringrazio sai, il mio
figlioccio.... oh, ti ringrazio molto!

Ed avidamente pose le labra alla fiasca.

Stefanaccio non apparteneva alla geldra nicellesca. Era uno dei
navichieri della Nure, il quale — dopo aver aiutato il proprio padre
e uno zio traghettare i conquistatori del castello di Camia — aveva
lasciato i burchielli e mischiatosi loro un po’ per curiosità, ma molto
più per lo interesse grande che gl’ispirava il suo vecchio signore.

La sua famiglia era suddita di Giovanni il Grosso, ed egli
personalmente gli professava una particolar devozione, perchè s’era
degnato servirgli di padrino al fonte battesimale.

Stefanaccio godeva fama di briacone e malvagio. — Forse non l’era; ma
nissuno lo amava, nemmanco i suoi di famiglia ch’egli ripagava a misura
di carbone.

D’un unica virtù gli si faceva concessione, quella di attenere
scrupolosamente le promesse, quante volte lo avesse giurato per la
salvezza dell’anima sua.

Stefanaccio era sovrammodo superstizioso.

Bassotto, tarchiato, tozzo, con le gambe alquanto sbilenche e le
braccia più lunghe del convenevole e così male appiccicate alle spalle
che le gomita gli toccavano costantemente i fianchi, e con una faccia
olivigna, dalla fronte depressa, il naso camuso e le labra sottili
e sbiancate, quas’interamente offuscata da’ cerfuglioni della lunga
ed arruffata capellatura e dalle setole dell’ispida barba, che gli
rampollavano sin dal sommo de’ zigomi; tal’era l’uomo ch’erasi di
traforo accostato al prigioniero.

Come si fu dissetato:

— Figliuolo — soggiunse questi in tono insinuante di prece — io avrei
mestieri parlarti, dimandarti un servigio che confido non sarai per
niegarmi.

— Quando, santolo? — interrogò il navalestro.

— In su l’atto.... so io, per avventura, se mi avanzi solamente un’ora
di vita?

— Canchero, messere!.... ma come ho a fare adesso?.... mi sbirci solo
uno di que’ scampaforche, ed aggravignarmi e conciarmi per il dì delle
feste, e’ sarebbe tutt’uno.

— Ripóniti appanciolato a due passi da me, fingi dormire, e non temere
di nulla!... nessuno ti baderà!.... una tua risposta mi basta.... io
t’ho a richiedere di cosa, che non ti costerà nè fatica, nè scomodo, nè
timori, nè rischi.... mi giuri tu di compierla nel modo che t’indicherò
io?

— Sì, padrone.

— Per la salvezza dell’anima tua?

— Per la salvezza dell’anima mia.

— Bene! dammi retta! ormai non ti domando altro!

Stefanaccio s’avvoltolò due volte per lo lungo su di sè stesso tanto
da scostarsi un cotal poco dal vecchio Camia e s’acconciò in sorta da
parere addormentato.

— Io non mi fo’ illusioni — cominciò questi allora, tenendo la bocca
rivolta verso di lui e soffiando, per così dire, le parole sul suolo
— tra poco, dacchè il Nicelli da Monte Ochino sia di ritorno, io avrò
cessato di vivere.... ho i miei settanta ben conti e di tribolazioni
a questo mondo ne ho già patito più che nol comportasse misura....
la morte, dunque, può canzonarmi di poco!.... ma ho un segreto,
figlioccio, un segreto del più alto momento, il quale mi pesa abbia
a scendere sotterra con me!.... però badami bene!.... a pena non ci
sia proprio più scampo.... e non ce ne può essere! e che tu mi vegga
e mi sappia finito; renditi difilato presso di Arcangelo Rinolfo....
tu lo conosci; Terremoto, il figlio del nostro antico castaldo.... lo
rinverrai alla Chiappa, in casa del suo vecchio padre.... trovatolo,
piglialo a quattr’occhi, ma così bene in disparte, che nissuno, manco
l’aria, possa rubarti una sillaba, e ripetigli quanto adesso avrai
udito da me.... sai dov’è che si sta costruendo la Torre Farnese?

— Lo so, padrone — mormorò Stefanaccio — lo so!

— Finora — continuò Giovanni il Grosso — non ne sono che gittate
le fondamenta; ma a destra e sinistra vi si trovano già praticate
due brevi ed anguste scalucce, le quali menano sotto i vôlti di
sostruzione, che hanno a servire di casematte.... ebbene: che Terremoto
lasci venire la notte, poi vi si rechi guardingo e scenda per quella
a destra, verso mezzodì.... giunto al piè della scala, si ponga ritto
con le calcagna proprio rasente l’alzata dell’ultimo gradino e dia
cinque passi misurati in avanti in linea dritta al suo naso.... al fine
di questi, si pieghi e troverà vicino allo zoccolo della muraglia una
pietra riquadra del pavimento più larga delle altre e con un piccolo
foro nel mezzo... vi conficchi un ferro auncinato.... gli basterà un
grosso chiodo alquanto ricurvo in punta.... e tiri a sè con tutta forza
chè la pietra non mancherà di venire.... bada bene a non dimenticare la
minima indicazione!.... ripeti!

— La torre Farnese...

— La scaletta a destra...

— Noverare dal suo pie’ cinque passi....

— In linea diritta...

— Chinarsi presso il muro e trovare una pietra dello impiantito più
larga dell’altre...

— E con un bucherello nel mezzo...

— Piantarvi dentro un rampino e tirare a sè.

— Bene!... e allora, prenda su ciò che vi troverà sotto: è un
cofanetto di legno di rosa con capocchiette di argento.... lo porti
seco gelosamente e, subito subito, senza darsi un attimo di riposo,
lo vada a consegnare a donna Costanza di Santafiora, contessa di
Castell’Arquato, e le dica solo: questo, eccellenza, è il cofano di cui
voi tenete la chiave.... hai inteso?

Ma Stefanaccio non gli dètte risposta. Un nugolo di polve ed un
confuso bisbigliare lo aveva in quel punto avvertito del retrocedere
dei Nicelli e — per scansare ogni rischio — s’era stimato in dovere
di sbiettare quatto quatto dal suo posto per ritornarsi a sdraiare sul
margine del Barbarone.

Giovanni Camia mise un profondo sospiro.

A un grido di allerta dell’uomo in vedetta verso mezzogiorno, i
dormienti si scossero e balzarono in piedi in subbuglio, stirandosi e
sbadigliando mentre riafferravano le armi.

I loro compagni riedevano sminuiti di numero e maledettamente rabbiosi
per quanto era loro intervenuto nella rôcca di Camia.

Il conte Giovanni Ochino li capitanava sempre.

Scorgendo il prigioniero:

— A costui adesso! — gridò.

E, fattoglisi vicino, gli assestò un formidabile calcio alle costole.

— Non vi sapessi di ritorno — gemè il meschino mal trattato in tal
guisa — e me lo annunzierebbe codesto vostro nobile tratto, conte di
Monte Ochino!

— Per la croce! — sclamò questi ghignando — non mi stimare in uzzoli da
badare alle tue ciance!... ormai dobbiamo intenderci e non altro....

E — come aveva fatto la prima volta — gli si piegò ginocchioni presso,
dopo averlo rivoltolato con la faccia allo insù.

— Sai che t’ho detto — continuò abbassando la voce — o rivelarmi
dov’hai riposto quel tuo còfano, o preparati a subire le più atroci
torture.

— Sono pronto.... disponete!

— T’incocci assolutamente al silenzio?

— Ve lo ripeto: io so nulla di quanto esigete da me.

— Per non rimetterci di coscienza, ti vuo’ anzitutto particolareggiare
quanto ho in animo di farti patire; poi ti deciderai!... spogliato che
ti avremo di quelle tue vesti, ti farò vergare a sangue.... la pena de’
valletti, a te, nobiluomo!....

— Fate! fate! sono pronto!

— Quindi, così ignudo, impiccare pei piedi ad un albero, e strappare
ad una ad una le ugne, ed applicarti il fuoco dove più ci senti e
mazzerare in ogni parte del corpo....

— Fate! fate! sono pronto!

— Infine.... gloriati!.... configgere per le mani e pei piedi ad un
legno come Gesù Salvatore e così, a poco a poco, scorticar vivo!

La voce morì in un rantolo tra le fauci infuocate del misero,
sottoposto in prevenzione a quella tortura morale.

Non ebbe forza di rispondere una terza volta:

— Fate! fate! sono pronto!

Tuttavia non mutò avviso.

Tacque.

— Ebbene! — soggiunse fra’ denti, dopo la pausa di un momento, il Monte
Ochino — la tua risposta definitiva!

— Fate!.... sono pronto!.... — susurrò a fior di labra il vecchio Camia.

E chiuse gli occhi.

Il Monte Ochino si rizzò in piedi e, voltosi, con impeto, a un gruppo
de’ suoi:

— Un po’ di svago, figliuoli — gridò loro, con un cachinno infernale —
martirizziamo costui!

Quegli uomini — come un’orda di demoni — si slanciarono sul disgraziato
Camia, gli sciolsero le braccia, lo denudarono completamente e — dietro
gli ordini del loro signore — cominciarono a menarne il più orribile
strazio.

È strano che un essere umano potesse tollerare, senza piegarsi, sevizie
tali, che oggi lo stesso narratore nemmanco ha l’animo di esporre, sì
che la penna gli sfugge inorridita di mano.

Ma tanto potevano i tempi.

L’assuefazione alle cose atroci, come attutiva il sentimento — per quel
misterioso legame che aggiugne al fisico il morale — doveva eziandio
rafforzare sì fattamente le fibre da renderle suscettive di patimenti,
che oggi farebbero cedere o perire chiunque.




CAPITOLO XV.

Il Crocefisso.


Nel proposito di attendere all’altra parte della grave missione che
gli era stata imposta da Bianca; Terremoto — subito dopo aver posto in
salvo Neruccio — erasi affrettatamente allontanato dal casolare paterno
e risospintosi di nuovo nella rôcca di Camia, passando per la via
sotterranea, della quale inanzi tutto ebbe cura di richiudere il pozzo
traditore.

Ma la rôcca di Camia era completamente deserta. — Gli stessi feriti non
giacevano più su i sacconi del dormitorio de’ servi.

Conveniva ammettere che i Nicelli avessero definitivamente abbandonato
quel luogo per far ritorno ai loro covili.

Questa volta, però, invece di scendere al basso verso tramontana, e’
s’inerpicò a monti verso mezzodì, nella ferma fiducia che queglino pure
avessero dovuto prendere la medesima direzione.

Varie circostanze concomitavano a ribadirlo in simile persuadimento.

In prima linea, lo aver divinato come fossero eglino istessi che
avevano rasentato le ruine di San Savino, nella tremenda notte in cui
egli faceva ricerca del proprio padre; in seconda, le indicazioni di
Pellegrino di Leuthen, udite ripetere durante il suo soggiorno alla
rôcca, secondo le quali designavasi Castel Canafurone siccome il luogo
de’ loro convegni.

Rimontò, quindi, il corso della Nure, costeggiandone la ripa sino
a Cogno San Savino, poi — divergendo alla propria destra traverso i
ricchi pascoli di Vediceto e Mareto — guadò le sorgenti della Lobbia
e si lanciò su gli aspri pinacoli di monte Acereto, che — frammezzo i
bruni cespugli di lichene islandico onde si rivestono i suoi versanti
meridionali tra Metteglia e Ciregna — lo condussero alla mèta della sua
escursione.

Ma — al paro della rôcca di Camia — anche Castel Canafurone era muto e
deserto.

S’aggirò allora pe’ dintorni, spingendosi — da un lato — su le rive
della Trebbia sino alla stradicciuola bordata dal narcotico giusquiamo
che mena a quella chiesetta dell’Ozzola che Lanfranco da Parma arricchì
poi de’ tesori del suo pennello; — dall’altro — fra le nude rocce, e
gli sfiancati burroni delle Ferriere, alle falde di Monte Nero, al
Roccone dell’Orso e, su su, sino a Cassimoreno, dove nidificano le
aquile e si rintanano i lupi.

Ma tutto inutilmente.

La natura selvaggia di quelle inospiti regioni pareva aver cacciato
in bando gli uomini, che pure, su quegli alti cacumi, avrebbero dovuto
credere d’essere tanto più vicini a Dio. — Ma forse è legge che l’uomo
cerchi sempre di allontanarsene.

Nella lunga sua corsa, il gigante non s’era imbattuto che in pochi
villani nessuno de’ quali aveva saputo rispondere alle sue domande.

Solo — mentre rifaceva la sua via a capo chino come il segugio quando
ha smarrito la pesta del selvaggiume — una vecchia comare, che saliva
dalla pianura, potè dargli qualche vago indizio de’ Nicelli che —
diceva lei — da parecchi giorni tenevano in isgomento e mettevano a
soquadro tutta quanta la valle. — Un navichiero della Nure le aveva
narrato molte brutte faccende di loro e che si trovavano tutti insino
all’ultimo raccolti ed accampati ne’ pressi di San Giovanni di Bettola.

Terremoto non chiedeva di più.

Ripigliò la strada tra le gambe e ridiscese frettoloso al piano.

Ma, nel lungo e faticoso suo viaggio, aveva sciupato la massima parte
della giornata; poi — a Cogno San Bassano — s’era dovuto arrestare
a refocilarsi in una grama tavernaccia, chè si sentiva affiochire
di fame; per cui, quando girò di nuovo intorno intorno alla rôcca di
Camia, per recarsi a Borgo San Bernardino; la notte era scesa da più
ore.

Più s’accostava al punto, dove — secondo altre notizie raccolte nella
taverna — aveva ragione di supporre che si trovassero radunati i
nicelleschi; e più un malessere indefinibile, una malinconia profonda
s’impadroniva di lui.

Era stanchezza?... era quella misteriosa sospensione dell’animo, che
ingombra quasi sempre chi si trova nottivago per le campagne deserte e
silenti?... era presentimento di non lontana sciagura?

Chissà!

Il dabben Terremoto mancava del necessario spirito di analisi non che
per spiegare, per dimandare a sè stesso le recondite cagioni di quel
suo strano turbamento.

Procedeva lento insieme ed ansioso: lento, perchè una voce intuitiva
del core, lo avvertiva che, alla meta delle sue perlustrazioni, lo
attendeva qualche terribile colpo; ansioso, perchè lo premeva il
desiderio vivissimo di uscire dalla febrile incertezza che lo divorava.

Guadata la Nure, senza ricorrere a navalestri, e prima ancora che
toccasse Borgo San Bernardino, intravide lontan lontano come due
occhi di brage scintillanti nella notte, che rompevano funestamente le
tenebre con sprazzi di luce fumigosa e sanguigna.

Que’ sinistri fulgori assorbivano tutta la sua attenzione. Egli vi
tenne fiso immobilmente lo sguardo come un giorno su l’orsa minore il
navigatore fenicio. Non badò più ad altro e — raddoppiando il passo —
tirò via per scorciatoie, traverso rigagnoli, stoppie e malafitte.

Man mano si avvicinava e — al chiarore di quei due fuochi, che
spandevano in giro come una nebia luminosa — una scena spaventevole e
ributtante gli si parava inanzi agli occhi.

Tra que’ due punti infiammati, che altro non erano chè torce a vento,
s’ergeva una rozza croce formata di un giovine faggio sfogliato e
sbroccato nel luogo istesso in cui metteva radice, orizontalmente al
quale era stato confitto per lo mezzo un grosso ramo di abete.

Da quella croce pendeva un corpo umano, anzi un cadavere, un lurido e
schifoso cadavere d’uomo.

Col respiro strozzato tra le fauci, gli occhi smisuratamente sbarrati,
le gambe vacillanti; Terremoto gli si accostò da vantaggio, si sollevò
su la punta de’ piedi, protese inanzi il collo ed — acuendo le proprie
facoltà visive — affisò a lungo quel cadavere in volto.

Riconoscerlo, impossibile, tanto era sformato.

Lo indovinò.

Era il cadavere del suo signore, di Giovanni il Grosso conte di Camia.

Gli sgherri del Monte Ochino — eseguendo gli ordini scellerati del loro
capitano — avevano fatto subire al misero vegliardo tutti que’ tormenti
che la feroce civiltà de’ tempi fornisse di più doloroso.

L’atroce tortura durò dalle prime ore del mattino sino al cader della
notte.

Di tratto in tratto, il conte di Monte Ochino, si appressava al
paziente e con tono misto di minaccia e di scherno:

— Vuoi tu confessarmi alla per fine dov’hai celato quel còfano? — gli
susurrava all’orecchio.

— Mai! mai! — gli rispondeva invariabilmente il paziente.

E i tormenti ricominciavano.

In ultimo, quand’ebbero esaurito tutti que’ raffinamenti della ferocia
che il fanatismo, l’esaltamento dell’odio avesse potuto suggerire
a quell’orda scatenata di demoni, il Monte Ochino commise loro di
preparare una croce.

Fu presto fatto.

Lo sciagurato Camia, spoglio d’ogni indumento e rizzato in alto a forza
di braccia, venne chiovato su que’ legni conserti per le due mani ed i
piedi.

Egli s’accasciò giù penzolone, boccheggiante, spirante.

Il capo de’ Nicelli volle tentare anco una volta la prova e gli ripetè
la dimanda del còfano.

— Mai! — gemè di nuovo il vegliardo.

— E tu muori come un cane, dannato che sei! — urlò il suo implacabile
nemico.

E fece un cenno a’ suoi sgherri.

A quel cenno, due di costoro s’avventarono sul corpo livido e mutilato
del crocefisso e, con un largo coltello da caccia, fattagli una
profonda incisione sul sommo del capo, cominciarono a strappargli dalle
carni la pelle.

Un’ora dopo, l’infelice era scuoiato vivo sino alla cintola.

A un ultima stratta, die’ un tremito convulso di ribrezzo in tutte le
fibre e... spirò.

Una orrenda bestemmia de’ suoi tormentatori accompagnò l’estremo suo
anelito.

Que’ sanguinari — inebriati dallo istesso scempio che avevano menato sì
nefandamente di lui — sentivano, con rabbia, sfuggire dalle palpitanti
e dilaniate sue membra quel soffio animatore che, sino a quel punto,
avea loro servito per noverarne, misurarne, assaporarne le inenarrabili
sofferenze.

Il loro còmpito da macellaio veniva interrotto dall’angelo della morte.

E ne provavano dispetto.

Il Monte Ochino confisse allora sul tronco del faggio patibolare una
larga scheggia di legno, su la quale — con lo istesso sangue della sua
vittima — vergate le seguenti parole:

                  A QUANTI ANCORA RESPIRANO DE’ CAMIA
                             MEDESIMO FINE.

                                                           I NICELLI.

Quindi si dileguarono tutti, lasciando sul luogo le due torce accese a
rischiarare il teatro della loro carneficina.

Mentr’essi pigliavano a settentrione, Stefanaccio il navichiere, che —
accovacciato su la riva del Barbarone, aveva assistito alla strage ed
alla crudele agonia del suo sàntolo e signore — prese pel lato opposto
e si ridusse fremendo a cercare un po’ di calma e di riposo nel fondo
di uno de’ suoi burchielli.

Poco stette a sovraggiungere Terremoto.

La leggenda infitta a piè della croce che il chiarore delle torce gli
permise di decifrare, gli cacciò nell’animo uno spaventoso sospetto.

Che anche Bianca fosse così minacciata?

Laonde non indugiò guari a retrocedere ed a restituirsi alla sua
capanna.

Sospirando, singhiozzando e senza quei riguardosi preamboli che la
situazione della sventurata giovinetta avrebbe richiesto, ma che la
scarsa retorica non gli consentiva; le annunziò il miserando fine
dell’avolo suo e quali pericoli sovrastassero a lei stessa.

Nella piena del proprio dolore, Bianca dichiarava esser pronta a
sfidarli, ad affrontarli.

Ma Neruccio, con le sue vive ed amorevoli istanze, i due Rinolfo, coi
rispettosi consigli, giunsero a rimuoverla dal disperato proponimento.

Terremoto si proponeva di guidarla in salvo.

Da due giorni ed ormai quasi due notti, e’ non s’era preso un attimo di
sonno o di requie. Ma era di ferro.

Egli l’avrebbe menata presso i signori di Santafiora, amici dell’avolo
suo e suoi naturali difensori.

Bianca esitò ancora un poco; volle opporre qualche altra obiezione;
ma finì per lasciarsi persuadere ed accondiscendere. E, nella istessa
notte, con la scorta del suo fido vassallo, lasciando Neruccio affidato
alle cure del vecchio Rinolfo, partì pedestre dal casolare della
Chiappa per alla volta di Castell’Arquato.


NOTA.

Per parte et comandamento del Magnifico Messer Io: Bapta Martello
dottore et loccomtenente del Rev.mo et Ill.mo Monsig.r Legato Cispadano
et Gubernatore di questa città et suo Episcopato, si notifica qualmente
Sua S.ria con partecipazione delli S.ori fiscali ha bandito et
condennato in la amputatione di la Testa et confiscatione de’ loro
beni le infrascritte psone Da Nicelli et consorti per li homicidij et
altri excessi fatti in Valdenura contra quelli da Camia et maxime per
lo homicidio fatto in la persona di _Zan Grosso Di Giberto da Camia_,
di _Cristoforo Chinello_, di _Baptistino Zazera_, di _Domighino delli
Madii_ (_Maggi_) appellato _Monte Ozoro_, di _Mariino_ suo filiolo, di
uno appellato _Trovalusio_, di _Franceschino Zazera_, et altri, come se
contene in la Inquisitione contra di loro formata. Per tanto se Comanda
che non sia persona alchuna che gli osa nè psuma Dar aiuto favore nè
hosphitio nè altra cosa contra la forma delli Statuti ed ordini sopra
ciò disponenti.

Li nomi delli quali sono li infrascritti, videlicet:

  P.mo Dno Joanne da Nicello.[1]
  Il cap.º Laur.º da gropallo.[2]
  Bartolomeo Malchiodo appellato Burgnedo.
  Jo: Michele da Mittellia (_Metteglia_).
  Paulino et Jo: bapta fratelli Da Luguzzano.
  Pet.º et ant.º fratelli Delli Molinarj.
  Pichione Schianchino.
  Hercule Della guerza.
  Matteo da Burgneto (_Brugneto_).
  Bartolomeo da mitella (_Metteglia_).
  Permo da Cilegno (_Ciregna_).
  Perazo (_Pieraccio_) da Mare (_Marè_, o _Mareto_).
  Guaschone da Mare (_come sopra_).
  Henricho da Mare (_come sopra_).
  Melchiorre da Nicelli quon: Vinciguerre.[3]
  Jo: Franc.º da Nicello.[4]
  Cœsare da Nicello.
  Lazaro Bichocha.
  Augustino Magnano.
  Antognatio et Albertatio fratelli da Cacelascho (_Cancelasio_,
    o _Cangelasio_).
  Stuanino (_Stefanino_) di Francischetto.
  Jacomo ant.º da Nicello da colla (_Coli_).
  Pet.º m.ª (_Pietro Maria_) da Nicello.
  Franceschino della Colla (_Coli_).
  Matteo delli Corletti (_Corleto_).
  Tomasino della Colla (_Coli_).
  Zanono (_Giannone_) della Colla (_idem_).
  Baptistino da Nicello.[5]
  Bisilacho da grondono (_Grondone_).
  Stephano da Nicelli da hebia (_Ebbio_).
  Zanone delli Rossi da pomarollo (_Pomarolo_).
  Canavazzo da pomarollo (_idem_).
  Bertono Corletto (_Corleto_).
  Franzono filiollo di pet.º ant.º da burgnetto (_Brugneto_).
  Sabadino delli Zanelli.
  Orlando da Mittellia.
  Marchione da Nicellj da collo (_Coli_).
  Marco ant.º da hebia (_Ebbio_).
  Joanne da Mare fratello del Curte.
  Forense delli Repeti (_Repetti_).
  Jo: Bernardo da Nicello da Cacelascho.
  Moretto da Ronchovero (_Roncovero_).
  Bernardino della Julia.
  Bernardino delli Ferni da Monte Ochino.
  Ludovicho da Ronchovero.
  Marco ant.º             }
  Vincentio               }  fratelli delli Nicelli da Thiaredo.
  Prè (_padre_) Baptista  }
  Hieronymo               }
  Filippo Colombo.
  Joanne de Cho da Rivighozo (_Revigozzo_).
  Il filiolo di gibillino da grondono.
  Paulino da olza.
  Il Curte da Mare (_Marè_ o _Maretto_).
  Bernardo filiolo do Jo: Michelle da mitellia (_Metteglia_).
  Guillimono (_Guglielmone_) et il fratello delli Meliorini.
  Bartolino delli Rossi dalle Ferreri (_Le Ferriere_).
  Ant.º delli Bertuci (_Bertucci_).
  Perino delli Verardi.

                         Tutti de val de nure.

  Messer Bartolomeo da Viustino.
  Jacomo guarino.
  Josepo Trabacho.
  Ant.º da Ziano filiolo de m: (_messer_) Lazaro.
  Caya filiollo de m: Jo: ant.º da Trave (_Travi_).

                         Cittadini placentini.

Datum in Plac: alli 8 di agosto 1539.

Dicta die in sero publicatum fuit suprascriptum Bannum ad petram
Arrengheriae novæ Communis Placentiæ per Andream Fasollum tubatorem
alta voce et sono tubarum.


FINE DELLA PRIMA PARTE.




_PARTE SECONDA._

CASTELL’ARQUATO




CAPITOLO XVI.

Un figlio di Papa.


Rimontando il corso dell’Arda — piccolo torrente, che, insieme
all’Ongina, si versa presso il Polesine tra le braccia del padre
Eridano — a dieci chilometri circa al disopra della via Emilia, s’una
lieta e fiorente collina, che scende col piede sul greto di quel
torrente, giace una terra murata, che si fa risalire a parecchi secoli
prima dell’êra cristiana e che, dal nome di un cavaliere quirita che ne
fu il fondatore, si volle chiamata _Castel Torquato_.

Siccome, per altro, il mutare non di natura soltanto, ma eziandio di
nome, sembra destino di tutte cose quaggiù; dopo essersi detta, volta
volta, _Castel Torquato, Castel Quadrato, Castell’Alquadro, Castel
Visconti_; finì a chiamarsi _Castell’Arquato_.... e speriamo per
sempre.

Un tal messer Magno, altrettanto _magno_ di nome quanto di cuore,
che apparentemente poteva disporne a sua posta, la regalò nel 770 al
molto onorando e reverendissimo capitolo vescovile di Piacenza. — Nel
1307 se ne impadronì il famigerato Alberto Scotto, cui la tolse, dieci
anni dopo, Galeazzo Visconti. — Sottrattisi i piacentini alle spire
del biscione, quel discendente di Wirtinger di Landau, ch’ebbe nome
Manfredo e fu tra’ stipiti del nobile casato de’ Landi, se la prese per
sè nel 1324 e la cesse quindi alla città di Piacenza. — La riebbe il
marito d’Isabella del Fiasco, che ne edificò la rôcca e la ribattezzò
del suo nome. — Finalmente, nel 1527, la Sede Pontificia, che aveva
allora allora recuperato i dominî di Parma e di Piacenza, ne dètte
l’investitura a Bosio II Sforza, conte di Santafiora, già signore dei
dazî della Rocchetta e della Chiavenna e marito di Costanza Farnese, la
figlia di Paolo III, la sorella di Pierluigi.

Morto Bosio nel 1535 e perchè degli undici suoi figliuoli, il primo,
Guid’Ascanio, ed il terzo, Carlo, erano destinati alla Chiesa, attalchè
l’uno non istette guari a divenir cardinale e vescovo di Parma e
l’altro ad essere creato cavaliere dell’ordine gerosolomitano, e poi
priore di Lombardia, generale delle galee pontifice e proposto della
cattedrale di Piacenza, ed il secondo ed il quarto erano femine:
Giustina, maritata al conte Gianfrancesco Bentivoglio di Gubbio, e
Camilla, che sposò poi Besso Ferrero di Biella, marchese di Masserano
e conte di Lavagna; gli succedette nei feudi, il suo quintogenito,
Sforza, giovinetto poco più che trilustre, nel cui nome continuò per
alcun tempo a governare la madre.

Al momento in cui vi giunse Bianca col suo fedel Terremoto, c’era
corte bandita e gran bombanza e gazzarra nella rôcca e nei dintorni
di Castell’Arquato. — Terrazzani e forestieri, valvassori e vassalli,
festeggiavano lo sposalizio del giovine signore del luogo, che —
appunto in quel giorno — impegnava la propria fede alla vedova di
Cagnino Gonzaga da Sabbioneta, Luisa, la vezzosa ed unica figlia del
marchese Pallavicino Pallavicini.

Congiunti ed amici erano colà convenuti da’ luoghi più lontani.

Non vi mancava che papa Paolo III, perchè donna Costanza potesse dire
di vedersi intorno tutta la sua numerosa famiglia.

Per le vie del borgo, adiacenti al castello, giullari, catabanchi e
merciaiuoli ambulanti avevano eretto i loro trespoli, i loro scannelli,
le loro bottegucce: e qui si spacciavano imagini sacre grossolanamente
miniate su pergamena, e rosari, e scapolari, e aquasantini, e
reliquie; là, medaglie da tocchi, e catenelle da collo e da ventaglio,
e braccialetti, e anelli, e guanti ricamati, e zibellini; e dove,
presine di perle compeste, e miracolosi medicamenti, e grasso d’orso
col quale ugnersi per scongiurare la insonnia, e candele di sego
umano per iscuoprire tesori; e altrove, focacce di farina col miele,
e zuccherini indorati, e pasticche, e treggea. — Più in qua stava il
Rinaldo canterellando con voce chioccia e stuonata, le sue burlesche
e non sempre decenti canzoni, accompagnate da’ suoni del lirone o del
piffero; più in là, il giuntatore, che ripeteva il miracolo dell’uova
soppeditate senza schiacciarle, o l’acrobata ed il funambulo, che
alternavano i loro meravigliosi esercizî.

Ed una ressa di contadini, di servidorame, di sbirraglia, che loro
faceva circolo intorno e — ad ogni nuovo sperimento ben riuscito —
batteva freneticamente le palme, gridando a tutti polmoni:

— Viva messer Sforzino! viva madonna Luisa!

Comunque accolta nel modo il più cortese dalla contessa di Santafiora
e sollecitata dalle gentili premure delle sue figliuole, Bianca non si
sentì di prender parte alle sponsali esultanze: i dolorosi pensieri
che la ingombravano, la eccessiva stanchezza che la opprimeva, glie
ne toglievano a un tempo il volere e il potere. — Laonde si ritrasse
in una stanzetta del secondo piano, che le venne assegnata nell’ala
estrema del castello verso settentrione, e — nella solitudine — cercò
un po’ di calma e di riposo.

Terremoto si confuse alle genti di servizio.

Levate le mense dopo il meriggio; uno de’ convitati che — alla
magnificenza del vestire ed alla familiarità del contegno — rivelavasi
per uno de’ più ragguardevoli, tolse commiato dalla sala da pranzo e
— nell’uscire — rasentando un omicciatto, che tenevasi ritto sopra uno
stipite dell’uscio:

— Mi riduco in camera mia — gli susurrò all’orecchio — fate di
raggiungermi tosto.... ho da ragionare con voi.

L’omicciatto finse di nulla; si trattenne qualche momento ancora
al suo posto; poi — cogliendo una opportuna occasione — sbiettò via
inosservato e gli scivolò dietro.

Ma a pedinare chi gli aveva dato quell’ordine non si trovò da solo.

Qualcun altro pedinava lui pure.

Era una giovine donna.

Nascosta nella penombra del corritoio, che, dal tinello, guidava agli
appartamenti; costei aveva sorpreso le poche parole del misterioso
convegno e — per un sospetto di cui non tarderemo a scuoprir la ragione
— non a pena vide muoversi l’omicciatto che si mise, a sua volta, su le
sue pedate.

Giunto alla camera che gli era stata indicata, questi vi entrò senza
tampoco picchiare.

La donna, invece, s’arrestò in su la soglia e, chinandosi con la faccia
contro la toppa, si trattenne ad origliare.

L’individuo alloggiato in quella stanza era un uomo non lontano
alla quarantina, di media statura, un cotal po’ allampanato e male
aitante della persona. — Il pelame rossigno, la flacidezza delle
carni, lo scialbo della pelle chiazzata di brune volatiche e di
bitorzi salsedinosi, caratterizzavano di alcunchè di volgare il suo
volto, cui la fronte aperta, l’occhio scintillante ed il naso lungo e
dantesco avrebbero dato altrimenti un peculiare suggello di nobiltà
non disgiunta da qualche bellezza. — Lunghe, ma sottili basette che
gli lasciavano quasi tutto scoperto il labro superiore, gli scendevano
a’ lati della bocca confondendosi con la barba, che portava intera
e puntuta, come i capelli tagliati brevi, seguendo la moda novella
indotta da Francesco I di Francia, dacchè un tizzone ardente cadutogli
in capo lo aveva costretto a tondersi raso.

Era seduto e — s’un tavolinetto, cui si soffolceva del gomito — aveva
riposto il berretto ricco di preziose medaglie e di vaghissime piume.
Sotto una corta giubba di droghetto cenerognolo privo di maniche e
orlato di vaio portava un giustacuore di setino violetto ricamato in
oro, con sparati e rigonfi di raso nero alla maniera spagnuola e simili
le larghe brache, e calzoni di seta bianca con piccole scarpe a fibie
tempestate di gemme.

Come vide entrare l’omicciatto, che lo aveva seguito, gl’indicò di
sedere e:

— Gran diavolo, per mia fe’, che voi siete — gli disse ridendo — non vi
ho così tosto desiderato che subito vi ho.... oh, potessi tagliare su
la sagoma vostra tutt’i miei servidori!

— Fostre eccellensce sembre mie pone patrone — gli rispose l’altro, nel
quale il lettore non metterà pena a riconoscere quella buona lana di
mastro Pellegrino di Leuthen — oppetiensce e serfitù mie prime tofere.

— E tanto meglio, Pellegrino, perchè ho appunto mestieri dell’opera
vostra.

— Sembre pronte ortini fostri.

— Avete rimarcato quella ragazza che è giunta stamattina al castello?

— Tonna Pianca tella Sdaffa.... nibote pofere conte Ciofanne de’ Camia?

— Esattamente quella.

— Io conoscere molto.... sembre afer conosciute...

— E tanto meglio ancora!

— Perchè?

— Perchè mi genia, perchè ne sono diabolicamente inuzzolito.

— _Der teufel!_

— È già questa la seconda volta che mi casca tra’ piedi.... la prima
fu l’anno scorso a Parma, c’eravate voi pure.... quando le genti sue
s’accapigliarono co’ Nicelli per la giumenta di babbo.... mi spiacque
solo che ne morì quel malcapitato di Maso, che, per strigliare
garbatamente un ginetto, non aveva il secondo.... oh, fu un delizioso
affare dassenno!... ed allora la piccola spigolistra mi sguisciò di
mano come un gladiatore inoliato.... c’era un farabutto di lanzo che se
la tolse sotto il suo patrocinio e, per non levare uno inutile chiasso,
la lasciai ire a sua posta.... ma stavolta muta specie!... ella è qui,
in casa di mia sorella, sotto il medesimo tetto di me, e converrebbe
fossi nato ieri perchè me la lasciassi nuovamente sfuggire!

— Eh! eh! eh! — fece il tedesco grattandosi dietro l’orecchio, com’uomo
o che non intenda, o che cominci a sentirsi nello imbarazzo.

— Dico male? — gli domandò riciso il suo interlocutore.

— Anzi, tifinamente!... fostre eccellensce infallipile come sue
peatissime patre!

— E dunque?

— Tunque, niente!... io solo tesiterare conoscere fostri intentimenti
sopra ti me!

— Oh, sono di poco rilievo: non vi pigli paura!... codesta Bianca,
come voi la chiamate, non è intervenuta al pranzo, e penso nemmanco
assisterà alle feste nuziali.... mi hanno detto ch’è mesta, dolente,
affaticata....

— Crantemente.... poferina.... lo credo!

— A quanto m’è venuto fatto indagare, le è stata assegnata una camera
a parte; ma non so ancora quale sia.... ed ecco il servizio che vi
richiedo: informarvi del dove abbia il suo alloggio e fare in guisa
che questa sera, dopo il coprifuoco, io mi vi possa introdurre, senza
nessuna difficoltà.

— _Mein God mein her!_... — farfugliò Pellegrino, balzando dalla sedia
su cui stava seduto, come quei missirizzi che certi astucci fanno
scattare dal loro fondo.

— Ebbene? — gli chiese l’altro, inarcando le ciglia.

— Oh, eccellensce.... foi folerfi introdurre?.... ma pofere racazze
innocente creature.... sue àfole, quontam conte Ciofanne, amiche
sincere, fetel serfitore fostra nopile famiglia.... conti di Santafiore
crante inderesse, crante penefolensce, crante tifoscione per lui!

— E con questo, cosa vorreste inferirne?

— Niente, eccellensce.... ma mio tofere....

— Pretendereste forse catechizzarmi e farmi scuola di filosofia e
morale?

— Mio tofere, eccellensce, inticarfi bericoli; tirfi: questo essere
beccato, questo essere cruteltà, questo essere sacrilegio.... poi,
foi patrone, io serfitore; voi figliole sue Peatitutine, io pofere
pellecrine benitente; foi fare quel che folete!

— Oh, cotesto si chiama parlar ragionevole!... che diamine!... temete
dannarvi?... non ce n’è il rischio!... Sua Santità ha la manica
larga.... se assolve me, assolverà anco voi per consenso... non ha
fatto altrettanto per la spinosa faccenda di Fano?

— Fero.... fero!

— Sto, dunque, riposato.

— Fostra eccellensce può tormire su tue cuanciali.

— E quando abbiate risaputo il necessario e provisto, me ne verrete a
riferire?

— Essere mio prime tofere!

— Egregiamente, mastro Pellegrino!... andate e, se il negozio va
a bene, vi saranno dieci bei ducati imperiali, di que’ doppi, da
aggiungere al vostro gruzzolo.

— Tucati ed assoluscione?... io non sapere cosa breferire!

Ed, inchinandosi, si licenziò.

Non avrem d’uopo di dire al lettore come l’uomo, che macchinava un
sì iniquo tranello a danno della misera Bianca, altri non fosse che
Pierluigi Farnese, duca di Castro e di Nepi, il figlio prediletto di
Sua Beatitudine, papa Paolo III, allora felicemente pontificante.




CAPITOLO XVII.

Il Cavalier Nero.


Le feste dello sposalizio di Sforza Sforza con Luisa Pallavicino si
solennizzarono nel pomeriggio.

Oltre alla madre e a’ fratelli del fidanzato, vi assisteva lo zio
Pierluigi, co’ suoi due figli Ottavio e Ranuccio.

Il duca di Camerino, che — malgrado i suoi sedici anni — era già da
otto mesi prefetto di Roma e marito alla gentile Margherita d’Austria;
tenevasi al fianco della propria consorte, la quale a sua volta,
superava di poco il suo terzo lustro, comecchè vedova da più di
due anni. — Ottavio ritraeva dall’ottima sua madre, donna Gerolama
Orsini; ne aveva l’amabilità, la dolcezza de’ modi e la prestanza
della persona: gaio, elegante, cortese, era già quello istesso, di
cui, cinque anni dopo, il traduttore della _Eneide_ doveva scrivere
da Brusselle al padre di lui, ch’era «stato tenuto e riconosciuto per
il più valoroso e gentil cavaliere vi fosse e che riportava onore e
generale benevolenza dall’una e dall’altra corte.» C’erano gli Sforza
da Castiglione, i Triulzio da Codogno, i Pallavicino da Fiorenzuola,
con le loro donne, le loro scorte, i loro familiari.

Pierluigi aveva seco il suo segretario Apollonio Filareto da Valentano,
scrittore di lettere apostoliche e abate di San Silvestro di Colupino,
ed i suoi capitani di maggior fiducia, Alessandro Tomasoni da Terni e
il Trentacoste, con poche barbute.

Era stranissimo e degno di rimarco lo spiccato contrasto che, sì
nel carattere come nell’esteriore offrivano tra loro que’ suoi tre
seguaci. — Il Filareto, piccolo, sottile, sbarbato, tutto inchini,
tutto fioriture retoriche ed evangelica unzione; il Tomasoni, una
specie di mastodonte dal naso rosso e bernoccoluto, l’addome cascante,
le gambe tozze e sbilenche, che parlava a grugniti e meglio ancora,
potendolo, con mosse a pena percettibili della testa e degli occhi;
il Trentacoste, finalmente, lungo lungo, magro magro e lanternuto,
con due enormi baffi arroncigliati e color di fuoco, che gli davano
qualche tratto di somiglianza con l’eroe di Cervantes, ed un continuo,
inesauribile ciaramellare, sempre lardellato di oscene amfibologie e di
sguaiate bestemmie.

Tali erano i fedeli del signor duca di Castro.

Poche ore dopo il desinare, tutta questa comitiva mosse dal castello,
per condursi alla chiesa maggiore, dove lo stesso vescovo di Parma
doveva impartire la sua santa benedizione a’ due fidanzati; quindi
avrebbe percorso in bell’ordine i cinque quartieri della borgata sino a
quello di Monte Aguzzo, dove una truppa d’istrioni aveva eretto le sue
trabacche per rappresentare quella salace commedia che è _L’Assiuolo_
di Giammaria Checchi, con intermezzi di cori, riboboli e moresche.

Tra la folla stipata di borghigiani, di contadini, di armigeri e di
famigli, che formavano duplice siepe sul passaggio della signorile
brigata, distinguevasi un uomo d’alta statura, coperto il capo d’un
elmetto di acciaio brunito a visiera calata e tutto ravvolto da capo
a piedi entro un lungo ferraiuolo di scotto nero, che, lavorando di
gomiti, si sforzava di tenere indietro la calca per mantenersi in prima
linea.

Allo scorgere una giovane donna, che procedeva al fianco di Pierluigi
Farnese, quell’uomo trasalì visibilmente.

Quella donna, alta ella pure e spigliata della persona, non era di
molta avvenenza. — Sottoponendola alle pedantesche stregue del bello,
la si sarebbe anche potuta addirittura dir brutta. — Possedeva,
tuttavia, qualche cosa di simpatico, di attraente, di affascinante. —
Anzitutto era pallida, molto pallida, di quel pallore bigio ed uniforme
che contraddistingue le creole; aveva la chioma folta e ricciuta, d’un
nero metallico e lucicante, la fronte proeminente, le sopracciglia
copiose e traccianti una linea diagonale tra la radice del naso e il
sommo delle tempia; il naso un po’ a tromba con le narici dilatate e
le papille mobili e frementi; la bocca larga e quasi sempre contratta
al soghigno. — Ma queste molte pecche si cancellavano interamente sotto
il fulgore delle sue ciglia, che dominavano, per così dire tutto il suo
volto. — Quando la si guardava, non si scorgeva di lei che quei suoi
due grandi occhi, così infiammati, così radiosi, così promettenti, che
conveniva chinare i propri per non restarne abbarbagliati e sedotti.
— Non era una donna: era un paio di stelle rapite all’empireo, per
farle camminare rasente terra imprigionate s’un corpo feminile ben
proporzionato ed aitante. — Nel suo incedere c’era appunto la maestà di
una divinità dell’Olimpo.

Come l’ebbe vista dileguarsi verso la chiesa insieme all’accolta di
gentiluomini, dietro i quali erasi accalcata la folla; l’uomo dal
bruno mantello si trattenne alcuni istanti soprappensieri; poi — quasi
si fosse arrestato ad una repentina risoluzione — si rivolse alla
direzione opposta e s’avviò frettoloso al castello.

Entro l’àmbito di questo, — oltre il castaldo, un servitore infermiccio
e due vecchie cameriste — non rimanevano che tre sole persone; la
nostra Bianca, ritirata nella sua cameretta; il suo fedel Terremoto,
che, cedendo al peso delle sostenute fatiche, s’era addormito s’un
cumulo di paglia in un canto del cortile; e quella cara creatura di
Pellegrino di Leuthen.

Costui non aveva seguito i suoi nobili ospiti per un motivo ch’è facile
ad imaginarsi. — Volendo ottemperare alle ingiunzioni di Pier Luigi,
s’era proposto di pigliar pel ciuffo la propizia occasione della loro
assenza, per iscuoprire più facilmente la dimora di Bianca.

E non ci aveva durato molta fatica.

La prima delle due vecchie ancelle, cui ne richiese, glie ne aveva
subito indicato la stanza.

Vi salì lentamente e ne toccò l’uscio della mano nel probabile intento
di picchiarvi sopra con le nocche per annunziarsi.

Bianca lo aveva visto più volte alla rôcca di Camia, ed una sua visita,
ch’egli prefiggevasi di mascherare sotto l’opportuno pretesto della
condoglianza, non poteva, per certo, arrecarle stupore.

Ma l’uscio cedette alla sua pressione.

Era aperto.

Egli lo spinse dolcemente ed entrò.

La stanzetta di Bianca trovavasi — come il dicemmo — al secondo piano
del fianco settentrionale del castello.

Era un piccolo ambiente tappezzato di pannolano color nocciuola, dal
soffitto a piccoli cassettoni ed il pavimento ammattonato, con un
tettuccio a cortinaggio di saietta giallognola, una cassa di rovere
intagliata poggiante su quattro branche di leone ed un tavolino a gambe
spirali. — Un inginocchiatoio, pure di quercia, situato da piè del
letto ed un paio di seggioloni a copertura di cuoio naturale saldata
al legno per una fitta di chiodi di ottone a larga capocchia, ne
completavano l’arredamento.

A giudicarne dalle apparenze, quella stanzetta doveva trovarsi in
cul di sacco, poichè non avesse che una sola finestra prospiscente
su l’interno cortile ed un solo uscio aperto su l’estremo della lunga
chiostrata, che serviva di pianerottolo alle scale.

Il letto sorgeva lungo la parete opposta a quella in cui s’apriva la
finestra e alla sinistra di quella in cui trovavasi l’uscio.

La quarta parete era completamente sgombra; ma — a certi segni che
ne solcavano la tappezzeria — un attento osservatore avrebbe di
leggeri potuto indovinare come essa nascondesse qualche altra speciale
apertura: probabilmente una porta segreta.

Ma Pellegrino di Leuthen non si trattenne in quella stanza un tempo
sufficente per fare una simile osservazione.

Entratovi a pena e sguaraguardatosi rapidamente d’intorno, e’ s’avvide
tosto che la fanciulla, sdraiata sul letto ancora nelle proprie vesti,
dormiva profondamente.

La poverina aveva soccombuto a sua volta alla duplice stanchezza dei
disagi e delle emozioni.

Tutta l’attenzione di Pellegrino si rivolse, quindi, all’uscio
d’accesso, il quale si poteva assodare tanto allo esterno, mercè una
chiave ch’era dentro la toppa, quanto allo interno, per via d’una
grossa nòttola pendente da una cordicella e che andava incastrata,
a mo’ di saliscendo, fra due monachetti, l’uno de’ quali infisso nel
legno della imposta e l’altro nel suo telarone.

L’astuto tedesco comprese subito cosa gli convenisse di fare.

Si trasse di cintola un suo corto e robusto pugnale; lo insinuò dentro
uno de’ monachetti e, servendosene a guisa di leva, l’ebbe facilmente
sconficcato e divelto. — Col pugnale istesso recise allora la piccola
fune, da cui pendeva la nòttola; intascò i due oggetti; vi aggiunse,
uscendo, la chiave e — stupito quasi delle fortunate combinazioni
che lo avevano fatto sì ovviamente approdare — ridiscese sollecito,
stropicciandosi le mani in atto d’uomo assai contento di sè.

Mentr’egli si trovava occupato in simile bisogna, il misterioso
personaggio dal negro ferraiuolo s’era appunto introdotto nel castello.

Penetrato nel cortile, nè scorgendovi che il gigante addormentato,
traversò le logge del pianterreno e, per la scala principale, si
diresse al piano superiore.

Al sommo di questa, s’imbattè in una delle due cameriere, la quale,
allo scorgere quella sua strana foggia e quella sua celata, che gli
cuopriva la faccia, si arretrò spaurita e fu sul punto di gettare uno
strillo.

Ma egli la prevenne, ghermendola per una mano ed intimandole con voce
sovrattenuta:

— Se metti un fiato, sei morta!

— Santi del paradiso! — mormorò la vecchia allibendo — ma che è,
dunque, cotesto?.... e chi siete voi dalla parte di Dio?... e che mi
volete a quest’ora?...

— Una cosa soltanto — fece l’incognito, togliendosi di sotto al
mantello una grossa borsa rigonfia di monete, dalla quale ne estrasse
una decina.

E profferendole alla fante:

— Se consenti a servirmi, a giovarmi — continuò — e sovratutto, se mi
prometti tacere, queste sono per te.

— E di che avete a richiedermi? — domandò quella, mal sapendosi
astenere dall’allungare avidamente quella delle due mani che l’era
rimasta libera.

— Di ben poco — le rispose il nero personaggio — tu non hai chè
a servirmi di scorta e menarmi alle stanze di donna Olimpia de’
Marazzani.

— Di donna Olimpia?... ma ella non ci si trova nelle sue stanze.

— Non me ne cale!

— È uscita mo’ mo’ con gli altri, perchè... se voi nol sapete....

— Lo so!

— E che volete, dunque, fare in camera sua?

— Vederla, esaminarla.... mi basta!

— E niente altro?

— Nient’altro!

— E que’ zecchini di oro, che mi avete dianzi mostrato?....

— Sono tuoi!

— Mostratemi prima i piedi.

— O perchè?

— Mi dovreste leggere in capo! o che ci si affida al primo venuto e
che, per rincaro, vi tien nascosa la faccia, come se fosse il ceffo
dell’Orco.... Dio liberi!?.... e ci vuol tanto a mostrarmeli?....
io non vorrei, mi capite?.... non vorrei esser capitata tra l’ugne
dell’inimico!

— Evvia, guarda! — fece l’incognito con un ghigno di sprezzo.

E — in ciò dire — si tirò su la visiera, presentando agli sguardi
attoniti della vecchia fantesca un bel volto di giovane bruno,
dall’incarnato vivace, dalle fattezze nobili e regolari, dal sorriso
altero e sdegnoso, con due neri mustacchi che gli ombravano il labro e
due occhi limpidi e sfavillanti come carbonchi.

— Ma chi siete? — interrogò quella timidamente.

— Il Cavalier Nero — le rispose lo sconosciuto, tornando a cuoprirsi il
viso — non chieder altro e.... conducimi, via!

— E gli zecchini?

— Eccoli qui.

E glie li porse.

La vecchia non indugiò da vantaggio e — fattogli un cenno acciò la
seguisse — si volse, per infilare la scala del secondo piano. — Ma in
quel punto, un rumore di passi, che veniva dall’alto, la fece arretrar
sbigottita.

Qualcuno scendeva.

Era Pellegrino di Leuthen, che aveva allora compiuto la sua opera
proditoria.

Il Cavalier Nero misurò, a sua volta, il pericolo di un simile incontro
— e trovandosi presso l’uscio semichiuso di un ambiente che sboccava
sul pianerottolo — vi si cacciò dentro senza esitare.

La vecchia non si mosse e lasciò che il tedesco le transitasse da
canto, facendo le viste di non essersi tampoco addata di lui.

Come il rimbombo de’ suoi passi si fu perduto sul lastrico del
sottostante loggiato, ella riaperse l’uscio, dietro il quale s’era
appiattato l’incognito, e gli rinnovò l’invito a seguirla.

Questi non se lo fece ripetere e — camminando in punta di piedi — montò
secolei le scale dell’altro piano.

La stanza di Olimpia aprivasi sul medesimo loggiato, in capo al quale
trovavasi quella di Bianca.

L’uscio n’era aperto perocchè fosse deserta.

Il Cavalier Nero vi entrò, seguendo la fante, che — nel mettervi piede:

— Ecco appagato il vostro desiderio — gli disse.

La stanza aveva molt’analogia con quella della nostra giovine
perseguitata: ugualmente il soffitto a cassettoni, il pavimento
ammattonato, una cassa, un tavolino, un inginocchiatoio e due sedie;
ugualmente il tettuccio a tendine di rascia e le pareti tappezzate
di pannolano, senonchè quelle erano di un rosso cupo e questo di un
cilestrino sbiadito; ugualmente una sola finestra, senonchè opposta
allo ingresso e prospettante verso il giro delle mura esterne. —
L’unica differenza rimarchevole consisteva in ciò che, oltre all’àdito
principale, aveva — nella parete a destra, contro quella, cui
s’addossava il lettuccio — un’altr’uscio, che adduceva ad un piccolo
spogliatoio, quindi ad un breve corritoio in apparenza senza sfogo.

Il Cavalier Nero esaminò minuziosamente ogni cosa, si affacciò alla
finestra come per orientarsi; aperse i cassetti de’ mobili; palpò il
letto, le cortine, le seggiole; poi, ripetendo alla vecchia:

— Sta bene... mi basta! — uscì premuroso e scese rapidamente le scale.

La camerista lo seguì, studiando il passo, sino alle logge del primo
piano, dove s’arrestò borbottando fra sè medesima:

— Eh, fosse pure quel che ho temuto, grazie alla madonna benedetta, non
ho patteggiato con lui!.... e le sue monete?.... eh, coriandoli.... se
mai puzzassero di male bolge, e’ lo si riconosce issofatto!

E, in ciò dire, si trasse di tasca gli zecchini ricevuti in mancia e vi
fe’ sopra il segno della croce.

— Non mi cascan di mano — soggiunse allora racconsolandosi — il
che vuol dire che non sono di mala venuta, e che lui, malgrado le
apparenze, non può essere il diavolo!

In quel punto incominciava il primo imbrunire.




CAPITOLO XVIII.

Olimpia Marazzani.


Esaurito il proprio còmpito, mastro Pellegrino di Leuthen lasciò il
castello e si affrettò a raggiungere l’aristocratica brigata de’ suoi
ospiti, che — usciti di chiesa — erano già saliti al quartiere di Monte
Aguzzo, per ivi assistere alla rappresentazione dell’_Assiuolo_.

Su sedie mobili e palchi e gradinate posticce, e’ si tenevano seduti
all’aria aperta di fronte al baraccone di tele dipinte, inghirlandato
di fiori, che i comedianti avevano eretto su la piazzuola di quel
quartiere e che doveva servir di teatro.

Dietro i signori, si stipava in piedi la folla, cui si eran frammisti
giocolieri e merciaiuoli, che il bruzzolo impediva dal continuare ne’
loro esercizi e ne’ loro commerci.

Alla comedia dettata dal suo autore in pretto volgar fiorentino e con
assai maestria divisata, s’era fatto subire ogni sorta di varianti,
di aggiunte e di mutilazioni. — L’un personaggio vi parlava il
vernacolo napolitano, l’altro il bergamasco, un terzo un miscuglio di
spagnuolo e francese tutto sproloqui e basse scurrilità; le maschere
dell’Arlecchino e del Dottore, comecchè nella loro infanzia, vi
facevano già capolino: la comedia, insomma, era adimata al semplice
uficio di tessera, su la quale ciascuno creava il dialogo a proprio
capriccio, innestandovi quanti più proverbi, motteggi e castronerie
sapesse.

E signori e vassalli a farne le grasse risa, e comentare e
spiattellarsi chiare tra loro le più sfacciate allusioni, ed acclamare
frenetici i recitanti.

Nè manco piacquero gl’intermezzi, nel primo dei quali era figurato
Sansone, che spiccava i denti alla famosa mascella d’asino con la
quale sterminò i filistei e da que’ denti rampollavano amorini a
danzare una moresca; nel secondo, un Nettuno trascinato da mostri
marini, che finivano a tramutarsi in altrettante vaghissime naiadi,
che intrecciavano tra loro una lasciva carola; nel terzo il paradiso
e l’inferno, con gli spiriti de’ beati e l’anime de’ dannati ed una
grande fiamma al finale; e via, via. — E sempre fanciullini camuffati
da angioletti, che — per via di cantari e riboboli — spiegavano
l’argomento dell’atto cui s’era per dar principio.

Pellegrino giunse sul luogo poco dopo il cominciare della
rappresentazione e — mercè il pretesto d’avere un’ambasciata pel signor
duca di Castro — s’aperse un passaggio tra il fitto de’ spettatori
e non si diè posa che non avesse tocco della mano lo schienale del
seggiolone su cui sedeva Pierluigi al fianco di sua sorella Costanza.

Allora — curvandosi al suo orecchio:

— Fostre eccellensce serfite! — gli farfugliò nel suo bastardo
linguaggio — gamere tonna Pianca, uldima gamere seconte biane gastelle
ferse sedentrione... chiafistelle li tentre, ghiafe, tutto io bordate
fia... niente più bossipile chiutere.... foi poterfi endrare senza
bericole.... atesso racazze niente temere.... tormire profontamente
come marmotta!

Pierluigi gli strinse la mano e lo ringraziò con uno de’ suoi più
significanti sorrisi.

La donna dagli occhi di fuoco, quella istessa, la cui vista aveva
prodotto una sì viva impressione su l’incognito dal nero mantello,
trovavasi assisa a poca distanza dal Farnese. — Ella notò quello
scambio di sorrisi e di confidenze e ne comprese forse il segreto,
poichè corrugò la fronte sì fieramente che le sopracciglia le si
congiunsero alla radice del naso tanto da non formare che una linea
sola: e sotto quella linea nera i suoi due grandi occhi corruscarono di
un lampo di luce sinistra.

Terminata la rappresentazione, feudatari e convitati, seguiti dal loro
codazzo di valletti e di birri, rientrarono nel castello. — La folla, a
poco a poco, si disperse.

Suonò il coprifuoco.

Prima di ritirarsi nel proprio quartiere, donna Costanza di Santafiora
volle adempiere a’ doveri dell’ospitalità, salendo in persona a
visitare la giovine della Staffa, che i vincoli di sincera amicizia
ond’era già legata col vecchio signore di Camia le rendevano sommamente
cara ed interessante.

La trovò che s’era da poco tolta di letto; s’informò della sua salute:
la richiese se avesse d’uopo di ristorarsi e — avutane in risposta come
altro non desiderasse che solitudine e riposo — le fece apportare una
lampana da notte e una caraffa d’aqua di fonte e baciatala su le due
gote — la lasciò sola, augurandole la buona notte.

Seguendo l’esempio della contessa, quant’altri trovavansi nel castello
non tardarono a ritirarsi ciascuno ne’ rispettivi alloggi e a cacciarsi
tra le lenzuola.

Anche Bianca si svestì interamente e tornò a coricarsi.

La poverina non dubitava, non temeva di nulla.

Ella non aveva veduto Pierluigi Farnese.

Ma costui vigilava a suo danno.

Simulando voler mettersi in letto, egli aveva licenziato il suo
segretario ed i suoi due capitani d’arme. — Ma tale non era il suo
intendimento. — Egli attendeva ansioso l’ora propizia in cui avrebbe
potuto seguire, con securtà, l’itinerario che gli aveva tracciato
Pellegrino di Leuthen.

Mentre si toglieva la sopraveste, il giustacuore e le brache, per
rimanere semplicemente con le calze ed il farsetto, egli si anticipava
col pensiero le gioie che, a suo credere, quella notte doveva
apportargli ed eccitava la propria fantasia ed i propri sensi col
figurarsi la sorpresa, lo spavento, la reluttanza, la disperazione
della sua vittima.

Imperocchè sia mestieri lo ammettere vi abbiano nature sì fattamente
perverse, o pervertite, per le quali gli stessi godimenti riescono
freddi, sbiaditi, insignificanti, ove non si maritino all’altrui
sofferenza; esseri così profondamente malvagi, che non sanno far
scaturire il loro proprio bene se non dal male degli altri.

E di questo novero era Pierluigi Farnese.

Come riconobbe che le tenebre ed il silenzio regnavano nel castello
e si ritenne certo che tutti fossero immersi nel sonno; uscì furtivo
dalla sua stanza e — sovrattenendo ogni passo per non muovere il minimo
scalpore — salì le due branche di scala, che congiungevano il primo
al secondo piano, e s’indirizzò tastoni pel buio corritoio, che menava
all’uscio della camera di Bianca.

Dal foro della toppa che Pellegrino di Leuthen aveva privato di chiave,
trapelava un leggero e tremulo filo di luce. — Quel debole raggio gli
giovò come di stella polare.

L’uscio — secondo le previsioni e le promesse dello astuto tedesco —
non era minimamente sbarrato.

Il Farnese lo sospinse con garbo ed entrò guardingo, traendolo dietro.

La lampada ardeva sul tavolino.

La fanciulla, coricata, dormiva.

Misera Bianca!

Nondimeno, nel punto istesso in cui egli penetrava, alla maniera di
un ladro, entro quella stanza indifesa; dall’uscio di un’altra quasi
contigua erasi sporto inanzi un volto feminile che lo aveva seguito
avidamente degli occhi.

Era la donna dagli sguardi di fuoco, che — non sì tosto l’ebbe visto
sparire — si ritirò frettolosa e disparve a sua volta.

L’ambiente, d’onde aveva fatto capolino, era quel medesimo, che, pochi
momenti prima, la vecchia camerista aveva designato al cavalier nero
come la stanza di donna Olimpia.

Quella donna era, dunque, Olimpia Marazzani.

A nissuno de’ nostri lettori sarà, per certo, caduto di memoria
l’omicidio perpetrato dal marchese Giovanni Anguissola su la persona
dello abate commendatizio di San Savino; cagione del delitto lo avergli
costui rifiutato in moglie e sottratto una giovine donna, ch’era tenuta
in conto di sua sorella.

Rammenterà parimenti il lettore come — qualche tempo prima di
tale tragedia — l’abate menasse segretamente quella fanciulla a
Castell’Arquato per affidarla alla contessa Sforza e come dappoi non se
ne sapesse più nulla.

Ora l’abate commendatizio di San Savino era il Giambattista Marazzani e
la sua pretesa sorella questa medesima Olimpia, che si fregiava del suo
istesso casato.

A donna Costanza di Santafiora egli non aveva taciuto il grave motivo
che lo consigliava ad allontanare Olimpia dal proprio fianco. — In un
segreto colloquio, le aggiunse ancora che l’amore dell’Anguissola era
un amore sacrilego, infame, e che s’ella gli avesse prestato ogni suo
appoggio per salvare quella disgraziata, non se ne sarebbe mai dovuta
pentire, poichè questa apparteneva, in qualche modo, alla di lei stessa
famiglia.

La contessa di Santafiora avrebbe desiderato saperne da vantaggio e
penetrare meglio addentro i misteri, che comprendeva nascosti in quelle
mezze rivelazioni; ma — obiettandole la inviolabilità del confessionale
— l’abate le mozzò le dimande sul labro.

Unica sua speranza egli diceva essere quella che la giovinetta
potesse invaghirsi di qualcun altro e andare prestamente a marito.
— Nè reputava la speranza troppo ardua a realizzarsi, dappoichè —
sebbene fosse parsa dar retta alle smancerie ed alle calorose proteste
dell’Anguissola — egli tenesse prove più che bastevoli a farlo certo
che non lo amava punto.

Olimpia, aggiungeva, essere una fanciulla bisbetica, mutevole, di
tempra ardente ed imperiosa, bisognevole di espandersi, vaga di
emozioni, di affetti. — Un nonnulla tornar forse bastevole a dare un
tutt’altro indirizzo alle apparenti aspirazioni del suo cuore.

Tale la pittura che l’abate aveva fatto della sua pretesa sirocchia in
sul punto di lasciarla nella rôcca di Castell’Arquato, ignaro allora di
non doverla rivedere mai più.

Nè la pittura potevasi tacciare di esagerazione. — Al contrario. — Il
colorito n’era piuttosto pallido e freddo, talchè — per conseguire
una tanto maggior somiglianza con l’originale — sarebbe convenuto
innalzarne le tinte ad una gamma assai più calda e smagliante; sarebbe,
in altri termini convenuto dire apertamente che Olimpia non era solo
capricciosa e versatile, ma incline addirittura alla dissolutezza, di
quella identica tempra, onde — a diciott’anni — dovettero esser formate
le Teodore, le Messaline, le Giulie.

Invanamente rattenute, le più perverse tendenze ribollivano minacciose
entro il suo vergine cuore, impazienti di sfogo — sino da’ suoi primi
anni, gli istinti predominanti del male s’erano in lei sviluppati con
una spaventevole precocità. — Non l’età, tanto alla sua superiore,
dello abate di San Savino, non il suo sacro carattere di sacerdote,
non quello ancora più sacro di fratello, l’aveva impedita da laide
concupiscenze sopra di lui; dal fargli scellerate, infami proposte,
ch’egli inorridito respinse, cominciando da quell’ora a farla oggetto
della più oculata e assidua vigilanza.

Moralmente, Olimpia potevasi considerare come fanciulla devoluta,
predestinata alla colpa sin dal suo nascere e, se non era peranco
materialmente caduta, lo doveva solo alla vigilanza fraterna, che
glie ne aveva sempre fatto sfuggire le occasioni, ma, alla prima le si
offerisse, non c’era a dubitare che dovesse affrettarsi di profittarne.

E l’occasione non le mancò.

Saremo brevi.

Ne’ primi tempi, dacchè trovavasi refugiata in Castell’Arquato e
poco dopo che ebbe ricevuto il triste annunzio del tragico fine del
suo supposto fratello; Pierluigi Farnese — che, insieme a Pellegrino
di Leuthen, s’era recato ad esaminare le cave delle Ferriere — si
condusse, nel retrocederne, a visitare la sorella Costanza.

Fu allora ch’egli vide Olimpia per la prima volta e — trovandola di suo
gradimento — con la subitaneità di propositi ch’eragli tutta peculiare,
formò sopra di lei uno iniquo pensiero, identico a quello, che adesso
lo aveva sospinto nella stanza di Bianca.

Ed allora riuscì pienamente ne’ suoi progetti.

Per quel pudore, che sta alla vergine, qualunque ella sia, come il
profumo a’ fiori di primavera; Olimpia — sorpresa in cotal modo, nel
cuor della notte, senza una tutela, uno scampo — provò da principio un
moto istintivo di repugnanza e paura; ma, cedendo bentosto alla propria
natura ardente e sensuale, finì a lasciarsi agevolmente convincere ed
a sminuire la responsabilità e la colpa del suo violatore col farsene
complice quasi volontaria.

Era la opportunità già da sì lungo tempo avidamente sospirata, che
le si affacciava di un tratto, sotto forma inattesa, in modo affatto
imprevisto.

Ed ella l’afferrava con gioia.

Dieci giorni si trattenne Pierluigi a Castell’Arquato e furono per
Olimpia dieci giorni di paradisiaca felicità. — Immemore del passato,
noncurante dello avvenire, ella non viveva che per la inebriante
fruizione di quel fuggiasco presente; — respirava a pieni polmoni
la misteriosa atmosfera pregna di rischi, d’infamia e di soffocati
rimorsi, per mezzo a cui si svolgevano i suoi primi e colpevoli amori.

Negli eccessi, ne’ raffinamenti del male, cui talvolta sa spingersi
l’uomo, si riscontra una delle principali distinzioni fra la sua razza
ragionevole e quella dei bruti. — In questi l’istinto non presenta
che un unico plasma per ogni genere: la tigre è più feroce del lupo,
il lupo più rapace della volpe; ma non si dà tigre più feroce della
tigre, non lupo più rapace del lupo: l’istinto bestiale è un livello.
— L’uomo, per converso, trascende fino a’ più sconfinati estremi del
mostruoso e porge esempi di sì completi pervertimenti del senso morale,
che la ragione istessa non s’inchinerebbe ad ammettere possibili, se
non coatta dalla irrefragabile evidenza de’ fatti.

Le più strane e ributtanti anomalie dello spirito umano si rivelano
sovratutto nel senso voluttuario.

Si dànno esseri così profondamente corrotti e disformi, cui non induce
godimento e diletto chè la infrazione d’ogni più ovvia disciplina, i
quali — nel soppeditare un dovere, nel ledere una legge di natura o di
consuetudine — provano un piacere trionfante e supremo.

Olimpia Marazzani era di codesta tempra.

Se l’uomo, che l’aveva vituperata e perduta, fosse stato un giovine
gentiluomo suo pari, padrone di sè e del proprio avvenire, che
l’indomani avesse potuto proporle una riparazione con l’offerta del
proprio nome e della propria mano; o che ella lo avrebbe mortalmente
aborrito, se non vi si fosse prestato; o, quando sì, che lo avrebbe
probabilmente preso in uggia il dì dopo, per correre in busca di
altri amori, di altri piaceri, di altre emozioni. — Il saperlo, per
contro, legato e per sempre ad altra donna, marito, padre e, per
conseguenza, nella impossibilità di redimerla, attalchè egli pure,
quando l’avvicinava, s’esponeva ad un rischio, sfidava la reprobazione
del mondo, gittava, a sua volta, un guanto in faccia alla società; le
infondeva una passione esclusiva, infiammata, violenta; le figurava il
suo seduttore come un arcangelo decaduto, ribelle al suo Dio; come uno
sfolgorante genio del male, che fulmina desolazione e terrore ovunque
passi e non dà gioie — gioie arcane, imperscrutate, terribili — che ai
pochi eletti dal suo sacrilego amore. — Ed ella se ne sentiva rapita,
affascinata ed insieme fieramente gelosa. — Non avendo diritti da far
valere sopra di lui, dove si fosse vista derelitta e spregiata; non
avendo speranze ch’egli potesse inalzarla sino al suo fianco; altro di
meglio non sapeva che tenerselo stretto entro l’abisso nel quale erano
insieme tracollati; se c’era fango nel fondo, affondarvisi insieme.

Il solo pensiero che la sgomentasse era quello di rimanervi sola.

Questo ne spiegherà al lettore il contegno, quando — parecchi mesi dopo
il primo incontro con Pierluigi — ritornato egli a Castell’Arquato
per lo sposalizio di suo nipote Sforza Sforza di Santafiora, lo
vide adocchiare concupiscente la giovine della Staffa, al suo primo
ingredire nel castello, e farla oggetto di segreti colloqui col tedesco
di Leuthen.

Olimpia Marazzani era in preda ai morsi della gelosia.




CAPITOLO XIX.

Turpe mercato.


Quantunque la eccessiva stanchezza fisica e morale, che opprimeva la
nostra povera Bianca, l’avesse forzata — prima ancora che annottasse —
a gittarsi sul letto così vestita com’era ed a pigliarsi alcuni momenti
di sonno; questo era stato troppo breve, leggero ed intermittente,
perchè valesse a ritemprarle le forze estenuate. Ella ne aveva tuttavia
mestieri di molto e tranquillo e completo. Ed è però che — a pena donna
Costanza l’ebbe lasciata nuovamente sola — non indugiò un istante a
spogliarsi sin dell’ultimo indumento, com’era costume de’ tempi, ed
a corcarsi di ricapo, e questa volta, non sopra, sotto le lenzuola, e
quasi immediatamente si addormentò.

Quel mistero tutto psichico, che si chiama il sogno, imperscrutato
pur sempre, malgrado sia questa nostra l’età delle analisi e
delle esplicanze, volle aggiugnersi al sonno riparatore del corpo,
confortando lo spirito affievolito della gentile dormiente d’imagini
gioconde d’amore.

Ella sognava del suo Neruccio.

Sel mirava dinanzi sanato delle sue ferite, bello di tutta quella dolce
e pensosa bellezza, che — al primo vederlo — le aveva ispirato pensieri
tanto soavi. Egli le stringeva la destra, le fissava teneramente i
suoi due grandi occhi bruni negli occhi e — ricordandole le solenni
promesse tra loro scambiate nel tugurio del vecchio Rinolfo — le andava
mormorando sommesso:

— Il momento è venuto di mantenerle!

Cullata da sì deliziose illusioni, l’anima della giovinetta, immemore
delle patite sofferenze, aliava beata per mezzo un eliso tutto
splendori, inni, profumi. Un calore sottile sottile, un senso mite di
voluttà celestiale, le s’insinuava, le repeva, grado grado, per tutte
le fibre. Agitandosi mollemente sul fianco, ella scuopriva in parte di
sotto le coltri i tesori della sua vergine persona e — come volesse
riafferrare qualche amata e fuggevole visione — stendeva le braccia
frementi ed allungava le mani.

In uno di questi suoi moti incontrò alcunchè di morvido e di villoso,
che le fece ritrarre repugnante la mano e la svegliò di sobbalzo.

Si guardò attorno spaurita e scorse al suo fianco un uomo, cui, della
mano, aveva senza dubio sfiorato la barba.

Mezzo svestito, scalmanato in faccia, con le narici convulse, la bocca
semichiusa, il respiro callido e stridente; quell’uomo le stava sopra
piegato ad arco, figgendo su le parti svelate del suo bel corpo un
occhio iniettato di sangue e pregno di concupiscenza.

Quell’uomo era Pierluigi Farnese.

La fanciulla che — riconoscendo in lui il temerario, da cui era stata
inseguita su la piazza della cattedrale di Parma ed alle cui insidie
l’aveva sottratta il suo Neruccio — indovinò subito qual sorta di
pericolo la minacciasse; allibì di terrore nel rivederselo al fianco
e — come la mimosa, che, al più leggero contatto, raggrinza il pudico
fogliame — si aggomitolò frettolosa sotto le coperte e se le strinse
tremante sopra le spalle, mettendo un piccolo strido.

— Non strillare, sai, bella mia! — le intimò tosto il Farnese, mentre
studiavasi inutilmente d’insinuare le dita fra le lenzuola — se meni
romore, e’ sarà fiato sprecato per te e pazienza perduta per me, cose,
affè mia, nè gaie, nè profittevoli per tutti due!

E rintostò ne’ suoi tentativi.

— Angioli del paradiso — balbutì la giovinetta schermendosi — ma chi
siete voi?.... ma perchè qui?.... cosa volete.... cosa pretendete da
me?

— Chi mi sia non ti dèe premere — fece il duca, con un suo ghigno che
mal giungeva ad atteggiarsi a sorriso — un gentiluomo, un cavaliere,
per certo... mi si scorge in volto.... ho il naso ducale!.... e, quel
che più rileva, un uomo che t’ama, che è pazzo, farnetico, delirante
per te!.... cosa voglio?.... ingenua domanda, in mia fede!.... e cosa
posso volere da una bella, da una vaga, da una seducente creatura quale
tu sei?

— Angioli del paradiso — ripetè la fanciulla, tremando a verga e
cercando ravvilupparsi sempre più tra le coltri.

Ma Pierluigi era riuscito nel suo intento di cacciarvi sotto una mano;
sicchè — stringendone solidamente un lembo nel pugno le trasse a sè
con impeto sì violento, che la poverina — per non rotolare travolta giù
dal lettuccio, — dovette allentare la mano e lasciarsele strappare di
dosso.

Il duca le gittò lontano, in un canto.

Vedendosi così denudata sotto il fuoco di que’ sguardi procaci, al
contatto di quelle mani insolenti; la misera s’accosciò restringendosi
tutta sopra sè stessa e velatosi il volto, ruppe in singhiozzi.

Pareva la statua della disperazione.

Pregustando le ebrezze del suo trionfo, il Farnese la contemplava con
un sorriso di satanica gioia.

Era infernale a vedersi.

Ricordava Mefistofele dinanzi a Margherita.

Quello istesso piangere, quello istesso angosciarsi della sua vittima,
gli tornavano sovrammodo cari, perchè, in tal guisa, questa sempre più
si affiochiva e si rendeva inetta a resistergli.

Impaziente d’ogni maggiore indugio, fe’ un moto inanzi per stringersela
fra le braccia. Ma, in quel medesimo punto, qualcuno ne lo rattenne,
battendogli sovra una spalla.

Pierluigi si volse come tocco da un serpe.

Olimpia Marazzani gli stava di fronte.

— Tu qui? — sclamò egli stizzito ed interdetto.

— Ti dò noia, eh! — gli rispose quella, crollando il capo
melanconicamente — oh, cotesto è l’amore che tu m’impromettesti!...
io, per elezion del mio core.... ripeto parole tue.... non mi avrò
mai altra donna fuori che te!.... per quanto me lo consentano quelle
uggiose convenienze, que’ maladetti doveri, che m’impone il mio stato,
io non sarò mai che tuo, sempre tuo, tutto tuo!... ed ecco in qual
maniera adempi alle tue promesse!... qui, sotto lo istesso tetto che
ne ricovra, sotto i miei occhi medesimi, tu ne vagheggi, ne ricerchi
un’altra, mi preferisci un’altra, mi confetti con lo scherno il
disprezzo!

— Evvia! — fece il Farnese imbarazzato abbassando i suoi sotto gli
sguardi fulminanti di quella donna, che lo dominava — non pigliare le
cose per codesto verso.... tu cadi in abbaglio....

— Qualche menzogna, forse? — lo interruppe fieramente la sua ganza.

— No, no, — soggiuns’egli, forzandosi a sorridere, nella speranza di
volgere la faccenda in burletta — ma tu mi sospetti a torto.

    Perocchè amore no se po vedere,
    E no se tratta corporalemente.

come cantava Pier delle Vigne!

— Scherzi?

— Dico solo, che tu non sai mettere il debito divario fra amore e
capriccio.

— All’incontro ce ne metto uno immenso; ma quale il capriccio?....
quale l’amore?....

— Nol chiederesti, Olimpia, se ti fosse data maniera di contemplare te
stessa negli occhi.

— E perchè cotesto?

— Perchè in que’ tuoi occhi, che paiono diamanti, c’è dentro trasfusa
tutta l’anima tua.... un’anima grande, bella, robusta.... un’anima
di fuoco, che non cura gli ostacoli, che non teme i perigli, che, nel
caso, saprebbe tutto sfidare: la morte come l’infamia... ed è all’anima
soltanto che il vero amore si apprende... mel credi?....

E — in così dire — la ricinse del braccio e le stampò su le labra
un ardente bacio. — Amava dassenno e quasi ugualmente temeva quella
donna ancora sì giovine e già sì resolutamente determinata al male;
gl’ispirava un misto tra paura e rispetto, e però si avvolpacchiava
del suo meglio a mitigarne, con le blandizie, il troppo giusto
risentimento.

Ma non per questo Olimpia smise il corrucciato cipiglio. Anzi:

— Per la croce! — soggiunse, respingendolo — non intendo l’amore in
codesta maniera.... non ne accetto le speciose tue distinzioni fra
spirito e materia... per me vale tutt’uno: è uno assieme individuo,
che ha mestieri di questa quanto di quella... o dimmi: cos’è
altrimente?.... amor di spirito, platonismo insensato!.... amor di
materia, istintiva brutalità!.... dunque?....

— E allo istinto nulla concedi?

— Ah, cotesto solo ti muove?

— Questo solo, tel giuro!

Durante un cosiffatto colloquio, la misera Bianca, che — intravedendo
nella sopravvenuta un angelo tutelare — aveva ripreso un cotal
po’ di coraggio; trascinatasi ginocchione sino dappiè del letto,
dove giacevano le sue vesti su di una sedia, se n’era impadronita
furtivamente e se ne andava cuoprendo.

Olimpia, cui le proteste di Pierluigi parevano inclinare a più mite
consiglio, talchè si disponesse a lasciar secolui quella stanza, forse
per trarlo a la propria, volse fatalmente in quel punto gli sguardi
sopra di lei.

Il sentimento di pudicizia, che traspariva vivissimo dalle oneste
sembianze e da ogni moto dell’amabile giovinetta, mentre — con l’ansia
del naufrago, che tocchi della mano la proda salvatrice — si affrettava
ad occultare le proprie nudità; le produsse il medesimo effetto di una
rampogna. — Si sentiva umiliata da un sì modesto e verecondo contegno
tanto disforme da quello, ch’ella stessa aveva serbato in non dissimile
circostanza. — Quella fanciulla tanto tenera del proprio onore, da
ributtare gli amplessi di un uomo con sì disperata insistenza e da
sorridere di gioia alla sola speranza di poter sfuggire a’ suoi baci;
le pareva aver l’aria di volerle infliggere una severa e sferzante
lezione e — con la mobilità di affetti che è tutta propria delle nature
violenti — dimenticava lo sfregio sanguinoso, che il suo amante era
stato sul punto di farle; dimenticava la sua gelosia; dimenticava
lo stesso suo amore; per non risentirsi che di quella tacita ed
involontaria censura ed opporvi un odio profondo.

Sì; ella detestava mortalmente quella dolce ed incolpevole creatura,
solo perchè la riconosceva tanto migliore di sè. — Si pentiva
d’essere intervenuta ad impedire al suo amante che avesse il tempo di
contaminarla, di perderla per sempre. — Era tentata di scappar via da
sola, per abbandonarla di nuovo in balìa del suo destino. — La irritava
la parte di genio benefico, che, suo malgrado, era venuta ad assumere
verso di lei.

Un pensiero d’inferno le traversò, intanto, il cervello, e:

— Non era che un capriccio? — chiese ghignando al Farnese.

— Un capriccio, un mero capriccio soltanto! — le rispose questi
sollecito, rianimato da quel ghigno, che gli parve un sorriso.

— Ebbene — ella soggiunse — vuoi inaudita prova di amore?... io stessa
ti aiuterò a levartene il ruzzo!

— Tu? — sclamò strabiliando il Farnese.

Bianca, che — a malo stento — era pervenuta ad allacciarsi la gonna, si
arrestò, a quelle parole, come pietrificata. — Nel suo candido cuore,
nel suo vergine intelletto, non c’era posto per sì nefanda mostruosità:
si rifiutavano a capirla.

— Tu? — replicò il duca.

— Sì, sì — affermò Olimpia, fulminando la poveretta di una trionfante
occhiata di dileggio — io t’amo al punto, vedi!.... da volere tutto
quanto a te piaccia... e poi quella spigolistra mi è uggiosa....
l’aborro!.... sentirla fremere, palpitare, dibattersi inutilmente,
consumare i vani suoi sforzi sotto la stretta delle mie mani; è una
voluttà anche questa!... ed io ti aiuterò, sì.... ma ad un patto....

E si chinò a mormorargli alcune parole all’orecchio. — Quindi:

— Ah, per la croce! — soggiunse, scuotendo il capo in atto di sfida
— ella fa la ritrosa?... si estima da più del suo sesso?... minaccia
strillare?.... io ne soffocherò le grida, sta certo!....

E si avventò al letto come una belva.

Le parole da lei susurrate all’orecchio di Pierluigi erano queste:

— Ora tua, poi.... morta?.... me lo prometti?

Pierluigi aveva annuito del capo.

Si può dire, per conseguenza, ch’egli si accingeva a violare un
cadavere.




CAPITOLO XX.

Per forza.


Consegnata la sua padroncina alla contessa di Santafiora, il nostro
buon Terremoto altro pensiero non s’era più dato che di concedere
qualche po’ di riposo a quel suo poveraccio di corpo tutto ammaccato e
pesto dalle fatiche, ed una maragnuola giacente in un canto del cortile
glie ne aveva pòrto il comodo e l’occasione. — Addormitosi su quella,
poco dopo il suo giungere al castello, aveva tirato via un bravo sonno
da ghiro sino al calar della notte.

Imbruniva appunto, quando un calpestìo concitato lo risvegliò.

Volse l’occhio d’onde procedeva ed — in quel dormiveglia, che, dopo
un sonno durato oltre il comune, precede sempre il completo ridestarsi
— credette intravedere mastro Pellegrino di Leuthen, avviato verso il
portone d’uscita.

Era, infatti, il tedesco, che si rendeva al quartiere di Monte
Aguzzo, per informare il suo degno padrone dell’esito felice della sua
spedizione.

Il gigante — dopo un par di protendimenti e quattro sbadigli — stava
forse per voltar fianco sul suo giaciglio e fare a ripiglino con
Morfeo; quando un secondo calpestìo venne a mantenerlo sveglio e ad
attirare di nuovo la sua attenzione.

Questa volta partiva d’in su le scale e, sebben frettoloso, leggero
leggero come se di qualcuno che camminasse su la punta de’ piedi.

Aguzzò egli lo sguardo trammezzo il morente barlume e — con suo grande
stupore — vide sbucare di sotto il loggiato ed inoltrarsi alla sua
volta una paurosa figura d’uomo tutto scuro come la notte imminente e
con la buffa calata.

Era il Cavalier Nero, che discendeva dalla misteriosa sua visita alle
stanze di Olimpia.

Terremoto, messo in curiosità, si tenne quatto a suo luogo, sbirciando
di sottocchi il sopraggiunto. Il quale — attraversato il cortile in
tutta la sua ampiezza — si dètte a sguaraguardare d’ogn’intorno tra’
fessi della visiera, come se in busca di alcunchè, e ad aggirarsi da
destra a manca, sino a che venne a trovarsi sopra di lui.

Allora si curvò ad osservarlo.

Arcangelo Rinolfo chiuse gli occhi.

Quando li riaperse, vide che quello, reputandolo forse addormentato,
gli si sdraiava accanto su lo stesso suo cumulo di paglia.

Terremoto sentì un brivido corrergli per tutte le ossa.

Poco stante, il suo compagno di giaciglio prese, o finse prendere sonno
a sua volta e si mise a russar leggermente.

Il colosso non era niente tranquillo.

Malgrado il suo coraggio a tutte prove, dovuto per metà alla fenomenale
sua forza e, per l’altra allo strambo prognostico di Gerolamo Cardano;
era egli pure superstizioso e credenzone come i più del suo tempo e
quella specie di negro fantasma, che s’era andato a corcare al suo
fianco, non lasciava di suscitargli qualche cattivo pensieraccio per lo
capo.

Il demonio tendeva, a volte, di così brutte trappole!

Però decise di non recargli la minima noia, per quello adagio eredato
senza benefizio d’inventario da’ romani, che insegna a guardarsi dal
cane che dorme; ma e di tenersi in su l’allarme e di non chiudere più
occhio.

In tal modo, vide rientrare tutti quanti coloro ch’erano stati di fuori
alle bombanze dello sposalizio; e il cortile stivarsi alla lettera
di una calca di gente d’ogni cartiglia; ed i signori salire agli
appartamenti; poi, man mano, diradarsi anco gli altri per rendersi a’
respettivi dormitori; quindi — ai rintocchi del cuoprifuoco battuti
dalla campana del castello, cui facevano eco le altre diverse del borgo
— le scòlte dare il loro grido di veglia; cigolare le catene del ponte;
i lumi andare, venire, oscillare e, poco a poco, l’un dopo l’altro,
smarrirsi ed estinguersi; e finalmente tutto rientrare nelle tenebre e
nel silenzio.

Circa mezz’ora dopo, una ronda lo rasentò.

Un degli armigeri — non badando che a lui — chiese a un compagno:

— Chi è cotesto elefante?

L’altro rispose:

— Gli è il familio della signorina di Camia arrivata oggi stesso al
castello.

— Briaco?

— Non so: dorme da stamattina!

— Per Iddio.... peggio d’una marmotta!

E tirarono di lungo senza nemmanco avvertire l’altro dormiente.

Terremoto ne trasse argomento per pigliarne un sospetto anche maggiore
e — senza considerare come l’ombra istessa dello immane suo corpo
proiettata sul suo compagno di letto, fosse stata quella che aveva
nascosto costui agli occhi de’ soldati di ronda:

— Poffare! — andava mulinando fra sè — che, per costoro, e’ si sia
reso invisibile? gli è uno spediente cotesto, a cui il padrone di giù
ricorre assai volte... uno de’ mezzi meglio acconci... quello di non
vederlo!

E, intanto — biascicando fra i denti il _vade retro Satana_ — lo
dardeggiava di frequenti occhiate furtive.

In questa, l’oggetto delle sue paure parve scuotersi leggermente come
si risvegliasse in quel punto e, adagino adagino, curandosi di non
muovere il minimo rumore, si levò ritto su in piedi e lentamente, quasi
camminasse su le ova, s’avviò alla chiostrata, ch’era vestibolo alle
scale.

Ai sospetti, alle superstiziose apprensioni, tenne dietro, nell’animo
del giovine Rinolfo, una intensa, indomabile curiosità. — Quell’uomo
— seppur tale — che aspettava la quiete e il buio della notte per
rimettersi in moto, non poteva mirare a nulla di rassecurante. — Forse
quel suo cauto e sospettoso nottivagare racchiudeva un pericolo, una
minaccia per qualcuno. — Ned egli era di tempra da rimanersene in
panciolle ove reputasse altri bisognevoli di aiuto: e poi considerava
trovarsi albergato in casa di buoni amici degli ottimi suoi signori e
forse le tenebrose manovre dello incognito esser rivolte contro taluno
di quelli; e poi gli soccorreva un pensiero anche più spaventoso: ch’e’
fosse un Nicelli inteso a’ danni della istessa sua padroncina.

E — non vi reggendo — surse egli pure guardingo dal suo poltriccio e,
passo passo, si dètte a seguire su per le scale il Cavalier Nero.

Camminavano l’un dietro l’altro, a mo’ di due volpi, studiando,
misurando, pesando ogni lor più lieve mossa, rattenendo il respiro,
quasi fiutando l’aere.

Come toccarono il secondo piano e furono presso la stanza di Olimpia
Marazzani, il cui uscio semiaperto lasciava scappar fuora un largo
sprazzo di luce; il primo si arrestò a specularne lo interno dalla
socchiuditura e — non iscorgendovi nulla — si spinse inanzi resoluto.

La lampada da notte giacente sul tavolino era l’unico oggetto che
potesse testimoniare della presenza di Olimpia. — Del resto, tutto
trovavasi nell’ordine identico di quando egli vi aveva fatto la sua
prima incursione: non tocco il letto, non smossa una seggiola, non
solamente alterata una delle mille pieguzze de’ cortinaggi.

Il Cavalier Nero dovette probabilmente presumere che la donna ch’egli
cercava si fosse ritirata nello spogliatoio; poichè ne aperse l’uscio e
vi entrò.

Ma ivi pure tutto era immobilità e silenzio.

O fosse per spingere sino all’ultimo le proprie investigazioni, o
fosse per nascondervisi nell’attesa di Olimpia, dallo spogliatoio,
l’incognito si cacciò per quel contiguo andituccio, che appariva senza
sfogo e a tastoni ne toccò il fondo.

Intanto, Terremoto — posto a sua volta l’occhio alla semiapertura
dell’uscio esterno — stava inutilmente guatando ed origliando, senza
nulla gli riuscisse nè vedere, nè udire, che meritasse attenzione.

Quando d’un tratto, gli ferì all’orecchio un confuso mormorio di voci.

Sembrava procedere da una vicina stanza, cui pure si giungeva per lo
stesso loggiato su cui egli si teneva in vedetta.

Anche da quella stanza sfuggiva una sottile striscia di luce lunghesso
uno de’ stipiti, il che ne denotava l’uscio non chiuso.

Al bisbiglio successe uno strisciar di piedi, un cigolar di mobili,
come lo strepito di una lotta, ed un lamento, un lamento soffocato, un:

— Vergine Santa! — che gli fece dare un trabalzo al cuore.

In quelle due parole gli era parso riconoscere la voce della sua
giovine signora.

Non stette ad esitare più oltre e.... si slanciò.

Era, infatti, quello istesso momento in cui la svergognata concubina
del Farnese si avventava su Bianca ed — abbrancatala alle spalle — la
rovesciava supina sul letto; mentre l’infame suo amante le cacciava una
mano su la bocca per soffocarne gli strilli.

Un attimo ancora e la misera giovinetta sarebbe stata perduta, perduta
per sempre.

— Inutili squasilli! — le susurrava schernendo la feroce complice di
Pierluigi — o t’accheti, o ti stràngolo!

E questi:

— Bada che qui sono il padrone, che omai nessuno può più strapparti
dalle mie braccia!

— Eccetto me! — sclamò una voce in quel punto.

E i due scellerati rotolarono a un tempo sul pavimento, lasciando
libera Bianca.

Era Terremoto.

Balzato nella stanza al gemito della sua signora, egli aveva sferrato
i due pugni stretti delle sue enormi manacce sul petto di Olimpia e sul
capo di Pierluigi.

I due percossi rovinarono rovesci sul pavimento come se saettati da una
catapulta.

La donna, nel cadere, mise un lagno straziante e... svenne.

Il sangue le eruppe dalla bocca e dalle narici.

Pierluigi, per contro, non ne rimase che sbalordito, sicchè giunse
subito a raddrizzarsi ed a curvarsi sopra di lei, stendendole le
braccia per prestarle soccorso.

Ma una mano ne lo rattenne.

Si volse allora persuaso fosse di nuovo il gigante.

Ma s’ingannava.

Era, invece, il Cavalier Nero, entrato in quello istesso mentre,
per l’usciolino segreto, che — dal picciol àndito in cui lo vedemmo
impegnarsi — ammetteva alla stanza di Bianca.

La giovinetta — sottratta a pena ed in modo sì miracoloso alla propria
infamia — s’era gittata fra le braccia del suo salvatore, il quale —
sorreggendola:

— Scellerato! — sclamava, mostrando il pugno stretto al Farnese.

Il Cavalier Nero accorso al lamento della caduta e che — fuori di
questo — null’altro aveva inteso della scena precedente; alle parole ed
al gesto del colosso ed allo stesso atteggiarsi di Pierluigi sopra di
quella, suppose che il sangue e lo svenimento di Olimpia fossero dovuti
onninamente a quest’ultimo.

Laonde, scuotendogli bruscamente il braccio per cui lo aveva ghermito:

— Ah! — gli disse con voce sorda e minacciosa — messer Pierluigi si
sbizzarrisce nel recare oltraggio alle donne?.... ma bada, che l’esser
duca di Castro e di Nepi, e marchese di Novara, e gonfaloniere di Santa
Madre Chiesa, e spurio rigetto dello stesso pontefice... bada che non
potrebbe bastare a sottrarti alla mia vendetta!

— Strozzatelo, messere! — soggiunse il gigante, dando un passo inanzi —
se vi occorrono le mie mani, eccole tutte e due al vostro servizio.

— Ed io le accetto — fece il Cavalier Nero — ma solo per affidarlo alla
loro custodia.... a voi!

E lo invitò ad impadronirsi dell’altro braccio del duca, mentr’egli
si piegava a raccogliere Olimpia, che giaceva sempre svenuta sul
pavimento.

Intanto continuò a dire:

— Se, tuttavia, o tenta sfuggirvi o solo fa l’atto di mettere un grido;
nessuna misericordia.... servitevene come meglio vi aggrada!

— Oh, non istate in temenza, messere! — sclamò il colosso, stringendo
il braccio del principe sì da illividirgli le carni.

All’aspetto, agli atti, a’ propositi di rappresaglia e di morte di
que’ due sconosciuti, l’uno più misterioso e minacciante dell’altro; il
Farnese — sbiancato in viso quanto il pannolino della sua camiciuola —
si arretrò sgomento, girando intorno sguardi smarriti come in cerca di
refugio e di scampo.

Di prima giunta, gli aveva sorriso il progetto di acclamare a gran
voce i suoi due capitani o le scôlte e provarsi così a volgere in fuga
i suoi due aggressori; ma le ultime parole dirette dal mascherato
al gigante e la costui stretta brutale, glie ne fecero ben presto
abbandonare il pensiero.

Frattanto il primo dei due aveva deposto la caduta su l’uno de’
seggioloni e — con ogni maggiore sollecitudine — le si affaccendava
d’intorno, detergendole la schiuma sanguigna che le bruttava le labra e
studiandosi di richiamarla in sè stessa.

Ma Olimpia non dava cenno di vita.

Allarmato, ansioso, egli le situò una mano sul petto.

Stette in ascolto.

Il cuore le batteva.

Non era morta.

Allora si volse nuovamente a Terremoto e:

— Ditemi ora — gli chiese — cosa contate voi fare?

— Sono il suo servo — disse il gigante indicando la sua giovine signora.

— Oh, fuggire!.... fuggire!... — rispose questa, sostituendosi
premurosa al suo familiare.

— Sul momento?

— Oh, sì.... sì.... sul momento.

— Tale è pure il mio desiderio.... però è mestieri che costui ci serva
di salvocondotto!

— Io? — balbettò Pierluigi, meravigliando.

— Tu stesso — gli rispose il Cavaliere Nero, riafferrandolo per
l’altro braccio, mentre traeva di sotto il ferraiuolo un lungo ed acuto
pugnale.

Pierluigi allibì.

— Ho da lasciarlo? — interrogò Terremoto.

— Sì, basto io solo — gli rispose l’incognito, assumendo un fare più
altiero dacchè lo sapeva vassallo — e poichè la signora vostra può
reggersi in piede e sostenersi, senza uopo di voi, caricatevi madonna
sopra le spalle.

— Colei? — fe’ Terremoto segnando Olimpia.

— Appunto!.... voi mi seguirete con le due dame, io vi precederò con
costui!

— E che pretendete io mi faccia? — chiese tremando il Farnese.

— Oh, ben poco! — gli rispose il Cavalier Nero — ci guiderai sino
alla castellania e là... giovandoti del dominio tuo, come fratello
alla signora del luogo, darai ordine al castaldo di aprirci le porte e
scendere il levatoio.

— E null’altro? — osservò Pierluigi, già un po’ tranquillato dalla
speranza di cavarsene a sì buon patto.

— Noi ti faremo grazia della vita — continuò l’incognito — purchè tu ci
dia modo di uscire issofatto da questo maladetto castello.

— E sia pure.

— E purchè tu medesimo n’esca un tratto con noi.

— Io?

— Oh, so troppo con quale razza di astuti io m’abbia a fare, per
affidarmi alle tue concessioni e promesse!... non saremmo così
sull’impalcatura del ponte, che tu daresti contrordine di rialzarlo,
per precipitarci quanti siamo giù nella fossa, o ci sguinzaglieresti
alle calcagna le tue barbute per acchiapparci!.... ma da galeotto a
marinaro!.... i Farnesi e la volpe sono nati a un sol parto; ma, se
vuoi salva la pelle, dovrai accompagnarci sin dove a noi convenga
lasciarti, securi di poter proseguire il nostro cammino, senza paura di
frodi.... consenti?

— Per forza!

— E, bada, ve’!... non un tentativo di tradirci!... io ti camminerò di
costa con questo ferro sempre snudato nel pugno.... al minimo atto tu
faccia, che solo m’ispiri un dubio, un sospetto, e te lo pianto quanto
è lungo nel dosso.... m’intendi?

— Eh, gli è chiaro... ma, penso, ho a scendere, ho ad uscire in questo
arnese.... in semplice farsetto.... senza nulla in capo?.... lasciate
almanco....

— Oibò, oibò! — lo interruppe l’incognito, girandogli su le spalle il
proprio ferraiuolo — prenditi questo; tiratene il capperuccio sul capo,
e non pensar altro!... il verno è ancor lontano e non c’è rischio ti
buschi imbeccate!.... ti sta bene così?

— Eh, per forza! — replicò di malumore il Farnese, avviandosi fuor
della stanza, incalzato da presso dal Cavalier Nero.

Terremoto — trattasi in groppa Olimpia sempre priva de’ sensi —
tenne loro dietro, insieme a Bianca, che, intanto, erasi data cura di
completare il proprio abbigliamento.

Mille argomenti di dispetto s’accavalciavano nel torbido cervello
di Pierluigi: avrebbe pur voluto trovar maniera di uscire con manco
sfregio da quella umiliante sua situazione; ma comprese facilmente come
ogni resistenza gli tornasse impossibile, azzardoso e pieno di pericoli
ogni altro tentativo.

E si decise a subir rassegnato la propria sorte.

Scesero pian pianino ed in silenzio le scale e traversarono cauti il
loggiato fiancheggiante il cortile sino alla castellanìa.

Ivi Pierluigi chiamò sommesso il castaldo, il quale toltosi di letto e
fattosi in su l’uscio, agli ordini del possente fratello della signora,
non seppe opporre la menoma osservazione.

Abbassò il ponte e schiuse la porta.

Nell’uscire, il Farnese, dietro assenso del Cavalier Nero:

— Rientrerò fra due ore — gli disse — per segnale darò tre lunghi
fischi.... sta in guardia.

Ed uscirono tutti cinque all’aria aperta.




CAPITOLO XXI.

Gli affari di Stato.


Dalla riva sinistra dell’Arda, i nostri tre fuggiaschi, con Pierluigi
Farnese come mallevadore e Olimpia sempre recata in collo da Terremoto,
presero a ponente, per un angusto sentieruolo che, dopo non quattro
miglia di cammino, li condusse a breve tratto da Vigolo de’ Marchesi,
su la destra della Chiavenna.

Al di là di questo torrentello sorge un chiostro di Benedettini
erettovi nel secolo XI da Oberto II Pallavicino.

Un uomo stava sdraiato a piedi di una grossa quercia che velava del
suo fogliame uno de’ fianchi di quel monistero, ed al cui tronco erano
allacciati per le briglie due cavalli insellati.

Giunto su la sponda del torrente e messo piede nel suo alveo, che,
in quella stagione, trovavasi completamente a secco; il Cavalier Nero
mandò fuori dal taglio della celata un acutissimo sibilo, inteso a pena
il quale, l’individuo corcato si rizzò di repente e, staccati i cavalli
dall’albero, s’avanzò in direzione della Chiavenna, menandoli a mano.

Il Cavalier Nero si volse quindi al Farnese ed:

— Eccoci giunti! — gli disse — ora sfido te, sfido i tuoi cagnotti,
sfido l’inferno, ad aver mie novelle.

— E son libero? — domandò Pierluigi con ansia.

— Sì — gli rispose quello — puoi ritornarne al tuo covo.

E — strappatogli il ferraiuolo di dosso — lo respinse con piglio
disdegnoso.

Il Farnese divorò il suo maltalento per tema di peggio e — senz’altro
aggiugnere — si avacciò a ribattere la strada percorsa per restituirsi
a Castell’Arquato.

IL Cavalier Nero lo segui dello sguardo sin che gliel permise la notte,
poscia, volgendosi a Bianca:

— E voi, madonna — le chiese — per qual parte sareste diretta?

Incerta della risposta, la fanciulla guardò trepidamente il suo
familiare quasi per dimandare il consiglio.

— Eh, messere — sclamò allora costui, invitato a rompere il silenzio da
quello sguardo della sua signora — egli è che qui madonna la non ci può
rimanere, poichè quel satanasso non istarebbe dal rimetterle le unghie
sopra, e che nemmanco a casa sua la ci può ritornare, poichè vi si
trovino altri suoi malevoli forse ancor peggio a temersi: per cui e’ mi
sembra uno imbroglio, ma di que’ più maladettamente arruffati che mai
si diano da distrigare!

— Altro di meglio io non saprei — interloquì in quel mentre la stessa
Bianca — chè ricovrare presso li miei zii di Perugia.... e’ sono omai i
soli congiunti che tuttavia mi rimangano.

— E voi corrervi tosto, madonna — cominciò a dire con grande animo il
dabben Terremoto — ed io sempre servirvi di guida....

Ma s’arrestò d’un tratto perplesso e:

— Gli è, piuttosto — soggiunse con voce raumiliata — gli è ch’io ci
vedo di mezzo due grandi e grosse difficoltà!

— Quali? — interrogò il Cavalier Nero.

— La prima che non c’è a contare madonna possa trascinarsi sin là, così
appoggiata al mio braccio, alla bella pedona.... e la seconda....

— La seconda?

— Eh, la seconda che nè lei ned io abbiamo intorno nemmanco la croce di
una baiocchella.

— Per inquanto a ciò — fece nobilmente l’incognito, togliendosi di
scarsella quella medesima borsa, d’onde aveva tratto le monete date
alla vecchia camerista ed offrendola a Bianca — madonna non vorrà farmi
lo sfregio di rifiutare....

— Oh, messere... volle interromperlo la giovinetta.

Ma quello prosegui:

— Posso conoscere il vostro nome?

— Bianca della Staffa — gli rispose la fanciulla.

— Nepote a messer Giovanni di Camia — aggiunse premuroso il gigante.

— Ebbene, madonna Bianca — conchiuse il Cavalier Nero — que’ vostri
zii, presso cui intendete recarvi non mancheranno, vuo’ credere di
sodisfare il picciol debito che vi propongo contrarre verso di me.

— E a chi dovranno spedire il valsente? — dimandò Bianca, accettando
questa volta la borsa, che le veniva profferta in modo tanto squisito.

— Al Cavalier Nero — rispose l’incognito — nella torre di Gropparello.

— Sarà fatto, messere! — asseverò Bianca.

— Ed in quanto al modo di viaggiare — continuò quello accennando
all’uomo, che s’era, intanto avvicinato con le cavalcature — io
dispongo di due corridori; ma, siccome madonna è tuttavolta svenuta,
l’uno non m’è più necessario e di buon cuore ve l’offro.

— Oh, messere.... — sclamò Bianca confusa da tanta cortesia, volendo
forse affacciargli qualche obiezione.

Ma quello:

— Me lo rimanderete con la persona che si avrà incarico di riportarmi
il danaro.

— A codesto patto — fece la giovinetta — nol saprei rifiutare....
accetto e ve ne ringrazio.

— Ed ora, — riprese quello, balzando in arcione — non più indugiare un
momento!

E, voltosi a Terremoto:

— Datemi in braccio madonna — gli disse.

Il gigante eseguì l’ordine e del suo miglior garbo s’ingegnò di
adagiargli sul davanti della sella Olimpia de’ Marazzani sempre fuori
de’ sensi.

L’uomo venuto da’ pressi del convento s’era di nuovo allontanato.

— Dio vi governi! — sclamò allora il Cavalier Nero e, dato di sproni,
si gittò verso mezzogiorno traverso le agate che ingemmano il rio
Rimore e le madrepore disseminate fra la Chiavenna ed il Chero sino in
riva al Vezzeno, nel piccolo villaggio di Tavasca, dove si arrestò ad
una casa de’ marchesi Tedaldi.

Rimasti soli, Terremoto aiutò la sua giovine signora a salire in groppa
dell’altro cavallo, poi — montatovi sopra a sua volta — lo spinse di
trotto in tutta opposta direzione, fra Vigostano e la Sforzesca, verso
la grossa terra di Fiorenzuola.

Avventurosamente per Pierluigi, quando fece ritorno alla rôcca di
Castell’Arquato le tenebre erano ancora profonde e tutti più che mai
immersi nel sonno. — Dètte egli i convenuti tre fischi, in seguito a’
quali gli venne calato il levatoio, attalchè potè restituirsi al suo
quartiere senza che — ad eccezione del castaldo, cui pose in mano varie
monete di oro insegnandogli cosa dovesse rispondere se interrogato —
nissun’altro sapesse di quella notturna sua uscita.

La facilità somma con la quale, prima in compagnia, poi solo, aveva
potuto andarsene, e ritornare, era naturalmente tutta dovuta alle
speciali circostanze del momento, al trovarsi la terra in festa ed il
castello popolato da tanto numeroso stuolo di dame e cavalieri, amici
e congiunti de’ castellani. — Altrimenti il solo stridore delle catene
del ponte avrebbe bastato per attirare l’attenzione delle vedette e
degli uomini d’arme ed assoggettare lui e le persone cui forzatamente
aveva giovato di salvocondotto e di scorta al più rigoroso controllo.

Malgrado la rabbia che lo divorava, era tanta la stanchezza indottagli
dalle emozioni della giornata e particolarmente dalla lunga gita
coatta allora fornita che, — a pena in camera — si gittò sul letto e si
addormentò.

L’indomani non riaperse gli occhi che a giorno alto e quando tutto il
castello era già in subbuglio per la improvvisa sparizione delle due
fanciulle.

Donna Costanza, non veggendole apparire in onta dell’ora già tarda,
aveva spedito alle loro stanze le due minori sue figlie, Giulia e
Faustina, le quali l’erano ritornate pallide in viso e tutte tremanti,
dicendole non solo quelle stanze deserte, ma sfatto il lettucciulo di
Bianca e quello di Olimpia no, gli usci d’ingresso e di comunicazione,
aperti, spalancati, le lampane tuttora accese e scoppiettanti consunte.

Donna Costanza inquisì quanto servidorame trovavasi nel castello;
ma nessuno valse a darle il minimo schiarimento. — Fece ricerca
del familio che aveva accompagnato la giovine della Staffa. — Tutti
rammentavano averlo visto dormire s’un mucchio di paglia nel cortile;
ma di raccapezzarlo non ci fu verso. — Chiamò allora il castaldo. —
Indettato da Pierluigi, costui rispose, durante la notte, non essere
uscito e rientrato chè il signor duca di Castro.

Donna Costanza non sapeva più che pensare, e le inevitabili versioni
di un genio malefico, di un gran diavolo sceso dall’alto del mastio,
e scappato via pel fumaiuolo, soffolcendo ciascuna delle due fanciulle
disparse con una delle sue ali da pipistrello, cominciavano a circolare
tra il minutame de’ valletti e delle fantesche.

Pierluigi, che già mulinava entro sè di muovere a questo e quello
dimande, per tentare se pure gli riuscisse scuoprire chi fossero i due
temerari, che lo avevano in modo sì umiliante oltraggiato e schernito,
— non a pena ebbe sentore del turbamento e dell’agitazione della
sorella, che vi renunziò, per tema di non richiamarne i sospetti su di
sè stesso.

Nullostante, non volendo renunziare del paro al desiderio che lo
pungeva e di riavere Olimpia sua, e d’impadronirsi di Bianca, e di
vendicarsi de’ suoi insultatori; chiamò nuovamente a sè Pellegrino
di Leuthen, il solo che alcunchè di chiaro travedesse in quella buia
faccenda, e gli espose per filo e per segno tutto quanto gli era
accaduto.

Com’ebbe terminato la sua narrazione:

— _Jesus mein god!_ — sclamò il tedesco, giugnendo le mani in atto di
estremo stupore — quanto crante diafole foi afere puttate terre con
pugno, intofinare, intofinare.... essere Derremote, antiche serfitore
pofere Ciofanne li Camie... ma quanto ome fisciere galate, niente
capire... niente sapere fostre penefolensce matonne Olimbia!

— Ed è di costui in particolar modo — fece biecamente il Farnese — che
m’importa conoscere il volto, il nome, la dimora... due cose io voglio:
recuperare Olimpia ed anco quella vostra leziosa nepote dei Camia....
non patirò mai che una meschina feminuccia possa menar vanto d’essersi
in simil guisa fatta giuoco di me: mai!... l’altra: avere in mie mani e
vendicarmi di que’ due manigoldi.... oh, come pagheranno caro il loro
ardimento!... e voi solo, Pellegrino mio, voi solo potete giovarmi a
raggiungere il mio duplice scopo.

— Pellecrine sempre umilissime serfe fostre eccellensce!

— Voi avete l’odorato del segugio, l’occhio della lince, la furberia
della volpe....

— Troppo pone, eccellensce!

— Vi lancerete subito su le loro tracce.... il mio Trentacoste con le
sue barbute verrà con voi, obbedirà ciecamente ai vostri ordini, ed io
non dubito....

— Troppo pone, eccellensce!.... io fare tilicentemente, foi precare Tio
pone risultamente mia spetiscione.

Poco stante, col più lungo e lanternuto dei due capitani di Pierluigi
e una serqua d’armigeri, mastro Pellegrino di Leuthen lasciò la rôcca
per battere le circostanti campagne, promettendo al suo nobile signore,
che, dove gli tornasse di metter la mano su qualcuno degli evasi, o
solo di averne indizio, non mancherebbe di spedirgli tosto un pedone a
dargliene lo annunzio.

Tormentato a un tempo dal livore contro gli sconosciuti che gli
avevano inflitto tanto vilipendio, dal rammarico della sua Olimpia e
dalla foia bestiale, che la vista e il contatto di Bianca gli avevano
eccitato, Pierluigi Farnese — anima cupa e vendicativa se mai ve ne
fu — si contorceva, per così dire, sotto l’ansie cocenti di un’attesa
febrile. — Al più leggero calpestìo di chi entrasse nel cortile, al
minimo rumore che salisse in direzione delle sue stanze, egli supponeva
dover’essere un inviato di Pellegrino che gli apportasse le sospirate
novelle.

Così trascorse tutta la giornata.

A tarda sera, battuto già il coprifuoco, si udì improvisamente il suono
di un corno. Pierluigi trasalì.

Era, senza dubio, l’emissario di Pellegrino.

Il sopravenuto chiedeva, infatti, di lui.

Era una staffetta.

Ma, in luogo di giungere da’ dintorni, come il duca confidava,
procedeva direttamente da Roma ed era apportatrice di una lettera del
Santo Padre.

Paolo III faceva vive istanze al figliuolo di restituirsi
immediatamente a Roma, dove la sua presenza era richiesta da _gravi
affari di Stato_.

Addio amori e vendette!

Comunque di malincuore, — Pierluigi dovette decidersi ad obbedire.

Lasciando presso la sorella i figliuoli e la nuora, che, lo avrebbero
raggiunto più tardi; egli parti da Castell’Arquato, con l’alba del
dì successivo, accompagnato solamente dal suo segretario Apollonio
Filareto e dall’altro suo capitano Alessandro da Terni.

Trentacoste e le barbute rimanevano in giro con Pellegrino di Leuthen
senza che egli potesse averne nissuna contezza. Ed era ciò che
maggiormente il cuoceva.


  FINE DELLA SECONDA PARTE.




_PARTE TERZA._

GUERRA DEL SALE




CAPITOLO XXII.

Questione di tre quattrini.


Entro una delle più splendide sale del Vaticano, nel cui immenso camino
dovuto al poderoso scalpello del Buonarroto arde un fuoco patriarcale,
trovansi raunati quattro eclesiastici intorno l’ampio seggiolone
coperto di cuoio dorato, su cui distende le arruginite membra un
venerando vegliardo, che noi ricordiamo aver veduto altra volta.

Quando non fosse la sua lunga e candida barba, il vigoroso suo naso, la
sua fronte scappante e corrugata, sotto cui balenano due occhi sagaci
ed irrequieti, il tradizionale berrettino bianco, che gli occulta le
calvizie, e lo scapolare di serico sciamito trapunto a chiavi d’oro,
che, dalle spalle, gli s’incrocicchia sul petto; basterebbero a farcelo
riconoscere per Sua Beatitudine papa Paolo III Farnese.

Quell’omicciattolo smilzo, gialluto, butterato dal vaiuolo, tutto
ravvolto in negra veste talare, che siede alla sua sinistra dinanzi
un tavolo, sul quale fanno monte pergamene ed in-folio, e che tiene
continuamente una enorme penna di oca fra dita, cui tormenta co’
denti e, per abitudine, intinge tratto tratto nel calamaio, comunque
non se ne serva; quello è messer Ambrosio Recalcato, suo segretario
particolare.

Dei due porporati, che gli stanno ritti in piedi di fianco, l’uno,
il più basso di statura, il più accincigliato e tutto fronzoli e
catenelle, è quel capo ameno, quel lezioso e galante cortegiano del
veneziano Pietro Bembo, il petrarcheggiante autore degli _Asolani_, che
— per copiare in ogni punto il suo archetipo — aveva cercato, nella
leggiadra e men ritrosa Morosina, la sua Laura di Sade: l’altro è il
sapiente Gerolamo Aleandro, quel medesimo che andò annoverato tra’
più strenui avversari del celebre agostiniano d’Erfurt e che — fatto
prigioniero con Francesco I a Pavia — dovette snocciolare cinquecento
be’ ducati di oro per recuperare la libertà.

Il primo tocca i suoi sessantanove anni, cinquantanove ne conta il
secondo; e pure e’ non portano il cappello cardinalizio che da pochi
mesi; mentre quel giovinetto non ancora trentenne, dall’alta persona,
dalla fulva barba puntata, che sta secoloro confabulando, ne è
proveduto da ben oltre un lustro.

Ma ciò non può destare la minima meraviglia, quando si sappia che
questi è monsignor Alessandro Farnese, uno de’ figli del signor duca di
Castro, il più diletto fra’ nepoti del papa.

— E chi sono, dite voi, messere Ambrosio — domandò Paolo III, voltosi
al protonotario Recalcato.

— Sono: il dottor Marcantonio Bartolini, messer Sforza degli Oddi
e messer Mariano Felice de’ Bizocchetti, che vengono in nome del
priorato.

— Ed a che vengono?

— Allo stesso scopo che trasse qui, nel giugno dell’anno scorso, messer
Lucalberto Podiani e messer Gerolamo Comitoli: per intrattenere la
Beatitudine Vostra s_uper negotio augumenti salis_.

— Non è a credersi quanto cotesta gente dell’Umbrie sia cocciuta e
recalcitrante quando si tratta di piegarsi a’ balzelli.

— Prova evidente di un fatto incontrastabile — fece sorridendo il
forbito scrittore delle _Regole grammaticali_.

— Quale? — gli chiese il pontefice.

— Che non hanno abbastanza sale.... in cervello!

— Dite piuttosto, monsignore — osservò il protonotario — che il sale e’
non lo pagarono sinora che tre quattrini ogni libra.

— Ed io gliel’ho rincarato del doppio — sclamò Paolo III — gran che,
dassenno!.... la questione di tre quattrini....

— Ma di molte libre — soggiunse il Recalcato.

— E perchè se n’hanno giusto a dolere que’ di Perugia?

— Perchè? — gli rispose l’erudito cardinal Bembo — perchè Perugia verso
Roma fu sempre come adesso spagnuoli verso francesi... tra il III ed
il IV secolo prima di Nostro Signore, alleata a’ sanniti, le mosse
guerra per quattordici anni consecutivi e non ci vollero manco di due
sanguinose battaglie per ammansarla; nell’anno 41 parteggiò per Antonio
e per Fulvia contra di Ottavio, il quale non la ridusse a ragione che
ricorrendo a’ sacrifizi umani; nel 1416 sfuggì alla Chiesa per darsi
a Braccio da Montone; poi le si sottrasse di nuovo per amoreggiare co’
Baglioni.... e i Baglioni, credo io....

— Cercano sempre rimetterci lo zampino — concluse il segretario.

— Comunque sia — entrò a dire il cardinale Alessandro — è mestieri
che Sua Beatitudine prenda il partito che giudica il meglio e risponda
qualche cosa a costoro.

— Oh, la risposta è lesta! — soggiunse Paolo III — l’anno cessato
s’ebbe a gittar danaro dalle porte e dalle finestre: il mio viaggio in
Provenza, le feste pel mio ritorno, quelle pel matrimonio di mio nipote
Ottavio con donna Margherita d’Austria, la pazza guerra che ho dovuto
muovere a quello scervellato di Guidubaldo dalla Rovere perchè mi
cedesse Camerino, insomma: un profluvio di spese.... e poi io non vuo’,
certo, smettere da’ lavori del mio palazzo apostolico, perchè codesti
muli dell’antica Etruria ci fanno la bocca brincia!

— Se la Santità Vostra è così decisa — fece Alessandro Farnese — e’ mi
pare che il più spiccio sarebbe riceverli e rinviarli con Dio!

— Ed è ciò appunto che voglio — disse il pontefice.

E — voltosi di nuovo al suo segretario:

— Messere Ambrosio — continuò — fate, dunque, che vengano.

Il Recalcato — ficcatosi la penna inseparabile tra l’orecchia e la
tempia sinistra — uscì dalla sala, con l’aria mesta e compunta di chi
s’accinge a cosa onde già conosce l’esito negativo, e dètte l’ordine ad
un camerlengo d’introdurre i deputati perugini.

Un minuto dopo il dottore Marcantonio Bartolini, Sforza degli Oddi
e Mariano Felice de’ Bizzocchetti si trovavano alla presenza di Sua
Beatitudine papa Paolo III, che si degnava ammetterli al bacio della
santa pantofola.

Vestiti di semplice pannolano nero, con nudo il capo e dimessi nel
volto come negli atti, i tre rappresentanti il priorato di Perugia si
prosternarono dinanzi al pontefice, baciandogli, l’un dopo l’altro,
la punta del piede destro, ch’e’ protendeva s’un cuscino di velluto
chermisino a passamani e nappine di oro: e rimasero in quell’umile
giacitura, sinch’egli:

— Su, su, figli miei — disse loro con la sua voce melliflua ed
insinuante — rimettetevi della persona e sentiamo quale mai grave
argomento vi conduca presso di noi.

— Noi veniamo alla Santità Vostra — cominciò a dire il dottor
Bartolini, rizzatosi pel primo — commessi dal capo del magistrato,
messere Alfano degli Alfani ed anco dal reverendissimo prolegato,
monsignor Mario Aligerio, a deporre ai santissimi piedi della
Beatitudine Vostra una rispettosa e fervida supplica in nome dei
priori.

E s’inginocchiò una seconda volta per stendere al papa un largo piego
di pergamena allacciato in croce da una fettuccia di seta a’ cui lembi
erano saldati grandi suggelli di piombo.

Paolo III non lo toccò neppure della punta dell’indice; ma, con questo,
fe’ un semplice cenno al Recalcato, che s’avanzò sollecito a riceverlo
in suo luogo.

Quindi:

— Qual è il subbietto di cotesta supplica, — chiese dolcemente al
Bartolino, che stava raddrizzandosi di bel nuovo.

— Il sale, Santità — gli rispose questi — il sale sempre!.... con la
eccessiva carestia di tutte quante le biade e questo alidore ostinato
che ne dà il mal prognostico pe’ futuri raccolti; la miseria... una
miseria squallida, sempre crescente, tale da stringere il cuore, domina
su la nostra povera terra, la quale, per via de’ suoi priori ed anco
per l’umile nostro labro; invoca dalla clemenza di Vostra Paternità
un sollievo a’ tanti malanni suoi, col dispensarla dal decretato
soprassello.

— Che il Divino Padre ce ne dia venia. — osservò finalmente papa
Farnese, con un sottile soghigno cui studiavasi dar carattere di
bonario — ma sono, dunque, altrettante pecore e capre i compaesani
vostri, che non si nodriscono altro che di sale.

— Peggio, Santità — insinuò con qualche amarezza Sforza degli Oddi
— perocchè questo loro onninamente non basti e se ne servano solo a
rendere meno indigesto e deleterio il poco e pessimo pane di afoca e
di fave ch’è l’unico loro guazzinguagnolo di tutt’i giorni.... e lode
ancora al Signore quando esso pure non manchi.

— E tutta codesta scarsezza di biade — fece il papa, con un tremolìo
della voce che accusava la bizza — e tutta codesta siccità di terreno
s’è, dunque, circoscritta intorno intorno al vostro Trasimeno che del
soprassello i perugini siano i soli a lagnarsi?

— Perdono, Santità — soggiunse in mal punto il terzo dei deputati — ma
e’ ci sono pure i signori Colonna di Palliano...

— I signori Colonna — lo interruppe Paolo III stizzito, battendo forte
del palmo della mano sul bracciuolo del suo seggiolone — non sono che
facinorosi e ribelli; gente di mal’aqua, che sciaguattano nel torbido
in busca di fastidi per sè ed altri e che pigliano i tre quattrini del
sale a pretesto del loro maltalento; ma che l’assistenza divina non ci
abbandoni e sapremo fiaccarne la petulanza e le matte pretese!

A simile intemerata, gli emissarî perugini chinarono il capo,
guatandosi l’un l’altro di sottecchi, come a richiedersi vicendevole
consiglio.

E vi fu un momento di silenzio oppressivo; dopo il quale messer
Marcantonio Bartolini, come il più autorevole dei tre, riprese la
parola e:

— Santità — disse — non è l’altrui operare che noi vogliamo pigliarci
ad esemplare o modello.... noi siamo divoti servi e sudditi fedeli
della Santa Sede Apostolica e non abbiamo nè pretese da affacciare,
nè lagnanze da muovere... preghiamo, supplichiamo; non altro!.... una
generosa concessione aumenterebbe i titoli della gratitudine nostra; ma
accoglieremo un rifiuto con reverente rassegnazione.

— E codesto — gli rispose il papa ammansato — è linguaggio buono e
ragionevole! ma voi stesso, messere, non metterete pena a comprendere
come, nella giustizia nostra, non ci sia lecito usare di eccezioni e
privilegi a vantaggio di chicchessia.

— Tuttavolta — sclamò in quel punto Sforza degli Oddi, ch’era il più
giovine dei tre ed il men temperante per conseguenza — addì quindici
aprile dell’anno passato non istette la Santità Vostra per codesti
argomenti di giustizia dallo usarne in prò di Capo-di-monte, Visenzo
di Tesco, Pignena, Mozano, Pianzano, Arlena, Civitella, tutte le terre,
insomma, che fanno il ducato di Castro!

A cosiffatte parole, Paolo III diventò paonazzo; un mormorio cupo, di
mal’augurio corse tra i porporati che gli facevan corona ed il giovine
cardinale Alessandro Farnese, lanciandosi inanzi impetuoso e posando
una mano al petto dello imprudente degli Oddi:

— Voi, messere — gli disse aspramente — voi perdeste reverenza al
Pontefice... uscite!

— Oh, sì, sì — soggiunse in pari tempo lo stesso papa a denti stretti —
uscite messeri, prima che peggio ne venga!.... Omai so il movente delle
suppliche vostre; ho il vostro messaggio fra mani.... andatevene con la
pace del Signore che non istarete guari ad avervi le nostre risposte.

E le risposte furono una Bolla delli 21 genaio con la quale s’intimava
la immediata esecuzione dello editto sul maggiore aggravio del sale,
pena la scomunica a’ ribelli.

Tali erano state le controversie, che sin da più mesi prima avevano
consigliato papa Paolo III a richiamare sollecitamente presso di sè
l’amatissimo suo figlio Pierluigi, che, in quel torno, come sappiamo,
trovavasi a Castell’Arquato, inteso a ben altre faccende che non fosse
quella meschinuccia questione de’ tre quattrini di sopraprezzo sul
sale.




CAPITOLO XXIII.

Pierluigi Farnese.


Promulgata la Bolla confermatrice dell’odioso balzello, comminati a’
recalcitranti que’ fulmini celesti, che, di que’ tempi, in mano del
vicario di Cristo, erano anco destinati a far l’uficio di agenti delle
tasse; il papa — come si usa dire — si tenne alla finestra, per vedere
in qual modo i bravi perugini accogliessero e giudicassero quelle sue
disposizioni e — siccome non stette molto a risapere come le avessero
pigliate in pessimo verso e si fossero levati a tumulto strepitando,
minacciando, attalchè, senza il predominio grande che esercitava sopra
di loro l’Alfani, capo del magistrato, si sarebbero spinti sa Iddio
a quali eccessi — egli cominciò a far subseguire i fatti alle parole,
scagliando contro di loro l’interdetto, che fu proclamato in Perugia il
18 marzo 1540.

Per dieci giorni consecutivi nessuna chiesa venne aperta a’ fedeli.

Solo a Pasqua, che cadeva il 28 — dietro intercessione del legato,
monsignor Cristoforo Jacobacci e del suo supplente, monsignor Aligerio
— il papa acconsentì vi si riapprissero e durante i tre giorni pasquali
si celebrassero messe.

Sinchè l’Alfani si mantenne alla testa del magistrato — e questo fu
sino alla fine del suddetto mese di marzo — le cose, tra mal’e peggio,
tirarono via senza suscitare gravi apprensioni.. — Ma, co’ primi di
aprile, il popolaccio tornò a rimbaldanzire, la ribellione rizzò di bel
nuovo alta la cresta ed i più corsero alle armi.

Paolo III comprese allora che a fare il manoso c’era tutto da perdere
e, rotti gli indugi, chiamò a sè il capitano Alessandro Vitelli, e gli
commise di raggranellare quanta più gente potesse e di marciare sopra
Perugia.

Il Vitelli — discendente da quel Vitellozzo, che Cesare Borgia fece
proditoriamente strozzare a Sinigalia in uno col Freducci da Fermo —
era uno degli ultimi professanti quel così detto _mestiere dell’armi_,
che Werner di Montfort, duca d’Urslingen e nemico di pietà e di
misericordia, Giovanni Hawkwood, Witinger di Landau, Anichino Bongardo,
Alberto Stertz ed altri predoni stranieri avevano appreso a que’
nostrali che — tra il conte Alberigo da Barbiano e Giovanni de’ Medici
delle Bande Nere — si dissero Jacopo dal Verme, Facino Cane, Ottobuon
Terzi, Andrea Braccio da Montone, Giacomuzzo Attendoli, Francesco
Sforza, Niccolò Piccinino, Bartolomeo Colleoni e via discorrendo; vero
_mestiere_, che consisteva nel vendere il proprio braccio al migliore
offerente.

Alessandro Vitelli era un omaccione disgrazioso, dalle estremità
elefantili, la faccia schiacciata color di terra, i capelli neri,
opachi, lanosi, in grandissima nomea di valente non sappiam meglio
se nel condurre battaglie alla vittoria, o nell’allungare le mani al
saccheggio. — Per lui tanto, una sconfitta dello inimico, dopo la quale
non ci fosse da far bottino, e’ la considerava come sconfitta di sè
medesimo.

Tale il guerriero cui la Santa Sede Apostolica affidava il delicato
incarico di ridurre a obbedienza i traviati suoi sudditi.

Ed egli vi ci si accingeva di lieto core.

Associatisi i capitani e colonnelli Gerolamo Orsini, Giambattista
Savelli, Teobaldo Starnotti da Cerreto ed il conte Niccolò da
Tolentino; messi insieme senza capparii quanti uomini gli capitarono
sotto; egli era già molto inoltrato ne’ suoi preparativi di guerra
e sul punto di porsi in campagna; quando una sera, ad ora già
molto tarda, il Recalcato annunziò al Santo Padre che suo figlio,
l’eccellentissimo signor duca di Castro, chiedeva istantemente
parlargli.

Paolo III ordinò subito lo si facesse entrare e, come si trovarono soli:

— Cosa mai mi volete di quest’ora? — gli domandò.

— Una grazia, Padre mio! — gli rispose Pierluigi.

— Quale?

— Voi siete in sul punto di far attaccare Perugia dalle vostre genti....

— È verissimo: ebbene?

— Ebbene: io vi pregherei di assegnarne a me stesso il comando.

— A voi?.... impossibile!

— O perchè!

— Perchè l’ho già delegato a messere Alessandro Vitelli.

— Ostacolo di lieve conto!.... del Vitelli m’incarico io.

— In qual modo?

— Lo pregherò di rendermi questo servigio, ed egli non mel saprà
rifiutare.

— Quando sia così.... ma qual è il segreto motivo che vi spinge?....

— Nessun segreto motivo; ma il desiderio ardentissimo di farmi utile
alla Santità Vostra e agl’interessi della Chiesa e della Religione.

Paolo III, ch’era sprofondato nel suo gran seggiolone, a siffatte
parole si sollevò alquanto su la persona, folcendosi delle sue mani a’
braccioli, e sporse inanzi il volto guardando negli occhi il figliuolo,
con espressione di sarcastica meraviglia.

Pierluigi dovette far violenza a sè stesso per rendersi impenetrabile
e, con l’accento della più ben simulata ingenuità:

— Null’altro — continuò a dire — null’altro che questo desiderio!

— Eh! — fece il papa, crollando il capo in aria dubitativa e
riadagiandosi sul suo seggiolone — comunque metta pena a comprendervi,
non vi vorrò contradire e.... se messere Alessandro non solleva
difficoltà, come voi sembrate farvene mallevadore, io consentirò
volontieri al piacer vostro!

— Oh, grazie, padre mio! — sclamò il duca di Castro, baciando con
effusione la mano del vegliardo — voi coronate uno de’ più caldi miei
voti!

E si licenziò tutto pieno di contentezza

Quanto al Vitelli, l’astuto ne conosceva il debole e sapeva benissimo
quale il miglior lenocinio per adescarlo. — In compenso della cessione
del supremo comando, gl’impromise la metà giusta di tutte quante le
prede ed il rapace capitan di ventura si mostrò l’uomo più remessivo e
condescendente che mai si potesse.

Però, due dì dopo, dal Pontefice in persona, Pierluigi Farnese venne
publicamente confermato gonfaloniere e capitan generale di Santa Madre
Chiesa e posto alla testa dello esercito pontificio, che, oltre Vitelli
e gli altri capitani e colonnelli ricordati più sopra, constava di
ottomila fanti italiani raccolti fra la peggio schiuma, di quattromila
spagnuoli ceduti da don Pedro di Toledo vicerè di Napoli, e di
ottocento tedeschi.

Con tale esercito, Pierluigi Farnese, si pose subito in via per alla
volta di Perugia.

Era il 13 aprile.

Le meraviglie grandi fatte dal papa a proposito della improvisa
resoluzione del figlio non erano senza gravi cagioni, ad apprezzare
adeguatamente le quali basta conoscere, ne’ loro particolari, i
precedenti di costui.

Pierluigi Farnese era nato in Roma al tocco e un quarto circa del
diecinove dicembre 1503 — l’anno istesso in cui si combatteva fra
Andria e Quarata su quel di Trani il famoso _XIII Pugilum Certamen_
cantato dal cremonese Marco Jeronimo Vida; l’anno istesso, in cui
papa Alessandro VI dei Borgia, vittima vuolsi del suo proprio veleno,
spirava al demonio, suo patrono, l’anima scellerata; l’anno istesso,
in cui la lodevole opera unificatrice compiuta dalle malvage arti del
Valentino ricascava in isfascio per riaprire il varco a’ Vitelli, a’
Baglioni, ai d’Appiano, a’ duchi d’Urbino, ai signori di Camerino, di
Pesaro, di Sinigaglia, che, a mo’ di lupi, ripiombavono su gli aviti
domini.

Legittimato dieci anni dopo con Bolla di Papa Giulio II dalla Rovere;
si connubiò nel 1519 a donna Gerolama di Luigi Orsini, conte di
Pitigliano, ottima e santa signora che visse poi sempre sequestre
dal mondo, tutta onninamente intesa alle pietose sue cure di carità
cristiana.

Un dissidio, a cagione della costei dote lo inimicò a’ suoi cognati,
talchè collegatosi a Sciarra e Camillo Colonna, che militavano contro
la città eterna sotto gli ordini del celebre contestabile di Borbone
— si mise al seguito di costui e prese parte a quel terribile sacco di
Roma, per cui, secondo il Berni,

    . . . . . . . . . Non vide il sole
    Più crudele spettacolo e più fiero
    De la città del successor di Piero.

E queste furono le sue prime armi: sanguinosa aurora di assassinî,
di stupri, di violenze e rapine, in cui già si leggeva il tramonto;
prognostico assai men menzognero di quello che il ciurmadore suo
astrologo gli fece dappoi, quando gli predisse: «_Mors tua erit
naturalis, sed proveniet ex nimia humorum ubertate, seu cattharali
suffocatione aut nimio coitu post crapulam_».

Viste le grandi sue prodezze nello scannare inermi, vituperare le
femine e rapinare l’altrui; gl’imperiali — ossia, quella bulima di
ladroni d’ogni sequenza raccolti sotto le insegne dello avventuroso
figliuolo di Chiara Gonzaga — lo spedirono con altro dei loro sul
promontorio del Gargano, alla guardia di Manfredonia, dove Camillo
Orsini lo assalì dalla parte di terra e, dalla parte di mare, gli si
schierarono contro venticinque galee, e dove — al dire del Guazzo —
«attese a ribattere con indicibil coraggio una sì fiera tempesta, e da
invittissimo capitano con tanta valorosità, con tanta prudenza in tal
assedio ritrovossi che gli soldati, quai per offendere sua signoria
erano andati, con più loro danno che utile si dipartirono».

Quindi, secondo ce ne ha lasciato scritto Monbrino Rosco da Fabriano
nel suo _Poema dell’assedio e bellicosa impresa di Firenze_, il
principe Filiberto di Oranges

    Lettere scrisse al signor del Farnese
    Venisse con sua gente e belle imprese.
    Era con le sue gente il signor detto
    In Nocera di Napoli alloggiato
    Duo milla seco havea ognun perfetto
    Nell’arme e experto e pratico soldato
    Qual subito ne venne assai diretto
    Per obbedire el principal mandato
    Passando valle pian cole e pendisi
    Che arrivò un giorno alli confin d’Assisi.

Ma poi? — Poi non stette guari a ritirarsi dallo esercito «per essere
stato casso dal marchese del Vasto con ignominia della milizia».

E così — per allora tanto — si chiuse gloriosamente la sua carriera
militare.

Salito al trono pontificio Alessandro Farnese, suo padre, assoluto da
questi delle censure in cui era incorso, per aver partecipato al sacco
di Roma, e creato prima signor di Montalto, poi di Frascati, quindi
duca di Castro, Nepi e Ronciglione, gonfaloniere e capitan generale
della Chiesa e, dallo imperatore Carlo V, marchese di Novara; trasse
egli sempre dappoi lieta e tranquilla vita ne’ suoi domini, salvo il
correre or qua or là, vuoi spedito dal padre a complimentare questo o
quel principe, a montar macchine od a sventare intrighi; vuoi trattovi
dallo istesso suo sfrenato disio di piaceri e di galanti avventure.

Più di due lustri erano così trascorsi dalle sue ultime imprese
guerresche, e però non aveva torto suo padre a stupirsi nel vederlo sì
premuroso di ricacciarvisi dentro.

Sotto quel suo intenso desiderio qualche gatta doveva indubiamente
covare.

E la gatta era mastro Pellegrino di Leuthen, o — per dire più giusto —
era la nostra giovine Bianca della Staffa.

In qual modo?

Poche parole basteranno per spiegarlo a’ lettori.

Tre settimane dopo il suo ritorno nella città de’ Cesari e dei Papi,
Pierluigi era stato raggiunto dai suoi figli e dalla nuora che aveva
lasciato — come vedemmo nella rôcca dei conti di Santafiora. — Secoloro
giungeva pure il Trentacoste da Camerino, con le sue dodici barbute, e
gli recava una missiva del sedicente numismatico tedesco, nella quale
questi gli esponeva aver esplorato tutte le circostanti campagne,
terre e castella, senza che nè dell’uomo dalla buffa calata, nè del
gigantesco familiare de’ Camia, nè di madonna Olimpia Marazzani, nè
di Bianca della Staffa, gli fosse riuscito raccogliere il più piccolo
indizio.

Pierluigi — per quanto glie ne costasse — dovette però mettere il cuore
in pace e renunziare alle vagheggiate speranze di rappresaglia e di
vendetta.

Senonchè il mattino del giorno istesso in cui lo vedemmo recarsi a
sollecitare dal padre il comando delle milizie raunate contro Perugia,
il degno Pellegrino di Leuthen era giunto improviso ad annunziargli che
Bianca trovavasi appunto in questa città.

Ciò che non avevan potuto le perlustrazioni, le indagini, le astuzie,
il caso puro e semplice glie lo aveva fatto scuoprire.

Nel transitare da Firenze a Roma, s’era soffermato per alquante ore
in quella città; su la piazza maggiore aveva travisto Terremoto:
pedinandolo, lo aveva seguito sino alla casa dov’era domiciliato e
quivi — presa voce — risaputo che, insieme a lui, trovavasi pure la
sua giovine signora, la quale, da vari mesi, aveva ricetto presso il
proprio zio, messer Bartolomeo della Staffa, uno de’ più danarosi ed
influenti di tutta Perugia.

Ed ecco qual era stato il recondito movente che aveva trasfuso in
Pierluigi Farnese tanto belligero ardore.




CAPITOLO XXIV.

I Venticinque.


Dacchè la furberia sacerdotale ebbe studiato lo espilatorio sistema
delle decime, dacchè — vale a dire — la vecchia terra gira intorno a’
suoi poli e che esistono sudditi e governi, le principali scaturigini
del malcontento di quelli verso di questi, crediamo noi abbiano sempre
risieduto ne’ publici gravami; e tanto più esclusivamente se risaliamo
a quando certi sentimenti di nazionale amore e d’individuale dignità
ed i conseguenti diritti a libertà ed uguaglianza non erano tampoco in
germe nel cervello umano.

Di que’ giorni pròtasi di tutte le ribellioni furono quasi sempre i
balzelli.

Ed uno — il soprassello sul sale — lo era appunto stato de’ gravi
avvenimenti che Perugia andava incubando.

La vetusta città dell’Umbria, che le sacre consuetudini edilizie della
estrusca lucumonìa, ond’era stata duodena frazione, avevano eretto
a cavaliero di due colli tra il Tevere e il Trasimeno; non aveva
assolutamente voluto saperne di quello aumento di gravezza, «fermamente
deliberata — come i suoi _patres artium_ ne scrivevano a’ spoletini —
prima supportare ogni estremo supplicio, che condescendere all’impie
voglie, et injuste dimande, che universalmente i populi aggravano.»

A più riprese — come il vedemmo — i perugini avevano spedito oratori
al pontefice, affinchè — in considerazione de’ loro privilegi — li
esonerasse da quella nova gabella; ma — non approdando mai ad aversi in
risposta che minatori comandamenti e censure — finirono a perdere ogni
pazienza e a buttarsi per quella via che doveva brevemente condurli
all’aperta rivolta.

Profittando, intanto, della minchioneria del vicelegato Aligerio,
ch’era bonario oltre del convenevole gli proposero il partito, ch’egli
assentì, di convocare un consiglio generale, il quale nominasse cinque
rappresentanti per ognuno de’ cinque rioni della città deputati a
trattare del rincarimento del dazio.

E il 26 marzo, raunatosi il popolo nelle chiese principali delle cinque
porte, ch’erano: San Domenico, per porta San Pietro, San Fiorenzo,
per porta Sole, Sant’Agostino, per porta Sant’Angelo, San Francesco
per porta Santa Susanna, e Santa Maria de’ Servi, per porta Borgne,
e fatte le votazioni; riuscirono eletti, pel primo rione: Giovanni
Oraziani, Lorenzo Maria Baglioni, Bartolomeo di Monte Vibiano, Ciancio
Ceccarini e Benedetto Tucci, detto _il capitano Bettuccio_; pel
secondo: il dottore Pier Filippo Mattioli, Bernardino Montesperelli,
Malatesta Ranieri, Nicolò Tei ed Alberto di Guidantonio; pel terzo:
Vincenzo degli Arcipreti e della Penna, Cornelio degli Oddi-Novelli,
Mariano Felice de’ Bizzocchetti, Cesare de’ Merciari e Bartolomeo
della Staffa e degli Armanni — lo zio della nostra Bianca: pel quarto:
Francesco Maria degli Oddi, Giulio della Corgna, Tindaro degli Alfani,
Bernardo Dionigi e Giangirolamo, detto _il Guascone de’ Franchi_; e pel
quinto: il dottor Marcantonio Bartolini, Annibale Signorelli, Polidoro
Baglioni, Borgia Sulpizj e Marco Barigianni, che fu poi sostituito da
Marco di Boncambio Boncambi.

Il dabben prolegato, che s’era avuta la stoltizia d’annuire a simile
popolare manifestazione, s’accorse bentosto d’essersi scavata da
sè medesimo la fossa. — I Venticinque, che — non a pena eletti —
s’erano pomposamente fregiati del clamoroso titolo di _difensori
della giustizia di Perugia_, s’addestrarono subito a scalzarlo d’ogni
autorità: pretesero consegnasse loro le chiavi della città; vollero
aprire e leggere prima di lui gli stessi messaggi governativi a lui
personalmente diretti; attalchè il pover’uomo, sopraffatto dallo
impreveduto, sbigottito dalla mala piega che pigliavan le cose, conscio
omai di aver incapato in un grosso sproposito; giudicò prudente
allontanarsi alla chetichella dalla città e tôrsi così via dal
ginepraio.

I Venticinque, rimbalditi, s’insediarono nella Udienza della Mercanzia
e del Cambio, ch’era in piazza di Sopramuro nel pianterreno del palazzo
del Priorato e scrissero a Fuligno, a Todi, ad Assisi, a Trevi, a
Spoleto, eccitandone i cittadini a collegarsi loro per «resistere
alle tyranniche voglie;» ma null’altro conseguirono che vane parole.
L’ultima delle mentovate città spinse anzi la mala parata sino ad
inviarne la lettera allo stesso pontefice.

Non però i Venticinque si disanimarono. — Sbalzato di seggio il capo
de’ priori Alfano Alfani e tratto in carcere il dottor Giambattista
Petrucci da Bevagna, perchè — nella loro prudenza — s’erano chiariti
avversi alla sedizione; posto in luogo di quello Brunoro Crispolti,
con Cecchino Perinelli secondo priore; mutarono di sana pianta le
istituzioni della città; non lasciarono che uno solo dei tre uditori di
Rota: ordinarono che i delitti si riconoscessero dal Priorato col loro
istesso concorso e le pene a publico benefizio; riavvocarono l’entrate
del Chiusi e del Trasimeno, delegandovi ministri e controllori a nome
del comune; nominarono un tesoriere ed un sindaco e coniarono que’
ducati e quattrini con da una parte, Sant’Ercolano, patrono della
città, e dall’altra il simbolo della croce fiorita, che nella leggenda
portavano scritto PERUSIA CIVITAS CRISTI, come a significare il
carattere divino ch’erasi voluto dare alla rivolta.

Da un lato, un pontefice che, — prevalendosi degli attributi suoi
di buono e solerte pastore — voleva ad ogni costo le pecorelle
smarrite rientrassero all’ovile, per aver agio di tonderle bellamente
e magariddio scorticarle e — siccome, malgrado i suoi richiami,
s’impuntavano a brucare errabonde per l’erta dei colli — che
s’apprestava a sguinzagliar loro addosso i suoi bravi mastini, bigi
tanto da scambiarsi facilmente co’ lupi, e li aizzava così che —
a’ fatti — dovevano parer tali daddovero e non badare pel minuto,
se, nel rincorrere le agnella riottose, talune ne addentassero e ne
sbranassero anche. — E tutto ciò nel nome del Signore, _ad majorem Dei
gloriam_, per una gretta question di quattrini, per la incocciatura
di un miserabile soprassello, ch’egli stesso dovette quindi a poco
abbandonare, per sostituirvi la imposta diretta del _sussidio_, che già
gli spagnuoli avevano intromesso a Milano, col nome di _mensuale_, ed
a Napoli, con quello di _donativo_. — E mentre oggi e si strilla e si
strepita, e si protesta, quasi ci levassero gli occhi o ci scuoiassero
vivi, perchè — se non paghiamo le tasse — un percettore laico ci
manda ad appignorare il mobilio, a sequestrare le merci, ad ipotecare
gli stabili, e ce li vende al publico incanto, e null’altro ci fa —
alla resa de’ conti — se non costringerci con bel garbo, a compiere
il nostro dovere di buoni cittadini, senza nè un rimbrotto, nè uno
sfregio, nè una villania, nè tampoco quel bricciolino di carcere,
che forse ci meriteremmo; allora un rappresentante in terra di quel
Dio, che le pagine vangeliche ci dicono tutto amore, misericordia,
perdono, non solamente scaraventava contro i suoi sudditi morosi ogni
flagello di guerra, ma li malediceva eziandio in loro stessi, ne’ loro
ascendenti, ne’ loro discendenti, sino alla decima generazione.

Dall’altro, un popolo che invocava in aiuto Cristo contro il governo
del suo Vicario.

Antitesi strane d’irreligione e di fede!

Ma non s’era più a’ tempi di papa Gregorio VII, quando una scomunica
maggiore sbalestrata dalle soglie della basilica vaticana era bastevole
per addurgli a’ piedi umile e guagnolante, come cagnuolo frustato, un
possente imperator di Lamagna, che — scalzo, nudo il capo, co’ ginocchi
tra la neve — ne implorava per tre giorni consecutivi il perdono.

Già, dugento anni prima il figlio della siciliana Costanza, quel
Federico II di Hohenstauffen, che — italiano di cuore come di nascita
— gittava le prime radici del nostro dolcissimo idioma, poetando
con Ciullo d’Alcamo, co’ suoi sterponi Enzo e Manfredi e col suo
protonotario Pier delle Vigne; aveva cominciato ad aprir gli occhi
delle popolazioni mercè i tanti studi disseminati per la penisola
ed appreso loro in qual conto si dovessero tenere le minacce e le
ire papali, egli che scriveva al pontefice: «Tu vivi unicamente per
mangiare; su i vasi e le coppe d’oro hai scritto _io bevo, tu bevi_;
e così spesso ripeti il passato di questo verbo, che quasi rapito al
terzo Cielo, parli ebraico, greco, latino; piena l’epa, ricolmo il
sacco, allora ti credi seduto su l’ali dei venti, e che l’impero ti sia
sottomesso, e che i re della terra ti portino doni, e che ti servano
tutte le genti:» egli che al sentirsi dichiarato da papa Innocenzo IV
ateo, epicureo, sacrilego ed eretico, scomunicato e scaduto dal trono,
chiese gli si recasse la corona e — come sei secoli dopo il primo
napoleonide — se la pose in capo, sclamando: «Guai a chi me la tocca!»;
egli che a Nocera de’ Pagani fece diroccare una chiesa per erigervi
sopra un palazzo, e, dov’era l’altare maggiore, ivi aprir le latrine.

Ed a’ giorni di cui ragioniamo l’autorità spirituale de’ papi era
però sì scassinata e pencolante che ben conveniva puntellarla con le
picche de’ fanti italiani, gli scoppietti de’ raitri e gli archibugi
de’ lanzichenecchi, se la si voleva tuttavia far servire a’ temporali
interessi.

Ed ecco il come i buoni perugini osassero ribellarsi, ed il perchè papa
Farnese si raccomandasse alla persuasione delle armi per recondurli a
far senno.

I Venticinque — risaputo dello avvicinarsi di Pierluigi — spedirono il
dottore Giulio Oradini e Girolamo Comitoli a sollecitare l’imperatore
Carlo V, che trovavasi in Anversa a sedare, a sua volta, la ribellione
flaminga, perchè s’intromettesse mediatore di pace; ma il proverbio
che lupo non mangi lupo era probabilmente in onore anche a que’
giorni, sicchè l’astuto monarca fece le orecchie da mercante e se ne
lavò le mani. — Unico ausilio de’ perugini rimaneva, quindi, il loro
compatriota e fuoruscito Ridolfo Baglioni, che tenevasi al soldo di
Cosimo de’ Medici, duca di Firenze. Annibale Signorelli si recò presso
di lui in nome de’ compaesani scongiurandolo ad accettare il generalato
delle loro forze. Ned egli si fece troppo pregare. Senonchè pose tre
condizioni, su per giù quelle famose del Triulzio, armi, vettovaglie e
paghe sicure, che torna a dire: danari, danari, e poi danari.

Per metterne assieme il maggior dato possibile, i Venticinque
si appigliarono ad ogni maniera spedienti: mandarono a pegno le
suppellettili e gli argenti del Magistrato; imposero straordinari
balzelli, il che fece dire al popolino essere scampati da Scilla
per precipitare in Cariddi, e riuscirono così a raggruzzolare un
cinquantamila di scudi.

Ma intanto Pierluigi Farnese, col legato monsignor Cristoforo
Jacobacci, era giunto a Fuligno.




CAPITOLO XXV.

«Perusia Civitas Cristi».


Rompeva l’alba dell’8 aprile 1540, che era il secondo giovedì dopo
Pasqua, ed una fitta di popolo d’ogni condizione — partendosi dall’arco
di Augusto presso la porta Sant’Angelo — scendeva giù per la via
nuova dalla parte soprana a quella di sotto della città, riversandosi
ad oriente verso porta Sole, per arrestarsi prima sul largo della
fontana, dov’era la podesteria, la corte di giustizia, le carceri ed
il ginnasio, e quindi in piazza di Sopramuro, dove la cattedrale, il
palazzo del priorato e le case della famiglia Alfani.

Precedeva la numerosa accolta, lunga ed interminabile processione
d’uomini in bianco sacco, alla testa della quale cavalcava il priore,
messer Brunoro Crispolti, recando in mano, s’un guancialetto di
ormesino, le chiavi della città, e seguito dal vice priore, dai
Venticinque, dal podestà, dall’auditore di Rota, dai capitani dell’armi
e da molto numero di cavalieri e di gentildonne.

Fra queste notavasi la nostra Bianca. Ella camminava al fianco delle
sue due cugine, le figlie di messer Bartolomeo di Giovan Bernardino
della Staffa, uno de’ Venticinque, il più ricco, il più generoso, il
più influente ed insieme il più caldo dei ribelli.

Su la porta meridionale del duomo sorgeva un grande crocifisso di
legno nero collocatovi espressamente perchè servisse alla solenne
consacrazione della città e che attualmente può vedersi ancora entro
una speciale cappella di quel magnifico tempio: e fu verso di quello
che si diresse la folla processionante.

Ivi giunta, il priore smontò d’arcione e — riprese dal collega le
chiavi che gli aveva rimesso scavalcando — andò a deporle a’ piedi
della croce, indicando così come Perugia, che non voleva più saperne
del più o meno alto dominio di un sovrano di questa terra, imitava la
sublime sì, ma poco pratica idea mandata ad effetto tredici anni prima
da’ fiorentini, con lo affidarsi alla diretta tutela del Redentore.

Compiuta quella pia cerimonia e mentre gli uomini in cilicio si
genuflettevano salmodiando intorno intorno al crocefisso, uno dei
gentiluomini, che facevano codazzo ai Venticinque, balzò su la scalea,
che ammetteva alla chiesa e — voltosi al popolo affollato:

— Fratelli — gridò loro con accento ispirato — ascoltatemi!

Tutti gli si accalcarono in giro premurosamente.

Era egli il giovane Mario di Lucalberto Podiani d’una delle famiglie
meglio estimate della città.

— Ascoltatemi — ripetè egli, come s’avvide che gli si prestava
attenzione — giorno per noi più solenne, più decisivo di questo non
s’è mai dato!.... sinora i nostri anziani si sono limitati a piegar le
ginocchia, a pregare, a formolare proteste; ma, da questo giorno, noi
ci prepariamo a combattere e a combattere nel divino nome di Cristo!...
è una lotta a cui ci accingiamo: lotta ardita, disastrosa forse,
temeraria certo, ma sempre santa contro la più iniqua, la più odiosa
delle soverchierie!...... spregiando le nostre guarentige, sconoscendo
i nostri privilegi, soppeditando i nostri diritti, non la intangibile
persona del Sovrano Pontefice, ma i malvagi suoi consiglieri, ma quei
geni malefici sotto maschera sacerdotale, che Satanasso ha posto a’
fianchi della cattedra di San Pietro, perchè cospirino a sua rovina,
perchè lavorino a scredito, a detrimento, a sfacelo della religione de’
nostri padri: vogliono assolutamente farci curvare la testa, umiliarci,
avvilirci, calpestarci e, perchè noi, forti in coscienza del nostro
buon dritto, rifiutiamo sudditanza ed infrangiamo il violato patto
di fede ligia, e’ mettono assieme bandiere e battaglie di efferati
mercenarî da spingerci addosso e sperano dalla forza brutale ciò che la
ragione e la giustizia loro non consente!.... ma, per la croce d’Iddio,
quando s’è gustato un momento solo il soavissimo frutto della libertà,
ogni più rude sacrificio ha da sembrarci leggero per difenderne la
pianta e, nel santo nome del Redentore, noi la difenderemo!... l’onore
e il decoro nostro ci hanno ad importare anche più della vita, perocchè
in essi stiano il decoro e l’onor della patria! figuriamoci che cotesta
vendereccia accozzaglia di venturieri spagnuoli, italiani e tedeschi,
di ladroni d’ogni paese che la Rota Apostolica avventa contra di
noi, siano come que’ iattanti francesi che il superbo re Carlo VIII
voleva introdurre di viva forza in Fiorenza con l’arme inastata, e,
al paro del grande Piero Capponi gridiamo loro, a nostra volta: se voi
suonerete le vostre trombe, e noi daremo nelle nostre campane!...

Il popolo scoppiò in un urlo d’approvazione.

— Le città de’ dintorni — continuò l’oratore — Fuligno, Assisi,
Città-di-Castello, Città-della-Pieve, Nocera-Camellaria, Trevi, Todi,
Spoleti, stanno per imitare l’esempio nostro; gli osservandissimi
signori di Siena consentono a rifornirci del sale; Bologna c’inanima
alle difese e ci consiglia a non cedere; il serenissimo signor duca
di Fiorenza c’impromette suo aiuto; messer Ridolfo Baglioni non può
tardare a giungere con le sue genti di guerra; Cristo è con noi;
dunque.... coraggio, fratelli e quanti sentano carità cittadina, quanti
nutrano dignità d’uomini, quanti abbiano braccio non attrappito da
età, da malanni o da vergognosa paura, impugnino un’arme qual sia e si
dispongano a combattere, a morire per la loro terra natale!

Un altro grido entusiastico della folla accolse queste parole, con le
quali il giovine Podiani diè termine alla sua concione.

Nel punto istesso, un guerriero tutto in armi si slanciò al suo fianco
e — volgendosi a’ signori del Magistrato che si teneano in prima linea:

— Intanto — disse loro — io, che non sono perugino e cui non scalda
carità di patria, ma solo odio e vendetta, vengo ad offrirvi la mia
mano, la mia spada e il mio sangue!

— Voi? — sclamò attonito messer Brunoro Crispolti — e chi siete voi,
dunque?

— Uno straniero — soggiunse il sopravenuto — poco vi prema il mio nome
che nulla potrebbe impararvi... vi basti che io domando combattere con
voi e per voi contra dei vostri nemici!

— E se fosse uno spione — buccinò a fior di labra il cronista Boncambi,
forse il più meticoloso e prudente de’ Venticinque.

— No, messere — gli rispose subito lo sconosciuto, che se non inteso,
aveva indovinato il suo dubio — e a quiete e securtà vostra vi propongo
un mallevadore.

— Quale? — interrogò il capo del magistrato.

— La nepote d’uno de’ vostri maggiori — continuò lo straniero — madonna
Bianca della Staffa.

— Bianca — fece Bartolomeo della Staffa, dando un passo inanzi
allo udir profferire quel nome e, della mano, accennò alla nipote
d’accostarsi.

Questa si staccò dalle cugine e — tutta timorosa e confusa, perchè
vedevasi fatta oggetto della generale attenzione — si avanzò sino al
piede della scalea.

— Tu conosci costui? — le chiese allora lo zio, indicandole lo
straniero.

Bianca lo affisò in volto in atto di stupore e rimase alcuni istanti a
contemplarlo, senza far verbo.

I penitenti, genuflessi intorno alla croce, avevano smesso le loro
salmodie: il popolo s’era chiuso in quello ansioso silenzio che è tutto
particolare della aspettazione.

L’incognito frattanto sorrideva gentilmente del palese imbarazzo di
Bianca e:

— Non è dalle sembianze — ripigliò a dire — che madonna mi possa
riconoscere: ella non le ha mai scôrte che celate dal ferro di una
bruna visiera...

— Oh, sì, sì! — lo interruppe premurosa la giovinetta.

E — stringendo la mano a Bartolomeo, con una effusione di gioia, che le
si leggeva scritta su tutto il bel volto:

— È lui, zio! — soggiunse — quello istesso di cui vi dissi al mio
arrivo; quello istesso che m’ha aiutato a tormi di casa i Santafiora;
quello stesso, cui, non ha guari rinviaste il cavallo e la somma che
giovarono me ed il mio servo per trarre sin qui... è il mio salvatore:
il Cavalier Nero!

Un mormorio misto di ammirazione e di un non so che di misteriosa paura
percorse la folla.

Tutti gli occhi erano rivolti su lo sconosciuto.

Quel nome di _Cavalier Nero_, che rispondeva sì bene al bruno colore
della sua armatura ed alle fosche tinte della sua carnagione, non
mancava di produrre una profonda impressione, massime sul popolo minuto
sempre proclive allo strano ed al superstizioso.

— Ebbene — soggiunse allora Bartolomeo della Staffa superando la
breve distanza, che lo separava dallo straniero, e porgendogli la
mano — qualunque sia il vostro nome e la patria vostra, o messere, io
vi professo viva e schietta riconoscenza per quanto avete fatto per
quest’amatissima congiunta mia... chi adopera come voi, non può nodrire
che nobili sensi.... amico nostro voi lo siete di certo, poichè ce ne
porgeste già prova.... però il desiderio vostro sarà sodisfatto!

Ed elevando anche più la voce, acciò meglio lo intendessero ed i suoi
colleghi ed il popolo:

— Io stesso mi porto vostro mallevadore, e voi combatterete con noi e
per noi, per la più giusta e santa delle cause!

— Viva messer della Staffa! — strillò il popolo ad una voce.

— Grazie, messere! — fece l’incognito, inchinandosi — io non domando
che d’essere posto in prima linea, dove sia più caldo il pericolo.

— E così sarete! — s’intromise il priore — se i papalini sieguono,
com’è certo, la via di Fuligno, chi primamente n’ha a sostenere il
cozzo e gli attacchi dev’essere Castel Torsciano.... voi, con Andrea
d’Arezzo e Ascanio della Corgna, potrete esser terzo ad assumerne le
difese.... vi piace?

— Nulla saprei chiedere di meglio!

E data tale risposta — il Cavalier Nero si tolse al gruppo, che lo
circondava, e scese i gradini della scalea, per presentare i suoi
ossequi alla giovine Bianca ed alle sue cugine.

Gli uomini in cilicio ricominciarono ad intonare i monotoni loro canti.

Il fitto della popolaglia assembrata s’andò — poco a poco — diradando.

La solenne consacrazione di Perugia al Redentore era compiuta.




CAPITOLO XXVI.

L’esercito di Santa Madre Chiesa.


Ma, nel medesimo tempo — come abbiam detto — Pierluigi Farnese si
avvicinava.

Traendo via per la strada, che è tra Campagnano e Castelnuovo di Porto,
tra Civita Castellana e Poggio Mirteto, tra Narni e Rieti, tra Cascia e
Spoleto, fra Trevi e Montefalco, passando per Fuligno, era giunto sul
monte degli Angioli presso d’Assisi, dove aveva posto il suo quartier
generale.

Il sistema militare de’ tempi si andava grado grado modificando sì
per la importanza sempreppiù prevalente delle armi da fuoco, sì per
le profonde e radicali riforme suggerite dall’_Arte della guerra_
di quello ingegno versatile ed aquilino — uom di stato e filosofo,
critico ed istoriografo, dramaturgo e stratega ad un tempo — che,
per quattordici anni consecutivi, tenne i registri della Magnifica di
Firenze.

Comprendendo tra’ primi di quanto danno e pericolo tornasse lo affidare
la sorte delle imprese guerresche a’ condottieri e capitani di ventura;
aspirando a costituire eserciti nazionali, onde opporre al tristo
spettacolo di mercenarî stranieri la forza morale di italiani, che
convincessero il prisco valore non essere interamente estinto fra
noi; Niccolò Macchiavelli aveva proposto di combinare assieme i due
sistemi della falange macedone e della legione romana, dando picche
alle prime linee per respingere gli assalti della cavalleria e buone
spade alle altre; di surrogare a’ fortilizî i campi trincerati ed
i rapidi e decisivi attacchi alle lunghe e cautelose evoluzioni; di
meglio regolare e distribuire le marce ed — anzichè scindere i corpi in
avanguardia, battaglie e retroguardia, come si usava — di far precedere
e seguire qualche manipolo di cavalli, mentre il grosso avanzasse in
colonne serrate e parallele: idea cotesta non desunta dagli antichi e
che formò poi una delle glorie di quell’altro genio non meno versatile
ed eminentemente guerriero di Federico II di Prussia.

Fu il Macchiavello a preconizzare le _landwher_ e le _landsturm_, col
voler sottomettere tutti gli uomini fra i diecisette e i quaranta
al _deletto_, o coscrizione, sicchè tutti a un bisogno, potessero
prendere le armi, nè però queste fossero professione speciale di
alcuno; tutti il sentissero come un dovere santo, nè però corressero
alle fila con improvido ardore; — egli a porre una gerarchia di gradi
ben proporzionata alle facoltà dell’uomo e delle masse, ad assegnar
tamburi, vessilli, pennacchi, colori ed altri distintivi opportuni
a conservar l’ordine; — egli finalmente, a far tradurre in atto
dalla Signoria buona parte de’ suoi dettami, con l’armare diecimila
contadini, cui dètte abito uniforme biancorosso, armi e suoni a modo
de’ svizzeri e tedeschi e che s’esercitavano ogni giorno festivo nel
comune e due volte l’anno in grandi mostre generali, come adesso le
nostre milizie della provincia e del comune, sostituite alla riserva ed
alla guardia civica.

Malgrado ciò — in molta parte d’Italia — l’antico sistema, comecchè
imbastardito, era pur tuttavolta in onore.

Ricchi, occupati di arti, di industria, di traffico, gl’italiani non
avevano nè tempo, nè voglia di mettersi soldati, preferendo vederseli
condotti sul mercato, quasi derrate dell’Arabia e dell’India: ed
erano gente senza morale nè sentimento, perchè mestieranti, la cui
viltà rendeva sempreppiù spregevole l’uso dell’armi e tra la nazione e
l’esercito inalzava una insormontabile barriera.

I grandi condottieri su lo stampo di Braccio e di Sforza erano finiti:
non rimanevano più che abietti mercenarî, puri masnadieri, assoldati
oggi a combattere quello per cui campeggerebbero domani, feroci
quando lontano il pericolo, coraggiosi solo nella speranza della
preda, iattanti, spavaldi molto più a parole che non a fatti. — Solo
un momento si tardassero le paghe, e subito rompevano obbedienza,
arrestavano il capo, spesso lo costringevano ad azzuffarsi in
circostanze disopportune, nell’unico intento di riuscire al saccheggio.
Del quale — per poco una terra si fosse difesa — pretendevano al
dritto, sicchè talvolta se ne pattuiva il riscatto prima ancora
di acquistarla, o la si vendeva ad un appaltatore, come fecero gli
spagnuoli nel 1530, che — al dire del Varchi — «vendettero il sacco
d’Empoli per cinquemila ducati a Baccio Valori, che, alquanti mesi da
poi, mettea sequestro su quel comune, e arrestava alcuni terrazzani per
averne certi resti.»

Siffatte bulime formavansi a mo’ di tarsio o musaico d’ogni maniera
de’ più birbeschi elementi: spagnuoli traditori, maestri nello
insinuarsi carponi tra picca e picca e, tutelati dal loro invulnerabile
brocchello, pugnalare il nemico; svizzeri sempre disposti a passare
con arme e bagaglio alla fazione avversaria per qualche quattrino di
maggior soldo fosse loro promesso; — raitri e lanzichenecchi tedeschi,
lerci, beoni, impazienti d’ogni disagio, che si ugnevano mani e ferri
col grasso de’ cadaveri nemici, e si trascinavano dietro prigionieri,
uomini e donne, giovani e vecchi, legati fra loro alle code de’ cavalli
e spinti a suon di calci e frustate; ladroni, che disertavano ogni
tratto per trasportare a casa loro il bottino, attalchè «_il n’estoit
jour qu’il ne se desrobast trois ou quatre cens lansquenetz qui
ammenoient beufz et vaches en Almaigne, lictz, bledz, soyes à filer et
autres ustensilles;_ — » stradioti reclutati fra gli albanesi accasati
nel reame di Napoli, cavalieri feroci, che — armati di spada, di mazza
e d’un lungo bastone ferrato a due capi, con la cotta di maglia ed
un morione senza visiera nè cresta — si battevano ad oltranza, mai
concedendo quartiere; — fantaccini nostrali, comandati a ragion d’un
uomo per casa e pagati un tanto il giorno; — e villani, che doveano
prestarsi a’ trasporti, preparare le vie, le spianate, le trincere,
ed anche far le guardie nelle rôcche e tener saldo al caso finchè
giungessero i soccorsi.

E di non dissimile accozzaglia componevasi appunto l’esercito che Santa
Madre Chiesa aveva affidato al suo Gonfaloniere e Capitan Generale per
militare contro Perugia.

E nonpertanto, in quel ridente mattino d’aprile, la lunga,
interminabile striscia di uomini, di cavalli, di salmerie, che dall’imo
annebbiato della vallea, saliva tortuosa sino al culmine aprico di
monte degli Angioli, offriva un vago, pittoresco spettacolo.

A chi avesse potuto contemplarla dall’alto al basso librato nello zenit
su l’ale di qualche favoloso ippogrifo, sarebbe parsa uno di quelli
immani serpenti delle foreste d’America dalla pelle variegata e dalle
squame a metallici riflessi, tanto era mista e diversa per fogge strane
ed eteroclite, per colori cupi e smaglianti, e svolazzo di piume, e
scintillio di gemme, e lucicar di spade e di cimieri.

La natura, inconscia o beffarda, sembrava accogliere quel minaccioso
apparato di guerra col suo più voluttuoso sorriso.

Primavera le ridava la giovinezza.

L’aria mobile e frizzante rapiva alle pinete i loro acri profumi;
un biancastro vapore leggero e diafano, come que’ veli di Coo che
avvolgevano cento volte le nudità senza occultarle, mitigava lo
sfolgorante azzurro del cielo; la terra si schiudeva a’ primi germi,
rorida, imbalsamata, come la vergine che sorrida al suo primo amore.

Nel monistero, annesso al tempio di Santa Maria degli Angioli, dov’era
già quella _Porziuncula_, da cui uno de’ primi a balbettare il dolce
idioma italiano, San Francesco d’Assisi, poetava:

    Nulla donca oramai più mi riprenda
    Se tale amore mi fa pazzo gire.
    Già non è core che più si difenda....
    Pensi ciascun come cor non si fenda,
    Fornace tal come possa patire....
            Data m’è la sentenza
            Che d’amore io sia morto;
            Già non voglio conforto
            Se non morir d’amore!

colà aveva preso stanza, col legato monsignor Jacobacci, il duca
Pierluigi Farnese, insieme al suo stato maggiore, il quale non
componevasi solo de’ comandanti supremi, che ci accadde già menzionare,
ma anche de’ suoi capitani particolari, che — oltre al Tomasoni da
Terni ed al Trentacoste da Camerino, a noi già noti — erano Antonio da
Cortona, Marcantonio da Castello, Giulio d’Ascoli ed il Bombaglino di
Arezzo.

A costoro aggiugnevasi un giovinetto ed imberbe ufficiale, che
Pierluigi aveva da poco assoldato.

Era un piccolo omettino, gracile, dilicato, tutto in abito di velluto
nero alla spagnolesca, con una semplice cotta di maglia, una barbuta
brunita ed una spada sottile, che nulla aveva di maschio fuorchè gli
occhi neri, sdegnosi, lucicanti.

I suoi colleghi — un po’ per ischerno, un po’ in ossequio alle gentili
sue forme — lo chiamavano capitano _Tre-Grazie_.

Egli non aveva comando; ma era addetto al servizio personale del duca.

Fu alla presenza e col sussidio di costoro, che Pierluigi — sentite le
spie, tra le quali primeggiava il nostro Pellegrino di Leuthen — tenne
il suo preliminare consiglio di guerra.

La strategia d’allora consisteva in ben poca cosa: tormentare,
taglieggiare, spelazzare il nemico quanto più si potesse e indurlo
gradatamente alla disperazione.

Però ciascun comandante di corpo ricevette commessione di sbandare
le proprie genti per le campagne circostanti a Perugia e d’inviare
trombette alle terre, intimando loro la resa e — dove subito non
cedessero — pigliarle a forza e menarne rovina.

Tali gli ordini che venivano impartiti dal rappresentante del Vicario
di Cristo, in nome di quella religione di pace e di perdono proclamata
da’ vangeli.

Ned i prodi capitani e colonnelli militanti sotto il suo comando erano
di stoffa da sentir scrupoli di coscienza e da temporeggiare nello
eseguire quegli ordini. Alla testa de’ loro cavalli si sparpagliarono
per le terre indifese ad oriente ed a mezzogiorno della città
devastando i campi, tagliando gli alberi, incendiando case e villaggi,
impadronendosi e mandando a sacco Castel delle Forme, San Martino in
Colle, Deruta, Bettona, Sigillo, Fossato, Marsciano, Papiano, Cerqueto
e Casa Castalda, spargendo ovunque la desolazione, il terrore, la
morte.




CAPITOLO XXVII.

Il capitano Tre-Grazie.


Uno solo de’ capitani non aveva seguito i colleghi in quella gloriosa
spedizione.

Era il giovinetto, che questi chiamavano il capitano _Tre-Grazie_.

Costui era rimasto nell’abazia di Monte degli Angioli presso di
Pierluigi.

Si trovavano soli.

— Che scritto è quello? — gli chiese il duca indicandogli un foglio
piegato in quarto e giacente sul tavolo, inanzi al quale egli stava
seduto.

Il giovane lo spiegò e:

— Un rapporto di monsignor Filareto — rispose.

— Ah! ah!... cosa dice?

— Ho da leggere?

— No, no, poffar Bacco!... dimmene il sugo e mi basta!... Apollonio è
un fiore d’uomo come se ne danno pochi: dotto, profondo, che scrive
latino meglio del Fracastoro e il volgare meglio di messer Agnolo
Fiorenzuola.... un tesoro, insomma!... ma quando ho a decifrare le
sue zampe di gallina o ad inghiottire que’ suoi periodi eterni, che
mozzano il respiro; Dio degli Dei, preferisco ammalar di renella, come
m’accadde due anni fa!.... tira, dunque via: cosa dice?

— E’ dice che i perugini, dopo aver spedito il loro Carlo della Penna
al signore Ascanio Colonna da Palliano, il quale eziandio di sovradazio
sul sale sembra non volerne sentire, gli hanno delegato adesso un
tale Lorenzo Bavarini cui messere il conte avrebbe impromesso aiuto di
quattrocento cavalli e di diecimila fanti.

— E buuum!... messere il conte di Palliano e di Rocca-di-Papa non
è stato per certo dal leggere l’_Amadigi di Gaula_ e le panzane di
Matteo Boiardo... ha di molte fanfaluche pel capo, il pover’uomo!...
quattrocento cavalli e diecimila fanti!.. eh, non mi fa celia il
messere!... come gli bastasse dar del piede nelle sue rocce d’Abruzzo
perchè ne scaturissero uomini armati a mo’ di funghi dopo le prime
piove d’autunno.... se non hanno altre legna da bruciare nel verno i
buoni perugini possono disporsi a schiattare di freddo!... eppoi?

— Eppoi, che messer Ridolfo Baglioni ha lasciato Fiorenza, con
permissione di quel signor duca....

— L’ambidestro!

— E per la via d’Arezzo s’è dirizzato a questa volta, raggranellando in
cammino buon dato di gregari e di capitani.

— Fisime! fisime! co’ miei lanzi e i miei fanti e co’ lavori
d’approccio che mastro Francesco Marchi saprà prepararmi, Perugia non
la può durare una settimana!... m’ho solo una grossa paura.

— Quale?

— Che sapendomi qui, a capo dello assedio, colei non s’affretti a
svignarsela prima che la città cada.

— Eh! eh!

— Non ti pare?

— C’è un mezzo per impedirlo.

— Dirmelo subito!

— Che qualcuno vi s’introduca prima che le cose siano ridotte a tale
estremità.

— Per la croce, hai ragione; ma chi?

— Io.... se ti piace.

— Tu?

— Sai bene: quella donna io l’aborro.

— E ti basterebbe l’animo?

— M’hai conosciuto mai d’animo fiacco e pusillo?

— Oh, no; ma....

— Ho il tuo consenso?

— Ma come intendi condurti?

— Ridolfo Baglioni tiene i suoi quartieri poco più in qua di Cortona
nelle campagne adiacenti al Trasimeno.... io ci vo’ senz’altra
compagnia che quello scaltrito del tuo Pellegrino di Leuthen....
Ridolfo sta appunto là facendo incetta d’uomini d’arme e capitani di
lance, co’ quattrini speditigli dai buoni rivoltosi di Perugia.... noi
gli proponiamo di accettarci al suo soldo; non istiamo a stiracchiarla
troppo circa le paghe, e non c’è pericolo ci rimandi.... una volta del
suo esercito, lascia fare a me per procacciare al restante.

— E tu fa quello che il core ti detta.

— Sai per prova che il core non mi può dettare se non quanto istia col
tuo interesse e il sodisfacimento de’ tuoi desideri.

— E perciò me gli affido.

— Forniscimi, intanto, di un salvocondotto.

— Col tuo nome proprio?

— No: di’ semplicemente pel suo latore: assumerò il nome che più mi
convenga.

— E sia.

E Pierluigi si chinò sul tavolo e — cosa rara — vergò di suo pugno il
richiestogli salvocondotto.

Il Trasimeno non ha del lago che la vastità: del resto — manchevole
affatto di rive, di dintorni, di amene accidentalità delle circostanti
campagne; con quelle sue aque immote, frigide, stagnanti, che si
dilagano a fiore di terra; con quelle uggiose canne palustri che vi
crescono, vi muoiono, vi imputridiscono tutto allo ingiro — ha più che
altro della immane pozzanghera, intorno alle cui melanconiche prode, il
demone della febre sbatte le mortifere sue ali di pipistrello.

Poco più in là di esso lago, in direzione della vetusta Cortona
dalle etrusche mura, non lungi dalla vasta e fertile Valle di Chiana,
trovavasi abbivaccato sur una diserta radura l’esercito messo assieme
da Ridolfo Baglioni, per conto de’ suoi concittadini, dei quali
intendeva muovere alle difese. Era un’accozzaglia d’ogni maniera
birboni, anche meno cappati di que’ che formavano le schiere di Santa
Madre Chiesa; il che è tutto dire: venturieri d’ogni lingua, refrattari
d’ogni bandiera, grassatori, tagliaborse, genti al bando di ogni
civile convivio, che miravano alle paghe, alle taglie, al saccheggio
e null’altro. Sempre — sin’anco addì nostri — quando s’è trattato di
improvisare milizie, sia pure per le più sante delle imprese, s’è
visto cacciarvisi dentro rifiuti di ergastolo e scampoli di forca.
I regolamenti e le discipline che preseggono a qualsiasi organismo
militare non si possono naturalmente chiamare in vigore in simili
occorrenze, epperò tanto vale tirar via le chiaviche a fogne o cloache:
gli scolaticci sturati e sciolti scorrono tumultuosi alla china e
bisogna lasciarli colare nel caldaione senza nè foraticcio nè vaglio:
tutto là dentro si rimescola e gorgoglia, come i vari e disparati
ingredienti, onde le streghe di Macbeth formavano il loro infernale
intruglio.

Ridolfo Baglioni, venuto d’Arezzo e Cortona, col principale nerbo
de’ suoi, che s’era andato ingrossando per via — aveva posto il suo
quartiere in quel sito, per farvi tappa, ed ivi attendere taluni de’
suoi capitani, che aveva spedito pe’ dintorni ad ingaggiare quanti più
uomini potessero. E — tratto tratto — qualcuno di costoro ritornava al
campo con qualche seguace. Primo era stato il Bettuccio, che veniva
da Castel Fiorentino dove s’era attardato; poscia Bino Signorelli,
che aveva dato una corsa in direzione di Chiusi; adesso era Giacomo
Bigazzini che riedeva dall’essersi inerpicato su su verso Gubbio. E
tutti menavano seco bulime incomposte di sgherri e persino di villici
avvinazzati, che intronavano i sentieri delle loro sguaiate e sconce
canzonacce. Altri due capitani, Girolamo della Bastia e Panta Almenna,
fuoruscito perugino, trovavansi già, a mo’ di vanguardo, inoltrati sino
a Perugia, dov’erano iti ad annunziare che presso Cortona si stavano
raccogliendo uomini, i quali accorrevano a torme.

Scendeva il bruzzolo.

Le aque del lago evaporate sotto la pressione di un caldo sole di
maggio ricascavano, all’ora della irradiazione, in una specie di
fitta ed umida caligine, che invadeva tutte le circostanti pianure ed
anticipava l’oscurità della sera.

I bivaccanti acciapinati per la massima parte su la nuda terra, fra
pochissime tende di rascia ed altre poche di pergole e fogliami —
avevano acceso vari fuochi e poste le sentinelle e stavano adoprandosi
a preparare la cena; quando lo scalpito improviso di due cavalli fece
a molti di loro rizzare le orecchie ed acuire gli sguardi verso la
strada costeggiante il lago. Non poteva essere nessuno de’ capitani,
dappoichè tutti si trovassero già restituiti all’accampamento. C’era
solo a temere fossero il della Bastia, o l’Almenna, già spediti a
Perugia, nel qual caso si aveva a presentire qualche poco gradevole
annunzio, o che, per esempio, i perugini, cedendo alle istanze rivolte
loro da molti maggiorenti e specie dal cardinale Gianmaria Del Monte
— che aveva congiunti nella loro città ed eravi già stato vice-legato
— si fossero risoluti a umiliarsi e domandar pace; o che le truppe
pontifice avessero fornito il loro cammino più prestamente di quanto
si poteva supporre e ridotto già alla impotenza la città ribellata: due
ipotesi codeste che riuscivano del paro sommamente incresciose a quella
feroce bordaglia la quale si sarebbe vista nel duro stremo di dover
ringuainare, a pena sfoderate, le sue care speranze di rapina e di
sacco.

Ma l’incertezza non durò a lungo.

Al grido d’allarme ed alla inchiesta delle scolte, s’intese una voce,
melodiosa, argentina, rispondere francamente:

— Viva Perugia e messer Baglione!

— Chi siete? — domandò una delle sentinelle.

— Gente di buona volontà — riprese la voce.

— Cosa desiderate?

— Null’altro che unirci a voi, per militare al vostro fianco in prò
della città di Cristo, contro le scellerate bandiere del suo Vicario.

— Siate i benvenuti! — fece la scolta, raddrizzando la pertugiana
inastata.

E lasciò che i due cavalieri entrassero nel campo.

Inutile il soggiungere, che erano Pellegrino di Leuthen e il capitano
Tre-Grazie.

Il Baglioni dormiva, per cui i due sopraggiunti vennero, da un
capolancia, guidati dinanzi a Bino Signorelli, che ne aveva la
luogotenenza.

Costui, non appena li ebbe scorti e risaputo dal capolancia a quale
scopo traevano allo attendamento:

— Menar le mani con noi? — disse loro — ma sarete appagati, gaglioffi
miei.... noi non chieggiamo altro di meglio che uomini!.... solo, ho
una lieve difficoltà da affacciarvi.

— Quale? — interrogò Tre-Grazie.

— Dall’un canto, che tu mi pari un cosettino mo’ mo’ svezzato e,
più che a far la barbuta in campo e contra dell’inimici, adatto a
giocarellare alla palla e addestrar cagnuoli od aironi in paggeria di
qualche potente gentiluomo o di qualche dama leggiadra; dall’altro, che
il tuo compagno, mal’atticciato com’è e poco in gambe, m’ha più l’aria
di un merciaiuolo ambulante chè d’una lancia spezzata.

— Non precipitate i giudizi vostri, messere!.... le apparenze traggono
assai soventi in errore e, quando m’abbiate visto alle prove, dovrete
farvi un ben diverso criterio di me: vi convincerete ch’io sono
tutt’altro da ciò che vi appaio....

E, nel dir questo, Tre-Grazie soghignò maliziosamente, mettendo
in evidenza due file di denti piccoli ed uniti d’una smagliante
candidezza. Indi continuò:

— Non sarà sotto di voi, messere, che io farò le prime mie armi.

— E sotto chi le hai fatte, le tue prime, di grazia?

— Sotto il duca d’Herbosa, l’anno passato, nelle Fiandre, d’onde
ritorno.

— Diavolo! diavolo! e di qual terra sei?

— Di Valle di Nure, messere, in quel di Piacenza.

— E ti chiami?

— Ho veramente nome Pier Schianchino de’ Mattei; ma i miei commilitoni
m’hanno ribattezzato con quello di capitano Tre-Grazie e così mi
chiamo.

— Giuggiole!.... capitano, tu dici?

— Tanto io era almeno nello esercito di Sua Maestà Apostolica e
Cattolica, l’imperatore di Lamagna, re delle Spagne e delle Indie.

— Ma io non posso pigliarti come tale anche fra noi, primo: perchè
tutte le bandiere sono coperte; secondo: perchè mi vieni pressochè
solo, non contando io per un uomo la specie di scimia, che ti fa da
compagno.

L’onesto Pellegrino mise fuori un sordo grugnito di malcontento.
S’intendeva facile che la qualificazione di scimia non gli andasse
troppo a fagiuolo.

— Nè tanto io richiedo — fu sollecito a rispondere Tre Grazie — sono
senza ingaggio e bramo impiegar bene il mio tempo: capitano o soldato
m’è indifferente; solo desidero ispirare a voi ed al magnifico messer
Ridolfo Baglioni qualche speciale fiducia, acciocchè mi abbiate a
tenere in onore e non confondermi con la ciurmaglia e il canagliume,
che brulica, senza dubio, sotto gli ordini vostri.

— E sta riposato — sclamò ridendo il capitano — che tanto io quanto
messere ti adopreremo a buon conto!... la tua cera mi garba; poi,
mi garbano anco que’ tuoi fari spicci e disinvolti e quel non so
che di frizzante e di rodomontesco, che ti balena negli occhi... hai
le fattezze d’una donnina; ma gli occhi, poffare, sono quelli di un
diavolo!... se nissun altro ti voglia fare buon viso, ci sono io, Bino
Signorelli, che ti accetto come mio secondo e luogotenente.... ti va?

— Capitano, io non saprei desiderare di meglio.

— Solo, se ho trovato subito il collocamento per te, non so davvero che
farmi di quella tua segrenna di commilitone.

Pellegrino fece un’altra smorfia.

— È un tedesco — mormorò allora Tre-Grazie chinandosi all’orecchio
del capitano — segrenna sin che vi piace, ma destro, astuto, fino
come l’oro.... aggiugnete, messere, ch’e’ conosce questi luoghi palmo
a palmo, meglio ancora che se vi fosse nato: voi potrete trarne il
maggiore profitto come indagatore, come esploratore....

— O come spia, t’ho mangiato — concluse sghignazzando il Signorelli.

— Per cui — continuò il giovinetto — se pigliate me, come luogotenente,
e tutti due noi pigliamo lui come nostr’uomo di confidenza.

— Si avrà la tua, se t’aggrada; ma la mia no, di certo.

— Mi faccio suo mallevadore!

— Oh, non scaldarti il fegato, ragazzo!.... che se ne vada, o che
resti poco men cale: se hai tanto attaccamento per quel tuo tedesco
del malanno e tu tientelo pure, in buona pace.... non mi domandi un
baiocco, per altro!.... darò a te la tua paga: quattro ducati il
giorno, il doppio ne’ giorni di battaglia e un decimo del bottino
convenuto per la mia gente; ma a lui, bada bene, nemmanco un sesino: ci
avrai a provedere tu stesso.... ti va?

— È quanto appunto stava per proporvi io medesimo.

Il giovine capitano sapeva bene, che le controversie co’ venturieri di
quel tempo si riducevano pressochè tutte a question di quattrini.

Signorelli non aggiunse verbo; accolse il giovine nella sua tenda
e disse brutalmente a Pellegrino che, se voleva coricarsi, si
procacciasse un po’ di posto in su l’erba. Tre-Grazie, dal canto suo,
lo incaricò, di aver cura dei cavalli.

L’indomani mattina lo stesso Signorelli veniva chiamato a sè dal
Baglioni, il quale gl’intimava di spedire immantinente qualcuno
de’ suoi a Perugia, che avertisse della Bastia e l’Almenna del loro
prossimo arrivo.

Ormai tutto il più d’uomini su cui si potesse contare era raggruzzolato
e non eravi più ragione per non rompere gl’indugi e mettersi in via.

Il Signorelli — ritornato alla propria tenda — chiese a Tre-Grazie se
fosse proveduto di buon cavallo.

— Ho un nero ginetto di Spagna, — gli rispose il giovine — che va come
il vento.... quando gli sono in groppa, e’ mi pare d’aver messo l’ale
alle spalle, tanto mi fischia l’aria impetuosa sul viso.

— E il tuo tedesco?

— Dove io vo e lui viene, il che significa, messere che il suo cavallo
non è da manco del mio: e di fatto è un eccellente puledro maggiaro.

— Se così è, figliuolo, io ho subito trovato bisogna per te.

— Ne ringrazio Iddio.

— O il diavolo ch’è tutt’uno!...

— Che si tratta di fare?

— Di montare in sella del tuo famoso ginetto e col tuo malnato tedesco
alle terga, che ti faccia da scudiero o valletto, qual più ti aggrada,
dare una brava corsa di tutta lena sino a Perugia.

Tre-Grazie dovette impor freno a’ moti del proprio cuore, affinchè un
trasalimento improviso ed inopportuno non isvelasse la gioia che quello
annunzio gli cagionava.

— A Perugia? — domandò, invece, con aria d’apatica curiosità — e che ci
andrò a portare a Perugia?

— Null’altro che l’annunzio del nostro prossimo arrivo.... a pena
giunto in città, ti recherai in piazza grande all’Udienza della
Mercanzia, dove hanno sede i Venticinque, e chiederai loro de’ capitani
nostri messer Gerolamo della Bastia e messer Panta Almenna e, come
ti sia dato avvicinarli, istruiscili che ci hai lasciato sul punto
di levare il campo e d’avviarci, cosicchè, se oggi siamo a’ dieci di
maggio, posdimani, dodici, contiamo averli raggiunti.

— E null’altro?

— Null’altro.

— Ma, dico, messere, que’ vostri capitani di lassù mi vorranno e’
riconoscere e prestar fede?

— No, certo, se tu ci andassi così di tuo talento; ma io vo’ a fornirti
del necessario, perchè non ti abbiano a pigliare in sospetto.

E, da un gregario, fece chiamare un tale messer Teodosio Arricciabene,
piccolo e gramo chierico che, nell’esercito raccogliticcio del
Baglione, serviva da segretario, e gli commise di scrivere le
patenti, che dovevano fare rispettare ed accogliere amicalmente il suo
emissario.

— Tornami a dire il tuo nome — chies’egli a Tre-Grazie — come ti chiami?

E questi:

— Pier Schianchino de’ Mattei, detto Tre Grazie.

— E il tuo sbilenco tedesco?

Il giovine stette in forse un momento. Probabilmente pensò che,
sotto il proprio vero nome, il pseudo-antiquario fosse troppo noto
anche in Perugia e suoi dintorni per non essere esente da pericolo il
declinarlo.

— Ebbene? — fece il Signorelli.

— Eh, messere — rispose il giovane, sorridendo e dondolando il capo,
tanto per guadagnar tempo — non vi state a spazientire... se non v’ho
subito risposto, egli è che mi facevo ritornare in mente il modo in cui
quel suo dannato di nome è scritto.... e’ pare un kirieleisonne!

— E com’è dunque?

— È Volframo di Rautzengrachenberg.

— Accidenti!

— Vedete!

E Teodosio Arricciabene, s’ingegnò del suo meglio — dietro le
indicazioni del giovinetto, che glie lo dettò lettera per lettera — a
scrivere il finto nome appioppato da questi a Pellegrino di Leuthen sul
foglio di ricognizione che dovea servir loro per introdursi in Perugia.

Munito di un tal foglio, Tre-Grazie inforcò il suo negro cavalluccio e,
seguito dal fedel Pellegrino, prese la via di Perugia.

Poteva così mantenere ciò che aveva impromesso a Pierluigi Farnese e
senza avervi durato grande studio, o fatica.




CAPITOLO XXVIII.

Castel Torsciano.


L’arrivo dei due emissari del Baglione venne accolto da’ perugini col
massimo entusiasmo e tanto più che, nel frattempo, le schiere pontifice
— dopo aver messo a ruba il circostante paese — s’avanzavano a marce
forzate sopra la città assediata, gli spagnuoli scendendo dal monte di
Assisi, gli altri prendendo la via del ponte di San Giovanni.

Nella tema che il Baglione o non attenesse la data parola, com’era suo
costume, o che l’esercito assediante riuscisse a circuire interamente
la città prima dello arrivo de’ suoi e ad intercluderne loro l’accesso;
messer Bartolomeo della Staffa — lo zio della nostra giovine Bianca
— come il più dovizioso ed influente de’ Venticinque — aveva spedito
suoi creati e fedeli — tra’ quali Terremoto — a correre i dintorni per
assoldare, in suo nome e per suo conto, fanti e cavalli, ed a messer
Valerio Orsino, perchè, dal canto suo, armasse altra gente. Intanto si
afforticavano gli spalti e si drizzavano bastite e beltresche, massime
in Borgo San Pietro, presso lo Spedale del Cambio, e in quella parte
delle mura che riguardano San Cataldo.

E con gli apparecchi della difesa e il crescere delle paure, cresceva
eziandio il foco ascetico degli assediati, i quali, nudo il capo, a
piè scalzo e ravvolti in bianco saio, come i flagellanti del secolo
XIV, ivano notturnamente processionando per le strade della città
e sostavano in lunghe orazioni dinanzi al crocefisso eretto su la
scalinata della cattedrale.

Correva il 12 maggio.

Ad una bella e splendida mattinata di primavera era susseguito un
pomeriggio scuro e annuvolato promettente nulla di buono. I nembi,
incalzati da un gelido e furioso vento di tramontana, scendevano
a precipizio giù giù dal vertice delle montagne fumiganti quali
altrettanti vulcani, e s’andavano ad addensare nella valle, come
falangi al momento della battaglia. Il buio della procella era sì
intenso da non lasciar più scernere nè case, nè alberi, nè vie. Le
raffiche dell’aquilone s’insinuavano con un lungo e funebre gemito, tra
le chiuse imposte delle abitazioni e mettevano un freddo presagio nel
core degli abitanti. La piova cominciò a cadere, prima a larghi, rari
e chiassosi goccioloni, poscia a rovesci, a torrenti, come se tutte le
cataratte del cielo fossero state tolte ad un tempo.

Era uno sbigottimento generale.

Ad ogni folata della impetuosa tramontana, le antenne, le travi, le
tavole dei lavori di difesa, cigolavano sul loro asse, si schiodavano,
si schiantavano minacciando rovinare in isfascio: persino le bombarde
le colubrine, le cortane, i passavolanti, oscillavano sordamente su i
loro affusti. L’aqua scorreva a rigagnoli lunghesso il lastrico delle
vie e, in taluni luoghi, intercettando le comunicazioni, tanto il
rigagnolo era presto convertito in canale.

Le donne gemevano, si strappavano i capelli. Le compagnie de’ penitenti
continuavano a processionare sotto la pioggia battente percotendosi
e flagellandosi le nude carni, affine d’implorare dalla suprema
providenza il cessare di tanta jattura. Gli avversi alla guerra,
cui erasi inconsultamente cimentata Perugia, ne traevano argomento
per malaugurare della temeraria impresa ed erigersi ad altrettante
Cassandre de’ loro concittadini.

In questo mezzo uno improviso squillo di campana pose tutti gli animi
in sospeso.

Era la campana di porta Susanna, che dava, in tal modo un ben noto e
ben sospirato segnale.

Annunziava l’arrivo del magnifico messer Ridolfo Baglioni e delle sue
genti.

Infatti, in su lo scoccare delle ventitrè di quel medesimo giorno e
mentre la tempesta infuriava anche più violenta, il nobile fuoruscito,
alla testa de’ suoi capitani e dei molti uomini d’arme, ch’era andato
vie via raccogliendo, penetrava nella città assediata e prendeva stanza
nelle case che sono tra il Priorato ed il Duomo.

Con quella mutevolezza subitanea, che fu, è e sarà sempre carattere
distintivo delle masse popolari, all’arrivo di quel forte nerbo di
difensori, i buoni perugini — comecchè la procella infierisse tuttavia
— convertirono in altrettanto giubilo il loro sgomento di poco prima, e
vi dèttero libero sfogo, con spari di mortaretti, luminarie, fiammate e
festivo sguinzagliamento di tutte le campane della città.

Intanto le milizie papali s’inoltravano sempre e, sino da due giorni
prima, erano giunte in vista di Castel Torsciano.

Castel Torsciano, giacente a cavaliere del colle, ben munito ed
afforzato, formava per così dire, la chiave di Perugia, ed era affidato
in primo luogo alla guardia dei capitani Ascanio della Corgna e Andrea
d’Arezzo ed, in secondo — come sappiamo — a quella del Cavalier Nero.

Le maniere distinte, il saper grande di costui, massime nelle cose
militari, gli avevano subito assecurato un alto ascendente sopra i suoi
due compagni nel comando, i quali non istavano mai dal consultarlo per
tutto ciò che concerneva la difesa del castello. Su l’albeggiare del 10
maggio, i pontifici, capitanati da Alessandro Vitelli e dallo stesso
Pierluigi Farnese, vi si accostarono improvisamente, senza piantar
bastite, nè mettere approcci, e, con un forte impeto di artiglierie
tentarono impadronirsene per sorpresa.

Ma fallirono nello intento.

I difensori del castello — comunque colti alla sprovista — non
dormivano. Addatisi a pena del sovraggiungere de’ nemici, furono
tutti quanti erano a presidio delle mura e, di lassù, cominciarono
con le spingarde e i moschetti a sfolgorarli così che quelli dovettero
rinunziare issofatto alla temeraria impresa e battere incompostamente
in ritirata.

Primo fra i primi ad accorrere sul punto peggio esposto ai colpi de’
papalini, fu il Cavalier Nero, il quale — tutto chiuso nella sua bruna
armatura e con nuda in pugno la spada — si dètte a postare una grossa
colubrina, mentre impartiva l’ordine ad una parte de’ suoi di stendere
lungo l’esterno delle mura sacconi e matterassi immollati d’aqua, per
ammortire i proiettili, che venivano lanciati contro il castello, e ad
altri dividersi in due schiere, l’una, in seconda linea, che caricasse
le armi, l’altra in prima, che le scaricasse. Così determinò un fuoco
continuo e ben nodrito di moschetteria, al quale precipuamente si
dovette di mettere in isbaraglio i nemici.

Mentre questi valicavano in disordine il ponte sul Chiagio, il Cavalier
Nero rimarcò uno dei loro uffiziali che inutilmente cercava arrestarli
e risospingerli all’attacco. Dalle ricche vesti, dalle splendide armi,
niellate di aurei rabeschi, dal variopinto cimiero, facile indovinò
esserne egli uno de’ capi supremi, ed acuì viemmaggiormente lo sguardo,
per distinguerne le sembianze.

Era Pierluigi Farnese.

Il Cavalier Nero, riconoscendolo, mandò un grido, una specie di ferino
ruggito e — strappato l’archibugio di mano ad uno de’ gregari, che
lo aveva allora ricaricato — gettò la spada e glie lo appuntò contro,
mirando a lungo per non fallire il colpo.

Scorgevasi chiaro che l’odio il più intenso gli guidava la mano, gli
dava fermezza al polso e sicurezza allo sguardo.

E il colpo partì.

Nè avrebbe mancato il bersaglio se — in quel medesimo punto — il signor
duca di Castro — fattosi capace della inutilità de’ proprî sforzi — non
si fosse deciso ad allontanarsi, gittandosi a sua volta sul ponte del
Chiagio.

Nel mentre istesso che il Cavalier Nero girava la miccia
dell’archibugio per accostarla al focone; Pierluigi, con un colpo di
sproni e una strappata di morso, faceva girar di fianco il proprio
cavallo, nella cui groppa andò a configgersi la palla, che altrimenti
gli avrebbe traversato il petto.

Il Cavalier Nero spinse lo sguardo ansioso tra il bianco volitare del
fumo; vide il cavallo del Farnese impennarsi, rinculare un momento,
quindi traboccare sul fianco, trascinando seco il proprio cavaliere; e
non potè astenersi dal mettere un alta esclamazione di gioia.

Ma quella gioia fu di breve durata.

Il cavaliere rialzavasi tosto, soccorso da varî dei suoi subalterni,
l’uno de’ quali gli cedeva il proprio cavallo e lo aiutava a montarvi
in groppa.

Pochi istanti dopo non lo si scorgeva digià più. Era disparso al di là
del ponte.

A guardare i dintorni di Castel Torsciano rimase solo Alessandro
Vitelli, con alquante bandiere e il grosso dell’esercito pontificio
si ridusse alla Villa di Pretola. Ma l’archibugiata, che gli aveva
morto sotto il cavallo, era caduta su Pierluigi come una sfida ed
una derisione ad un tempo. Non volendo lasciare agio a’ perugini di
maggiormente affortificarsi, tanto più che i suoi spioni lo avevano già
reso inteso dello approssimarsi di Ridolfo Baglioni, egli giudicò, pel
momento, opportuno ritirarsi dalla impresa di assaltare il castello,
per avvicinarsi e minacciare la città; ma fermò resolutamente in cuore
di non ismetterne il proposito e di tornare ben presto alla riscossa.

Infatti non istette guari a tradurre in atto un simile suo divisamento.

I perugini — malgrado il rialzo de’ spiriti, procacciato loro dal
giungere delle milizie baglionesche — non si sentivano troppo
tranquilli e securi, e sapendo il Farnese, col forte delle sue
truppe, già inoltrato sino a Villa di Pretola — i Venticinque si
radunarono nel palazzo del Priorato, insieme al Baglione ed a’ suoi
più ragguardevoli capitani e dibatterono a lungo il da farsi. Molti di
quelli — tra’ quali segnatamente Giulio della Corgna e Tindaro degli
Alfani — opinavano lo si dovesse lasciar procedere, senza intoppi,
sino alle mura della città, profittando intanto del tempo ch’egli
v’impieghierebbe, per provedere viemmeglio alle difese di queste,
e attendere gli uomini impromessi da Valerio Orsino e da Ascanio
Colonna — Bartolomeo della Staffa — per contrario — era di aviso si
dovessero prendere immediatamente le offensive, e fare ogni sforzo per
respingere e sgominare lo esercito assediante, prima che avesse campo
di trincerarsi e di drizzare le sue macchine da guerra contro le mura
della città.

Lungo fu il diverbio. Da principio anco il Baglione schieravasi
sotto il vesillo de’ pusillanimi e sosteneva esso pure il partito
de’ temporeggiamenti; ma talune punte di sarcasmo sferrategli contro
dal focoso della Staffa lo consigliarono a mutar di proposito e ad
abbracciare, a sua volta, lo aviso di questi.

La sortita così deliberata ebbe luogo nel pomeriggio del giorno 18.

Occultati dal dosso di colle, che divide Pretola da Perugia, i
difensori della città di Cristo giunsero sin presso gli attendamenti
de’ pontifici, senza che questi si addassero del loro accostarsi.
Colti alla impensata, mentre badavano a prepararsi il rancio, il
primo impeto de’ perugini li pose nel più completo disordine e li
costrinse a sbandarsi, seminando di cadaveri il terreno. Ma le grida e
gli eccitamenti de’ rispettivi loro comandanti non tardarono molto ad
arrestarne la fuga, cosicchè — padroneggiato il panico della sorpresa
— si riannodarono prestamente in ischiere serrate ed opposero tale
un vallo irto di picche e di spade all’onda degli assalitori, la
quale — nella illusione di una troppo facile vittoria — rovinava loro
addosso furiosa ed incomposta; che questi istessi dovettero ben presto
convincersi di aver preso a pelare una gatta assai più cattiva di
quanto, da principio, non si fossero imaginato.

Il cozzo fu terribile.

Gli echi delle convalli ne ripeterono a lungo l’altissimo frastuono:
atriti di ferri, scoppî di bombarde, urla di minaccia, grida di
disperazione, gemiti di agonia, tutto un lugubre insieme.

E il cozzo si rinnovò più volte senza che nè l’una nè l’altra delle due
schiere ostili indietreggiasse di un passo.

Solo, fra di esse, andò, grado grado, sorgendo, a mo’ di linea di
demarcazione, una specie di baluardo continuo, come una cresta di
monte, che non tardò guari ad elevarsi sino al petto de’ combattenti.

Erano altrettanti cadaveri.

Le perdite risultavano forse maggiori dal canto de’ pontifici e,
probabilmente, un nuovo cozzo avrebbe dato il sopravento a’ perugini.

Ma, quando stavano appunto per cimentarvisi — il sovraggiungere
improviso di altre milizie li consigliò ad arrestarsi e a battere in
ritirata.

Era Alessandro Vitelli che — avertito nel frattempo da una staffetta —
accorreva da Castel Torsciano in aiuto de’ suoi commilitoni.

La ritirata fu disastrosa.

Inseguiti da presso dalle rimbaldanzite legioni del Farnese e più da
presso ancora dalla cavalleria, che giungeva in quell’atto — i miseri
perugini durarono la più grande fatica del mondo a mantenere qualche
po’ di ordine nelle loro file; dal passo accelerato, passarono a quello
di carica, dal passo di carica alla fuga precipitosa: si affollarono,
si accavalciarono, si pestarono a vicenda per penetrare i primi entro
la porta della città e tracciarono anch’essi un sanguinoso itinerario,
rigando di morti e di feriti la strada percorsa.

Giulio della Corgna e Tindaro degli Alfani si ravvolsero pomposamente
nel peplo de’ profeti.

Era ciò che desiderava il Capitan generale di Santa Madre Chiesa.

Occupati a bisticciarsi tra loro, a sanare i loro feriti, a seppellire
i loro morti, a rimarginare le gravi piaghe aperte nel corpo delle loro
milizie da quel primo e funesto scontro; i perugini potevano essere
lasciati qualche tempo in riposo, senza rischio che, nel frattempo, si
rissanguassero e divenissero più forti. Intanto egli poteva pensare a
prendere la sua rivincita su Castel Torsciano.

E vi pensò.

Raccolte tutte le sue truppe, tenuto consiglio co’ suoi capitani e
colonnelli, la presa del castello venne decisa.

Con l’alba del dì successivo i tre difensori dello antemurale perugino
si videro di bel nuovo circondati dal grosso dell’esercito pontificio.

Ma questa volta Pierluigi non procedeva più alla impazzata; non
chiedeva più consigli all’ardimento, ma alla prudenza; da leone erasi
fatto volpe; e volpe era dassenno.

Da Jacopo Meleghino di Ferrara e da Antonio Picconi del Mugello, detto
_Sangallo_, valenti meccanici ed architettori del tempo, che virtù
del quattrino raccoglieva sotto una medesima bandiera, comechè amici
tra loro quanto cane e gatto — Pier Luigi fece apprestare i necessari
lavori di approccio e non riposò tranquillo se prima non si vide securo
co’ suoi tra bastite e trinceramenti al sommo de’ quali vennero situate
le artiglierie.

L’indomani queste cominciarono a fulminare il castello e, per una
settimana continua, non cessarono un momento dal vomitargli contro
enormi proiettili infuocati, che ne sfiancavano, ne diroccavano le
antiche muraglie.

Con lo spirare del settimo giorno, alla sera del 26, un’ampia breccia
vi era già spalancata.

Non rimaneva che montare allo assalto. E quattro volte, ne’ successivi
due giorni, vi si provarono i papalini; ma sempre inutilmente.

Sul più alto del castello si aggiravano, senza posa, tre uomini che
sembravano l’anima della difesa, la cui vigilanza non pareva potersi
mai cogliere in fallo.

Erano Ascanio della Corgna, Andrea d’Arezzo ed il Cavalier Nero.
Qualcun di loro trovavasi sempre dove minacciava il pericolo, pronto
ogni volta e suggerire spedienti e a prestare direttamente l’opera
propria, per mettervi un riparo.

Sino a che aveva durato il bombardamento, il Cavalier Nero, facendo
prevalere una sua particolare veduta, erasi sempre opposto a che gli
uomini del castello cercassero — nascosti dietro i merli — di cogliere
al bersaglio qualcuno degli assedianti coi colpi de’ loro moschetti. A
suo vedere, sarebbe stato uno inutile spreco di altrettanta munizione,
di cui non c’era troppa dovizie, e che dovrebbesi poi rimpiangere,
al momento dell’assalto, il quale non poteva nè causarsi, nè venire
indugiato, per la morte di alcuni bombardieri caduti sotto que’ colpi.
Inoltre aveva consigliato di raccogliere accuratamente tutte le sugne,
i grassami, ed ogni maniera di sostanze oleose che si trovassero nel
castello e di porle a liquefare entro i caldaioni della cucina e della
cura, mischiandovi certa quantità di cenere e di pece, per formarne un
ranno infiammabile e spellante. Infine, tutto allo ingiro della sommità
delle mura, ordinò si disponessero quanti più sassi e scaglie di pietre
e grossi macigni si poterono rinvenire ne’ cortili e nelle dipendenze
del castello ed anco ritrarre dalla demolizione di alcuni interni suoi
fabricati.

Così, quando i pontifici al rompere dell’alba del 27 maggio — ardirono
avvicinarsi a quelle mura, e situatevi contro le loro scale, montarvi
su resoluti per tentarne il primo assalto; una pioggia di olio bollente
mista a grandinata di ciottoli ed a fuoco continuo di moschetteria, si
rovesciò loro sul capo e li costrinse a dare indietro e refugiarsi ne’
loro trinceramenti.

E altrettanto accadde del secondo assalto, altrettanto del terzo,
altrettanto del quarto.

Pierluigi — come direbbe un francese — se ne rodeva le mani sino
a’ gomiti tant’era il dispetto che quella eroica resistenza gli
metteva nel core. Non c’era supplizio a bastanza crudele, non morte a
bastanza tormentosa, che, nel feroce animo suo egli non si proponesse
d’infliggere a que’ strenui campioni di una causa santa, una volta
fossero caduti in sua balìa. E siccome — malgrado i loro sforzi
disperati — tornava indubitabile che, a simile estremità, ci sarebbero
dovuti venire; egli già pregustava, e quasi diremmo voluttuosamente,
l’atroce piacere delle sanguinose rappresaglie cui li avrebbe
assoggettati viventi e fors’anco cadaveri.

In quell’uomo c’era assai della tigre.

Ad onta, infatti, della loro pertinace resistenza, i difensori di
Castel Torsciano trovavansi ridotti allo stremo. Per respingere —
come lo avevan fatto con tanto buon esito — il quadruplice assalto de’
papalini, era stato loro d’uopo lanciare sino all’ultima pietra versare
sino all’ultima goccia del liquido ardente, bruciare fino all’ultimo
loro granello di polvere. Non avevano più mezzi offensivi. Solo
potevano prepararsi a vender cara la vita in una lotta disperata corpo
a corpo, combattendo con le picche, le spade, i pugnali, con le mani,
coi denti. Ma anche a ciò si opponeva un altro guaio: prima ancora
delle munizioni da guerra, s’erano esaurite quelle da bocca, cosicchè
correvano già tre giorni che i disgraziati non avevano toccato cibo.
Ne’ primi giorni di carestia, avevano sopperito alla mancanza assoluta
di vettovaglie, sgozzando e squartando i tre cavalli dei capitani
e spartendosene tra loro le carni coriacee; poscia erano ricorsi ai
gatti, ai sorci, persino al cane del castaldo; finalmente avevano fatto
bollire i cuoiami delle selle, le suole de’ scarponi, le cinghie delle
armature; ma, da tre giorni, non rimaneva loro più nulla e ne contavano
già due, durante i quali non avevano potuto smettere un momento dalle
aspre fatiche della difesa.

Scorse tutta la giornata del 29 senza che i pontifici ritornassero
all’attacco.

Da un canto, i più di essi stavano occupati nella triste bisogna di
sotterrare i loro morti, ch’erano assai; dall’altro, un proposito
infernale era surto, frattanto, nel cervello di Pierluigi, per cui
altri correvano i dintorni, onde procacciare i mezzi di mandarlo ad
effetto. Tali mezzi consistevano in grossa copia di rami secchi, che
costoro andavano raccogliendo per le siepi e le boscaglie e di cui
formavano fascine; il proposito era quello di circuire con queste
fascine il castello e di appiccarvi il fuoco, per costringerne la
guarnigione a darsi vinta, o bruciarvela dentro.

Ma la fame e Sua Beatitudine il Papa disposero altrimenti.

Ed ecco il come.

Quel giorno di sosta, impiegato da’ papalini in un pio uficio ed in un
esecrabile preparativo, era stato il colpo di grazia per gli assediati.
Affiochiti dalle fatiche de’ precedenti due giorni, privi, da quattro,
di ogni più tenue sostentamento; i miseri cadevano l’un dopo l’altro,
a terra, accasciati dalla stanchezza e dallo sfinimento; lo stesso
Ascanio della Corgna, lo stesso Andrea d’Arezzo sentivano mancarsi
sotto le gambe e non avevano più nè il core, nè il senno di avisare ai
pericoli della dimane. Il solo Cavalier Nero sembrava indomabile. Con
le braccia incrociate, le linee del volto fieramente rattratte, egli
s’aggirava, tetro e pensoso, per l’ampio cortile, sul cui lastrico
giacevano quasi tutti i suoi compagni d’armi prostrati dalla più
completa inanizione, e, a quando a quando, crollava superbamente la
testa, come per scacciare un molesto pensiero.

— No — ripeteva egli — no, per la croce!... scannarci a vicenda tra
noi, come fecero i prenestini per non arrendersi a Silla, piuttosto che
darci in mano di cotesto malnato.

Ma un sordo mormorìo di malcontento rispose a quella balda
dichiarazione. I suoi compagni non dividevano punto un simile aviso;
l’idea di capitolare la resa s’era già impadronita dell’animo di tutti.
E non ci fu modo: con l’alba del dì successivo un cencio bianco, che
avrebbe voluto essere una bandiera, sventolava sul mastio di Castel
Torsciano.

Pierluigi, intanto, era pur stato costretto di mutare, a sua volta, i
propri divisamenti.

Nel cuore della notte gli era giunta una staffetta da Roma, con una
lettera dell’ottimo e massimo suo genitore, nella quale Paolo III lo
istruiva degli apparecchi belligeri che andavano facendo i Colonna
di Palliano e di Rocca di Papa, insorti eglino pure a motivo della
sovrimposta sul sale, e lo esortava a finirla presto co’ perugini e a
trovar modo di chiamare sotto le proprie bandiere tutto quel maggior
numero di capitani e di lance, che questi avessero preso al loro soldo,
attesocchè — conchiudeva — fosse suo intendimento lo affidare a lui
anche il comando di quella nuova spedizione.

Per due distinti motivi, il Farnese accolse non senza dispetto un
simile annunzio, e perchè gli prescriveva di allontanarsi subito
di Perugia, non a pena l’avesse ridotta alla impotenza; e perchè lo
forzava a renunziare al suo diabolico progetto di fare un auto-da-fè
dei difensori di Castel Torsciano. Ma non c’era molto a dibattere:
le notizie di Sua Beatitudine erano troppo importanti, non solo per
gl’interessi di Santa Madre Chiesa, ma anco per quelli — più da curarsi
— della gloriosa casa Farnese e le ingiunzioni di lui troppo esplicite
e perentorie; perchè potesse frullargli in capo di non far caso delle
une, o di contravvenire alle altre.

Stava quindi già per impartire contrordini a quelli tra’ suoi, che si
preparavano a trascinar le fascine intorno intorno al castello, per
appiccarvi il fuoco: quando scorse il bianco segnale ondeggiante sul
mastio.

Il cacio — come suol dirsi — gli cascava su i maccheroni.

Siccome tornava evidente che i torscianesi domandavano di capitolare,
egli spedì loro il suo capitano Bombaglino, con una trombetta, a mo’ di
parlamentario. Patti: o s’arrendessero a discrezione; o promettessero
tutti, insino all’ultimo, di tornare all’obbedienza delle Sante Chiavi
e di pigliar soldo sotto gli stessi suoi ordini, di lui, Pierluigi,
che li avrebbe spediti — non contra Perugia — ma contra i colonnesi di
Rocca di Papa e di Palliano: altrimenti sarebbesi compiuto il proposito
d’intorniare il castello di legna secche e d’incendiarlo; scegliessero.

E — com’è naturale — scelsero il meno peggio dei mali: quello, cioè, di
riassoggettarsi al pontefice e di militar col Farnese.

Solo il Cavalier Nero avrebbe voluto opporsi a simile vergognosa
arrendevolezza; ma le proteste, i clamori, le minacce de’ suoi compagni
gli mozzarono sul labro i sermoni e lo fecero piegare a sua volta.

Del resto — nella stretta dell’ultimo momento — a lui pure soccorse
un pensiero, che gli fece intravedere quella capitolazione sotto un
tutt’altro rispetto e lo trasse a prestarvisi quasi di buon grado.

Così venne in potere de’ papalini l’antemurale della _Città di Cristo_
nel mattino del 30 maggio 1540.




CAPITOLO XXIX.

La taverna.


Caduto Castel Torsciano, Perugia non poteva più resistere a lungo.

Panta Almenna dette sibbene una brava pettinata ai cavalli di
Alessandro Vitelli, che — preso quel forte — s’erano avviati al Ponte
Pattolo per devastare le campagne. Gli altri difensori della città,
condotti dal Baglione e dal dalla Staffa tentarono sibbene una nuova
uscita, con la quale, — meglio avventurati che non nella prima —
giunsero a respingere e sbaragliare il grosso dell’esercito farnesiano
che — dopo il fatto di Pretola — s’era cotanto avanzato da cacciarsi
sin dentro il Borgo di Fontenuovo e — per gli oliveti del monistero
di Monteluce — accostarsi alla porta di Sant’Antonio. Una batteria
situata sul monte di Porta Sole li coglieva in pieno lungo la via
scoperta de’ Cappuccini, per la quale si erano volti in ritirata e ne
faceva macello. Giunse sibbene da Rimini messer Roberto Malatesta, col
soccorso di qualche barbuta. Ma erano — diremo — pannicelli caldi.

Le spelazzate alle campagne, l’esaurimento de’ quattrini — a grande
fatica — accattati, fecero scarseggiare, poi difettare totalmente le
vettovaglie e mancar le paghe a’ soldati. Il Baglione, ch’era mosso
da ingordigia di bottino e da avidità di salario più che da nissuno
amor patrio, strepitava, minacciava, a ogni tratto d’andarsene e di
sciorre la sua mal cappata accozzaglia. Un consiglio generale, tenuto
il primo giugno — nell’atto istesso che le milizie respingevano i
primi attacchi nemici — deliberava spedire a Roma il cavalier Gian
Benedetto Montesperelli e messere Orazio della Corgna, a chiedere
perdonanza e indulgenza. N’ebbe vento il popolame minuto e se n’adirò,
sbraitando per le vie di voler impiccare a gueffi delle case quattro
quinti de’ traditori Venticinque. Taluni di costoro, e primissimi
quel Giulio della Corgna e quel Tindaro degli Alfani, che avevano
sempre parteggiato per gl’indugi e.... la manna del cielo, n’ebbero la
tremarella, ed il primo così potente, che lo trasse a fuggir furtivo
dalla città; l’altro si preparò ad imitarne lo esempio col mandar fuori
tutto il meglio delle sue argenterie, arredi e supellettili, il che
scoperto, venne arrestato, posto prigione e poco mancò la bordaglia
irritata e schiamazzante non lo mettesse a pezzi. I maggiorenti — gli
uomini del commercio, del lavoro, del danaro che ce n’è sempre — si
sgomentarono di tutto un simile arrugginìo e cominciarono a sobillare
il Baglione perchè trattasse della resa. Il Baglione non domandava omai
di meglio e, due dì dopo, il 3 giugno, la resa venne trattata.

Contava egli tra’ suoi medesimi avversari un congiunto — Gerolamo
Orsino. A costui spedì, quindi, un suo araldo proponendo una
capitolazione. Il trattato venne discusso presso il monistero di
Monteluce e stabilito come segue:

1) che Ridolfo Baglioni si partisse securamente, con le sue genti di
battaglia e con le bandiere spiegate;

2) che il duca Pierluigi Farnese entrasse in Perugia, con una guardia
d’italiani a lui convenevole, senza alcun spagnuolo;

3) che prendesse possesso della città per il Papa e la conservasse in
quello stato in cui era avanti la ribellione, salva la roba e la vita
di tutti e l’onore delle donne.

Ma non corriamo troppo oltre ed arrestiamoci un tanto, per ritornare ai
principali personaggi della nostra istoria, che il desiderio di tener
dietro passo passo alle vicende politiche della _Guerra del Sale_, ci
ha fatto, per avventura, dimenticare oltre il convenevole.

Non così Pier Schianchino de’ Mattei e Volframo di Rautzengrachenberg,
o — a più giusto dire — il giovane capitano Tre-Grazie ed il vecchio
Pellegrino di Leuthen, ebbero adempiuto allo incarico loro, annunziando
ai capitani Panta Almenna e Gerolamo della Bastia ed ai Venticinque
il prossimo arrivo di Ridolfo Baglioni; che quello — seguendo le
indicazioni dello astuto tedesco — si mise tosto in giro per iscuoprire
le tracce della nostra giovine Bianca.

Nè il compito doveva tornargli difficile, dappoichè Pellegrino — nella
precedente sua sosta a Perugia — avesse scoperto come la fanciulla si
trovasse albergata presso lo zio Bartolomeo della Staffa e dove sita la
casa di costui.

Tre-Grazie non ebbe che a rendervisi, con un pretesto, per sincerarsi
della esattezza di tali scoperte. E il pretesto fu subito trovato. Da’
medesimi capitani baglioneschi, a’ quali era stato commesso, aveva
risaputo come il della Staffa — impaziente e dubitoso qual era del
sollecito arrivo de’ richiesti soccorsi — si fosse deciso a spedire
ingaggiatori suoi propri per le circostanti borgate in busca di gregari
e cavalli. Trasse quindi partito da ciò per recarsi a fargli visita
ed assecurarlo in persona che quei soccorsi erano in sul punto di
giungere.

Messer Bartolomeo lo accolse da quel perfetto gentiluomo che era con
ogni maniera amabilità e cortesie e — volendo farlo capace di sua viva
riconoscenza per quanti volavano in difesa dell’amata sua patria — lo
pregò istantemente acciocchè si compiacesse pigliar stanza in sua casa
e posto alla sua mensa.

Tre-Grazie non avrebbe saputo domandare di meglio: toccava il cielo col
dito. Tanto per rispetto alla forma, cominciò dal rifiutare l’onorevole
invito; ma poi — come cedendo alle gentili sollecitazioni dell’ospite
— finì ad accettarlo e — da quel giorno istesso — si trovò insediato in
casa dei della Staffa, sotto il medesimo tetto che ricovrava la giovine
Bianca, vale a dire: padrone del campo.

Occupata la posizione, lo studiare il piano che lo menasse a vittoria
completa, non doveva essere per lui che l’affare di un attimo. E
lo fu. Ne scrisse allora diffusamente al Farnese, esponendogli, in
primo, il resultato de’ propri maneggi e, quindi, le sue speranze ed
i suoi intendimenti per l’avvenire e gl’inviò la lettera col mezzo di
Pellegrino, che ottenne ovviamente di far uscire dalla città, sotto
colore di spedirlo al capitano Signorelli, con una sua particolare
missiva.

Sbarazzatosi del tedesco — che, restando in Perugia, poteva essere
riconosciuto e guastargli le ova nel paniere — egli si senti anche
più forte. Gli pareva che nulla più al mondo potesse sovraggiungere
ad attraversare i suoi progetti, i quali — come il sagace lettore può
facilmente imaginario — erano tutti in odio della nostra misera Bianca.

Ai pasti cotidiani della numerosa famiglia della Staffa, egli trovavasi
assiso al di lei fianco.

La giovinetta — come lo scorse — ebbe un soprassalto di terrore e un
freddo brivido le corse per tutte le ossa. Le sembrava non essere
quella la prima volta che si vedeva dinanzi quel volto imberbe e
fortemente accentuato e che quegli occhi scintillanti si affisavano in
lei. Ma — per quanto frugasse e rifrugasse ne’ più reconditi penetrali
delle sue reminiscenze — mai pervenne a scovare un solo ricordo, che
coonestasse una tale imaginaria supposizione.

Allora pensò, che quanto stimava rimembranza non fosse, invece, altro
che presentimento e — siccome la vista del giovine ufiziale le aveva
dato quasi una stretta al cuore — non potè credere che a presagio
funesto ed istintivamente alienarsi da lui.

Se ne avvide Tre-Grazie e — mettendo ogni più accurato studio nel
far onore al proprio nomignolo — s’industriò quanto più seppe per
combattere nell’animo della fanciulla quella prevenzione di repugnanza.
E tanto vi si adoprò destramente che non era ancora scorsa una mezza
settimana senza che Bianca fossa costretta a mormorare fra sè:

— Perchè mai mi tormento con le strane mie ubbie?.... cotesto capitano
è il più garbato giovane che mi conosca; è tutto condescendenza ed
affettuose cure pe’ miei ospiti e congiunti; non mi rivolge mai verbo
che non improntato della più onesta reverenza; ed io ho a serbargliene
rancore?.... e di che? e perchè?.... evvia! bando una volta a queste
sciocche idee da feminuccia volgare!

Se in quel tanto di brutale istinto, che pur s’incontra nell’uomo, c’è
molto del cattivo, e c’è pur anche molto del buono. Certe spontanee
repulsioni, che ci si manifestano inconsapevolmente al primo aspetto
di una cosa, o di una persona, appartengono forse a questa seconda
parte dello istinto nostro. Ma noi — con la ragione sviluppata dalla
educazione e col criterio sviluppato dalla ragione — in luogo di
secondarle ci adopriamo del nostro meglio a combatterle, rintuzzarle,
annientarle e non sempre col nostro maggiore vantaggio.

Bianca si trovava appunto a far questo: la poverina imponeva silenzio
alle provide voci del proprio istinto e — cedendo al fascino di una ben
giuocata comedia — si lasciava attrarre come usignuolo dal serpe.

Non andò guari, infatti, che Tre-Grazie se n’ebbe cattivata tutta la
confidenza, come già godeva quella dell’intera di lei famiglia.

Il piano di costui era della più grande semplicità. Dal modo, in cui
camminavano le faccende, egli comprendeva bene che i perugini non
l’avrebbero potuta durare a lungo e che il giorno di capitolare la resa
non doveva essere lontano. A questo punto, tornava evidente, che i più
de’ Venticinque — come quelli che reputavansi maggiormente compromessi,
ed in ispeciale messer Bartolomeo della Staffa, che lo era daddovero e
molto — non avrebbero indugiato a mettere il più di strada possibile
tra la loro gola e il capestro, che probabilmente gli apparecchiava
il Farnese. Egli, dunque, si sarebbe proposto — nella sua qualità di
nuovo amico di casa — di tutelare e scortare con alquanti de’ suoi la
fuga di messer Bartolomeo e la sua famiglia; avrebbe disposto in guisa
che questa si operasse di notte; quindi — aiutato dalle tenebre e da’
compagni — toltasi in braccio Bianca, fatto voltar groppa al cavallo e,
via, dàtogli di sprone sino alla tenda di Pierluigi.

Presumibilmente nulla poteva intervenire, che gli sconcertasse un
simile piano.

Tutto lo assunto compendiavasi nello accaparrarsi il concorso
di quattro o cinque ausiliari, che — per quattrini, s’intende —
consentissero a prestargli mano nel divisato rapimento; ed era ovvio
che cosifatti satelliti dovesse ricercarli tra le milizie del Baglione,
da vari giorni già arrivate in Perugia e che racchiudevano ogni maniera
de’ più eterocliti elementi, e non durar pena a trovarli.

In capo della via, allora detta _Nuova_, perchè costrutta nel 1390,
piegando verso l’Arco di Augusto, aprivasi una lurida bettolaccia dalla
porta sgangherata, le tavole unte e bisunte, le panche traballanti su’
loro piedi sconnessi, dove i soldati e i capilance di quelle milizie
avevano preso l’andazzo di convenire ogni sera, in cui non fossero
di guardia alle mura, per accoppare il tempo giuocando a zara e
sbevazzando vin cotto delle Marche, o vin crudo delle Romagne.

Ivi trasse una sera Tre-Grazie, nello intendimento di farvi, a
bell’agio, i suoi studi.... _in anima vili_ e la sua scelta.

Confidente nel proverbiale _in vino veritas_, era egli persuaso che,
in nessun luogo meglio che alla taverna, avrebbe potuto formarsi uno
esatto criterio sul carattere e l’indole vera dei farabutti, cui era
sul punto di domandare sussidio.

Tra superiori e subalterni, ce ne trovò, infatti, congregati bene una
ventina, gli uni stretti in circolo attorno a un tavolo su cui due
loro compagni si garrivano, o ai dadi o alla mora, prima le paghe,
poi il cavallo, poi la daga, la spada, il pugnale, il moschetto e —
finalmente — la loro parte di bottino... _in fieri_; altri a cavalcioni
di una panca, con le gomita puntellate al sordido desco e gli occhi già
imbambolati dalle reiterate libazioni: altri, infine, o accoccolati o
stesi addirittura sul terroso pavimento e immersi nel sonno.

I morioni, le barbute, gli elmetti, le partigiane, i centuroni, i
cosciali, smessi da’ giuocatori e da’ bevitori, per istar meglio in
panciolle, giacevano alla rinfusa in un canto della stamberga, cui
davano l’aria d’un magazzino di rigattiere antiquario.

L’ostessa — grossa contadina di Foligno, dall’epa regurgitante, gli
occhi lagrimosi e il mento barbuto — s’affaccendava, da destra a manca,
qui recando un paio di bicchieri di stagno, là un fiasco di Sangiovese,
dove una frittatina grassa al battuto di lardo, dove una lucernetta
d’ottone a tre becchi, per meglio rischiarare una partita ai dadi.

Appesa nel mezzo del soffitto a vôlto, nero come quello d’una cantina,
un enorme lanternone di ferro, dai vetri fuliginosi e dal lucignolo
scoppiettante, spandeva la sua luce tetra e rossastra su quella scena
bizzarra.

Quando vi penetrò il giovane capitano Tre-Grazie, la bettola echeggiava
de’ più bestiali e assordanti clamori: giuocatori, che si bisticciavano
e, dalle parole, minacciavano passare alle busse; capilance, che
gridavano più forte, per sedarne la bizza e ricondurli al silenzio;
beoni che tempestavano le tavole di colpi, per richiedere nuovo
alimento alla loro sete da spugne, o che — in quella beata estasi
della prima ebrezza — intuonavano sguaiate ed oscene canzonacce;
tutti i dialetti, tutte le imprecazioni e bestemmie più accidentate,
che s’incrociavano, come razzi e girandole, in un fuoco d’artefizio;
formavano una chiucchiurlaia di suoni, di urla, di strilli, così
strepitosa, da disgradarne due locomotive, quando si rasentano, in uno
scambio di convogli sotto una galleria ferroviaria.

Tre-Grazie sedette, si fece apprestare un bicchiere di lambrusco
riminese e prestò attenzione.

— Bada, Guidalesco — vociava uno de’ giuocatori, mentre agitava il
bossolo fatale — se perdo anco questa, che sia impiccato, che sia,
se non diserto domani e non piglio su il mio moschettone nuovo della
fabrica di Milano e quel famoso colpo di stocco, che m’ha insegnato lo
svizzero Gaspardo di Feltz, per andarli a profferire a Sua Grandezza,
Monsignor Duca di Castro, che Dio faccia campare mill’anni e che sarà
sempre meno tirchio e noioso di questo branco di bottegai perugini!

— Tieni la lingua a posto, Brancaccio! — gl’intimò un capo bandiera —
o che io, se la duri, ti fo legare su stretto peggio d’una salsiccia e
mortificare le carni, come ad un santo anacoreta!

— Ho detto: se perdo! — fece remessivamente Brancaccio.

— E hai perduto — gli ghignò in volto il suo antagonista.

— Sacramento! — urlò il perdente e s’allontanò dal tavolo, dopo averla
quasi sfondata con un pugno.

Tre Grazie lo chiamò a sè.

Aveva cominciato a scegliere.

Per via dello stesso Brancaccio — scampolo di galera che, a furia
d’aver mutato padrone e militato sotto tutte le insegne, non ricordava
più tampoco il paese dov’era nato — non tardò a stringere lì per
lì, conoscenza con altri tre birbaccioni, i quali — udito di che si
trattasse e dopo essersi fatti un po’ tirare per quanto al compenso, —
consentirono tutti di mettersi a’ suoi ordini e di aiutarlo in ogni sua
impresa.

Ma il proverbio dice che se il diavolo fa spesso le pentole non fa
sempre i coperchi.

Infatti — tra i frequentatori della taverna — tutti indistintamente o
assorbiti dal giuoco, o avvinazzati o dormienti, epperò non in istato
di prestare la minima attenzione al crocchio misterioso che Tre-Grazie
e i suoi quattro accoliti formavano in un canto — uno per eccezione ve
n’era, che vi badava ed anche tendendo molto l’orecchio.

Era costui un giovane capo di lancia, alto, ben fatto, pallido,
melanconico, il quale non si trovava in quel luogo che per mero caso,
indottovi da uno de’ suoi commilitoni, quello istesso che, poco prima,
aveva ammonito Brancaccio. Chiassone e sollazzevole quant’altri mai,
questo suo compagno non aveva tardato molto a staccarsi da lui per
assistere ad una partita di zara; cosicchè egli era venuto a trovarsi
tutto solo in mezzo a un ambiente, che — stando alle apparenze — non
doveva minimamente confarsi nè a’ suoi gusti, nè al suo carattere.

Volendo tuttavia — per non mostrarsi scortese — aspettare ad andarsene
che la partita di zara fosse finita; e’ s’era addossato frattanto
ad una delle pareti e stava là ritto, tutto assorto ne’ propri
pensieri; quando talune parole rivolte a fior di labra da Tre-Grazie a
Brancaccio, lo scossero vivamente e lo trassero da quel sue meditare.

Tali parole erano le seguenti:

— Quindi passare al soldo del signor duca Pierluigi Farnese!

Il giovine, all’udirle, ebbe come un trabalzo di sdegno; si staccò un
momento dalla parete; fece un passo inanzi; ma quindi — mutato aviso —
tornò a riprendere la sua postura, mormorando fra sè stesso:

— Sta bene! vi terrò d’occhio!




CAPITOLO XXX.

Il ratto.


Fatto l’accordo, i Venticinque che — malgrado il pattuito — non
s’estimavano troppo al securo, si disposero ad abbandonare la città con
le proprie famiglie, ricovrando poi, come fecero, quali a Siena e quali
a Firenze.

Del numero — e tra i primi — fu naturalmente Bartolomeo della Staffa,
che aveva coscienza di essersi adoprato per la santa causa della
sua patria assai più che chiunque; epperò certo d’essersi, più che
chiunque, attirato sul capo l’odio dei Farnesi.

Tre-Grazie vedeva, dunque, intessersi, filo per filo, tutto quanto il
suo ordito. La proposta di accompagnare e scortar nella fuga messer
Bartolomeo della Staffa ed i suoi, l’aveva già messa inanzi da vari
giorni e vista accettata con la massima premura e coi segni della più
viva riconoscenza. I suoi quattro scherani — che ovviamente il Baglione
aveagli concesso di trattenere, pur di pensare egli stesso alle paghe
respettive — gli aveva già introdotti in casa della Staffa e presentati
come suoi fidi seguaci, disposti a tutto ardire, a tutto sfidare, per
rendergli servizio.

Non c’era, quindi, il minimo ostacolo da temere, ed egli s’avvicinava a
grandi passi, al momento, in cui veder compiuto il progetto, che aveva
preparato con l’opera, sollecitato col desiderio.

Correva il 4 giugno.

Nel dì stesso una parte delle truppaglie di Ridolfo Baglioni doveva
lasciare Perugia e, due dì dopo, farvi solenne ingresso il signor duca
di Castro.

Conveniva, dunque, affrettarsi.

Bartolomeo della Staffa — ottemperando ai consigli o, piuttosto, alle
sobillazioni del capitano Tre-Grazie — decise di non lasciar scorrere
la notte di quel giorno, senza aver abbandonato la città dove il
restare più a lungo sarebbe stata la massima delle imprudenze.

Scesa infatti, la notte; compiuti i debiti apprestamenti; trattasi
dietro una mezza serqua di muli, che portavano in groppa i meglio
arredi, le meglio suppellettili della casa, e le biancherie, i
vestiari, i gioielli e le armi personali, Messer Bartolomeo della
Staffa, cavalcando con tutta la sua famiglia — che si formava di un
vecchio zio mezzo ebete, di tre figliuole, di un giovane cugino e della
nipote Bianca, oltre cinque famigli — uscì chetamente da porta Susanna,
accompagnato da Tre-Grazie e da’ quattro sbirri, che gli cavalcavano al
fianco.

Fu mesto, doloroso, straziante il distacco di quei profughi dalla loro
città natale, che ben comprendevano non avrebbero mai più riveduta.
Messer Bartolomeo — il focoso patriota, l’intrepido guerriero, l’uomo
aduso ai rischi ed alle sciagure — non sapeva impor la forza al proprio
affanno e rompeva in singhiozzi.

È tanto cara la patria.

Padroneggiato quel primo ed inevitabile schianto, e datogli, con
le lagrime, alquanto di sfogo e di ristoro; la mesta comitiva de’
fuggiaschi procedè silenziosa per l’aspra via dell’esilio.

La notte — che un repente annebiarsi del cielo aveva reso anche
più tetra — aggiungeva tristezza a quella tanta tristezza. I muli
del bagaglio andavano inanzi coi servi. Bartolomeo li seguiva a
qualche distanza, col capo inclinato sul petto, tutto assorto ne’
suoi dolorosi pensieri. Gli stava al fianco lo zio, che — per lo
accasciamento della persona e il modo trascurato in cui lasciava gire
la propria cavalcatura — sarebbesi detto altrettanto angosciato quanto
il congiunto; ma che, invece, non era che maggiormente istupidito
dalla nuovità del caso. Dietro loro, si tenevano le tre figlie del
capo-famiglia, elleno pure desolate e piangenti; poi veniva il giovine
loro cugino e, finalmente, Bianca, indugiata ultima a bello studio
dalle ciance del capitano Tre-Grazie.

Com’è facile a intendersi, per quanto il rammarico de’ suoi cari
dovesse pesarle grave sul core; ella — che aveva vissuto tanto più
a lungo nel Valnurese, presso dell’avolo, chè non a Perugia, presso
di loro — non poteva, per l’abbandono di questa città, provarne
altrettanto. — Il suo — per così esprimerci — non era che un rammarico
di consenso. Ond’è che, più facilmente di chiunque altro della triste
brigata, ella inchinavasi a prestare ascolto alle cortesi parole, che
le andava volgendo, ad arte, il giovine capitano.

S’erano così allontanati di circa un miglio dalla città, quando costui
— afferrando d’improviso le briglie della giumenta su cui ell’era
seduta — la costrinse di botto a fermarsi.

Bianca — un cotal po’ allarmata da quell’atto strano ed imperioso — fu
a un punto di mettere un grido. Ma Tre-Grazie la prevenne susurrandole
sommessamente col tono il più rispettoso:

— Non vi spaurite, madonna! egli è che m’è parso udire il trottìo di
vari cavalli, che camminino a questa volta, e vorrei sincerarmene....
statevi cheta un momento, che presti ascolto.

E scese d’arcione nell’atto di curvarsi a terra, per viemmeglio
origliare.

Un rumore s’udiva di fatto ed era proprio — come lo aveva annunziato
Tre-Grazie — la pesta di vari cavalli, che s’avvicinavano dalla parte
di Perugia.

Comunque — mentre egli origliava — la famiglia della Staffa si
slontanasse sempre più sollecitamente, tanto che non si percepiva
nemmanco più il calpestio delle loro cavalcature; Bianca, a
quel rumore, si tranquillò completamente, scorgendo in esso la
giustificazione del modo brusco e quasi violento in cui il giovine
capitano l’aveva arrestata.

Costui, per contro, ne rimase siffattamente stupito, che non sapeva
prestar fede al proprio orecchio.

Era strano infatti. Egli inventava di sana pianta un supposto pericolo,
onde aver pretesto per trattenere un momento la fanciulla e staccarla
così dal resto della comitiva che gli tornasse più facile il mandare ad
effetto il divisato rapimento; ed ecco che quel pericolo si manifestava
reale: gente a cavallo procedeva effettivamente su la strada che,
da Perugia, conduce al Trasimeno e — siccome non era probabile
fossero pontifici, quali egli li aveva fatti supporre a Bianca per
coonestare il proprio fittizio timore — ovvio resultava dovessero
essere o baglioneschi o — più presumibilmente ancora — altri perugini
fuggiaschi, da’ quali naturalmente nulla poteva ripromettersi di buono
pe’ suoi progetti.

In quella — a rendere anche più critica la situazione del capitano
— i leggieri vapori, che ingombravano il cielo, si diradarono
repentinamente e, fra i lembi delle nuvolette squarciate, la luna
piovve su la terra il suo candido raggio.

Bianca si guardò attorno, dall’alto della sua giumenta, e tornò a
provare un senso d’indefinibile trepidazione. La carovana de’ suoi
congiunti s’era già interamente dileguata dietro una sinuosità della
via; inginocchiato su questa e con in pugno le briglie del proprio
cavallo, Tre-Grazie stava sempre origliando in silenzio e — tra il
gruppo, che formavano eglino due, e il gomito dietro il quale era
sparita la famiglia della Staffa — quattro uomini tenevansi immobili,
ritti su i loro cavalli.

Erano i quattro scherani di Tre-Grazie.

Tale circostanza fu appunto quella che ravvivò i timori nell’animo
della giovinetta.

— Perchè? — pensava entro sè stessa — si sono dessi arrestati a
loro volta, piuttostochè continuare il cammino con lo zio e con gli
altri?... il capitano non ha fatto loro alcun cenno!... che abbiano
notato eglino pure il medesimo calpestio?... sarebbe per lo meno
strano, poichè ci andavano inanzi e noi stessi dovevamo impedir loro di
avertirlo!.. che sarà dunque, mai, Gesù mio?...

Ma non dovette attender molto a saperlo.

Nell’atto istesso ch’ella rimuginava in cervello tali sue giuste
apprensioni, l’uno de’ quattro sgherri, che le davano tanto a pensare,
le balzò repentinamente di fianco e — sollevatala a un tratto dal suo
seggio — la gettò tra le braccia di Tre-Grazie che, in quel medesimo
punto, era rimontato in arcione.

La poverina volle mandare uno strido; ma costui — stringendola
vivamente col braccio sinistro, e dando una spronata al proprio cavallo
che spinse di nuovo in direzione di Perugia — con l’altra mano, le fece
balenare sul petto l’acuta lama di una misericordia, e le intimò con
voce rauca:

— O taci, o ch’io ti scanno in su l’atto!

Bianca fu per svenire.

Brancaccio — quel medesimo sbirro che l’aveva strappata di sella
— dètte col palmo della mano un forte sculaccione alla di lei
giumenta, che, galoppando, riprese lo interrotto cammino. Per tal
modo, quand’anco Bartolomeo ed i suoi — non iscorgendo più la loro
giovine parente — si fossero, alla loro volta, arrestati e decisi, per
avventura, di retrocedere; quel galoppo doveva rinfrancarli e tenerli
ancora per alcuni momenti in sospeso.

Poscia Brancaccio, co’ suoi tre degni associati, si slanciò di trotto
serrato su le orme di Tre-Grazie.

Il ratto era compiuto.




CAPITOLO XXXI.

Un’altra Clorinda.


Ma — come lo abbiamo già detto — non sempre, quando il diavolo fa le
pentole, sa pur farne i coperchi.

I cavalieri procedenti da Perugia ed il cui scalpitare aveva già tanto
sorpreso ed allarmato Tre-Grazie, s’erano, nel frattempo, di molto
avvicinati e tanto più presto dovevano trovarsi di fronte a’ rapitori
di Bianca, inquantochè questi trottassero a briglia sciolta verso di
loro.

Non tardarono, infatti, a giungere in vista gli uni degli altri.

I cavalieri non erano che tre; ma erano appunto: quel giovane, pallido
e melanconico capolancia, che, nella bettola presso l’Arco di Augusto,
vedemmo prestare ascolto al colloquio di Tre-Grazie con Brancaccio; il
gioviale suo collega, che lo aveva indotto a mettere il piede, per la
prima volta, in quel lurido luogo, ed un altro loro commilitone.

Il giovine, che faceva parte dello esercito baglionesco, sino dacchè
messer Ridolfo ne avea formato il primo nucleo, partendosi da Firenze
pel Pontassieve e la Incisa, si era sempre distinto per un odio
acerrimo, tutto suo personale, contro il duca di Castro.

Il suo ingaggio in quello esercito erasi compiuto in istraordinaria
maniera.

Mentre il Baglione faceva tappa al Pontassieve, con tre o quattro de’
suoi capitani e pochissimi ancora de’ primi gregari; se l’era visto
apparire dinanzi tutto lacero, scalzo, semignudo.

— Cosa vuoi? — gli aveva chiesto.

— Prima di tutto — gli rispose il misero giovine — due risposte ad
altrettante mie domande.

— Parla.

— È egli vero che voi siate su le mosse, per accorrere in difesa de’
vostri compatrioti di Perugia?

— È vero!

— È vero altresì che, contra de’ perugini, militi in persona monsignor
Pierluigi Farnese, duca di Castro?

— È vero altresì!

— Ebbene, messere: io vi supplico in grazia di prendermi al vostro
soldo.

— Oimè, nol rifiuto; ma tu, poveraccio, se’ lì senz’armi e senza
nemmanco vesti di che cuoprirti.

— E voi mi rifornirete del tutto, messere; poi vi risarcirete man mano,
col trattenermi le paghe.

— Interamente?

— Interamente.... pur che mi provediate eziandio di un cavallo e di
vettovaglie per me e per esso.

Avido come era, il Baglione non poteva desiderare di meglio, e
s’affrettò ad accettare il convenevole patto.

In seguito — essendosi il giovine assai distinto e per capacità e per
disciplina, — lo creò capolancia e — da quell’ora — gli cominciarono a
correre le paghe.

Ne’ pochi fatti d’arme, ch’ebbero luogo durante la difesa di Perugia,
egli erasi mostrato sempre primo al fuoco: si batteva con passione, con
entusiasmo, con una specie di delirio e — nel più fitto della mischia —
si guatava curiosamente d’intorno e a quanti gli stavano presso:

— C’è il Farnese? — soleva richiedere ansioso — c’è il Farnese
all’attacco?

Ma giammai gli fu dato vederlo.

Come ci è noto, cotesto giovine ufiziale — dopo aver sorpreso le alcune
parole rivolte sommessamente da Tre-Grazie a Brancaccio, allusive ad un
qualunque tradimento in pro del Farnese — aveva mormorato fra sè:

— Bene! vi terrò d’occhio!

E lo aveva fatto.

Apparteneva alla istessa sua lancia un napolitano di
Santa-Maria-Capua-Vetere, amico intimo d’uno de’ tre birbaccioni, di
cui Brancaccio aveva procacciato il concorso a Tre-Grazie. Per mezzo di
colui — il quale gli doveva gratitudine perchè gli doveva nientemeno
che la vita — egli s’era, quindi, messo a portata di conoscere tutti
gli andamenti ed i progetti di costoro. Ignorava, ben vero, a danno
di chi fossero precisamente rivolti; ma, in isgrosso, sapeva in che
consistessero; sapeva, cioè, come Tre-Grazie lavorasse sott’aqua in
prò e forse per conto e per mandato di Pierluigi Farnese, e come scopo
precipuo di un tale lavorìo fosse il rapimento di una fanciulla. E non
c’è bisogno di soggiungere che s’era proposto d’impedirlo.

Si confidò al suo gaio collega, Jacopo Barizello da Lodi, detto
_Il Felciata_, quello stesso, che lo aveva introdotto nella taverna
dell’Arco di Augusto; si aggiunsero un altro capo di lancia, certo
Valentaccio Ciprigni di Macerata: e — tutti tre uniti — come seppero
Tre-Grazie ed i suoi usciti di Perugia e trovandosi pienamente liberi,
perocchè prosciolti dal Baglione; si posero su le costoro pedate.

Tre-Grazie li vedeva inoltrarsi non senza molto dispetto misto a
qualche po’ di paura. Perciò, appunto, dava sempre più forte di sproni
ne’ fianchi del proprio cavallo, sperando poterli incrociare e passar
oltre tanto velocemente, ch’e’ non dovessero badare all’umano fardello,
che si recava in braccio.

Ma nella istessa guisa e nello istesso mentre che l’avanzarsi di que’
tre metteva a lui nel cuore dispetto e paura; un debole raggio di
speranza s’insinuava, per la medesima cagione, nel core di Bianca. —
La poverina, alla loro vista, erasi un cotal po’ rianimata e, facendo
forza delle braccia per sollevarsi più alto del suo rapitore, stava già
nel procinto di chiamare al soccorso; quando un lungo grido partì dal
gruppo de’ tre cavalieri, cui ella rispose con un altro grido:

— Bianca?...

— Neruccio?...

Sì; il pallido e melanconico capolancia, che cavalcava tra il Felciata
ed il Valentaccio, non era altri che il nostro Neruccio Nerucci, da
noi lasciato ferito ai piedi di monte Osèro, nel povero casolare della
Chiappa, in mano del vecchio Luca Rinolfo, padre di Terremoto.

Risanato; ma senza più aver novella nè di costui, nè della sua Bianca;
ma senza aver modo al momento di guadagnarsi la vita; e’ si tolse
un bel mattino di là, e, _pedibus calcantibus_ tirò via per Parma,
Bologna, Firenze, nel duplice scopo di rintracciare l’amata fanciulla e
di procacciarsi qualche onesto mezzo di sussistenza.

Durante la sua lunga peregrinazione, sciupò le vesti e quel po’ di
quattrini, che gli rimanevano nel borsello; dovette vendere armi ed
arredi per ritrarne alquanti altri, che furono bentosto pure esauriti
ed a Firenze — nudo, crudo, disperato — sarebbesi visto nel duro stremo
di basire d’inedia, se non gli fosse giunta in tempo a salvarlo, la
notizia della impresa, cui s’accingeva il Baglione. L’odio suo non
mai sopito contro Pierluigi Farnese lo trasse ad accorrere sotto le
bandiere di lui e sappiamo in qual modo ed a quali patti: il caso —
o la providenza — lo traeva adesso dinanzi alla diletta donzella, con
tanta solerzia e sempre indarnamente ricercata.

— Bianca!

— Neruccio!

Al chiaror della luna, i due giovani s’erano riconosciuti e questi
— cacciando inanzi a spron battuto il proprio cavallo — erasi già
avventato ad arrestare pel morso quello di Tre-Grazie.

L’urto fu violento.

Gli animali s’impennarono, rincularono rovinosamente e misero i
cavalieri a un pelo di traboccar giù d’arcione. Malgrado ciò, poterono
mantenersi in equilibrio e — risospinti inanzi i cavalli — sguainarono
entrambi la spada, apparecchiandosi alla lotta.

Senonchè Neruccio trovavasi nella più sfavorevole situazione, non
potendo drizzar la punta contro il proprio avversario, senza correr
rischio di ferire, in pari tempo, anche la sua Bianca, della cui
persona quello facevasi abile schermo. Tentò, quindi, con una svelta
manovra, di buttarsi da un lato per coglierlo alla sprovista.

Ma Tre-Grazie lo prevenne.

Mentr’egli faceva girare il proprio cavallo, che, scalpitando,
andò quasi a rasentare quello di Tre-Grazie; questi, che tenevasi
aquacchiato dietro il corpo di Bianca e col braccio destro penzolo
verso terra, con un rapido movimento, rialzò questo braccio e stese
inanzi la spada con tutta la forza della sua gracile persona.

Il cavallo di Neruccio — nel cui ventre la spada del giovine capitano
era penetrata fin presso all’elsa — s’inarcò su le gambe deretane e —
con un lungo nitrito di dolore — precipitò sul fianco, traendo seco,
nella caduta, il proprio cavaliere.

Intanto Brancaccio ed i suoi tre camerati avevano raggiunto il loro
comandante e — tratta a lor volta le draghinazze — si scaraventavano su
Valentaccio e il Felciata.

Nella loro qualità di capi di lancia, erano costoro assai meglio
sperti in ischerma e nel maneggio delle armi, chè nol potessero i
semplici ribaldi seguaci di Brancaccio. N’ebbero però ben presto
ragione e a suon di stoccate, li cacciarono l’un dopo l’altro giù di
sella, mandandoli a vomitar nella polve l’ultima loro bestemmia. Ma
rimaneva il più duro; rimaneva Brancaccio, il quale — come il lettore
ricorda — aveva imparato da Gaspardo di Feltz certo suo particolare
colpo di stocco a cui nessuno sfuggiva. E doveva essere un maledetto
colpo dassenno, poichè non andò guari, che — prima il Felciata, poi
Valentaccio lasciando redini e staffe, rotolarono anch’essi sul battuto
della strada e andarono a tener compagnia ai loro caduti avversari.

Spigliatosi così d’ogni altro intoppo, Brancaccio volò a prestar
soccorso a Tre Grazie, che lo chiamava a sè ad alte strida.

E n’era tempo!

Comunque trascinato a terra dalla caduta del proprio cavallo, Neruccio
erasi immediatamente raddrizzato, per balzar di nuovo alle briglie di
quello di Tre-Grazie ad impedirne la fuga.

Bianca intanto lo aiutava del suo meglio.

Siccome il suo rapitore aveva dovuto abbandonare la propria spada
nel ventre della misera bestia proditoriamente scannata, ella pensò
di disarmarlo affatto, strappandogli di cintola la misericordia
e lanciandola lontano al di là delle siepi. Così Tre-Grazie,
completamente inerme, venne a trovarsi senz’altro mezzo di difesa se
non il far rinculare la propria cavalcatura e schivare le botte che gli
ammenava il suo assalitore, occultandosi il meglio possibile dietro le
spalle della fanciulla.

Un tal giuoco per altro, non poteva durare a lungo. Laonde il giovine
capitano che prevedeva prossima la propria sconfitta s’era dato a
gridare al compagno:

— Ehi, Brancaccio!... smetti, smetti dal battagliare.... accorri
qui.... pigliati costei, e, via.... di galoppo!... recala al campo de’
papalini.... nella tenda di monsignor Pierluigi Farnese.... consegnala
a lui, a lui solo, e digli....

Ma, al momento, non potè completare la frase.

Nello istesso punto, che Brancaccio — liberatosi degli altri due
antagonisti ed obbedendo alle sue ingiunzioni — gli toglieva Bianca
di braccio e spronava il cavallo verso Perugia; la spada di Neruccio
penetrandogli nel fianco, lo trapassava fuor fuora.

Tre-Grazie rovesciò di sella mandando un gemito e — con flebile voce:

— Digli — mormorò cadendo — che è l’ultimo dono che gli fa l’amor mio.

Neruccio rimase come stupido.

Brancaccio, con la fanciulla rapita erasi già dileguato, rapido come
un lampo. Pensare a inseguirlo, duplice follìa, e perchè impossibile
raggiungerlo, e perchè, s’era veramente diretto verso il campo
pontificio, tanto avrebbe valso il gittarsi a capo inanzi entro un
abisso senza fondo. Che fare?

Intanto, a pochi passi di distanza cinque uomini contendevano
alla morte i loro ultimi soffi vitali dibattendosi nelle strette
dell’agonia, e dinanzi a lui un giovinetto dalle feminili sembianze
arrovesciavasi a terra entro un lago di sangue.

— Un dono del suo amore? — pensò Neruccio, stranamente impressionato
dalle parole profferite da costui — e quell’uomo, quel mostro, può
ispirare di simili affetti!

Poi mutò alcuni passi e chiamò:

— Jacopo?

Era il nome proprio del Falciata.

— Valentaccio?

Ma nessuno gli rispose.

Si avvicinò loro. — Li palpò. — Non davano più segno di vita.

Il colpo di stocco insegnato da Feltz a Brancaccio era davvero
tremendo. I due suoi compagni erano morti.

Degli altri tre non credette occuparsi e, riaccostatosi invece a
Tre-Grazie, s’inginocchiò a terra al suo fianco, per riconoscere se
tuttavia respirasse.

Toccandolo gli surse uno strano dubio.

Gli sbottonò il nero farsetto; gli levò varie carte di tasca; gli
sciolse la camiciuola; lo esaminò attentamente e al termine di tale
perquisizione:

— Poter del mondo — sclamò, tornando a rizzarsi in piede — una donna?

— Sì, — gli rispose allora, con voce a bastanza secura, il personaggio,
che abbiamo conosciuto sinora coi nomi o di capitano Tre-Grazie, o
di Pier Schianchino de’ Mattei — sono una donna e però mi confido mi
userete, benchè nimica, qualche riguardo.

— Tutti — disse il capolancia — ma.... ad una condizione.

— Quale?

— Che mi direte perchè abbiate rapito donna Bianca della Staffa e
speditala adesso a Pierluigi Farnese.

— Oh, è facile!... perchè Pierluigi n’è invaghito ne è pazzo, e la
vuole.

— E voi?

— Ed io faccio ogni suo piacere, perchè amo lui a mia volta e perchè
quella fanciulla l’aborro!

— Disgraziata! — ruggì Neruccio, mettendo di nuovo mano alla spada —
l’aborrite?... perchè?... che vi ha ella fatto?

— Nulla — rispose cinicamente la donna ferita — ma aborro in lei la sua
leggiadria, la sua giovinezza, la sua stessa virtù.... Pierluigi l’ama
perchè è pura ed immacolata; io voglio cessi di esserlo, affinchè cessi
anche l’amore di lui!

— Ah! — sclamò di nuovo Neruccio con un gesto d’orrore, brandendo
ferocemente la spada.

— Volete finirmi? — fece la donna — e sia!.... è il vostro dritto!....
se altri poi vi chiegga di me, dite loro che avete ucciso, non il
capitano Tre Grazie come mi chiamano tutti, ma sibbene.... donna
Olimpia de’ Marazzani.

A quel nome, Neruccio udì risuonare dietro di sè una rauca voce, che
mal sarebbesi detto se di gioia o di minaccia.

Il giovane si volse e si vide intorniato da una decina d’armigeri, alla
testa de’ quali un uffiziale con la visiera calata e tutto chiuso in
bruna armatura.

Era il Cavalier Nero.

Costui — senz’altro chiedere — ordinò agli uomini che lo seguivano
di legar ben stretto Neruccio e tenerlo prigione e — d’altro lato —
di abattere alcuni rami d’albero, de’ quali formare alla meglio una
lettiga.

Composta che fu, vi fece adagiar sopra donna Olimpia de’ Marazzani e —
traendosi dietro Neruccio — ripartì con essa in direzione di Perugia.

Poco stante, giunse sul medesimo luogo Bartolomeo della Staffa.

L’arrivo della giumenta di Bianca lo aveva posto in sospetto di qualche
sciagura. Fatto però arrestare il rimanente della sua famiglia in sul
punto dov’erano pervenuti, s’affrettò a retrocedere per correre alle
indagini.

L’incontro dei cinque cadaveri, che trovò stesi al suolo, dov’erasi
impegnata la mischia fra Neruccio e Tre-Grazie ed i loro seguaci; lo
rese certo della temuta sventura ed — un po’ pel giusto timore di non
esporre sè ed i suoi a qualche maggiore pericolo; un po’ per altra
ragione, che non tarderemo a conoscere — stimò prudente ritornarsene su
i propri passi e continuare la via dell’esilio.




CAPITOLO XXXII.

Terremoto ritorna in scena.


Brancaccio, non ismettendo un attimo dallo stimolare il proprio
cavallo, girò in breve ora intorno a Perugia e giunse agli avamposti
dello accampamento pontificio. Ivi, senza declinare il proprio nome, si
annunziò quale emissario del capitano Tre-Grazie e domandò di essere
immediatamente ammesso alla presenza di Sua Grazia, monsignor duca di
Castro.

Pierluigi Farnese stava, in quel punto, chiuso nella migliore stanza
di un modesto casolare di Pretola, dove aveva posto quartiere,
bisticciandosi acremente con Alessandro Vitelli, che non voleva, per
nessun conto, menar buoni e ritenere per validi i patti concertati fra
l’Orsino e il mandatario di Ridolfo Baglioni. Indarno osservava il
Farnese essere troppo tardive le rimostranze: il Vitelli non voleva
chetarsi. Ad interrompere il litigio si fe’ inanzi opportunamente
la chisciottesca figura del Trentacoste avvertendo il suo signore e
padrone del sopraggiungere di Brancaccio.

A pena udito il nome di Tre-Grazie; il figlio di Paolo III, che ne
attendeva forse ansiosamente le novelle, non istette a badar oltre
allo impetuoso vocìo del suo immediato subalterno e — pregatolo, più
o meno cortesemente di lasciargli sgombero il posto — dètte ordine a
Trentacoste d’introdurre il messo del suo prediletto aiutante.

Brancaccio entrò, trascinandosi dietro la misera Bianca più morta che
viva.

Quando la poveretta si vide in faccia all’uomo, che già aveva voluto sì
villanamente oltraggiarla, una fiamma di verginale rossore le avvampò
in volto e dovette appoggiarsi, per non cadere, al braccio istesso di
colui, che la teneva stretta come prigioniera.

— Ah! ah! — ghignò Pierluigi, ringalluzzendosi e schizzando favolesche
di concupiscenza da’ suoi grandi occhi, iniettati di sangue — ah! ah!
la tortorella è, dunque, ricondotta al suo nido... che ti diceva io,
mia bellissima, quando nel castello della mia buona sirocchia, ti saltò
il grillo in capo di farmi la schizzinosa!.... mi son tale, ti dissi,
che, come una volta abbia voluto e sempre ottengo quello che voglio!

Poi, indirizzatosi al berroviero:

— E chi sei tu? — gli chiese aggrottando la fronte — cosa t’ha
incaricato Tre-Grazie di riferirmi?

— Io — rispose il malandrino inchinandosi con ipocrita unzione —
non sono che un umile ed indegno servitore della Grazia Vostra,
monsignore.... uomo d’armi, lancia spezzata, capace anche, se
occorra di capitanare una bandiera e, per coraggio tanto, a prova di
misericordia e bombarda.... sono nato tra Viterbo e Montefiascone in
un luogo di cui non ricordo esattamente... nato in campagna; da chi?...
vattel’a pesca.... e mi hanno messo a nome Brancaccio....

— Forse perchè ti piace abbrancare?

— Sì, monsignore... ma sempre per conto e benefizio di chi mel comanda.

— E che t’ha detto Tre-Grazie?

— Poco, monsignore.... poco, perchè il poverino non ha avuto l’agio di
dirmene di più.

— Gli è forse intervenuto qualche cattivo incontro?

— Il più cattivo di tutti, monsignore: un incontro, che gli ha mozzato
il respiro.

— Come?... che?... — sclamò il principe, facendosi anche più rosso in
viso — Tre-Grazie?....

— L’ho lasciato, monsignore — fece Brancaccio — con tanto di spiedo che
lo trapassava da parte a parte.

— Per la croce di Dio!.... e com’è accaduto!

Allora lo sbirro gli narrò per filo e per segno tutte le vicende, che
avevano preceduto ed accompagnato il ratto della fanciulla.

— Quando io mi son preso costei fra le braccia — terminò — il vostro
povero capitano danzava l’ultimo trescone sul suo ginetto e nel cascar
giù rovescio: «digli, mi disse, che è questo l’ultimo dono dell’amor
mio!»

— Infelice! — mormorò Pierluigi, passandosi una mano su la fronte come
per scacciarne un molesto pensiero.

Indi:

— Trentacoste? — chiamò.

Il magro ufiziale sporse inanzi i suoi due baffi auncinati.

— Ti consegno una recluta — proseguì il Farnese indicandogli Brancaccio
— mettilo alla testa d’una decina degli uomini di Castel Torsciano
e.... te lo raccomando!

— Monsignore! — fece lo sgherro, inchinandosi anche più servilmente —
io vi proverò coi fatti la mia inesauribile riconoscenza!

Ed uscirono.

Pierluigi e Bianca rimasero soli.

A pena soli, la fanciulla si lasciò cadere piangendo a’ piedi di lui e:

— Messere — implorò, con voce singhiozzante — non vogliate rapirmi
ciò che solo al mondo mi avanzi: il mio onore!... non ho più nulla,
nè patria, nè genitori, nè parenti, nè amici!.... abbiate pietà di
una meschina!.... il signore Iddio ve ne terrà conto, meglio che d’un
pellegrinaggio a’ luoghi santi, poichè chi preserva una innocente,
salva un’anima dalle malebolge d’inferno!....

— Hai ragione, hai ragione, figliola — le disse in tono beffardo
il Farnese, forzandola della mano a rialzarsi — ned io, se mi
fossi in tutt’altra congiuntura, niegherei ascolto a’ tuoi pietosi
suggerimenti.... ma, cosa vuoi?... tra me e quel signore Iddio, di cui
tu, niente niente, mi minacci le collere, ci corre quasi un grado di
parentela.... siamo, per così dire, in famiglia e non ci ho nulla a
temere da lui.... vedi, dunque, figliola, che, se dovessi ottemperare
al tuo consiglio, io farei un sacrificio che non ha ragione di essere!

— Oh, mio Dio! mio Dio! — mormorò la fanciulla.

— Piuttosto — riprese il duca — siccome tu se’ ancora un po’ troppo
agitata e piagnolosa e che, d’altronde, la notte non è per anco di
molto inoltrata; ti farò grazie di alquanti momenti per rimetterti; c’è
una stanzuccia qui presso, ben chiusa, ben custodita, un vero nido di
rondine, dove potrai gemere e sfogarti a tua posta e tutta da sola....
eccola!

E aperse un uscio.

Poi continuò:

— Ritirati qua dentro; fa il tuo esame di coscienza; convinciti che
lottare con me è tempo e fatica sprecati e, quando ti sarai un pochino
fatta più calma, io ti verrò a raggiungere; ma non ti nasca lo stolto
pensiero di sottrarti alle mie volontà... sono generoso: ti concedo una
remora, ma, come direbbe il mio messere Apollonio, _quod difertur non
aufertur!_

E spinse la fanciulla nell’attigua stanza, dopo averle posto fra mani
un lumicino che accese alla lampada ardente su di un tavolo.

Era una cameretta disadorna, in cul di sacco, col solo uscio per cui
Bianca vi era acceduta, una sola finestra sprangata di ferro ed aperta
su la campagna, un piccolo e semplice letticciuolo, due sedie ed una
panca.

Bianca si lasciò cadere su di questa, appoggiò i gomiti alle ginocchia,
il volto alle palme, e stette qualche tempo lacrimando sommessa, tutta
assorbita nei suoi dolorosi pensieri.

Pierluigi si affrettò a rinchiudere l’uscio a chiave e ad allontanarsi
con la chiave in tasca.

Alla remora concessa alla infelice giovinetta ed alla sollecitudine di
nasconderla e di scostarsi da lei, lo costringeva un convegno preso
sin dal meriggio co’ suoi due capitani Savelli ed Orsino, i quali lo
avevano pregato di riceverli la sera, per concertarsi secolui intorno
alla spedizione contro ai Colonna.

L’Orsino era congiunto alla di lui moglie Gerolama di Pitigliano,
epperò non voleva potesse essere in alcun modo testimone di quelle sue
scapate da discolo.

Non aveva infatti così allontanato la fanciulla, che il solito
Trentacoste gli annunziò i due capitani.

Pierluigi li ricevette con ostentata affabilità, udì quanto
dovevano esporgli in punto a quella spedizione; assentì ad ogni loro
osservazione e proposta, affine di troncare al più presto il colloquio
e — a pena l’ebbero lasciato libero — licenziò Trentacoste, si chiuse
in camera da solo, e si slanciò ansioso in quella attigua, dove
trovavasi Bianca.

La sventurata fanciulla — come abbiamo detto — erasi gittata su di una
panca in uno stato di profondo abbattimento. Dopo il primo stupore —
durante il quale nemmanco s’era avuta agio di riannodare e comporre
le proprie idee scombuiate — la infelice concentrò ogni suo pensiero
su lo imminente pericolo, che le sovrastava, ed un brivido freddo,
come di morte, le serpeggiò per tutte le fibre sino ad agghiadarle il
core. La speranza, ultimo barlume di fede, che scoppietta ed illumina
di fuggevoli guizzi anche l’agonia, le suscitò un momento nell’animo
l’idea della fuga. Epperò — rizzatasi di sbalzo — corse prima
all’uscio, che trovò chiuso di fuori a chiave, poi si dètte a tastare
ansiosamente le quattro pareti della stanza nella illusoria fiducia
potessero offrirle qualche àdito nascosto, od aprirsi d’improviso al
suo contatto per virtù d’arte maga, o divino volere della providenza.
Delusa, si ritrasse nel vano della finestra, si provò inutilmente a
scuoterne le sbarre di ferro, che — comunque esigue ed arrugginite —
non si smossero d’una linea sotto i suoi deboli sforzi e, finalmente,
spossata anche più da tale ultimo vano tentativo, si appoggiò de’
cubiti sul davanzale e tornò a rompere in pianto.

Era da poco in quella postura e così assorta nel proprio affanno
disperato, da non badare tampoco a quanto cadevagli sotto i sensi;
alloracchè sentì sfiorarle la fronte un ardente soffio.

Alzò la testa e si vide dinanzi una faccia d’uomo così orribile e
mostruosa, che a tutt’altri ed in tutt’altra occasione, avrebbe fatto
rizzare i capelli in testa per lo spavento.

Ma a lei non punto.

Ella, invece, parve tutta rasserenarsi a quella sgradevole vista e
— stendendo le braccia fuori della inferriata e soffocando a stento
un’esclamazione di gioia, che stava per eromperle dal petto:

— Terremoto? — sclamò il più che potè a bassa voce — oh, salvami!
salvami!

— Il Farnese? — domandò il gigante, riassumendo tutte le possibili
dimande in questo semplice ed aborrito nome.

— È qui presso — rispose Bianca — nell’attigua stanza.... ma non può
tardare a raggiungermi!

Terremoto si pose un dito su le labra indicandole di tacere; lanciò
una occhiata d’ogni intorno per accertarsi di non essere osservato;
quindi — fatto segno alla fanciulla di scostarsi dalla finestra — ne
afferrò le sbarre con le due mani e curvandosi su la enorme persona e
puntellandosi de’ piedi contro lo zoccolo del muro esterno — cominciò a
trarle a sè.

Le sbarre erano tuttora a bastanza robuste e suggellate sodo nella
grossezza del muro; ma la forza di trazione del colosso era, d’altro
canto, sì prepotente che non poterono resistervi a lungo, e finirono
per piegarsi nel mezzo ed uscire dai fori, cui erano assecurate le loro
estremità.

Bianca seguiva i progressi di quella nuova fatica d’Ercole, con l’ansia
febrile del naufrago che, esausto di forze, tenta le ultime bracciate a
nuoto, per raggiungere la tavola salvatrice.

Finalmente la inferriata si staccò completamente dal muro e Terremoto
cadde con essa rovescione sul terreno. L’erba — per buona ventura —
attutì il rumore della caduta.

A pena si fu egli rialzato, che Bianca — arrampicatasi nel frattempo
sul davanzale della finestra — era già fra le sue braccia.

In quel medesimo punto, Pierluigi Farnese — licenziati i suoi due
capitani — penetrava risolutamente nella stanzetta.

Trovandola diserta, mise un grido di stupore; ma, scorgendo in
pari tempo la finestra priva della sua ferriata, non durò fatica a
indovinare, almeno approssimativamente, cosa potess’essere accaduto.
Alla sua volta, si avvicinò, quindi, a quella finestra e guardò fuori
per la campagna. A un venti passi, nulla più, scorse, infatti, la
fanciulla portata via fra le braccia del suo gigantesco salvatore.

E allora non potè trattenersi dallo erompere in un grido di rabbia.

— All’armi!... ferma!... ferma! — si dette ad urlare.

A simili grida di una voce ben nota, in un batter di ciglia, l’intero
campo pontificio fu levato a rumore: capitani, soldati, saccardi, tutti
uscirono dalle case, dalle tende, in cui ricovravano; i dormienti,
svegliati di soprassalto, s’affrettarono a sorgere in piedi, a balzare
alle armi: era una confusione, uno scompiglio generale; pareva fosse
imminente qualche terribile conflitto ed, invece, non si trattava che
d’inseguire un fuggiasco, il quale, frattanto, correva via traverso i
campi, col suo leggero carico tra le braccia e con tutta la maggiore
velocità delle sterminate sue gambe.




CAPITOLO XXXIII.

Come Terremoto fosse ritornato in iscena.


Per rendere ragione al lettore del come Terremoto fosse ritornato in
iscena e proprio — direbbero i francesi — _à point nommé_ per strappare
anche una volta Bianca della Staffa agl’infami abbracciamenti di
Pierluigi Farnese, ci è giocoforza retrocedere di alquanto su la via
dei casi già da noi narrati e spiegare, anzitutto la presenza del
Cavalier Nero sul luogo, che avea servito di palestra al singolar
certame combattuto fra Neruccio Nerucci ed Olimpia de’ Marazzani.

Dopo la resa di Castel Torsciano, il Cavalier Nero, in forza della
capitolazione della resa istessa, era passato — come ci è noto — a
far parte delle truppe pontificie, in uno con Ascanio della Corgna ed
Andrea di Arezzo, e gli era stato assegnato il comando di parecchie
bandiere in formazione, alle quali appartenevano vari degli uomini, che
avevano già militato sotto di lui, nella difesa di quel castello. Solo
— e sempre secondo l’accennata capitolazione — ned egli, nè i compagni
suoi dovevano partecipare alle offese contra Perugia, ma sibbene venire
impiegati nella imminente spedizione contra i Colonna di Palliano e di
Rocca di Papa.

Perciò — nel frattanto — trovavasi egli senza occupazione nessuna
di molto rilievo, quasi nell’ozio. — Ma un fine lo attraeva e —
seguendolo indefesso — sua prima cura, non a pena frammisto alle genti
del Farnese, quella si fu di pigliar voce su le costui consuetudini,
e massime su le persone di maggior riguardo che gli stavano più da
vicino. Naturalmente, nel novero di queste, gli venne indicato e
descritto il giovine capitano Tre-Grazie, il quale — a dire di chi
lo informava — trovavasi allora assente con qualche segreta missione,
relativa probabilmente alla presa di Perugia. — I contrassegni di un
tal personaggio non lasciarono il minimo dubio nel Cavalier Nero che
Tre-Grazie ed Olimpia de’ Marazzani, malgrado la nominale differenza di
sesso, non dovessero essere che un solo e medesimo individuo. Fissò,
quindi, in cervello un suo piano e — profittando della sospensione di
ostilità, che necessariamente accompagnò e seguì i preliminari e le
trattative della reddizione — si dètte a perlustrare le vicinanze della
città assediata, con un drappello de’ suoi più fidi. — Se vero che
il sedicente Tre-Grazie si trovasse dentro di quella o ne’ dintorni,
appariva eziandio logico ed ovvio dovesse trar partito, a sua volta,
di quella sospensione, per far ritorno al campo de’ papalini. Il
Cavalier Nero si proponeva sbarrargli il passaggio, e in qualche modo,
impadronirsi della sua persona.

Come fosse in ciò riuscito e fors’anco al di là di ogni sua
presunzione, lo abbiamo veduto. Il caso, questo grande artefice de’
più strani avvenimenti lo aveva condotto presso a Tre-Grazie, o meglio,
ad Olimpia de’ Marazzani, giusto nel punto che la feroce donna cadeva
trafitta dai colpi del nostro Neruccio.

Fattala adagiare su la lettiga improvisata ed affidato alla custodia
de’ suoi il povero Neruccio, che costoro si trassero dietro pel capo
della fune strettagli a’ polsi, il misterioso Cavaliere, precedendo
lo strano convoglio, s’indirizzò verso Perugia e fece sosta presso una
misera casuccia a breve distanza dal luogo su cui sorge la bella chiesa
di San Pietro.

La casipola, che si formava di due sole stanzette di pianterreno, era
completamente deserta; il demone della guerra ne aveva cacciato il suo
unico abitatore, ch’era un chierico non per anco ordinato prete.

Ivi s’aqquartierò il Cavalier Nero, facendo collocare, nella prima
delle due stanze, la lettiga su cui giaceva donna Olimpia e chiudere a
chiave Neruccio nella seconda.

Era questo un piccolo camerino, che il chierico faceva probabilmente
servire da oratorio insieme e da studiolo, poichè, unitamente ad un
grande crocefisso grossolanamente scolpito suggellato alla parete
al disopra di un monumentale genuflettorio di rovere grezzo, vi
si scorgesse, da un canto, presso la finestruola inferriata, un
tavolinuccio a copertura di corame borchiellata allo ingiro da
chiodetti d’ottone, sul quale un enorme calamaio di peltro e varie
penne d’oca e, dall’altro, un tarlato e polveroso scaffale contenente
alcuni messali e codici in pergamena.

Neruccio sedette al tavolino; vi si appoggiò su del gomito e ripassò
dolorosamente col pensiero le diverse traversie di quella notte.
Bianca, la sua diletta Bianca, un momento salva per opera sua, poi, di
bel nuovo perduta e forse per sempre; gli si riaffacciava del continuo
alla mente e gli metteva nel core un dispetto, una rabbia, una tortura
d’inferno. Saperla in balìa del Farnese, su l’orlo del precipizio, che
doveva inghiottire il suo onore, il suo avvenire, forse la sua vita;
ed egli esser là prigioniero, costretto alla inerzia, impotente a
difenderla; era tale schianto che il misero non ci reggeva. Gli pareva
essere racchiuso dentro un àmbito di fuoco e che le fiamme di questo,
restringendo sempre più il loro cerchio fatale, gli scaldassero il
sangue, gli bruciassero le vive carni: le sue tempia martellavano,
infatti, come per violento parossismo di febre; i nervi gli si
contraevano spaventosamente; sognava ad occhi aperti, delirava.

In quello stato di esaltazione, cacciandosi, per caso, la mano entro
una tasca del giustacuore; sentì di tenervi chiuse alcune carte,
quelle stesse che aveva tolto a Tre-Grazie o, meglio, a donna Olimpia
de’ Marazzani, nell’atto che le scioglieva il farsetto. Le trasse
meccanicamente e le esaminò. Erano: una lettera senza firma nè
direzione, alcune note insignificanti ed un salvocondotto col nome
in bianco del suo portatore e in calce la sottoscrizione di Pierluigi
Farnese, duca di Castro, capitan generale e gonfaloniere di Santa Madre
Chiesa.

Mentre la vista di questo nome maledetto dava novello alimento alle
strazianti sue smanie, Neruccio si udì chiamare sommessamente per nome
da qualcuno, che lo stava contemplando dal di fuori della finestruccia.

Volse gli occhi da quella parte e scorse Terremoto.

— Voi qui? — sclamò allora scattando in piedi sollecito — voi qui?

— Sì, messere.... oh, se sapeste?

— Ditemi, ditemi!...

Il gigante si fece allora a narrargli, il più succintamente possibile,
tutto quanto era occorso a lui ed alla sua padroncina, dal momento in
cui aveva secolei lasciato il tugurio della Chiappa, per affidarla alla
protezione dei Santafiora, sino a quando messer Bartolomeo della Staffa
— temendo forte il Baglione non mancasse a presi convegni — lo aveva
spedito per le terre dell’Umbria a fare ingaggio d’uomini e di cavalli.

A questo punto Terremoto continuò:

— Sono partito alli nove del mese scorso e tornavo stanotte dalle
mie infruttuose ricerche.... nessuno, nemmanco una carogna ha voluto
seguirmi.... maladetti!.... tornavo, dunque, quando, a mezza la via che
mi riconduceva a Perugia, chi trovo?... messere lo zio di damigella
Bianca, a cavallo, tutto solingo, tetro come un mare in procella,
che andava via lemme lemme quasi sentisse rimorso di staccarsi dalla
città dove ha aperto gli occhi.... la luna batteva in pieno su la
mia grinta mal sagomata, ond’egli mi raffigurò di primo acchito e,
spronandomi incontro il ronzino: — «Ah, Terremoto — mi disse — quale
orribile sciagura!» — «Che è stato, messere? — gli domando io» — «la
mia nipote, la tua padroncina....» — «ebbene, ebbene, messere?...»
— «ebbene: me l’hanno rapita, strappata proditoriamente dal fianco e
portata sa il cielo dove» — «dove? — feci io — non ci è nemmeno a stare
un attimo a indovinarlo!... sarà quel dannato di monsignore il figlio
di Sua Beatitudine che l’avrà fatta rapire» — «Pierluigi Farnese?»
— sclamò messer Bartolomeo tutto compreso di stupore — «eh, sì, eh,
sì — continuai io — non vi rammenta, messere, delle sue vituperevoli
manovre in casa i Santafiora?» — «è vero; hai ragione; ma tanto peggio
se la è così, che io nulla posso tentare a salvarla» — «e voi statevi,
messere, che lo tenterò io!» — «tu?» — «io.... io!» — e sopra ciò,
ci staccammo, lui continuando il suo ambio verso il Trasimeno; io
mettendomi a galoppare come un disperato su’ miei due trampoli verso
questa parte..... passando per qui, come è questa la prima abitazione
che incontro, ho voluto sbirciarvi dentro per pur vedere.... non si sa
mai....

— Ed è stato il Signore Iddio, che ve n’ha suggerito il buon pensiero —
lo interruppe Neruccio, il cui volto erasi repentinamente illuminato di
un raggio di speranza e quasi di gioia.

— Voi dite?

— Sì, Terremoto: come voi lo avete così bene arguito, donna Bianca è
appunto nelle mani di Pierluigi Farnese.... ho udito io, con queste mie
orecchie, la persona che l’ha rapita dar ordine ad un suo sgherro di
portarla nella tenda di quel mostro e vi assicuro, Terremoto, che se io
non fossi qui sotto toppa, prigioniero, schiavo....

— Eh, non c’è uopo vi scarmaniate a giurarmelo.

— Andate, dunque voi stesso.... correte.... strappatela, se vi riesce,
alle ugne di quel maledetto.

— Non perdo un istante!

— Un momento, qual’è il vostro nome vero?

— Arcangelo Rinolfo, a servirvi, messere.

Neruccio si curvò un tratto sul tavolino; intinse stentatamente una
delle penne d’oca nel calamaio di peltro, il cui inchiostro era già
a mezzo essicato e, con essa tracciò su la lacuna lasciata in bianco
nel salvocondotto tolto ad Olimpia de’ Marazzani il nome di Arcangelo
Rinolfo.

Ciò fatto, porse il foglio al colosso e:

— Prendete — gli disse — con questo potrete facilmente introdurvi e
liberamente circolare nel campo de’ papalini.

— Cos’è? — gli chiese Terremoto, guardando con stupore il foglio che
doveva essere da tanto.

— È un salvocondotto firmato dallo stesso Pierluigi Farnese.

Terremoto non soggiunse verbo; intascò il foglio; traverso le ferriate
della finestra, strinse ruvidamente la mano al giovane capolancia, e si
allontanò di tutta corsa.

Ed ecco per qual seguito di circostanze era egli venuto a conoscere
dove precisamente si trovasse Bianca della Staffa e per qual modo aveva
potuto avvicinarsi sino alla stanza in cui ella era racchiusa.




CAPITOLO XXXIV.

Nuove gesta di Terremoto.


Primi ad accorrere alle grida del Farnese furono il Trentacoste, il
Tomasoni, il Bombaglino ed altri suoi capitani. Richiesto di che si
trattasse.

— Amici miei — rispose loro — io teneva qui una fanciulla.... la
figliuola di uno de’ più acerrimi nemici di Santa Madre Chiesa....
volendo serbarla come statico, l’avevo chiusa in questa stanzetta....
ebbene: vedete!... un accidente di uomo, che io non conosco; uno
specie di ciclope, ha scassinato le spranghe della finestra e me l’ha
portata via, ed ora fugge, fugge secolei, in direzione della città
di Perugia.... a voi!... chi si sente d’inseguirli?... su la mia fede
di gentiluomo e di duca imprometto mille bei scudi imperiali di oro a
chi me li riporti vivi, o viva almeno la fanciulla e sia pur morto il
farabutto che me l’ha trafugata!

— Io.... io.... io!... — strillarono dieci voci ad un tempo.

— Lasciate andare, dunque! — sclamò Pierluigi con un gaio soghigno,
usando la frase sacramentale delle giostre e de’ torneamenti — la corsa
al pallio è aperta!... ma lesti! lesti!... il villanzone ha gambe più
lunghe del colosso di Rodi e corre più veloce della gazzella da’ piedi
di bronzo.... se perdete un solo attimo, egli vi scappa!

Non aveva il Farnese terminata ancora l’ultima frase di tale
eccitamento, che già il Trentacoste ed il Bombaglino, con una serqua
di loro barbute, si trovavano in sella, armati di tutto punto, e
partivano, come altrettante frecce, nella direzione ch’egli aveva
segnato loro del dito.

Terremoto, con la fanciulla in collo, s’era slanciato di tutta corsa
verso Perugia; ma — sovvenendogli a un tratto quanto gli aveva detto
messer Bartolomeo circa la imminente reddizione della città — stimò
imprudenza il procedere più oltre e si gittò di repente, alla propria
destra, tra un fitto di giovani querce e di faggi che costeggiava la
via.

Dal vociare, che l’appello del Farnese, aveva d’improviso suscitato
per tutto l’accampamento, gli era stato ovvio il comprendere come
non dovesse tardar molto ad essere inseguito; epperò, abbandonando la
strada e cacciandosi tra l’intricato meandro di quella boschina, si
sottraeva meglio alla vista de’ suoi inseguitori e poteva tirare inanzi
anche un po’ più a rilento, con minor tema di essere raggiunto.

Come si ritenne alquanto al securo, Bianca volle assolutamente scendere
dalle sue spalle e camminare ella pure pedestre, per non stancarlo
soverchio.

Volle bene opporvisi il divoto vassallo e, con mille goffe proteste
e più goffe preghiere, indurla a rimanersene al proprio posto; ma
non ci fu modo. La sventura aveva così temprato l’animo gentile della
giovinetta, ch’ella non divideva più gli aristocratici pregiudizi della
propria casta gentilesca e considerava l’ottimo Rinolfo, non più come
un servo, ma come il più affezionato degli amici. Provava, quindi,
vergogna e quasi una specie di rimorso nello imporgli quella parte
umiliante di bestia da soma.

Necessariamente una simile risoluzione di Bianca obligò il gigante a
restrignere le seste delle proprie gambe e a far passi più brevi e meno
frequenti; locchè equivaleva ad una considerevole perdita di tempo ne’
progressi della loro evasione.

A un tratto il calpestio precipitoso di parecchi cavalli giunse alle
loro orecchie.

Il rumore proveniva dal campo pontificio. Non c’era, quindi, da
prendere equivoco: su ciascuno di quei cavalli doveva tenersi in
arcione un nemico.

Terremoto si arrestò. Bianca, sbigottita, si restrinse tutta al suo
fianco, com’ellera, che, per reggersi ritta, cerca di abbarbicarsi ai
robusto tronco dell’olmo.

Siccome la boscaglia, per cui s’erano messi i nostri due fuggiaschi,
andava vie via, assottigliandosi, sino a formare un angolo acutissimo
che, alla sinistra, aveva per lato la strada battuta ed, alla destra,
l’aperta campagna; tornava inevitabile che quei cavalieri, se pur
seguivano la strada, com’era a supporsi, dovessero transitare a poca
distanza da loro; attalchè il più leggero scricchiolìo d’un ramo, il
minimo stormir di una foglia poteva destarne i sospetti, attirarne
l’attenzione e determinare la loro perdita.

La fanciulla perciò dette un buon consiglio al suo salvatore: quello
di coricarsi tra le alte erbe e gli sterpai che ingombravano il suolo
del bosco e rimanervi immobili sino a che i loro segugi fossero oltre
trascorsi.

E così fecero.

Non istette di molto, in fatto, che lo stuolo de’ cavalieri — una
dozzina circa — passò, correndo di tutta carriera, a piccola distanza
dal punto in cui e’ s’erano appiattati ed, in breve, si dilungò e si
perse lontano nel buio e nel silenzio della notte.

Risorsero allora in piedi e proseguirono, più tranquillati, il loro
cammino.

Uscendo dal bosco, poco al di là di Perugia, e traversando la strada,
per cercare, dall’altro lato di essa, gli alberi, e le siepi de’ campi
che servissero loro di schermo, Terremoto — al chiaror della luna che
brillava sempre splendidissima — s’accorse d’esser giunto in prossimità
della casa, in cui, pochi istanti prima, s’era trattenuto a discorrere
col nostro Neruccio, e la indicò a Bianca, che aveva già messo a parte
di quel suo colloquio.

La giovinetta, soffusa tutta di un caro rossore e palpitante di
speranza e di gioia, espose naturalmente il desiderio di avvicinarsi
e rivedere il suo amato; nè il buon Rinolfo — per quanto il tentarlo
dovesse essere non immune da rischi — ebbe core di contrariarla.

La fece, quindi, accoccolare a piedi di un’annosa quercia, affinchè
non giugnesse a scuoprirla chi, per avventura, fosse venuto a passare
per quel punto; poscia, pian piano, in punta di piedi, s’accostò alla
povera e antica dimora del chierico perugino.

Riconosciuta la finestra istessa, da cui, poco prima, aveva scorto
Neruccio, vi si affacciò cautamente e vi lanciò dentro uno sguardo.

Ma la stanzuccia servente di oratorio e studiolo era completamente
vuota; l’uscio, che la metteva in comunicazione con la stanza attigua,
spalancato; e questa pure, a ciò che pareva, affatto deserta.

S’inanimì allora a girare intorno intorno alla catapecchia e a
scandagliarne i pressi dal lato della porta di entrata.

Anche questa era aperta.

Vi si spinse dentro guardingo e riconobbe che, veramente, anche il
primo ambiente trovavasi inabitato al paro dell’altro.

Tutta la casipola era deserta.

Un pensiero gli attraversò allora la mente, non troppo adusa alle
pronte concezioni. La sua giovine signora doveva essere stanca di
molto; l’alba — poichè s’era in pieno giugno — non indugiar guari a
sciorre le dorate sue ali su la volta del cielo, fugandone il pallido
raggio della luna e lo scintillìo delle stelle; periglioso, quindi,
il restarsene errabondi pei campi e le strade campestri. Laonde
pensò ricovrare, con la sua padrona, entro quell’umile casolare e
trattenervisi sino a che lo scendere del bruzzolo novello consentisse
loro di allontanarsi in maggiore securtà.

Bianca, ch’egli s’affrettò ad istruire di quel luminoso suo
proponimento, fu, a sua volta, sollecita di accondiscendervi: il
rammarico intenso, ch’ella provava nel dover renunciare alla dolce
speranza di rivedere il suo Neruccio, colui che già tre volte aveva
posto la vita a sbaraglio per salvarle l’onore, non poteva trovare un
refrigerio che nel sostare alcun tempo nel luogo istesso dov’egli aveva
dimorato, toccare gli oggetti caldi tuttavia del contatto della sua
persona, respirare la medesima aria da lui respirata.

Penetrarono però nella casetta ed ivi soprasedettero alla continuazione
del loro viaggio sino al calar della notte.

Nella prima stanza, trovarono un letticciuolo dalle coperte di grossa
canepa sordide, sdrucite ed in vari punti chiazzate di sangue, sul
quale Bianca — tolte via queste che destavano repugnanza — si sdraiò
tutta vestita cercandovi un po’ di riposo; mentre Terremoto chiusa
accuratamente e sbarrata la porta tenevasi ad una delle finestre in
vedetta.

Durante la intera giornata fu per le campagne e vie circostanti,
un continuo andare e venire di soldati, ufiziali, fanti, cavalieri,
cittadini, villani, bagagli. Erano le genti di battaglia del Baglione,
che uscivano di Perugia e si sbandavano: erano drappelli di papalini,
che perlustravano i dintorni della città; erano taluni altri dei
Venticinque che si mettevano in salvo, con le famiglie e le robe,
prima dell’ingresso del duca di Castro; erano vassalli e servi che
la certezza della pace riconduceva alle case disertate, ai ricolti
derelitti, agl’interrotti lavori.

Ma Terremoto che — siccome il lettore ricorda — aveva lasciato Perugia,
prima vi giungessero le truppe baglionesche, mal sapeva discernere, in
quello andarivieni, quali gli amici e quali i nemici; e però tenevasi
quatto, nella giusta tema di imbattersi nel lupo, quando appunto gli
fosse parso di ricorrere al cane di guardia.

Senonchè lo struggeva il mancare affatto d’ogni vettovaglia, non tanto
per sè, quanto per la sua giovine signora. Anche il suo stomaco digiuno
da oltre ventiquattr’ore, provava gli atroci stiramenti della fame;
ma, da lunga mano, il brav’uomo erasi abituato ad imporre silenzio a’
propri bisogni, per non pensare che a quelli de’ suoi cari.

Contemplava, con tacita angoscia, la nobile fanciulla stesa sul povero
lettuccio ed immersa nel sonno e, tratto tratto, mandava un sospirone
da far girare le ruote d’un mulino.

Così, nella inazione, nel silenzio, ragionando tra sè e sè col proprio
appetito, trascorse per Terremoto quella giornata che gli pareva
eterna.

Alla sera, svegliò Bianca tuttora dormiente, e si rimisero in viaggio.

Valicato il monte di Pitignano, senza cattivi incontri, giunsero i
nostri due fuggitivi in prossimità della Magione che la notte era nel
suo colmo.

L’aria impregnata di aquei vapori — comunque il cielo fosse di quel
puro e profondo azurro, che hanno solo le notti estive d’Italia,
e la luna splendesse in tutto il bagliore del suo patetico raggio,
e le stelle intrecciassero a miriadi la loro mistica danza per gli
sconfinati sentieri del firmamento, e una mite e leggera brezzolina
mitigasse di alquanto il caldo sferzante ed oppressivo della stagione —
era indizio certo non trovarsi molto discosto il lago di Perugia, dal
quale, appunto, in tali ore notturne, si sprigionano quelle tremende
febri palustri, che sono recate intorno su l’ali de’ suoi mortiferi
miasmi.

Bianca sentivasi stanca. Il forzato digiuno della precedente giornata,
il lungo e disastroso viaggio, sempre per scorciatoie traverse e
sentieruoli da capra, tra brughiere e roveti e tra balze e burroni,
l’avevano così rifinita, che, a malo stento, reggevasi in piedi.

Se ne avvide l’ottimo Rinolfo e si affrettò a proporle di recarsela
un’altra volta su le braccia e darle così un po’ di riposo. Ma
l’istintivo orgoglio della fanciulla non volle piegarsi a quella
generosa profferta.

— Piuttosto — ella disse — non sarebb’egli possibile il rinvenire
quaggiù, come abbiam fatto presso Perugia, qualche securo abitacolo in
cui fare sosta un momento e refocillarci?

Terremoto si arrestò di botto — e montato su una specie di duna di cui
si trovavano al piede — sguaraguardò attentamente tutto all’intorno.

A non molta distanza, su la destra della via che costeggia il lago e a
mezza costa di un piccolo poggio, gli parve scorgere un lume. Più che
un lume, era una fioca e tremolante lineuccia luminosa, che disegnavasi
verticalmente all’orizonte su di una massa negra ed informe; ma,
comunque, essa era segnale infallibile della presenza in quel luogo di
qualche essere umano.

Scendendo dal monticello:

— Là — disse il gigante, con l’indice steso verso il punto, in
cui aveva scorto quel tenuissimo faro — là c’è una casa di certo,
madonna.... un po’ di coraggio ancora, un ultimo sforzo e ci siamo!

E ripresero l’interrotto cammino a quella volta.

Più si avvicinavano e più evidente appariva come Terremoto non avesse
preso un granchio. La linea luminosa era un sottil filo di luce
trasparente dalla fessura di una imposta di finestra mal chiusa; la
negra ed informe massa, una casa!

Quando le furono anche più presso, un fascio di strame ed una tavoletta
di legno probabilmente pitturata, che penzolavano, ludibrio de’ venti,
da un grosso ferro infitto al sommo della sua porta d’ingresso, li fece
inoltre accorti come quella casa dovess’essere un’osteria.

Se sgombra di nemici e scevra di rischi, non poteva loro capitare di
meglio.

Al fine di sincerarsene, Terremoto — fatta soffermare la fanciulla —
le si appressò maggiormente studiando il passo, per attutire il proprio
calpestio, ed arrampicatosi su lo sprone della muraglia, pose l’occhio
alla finestra, da cui scappava la luce.

L’ambiente, che gli si parò dinanzi, era una vasta stamberga a volto
depresso; in un canto della quale, su di un gran letto coperto di
celone a quadretti, dormivano una giovine donna ed una bambinetta;
mentre un uomo, col tradizionale berretto bianco in capo e il grembiale
ravvoltolato intorno alla cintola, tenevasi seduto presso un piccolo
tavolo, su cui al chiarore di una lampanuccia d’ottone noverava ad
una ad una molte monete. Era, senza fallo, l’ostiero che istituiva il
computo degli incassi e profitti della giornata, i quali — a giudicarne
dal gruzzolo — dovevano essere stati più che mediocri.

La faccia dell’oste — uomo ancor giovane e ben portante — esprimeva un
dolcissimo compiacimento senza pur l’ombra di cupidigia. Dagli sguardi
amorevoli, ch’egli alternava tra le monete e le due dormienti, chiaro
traluceva, come la gioia che gli davano quelle non fosse che in ragione
del suo grande amore per queste. Era una faccia che se fosse stata un
frontespizio, avrebbe invogliato a leggere il libro, libro che poteva
essere poco interessante e fors’anco sciapito, ma buono, sano, onesto,
di certo.

E Terremoto se ne invogliò di guisa, che — senza attender altro —
picchiò cautamente con la nocca della mano sul legno della imposta
socchiusa.

L’oste drizzò le orecchie a mo’ di giovine puledro, si guatò intorno
come trasognato e si affrettò a celarsi in tasca i quattrini.

— Fossero ladri? — pensò.

E, siccome i leggeri colpi di nocca non ismettevano punto, prese su da
un canto della stamberga un vecchio e rugginoso archibugio a ruota, di
cui accese la miccia al lampanino, e s’accostò guardingo alla finestra,
schiudendone interamente la imposta col palmo della mano sinistra.

Al vedersi dinanzi la poco rassicurante grinta di Terremoto, trattenne
a stento una esclamazione di terrore e, ritraendosi sollecito,
imbracciò l’arma micidiale in atto minaccioso.

— Per la beatitudine d’Iddio! — sclamò a tale atto, il gigante, col
suo roco vocione, che svegliò di sobbalzo la donna e la bambina —
perchè mi volete morto, maestro?... non sono mica un ladro, come voi mi
stimate!... ho solo una dimanda a rivolgervi ed un favore a richiedervi
e, se mel potrete rendere, ho anche nel borsello tanto che basta per
rimunerarvene profumatamente.... sentite!

E con la mano sinistra, che si cacciò entro la tasca del corsetto,
mentre con l’altra tenevasi abbrancato al davanzale, scosse e fece
risuonare i non pochi ducati, che gli aveva rimesso messer Bartolomeo,
spedendolo in giro per fare ingaggi.

— Quando la sia così — fece l’ostiero un cotal po’ rabbonito,
abbassando l’archibugio — dite pur su: cosa mi volete?

— In primo luogo: avete gente in casa?

— La mia donna, la mia piccina, che voi m’avete rideste, come vedete;
il Cennamella, mio familio, che adesso dorme nel fenile, e Geppetta, la
guattera, che dorme in cucina.

— E non forastieri?

— Oh, nissuno, nissuno!... ce n’ho avuto durante tutta la giornata,
ch’è stata una processione vera.... ed anco di prepotenti ce n’ho
avuto.... soldatacci, Dio guardi! di que’ raccapezzati da messere il
Baglione per l’impresa di Perugia e che adesso, che la è andata come
doveva andare, si buttano per le terre, senza nè rispetti umani, nè
timore di Dio.... i quali, dopo avermi succhiato barili interi di vino,
e di quello della chiavetta, per giunta, non c’era più verso di farselo
pagare... maladetti!... ma ora, salvo noi della casa, non ci ho più
neppure una mosca.

— In tal caso, ecco il servigio che vi devo richiedere: darmi alloggio,
per questa notte insieme alla mia signora che è qua da basso che
attende?

— La vostra signora?

— Eh, sie, maestro: una giovine dama, bella come un angiolo del Gesù
benedetto, buona come la Madonna Santissima e sventurata come una
martire!

— Sventurata? — interloquì la moglie dell’oste, ponendosi a sedere sul
letto e ricominciando a vestirsi.

— Tanto! — le rispose Terremoto — tutti i suoi sono scappati di
Perugia, dov’ella era; non ha più nessuno al mondo che la protegga, non
parenti, nè amici, fuori di questo povero straccio di servo!

— E falla subito salire, Luca — riprese la donna, con uno slancio di
affettuoso interessamento.

— Solo — aggiunse il marito, deponendo l’arma ed apparecchiandosi
a scendere per schiavistellare la porta — noi non avremo modo ad
albergarla, come si addirebbe a persona della sua sorta.

— Eh, mastro Luca — sospirò il colosso, scivolando a sua volta giù
dallo sperone del muro — la sventura e il bisogno non sono schifiltosi
di troppo.... apriteci e non pensate ad altro!

Mastro Luca non si fece ripetere l’invito e Bianca e Terremoto
entrarono nell’osteria.

Intanto l’ostessa s’era tolta di letto ed aveva fatto levare la
Geppetta, nel contempo che mastro Luca chiamava a sè il Cennamella.

I garzoni — con la sonnacchiosa malavoglia di chi è strappato
bruscamente ai dolci amplessi di Morfeo — prestaron mano a’ loro
principali per approntare alla meglio una frugalissima cena di ova,
cacio montanino e prosciutto affumicato, che i nostri due profughi —
auspice un appetito da suonatori — divorarono a quattro palmenti. Poi
l’ostessa acceso un lumicino alla lampana — introdusse Bianca nella
stanzuccia che doveva servirle di dormentorio e mastro Luca fece
altrettanto con Terremoto.

Mentre quella entrava in un modesto ambiente del piano superiore, a
cui si perveniva per una scala di legno suggellata al muro co’ suoi due
capi, il gigante dovette accontentarsi di una specie di bugigatto, che
aprivasi appunto tra quell’ambiente e la camera da letto degli osti, a
metà e al disotto della scala di legno.

Pochi momenti dopo, tutto in quella casa era rientrato nella quiete e
nel silenzio di prima.

Mancava forse non molto al primo rompere dell’alba, quando Terremoto,
che — stanco qual’era — aveva ceduto allo imperio di un sonno profondo;
venne repentinamente ridesto da un alto e confuso alternìo di voci, che
saliva dal piano sottostante.

Tese l’orecchio e gli giunsero distinte le seguenti parole, pronunziate
con fare aspro e brutale:

— Un villanzone alto, sterminato, una specie di servitor di Vulcano,
ed una giovinetta?... son loro.... son loro.... indicaci subito dove li
hai intanati!

Susseguì un silenzio.

L’oste, cui erano dirette quelle intimazioni, esitava indubiamente a
rispondere.

Terremoto comprese tosto il pericolo. Erano persone giunte
nell’osteria, mentre egli dormiva, che cercavano di lui e della sua
signorina. Non potevano essere altri che gli uomini spiccati su le loro
tracce da Pierluigi Farnese.

E mal non si apponeva.

Erano, infatti, il Trentacoste ed il Bombaglino, coi loro dodici
seguaci, che — dopo aver battuto inutilmente la strada sino al confine
toscano — ritornavano scornati ed avviliti, a render conto dello scacco
subìto al loro eccelso signore.

La vista dell’osteria aveva attratto pertanto la loro attenzione, non
già nella fiducia di trovarci cosa che potesse lenire il loro dispetto;
ma per ridarsi un po’ di lena con qualche fiasco di vino.

Il resto s’intende.

Udito parlare dall’oste degli altri due e soli suoi ospiti, Trentacoste
gli addimandò chi fossero e, alla risposta ch’erano una giovine signora
ed un colossale suo servo, non ebbe d’uopo di chieder altro per andar
certo di esser stato servito da messere il caso assai meglio che non
da’ propri occhi e dalla propria furberia.

A tale certezza, un concerto di grida gioiose scoppiò fra quella bulima
di scherani e fu quello appunto che trasse di soprassalto Terremoto dal
sonno.

L’imminenza del pericolo acuì, come soventi accade, la grossa
perspicacia del gigante o, per lo meno, lo ammonì della necessità
di non indugiare un solo istante le difese, se voleva tentar modo di
sottrarre sè e Bianca ad una irreparabile perdita.

Si levò, quindi, in piedi, tenendosi ritto su la persona quanto meglio
gliel consentiva il depresso solaio dello stambugio che gli aveva
servito di cubicolo; poscia — formatosi in testa un suo particolare
progetto — abbrancò dei due montanti la scala di legno, che, dal
piano sottoposto, ascendeva alla stanzetta della sua giovine signora,
e si dètte a tirarli a sè violentemente con tutta la forza delle
nerborute sue braccia. La scala, vecchia, tarlata, sconnessa in più
punti, non poteva resistere a lungo a simile poderoso attacco e, con
un formidabile scricchiolìo, che, per buona ventura, venne in quel
punto attutito dalle urla feroci e dalle imprecazioni di Trentacoste
e de’ suoi, che, allo unisono, minacciavano l’oste; finì, di fatto, a
schiantarsi in due pezzi, l’uno de’ quali, il superiore, si staccò, in
pari tempo, dal limitare della stanzuccia di Bianca e sarebbe anche
andato a rovinare fin giù sul pavimento, ove Terremoto non fosse
stato lì, pronto a ghermirlo e a gittarlo orizontalmente entro il suo
buggigatto.

Fatto ciò, in un batter d’occhi, dètte di piglio ai due tronconi
dell’altro pezzo di scala, rimasti infissi alla soglia della camera
nuziale dell’oste, e, sveltili dalla loro base, li trasse pur essi nel
proprio stanzino.

Così, fra i due piani della casa e l’ammezzato interposto non rimaneva
più nessuna possibile comunicazione.

Quando, sotto gli urti de’ birri di Trentacoste e del Bombaglino,
l’uscio da basso si spalancò; Terremoto aveva a pena compiuto la sua
ardimentosa demolizione ed era tornato ad accovacciarsi entro il suo
buco su i medesimi frantumi della scala allora allora demolita.

I primi a sbucare dall’uscio guatarono stupiti allo insù, e, voltisi
a’ compagni, che li spingevano alle reni da stare tuttavia nella camera
dell’oste:

— Canchero! — gridarono — non si può andare più oltre.... questa
bicocca del malo augurio manca di scale, come il suo maladetto padrone
manca d’onestà nella coscienza e di vino pretto negli orci!

— Ma la scala — osservò l’uno d’essi, curvandosi ad esaminare il
pavimento — è stata portata via or ora.... peggio che portata via,
smurata di peso!

— Ah! ah! — ghignò il Trentacoste, azzanando l’ostiero per un orecchio
— il mascalzone che ci ruba la figliuola ha dunque degli alleati anche
fuori della sua fortezza.

— No, no, per le viscere di Cristo — gemè il povero mastro Luca,
facendosi paonazzo in viso pel bruciore acuto, che gli cagionava quel
brutale strapazzo.

— E s’è no — lo interruppe il lanternuto capitano, infliggendogli un
ultimo e più sgarbato strappo — e tu insegnaci maniera di arrampicarci
su quella tua colombaia.

— Ma, in verità, messere, che io non saprei....

— Ah, non sapresti?... poffare il mondo, te la insegneremo noi la via
del sapere!

— Non hai dunque una scala? — domandò il Bombaglino.

— Una scala?.... una scala? — balbettò mastro Luca, al colmo
dell’impiccio.

— Sì — fece il Trentacoste — una semplice scala a piuoli.

— Ve n’ha una, fuori — interloquì il Cennamella — una lunga, lunga
presso il pollaio!

Luca e sua moglie lo fulminarono di un’occhiata, che pareva una
maledizione.

Ma il ragazzo vi badò tanto meno, che, senza lasciargli tempo di
soggiunger altro, il Trentacoste lo aveva intanto ghermito, a sua
volta, per un orecchio, e, facendo cenno a due soldati, di seguirlo,
avviavasi, con essolui fuori della stanza, gridandogli:

— Menami, dunque, dov’è cotesta tua scala.

La scala venne, di lì a poco, recata su le spalle dalle due barbute; ma
— come lo aveva annunziato il Cennamella — essa era così lunga, così
lunga, che non ci fu verso di farla penetrare, dalla camera da letto
degli osti, nello esiguo vano che già conteneva quella improvisamente
distrutta.

Trentacoste e il Bombaglino, sagrando peggio di due eretici, ci
si provarono inutilmente in diversi modi; ma dovettero, alla fine,
capacitarsi che meno arduo sarebbe forse tornato loro il fare entrare
una trave per la cruna di un ago.

Uno de’ soldati allora suggerì un spediente segnando del dito l’uscio
della stanza di Bianca.

— È lassù — domandò — che si tengono chiusi?

— Ma, di certo, — rispose Trentacoste — è lassù!

— Io penso, dunque — proseguì il soldato — che la stanza debba pure
aversi una finestra.

— Ebbene? — chiese il Bombaglino.

— Ebbene — concluse quello — entriamoci per la finestra!

Un urrà di gioia feroce accolse l’eccellente suggerimento.

— Per la finestra! per la finestra! — sbraitarono taluni di loro,
impadronendosi della scala e riportandola fuori della casa — le
daremo la scalata meglio non ci sia riuscito a quel maledetto Castel
Torsciano!

— Ma occhio alla ragazza! — soggiunsero altri — acchiapparla sì; ma
guai a farle male.... monsignore il duca non ce ne darebbe venia!

— Ci rimane il servo!...

— Il villanzone!...

— Quello pagherà per tutti!...

E, tra simili propositi di rappresaglia e di vendetta, i più de’
seguaci di Trentacoste e del Bombaglino — lasciati quattro de’ loro
in guardia alla stanza degli osti — uscirono all’aperto, co’ loro due
capitani, e — riconosciuto al fioco chiarore dell’alba il punto, in
cui trovavasi la minacciata finestra — vi postarono contro la scala e
cominciarono a salire all’assalto.

La finestra della stanza di Bianca aprivasi verso la campagna, al
disopra di un altro piccolo finestruolo riquadro, cui gli scherani non
degnarono di nessuna attenzione, ed era munita solamente di quadrelli
di grossa tela di canepa chiovati a rozzi telaioni di faggio.

Con un pugno, la grazia era fatta.

Primo a cimentarsi alla grande e nobile impresa fu il Bombaglino con la
spada sguainata tra i denti, poi gli tennero dietro, piuolo per piuolo,
cinque de’ suoi berrovieri. Così, della geldra — ch’era in tutto di
quattordici uomini — sei trovavansi su la scala, quattro a terra a mo’
di corpo di riserva ed altri quattro di guardia nello interno della
casa.

Il foro riquadro, sottostante alla finestra, era quello che dava luce
al ripostiglio, entro cui tenevasi sempre accovacciato Terremoto.
Strisciando col ventre su gli sfasciami della scala e la poca paglia,
che gli aveva servito di letto, costui s’avvicinò pian piano con la
faccia a quel finestruolo e, spingendo fuori cautamente lo sguardo,
potè mettersi in istato di seguire, passo passo, tutte le manovre de’
suoi dieci avversari, che ignoravano la di lui presenza in quel luogo.

Il pover’uomo, osservando i costoro preparativi, sudava freddo e si
crogiuolava invanamente il cervello per strizzarne un pensiero, uno
spediente, uno stratagemma, che potesse trarlo incolume del cerchio di
brage, entro cui vedevasi rinchiuso. Ma, per quanto premesse le proprie
facoltà mentali, nulla gli riusciva di farne scaturire. Non aveva che
la fenomenale sua forza bruta ed a questa — in difetto di meglio —
decise di interamente e ciecamente affidarsi.

La situazione, d’altronde, era sì estrema e disperata da non ammettere
nè studi, nè preparativi, nè temporeggiamenti: tutto avendo a temere,
tutto bisognava osare; non potendo vincere, conveniva morire; ma
vendere almeno la vita a caro prezzo.

Eppoi, non s’era di verno, non nevicava, e Terremoto — secondo la
predizione di Gerolamo Cardano — non poteva temere la morte.

Egli però si dispose ad attendere il momento opportuno per tradurre in
atto il suo divisamento.

Acciapinatosi il meglio possibile su la persona e trattenendo persino
l’alito, affine di non destare sospetto di sè; lasciò che il Bombaglino
ed i cinque suoi seguaci salissero, l’un dopo l’altro, la scala; lasciò
che il primo toccasse quasi della mano il davanzale della finestra di
Bianca, mentre l’ultimo gli giungeva coi ginocchi contro la faccia; ed
allora — scattando repentinamente col torso fuori dal suo finestruolo
ed afferrata, pei due ritti, la scala — la scostò, con titanico sforzo,
dal muro e — dopo averle impresso una tremenda squassata, come ad
albero di cui si vogliano far cascare i frutti maturi — la respinse
violentemente lunge da sè, tanto da farla precipitare rovescia giù dal
pendio e, con essa, i sei disgraziati che vi stavano sopra.

Un terribile urlo, misto di strazianti grida di dolore e di diaboliche
bestemmie, echeggiò per tutta quella diserta campagna e si diffuse per
le bassure del Trasimeno ripetuto in mille guise dall’eco.

Pareva che la casa dell’onesto taverniere della Magione fosse
convertita in un girone delle male bolge.

Il Bombaglino, tracollando di peso dal sommo della scala, s’ebbe una
gamba rotta in due punti; gli altri cinque, qual più qual meno, ne
andarono con la testa o le costole fracassate; l’uno d’essi rovinò a
capofitto su d’un pietrone e rimase cadavere in sul colpo: un altro,
il quale assisteva, da stare in basso, alla scalata, con un piè fermo
su l’ultimo piuolo, pronto a montare a sua volta, non fece in tempo
a ritirarsi, e la scala, cadendo, lo schiacciò col suo enorme peso,
spezzandogli la spina dorsale.

Trentacoste e gli altri due suoi sgherri come i soli rimasti incolumi,
non pensarono, pel momento, ad altro chè a prestare aiuto a’ loro
malcapitati compagni ed a rimuovere la scala che opprimeva il misero
agonizzante.

Era una scena straziante.

Il luogo sembrava un campo di guerra subito dopo la battaglia.

Bianca — ridesta a sua volta dai primi rumori ed affrettatasi a
rivestirsi — balzava in quel punto alla finestra, per conoscere che
fosse. Colpita penosamente dalla orribile vista, si ritrasse tutta
tremante e — come il suo unico sostegno e rifugio era Terremoto —
volò immediatamente all’uscio, per correre in traccia di lui ed a lui
chiedere spiegazione del sanguinoso caso; ma là pure, non iscorgendo
più la scala, dovette arrestarsi attonita, spaurita, perplessa.

In quella, i quattro scherani rimasti nell’osteria e che, dal luogo
in cui si trovavano, nulla potevano vedere di quanto accadeva al di
fuori; allarmati dalle strida di spavento e di angoscia, che giunsero
d’improviso alle loro orecchie; si consultarono un momento tra di loro
più che a parole ad occhiate; quindi due uscirono affrettatamente dalla
stanza dell’oste, lasciandovi gli altri due di guardia.

Nel tempo medesimo — o prevedesse ciò che doveva succedere, o
comprendesse, piuttosto, che, senza trarre immediato profitto della
prima confusione de’ suoi nemici, impossibile riusciva il salvarsi —
Terremoto, aggavignatosi delle mani alla soglia del suo ripostiglio, si
lasciò sdrucciolare giù nella cassa della scala distrutta e — siccome
nell’atto istesso che scendeva levò gli occhi all’insù e scorse Bianca,
affacciatasi in quel punto all’uscio della propria stanzetta:

— Madonna — le susurrò — se volete scamparla, c’è un solo modo:
annodate insieme le due lenzuola del vostro letto ed assicuratene ben
sodo l’uno de’ capi al chiavistello dell’uscio.... ma subito, subito!

E, senz’altro attendere, toccato il pavimento dei piedi, si slanciò
nella contigua camera coniugale dell’oste, dove, coi padroni della
taverna ed i loro due famigli, non trovavansi più che due barbute.

Penetrarvi di corsa, abbrancare ciascuno di costoro pel petto e
cacciarli supini a terra d’un manrovescio, fu per Terremoto l’affare di
un attimo.

— Serra l’uscio, ragazzo! — gridò intanto al Cennamella — ma serralo
bene, con tanto di chiavistello.

Il familio obbedì.

— E voi, mastro Luca — continuò quello, mantenendo atterrati i due
sgherri — favoritemi qualche brandello di fune, ma solida, solida il
più che possiate.

Prima ancora del taverniere, fu l’ottima sua consorte che porse a
Terremoto i pezzi di corda domandati.

Con questi il gigante legò ben stretti piedi e mani ai due scherani,
poi — lasciatili distesi sul pavimento come piattole arrovesciate —
ritornò sollecito al vano della scala di legno.

La giovinetta non aveva mancato di ottemperare al suo giudizioso
suggerimento: le due lenzuola aggroppate insieme dondolavano al
catenaccio dell’uscio e giungevano quasi sino a terra.

— Lasciatevi calare, madonna! — le disse allora Terremoto a bassa voce
— non vi prenda timore!

Bianca non esitò a secondare un tale invito ed, un momento dopo,
scivolava pei lini penzolanti fra le braccia del suo fedel servitore,
il quale rientrò immediatamente nella stanza degli osti, domandando a
Luca:

— C’è nessuno altro buco per uscire di qua?

— Sì — gli rispose l’ostiero — c’è questo.

E segnò un usciolo che aprivasi di fianco al letto.

— Dove mena?

— Al portico sotto al fenile, dall’altra parte della casa!

— Bene.... addio.... e grazie!

E, profferendo tali parole, Terremoto uscì, con la sua signora sempre
in braccio, dall’àdito che gli veniva indicato, dopo essersi tolto
di tasca ed aver deposta una grossa manciata di oro su lo stesso
tavolinuccio, presso cui, qualche ora prima, mastro Luca stava
istituendo i suoi conti.

Giunti sotto al fenile, Terremoto vi scorse un certo numero di cavalli
legati, per le briglie, agli anelli infissi nei pilastri del porticato.

Erano i cavalli degli sgherri di Pierluigi Farnese.

— Il buon Dio benedetto è con noi — sclamò il brav’uomo a quella vista.

E, in ciò dire, estrasse un largo coltellaccio, unica arma di cui si
trovasse munito, e, con esso, recise i sottopancia e tutte le altre
cinghie, che assodavano i finimenti di quei cavalli, non risparmiandone
che due soli.

Su l’uno di questi fece montare la sua giovine signora, poi, montato
egli stesso su l’altro, lavorò di calcagno e fece partire i due animali
al galoppo.




CAPITOLO XXXV.

La resa.


Ed ora saremo brevi.

Il magnifico messer Ridolfo Baglioni, che — senza essere papa come
Paolo III, nè figlio di papa, come Pierluigi Farnese — la sapeva a
bastanza lunga da poter trarre la castagna dal fuoco con la zampa
del gatto, lasciò, come dicemmo, Perugia, traendosi dietro la sua
soldatesca raccogliticcia, che si sbandò poscia per le propinque
campagne, e tutto quel maggior gruzzolo che gli era venuto fatto
di raggranellare, ficcando la mano un poco dovunque, sino nelle
suppellettili di chiesa tantocchè «fu infamato di avere in prima
(d’andarsene) rubate tutte le argenterie sagre e profane».

Col mattino del giorno 6, vale a dire pochi momenti dopo che Terremoto
si fu liberato, nel modo per noi descritto, dalle zane degli emissari
di Pierluigi Farnese, questo principe fece il suo trionfale ingresso in
Perugia, montato s’un bellissimo cavallo turco, color isabella, tutto
bardato in velluto cremisi a frange e borchielli di oro, con a fianco
Alessandro Vitelli, Giambattista Savelli e Gerolamo Orsino, e, dietro,
millecinquecento fanti e trecento cavalli.

Discese e mise seggio nel palazzo del Magistrato, d’onde — trinciandola
da assoluto padrone — s’affrettò ad infrangere i medesimi patti allora
allora convenuti, col sopprimere lo antichissimo istituto civico de’
Priori, dichiarare ribelli i Venticinque e rei di alto tradimento e con
lo impadronirsi di tutte le publiche argenterie ed oggetti preziosi
sfuggiti alle ladre ugne di Ridolfo Baglioni. — Nè da un figlio di
prete c’era da attendersi altro!

Per tal modo, i delusi perugini vedevansi posti a ruba da amici e
nemici, in ischerno d’ogni più elementare diritto delle genti e d’ogni
dichiarata stipulazione.

Nè ciò è ancora tutto.

Come ci è noto, l’avido Alessandro Vitelli non aveva consentito a
lasciarsi supplantare dal Farnese nel comando della spedizione, se non
pattuendo di beccarsi per sè solo la metà del bottino. Laonde, come ci
è pur noto, lo avea seccato non poco lo annunzio che, tra l’Orsino e
l’araldo di Ridolfo Baglioni, si fossero concertate le clausole della
reddizione della città, senza c’entrasse un po’ di saccheggio, od — a
peggio andare — una briccica di sovrimposizione e di taglia.

Si sentiva derubato.

Non volendo, però, a niun costo lasciar scorrere l’aqua cheta alla
scesa, senza che passasse in prima pel suo molino e gli facesse
macinare alcunchè di suo peculiare tornaconto; e’ provide subito a’
casi propri col far postare due passavolanti contro Porta San Pietro e
tirarvi dentro alla distesa tanto che — apertavi una breccia — potesse
dire la città essersi presa per forza ed esigerne in compenso la
campana maggiore.

Da ciò un battibecco da non rifinirne. I maggiorenti si opposero
alle pretese del Vitelli; questi tenne sodo; quelli anche; cosicchè
Pierluigi dovette immischiarsene personalmente, e — tutto vagliato —
decidere che — avendo torto sì l’uno che gli altri — si dèsse il male
in mezzo e si scambiasse la campana con uno dei candelabri di argento
della sala del Magistrato.

Ma nemmanco ciò — comunque, per quattro colpi di passavolante sparati
a bambera, fosse un guadagno da non disprezzarsi — nemmanco ciò valse
a sodisfare il Vitelli, che aveva le ingorde brame istesse della lupa
di Dante e che pensò ricattarsi, col mezzo poliziesco di trarre la
popolaglia a tumulto e profittarne per allungar le mani in mezzo al
disordine.

Provocata da taluno de’ suoi sgherri più audaci, la gente minuta surse,
infatti, a romore; corse all’arme; barattò qualche colpo di stocco e
di moschetto e il Vitelli si cacciò in mezzo alla mischia, incitando i
suoi uomini a dare intanto il sacco alle case degli Alfani e a ciascuna
di quelle de’ Venticinque. Ma se c’è proverbio sciocco ed insussistente
è quello che dice: lupo non mangia lupo. — Pierluigi Farnese — il
principal lupo in parola — non voleva che altri mangiasse nel suo
piatto, o sottraesse alla sua rapina personale alcuna parte della
preda. Però si fece venire inanzi gli altri suoi capitani e colonnelli
e comandò loro di far correre le vie dai loro fanti con le pertugiane
inastate e — fossero popolani di Perugia, fossero cernite del Vitelli
— peggio per chi le toccasse; purchè s’acchetasse il trambusto e....
l’_ordine regnasse a Varsavia!_

Ricondotte le cose al silenzio, Pierluigi si occupò di far gittare le
fondamenta della nuova fortezza papale, che doveva sorgere, a spese
de’ perugini, presso Porta Sant’Angelo, nel luogo istesso dov’erano le
case de’ Baglioni, sopra disegno di Francesco da Viterbo, e a costruire
la quale vennero preposti il Sangallo iuniore ed il Meleghino; poscia
— scorse due settimane — abbandonò la città, lasciandola al governo
di Bernardino Castellari, vescovo di Casale, detto _Monsignor della
Barba_, più guerriero che sacerdote, e diremmo più carnefice che prete,
se la Santa Inquisizione non si fosse tolto l’uficio di far sparire il
divario.

Costui inferocì. Mise a morte sei de’ più cospicui cittadini,
pretese si consegnassero tutte le armi, si levassero le catene che
avevano servito a sbarrare le vie, si radessero al suolo le case de’
Venticinque e si cangiasse il nome del supremo magistrato in quello di
_Conservatore dell’obbedienza alla Chiesa_.

E tutto ciò a dimostrare a’ perugini quanto parlasse sul serio Papa
Paolo III, quando — il 20 febraio dell’istess’anno — inviava loro
un suo breve, — nel quale — secondo il Bontempi — era detto: «_Sub
pœna ribellionis, interdicti, confiscationis bonorum, privationis
privilegiorum et Comitatus_, che la Città subbito et incontinente,
dovesse accettare e comprare il sale a tre quattrini più la libbra, di
quello, è solito comprare.»

E, diffatti, dovette a tale prezzo comprarlo e.... pagarlo.

Oh, per farsi pagare lasciarli fare a loro.... i preti!


  FINE DELLA PARTE TERZA.




_PARTE QUARTA._ LA CONGIURA DE’ FIESCHI




CAPITOLO XXXVI.

Il conte Giovanni Anguissola.


Dagli ultimi avvenimenti da noi narrati sono trascorsi tre anni.

La guerra del sale, che aveva trovato il suo inizio a Perugia, erasi
chiusa in Abruzzo.

Al paro dei perugini, nemmanco messere Ascanio Colonna da Palliano
aveva voluto assoggettarsi a prendere per le sue castella il sale da
Roma ed avendo perciò sofferto di molte rappresaglie fattegli dal Papa,
postosi con vari fanti e cavalli nella sua terra murata di Marino a
breve distanza dalla città santa, scorse più volte sino alle porte
di questa saccheggiando le fattorie e depredandole di granaglie e
bestiame, ed armato quel suo castello, che papa Rodrigo Borgia fece
costruire pel suo prediletto figliuolo, il duca Valentino, e che da
ciò prese nome di Rocca di Papa, e postosi egli stesso, nell’altro suo
castello di Genazzano; si preparò del suo meglio alle difese.

Il Pontefice, pertanto, pensò a radunare le sue genti, il cui maggior
nerbo aveva allora finito di sottomettere Perugia. Delle medesime
«era general capitano Pierluigi Farnese figliuolo di detto Papa, de
le fantarie Alessandro Vitello, de la cavallaria Giovanni Battista
Savelli, et maestro di campo Alessandro Terni». Seguiva lo esercito
quale legato ad latere il cardinal Giudiccione, i cui rapporti
cotidiani su quella guerra si trovano nei cartolari dello Archivio di
Stato Parmense.

Chi ne brami più particolareggiati ragguagli vada lassù a compulsarli.

Noi saremo brevissimi, poichè l’onda degli avvenimenti c’incalza.

Portatosi lo esercito pontificio a Rocca di Papa, si cominciò con le
artiglierie a battere quel forte, che era stato rifabricato da messere
Ascanio, dopo la guerra sofferta da Clemente VII, e veniva soccorso
dal conte di Tagliacozzo che vi si teneva dentro di presidio e da
settecento pedoni speditivi da Genazzano per distornare l’impresa. Ma
questi, imbattutisi presso il monte Cambriti con Alessandro Vitelli
e col medesimo Pierluigi e venuti con quest’essi alle mani, s’ebbero
la peggio e dovettero raccomandare la pelle alle gambe; mentre il
Bombaglino risanato dalle fratture riportate all’osteria della Magione,
fatte porre le scale a quella fortezza, vi entrò vittorioso.

Quindi proseguendosi la guerra «il Papa — come dice il cronista — fra
il termine di quattro mesi tolse tutto lo Stato ad Ascanio Colonna»
cioè: Palliano, Ceciliano, Ruviano, ed ogni altro castello da lui
posseduto su quello della Chiesa.

Compiuto l’uficio loro, le soldatesche si ritirarono a’ quartieri o,
meglio, si sciolsero per la massima parte, sul cominciar di febraio
1541, come appare da un foglio in cui si legge: «_Ill. D. Alexandro
Vitello Die XIII Aprilis_ 1541 _mandatum Cameræ pro primo quarterio
incepto Kalendis februarii juxta declarationem Illustrissimi et
Excellentissimi Ducis Casten. Duc._ 750».

Naturalmente la Camera Apostolica conosceva troppo bene le ladre
consuetudini di messere Alessandro, per essere sì grulla da sborsargli
750 ducati prima che avesse adempiuto interamente al dover suo.

Tra’ capitani, che — secondo i patti della capitolazione di Castel
Torsciano — aveano seguito il Farnese in Abruzzo contavasi il
personaggio da noi designato sinora col semplice nome di Cavalier Nero.

Prima di più oltre procedere è necessario diciamo chi veramente egli
fosse.

Non sarà caduta di memoria al lettore, la narrazione, da noi fatta, sin
dal principio di questa nostra istoria, di un truce caso di sangue,
onde era stata teatro, vari anni prima, l’abazia di San Savino nel
Valnurese.

L’abate — un conte Giambattista Marazzani, presso del quale viveva,
col titolo di nepote, ma diversamente reputata dallo universale,
quella feroce Olimpia che vedemmo prima in Castell’Arquato, presso i
Santafiora, quindi, in campo sotto Perugia, in abito virile e col nome
di capitano Tre-Grazie — l’abate era stato proditoriamente ucciso di
pugnale da Giovanni Anguissola amante di costei.

Figlio legittimo al conte Jacopo Anguissola, signore di Riva, di
Carmiano, del Ponte d’Albarola, di Spettine e d’altri luoghi molti nel
piacentino, e figlio adottivo al proprio avo materno Lazzaro Tedeschi,
conte di Corano e Vairasco in Valtidone; cognato al principe Luigi
Gonzaga di Castiglione delle Stiviere e di Castel Goffredo; conte
egli stesso di Grazzano, cavaliere aurato, cesareo senator di Milano;
Giovanni Anguissola poteva di buon dritto annoverarsi tra la più alta e
ragguardevole aristocrazia piacentina.

Il suo amore intenso, dissennato, furioso per Olimpia Marazzani lo
aveva quasi perduto, dappoichè egli ed il Cavalier Nero non fossero chè
una sola ed unica persona.

Abbiamo visto in qual modo, non trovando più la sua diletta appo il
supposto zio di San Savino, avesse tratto orrenda vendetta di costui,
trucidandolo; abbiamo visto in qual modo e per quale concorso di strane
circostanze fosse riuscito a impadronirsi di lei, strappandola dalle
braccia di Pierluigi Farnese e dal castello dei conti di Santafiora;
abbiamo visto finalmente, per quali altre fortuite accidentalità,
Olimpia ferita e moribonda forse cadesse di bel nuovo in sue mani sotto
le mura di Perugia; ma ignoriamo tutto quanto doveva essere intervenuto
fra eglino due nel lungo intervallo corso dal primo al secondo
rapimento.

Come dicemmo nella seconda parte di questa storia — lasciati a Vigolo
de’ Marchesi in riva alla Chiavenna, Bianca della Staffa ed il suo fido
Terremoto, il Cavalier Nero — che, d’ora in poi, chiameremo sempre
col suo vero nome di Giovanni Anguissola — si gittò, con in braccio
la sua Olimpia, traverso le agate del Rimore e le madrepore, onde sono
cosparsi i pressi della Chiavenna e del Chero, e galoppò diviato sino
al villaggio di Tavasca, dove si arrestò ad una delle case dei marchesi
Tedaldi.

Olimpia era sempre svenuta.

Quando, sul fare del giorno, recuperò i sensi, ella si vide stesa su
di un candido letto entro una piccola stanza riccamente adobbata, dalle
cui imposte socchiuse il sole cominciava a saettare i suoi primi raggi.

Volse attorno uno sguardo indagatore, non sbigottito, e scorse al
proprio fianco un uomo inginocchiato sul soppidiano, che la stava
contemplando, con una specie d’estasi, aspettandone ansioso il
risveglio.

Era l’Anguissola.

La giovine donna, senza nessun riguardo pel proprio pudore, si drizzò
a sedere sul letto e fulminandolo di uno sguardo tra l’ironia ed il
disdegno.

— Che fai tu qui? — gli chiese — perchè mi hai tu rubato alla casa
ospitale dei Santafiora ed all’amore senza pari del mio Pierluigi?...

C’era tanta sfacciata inverecondia in simili parole ed un sì
schiaffeggiante sarcasmo, che l’Anguissola comprimendosi il cuore
affine non gli scoppiasse, dovette levarsi in piedi di scatto quasichè,
ginocchione, non potesse sostenere tutto il peso di quell’oltraggio
schiacciante.

Per formarsi uno esatto criterio di quanto il giovine gentiluomo
dovesse soffrire in quell’orribile momento è mestieri considerare
ch’egli amava ed aveva sempre amato la donna, cui stava genuflesso
dinanzi, con una passione timida insieme e sfrenata, rispettosa insieme
e concupiscente, strana miscela di spiritualismo e sensualità.

Più volte — ne’ brevi e fugaci istanti, in cui erasi trovato solo con
lei, alla commenda di San Savino — aveva tentato stringersela fra le
braccia e strapparle quelle supreme prove d’amore, ch’ella, col fuoco
dei suoi sguardi, con la lascivia dei suoi discorsi e delle sue pose,
sembrava impromettergli; ma sempre, ed una specie d’instintiva ed
invincibile ritrosia della stessa fanciulla e, più di tutto, l’arguta
vigilanza dell’abate, glie ne avevano tolto ogni mezzo.

Abbiamo pur detto che, comunque già affatto pervertita e corrotta,
quando soggiacque alla lussuria del Farnese, Olimpia non era per anco
materialmente caduta. Ciò doveasi appunto alla sorta d’isolamento in
cui ell’era sino allora vissuta presso l’abate di San Savino ed alla
sorta di misteriosa repugnanza, che le ispirava l’uomo, a cui aveva
concesso più che amore, amicizia.

Per una inesplicabile contradizione, ella sentivasi a un tempo istessa,
attratta e respinta dall’Anguissola; le pareva di amarlo contro il
proprio medesimo genio; contorcevasi in una mal definita lotta contro
sè stessa; epperò, a momenti, cedendo alla imperiosità de’ propri
istinti, era in sul punto di darglisi in braccio senza nessun riserbo;
subito dopo, invece, quella arcana repulsione la sopravinceva e, nel
contrasto, parevale che l’amore nodrito per lui le si rimutasse in
altrettanto odio.

Tale continua oscitanza e di affetti e di contegno riverberavasi
naturalmente su lo spirito dell’Anguissola, il quale, mal sapendo
farsene una accettabile ragione, barellava incessantemente a sua volta
fra la certezza di essere e il dubio di non essere riamato e provava
per la sua tormentatrice, un attaccamento misto di dispetto, una
tenerezza mista di paura, che lo traeva alla disperazione.

Lontano da lei, il suo amor proprio ferito gli suggeriva mille
propositi di rappresaglia e di vendetta: l’avrebbe posseduta,
contaminata, poi sdegnosamente reietta, offrendola ludibrio
alla publica improbazione: ma, vicino, il suo amore gli assopiva
nel cervello e nel cuore i malvagi progetti ed altri non sapeva
consigliargliene che di affettuosa sollecitudine e d’umile reverenza.

Al paro di Pierluigi Farnese, egli subiva lo irresistibile fascino di
quella donna fatata.

Quando ella gli parlò nel modo ingiurioso che abbiamo detto, egli,
per conseguenza, si sentì risvegliare in cuore tutti i suoi più atroci
divisamenti e, ghermendola per un braccio:

— Bada, Olimpia — le disse — che noi qui siamo soli e che io posso
fare a mia posta di te!... è ormai da troppo lunga pezza che ti prendi
giuoco dell’amore che io ti porto: sinchè la ho stimata verecondia e
castimonia di onorata fanciulla, io ho saputo impor freno al foco che
mi divora; ho saputo farti olocausto de’ miei impeti più irresistibili
e rispettarti sempre; ma oggi che, alla tua ritrosia, aggiugni il
dispregio e l’insulto, o vivaddio, non ho più nulla che mi trattenga:
oggi sarai mia ad ogni costo!

Olimpia lo ascoltò senza scomporsi, quindi, scoppiando in una cinica
risata!

— Ah! ah! — gli rispose — tu la pigli in cotesto tono tutt’altro che
da paladino?... ma, Giovanni mio caro, e perchè strapazzare così la tua
Olimpiuccia, che t’ha sempre voluto un bene dell’anima?... ti piace che
io mi stia teco?... e ci starò; non iscaldarti il sangue per questo!...
oh, non è già mio intendimento il tener teco il broncio e fare la
bocca brincia, perchè m’hai tolto a Castell’Arquato e al pazzo umore di
monsignor duca di Castro!... t’ho detto che colassù ci stavo oppipare,
ed è verità genuina, vangelio; ma poi.... sai come son fatta io!....
l’aqua di Lete è sempre a mio servigio.... non c’è che di te cattivo,
che mai ho potuto dimenticarmi!

E gli gittò languidamente le braccia intorno al collo e lo baciò su la
bocca.

Tutto lo sdegno dell’Anguissola sbollì, svaporò, come per incanto, al
suono di quelle affettuose parole al contatto di quell’amplesso, allo
scoccar di quel bacio; egli era già più che conquiso.

Nello slancio della sua gioia, fece egli pure per abbracciarla e
stringersela al seno.

Ma ella — respingendolo dolcemente e sorridendogli di un procace
sorriso:

— No, no, Giovanni — gli disse in tono di preghiera — lasciami cheta
per ora.... le emozioni di questa notte d’inferno mi hanno stanca,
spossata: ho bisogno di un po’ di riposo.... voglio dormire!

E, nel dir ciò, si ricacciava stesa sul letto e adagiava il capo su
i guanciali, con quella grazia felina tutta propria alle movenze de’
gatti.

Il conte, sedotto, ammaliato, richiamato da quell’amorevole contegno,
a’ suoi sentimenti di tenerezza e di ossequio, non seppe più far altro
chè sfiorarle le guance con le labra e ritirarsi in silenzio.

Un desiderio di quella donna era per lui una legge.

Sola a pena, Olimpia balzò giù dal suo giaciglio; si rivestì in fretta
in fretta; corse alla finestra, la aperse con cautela e guardò per ogni
intorno.

Le campagne s’irradiavano allora de’ primi chiarori dell’alba;

    Era in quell’ora, che più grave il sonno
    Pur de gl’infermi a l’egro ciglio incumbe
    Una breve di pace ora fuggente

tutto dormiva: i grilli e le cicale soltanto rompevano l’alto silenzio,
che precede il risvegliarsi della natura.

La giovine donna — senza più oltre sprecare il proprio tempo in
vani e perigliosi indugi — si dètte a rovistare affrettatamente
ogni ripostiglio della sua stanzetta da letto. Ad una delle pareti,
addossavasi un largo stipo di rovere intagliato, sostenuto da quattro
zampe di bronzo. Lo schiuse. Conteneva oggetti di vestiario maschile:
camiciuole, brache, giustacuori, farsetti: era il guardaroba della
paggieria de’ marchesi Tedaldi. Olimpia scelse i capi che le parvero
attagliarsi meglio alla sua persona e, spogliatasi di bel nuovo,
li indossò sollecitamente. Tolse, quindi, le lenzuola dal letto; le
congiunse insieme con un solido groppo; annodò un capo al serrame della
finestra; poscia — con l’agilità di un leopardo — sgattaiolò lungo
il muro della casa, toccò terra e si slanciò di gran corsa traverso i
campi.

Quando, alcune ore dopo, Giovanni Anguissola andò a picchiare
pianamente all’uscio di quella stanzetta e — non udendosi rispondere —
vi penetrò cauto e guardingo; la trovò completamente diserta.

Le spoglie feminili giacenti sul pavimento; le vesti mancanti al
guardarobe, le lenzuola penzolanti dalla finestra gli rivelarono chiaro
quanto era avvenuto.

Con le sue ipocrite blandizie, la perfida donna non aveva mirato che ad
allontanarlo e sfuggirgli.

A tale scoperta, un singulto di pianto rabbioso gli eruppe dal cuore;
un denso velo gli offuscò la vista; brancolò intorno intorno quasi
stesse per traboccare a terra e non fu che soffolcendosi delle mani al
davanzale della finestra che potè reggersi in equilibrio.

Per quel sentimento di rivalità che scatta spontaneo dalla gelosia,
tutta la sua collera concentravasi su la persona di Pierluigi Farnese.

Sino a quel giorno, se qualche volta aveva dato sfogo al suo legittimo
maltalento, egli era stato soltanto contro della sua donna, lo
instabile umore e le improvise reluttanze della quale lo irritavano
in sommo grado. Ma le sue bizze avevano sempre durato quanto fuochi
di paglia, sì perchè intensamente l’amava; sì perchè ne attribuiva il
variabile contegno a sola bizzarria di feminile capriccio. Ma adesso
non più; adesso sapeva, e in modo indubitabile, poichè ella medesima
glie lo avesse dichiarato, che un altro glie ne rapiva il cuore, che un
altro gli era preferito, e quest’altro era monsignor duca di Castro.

Da quel momento, tutto il suo odio ripiegavasi contro di lui.

Livido in faccia per le atroci smanie che lo straziavano; con gli
occhi terribilmente fisi nello spazio, quasi volesse dar loro potenza
di attingere la mèta dell’odio suo; coi capelli irti e rabuffati; il
conte Giovanni Anguissola stese la mano fuori della finestra, ed,
agitandosi in atto di tremenda minaccia, sciolse un duplice voto;
quello di recuperare Olimpia a ogni costo e di non usarle più nessuna
misericordia: quello di vendicarsi di Pierluigi Farnese.

Già, dal momento in cui aveva consumato l’eccidio dello abate
commendatizio di San Savino, non s’era più dato un momento di pace.
Frugando e rifrugando per tutte le castella del piacentino, era giunto
a risapere, per mezzo di spie, che la sua Olimpia trovavasi ricovrata
presso i conti di Santafiora. A un Tedaldi, suo intimo, aveva chiesto a
prestanza la costui casa di Tavasca, in quel torno affatto deserta. Con
fino avvedimento, erasi proposto di trar partito delle cerimonie, che
si solennizzavano in Castell’Arquato per gli sponsali di Sforza Sforza
con Luisa Pallavicino, affine di riaccostarsi alla sua diletta. Tutto
eragli riuscito nel modo quasi miracoloso, che sappiamo; ed ora tutto
era nuovamente a rifarsi.

Scese quindi nel cortile; svegliò l’unico valletto, che lo avesse
seguito in quel luogo; gli fece rinsellare il cavallo; montò in arcioni
e partì.

Per quanto perlustrasse i dintorni, di Olimpia non gli fu dato
rinvenire la menoma traccia. Anzi, dalle medesime spie, che le avevano
già servito, imparò da lì a poco come, a Castell’Arquato, ella non si
fosse punto rivista e come anche lo stesso Farnese se se ne fosse ito.

Subitaneo e fermo sempre nelle sue resoluzioni, egli pensò allora
ch’ella dovesse trovarsi dove colui si trovasse e fermò di mettersi in
cerca di lui.

Da Fiorenzuola si recò prima a Roma, e, da Roma, lo seguì a Perugia.

Il rimanente ci è noto.




CAPITOLO XXXVII.

In qual modo Olimpia fosse morta.


Nè il conte Anguissola erasi male apposto: Olimpia aveva, infatti,
raggiunto il suo Pierluigi.

Come?

Nel modo più semplice.

Sfuggita alla casa de’ Tedaldi, ella contava restituirsi da Tavasca a
Castell’Arquato traversando alla bella pedona i villaggi di Budagnano,
Magnano e Diolo; ma — fatto breve corso di via — le suggerì che, se il
conte addavasi della sua fuga e si slanciava a cavallo, l’avrebbe ben
presto raggiunta. Però, oltrepassati a pena gli ultimi abitacoli del
primo di tali villaggi, si cacciò di traverso alla propria destra e
andò picchiare all’uscio di una povera casa contadinesca.

A’ villici, che, per buona sorte, trovò essere vassalli de’ Santafiora,
si dètte a credere quale un paggio del conte Sforza e, come tale, li
richiese di asciolvere e di ricovero.

E non istette guari ad avvedersi di quanto vantaggio le fosse stato
un simile spediente, imperocchè non erasi così seduta al desco, per
refocillarsi con un buon paio d’ova sbattute ed un fiaschetto di buon
Vigoleno ammanitili dalla massaia, che, dal finestruolo della casuccia,
vide passare e correr via a briglia sciolta lo stesso suo amante e
rapitore.

Per tutta la giornata, la giusta paura d’imbattersi in lui la tenne
chiovata nel tugurio di que’ buoni coloni.

Nel cuore della notte, tuttavia, si risolse a partire. Transitò
per Magnano e Diolo senza cattivi incontri ed arrivò alla rôcca dei
Santafiora che rompeva l’alba.

In quel medesimo punto ne usciva un drappello di cavalieri, alla testa
de’ quali uno a lei ben noto.

Era il suo Pierluigi, che i paterni comandi, recatigli il dì inanzi
da una staffetta, richiamavano sollecitamente a Roma, per la grossa
faccenda dell’insurrezione perugina.

Siccome procedevano al passo, ella potè seguirli rifacendo la propria
via e giungere nuovamente con essi fuori della terra murata.

Uscitane, si accostò resolutamente al Farnese, e gli si dètte a
conoscere.

Con un grido di gioia vivissima, il principe se la strinse fra le
braccia ed — ordinato ad uno de’ suoi armigeri di cederle il proprio
cavallo e di ricondursi alla rôcca, d’onde sarebbesi unito più tardi
alle genti del Trentacoste — volle che sempre gli cavalcasse al fianco
fino in vista delle porte di Roma.

A Roma, la fece scendere e pigliar stanza in una sua misteriosa
casuccia, che teneva in Ripetta, pei suoi segreti ritrovi, ed egli
s’avviò al Vaticano, per ivi apprendere dalle sacre labra paterne il
motivo del suo richiamo.

Ed ecco in quale guisa abbiamo trovato Olimpia Marazzani, in veste
maschile e sotto nome di capitano Tre-Grazie, nel campo pontificio
militante contra Perugia.

Nel suo cinismo, il Farnese non aveale taciuto la scoperta fatta da
Pellegrino di Leuthen della giovine della Staffa e lo intendimento
suo di sollecitare il comando di quella impresa guerresca, onde farla
servire alle turpi sue mire su di costei, ed Olimpia, con cinismo anche
maggiore e nel cieco aborrimento che le ispiravano il candore e la
verginità della innocente fanciulla; ne lo aveva tanto più incalorito,
col promettergli di seguirlo e di impiegare ogni suo sforzo pel
conseguimento di quel perfido scopo.

Come vi si fosse adoprata, lo abbiamo pur visto.

Trasportata ferita e fuori de’ sensi entro la casipola del chierico
perugino, il conte Giovanni Anguissola la sollevò di sua mano dalla
incomoda barella, su cui l’avevano stesa i suoi uomini, e la depose,
col massimo garbo e con tutte le maggiori cautele, sul letticciuolo,
che Bianca doveva trovare, pochi istanti dopo, chiazzato di sangue.

Fattosi apportar aqua entro il morione d’uno dei suoi, e messo in
brandelli un canevaccio, che rinvenne in un canto; il conte stava già
apparecchiato a lavare e fasciar le ferite di quella donna, che aveva
tanto amato e che forse amava tuttavia; quando i clamori sollevati
nell’accampamento papalino dalle grida di Pierluigi per la fuga di
Bianca e l’irruente calpestìo de’ cavalli, che si mettevano su le peste
di Terremoto; gli ispirarono il giusto timore di poter essere scoperto
e privato anche una volta di Olimpia, attalchè — con quel suo pronto
e repentino risolvere, ch’era una sua particolare caratteristica —
riposta la trafitta su la lettiga e fatti legare nuovamente i polsi a
Neruccio, dètte ordine alla sua scorta di seguirlo, con questo e con
quella, sino alla vicina Perugia.

Ignorava che Bartolomeo della Staffa se ne fosse già allontanato;
faceva, nel caso, assegnamento sopra di lui come mallevadore e, per
sottrarsi alle possibili indagini del Farnese, stimava ottimo consiglio
il riparare senz’altro colà.

Vi trasse, dunque, securo e — per porta Borgne, lasciata omai, al paro
delle altre, senza presidio di sorta, fra il confuso viavai di soldati
baglioneschi, che ne uscivano alla spicciolata, e di genti del contado,
che, avuto sentore della reddizione, vi rimettevano timidamente
il piede, dopo tanti giorni di paurose angoscie — potè facilmente
penetrarvi inosservato.

Suo proponimento era quello di cercar ricovero presso qualche
monistero, epperò si rivolse ad uno de’ suoi seguaci, ch’era perugino,
affine gli servisse di guida. E questi lo menò, tra quella porta e lo
Spedale del Cambio, per una viuzza rimota e diserta, presso un alto e
negro edifizio, dalle cui ampie finestre traspariva un fioco bagliore
di luce.

Era un convento di frati agostiniani.

La barbuta, che andava inanzi, bussò replicatamente alla porta maggiore.

Il frate portinaio ne schiuse lo sportellino; udì di che si trattasse;
ne riferì al padre guardiano e, poco stante, spalancata la porta,
intromise il lugubre convoglio sotto le severe chiostrate del
reclusorio.

Alla donna ferita, che l’Anguissola dichiarò essergli sorella, il
padre guardiano assegnò la sua propria cella e fece chiudere in altra
il nostro misero Neruccio, che lo stesso Anguissola designò come uno
scellerato assassino, nemico di Dio e della santa religione cattolica.

Nei conventi era abituale, di que’ tempi, l’esercizio della medicina
e della chirurgia. Fu però chiamato il frate meglio pratico in esse al
capezzale di Olimpia, che, in quel punto, era rientrata in sè stessa.

Com’egli le si curvava sopra, per esaminarne le ferite; ella — con
leggero soffio di voce — gli mormorò all’orecchio:

— Buon padre.... ditemi in pericolo anche più di quanto nol fossi....
fate di rimaner solo alcuni istanti con me.... ho gravi cose a dirvi!

Il monaco, infatti — dopo aver compiuto quelle locali ispezioni, che
la scienza gli suggeriva, ed applicata su le ferite della paziente
una larga benda imbibita di balsamici unguenti — andò a susurrare
alcune sommesse parole al padre guardiano; indi — volgendosi al conte
Anguissola, che attendeva trepidante il risultato di quella sua prima
investigazione:

— Messere — gli disse — egli è forza v’allontaniate alcun poco e
mi lasciate solo con madonna, al fine io tenti sovra di lei di un
particolare specifico mio, il solo forse abile a salvarla e che non
comporta nessuno possa frastornarmi mentre lo sto amministrando.

— Ma io — soggiunse subito il conte, cui grandemente crucciava il
pensiero di non potere assistere a quella medicazione — io non farò
atto, non muoverò verbo, che possa sturbarvi!

— Talvolta, messere — gli obiettò il frate, con piglio severo — il
dovere propone e il sentimento dispone.... come fratello, voi dovete
acerbamente penare de’ patimenti della sorella vostra e se.... diamo
l’ipotesi.... ell’avesse a soffrire anche maggiormente, e a metter
lagni strazianti e forse....

S’arrestò un momento perplesso; poi — abassando vieppiù la voce:

— Forse a soccomberne.... — continuò.

— Per la croce! — fece allora l’Anguissola — voi, dunque, credete?...

— Nulla io credo — concluse solennemente il frate — temo molto, ma e
molto spero anche e dai soccorsi dell’arte e da quelli d’Iddio!

Il guardiano con un suo cenno imperativo mozzò sul labro del conte ogni
ulteriore rimostranza e lo costrinse ad uscire secolui dalla cella,
nella quale il monaco curante rimase solo a fianco della donna affidata
alle sue cure.

Quanto intervenisse fra loro due non è ancor tempo di dirlo.

Fatto è che — in capo ad alcuni momenti, i quali parvero secoli
all’Anguissola, che, nell’ansietà dell’attesa, arpentava a passi
concitati le buie chiostrate del grande cortile — il monaco uscì
cautamente dalla cella, recando in mano la lampada che la rischiarava,
e si diresse verso lui.

— Ebbene? — gli chiese subito il conte.

— Ella dorme — gli rispose il frate — le ho amministrato il mio
specifico e confidiamo che la divina providenza dia a questo tanta
efficacia da poterla salvare.... ma, sino allo spuntare del sole,
conviene lasciarla affatto tranquilla; che nessuno l’accosti: il minimo
romore, la più lieve scossa, potrebbe riuscirle fatale e cagionarle la
morte!

— Oh, non temete!...

— Il reverendo padre guardiano ha assegnato a voi ed alle genti di
vostro seguito parte de’ letti della foresteria: ritiratevi, dunque....
ritemprate nel riposo e nel senno le vostre forze affiochite da una
dolorosa trepidazione....

— Oh, il sonno!... esso sfuggirebbe dalle mie ciglia!... piuttosto,
userò meglio del mio tempo, ingannando le mie ansie, con una visita al
prigioniero, che ho qui condotto; m’è giocoforza conferire con lui!

— Ve ne farò schiudere la cella!

Pochi istanti dopo il conte Giovanni, preceduto dal portinaio, entrava
nell’angusta cella, in cui stava chiuso il nostro Neruccio.

Là si trattenne sino al rompere del giorno.

A pena, traverso la piccola finestruola, vide il cielo illuminarsi
de’ primi e grigi barbagli dell’alba, uscì sollecito dalla cella,
lasciandola schiusa e si diresse a quella di Olimpia.

Anche di questa l’uscio era aperto.

Su la soglia tenevasi il padre guardiano con le braccia incrociate sul
petto.

Dall’interno emergeva un fioco chiarore come di molti cerei accesi.

Il conte ebbe una stretta al cuore.

Non osandolo della parola, interrogò dello sguardo il guardiano.

Questi, tacitamente del paro, gli rispose congiungendo le mani ad atto
di prece ed alzando gli occhi al cielo con un lungo sospiro.

Non c’era più dubio!

Olimpia era morta.

Nè ciò ancora bastava.

Nel punto istesso che egli, smarrito, fuori di sè per lo schianto
improviso, col cervello in fiamme, il pianto che gli faceva groppo
alla gola; mutava un passo per introdursi in quella funebre stanza, e
contemplare, per l’ultima volta, le adorate sembianze di quella donna
che lo aveva reso tanto infelice; vide uscirne una lunga fila di frati,
due de’ quali recavano su le spalle una bara tutta coperta da un ampio
drappo nero.

Quella vista gli tolse completamente l’uso della ragione.

Stese le braccia, mise un rauco grido e stramazzò a terra svenuto,
svegliando gli echi delle chiostrate col cupo tintinno della sua
pesante armatura.

Quando rinvenne, varî de’ suoi uomini d’armi, tra’ quali Neruccio, gli
stavano prestando le loro cure.

Chiese timidamente di Olimpia.

Era già sepolta.

Volle allora essere guidato nel tempio attenente al monistero e
conoscere la pietra sotto la quale giaceva la salma della sua diletta
e, su quella genuflesso, stette a lungo piangendo.




CAPITOLO XXXVIII.

Una disumazione.


Quale accade soventi ne’ primi istanti che susseguono a grave sciagura,
il conte Anguissola, lasciando il convento degli agostiniani, non
provava più nessuno degli antichi suoi sentimenti: tutto raccolto
nel dolore atroce della perdita di Olimpia, persino l’odio, che avea
giurato al Farnese, eragli interamente caduto dal core. E siccome
non aveva accettato il patto impostogli a Castel Torsciano suo primo
intendimento diveniva quello di eluderlo, senza tuttavia mancare alle
leggi dell’onore, e di ritornarsene in patria.

A tal fine, si abboccò con Alessandro Vitelli, sotto i cui ordini erano
stati posti gli uomini di Ascanio della Corgna e di Andrea d’Arezzo e,
mercè lo sborso di un centinaio di ducati, potè facilmente ottenere da
lui di essere sciolto dallo assunto impegno.

Stava, quindi, per abbandonare Perugia, pigliando le vie di Firenze
e di Bologna, affine di restituirsi al suo castello di Grazzano
nel piacentino; quando un caso altrettanto strano che inaspettato,
mutò affatto ordine alle sue idee e gli fece renunciare ad un tale
divisamento.

Trovavasi un mattino insieme al nostro Neruccio, in piazza di
Sopramuro, per la quale doveva transitare il signor duca di Castro, co’
suoi capitani e architetti, onde recarsi ad ispezionare i luoghi, su
cui gettare le fondamenta della nuova fortezza.

Veniva questi inanzi a lungo seguito di ufficiali delle sue truppe
e di maggiorenti della città e fiancheggiato, a destra, da monsignor
Bernardino dalla Barba, ed, a sinistra, da una carrozza a quattro ruote
tirata da due magnifici cavalli.

Al momento istesso, in cui la splendida cavalcata sfilava di fronte al
conte Anguissola, una persona, che tenevasi chiusa entro la carrozza,
sporse rapido il capo dallo sportello e subito lo ritrasse; ma non così
sollecitamente che quello non avesse agio di contemplarne le sembianze
e di emettere un alto grido.

In quelle sembianze aveva creduto riconoscere Olimpia.

Nel primo ed immenso suo stupore, il conte stese inanzi le braccia e
tentò muovere un passo per seguire il veicolo; ma, da un lato, glielo
impedì la folla stipata di popolo, che gli faceva argine: dall’altra,
la carrozza che erasi immediatamente richiusa e si slontanava veloce.

Affrettiamoci ad avvertire il lettore che, tra il conte Giovanni
Anguissola e il nostro Neruccio Nerucci, era corso patto di calda e
leale amicizia.

Simile trasformazione ne’ sentimenti del conte, riguardo al giovine
capolancia, dovevasi al colloquio avuto tra loro nel chiostro degli
agostiniani, mentre Olimpia stava agonizzando.

Interrogato su le ragioni che lo avevano spinto ad infierire contro
costei, Neruccio espose candidamente i varî casi della propria vita: il
suo intenso amore per Bianca della Staffa; il suo odio ed il perchè del
suo odio contro Pierluigi Farnese.

Tanto bastò perchè l’Anguissola si sentisse attratto verso di
lui da vivissima simpatia; gli chiedesse perdono dell’inflittigli
maltrattamenti, lo sciogliesse di prigione e gli si profferisse amico e
parziale per tutta la vita.

Fu dunque allo stesso Neruccio, che egli espresse i suoi dubi circa la
misteriosa ed inesplicabile apparizione che, in quel punto, lo aveva sì
profondamente commosso.

Cosa pensarne?

Neruccio stette un momento in forse: quindi esclamò:

— Badate, messere, che si dànno à questo mondo delle assai meravigliose
somiglianze.... non vi scaldate troppo la fantasia per ciò!...
considerate, d’altronde, che se colei, che avete mo’ mo’ travista,
fosse la vostra donna Olimpia de’ Marazzani, ella non potrebbe essere,
in pari tempo, sepolta nella chiesa del monistero.

Simili parole furono per l’Anguissola come una rivelazione.

— Sepolta? — diss’egli, quasi ragionando fra sè — e se la non
ci fosse?... perchè, infatti, quella sollecitudine estrema di
allontanarmi?... come può darsi ella non abbia un attimo solo
recuperato gli spiriti ed, in quello, espresso il desiderio di
rivedermi e parlarmi?... e per qual motivo si sono affrettati così a
porla nel sepolcro che, quando a mia volta sono rinsensato, ella fosse
già seppellita?... quà sotto, messer Neruccio, vi ha un mistero senza
dubio ed io vuo’ penetrarlo a ogni costo: mi aiuterete voi?

— Sono a servigi vostri per cotesto come per tutto.

— Ebbene: per questa sera, è uopo raggranellare gli stessi uomini,
ch’erano seconoi l’altra notte: nessun di loro ha lasciato ancora
Perugia, dovendo tutti partirne insieme a monsignor Pierluigi.... non
ci tornerà faticoso il raccapezzarli.

— Mi pongo subito all’opera.

— Ed io fo il medesimo dal canto mio.... a questa sera.

— Dove?

— Alla taverna del _Re Osco_, in cui siamo albergati.

— A questa sera, dunque!

E si separarono, pigliando ciascuno per due vie diverse.

Nel cuore della notte — mentre la città era quasi affatto diserta —
una schiera d’armati avvicinavasi pianamente allo Spedale del Cambio
e picchiava a più riprese su la porta di quel medesimo convento, che
poche notti prima aveva dato asilo e tomba ad Olimpia de’ Marazzani.

Comunque il mese di giugno toccasse omai la metà del suo corso e
facesse però un caldo soffocante; que’ uomini erano tutti ravviluppati
in ampli ferraiuoli, come nello stridore del verno, e da certe punte,
che uscivan loro disotto gli estremi lembi di questi, sarebbersi detti
in moto, non per visitare un sacro recinto di preghiera e di pace, ma
per attaccare e pigliar di assalto qualche formidabile fortilizio.

A’ loro colpi, il portinaio si affacciò allo sportello.

Il capo della schiera declinò il proprio nome, espresse il motivo che
lo adduceva e chiese del padre guardiano.

Poco stante la porta girò su i suoi cardini e gli armigeri penetrarono
nel cortile.

La porta si richiuse.

Il padre guardiano era alla loro presenza.

— Che volete da me? — domandò egli al loro duce.

— Padre — gli rispose costui, in atto umile e reverente — con questo
picciol novero di seguaci, io sto sul punto di recarmi su le galee di
Sua Maestà Cattolica l’imperatore di Lamagna, per combattere contro
le ladre bulime del Barbarossa, che infestano le coste italiane di
Calabria e di Puglia; ma, prima di partire, io e questi miei fidi
intendiamo sciorre un voto solenne su la funebre pietra che cuopre
la infelice spirata non ha guari in questa vostra casa ed offrire un
ultimo tributo alla sua memoria.... compiacetevi, dunque, o padre, di
guidarci alla tomba, che chiude le spoglie mortali di donna Olimpia de’
Marazzani!

Inutile il soggiungere che chi aveva parlato in tal guisa era il conte
Giovanni Anguissola.

Ma alle sue parole, il guardiano rimase un momento interdetto, come non
sapesse cosa rispondere e stesse mendicando pretesti.

— Ebbene — soggiunse, con qualche vivezza, il conte, dopo una breve
pausa — voi non ci rispondete?... è forse contrario alle discipline
della regola vostra quanto noi sollecitiamo dalla vostra cortesia?

— Oh, no, di certo — s’intromise a dire Neruccio, che, per aver
vissuto parecchi anni al fianco del misero suo zio, vescovo di Fano,
s’intendeva assai bene di faccende chiesastiche e di consuetudini
monacali — conosco gli statuti dell’ordine e nulla può vietarlo al
reverendo padre guardiano di questa pia comunità!...

— E dunque? — fece impazientemente l’Anguissola.

— Dunque — conchiuse il frate, cui le dichiarazioni di Neruccio
mozzavano i sotterfugi a fior di labra — sono pronto a compiacervi.

E — fattosi rimettere la lanterna dal portinaio — accennò
all’Anguissola di tenergli dietro e mosse verso la chiesa.

Ivi, indicò al conte una delle grandi pietre funerarie che cuoprivano
gli avelli, dicendogli semplicemente:

— È qui.

Pronunziati a pena tali due monosillabi, uno strano movimento si operò
nei seguaci dell’Anguissola. Due rinchiusero tosto l’usciolino della
piccola porta, per la quale erano tutti penetrati nel tempio, e vi si
collocarono contro come in sentinella; altri due si posero a’ fianchi
del padre guardiano, fissandolo in faccia con minaccioso cipiglio,
mentre un terzo gli toglieva la lanterna di mano; e i rimanenti
— lasciato cadere il ferraiuolo, e mettendo così in mostra i poco
promettenti arnesi, ond’erano armati: leve di ferro, marre e piccozze —
si avvicinarono alla lapide mortuaria.

Il frate comprese subito di che si trattasse e, levando alto le
braccia, con un grido di orrore, volle slanciarsi inanzi, per impedire
la nefanda profanazione; ma uno de’ suoi due custodi lo azzannò
violentemente per l’omero e, forzandolo a rimanersene cheto:

— È inutile, padre — gli disse — quel che vogliam fare lo faremo a ogni
modo, strepitiate o non strepitiate: meglio dunque, e per voi e per noi
che vi teniate tranquillo!

— Ma è un sacrilegio! — strillò il guardiano, tentando sciorsi dalla
stretta brutale.

— Non ci pensate, padre — gli rispose l’armigero, ghignandogli sotto il
naso — lo piglieremo su la coscienza nostra e ce ne faremo assolvere da
Sua Beatitudine in persona nell’occorrenza del primo anno santo!

Dietro gli ordini del loro duce e del suo amico Neruccio, gli altri
uomini d’arme avevano frattanto già compiuto il còmpito loro. Lavorando
in molti, ad un tempo, con le leve, i picconi e l’arco dell’osso,
erano giunti a scassinare e rimuovere la funebre pietra, scoperchiando
così la tomba sottostante, dalla cui apertura un lezzo nauseabondo di
putredine invase tutte le navate del sacro recinto.

L’Anguissola non attese altro: prese in mano la lanterna, e d’un balzo,
saltò in fondo alla orribile fossa.

Così la chiesa si trovò di bel nuovo immersa completamente nel buio
e, a chi vi avesse potuto spinger entro uno sguardo, ben strano e
pauroso sarebbe apparso lo spettacolo di quelle ombre mobili a pena e
susurranti intorno all’orifizio di quel fetido cavo, da cui usciva,
come vapore luminoso, un debole sprazzo di luce rossastra, che ne
schiarava fantasticamente i ceffi arcigni e malaugurosi.

Alcune parole profferite dall’Anguissola, mentre rovistava tra i
putridi resti e le ossa umane disseminati pel colombario, avertì
Neruccio che il suo novello amico er’approdato a buon fine con la sua
temeraria incursione nel regno de’ morti.

— Non m’ero ingannato! — aveva egli detto.

E, subito dopo, facendo forza del braccio su l’orlo della sepoltura,
ne usciva sollecito, impartendo l’ordine a’ suoi uomini di ricuoprirla
immediatamente.

Mentre questi obbedivano; egli si avvicinò al padre guardiano, e,
rimettendogli in pugno la lanterna:

— Padre — gli disse, con un ghigno angoscioso — Dio vel perdoni, ma voi
mi avete detto menzogna!

— Quale? — balbettò il monaco, abbassando gli occhi, sotto lo sguardo
di fuoco del suo accusatore.

— Quella che mi annunziava la morte di donna Olimpia Marazzani.

— Io non vi ho mai detto fosse avvenuta.

— Ma quella bara?

— Era vuota.

— E donna Olimpia?...

— Altro non posso soggiungere; me lo vieta il segreto della confessione!

— E sia — fece alteramente il conte — oramai mi è noto quanto
m’importava sapere.

E uscì dalla chiesa e dal convento, sempre seguito da’ suoi.

Non sarà d’uopo al lettore di sagacissimo acume per indovinare a che si
dovesse la menzogna del padre guardiano.

Olimpia aveva detto al frate curante com’ella appartenesse a monsignor
Pierluigi Farnese, capitan generale e gonfaloniere di Santa Madre
Chiesa e fattagli preghiera d’essere a questi restituita, sottraendola
possibilmente per sempre al suo rapitore, ma nel segreto e senza che il
medesimo potesse averne nocumento o fastidio.

La simulazione del suo decesso fu l’unico spediente, che il frate
medico giudicasse idoneo a prendere, come si suol dire, due colombi a
un baccello.

Ne conferì col guardiano, cui nulla di meglio potevasi offrire
della propizia opportunità di rendere segnalato servigio allo stesso
figliuolo del Santo Padre e — mentre il conte trattenevasi in colloquio
col nostro Neruccio — tra eglino due e la stessa Olimpia venne
concertata la comedia che il più de’ monaci recitarono in buona fede,
senza nemmanco sapere si trattasse di un gioco.

Al momento istesso, in cui Pierluigi, ceduto il governo a Monsignor
Bernardino della Barba, disponevasi a lasciar Perugia, per far ritorno
a Roma e, di là, recarsi in Abruzzo contro i ribelli Colonna; il suo
segretario Apollonio Filareto gli andò ad annunziare ed introdusse
alla sua presenza due gentiluomini stranieri, che domandavano conferire
secolui.

Erano due giovani alti, bruni, un po’ somiglianti tra loro, comunque
l’uno paresse di alquanto più attempato dell’altro, e vestiti
nell’elegante e sfarzoso costume de’ cavalieri spagnuoli dell’epoca:
tocco piumato in capo; giustacuore di raso, con maniche a gozzi e
sparati; ampie brache a liste ed a sbuffi, allacciate poco al di sotto
dell’inguine su fini calzoni di serica maglia; breve mantelletto di
velluto bordato d’oro e ad alto collare trattenuto da un aureo cordone
e da borchie cesellate infisse agli spallacci; lunga e sottile spada al
fianco destro ed, al sinistro, pendenti dalla cintola, il borsacchino a
nappe e ricami e la misericordia.

Posto piede nella maggior sala del palazzo del Priorato, dove risiedeva
sempre il Farnese, costoro gli si inchinarono nobilmente, senza torsi
di capo il berretto, secondo la costumanza spagnuola ed attesero in
silenzio ch’egli si degnasse interrogarli.

— Chi siete? cosa volete? — li richiese egli, infatti, dopo averli
squadrati a lungo d’alto in basso, con aria di palese diffidenza.

— Quanto a me — rispose il più attempato — sono Giovanni Anguissola,
piacentino, conte di Grazzano, cavaliere dello speron d’oro e senatore
milanese: l’amico mio è don Giovanni Osca da Valenza, gentiluomo
spagnuolo.

— Di che mi richiedete?

— Dell’alto onore di militare sotto gli ordini vostri, in servizio del
Sommo Pontefice e di Santa Madre Chiesa.

— E null’altro?

— Null’altro!

— Sarete sodisfatti.

Da quel giorno, Giovanni Anguissola — nel quale non era più possibile
che il Farnese riconoscesse il Cavalier Nero, perchè spoglio della sua
bruna armatura — ed il valenziano Giovanni Osca — nel quale il lettore
avrà, per contro, facilmente ravvisato il nostro Neruccio Nerucci —
furono ammessi a far parte di quello esercito pontificio, che poi —
come abbiamo già detto — menò a buon fine la guerra del sale contro
Fabio ed Ascanio Colonna.

Ad assumere il falso nome di Giovanni Osca, Neruccio era stato spinto
dallo stesso Anguissola, il quale gli aveva giudiziosamente fatto
avvertire che se mai, per mala sorte, dovesse il Farnese aver vento de’
suoi legami di parentela col misero vescovo di Fano poteva prenderlo in
diffidenza e avversione e macchinargli contro qualche tiro malvagio.




CAPITOLO XXXIX.

Il ticchio del Papa.


Erano dunque trascorsi tre anni dai casi che abbiam narrato nella
precedente parte di questa nostra istoria, il che ci porta all’anno
1543.

Durante il tempo intercorso, quella scaltrita volpe di papa Paolo
III non aveva smesso un attimo solo dall’adoprarsi, con ogni maniera
avvedimenti e girandole, per sgrandire semprepiù le dovizie e la
potenza della propria già doviziosissima e potentissima famiglia.

Egli era papa: sua figlia Costanza, signora di Castell’Arquato e dei
dazi della Rochetta; Guid’Ascanio, il primogenito de’ costei figli,
era cardinale già da nove anni e, da otto, vescovo di Parma; Carlo, il
secondogenito, Gran Priore di Lombardia e Generale delle così dette
Galee della Religione; Sforza, il terzogenito ed erede, governatore
di Parma e di Piacenza, e, pel suo matrimonio con Luigia Pallavicino,
signore di Torchiara e Felino; Paolo, il quarto, ed Alessandro, il
quintogenito, scrittori di lettere apostoliche, a sei anni il primo e
ad otto il secondo; Alessandro, il primonato legittimo di Pierluigi,
era cardinale sino dal 1534; Ottavio, il cadetto ed erede, marito a
Margherita d’Austria e duca di Camerino; Ranuccio, il terzogenito, nel
procinto d’essere nominato arcivescovo di Napoli e cardinale; Vittoria,
l’unica figliuola, duchessa d’Urbino; Orazio, il bastardo, militante in
Francia e promesso ad una figlia naturale di Francesco I e di Diana di
Poitiers; il loro padre Pierluigi, poi, era duca di Castro e di Nepi,
marchese di Novara, gonfaloniere e capitano generale della Chiesa.

Ma tutto ciò non bastava al cupido Vicario di Cristo. In ispecie, pel
suo prediletto ed idolatrato sterpone e’ vagheggiava assai più; voleva
la ducea di Milano, ch’era sempre di Spagna, governata dal nepote di
Vittoria Colonna, quel don Alfonso d’Avalos marchese di Pescara e del
Vasto, che, in quello istess’anno aveva fugato da Nizza il corsaro
Barbarossa e il conte Francesco d’Enghien, per essere quindi sconfitto
da quest’ultimo a Ceresole.

Paolo III se l’era fisso in animo risolutamente e, malgrado il primo
scacco subito a Nizza, in occasione del suo primo colloquio con
quell’altra volpe dello imperatore Carlo V, voleva ad ogni costo
ritentarne la prova.

Nessuna variazione era intervenuta nel riparto e nel reggimento de’
varî stati d’Italia e dell’estero da quanto ci siamo ingegnati di
divisare sino dal principio di questa nostra narrazione, senonchè,
ai 20 di genaio del 1539, morto il benemerito Andrea Gritti, il corno
dogale della republica di Venezia era passato sul capo di Pietro Lando
e, ai 28 giugno del 1540, aveva cessato di vivere il duca di Mantova,
Federico II Gonzaga «lasciando dietro di sè Francesco III, primogenito,
che a lui succedette nel ducato; Guglielmo, che dopo Francesco regnò;
Lodovico, che, passato in Francia, divenne duca di Nevers; e Federico
che fu poi cardinale; i quali erano tutti in età pupillare, per cui
il cardinale Ercole, loro zio, con la duchessa Margherita, loro madre,
prese il governo di quegli Stati.» L’Europa civile riassumevasi sempre
in quella grande rivalità che manteneva Francesco I di Francia in
continua lotta con Carlo V di Spagna, oscitando fra’ quali, a mo’
di pendolo, come aveva ognor fatto, l’astuto pontefice prefiggevasi
aumentare ogni dì più la esorbitante influenza della sua casa.

Laonde — quando, nel principio del 1543, dopo le non troppo felici sue
imprese contra de’ fiaminghi e de’ barbareschi, l’imperatore venne
a sbarcare a Genova — egli provide subito a mandargli incontro, per
complimentarlo e sollecitarlo di un nuovo colloquio, lo stesso suo
diletto figliuolo, che vi andò con grande pompa e numeroso seguito,
del quale, oltre al Filareto ed a’ capitani Anguissola ed Osca, faceva
parte il suo nuovo segretario Annibal Caro, da pochi mesi entrato al
suo servizio.

Poche parole rispose Carlo V alle felicitazioni e meno ancora alle
suppliche, che Pierluigi gli rivolse in nome del proprio padre. Tra un
silenzio e l’altro, gli promise tuttavia di trovarsi nella primavera
o nella state a Bologna, a Parma, od a Piacenza, dove sarebbesi potuto
effettuare il desiderato convegno.

Già, nello intermezzo, ne aveva avuto luogo un altro a Lucca il 10
settembre 1541. Ivi — con l’imperatore e col papa — erano pure accorsi
Ercole II d’Este, duca di Ferrara, e Cosimo de’ Medici, duca di
Firenze, i quali rischiarono metter la città e le corti a subbuglio,
per un litigio insorto fra loro circa alla precedenza nell’ossequiare
Carlo V. Ercole volle passare il primo e Cosimo se ne imbizzarrì in
siffatto modo che — malgrado la nota sua cautela e prudenza — non seppe
astenersi dal suscitare uno scandalo. Il che prova come spesso anche i
grandi uomini sieno molto piccini.

Carlo V «portava una cappa di panno nero, un saio simile senza alcun
fornimento, e in capo un cappelluccio di feltro, e stivali in gamba,
coprendo con quest’abito modestissimo — come osserva il Segni —
un’ambizione superiore a quella di Ottavio Augusto, monarca del mondo.»

E tra papa Farnese e Carlo di Borgogna — vuoi per ambizione, vuoi per
astuzia — l’andava, come suol dirsi da galeotto a marinaio. Il francese
Luigi XI e lo spagnuolo Roderico Borgia non avevano, per nulla, spinto
a sì eminente grado quell’arte del simulare e dissimulare, che ha poi
assunto il dignitoso nome di diplomazia. Que’ due avevano studiato bene
addentro cotesti loro archetipi e perfezionatone l’arte, cosicchè, se
l’uno era fino, l’altro non l’era manco.

Come già a Nizza, tra il maggio e il giugno del 1538, Carlo V seppe
così lavorare di scherma anche in questa seconda occasione, che tutte
le armi insidiose del gran prete di Roma gli caddero ai piedi spuntate,
senza neppure scalfirgli la «cappa di panno nero.»

Paolo III — camuffandosi, come voleva il suo sacro carattere, a
semplice e disinteressato paciere — tornò più volte a trarre in campo
il retaggio di Valentina Visconti, siccome quello che costituiva la
cagione precipua de’ dissensi e delle guerre tra la casa di Francia
e la casa di Spagna, proponendo — quale unico mezzo per comporre tale
rivalità — il cederlo ad altri; mettere, insomma, in pratica il vieto
proverbio che, fra i due litiganti, il terzo gode. Nè questo terzo
meglio si poteva trascegliere che nell’amato suo Pierluigi, il quale —
per rendere servigio al proprio padre ed aiutarlo nel pietoso còmpito
di rappaciare l’Europa — sarebbesi volonteroso addossato l’onere di
governare quelle provincie.

Un freddo risolino tutto peculiare all’ibrido dominatore della Spagna,
della Fiandra e della Germania, accoglieva quelle strane proposte e
rilevava, col trasformarsi in tagliente soghigno, tutti i sottintesi,
che si chiudevano nel loro pretenzioso carattere di mansuetudine e di
sacrificio.

Quel ghigno sembrava dire:

— Lo credo anch’io che il tuo beniamino si sobbarcherebbe, senza troppe
schifiltà, al governo di quelle provincie, che sono una delle più belle
gemme della mia corona!

E però — senza risponder mai nè affermativamente, nè negativamente
— lasciava cascar nell’aqua la conversazione; mutava quasi
inavertitamente soggetto e faceva menare il can per l’aia al desolato
pontefice, il quale — rodendosi di rabbia, ma occultando il proprio
dispetto sotto quella vernice di indifferenza e di bonomia, in cui
era sommo maestro il fondatore della Compagnia di Gesù — dovette
ritornarsene a Roma con le pive nel sacco.

Non si scosse, per altro, dal suo proponimento, al quale tornò, come
abbiamo detto, con anche maggiore insistenza di prima, due anni dopo
aver subìto quella seconda sconfitta.

Il 1542 trascorse senza gran che di rimarchevole. «Provossi in questi
tempi — come ce ne informa l’Isnardi nel _Diario Ferrarese_ — il
flagello delle locuste, specialmente in Lombardia» — morì a Edimburgo
re Giacomo V Stuard, e ne fu erede quella disgraziata sua figlia
Maria, per la quale il trono di Scozia doveva rimutarsi in un ceppo
patibolare; — l’imperatore sanzionò l’acquisto che, due anni prima,
don Ferrante Gonzaga aveva fatto di Guastalla, pagandola ventiduemila
dugent’ottanta scudi di oro a quella nuova Messalina, che fu la figlia
di Ercole Gonzaga, conte di Novellara, il quale se n’era reso padrone
nel 1522, scannandone il legittimo signore, Achille Torelli, per
sospetto d’adulterio con la propria moglie; — a Piacenza il legato
pontificio monsignor Vegerio venne sostituito dal cardinale Oberto
Gambara da Brescia legato della Gallia Cispadana; — ed il cardinale
Guid’Ascanio Sforza di Santafiora, vescovo di Parma, cedette i propri
feudi al fratello Sforza Sforza, signore di Castell’Arquato, con che
questi si assumesse di sostenere e definire le gravi liti, ch’egli
medesimo aveva iniziato con la possente casata dei Rossi di San
Secondo.

Del resto, ripetiamo, nulla intervenne in detto anno meritevole di
particolare rimarco, senonchè Francesco I di Francia — irridendo al
proprio agnome di _Cristianissimo_, con lo stringersi in alleanza
all’islamita Solimano, il _Grande_, il _Conquistatore_, il _Magnifico_
od il _Legislatore_, che si voglia chiamarlo — ruppe nuovamente guerra
allo imperatore Carlo V, ed inviò in Piemonte, contro il marchese
del Vasto, l’ammiraglio Claudio d’Annebaut, barone di Retz, con un
grosso di truppe, che da’ cesarei venne, in breve, battuto, sconfitto,
disperso.

D’un tale rinfocolarsi delle ire franco-spagnuole pensò novellamente il
papa poter fare suo pro’, ritornando alla carica onde ottenere pel suo
prediletto figliuolo l’agognata ducea di Milano, ed intanto mise fuori
ed accreditò la voce ch’egli intendesse nominarlo signore di Parma e di
Piacenza.

Sino dai primi giorni del 1543 Luca Contile, infatti, scrivendo a
Ippolito Curzio: «Non mi accade dirvi — annunziava — che il signor duca
di Castro è fatto duca di Piacenza, et di Parma. Io me ne rallegro
per più rispetti, primieramente perchè sono affetionatissimo alla
casa Farnese, et perchè verranno in coteste bande una schiera di
virtuosi amici miei.» De’ quali rallegramenti noi non possiamo troppo
rallegrarci con la memoria di messer Luca Contile.

Tale voce, tuttavia, non è facile lo appurare per qual vero fine fosse
posta inanzi dal furbo pontefice. Chi riteneva avess’egli renunziato
alla vagheggiata speranza di ottenere la ducea milanese pel duca di
Castro, onde farne investire il costui figliuolo Ottavio, assegnando
realmente a quello, in compenso, i possessi pontifici di Piacenza e di
Parma; chi opinava, invece, non fosse quella che un’abile manovra per
intimidire l’imperatore e forzargli la mano: e questa era la versione
più universalmente accettata.

Forte della favorevole risposta che lo stesso Pierluigi gli aveva
recato da Genova, Paolo III, si mise subito in moto per tradurre in
atto i propri progetti, e, corse su le tracce dell’imperatore, col
quale voleva ad ogni costo conferire; ma che sempre sguizzavagli di
mano come pesce nell’aqua.

Nella prima domenica di aprile ricorrente il dì 8 giunse a Piacenza,
accompagnato da’ suoi nepoti cardinali Alessandro Farnese e
Guid’Ascanio Sforza, dal legato Oberto Gambara, dai cardinali Pisani,
Santacroce e Savelli e da interminabile processione di vescovi e
prelati.

La domenica successiva recavasi a Castell’Arquato a render visita alla
propria figliuola Costanza di Santafiora.

Poco dopo transitava per Parma, dove il buon cardinale Michele
Ghisleri, che cinse poi, a sua volta, la tiara, col nome di Pio V,
arrovellavasi nel sostenere publicamente le famose trenta questioni
controverse risguardanti l’autorità papale: prova questa che, sin
d’allora, degl’anti-infallibilisti ce n’era più d’uno.

Passò, quindi, a Ferrara, dove fece solenne ingresso nella domenica
successiva.

Finalmente, non essendo mai riuscito ad aggavignare la sacra ed
imperial persona di Carlo V, se ne ritornò, ad aspettare gli eventi,
in Bologna, d’onde sguinzagliò, per ogni intorno, lettere ed emissari,
cospiranti tutti al sospirato suo scopo.

E dàlli e dàlli riuscì infine a conseguirlo.

Carlo V accondiscese ad un novello convegno pel quale venne prescelta
la rôcca di Busseto.




CAPITOLO XL.

Gli esploratori.


Verso la metà del secolo XV, la possente casata scendente da
quell’Uberto Pelavicino, che — insieme a Buoso Doara ed Ezzelino da
Romano — fu tra’ più validi sostentacoli del ghibellinismo svevo in
Italia; possedeva sul parmigiano ed il piacentino — oltre all’avita
Busseto — Bargone, Borgosandonnino, Cortemaggiore, Costamezzana,
Fiorenzuola, Gallinella, Monticelli d’Ongina, Polesine, Ragazzola,
Ravarano, Roccabianca e le Fontanelle, Scipione, la Selva del
Bocchetto, Solignano, Specchio, Stagno, Tabiano, Varano de’ Marchesi e
Varano de’ Melegrani, o de’ Melegari, con Monte Salso, Vianino, Vigolo
de’ Marchesi e Zibello.

Assunto il più onesto nome di Pallavicino, la famiglia durò riunita
in solido fascio sino alla morte del prolifico Orlando avvenuta nel
1479, per scindersi allora in altrettanti disgregati dominî quanti
i costui sette figli maschi. In tale divisione, Busseto toccò al
primogenito Pallavicino, poi, da questi, in linea di primogenitura,
scese a Cristoforo e, da Cristoforo, a Gerolamo, il quale era appunto
signore al momento in cui Carlo V decise recarsi nella sua rôcca per
abboccarvisi con papa Paolo III.

Laonde, sino da vari giorni inanzi a quello, in cui presumibilmente
doveano giungervi gli ospiti augusti, era per tutta la rôcca un
ire e redire di artegiani, fanti e famigli, intesi a sgomberare, a
spolverare, a restaurare e mettere in buon assetto i quartieri.

Nè sollecito manco e manco febrile, comechè più silenzioso, era il
movimento che si rimarcava nel vicino chiostro de’ Minori Osservanti,
dove pure sapeasi che, del seguito dello imperatore e del papa, molti
avrebbero dovuto prendere alloggio.

E già da parecchi giorni, sì nel convento chè nel castello, tutto
trovavasi apparecchiato al solenne ricevimento senza che dello arrivo
dei due sommi monarchi si avesse per anco nissuna precisa contezza.

Correva il 19 giugno 1543 ed il sole volgeva al tramonto, quando
due stranieri, montati su magri ronzini, giunsero alla porta del
monastero e chiesero del padre guardiano. L’uno d’essi era un
meschino omicciattolo, dal grifo di faina e l’occhio del gatto,
vestito completamente di bigio, come un onesto merciaiuolo olandese;
l’altro un ragazzo male in arnese, sudicio e tinto in volto, come uno
spazzacamino, che a quello pareva servire da fante.

Il guardiano, nella costante attesa di qualche messo, o staffetta, che
gli annunziasse il corteo imperiale, o pontificio; a pena inteso come
i sopravegnenti procedessero da Parma, che subito mosse loro incontro
ansioso, nella ferma fiducia, si trattasse delle persone aspettate. Ma
s’ingannava.

Alle sue premurose dimande:

— Fostre Referenscie — gli rispose il piccolo ometto, che prese pel
primo la parola in uno strano e male intelligibile gergo — non afere
tinansce che pofere pegadore fiacciante per il monto con suo fetele
scutiere.... altro non timandare che un poche de ricofere e un poche ti
misericortia.

Il superiore del convento non seppe trattenere un atto di dispetto e, —
stringendosi nelle spalle:

— Non mi avete fatto dire — osservò — che provenite da Parma?

— Da Barme, da Barme — fece l’altro, nel quale i lettori avranno già
ravvisato quella buona lana di mastro Pellegrino di Leuthen — noi
fenire tritte tritte da Barme.

— E non sapete nulla di Sua Beatitudine, il nostro Santo Padre?

— Non sapere?.... tutto sapere!... Sua Peatitudine aferla feduta
arifare a Barme, tofe bresentemente si drofa.

— E vi è stato detto quando intenda recarsi in questa nostra città?

— Tetto! tetto!... cranti e moltissime cose escermi state tette; ma io
non potere carantire ferità cose statemi tette.

— Siete tedesco, voi, se non erro.

— Sì, sì, tetesche, molto tetesche, e molto difote Santa Peata Fercine
Santissima e Nostre Signore Ciesù Penedetto!...

Era evidente che Pellegrino studiavasi d’apparire assai più soro e
scimunito di quanto realmente non fosse, e doveva necessariamente
avercene delle buone, o cattive ragioni, che non tarderemo a conoscere.

Pertanto il padre guardiano, che non poteva rifiutare asilo a straniero
pellegrinante per motivo di religione e tanto divoto della Beata
Vergine e di Nostro Signor Gesù Cristo: dètte ordine al frate portinaio
di lasciarlo entrare, in uno col suo valletto, d’assegnar loro un posto
in foresteria e di trattarli convenientemente.

Il portinaio era un vecchio laico, già stato questuante della comunità,
posto in quescenza alla custodia de’ chiavistelli del gran portone
d’ingresso, perchè le gambe, che gli facevan sotto giacomo giacomo,
non gli consentivano più di gire cotidianamente a zonzo per la borgata
e i dintorni con la bissaccia in collo e il bordone tra mani, per
ritornarsene carico delle spoglie opime carpite alla buona fede de’
grulli. Ma se aveva logori e fuori d’uso i muscoli duttori delle anche,
non così poteasi dire di quelli della lingua, che serbavano tutta
l’elasticità e l’instancabile vigore de’ primi anni.

Fra Simpliciano da Voghera ciaramellava altrettanto da solo, quanto,
riunite, tutte le ciammengole d’un quartiere de’ Camaldoli di Firenze.
I vassalli e familiari di messer Gerolamo Pallavicino gli avean posto
nome _Il parlatore eterno_ e dicevasi in convento ch’ei non si chetasse
dal cinguettare nemmanco quando dormiva.

Fu, dunque, costui che si mise a’ fianchi di Pellegrino di Leuthen e
del suo giovane servidore e — dopo mostrato loro i poveri sacconi su’
quali avrebbero potuto passare la notte — li menò in giro pel convento,
istruendoli, com’era suo costume, di quanto esso accoglieva di più
ragguardevole in fatto d’arte e di storia.

In sagristia trasse fuora dal cassabanco un grosso volume rilegato in
cartapecora e, squadernandolo sovra uno de’ stalli:

— Questo, vedete — disse loro — è il libro delle note, dove, sin
da quando la nostra religione venne introdotta a Busseto, i padri
cominciarono a segnare le vicende della comunità e i fatti più
rimarchevoli del luogo; ora sono io, che lo tengo, e non fo per
laudarmi, chè la vanagloria è sempre stata uno dei peggio peccati, ma
non lo si è mai visto tenuto in uguale bell’ordine!

E, curvatosi sul libro, tolse in mano una grossa penna d’oca; la
intinse nel calamaruccio di stagno, che trovavasi su lo stallo; quindi
— voltosi a Pellegrino:

— Piacciavi, messere — gli disse — declinarmi il riverito vostro nome
e quello del compagno vostro, affine io li registri qui, di seguito
agli altri, come di forastieri, che albergarono nel nostro convento o
l’onorarono di loro presenza.

— Foi tite mio nome? — fece il tedesco, per guadagnar tempo — oh,
mio nome molto tificile a scrifere!... mio nome essere Gotifredo di
Wranchgotzhausen.

— Troni e dominazioni! — sclamò fra Simpliciano, quasi avesse udito
pronunziare il nome di Satanasso — Golfitrido di Vransgosgagus!...
sembrano parole arabiche, che il Signore le danni!

Nondimeno, s’ingegnò del suo meglio a mettere in carta qualche cosa che
somigliasse a quella stramba cacofonia.

— E il compagno vostro? — domandò quindi a Pellegrino.

Il tedesco — anche più impicciato a questa seconda, che nol fosse
stato alla prima dimanda — lanciò di sghimbescio uno sguardo furbesco
al suo giovane fante, il quale si fe’ inanzi ardimentoso e, con voce
argentina:

— Il mio nome? — chiese.

— Appunto — affermò lo zoccolante portinaio, sempre curvo sul suo
grosso registro — come ti chiami?

— Lazzaro d’Alpinello — gli rispose il ragazzo, scambiando col suo
principale una ironica occhiata di scherno.

— E i luoghi di vostra nazione? — riprese il frate.

— Io — fece Pellegrino — essere nate a Katzenellenbogen tra l’Odenwald
e Wettergau nell’Assia.

— Ed io — soggiunse il ragazzo — a Santa-Maria-Capua-Vetere in Campania.

Il pover’uomo — a dover scrivere tale filatessa di nomi — sudava caldo,
come lo avessero aggiogato a un aratro. Comunque, se la cavò del suo
meglio e, deponendo la penna, mise un grosso e sonoro respiro, quasi
avesse compiuto una delle dodici fatiche di Ercole.

— Pelle porcate Pussete! — sclamò allora il tedesco, tanto per non
lasciar morire la conversazione e darle un nuovo indirizzo.

— Borgata? — brontolò il portinaio, drizzando maestosamente l’arco
del dorso ed atteggiandosi ad una grottesca fierezza d’accatto — una
borgata Busseto? ma che Iddio vel perdoni, messere! e non sapete che è
città da oltre due lustri?...

E — sfogliettato il prezioso volume, nel quale aveva allora
scombiccherato il nome e la patria dei due forastieri, sino a trovare
una pagina su cui posò trionfalmente l’indice destro:

— Leggete un po’ qua — riprese a dire — leggete qua, dove il mio
precessore ha annotato il fatto lo stesso giorno 4 marzo 1533 e....
vedrete!

Lazzaro d’Alpinello si piegò sul libro e lesse ad alta voce la seguente
nota, che trascriviamo testualmente:

«Nota che lo serenissimo imperatore ritornando de Ungaria a casa
sopravene che alogiò qui in Buxeto e per sua solla benignità ha creato
questo castello in cittate; passando dico a dì 4 de marcio a hore 22
et allogio un dì et una nocte e per perpetua memoria ellese cavallier
spron d’oro chiamato hestor P.no et in cassa nostra alogiò 4 lancichi
nechi et la dove il magistro teneva scolla el ducha de la guardia
de essa Maestà Cesarea alogio anchor lui et hera in la ditta citta
alogiati ancora lo ducha de millan et lo ducha de Savoia et ant.º de
leva et da poi partendosi sen ando in alexandria dove nui havesimi li
provillegi.»

L’_hestor P.no_ significava Ettore Pallavicino, il quale apparteneva
alla famiglia de’ marchesi di Pellegrino, che vivevano di que’ giorni
in Busseto come semplici privati.

Si desuma da ciò in quale guisa il dabbene fra Simpliciano da Voghera
dovesse avere imbastardito i nomi di Gotifrido di Wranchgotzhausen, di
Katzellenbogen, di Odenwald e di Wettergau.

Erano intesi a quella poco amena lettura, alloracche s’udì risuonare, a
più riprese, il campanello del portone d’ingresso.

Lo zoccolante s’affrettò ad accorrervi, lasciando i due seguirlo adagio
ed al buio pel corridoio, che, dalla sagristia, menava al cortile
principale, dove — raggiuntolo pochi momenti dopo — si trovarono di
fronte a un nuovo personaggio.

Era costui un uomo di mezza età e di mezza statura, dal volto bianco,
sbarbato ed abatesco, i cui occhietti d’un nero cupo, senza luce
nessuna, pareano due macchie d’inchiostro sur un nitido foglio di
carta. Vestiva egli modestamente di bruno, con sopra un gamurro a
capperuccio di saio marrone alla maniera marinaresca e, nello entrare
in convento, era sceso da un piccolo, ma buon cavallo maggiaro.
Interrogato, e dal guardiano e dal portinaio, del suo essere, nome,
patria e procedenza, e di che richiedesse; egli dichiarò, a sua volta,
andare in pellegrinaggio per la salute dell’anima e pel desiderio
ardente d’umiliarsi al pontefice; chiamarsi Manfrone Aretusio da
Vespolate; provenir di Cremona, dove in quel torno trovavasi di stanza
l’imperatore, e non domandare che ricovero e nulla più.

Pellegrino di Leuthen e quest’ultimo giunto si guatarono
scambievolmente in cagnesco, come se l’uno fiutasse nell’altro un
avversario, un nimico, e non ismisero più un attimo dal tenersi
d’occhio ed invigilarsi a vicenda. Se l’uno s’accostava ad appiccar
discorso col pettegolo zoccolante della portinaria, e subito facevasi
inanzi anche l’altro a metter bocca nella conversazione e ciascuno,
se interrogato dal laico, lavorava destramente di scherma, per dire
e non dire e non porgere mai troppo esatti ragguagli sul proprio
conto, senonchè Pellegrino ed il proprio valletto non parlavano quasi
mai d’altro che di Sua Maestà Cesarea l’augusto imperatore Carlo V
dicendone mirabilia; mentre Manfrone Aretusio aveva, di rimpatto,
sempre su le labra Sua Beatitudine Papa Paolo III ed i varî membri
della illustre famiglia Farnese, cui tributava i più strampalati
encomi.

Un tale contegno nulla poteva offrire di straordinario e di
rimarchevole pe’ buoni Minori Osservanti, che nessuna cagione traeva
a dubitare de’ loro ospiti; per contro, nelle istesse persone, che,
avendolo assunto artatamente, sapevano di mentire e misuravano gli
altri alla loro medesima stregua, destava i più gravi sospetti.

Ciascuno, dal canto proprio, rimuginava conghietture in cervello; ma
che si azzoppavano tutte contro l’interrogativo:

— Chi può mai essere costui?

Tanto pensava Pellegrino di Manfrone e altrettanto Manfrone di
Pellegrino.

Calata la notte, suonato il coprifuoco, ognun di loro si ridusse
in foresteria, cercando, o simulando cercare un po’ di riposo sul
rispettivo giaciglio loro assegnato.

Trascorse un’ora.

Nel chiostro regnava il più profondo silenzio; tutti parevano immersi
in un sonno da ghiri, quando, pian piano, in peduli, trattenendo il
respiro, facendosi lume con le mani, tre individui uscirono, l’un
dopo l’altro, dal dormentorio e — per gli ànditi e le chiostrate —
s’avviarono verso quella parte del cortile, dov’erano le scuderie.

Inutile dichiarare chi fossero.

Andava inanzi, pel primo, Manfrone Aretusio; al quale teneano dietro —
a qualche distanza e per altra via — Lazzaro d’Alpinello e Pellegrino
di Leuthen; ma nè questi sapevano di lui, nè quello di loro.

Giunti i due ultimi presso la scuderia, ch’era illuminata internamente
da una fumigosa lanterna, parve loro veder passare davanti al lume di
questa l’ombra di una forma umana. Ristettero però alquanto in forse
e, prima di penetrarvi, come n’erano intenzionati, vi misero dentro
l’occhio, facendo cautamente capolino dalle due bande dell’uscio.

Uno sguardo fuggiasco bastò ad insegnar loro con chi avessero a
fare. L’ombra umana era l’Aretusio, che li aveva preceduti nella
scuderia e che, in quel mentre, s’aggirava intorno a’ loro ronzini,
palpandone ansioso le gualdrappe e le selle. Il furbo s’era avuta la
loro istessa idea: quella, cioè, di assecurarsi se, tra gli arnesi
delle loro cavalcature, non tenessero per avventura, celato alcunchè,
atto a metterlo in via onde scuoprire chi veramente eglino fossero.
Riusciva, dunque, frustraneo ch’e’ tentassero, dal canto loro, quella
medesima prova, dappoichè tornasse ovvio non foss’egli stato cotanto
soro per fornire a chi reputava suoi avversarî lo identico mezzo di
rappresaglia, che sperava trarre da essoloro.

Paghi laonde di essersi con ciò cerziorati che quello sconosciuto
era un loro nimico e di non avergli dato in mano appiglio alcuno
che potesse servirgli d’arme a loro danno; stavano già per battere
pianamente in ritirata, allorchè s’avvidero come — forse per camminare
più libero e spiccio — il loro emolo avesse svestito il suo gamurro
marinaresco e fosse in semplice farsetto.

— Affrettiamoci! — mormorò imperativamente l’Alpinello, chinandosi
all’orecchio dell’antiquario prussiano — s’egli ha seco taluna cosa,
che possa giovare al fine nostro, è fuori dubio che la tiene nascosta
nel borsello aggiustato alla sua cappa: corriamo ad impadronircene!

— Ciuste! ciuste! — farfugliò il tedesco — ma, se indante noi fruchiamo
sue gabbe, lui arrifarci atosse imbrofisamende?...

— Ci si rimedia presto! — disse l’Alpinello, serrando adagio l’uscio
della scuderia e facendone scorrere il chiavistello esterno.

Poi — trascinandosi dietro Pellegrino per una manica del suo grigio
corsetto — riguadagnò frettolosamente il dormitorio, dove, sempre
tastoni, si dètte a ricercare il punto in cui trovavasi il giaciglio
dell’Aretusio. La bolgetta, appesa al gamurrino di costui, che formava
lo scopo precipuo delle sue ricerche, fu — per sua buona sorte — il
primo oggetto nel quale andò casualmente ad imbattersi.

Gongolante di gioia, allungò resoluto la mano, nello intendimento
d’impadronirsene; ma — in quel medesimo punto — si sentì ghermire a
mezzo il braccio come da una tenaglia di ferro.

Così improvisa, così violenta, così dolorosa fu quella stretta, che il
ragazzo non potè padroneggiare il proprio spasimo e si lasciò sfuggire
un lungo gemito di angoscia.

In pari tempo, una voce rauca insieme e sonora come il muggito d’un
bove:

— Accorruomo — gridò — al ladro! al ladro! al tagliaborse!

Pellegrino, che — per non impacciare il valletto nella progettata
rapina e non correr rischio di muovere qualche rumore — s’era già
corcato sul suo saccone, in attesa de’ risultati; a quel gemito, a quel
grido indovinò, senz’altro, cosa fosse accaduto, e lesto lesto, riprese
la verticale e s’avacciò a trovar l’uscio di nuovo e a ricacciarsi allo
aperto.

Il coraggio non era, certo, mai stata la dote prima, per cui brillasse
il nostro scaltrito cimelista; ma nel caso del momento, non era
tanto viltà d’animo, quanto raffinata furberia, che quella fuga gli
consigliasse.

Come vedremo, nel darsela a gambe, ei preparavasi astutamente alla
riscossa.

Intanto, all’alto richiamo di chi aveva azzannato l’Alpinello,
accorsero diversi frati, con alla testa il guardiano ed il portinaio
in coda, i quali trovavansi già in moto pel chiostro, trattivi da altre
grida e da un assordante frastuono, ch’erano giunti quasi nel medesimo
tempo alle loro orecchie.

Tale baccano lo aveva fatto l’Aretusio, il quale — vistosi a pena
rinserrato, o per isbaglio, od a tradimento, entro la scuderia — erasi
dato a martellarne l’uscio a suon di pugni e di calci ed a chiamare al
soccorso vociando a perdifiato.

Liberato da’ monaci, ch’erangli subito volati in aiuto, egli pure entrò
secoloro nel dormentorio, che si rischiarò d’improviso alla luce de’
lumicini, ch’ei recavano tra mani.

Dietro loro, sporse inanzi la faccia il gaglioffo di Leuthen, per
riconoscere se, con le sue conghietture, avesse côlto nel segno ed uno
strano spettacolo gli si parò inanzi agli occhi.

Lazzaro d’Alpinello, il suo giovane familio, coi capelli irti, il volto
livido, gli occhi sbarrati, il respiro mozzo per lo spavento, teneasi
ginocchioni presso l’uno de’ tettucci, in un canto del vasto stanzone,
stretto sempre a’ polsi dalla ferrea mano dell’uomo, che avea posto il
convento in allarme.

Dal suo valletto, Pellegrino portò lo sguardo su di costui ed una
esclamazione di meraviglia fu sul punto di tradirlo.

In quell’uomo aveva riconosciuto una sua antica conoscenza.

Niente altri che Terremoto.




CAPITOLO XLI.

Il convegno di Busseto.


Parma, che era stata indicata, dopo Piacenza, per la tanto attesa
intervista del papa con l’imperatore — malgrado la scelta di Busseto
fatta posteriormente da quest’ultimo — nodriva sempre la speranza che
il fausto avvenimento potesse avverarsi tra le sue mura, tanto più che
aveva già l’onore di ospitare l’ottima donna Margherita, duchessa di
Camerino, la quale eravisi espressamente condotta, per riabbracciare
l’augusto suo genitore ed insieme il duca Ottavio, suo marito, che
aveva sino a quell’ora militato in Fiandra per l’imperatore istesso.

Tale speranza accrebbesi poi e si convalidò maggiormente quando si
seppe della venuta del papa.

Paolo III, infatti, era partito da Bologna su l’albeggiare del lunedì,
11 giugno, e — dopo aver fatto tappa a Spilimberto, a Scandiano ed
a Montecchio — giungeva in Parma verso il mezzogiorno del venerdì;
ma, forse perchè memore sempre del funesto caso occorsogli ivi
istesso cinque anni inanzi, non volle nè entrarvi pontificalmente,
nè visitare la cattedrale, prima di scendere al Vescovado, dove lo
stava aspettando, insieme a Margherita d’Austria, il nepote vescovo,
cardinale di Santafiora.

Malgrado ciò, l’Anzianato e la Curia vollero ugualmente cavarsi il
ruzzo di festeggiarne solennemente l’arrivo e — nella persistente
fiducia che anche l’imperatore dovesse alla fine optare per la loro
città — disposero tutto in guisa che rispondesse alla ipotesi del
sospirato convegno.

Così su la maggiore porta del duomo vedevasi un grande cartellone
riquadro, su cui, a caratteri cubitali scritto:

                        _STATE DUO PUGNATE DUO_
                         _VICTORIA VESTRA EST._

Nel palazzo vescovile, a mano dritta di chi entrava ne’ quartieri
apparecchiati anch’essi come se Carlo V avesse pur dovuto alloggiarvi,
era dipinto «un pontefice con una gran croce in mano, e da piedi il
Regno Mundi con queste parole: PAVLO. III. SALVO. SALVA. RES. PUB. Da
la manca vedevasi un Imperatore à l’antica, il quale con ambedue le
mani un Mondo teneva al petto con due ali con questo scritto IMPERATOR
STELLIS NON SVBIICITVR SED IOVIS IVDICIO GVBERNATVR, et sopra l’Arco
di detta porta questa orationetta: QVEM ADMODVM HOC VNO HOSPITIO, AMBO
ORBIS MAGNA LUMINA HOSPITES CONVENISTIS ITA DEVS OPT. MAX. PERPETVA
ANIMORVM CONIVNCTIONE PRO CHRISTIANA SALVTE SOSPITES DIV CONSERVET.
Dentro poi su l’arco dè la prima scalla questo detto: AD SUMMOS HONORES
ET ORBIS IMPERIUM NISI PER GRADVS PROBITATIS ET VIRTUTIS ASENDIT
NEMO. Sallito dopo sopra ad una loggia videsi fabricato un Camerino
di tavole tutte coperte di Ginepro con queste lettere in cornice: PER
MVLTA LVSTRA HOS TVOS ANTIQVOS LARES PRÆPOTENS DEVS FAXIT INCOLVMIS
SÆPE VISAS, et nel cortile di detto palazzo appicciato ad una loggia
in un scuto dentrovi l’Armi di N.ro S.re et l’Imperiali queste parole:
IVSTITIA ET PAX SE OSCULATE SVNT.»

Per le vie maggiori e minori della città era una frega, un viavai, un
brulichio di gente, che s’arrestavano e s’interrogavano l’un l’altro,
per sapere se maggiori o minori le probabilità di veder giungere tra
loro anche il temuto imperatore Carlo V.

Nella istessa piazza del duomo, moltissimi facevano capannello
intorno ad un vecchio signore, che, dal camiciotto di velluto nero
e dal beretto alla raffaellesca, dalla lunga barba ondeggiante, che
rammentava un po’ quella di Leonardo da Vinci, e, sovratutto, dallo
interesse pieno di ammirazione, col quale contemplava le stupende
proporzioni architettoniche, le slanciate colonnette ed i bassorilievi
massonici del battistero; riconoscevasi facilmente per un artista.

E lo era infatti.

Era quel celebre allievo di Sebastiano Zuccato, di Gentile Bellini e
di Giorgione Struzzo, che, già a quell’ora aveva di tanto superato
ed eclissato la fama de’ propri maestri; era il veneziano Tiziano
Vecellio, nato a Pieve del Cadore nel 1477 ed, a sua volta, in cammino,
per concedere a Carlo V quel tesoro, che non avean potuto ottenere nè
papa Leone X, nè re Francesco I di Francia; il tesoro del suo pennello.

Gli astrologi — genia che, di que’ tempi, faceva ancor meglio i propri
affari, che non oggi le sonnambule magnetizzate — rispondevano alle
ansiose dimande del popolino, che lo avverarsi de’ loro desiderî
dipendeva dallo stato del cielo, il quale, se mantenevasi sereno,
avrebbe determinato la venuta dell’imperatore; se no, l’avrebbe resa
impossibile.

Stavano tutti in tale trepidante aspettazione, allorchè — come ne ha
lasciato scritto l’ingenuo cronista — «circa le XXI hore in un subito
scopersesi un sì fiero Temporale che per un quarto d’hora altro non
si vide che pura grandine grossa la minore a guisa d’ovo, e tal’una
se ne trovò; che sola pesava sette et otto oncie: Taccio di quei che
mi hanno detto haverne pesato di X. XI. In fin’in XIII. Vncie si che à
tre miglia di lungo et quattro di largo da una banda di detta Città un
vago; pur di che si sia frutto, non vi ha lasciato pesti più viandanti:
de’ quali ad uno ha cavato un occhio, morti assai animali menuti. Vn
Prete Fiamingo sfratato, il quale in ginocchione sopra la porta de
la stanza scongiurando con spesse croci detto maltempo, sì bellamente
il percosse in viso la grandine che supino in terra come morto cadè.
Depoi soggionse una terribiliss.ª acqua si, che pareva che ’l ciel
scoppiasse.»

Laonde — stando a’ pronostici de’ leggitori nel gran libro de’ cieli
— la venuta dell’imperatore non doveva più aver luogo. Nè lo ebbe di
fatto, che — avutosi egli la notizia dello arrivo in Parma di papa
Paolo III — gli spedì immediatamente, con posta sforzata di quaranta
cavalli, il marchese don Alfonso di Pescara e del Vasto, governator di
Milano, ad annunziargli la scelta definitivamente da lui fatta della
rôcca di Busseto.

Udito ciò, il papa inviò immediatamente i cardinali di Santa Croce e
di Parigi, quali suoi legati all’imperatore, quindi, il mercoledì 19,
si mise a sua volta in cammino inanzi giorno: pranzò a Soragna; cenò e
dormì alla Castellina e «Il dì dipoi — sempre al dire del buon cronista
— partete à la volta di Bussetto, et à l’incontro le venne lo Ill.mo
S.r Duca di Ferrara vestito di raso chermesi, e trine d’oro. I suoi
paggi e staffieri à la sua divisa verde lionato e bianco, accompagnato
da Infiniti gentilhuomini bene in ordine, il quale venia di cremona da
Sua M.ta per visitare Sua B.ne la quale co’ i R.mi Farnese, S.ta Fiore,
Pucci, Mantua, Savello, Sadoletto, Ridolfi, Acquaviva, Gambaro, Burgos,
Grimani, Inghelterra, Salmonetta, et molti altri Prelati entrò in
detto Castello a XII hore senza Pompa, ed andò scavalcare à la Rocca,
alloggiamento diputato per S. S.ta et M.ta Ces.ª»

Come seguito d’onore, il papa aveva seco seicento fanti italiani,
oltre la solita guardia ordinaria de’ lanzi, o svizzeri, e trecento
cavalli. Scesi al castello, i cardinali sopramentovati andarono
pontificalmente ad incontrare sino alla distanza di mezzo miglio verso
il Po «il gran Cesare, che di Cremona partite la mattina à la volta
di Busseto, vestito d’una Casacha di damasco nero co’ orli piccioli di
veluto, et un semplice capeletto d’ormesino in Capo, a cavallo di una
belliss.ª Cavalla Ginetta bigia bardata tutta di veluto nero; a Cui
avanti andavano molti gentil huomeni, Dopo loro i Paggi tutti vestiti
di veluto nero beniss.i a Cavallo, con Zagagliette in mano: poscia i
quali seguivano gli Ill.mi S.ri Duca di Nazara, Duca di Alberques,
conte di Feria, Mons. gran Vella, Don Ferrante gonzaga vice Re di
Sicilia et il Prencipe di Sulmona co’ molti altri S.ri Spagnuoli et
Italiani, Dopo questi seguivano gli Ecc.mi S.ri Duca di Ferrara à
man destra al S.r Duca di Camerino con loro Paggi e staffieri vestiti
a loro liverea: i quali appresso seguiva un paggio di Sua M.ta solo
vestito come gli altri suddetti a Cavallo d’un belliss.º Sauro, in mano
ritta portava una Zagaglia in cima una bandirolla di taffetà rosso et
oro. Seguivalo depoi sua M.ta in mezzo de gli suddetti R.mi legati S.ta
Croce e parigi, a cui dietro andavano il R.mo Geneva et l’Arcivescovo
di san giaco; i R.mi Vescovi di Gieu, di Usén, e di Ras figliuolo de
’l granvella con molti altri prelati S.ri Prencipi, conti e cavaglieri
d’ogni lingua. Dopo seguiva la guardia ordenaria di cento cavalli
burgognoni con casache di veluto nero, et due altre compagnie simili,
de quali una ha per Cap.no il S.r Federico savello ben’in ordine.»

Carlo V — ricevuto l’omaggio della corte pontificia — entrò nella
rôcca, tra i cardinali Jacopo Sadoleto di Modena e Grimani di Venezia
e «n’andò per far riverenza à N. S. il quale gli venne incontro à Capo
de le Scalli, et quella accostatosele per basiarle inchinevol.te i S.mi
Piedi, sua B.ne messale le mani al collo gratamente il ricevette co’ un
soave bascio in guancia.»

Poscia l’imperatore si accomiatò «et n’andò à pranso, et prensato che
fù à XVIII ò XIX hore ritorno da Sua S.ta et ambidue soli entrorno in
Cam.ra ove per sino à le XXII hore stettero in segreto ragionamento, E
così seguentemente ogni giorno dopo pranso continuamente andando l’un
da l’altro senza esser visti per porte Segrete fino à hora di Cena
stavano insieme.»

Lo stesso cronista da cui prendiamo questi particolari ci fa sapere
come a Busseto si trovassero pure donna Margherita d’Austria,
duchessa di Camerino, e donna Costanza di Santafiora, contessa di
Castell’Arquato.

Due porte — continua il cronista — eranvi nella rôcca «guardate l’una
da la banda di Sua M.ta da Imperiali, l’altra da la; che stava Sua
S.ta da Thedeschi et soldati Italiani. La metà del detto Castello
era assignato à spagnuoli e l’altra à gli Ecclesiastici, similmente
la campagna, da una de le bandi à soldati, e cortigiani Imperiali, e
l’altra à Papisti.

«Durò final.te detto abboccamento (con gran discomodo de Cortigiani, à
quali oltre il gran caldo che patevano gli convenia riposarsi la notte
sù le pagliadi) da ’l Giovedì a XXI, che entrarono in Busseto sino al
Lunedi à XXV del passato (giugno) che cavalcò S. M.ta à XX.ti hore, ed
andò a Cremona: et simil.te il medesimo di N. S.re montato à cavallò
andò à Cena et à Dormire à Soragna; D’indi il dì seguente gionse à le
XII hore in Parma à pranso: Ove ha Celebrato la festa di San Piero, et
il dì seguente partete à la volta di Bologna.»




CAPITOLO XLII.

Il lupo e la volpe.


In quello istesso ambiente della rôcca di Busseto, che il cronista
battezza del semplice nome di «camera» e ch’era veramente la così
detta sala de’ negozi, noi troviamo, dunque, Sua Maestà Cattolica
l’imperatore Carlo V, e Sua Beatitudine papa Paolo III Farnese stretti
in segreto ed animato colloquio.

Erano seduti a’ due lati di un piccolo tavolo dai piedi a spirale,
coperto di un ricco tappeto di velluto paonazzo e di un cumulo di carte
e di libri, sul quale l’imperatore si appoggiava del gomito sinistro,
prestando la massima attenzione a quanto gli andava sciorinando il suo
sacro interlocutore.

— La Maestà Vostra, lo vede! — diceva questi — facendo conoscere al
Cristianissimo il sommo vitupero, in cui sarebbe incorso se, in tempo
che ella forniva la impresa di Algeri in benefizio della cristianità di
tutto il mediterraneo e, per conseguenza, pure di Francia, le avesse
rivolto contro le armi; io sono riuscito a tenerlo per alquanto tempo
tranquillo; ma sino dal cessato anno i suoi umori bellicosi sonosi
di bel nuovo risvegli ed in quattro oppositi punti ha fatto attaccare
dalle sue genti i domini della Maestà Vostra.... il delfino Enrico, suo
primogenito, con poderoso esercito, s’è accinto ad assediar Perpignano,
mentre il duca d’Orléans, suo cadetto, se l’è presa col ducato di
Lucemburgo: e il duca di Cleves col duca di Longueville son passati
nel Brabante, mentre il duca di Vendôme penetrava in Lombardia... vero
che i generali della Maestà Vostra seppero tenere a scacco il nimico,
il quale pressochè dovunque s’è avuta la peggio; vero, che da quando
Francesco I ha commesso il turpissimo atto di stringersi in lega con
l’infedele, insultando così a quella santa religione cattolica, che gli
è stata madre e di cui dovrebb’essere uno de’ più strenui difensori,
non è più possibile che il Signore Iddio sia mai più con le sue armi;
ma non manco è vero che le insensate sue smanie e la sua iattanza
mettono del continuo a repentaglio la pace publica e procacciano a
cristianità tutta una infinita serie di mali!

Carlo V — accarezzandosi il fulvo pizzo con quell’atto che gli era
sempre abituale, massime allorchè meditava — faceva un legger cenno
affermativo del capo, senza nulla rispondere.

— Di più — continuò il papa, senza mostrarsi sconcertato da un tale
silenzio — nel tempo istesso che il monarca francese mette insieme il
più di gente che può, per ritentare le sue pazze imprese, Khair-Eddin,
il Barbarossa, sta allestendo una formidabile schiera di galee per
piombare novellamente su le misere coste del mediterraneo.... la Maestà
Vostra, per contrapporre un valido ostacolo alle forze congiunte di
Francia e di Turchia, s’è bene stretta in alleanza, con Arrigo VIII,
re d’Inghilterra; ma che ne proviene?... la minaccia di nuova, lunga,
micidialissima guerra, con grave iattura de’ poveri popoli, con
manifesta offesa d’Iddio, il quale vuole precipuamente la misericordia,
il perdono e la pace fra tutti i suoi figli.

Il discendente di Ferdinando ed Isabella i Cattolici proseguiva a
tormentarsi la barba, senza muover verbo.

— Egli è però — riprese a dire Paolo III dopo una pausa — che io torno
a fare appello all’animo mite e generoso di Vostra Maestà, affinchè
voglia piegarsi a’ miei paterni consigli ed aiutarmi nell’arduo, ma
santissimo còmpito, di comporre gli animi a reciproca benevolenza e di
ristabilire la pace nel mondo.

— In qual maniera? — domandò allora Carlo V, affisando il pontefice
negli occhi con lo sguardo freddo e penetrante de’ suoi occhi neri ed
opachi.

Il Farnese fece uno sforzo sovra sè stesso, per rendersi impenetrabile,
ed, incrociando le mani e sporgendo in fuori il labro inferiore,
assunse un’aria anche più spiccata di unzione e di mansuetudine.

Indi soggiunse:

— In una maniera, che, già varie volte, mi sono permesso di accennare
alla Maestà Vostra.

— Vostra Beatitudine — fece il monarca spagnuolo — intende, senza
dubio, riparlarmi della ducea di Milano.

— Appunto! appunto!... — s’affrettò a dire Paolo III — è sempre cotesto
il soggetto primo, od almeno il pretesto, di tutte le guerre combattute
tra la Francia e l’impero: tolta di mezzo quella ducea, e sarebbe
rimossa la cagione di ulteriori conflitti.

— Ah, tôrla di mezzo! — borbottò Carlo V, rimettendosi a stiracchiarsi
i peli della barba — tôrla di mezzo.... è presto detto!

— Indubiamente — osservò subito il papa — che io non dico di dare
ascolto alle pretese di Francesco I... sarebbe consigliare una
umiliazione, quasi una viltà, che dee ripugnare all’animo eletto e
giustamente orgoglioso della Maestà Vostra; ma io dico....

— Di investire qualcun’altro di quella ducea, eh?

— È sempre stato il mio pensiero!

— Non ho pena a crederlo.

— E sarebbe il partito meglio acconcio.

— Per Vostra Beatitudine!

— Ed anco per la Maestà Vostra.

— Ne ho i miei serî dubi!

— Che la Maestà Vostra s’affidi interamente e ciecamente nei lumi e
nella sperienza del suo indegno padre in Nostro Signor Gesù Cristo.

— Me lo impone Vostra Santità come domma, come atto di fede?

— Non sino a cotesto punto: prego e non impongo.

— E quale sarebbe la persona, che Vostra Beatitudine, mi consiglierebbe
d’investire di quella ducea?

— Una persona, che, s’è cara al mio cuore, lo dev’essere pure a quello
di Vostra Maestà Cesarea: il giovine monsignor Ottavio Farnese, duca di
Camerino.

Era cotesta una manovra furbesca del papa, alla quale Carlo V non era
probabilmente preparato, dappoichè, malgrado la storica sua presenza di
spirito, non seppe fare a meno dal trasalire e:

— Don Ottavio? — sclamò meravigliando — far Duca di Milano, don
Ottavio.... quel fanciullo? oh, che Vostra Santità non ci pensi!

— Badi la Maestà Vostra — soggiunse il pontefice, con un fino soghigno
— che io le ho appunto proposto un fanciullo, non un uomo, affinch’ella
possa moderarlo a tutto suo piacimento e continuare, per mano sua, a
tenersi ugualmente in pugno il dominio ed il governo del milanese.

— Ed è precisamente in cotesto che sta il peggio guaio della
proposta: cedendo il milanese, per quanto possa fare a fidanza con
la malleabilità e l’ossequenza del cessionario, io lo perdo: ed, in
ugual tempo, la istessa persuasione che, per tal modo, io ne serbi
parimente governo e dominio, toglie ogni importanza alla cessione....
il cavalleresco sire di Francia non s’accheterebbe, di certo, ad un
simile componimento, che rivestirebbe, per lui, tutta l’apparenza di un
intrigo.

Paolo III durò somma fatica ad occultare, sotto una larva di
rattristata remissione, la viva gioia che tali parole gli producevano.
Costantemente fermo nella mira di conseguire il ducato di Milano
pel suo Pierluigi, e’ non aveva messo inanzi quella proposta chè
nell’intento di dimostrare allo imperatore la propria condescendenza.
Considerando, per altro, come a lui poteva sorridere il progetto di
contribuire allo ingrandimento del proprio genero, aveva provato,
nell’affacciarla, un non so qual batticuore, per tema di vederla
accettata. Era, quindi, col più grande sodisfacimento che s’udiva
ribattere quelle medesime obiezioni ch’egli stesso aveva, prima di ogni
altro, previsto.

— Comprendo! comprendo! — mormorò allora, scuotendo melanconicamente
la testa — i motivi che m’adduce la Maestà Vostra sono di natura e di
portata tali, che non saprei davvero in quale guisa combatterli!

Carlo V, che indovinava il giuoco dell’avido Vicario di Cristo e, come
suol dirsi, lo vedeva venire, ebbe un sorriso di olimpica ironia, che
sembrava dire:

— È qui che t’aspettavo!

— Riconosco anch’io — prosegui il Farnese — che il re di Francia non
potrebbe tenersi sodisfatto della transazione e che il sacrificio
da me richiesto alla Maestà Vostra non approderebbe al desiderato
resultamento.

— Per cui?... — domandò, con leggero accento sarcastico l’imperatore.

— Per cui — fece l’altro abbassando gli occhi, quasi sentisse vergogna
della propria ostinatezza — non ci sarebbe altro mezzo che.... il mio
primitivo progetto.

— Il signor duca di Castro?

— Appunto, Maestà, mio figlio Pierluigi, quello istesso, che la Maestà
Vostra si compiacque già di infeudare del marchesato di Novara.

— Ed è però che mi sembra che basti.

— Ma io nulla invoco in pro della mia famiglia; è il bene de’ popoli,
è l’amore sviscerato al gregge cattolico, che, da buon pastore,
unicamente mi muove!

— Nè di cotesto ho dubitanza veruna; ma siamo schietti, Santità.... si
può egli dare che io affidi il retaggio de’ Visconti e de’ Sforza ad
uomo della tempra del duca di Castro?

— Pierluigi è il più affettuoso, il più divoto, il più umile tra’
vassalli di Vostra Maestà Cesarea.

— Vuo’ ammetterlo; ma egli è pure quel medesimo che don Fernando
d’Avalos dovette cassare da’ registri delle sue truppe per le brutture,
ch’egli andava commettendo; è pure quel medesimo, su cui grava sempre
la fama del turpe misfatto compiuto su la persona del vescovo di Fano.

— Trascorsi giovanili, Maestà; de’ quali la stessa potestà eclesiastica
l’ha, per mio mezzo, pienamente assoluto.

— Ma è stato il pontefice, od è stato il padre che gli ha concesso
perdonanza?

— Io mi sono richiamato in pensiero la sublime sentenza di quell’Uomo
Dio, che rappresento su la terra: chi è senza peccato scagli la prima
pietra sopra di lui! e la ho applicata e come pontefice e come padre!

— Sta bene, Santità; ma perchè un peccatore venga reputato degno del
perdono ottenuto fa anche mestieri si appalesi pentito de’ peccati
commessi.

— E Pierluigi lo è, lo è sinceramente.

— Ma non lo dimostra coi fatti.

— Ah, Maestà!...

— Santo Padre — fece risolutamente l’imperatore rizzandosi in piedi
— non sarà mai che io metta il milanese in balìa del signor duca di
Castro!

Il papa si alzò, a sua volta, dando evidente segno della più profonda
tristezza.

Nel medesimo tempo si schiuse uno degli usci della sala de’ negozi ed
una giovane dama vi penetrò titubante.

Era donna Margherita d’Austria, la figlia naturale dello stesso Carlo
V, la moglie di don Ottavio Farnese, duca di Camerino.

— Ebbene? — chies’ella entrando e rivolgendosi al venerando suo
bisavolo.

— Figlia mia — le rispose mestamente il pontefice — armate l’animo
vostro di rassegnazione, poichè l’augusto vostro genitore non vuole
assolutamente condiscendere alle mie ragionevoli proposte.

— Voi, mio padre? — soggiunse la principessa, passando dal papa allo
imperatore — e perchè mai vi mostrate tanto ritroso e severo con la
nobile famiglia, a cui m’avete imparentato?

— Ve ne prego, Margherita — disse con calma il monarca spagnuolo —
non confondiamo questioni di parentado e di sentimento con questioni
di politica e ragioni di Stato... Sua Beatitudine conosce i motivi,
per cui io mi rifiuto dal secondare i suoi desiderî, e sa quanto sieno
fondati e giusti.

— Eh, no, no — intervenne a dire Paolo III — io stimo invece che
la Maestà Vostra si lasci sopraffare da una erronea prevenzione, o
sobillare da maligne insinuazioni altrui.

Tacciare Carlo V di essere lo zimbello dei maneggi e raggiri di qualche
intrigante, era il mezzo più sicuro per farlo andare in bestia. E ben
sel sapeva il maliziuto pontefice, il quale contava, in tal guisa, di
impermalirlo e di strappargli, per via di reazione e di ripicco, ciò
che non aveva potuto ottenere per convincimento.

— Insinuazioni altrui? — sclamò l’imperatore aggrottando la fronte e
smettendo dal tormentarsi la barba — no, Santità; nelle mie simpatie,
come nelle mie avversioni, non m’ho altro giudice e consigliero fuori
di me stesso.

— Voi, dunque, odiate il mio avo? — gli chiese ingenuamente donna
Margherita.

— Non odio nessuno io — mormorò Carlo V con impazienza — sono troppo
buon cristiano per nodrire simil fatta di basse passioni, io!... ma,
per quanta benevolenza porti al signor duca di Castro, essa non può
bastare ad acciecarmi al punto di crearlo duca di Milano.

— Ah, non dite cotesto, padre mio — gridò la principessa, gittandosi
a’ suoi piedi in umile atto — ve ne prego, ve ne supplico, ve ne
scongiuro!... se è vero che mi amate; se è vero, come frequentemente vi
compiaceste attestarmi, che io v’ispiri un affetto vivo e profondo, non
mi rifiutate la grazia, che imploro piangendo dalla vostra generosità;
nominate duca di Milano il padre del mio consorte!

Carlo V oscillava incerto: sua figlia Margherita aveva sempre
esercitato un grande impero sopra di lui. Egli l’amava teneramente; e
il vedersela a’ piedi, udirla piangere in quel modo, era una tortura
pel suo cuore di padre che non sapeva tollerare. Tuttavia gli ricorse
il pensiero che quelle preghiere, quelle lacrime non fossero che una
indegna comedia appresa alla giovine donna dagli stessi suoi nuovi
congiunti. Conosceva troppo a fondo lo spirito obliquo e le manovre
artificiose di costoro, per non dover diffidare anche di lei. Impose
quindi forza alla propria tenerezza e, rialzando la figlia:

— È inutile — le disse — è inutile che voi vi umiliate in cotesta
guisa.... moglie al figlio del duca di Castro od al figlio del duca di
Milano voi sarete sempre Margherita d’Austria, figlia di Carlo V.

— Ah, padre mio!... — sospirò la futura governatrice del Brabante —
se non cedete alle mie preghiere, egli è che non per nulla il Signore
Iddio v’ha situata la testa al disopra del core.

— Margherita!

— Oh, si, si!... rispetto a Beatrice di Portogallo, che è duchessa di
Savoia; rispetto a Renata, la cadetta del vostro avversario di Francia,
che è duchessa di Ferrara; rispetto a Leonora, la figlia di un semplice
vostro vicerè, che è duchessa di Firenze, e cinge quel medesimo diadema
strappato dalla mia fronte dal pugnale di scellerato sicario; cosa sono
io.... io, la figliuola del più grande e temuto regnator d’Europa?...
una meschina duchessa di Castro, signora di Nepi e marchesana di
Novara!

— Appartenete sempre a’ reali di Spagna, agli imperiali di Lamagna.

— Ma salga domani altro membro del Sacro Collegio alla cattedra di San
Pietro, e questa famiglia de’ Farnesi, cui mi avete legato, scadrà così
in basso, che i figli della vostra figliuola, i vostri nipoti, Maestà,
saranno poco più di poveri gentiluomini di cappa e spada, vassalli
degli stessi vassalli.

Co’ suoi sospetti Carlo V aveva perfettamente colpito nel segno.
Margherita parlava infatti, indettata dal marito e principalmente
dallo scaltro suo avo. Quand’ella andò sposa in Roma, racconta il
Segni, che «si trovò su i principî malcontenta di un tal maritaggio» e
che «essendo ita a Castro e Nepi, disse che la più vile terricciuola
del duca Alessandro, suo primo marito, valeva più di Castro, e di
quanto aveva casa Farnese.» Paolo III erasi però sollecitato di trar
profitto di simile disposizione d’animo della giovine principessa,
per accrescerne il malumore e rinfocolarne le ambizioni. Egli che le
aveva posto sott’occhi l’avvilente divario fra il di lei stato umile
e precario e quello d’altre principesse di assai minori natali; egli
che le avea insinuato la paura della propria morte non lontana e
de’ gravi danni che potevano conseguirne per tutta la sua famiglia;
egli, finalmente, che l’aveva consigliata ad ascoltare, origliando
dalla toppa dell’uscio, uno de’ suoi colloqui con l’imperatore e ad
intervenirvi allora che ne giudicasse opportuno e propizio il momento,
per aggiugnere alle sue le proprie istanze.

Carlo V indovinava gran parte di tali maneggi; ma l’amor suo sviscerato
per la figliuola lo acciecava da un lato, mentre dall’altro le di lei
savie e considerate riflessioni lo mettevano dassenno sovrappensieri.

Stette un momento in forse; rimeggiò il tu per tu fra il cedere ed il
resistere; quindi — con quel fare ambidestro ch’eragli peculiare:

— Ebbene — concluse — mi sia provato che, dopo i trascorsi che ho
addebitato poc’anzi al signor duca di Castro, egli s’è dappoi contenuto
sempre quale si addice ad intemerato gentiluomo e leal cavaliere, ed io
impegno la mia fede di imperatore e di re che lo fo duca di Milano.

Il papa, che aveva assistito, gongolante nell’intimo, ma senza darne
alcuno estrinseco indizio, a quel decisivo battibecco tra padre
e figlia e al graduale prevalere di questa su l’animo di quello;
non seppe rintuzzare una esclamazione di gioia, che, tuttavia
corresse a tempo, prima d’aver richiamato sopra di sè l’attenzione
dell’imperatore, trasformandola in un atto di pio esaltamento, con lo
incrociare le mani e volgere beatamente le pupille al soffitto.

Margherita pure si rasserenò tutta in viso e, stringendo e baciando le
mani dello augusto suo genitore, si accomiatò giubilante.

Carlo V avea impegnato la sua reale e imperiale parola di creare
Pierluigi Farnese duca di Milano, e però il lieto evento potevasi già
considerare come avverato. Non istette, quindi, ad indugiare oltre il
felicissimo Paolo III e ne spedì subito il fausto annunzio al figliuolo
istesso che, in quel torno, trovavasi a Piacenza, in compagnia del suo
segretario Annibal Caro.

Ma padre e figlio Farnesi istituivano i loro calcoli senza dell’oste,
e non era impossibile dovessero rifarli. Eglino proponevano; ma chi
disponeva era il loro genio malefico.




CAPITOLO XLIII.

Il genio malefico di Casa Farnese.


Se, per consiglio ed insinuazione di papa Paolo III, Margherita
d’Austria erasi tenuta origliando a quel medesimo uscio, per cui
l’abbiamo vista penetrare nella sala de’ negozi e risolvere in modo
tanto felice la discussione impegnatasi tra l’imperatore ed il papa; un
altro individuo, origliando in pari tempo dalla serratura di un altro
uscio, ascoltava pure tutto quello interessante colloquio.

Era costui quello stesso Manfrone Aretusio, col quale abbiamo stretta
conoscenza nel convento de’ Minori Osservanti.

Quest’uomo — udite a pena le conclusioni di Carlo V — s’affrettò ad
allontanarsi e, sgattaiolando in punta de’ piedi per vari corritoi e
stanze di servizio, si condusse in un piccolo gabinetto, dove sembrava
starlo aspettando un cavaliere tutto armato di ferro dal capo alle
piante, il quale, nell’occhio grigio e lucente, nel naso aquilino e
grifagno, nella dura proeminenza dell’osso frontale, aveva scolpito
l’indole fierissima e la consuetudine del comando.

— Ebbene? — domandò questi, come vide entrar l’Aretusio.

— Ebbene, eccellenza — gli rispose l’uomo dagli occhi di velluto — la
comedia apparecchiata dal Santissimo Padre è sul punto di conseguire
il pieno suo scopo.... donna Margherita è saltata in campo a tempo
e luogo, e, con le sue smorfie, le sue moine, i suoi piagnistei, ha
saputo piegare la ferrea volontà paterna a fare il suo piacimento.

— La sorniona! — sclamò il cavaliere, sferrando un pugno di rabbia sul
tavolo, presso il quale tenevasi ritto — proprio vero il proverbio che
ciò che donna vuole, il diavolo lo vuole?

— Per altro, il consentimento imperiale è subordinato ad una condizione.

— Qual’è... qual’è cotesta condizione?

— È la nostr’àncora di salvamento, eccellenza.

— Ti colga il fistolo!... e perchè mi fai spasimare con le tue
lungagnaie!

— Sodisfo subito la vostra legittima curiosità; l’imperatore ha sibbene
accondisceso a dare la ducea di Milano al signor duca di Castro; ma
patto gli sia dimostrato, come due e due fanno quattro, che il medesimo
ha mutato interamente costumi e non mena più la vita rotta e scandalosa
di quand’era a’ soldi del signor marchese del Vasto, nè di quando si
dava bel tempo co’ chierici ed anco i vescovi delle Romagne.

— Ha detto ciò Carlo V?

— Vostra Grazia può far conto che sieno le sue testuali parole.

— In tal caso siamo a campo vinto.

— Come intende diportarsi Vostra Magnificenza?

— Non ci son due modi, mi pare.... quell’accidente d’uomo, dal quale
t’ho fatto accompagnare spedendoti qui ad esplorare il terreno, potrà
deporre tutto quanto egli sa, ed il signor duca di Ferrara confermarne
la testimonianza.

— Purchè l’imperatore non fiuti il maneggio!

— Gaspare mio, tu non hai d’uopo d’insegnare ai gatti ad
arrampicarsi.... faremo le cose a modino.... dov’hai lasciato il tuo
uomo?

— È sempre in convento, dove tien d’occhio quel ragazzaccio, che ha
cercato di rubarmi le carte.

— E sai chi sia davvero cotesto ragazzo?

— È un tale Lazzaro d’Alpinello di Santa Maria-Capua-Vetere, scudiero
o, meglio, servitore di un tedesco, che è in giro per divozione....
così almanco risulta dal registro de’ monaci, che mi son dato la cura
di consultare.

— Ma perchè ti voleva rubare le carte?

— Chi sa!... da principio m’era sorto in pensiero che tanto lui, quanto
il suo principale, non fossero che due emissari dello stesso Pierluigi
Farnese; ma poi ho potuto convincermi dei contrario.

— In qual modo?

— Ecco qui: mentre l’uomo che Vostra Grazia ha stimato opportuno
d’aggregarmi, coglieva in flagrante il piccolo napolitano e levava
tutto il convento a subbuglio con le sue grida: accorse nel dormitorio
anche il tedesco, il quale, saputo di che si trattasse, con una sua
tartagliata infernale, si mise a rimbrottare nella più aspra guisa
il proprio valletto, minacciando di cacciarlo, lì per lì, dal suo
servizio!

— Poteva non essere che un giuoco!

— Fu tale diffatti anche il mio primo pensiero, per cui mi dètti a
ghignare sarcasticamente, avertendo lo _slippete slappete_ che non
mi lasciava pigliare al rocchio de’ suoi artefici; ma, a portarsi suo
mallevadore intervenne in quel punto lo stesso vostro uomo....

— Il gigante?

— Appunto, quel diavolo di Terremoto, il quale mi dichiarò
conoscer’egli personalmente e da lunga mano il tedesco e saperlo
persona affatto inocua, una specie di antiquario, di raccoglitore
d’antichi cocci e monete, del quale potevo ciecamente fidarmi: e la
cosa finì lì!

— E tanto meglio!... quello, adesso, che ti rimane a fare si è di
spedirmi subito il tuo Terremoto a presentare le sue lagnanze e le
sue suppliche all’imperatore: esortalo ad essere franco, esplicito,
resoluto, a non temere di nulla.... digli anzi che sua maestà sarà
ben lieta di udirsi confermare dal suo labro tutte le bricconerie del
signor duca di Castro, pel quale nutre la più spiccata avversione....
aggiugni che, se mai Carlo V mettesse pena a prestargli fede, sappia
citare in tempo la testimonianza del signor duca di Ferrara.... io
vedrò Ercole II, per informarlo in buon punto, eppoi sarò là a fare il
resto.

— Vado immediatamente a preparare la mina.

— Chiamala piuttosto: la contromina.

— Comunque, spetta a Vostra Magnificenza l’appiccare il fuoco alle
polveri.

— Sta riposato, che ho già la miccia accesa.

E si separarono.

Chi erano veramente cotesti due uomini che stavano cospirando a danno
di casa Farnese?

Il cavaliere tutto armato di ferro era don Ferrante dei principi
Gonzaga, da poco duca di Guastalla e vicerè di Sicilia per Carlo V di
Spagna: l’altro, colui che conosciamo sotto il pseudonimo di Manfrone
Aretusio, era il suo fedel segretario Gaspare Gozzelini.

Da poco erasi ritirato l’imperatore ne’ suoi quartieri, dopo il suo
colloquio col pontefice, quando il suo ministro, cardinale Antonio
Perrenot di Granvelle, gli annunziò la persona di un misero vassallo,
che lo sollecitava di audizione e giustizia.

In altri momenti, Carlo V sarebbesi, senza dubio, rifiutato di
riceverlo, per non sprecare il prezioso suo tempo nel dar retta alle
vacue querimonie di un villanzone; ma in quello — null’altro avendo a
fare che il tenere a sportello e mandar col ceteratoio Sua Santità papa
Paolo III — vi si prestò di tanto maggiore buon grado che il soggiorno
a Busseto cominciava seriamente ad infastidirlo.

Con Biagio Alfonso d’Alburquerques, col conte di Feria e vari
cardinali, prelati e gentiluomini, trovavansi in quell’istesso momento
al suo fianco Ercole II d’Este, duca di Ferrara, e Ferrante Gonzaga
vicerè di Sicilia.

Al cenno adesivo dello imperatore, un usciere palatino introdusse il
supplicante, ch’era lo stesso nostro Terremoto in persona.

Alla vista del formidabile ciclopo, tutti della corte imperiale — meno
il Gonzaga e l’Estense che già il conoscevano — uscirono in una voce di
paurosa ammirazione.

— Chi sei? — gli chiese l’imperatore, adagiandosi su d’un alto scanno.

— Sono un antico vassallo de’ signori Camia di Valdinure — rispose
timido Terremoto — ed ho nome Arcangelo Rinolfo.

— Sei mai stato a’ soldi come uomo di guerra?

— Sì, Maestà Serenissima, ci fui con uno de’ miei buoni signori, a’
tempi delle levate per le guerre del milanese.

— Ed eri a Marignano, senz’altro.

— Sì, Maestà Serenissima, ci era.

— I francesi non l’hanno chiamata per nulla battaglia dei giganti: tu,
intanto, dovevi esserne uno.

— Son grande e grosso, egli è vero, e nerboruto anche; ma ho l’animo
buono e non abuso mai.... Dio scampi!... della forza, che m’ha concesso
la providenza, per fare il male del prossimo mio.

— Sei un vero cristiano, dunque!

— E battezzato.... sì, maestà Serenissima!

— E qual’è il motivo che ti conduce alla nostra presenza?

Terremoto — a simil domanda — s’impensierì tutto e, chinando lo sguardo
sul pavimento, si mise a torturare uno de’ bottoni del suo rozzo
farsetto, quasi volesse farne scaturire le idee e le parole, difettanti
al cervello ed al labro.

— Suvvia — lo inanimì il monarca, sorridendo di quel suo puerile
imbarazzo — fatti core: sono l’imperator di Lamagna, re di tutte le
Spagne e delle Indie anche; ma non è mai occorso ch’io abbia mangiato
nissuno.... spicciati, dunque, e dimmi il fatto tuo.

— Mi vi sarei già accinto, Sire — balbettò l’Ercole valnurese — se
un certo non so quale rispetto umano e la paura di recare offesa alla
Serenissima Maestà Vostra non mi facessero groppo alla gola, attalchè
peno un finimondo solo a metter fuora la voce.

— Si tratta, dunque, di cose assai gravi, onde tu abbia a lagnarti
seconoi?

— Tanto, Sire, che le paion sino cose non verosimili e inventate da
perfidia d’uomo.

— Chi riguardano coteste cose sì gravi?

— Un alto signore, un personaggio di nobilissima nazione, tale che,
dell’umile e poveretto servo della Maestà Vostra, qui supplicante,
potrebbe farsi, a suo agio, un solo boccone.... aup! così... come io
farei d’un ovo al coccio, o d’una mela poppina!

— Il nome, il nome di cotesto alto signore e nobilissimo personaggio?

— Sua Eccellenza, il signor duca di Castro.

— Il figlio di Sua Beatitudine?

— Appunto, Maestà, il figlio.... il beniamino del Santissimo Padre.

Carlo V si drizzò in piedi come sospinto su da una molla e, dopo aver
lanciato un torvo sguardo su le varie persone del proprio seguito:

— Non è, dunque, soltanto una querimonia — disse corrugando la fronte —
è un’accusa, per cui ci sei venuto dinanzi.

— Maestà Serenissima — farfugliò il dabben Rinolfo sempre più
sbigottito — io nè mi querelo, nè accuso; invoco solo dalla potenza
Vostra, protezione e giustizia in pro della mia giovine signora donna
Bianca della Staffa, nepote del fu messere Giovanni di Camia.

— Cos’ha ella a temere dal signor duca di Castro?

— Tutto Maestà, perocchè egli le insidia costantemente l’onore e non
le ha mai concesso un attimo solo di pace.... guai per la mia povera
signora s’io non fossi sempre arrivato in buon punto per strapparla
dalle mani di quel suo persecutore.

— Come e quando è accaduto tutto ciò?

Terremoto, del meglio che seppe, narrò per disteso i vari tentativi
compiuti dal Farnese, prima a Castell’Arquato, in casa i Santafiora,
quindi a Perugia, in occasione della guerra del sale, per impadronirsi
di Bianca della Staffa ed averla a sua posta, e come la meschina non ne
fosse che quasi a miracolo scampata.

L’imperatore seguiva tale narrazione senza batter palpebra, ma in atto
apparentemente freddo ed indifferente. Come Terremoto ebbe terminato:

— E chi mi sta mallevadore — gli disse severamente — che quanto tu mi
racconti non sia appunto che una perfida insinuazione?

Terremoto stava forse per metter in pratica il suggerimento datogli
dal Gozzelini, col declinare il nome d’Ercole II d’Este; quando questi
istesso:

— Io — sclamò d’improviso, avanzandosi rispettoso verso l’imperatore.

— Il signor duca di Ferrara? — fece Carlo V.

— Io stesso, Maestà!

Carlo V si rabbuiò anche maggiormente in sembiante e, rimettendosi a
sedere:

— Parlate pure, monsignore — disse al nepote di Lucrezia Borgia — cos’è
che potete narrarmi in appoggio delle accuse di costui?

— Le cose istesse che egli ha esposto alla Maestà Vostra.

— E come sono a vostra cognizione?

— Pel caso, Maestà, che, quando madonna Bianca della Staffa,
sottraendosi alle insidie del Farnese, sfuggì dalle mani de’ suoi
sgherri, che l’avevano circuita e assediata entro una taverna sul lago
di Perugia; ella trasse in cerca d’asilo, prima a Firenze, poscia
a Bologna, e finalmente a Ferrara, presso la mia corte, dove così i
Camia come i dalla Staffa si ebbero sempre aderenti e parziali....
io la impresi a proteggere e, sin d’allora, l’onesta e cara giovine
mi raccontò delle patite sue tribolazioni ne’ termini istessi, che ha
usato poc’anzi questo suo fedel servitore.

— E basta — fece l’imperatore, alzandosi di nuovo e congedando della
mano quanti gli stavano intorno — penseremo al da farsi.

Voltosi quindi, a Terremoto, ch’era rimasto lì grullo ed impacciato,
senza sapere a qual meglio partito appigliarsi;

— Quanto a te — gli disse — ritorna alla tua signora ed assicurala
che il patronato nostro non sarà mai per farle difetto: ed ove
ulteriormente si muova a suo danno, ricorra a noi; che noi sapremo
sempre proteggerla e farle giustizia!

Il gigante credette nulla poter fare di più acconcio che profondersi
in un ossequiosissimo inchino, dopo il quale uscì con gli altri dalla
stanza imperiale.

Con Carlo V rimase solamente il vicerè di Sicilia, a cui quello istesso
aveva ordinato di trattenersi.

Come furono soli:

— Eh? — fece quest’ultimo — cosa ne dice Vostra Maestà?

— Dico.... dico.... — borbottò Carlo V alquanto contrariato — dico
che voi avevate perfettamente ragione: la volpe perde il pelo, mai il
costume!

— Se domani la Maestà Vostra si lasciasse indurre a concedere la
ducea di Milano al signor duca di Castro, non solo il re di Francia
e i francesi, ma gli stessi abitatori delle provincie lombarde, non
potrebbero pigliare un simile atto che quale il più sanguinoso degli
oltraggi.... gittare il ricco e garrito retaggio di Valentina Visconti
in bocca d’un figliuolo di papa?... ad uomo siffatto, famigerato già
per tutta Italia, a cagione de’ suoi vizi e delle sue turpitudini,
assoggettare le nobili popolazioni di quelle province?... tanto
basterebbe, perdonatemi, Sire! ad alienarvi l’animo, se non di tutti,
di molti!

— Avete ragione, avete ragione! — rintostò il monarca, con un leggero
tono d’impazienza — nulla ho, del resto, impromesso che io debba
assolutamente attenere: posso mutare divisamento, senza mancare alla
fede giurata.

Ferrante Gonzaga si morse a sangue le labra, per occultare la gioia del
proprio trionfo.

Egli trionfava infatti.

Facilmente aveva indotto Ercole II d’Este che, siccome figlio della
celebre principessa Renata, era parzialissimo di Francia, a fare il
proprio piacere, con l’agitargli dinanzi alla mente lo spauracchio
della perdita del milanese. Sinchè questo ambito e contrastato
territorio rimaneva nella casa di Spagna; un rovescio qualunque poteva,
in un prossimo avvenire, retrodarlo alla casa di Francia; ma se — per
isventura — ne veniva investito Pierluigi Farnese, a sostegno del quale
sarebbesi adoperata tutta la influenza papale, quella speranza cadeva
per sempre. Utilissimo, quindi, anche agl’interessi di Francesco I, che
lo sterpone di Paolo III fosse così screditato agli occhi del monarca
spagnuolo da fargli rinunziare definitivamente al pensiero di quella
perigliosa investitura.

Ercole II sostenne la propria parte con pieno convincimento di
adempiere a un debito di fedele alleato e rincupì, per conseguenza, le
istesse tinte usate da Terremoto nel dipingere il carattere e narrare
le laide imprese del duca di Castro.

La partita era vinta.

L’indomani istesso Carlo V ritirò la sua parola e il desolato Paolo
III dovette contentarsi di mettere inanzi — a mo’ di rappresaglia — il
proprio intendimento di far eleggere il figliuolo signore di Parma e
Piacenza.




CAPITOLO XLIV.

Bianca ed Olimpia.


Rompeva l’alba dell’ultimo giorno in cui gli augusti ospiti di messer
Gerolamo Pallavicino dovevano lasciare la rôcca di Busseto. Fra
Simpliciano, l’onesto laico blaterone, portinaio de’ Minori Osservanti,
aveva già iscritto sul registro del convento la seguente nota:

«Dil 1543 a dì 24 Zugnio Vene papa Paulo Terzo a bux.to a parlamento
Cum Carlo quinto Imperatore di Roma e Cum il papa (sic). Vi hera
24 Cardinali Vescovi Sig.ri gentiluomini Uno n.º grande cum sua
M.tà Inperialle Vi hera ’l ducha di ferara (_Ercole II d’Este_) il
ducha di mantova (_Francesco III Gonzaga_) il principe di piemonte
(_Emanuel-Filiberto_) dùn ferrando gonzaga (_il Gonzaga tratto da
noi in iscena_) il marchese del guasto In quel tempo governatore del
Stato di Milano (_Alfonso d’Avalos marchese del Vasto_) il duca otavio
fernesso (_Ottavio Farnese, duca di Camerino_) e madama filiola del
Inperatore (_Margherita d’Austria_) Vi hera puoi Uno n.º Infinito di
gentilomini e Signori e duchi di Spagna. Secondo che fu dito dapuoi
fu tratato di far ducha di parma e di piasenza Piero aloysio fernesso
filiolo di Papa Paulo Terzo.»

I ricovrati nel convento istesso, vale dire: Manfrone Aretusio, che
sappiamo ora altri non essere che Gaspare Gozzelini, segretario di don
Ferrante Gonzaga, il nostro Terremoto, Pellegrino di Leuthen ed il suo
Lazzaro d’Alpinello, avevano sgombrato già il luogo, pigliando ciascuno
per direzioni diverse.

A metà circa della strada maggiore della città, a destra scendendo
verso il Po e di rimpetto alla casa dei Dordoni, sorgeva intanto
una impalcatura, su cui situavasi, con alquanti suoi fattorini,
quello istesso Tiziano Vecellio, che già vedemmo a Parma in estatica
contemplazione delle bellezze architettoniche e scultorie del
battistero, il quale — per incarico avutone dallo stesso imperatore
e dietro preghiera de’ signori del luogo — ivi dipinse a fresco
l’incontro dei due sovrani avvenuto nella rôcca. Il dipinto comprendeva
gl’intieri ritratti di Carlo V e di Paolo III e quello di moltissimi
tra i principi e cardinali, che loro facevano corona. L’opera riuscì
insigne e degna in tutto e dello importante subbietto e del valido
pennello che lo aveva trattato, ma il tempo, frusto a frusto, compiè in
seguito l’opera sua distruttrice ed ora, di quel dipinto del caposcuola
veneziano, non rimane più il minimo vestigio.

In quella istessa mattina, su la via, che dalle foci della Ongina mena
a Busseto, procedevano due giovani signori, montati su focosi e bene
equipaggiati cavalli di Barberia e vestiti in parte da gentiluomini
in parte da soldati. Avevano cappello piumato in testa, in luogo del
morione; brache e maniche a sbuffii; ma, sul giustacuore, una lucente e
niellata corazza, ed al fianco un lungo spadone, la daga e il pugnale.

A un certo punto della via, costoro videro venirsi incontro un gran
diavolo d’uomo, che pareva schiacciasse del proprio peso il gramo
ronzino sul quale trovavasi in arcioni.

— Non mi sbaglio — sclamò il più giovane dei due cavalieri, a pena lo
scorse — è lui, senza dubio; è Terremoto.

— Il salvatore della vostra diletta? — gli chiese il compagno.

— Sì, conte — rispose quello, cacciando gli sproni ne’ fianchi del
proprio cavallo — quello istesso che vi aiutò a rapire donna Olimpia
Marazzani dal castello de’ Santafiora.

Queste poche parole scambiate fra i due giovani cavalieri, basteranno,
crediamo, acciocchè i lettori riconoscano in essi il conte Giovanni
Anguissola ed il nostro Neruccio Nerucci.

Dopo la guerra del Sale, eglino due aveano continuato a rimanersene a’
soldi del signor duca di Castro, nella fiducia sempre di riuscire alla
scoperta di quanto si riferiva alle donne de’ loro pensieri.

Ma le loro speranze erano sempre andate deluse.

O li lasciasse di presidio al suo castello di Nepi, o li inviasse a
fare incetta di uomini e cavalli nei dominî della Chiesa per conto
dello stesso pontefice, o se li avesse al fianco in questa o quella
spedizione, come quando si recò egli a Genova a complimentare Carlo
V; Pierluigi Farnese mai si era lasciato sfuggire dal labro una sola
parola, che a quelle due donne si riferisse; nè l’Anguissola potè mai
più rivedere al di lui fianco quella misteriosa creatura, ch’eragli
apparsa dallo sportello di una carrozza in piazza del Sole a Perugia,
e nella quale aveva creduto ravvisare la fatale sorella dello abate di
San Savino — Neruccio — dal canto suo — pigliando voce da vari de’ suoi
subalterni, era giunto, nel frattempo, a conoscere nei loro più minuti
particolari tutti gli avvenimenti, che avevano accompagnato e seguito
la evasione di Bianca dal campo papalino e dalla taverna della Magione.
L’uno e l’altro dovettero però rinunziare alle loro idee di vendetta,
il primo perchè trovavasi completamente all’oscuro su la sorte toccata
alla sua donna; il secondo perchè, più che del vendicarla sentivasi
preoccupato dallo intenso desiderio di averne contezza e rivedere la
sua.

Per queste ragioni, eglino chiesero più volte licenza al Farnese di
correre il mondo, per loro private faccende, licenza che il principe,
il quale, malfermo sempre in salute, scorreva la maggior parte del
tempo nel suo castello di Castro, non ebbe mai motivo di rifiutare.

In tali occasioni, l’Anguissola erasi più volte restituito a Piacenza
e ne avea perlustrato i dintorni, massime quelli del Valnurese, nello
intento di rintracciarvi qualche novella di Olimpia; e Neruccio — che
nascondevasi sempre sotto il pseudonimo di Giovanni Osca da Valenza —
era ritornato prima a Perugia, poscia sino alle falde di Monte Osèro,
al casolare della Chiappa, tentando, dal canto suo, di scuoprir qualche
cosa che riflettesse la sua Bianca, od almeno il costei servitore.
Ma nè l’uno nè l’altro aveano mai approdato a nissun favorevole
risultamento.

Le mute ruine dell’abazia di Cogno San Savino e le diserte mura del
tugurio, dove abitava un tempo la famiglia Rinolfo, null’avevano potuto
rispondere alle ansiose domande dei due giovani sconsolati.

A Castell’Arquato, dove l’Anguissola erasi pure sospinto, correva
sempre insistente la voce che Olimpia Marazzani fosse prodigiosamente
disparsa da quella rôcca fin dalla notte in cui egli stesso ne l’aveva
rapita, e che mai più avesse dato segno di sè.

A Perugia, dove Neruccio aveva chiesto informazioni su la famiglia
della Staffa, eragli stato risposto trovarsi essa ricoverata a Siena
sotto il patrocinio di quella republica.

Là pure si condusse il nostro giovine avventuriero; vide ed interrogò
il vecchio messer Bartolomeo della Staffa; ma neppur questi seppe
dirgli alcunchè su la nepote, ch’egli già non tenesse dal labro di
Terremoto, e cioè: dello strano e proditorio modo in cui altri aveala
strappata dal suo fianco, mentr’egli abbandonava la patria, per
dannarsi a volontario ed interminabile esilio.

Delusi, scorati, e’ riedevano da quelle loro infruttuose escursioni
al castello di Nepi dove teneano stanza consueta ed ivi scorrevano
il tempo nel parteciparsi a vicenda i loro timori e le novelle e
ripullulanti loro speranze.

Erano state queste, che mentre trovavansi a Piacenza con lo stesso
loro signore — li avevano condotti a domandare una nuova licenza ed a
correre l’oltre Pò, in traccia anco una volta di quelle notizie, che
sfuggivano sempre alle loro ricerche.

Toccata Cremona, ed ivi risaputo come le corti del papa e dello
imperatore si trovassero riunite a Busseto, vi si diressero per
curiosità più che per altro, decisi di ritornare a Piacenza per questa
via.

Fu in tale congiuntura che s’imbatterono in Terremoto, il quale — per
contro — ritornava a Cremona, dove aveva lasciata la sua signora.

Terremoto mostravasi, in cera, oltremodo stravolto e agitato.

— Finalmente! — sclamò Neruccio, facendo arrestare di botto il proprio
cavallo — finalmente vi ritrovo, dopo tre anni, dopo tre lunghi anni.

— Ah, messer Neruccio!... — fece il colosso rasserenandosi alquanto in
sembiante — voi? voi?... è la bontà della suprema providenza, che vi
manda a me in questo momento.

— Spero bene sia la providenza che ha consentito questo nostro
incontro; ma perchè mi dite codesto in un tono tanto solenne?... cos’è
accaduto?... madonna Bianca?...

— È appunto a lei che mi riferisco col pensiero, nel ringraziare la
providenza.

— Ov’è dessa?

— A Cremona.

— E corre qualche pericolo?

— Oh, lo temo, lo temo forte!

— Quale mai?

— Non so; ma sotto il travestimento di certo tale, che stimavo a tutta
prima un ragazzo, ho creduto scuoprire una donna che m’ha messo nel
core la più grande paura.

— Una donna?... quale donna?

— La medesima, di cui vi narrai, che si trovava, insieme al Farnese,
nella rôcca di Castell’Arquato, quando, in quella notte....

— Olimpia Marazzani? — interrogò vivamente lo Anguissola, che non
aveva durato fatica a riconoscere, in Terremoto, il valletto, che
accompagnava la fanciulla, a cui, in quella istessa notte, egli aveva
prestato uno de’ suoi cavalli.

— Non so se tale sia veramente il suo nome — fece Terremoto — ma è
quella donna, senza dubio.

— E voi l’avete rivista? — insistè l’Anguissola.

— Oh, sì, sì, sono sicuro di non m’essere ingannato.

— E dov’è?

— Adesso lo ignoro, ed è di questo che temo; ma sino a ieri, trovavasi,
al paro di me, nel convento dei Minori Osservanti a Busseto.

— Oh, corriamovi subito!

— Inutile! ella non ci è più!

— E dov’è ita?

— La mia paura è che sia ita a Cremona insieme a quel dannato tedesco.

— Quale?

— Pellegrino di Leuthen.

— Oh, narrateci — soggiunse Neruccio — narrateci tutto per filo e per
segno, poichè dalle vostre parole, non giungiamo a comprender bene
quanto v’è intervenuto.

— Ed io vel narrerò volontieri — disse il dabben Rinolfo — ma patto che
voi facciate voltar groppa alle vostre cavalcature e mi accompagniate
del miglior trotto che io potrò far avanzare questa mia brenna, sino
alla città di Cremona.

— Non ce ne metteste nemmanco la condizione voi stesso — fece il conte
— che noi medesimi lo esigeremmo.

E, senza perdersi in maggiori parole, così lui come Neruccio, fecero
dar di volta a’ loro cavalli, e postisi a’ fianchi del gigante,
ripresero la strada già battuta.




CAPITOLO XLV.

Imprudenze di Terremoto.


— Per dirvi tutto — così cominciò il gigante indirizzandosi a Neruccio
— e’ conviene mi rifaccia a quella notte indiavolata, in cui vi trovai
prigioniero in una casipola delle vicinanze di Perugia.

— Nella casa del chierico — aggiunse Neruccio, guardando all’Anguissola
— la notte in cui io ferii la Marazzani e nella quale voi mi traeste
prigione.

Terremoto espose allora minutamente tutto quanto eragli occorso, e
nel campo pontificio, e nella taverna presso il Trasimeno, e come,
nella medesima notte, fosse giunto a strappare, prima dalle mani del
Farnese, poscia da quelle de’ suoi scherani, la giovane e perseguitata
sua signora ed a fuggire secolei su gli stessi cavalli di que’ loro
persecutori.

— Dall’osteria di mastro Luca — continuò Terremoto — facendo
galoppare a briglia sciolta i cavalli, che avevamo tolto a’ nostri
stessi persecutori; giugnemmo, senza cattivi incontri, a Castiglion
Fiorentino, d’onde, riposatici alquanto, tirammo di lungo a piccole
giornate sino a Firenze.... a tutta prima il mio intendimento si era
di fissarmi in quella leggiadra città, dove avrei sciupato tutt’il
mio tempo ad ammirare le statue della Loggia dei Lanzi e le pitture
di palazzo della Signoria.... non perchè ne comprendessi alcunchè, ma
perchè le mi paiono sì belle e portentose creazioni del genio umano
che non si rifinirebbe mai più dal contemplarle.... ma donna Bianca,
che, delle faccende del mondo, ne ha sempre saputo e indovinato assai
più di me, come naturalmente debb’essere di nobile e culta donzella
in paragone di un rustico e misero servo qual mi sono io; donna
Bianca mi fece giustamente osservare non esserci troppo a fidarsi del
carattere ambidestro e sornione del duca, messer Cosimo de’ Medici,
il quale, siccome stava in quel torno girandolando certe sue non so
quali macchine a proposito del sanese, per cui, dopo aver fatto il
viso dell’armi al pontefice, tornava a mostrarglisi oltremodo manoso;
non ci sarebbe stato nulla a stupire se, per amicarsi casa Farnese,
e’ fosse entrato nella briccona idea di tradirci.... da stare a
Firenze, dov’erano pur ricovrati varî altri fuorusciti perugini,
cercammo conoscere il luogo in cui erano iti a pigliar stanza messer
Bartolomeo, lo zio di madonna, ed i suoi, e chi ci disse a Siena, chi
a Pisa, chi a Città di Castello; ma, anche a questo riguardo, la mia
signora osservò molto saviamente che, se il figliuolo del papa durava
nelle sue mire sovra di lei e s’ostinava a perseguitarla, la prima
città, su cui avrebbe rivolto il pensiero e le ricerche, quella appunto
sarebbe stata, che serviva di refugio a’ suoi parenti: meglio però il
risolversi a trovare altrove un più sicuro asilo... per un momento,
l’uzzollo grande in cui io mi sentivo di rivedere il mio paese natale
e di riabbracciare, se ancora in vita, il mio povero e vecchio padre,
mi suggerì il progetto di ritornare nella Valle di Nure.... oh, ci
sarei volato ad ali aperte col core giubilante!... non so che sia, ma
quel cantuccio di terra, in cui s’è aperto gli occhi alla luce e si son
dati i primi vagiti e mutati i primi passi, non so che sia; ma pare il
più bello e meraviglioso paese del mondo.... senonchè mi prese paura
di que’ feroci de’ signori Nicelli.... e non per me tanto, che prima
e’ m’abbiano a far stirare le cuoia ci dee correre parecchio tempo;
eppoi.... eppoi....

E con tale sua reticenza, che aveva la pretesa di essere fina e
maliziosa, il buon Rinolfo alludeva alla famosa predizione fattagli a
Gallarate da Gerolamo Cardano.

— Ma — continuò — la paura era tutta per madonna Bianca, contro della
quale chi sa quali rappresaglie avrieno potuto que’ maladetti.... ci
decidemmo, quindi, per Ferrara, dove la mia signora sapeva trovarsi,
da tempo, varî amici e aderenti così dei Camia come dei della Staffa
e dove, secondo il suo dire, la duchessa madre che, per buona sorte,
erasi fatta allora allora rinnegata ed eretica, non avrebbe mancato
di proteggerla contro le ire del papa e i capricci del su’ degno
figliuolo.... rimessi però in cammino, dopo un brevissimo soggiorno
a Firenze, valicato l’Abetone, rasentata Bologna, arrivammo, pochi dì
dopo, a Ferrara, dove non solo i vecchi amici della sua famiglia, ma
la istessa corte di messere il duca d’Este, accolsero la mia giovane
signora con una premura tale, che.... non canzono!... mi vennero, per
la consolazione, le lagrime agli occhi.

A questo punto Neruccio non potè astenersi dal domandare:

— E perchè avete abbandonato quella ospitale e secura dimora?...
perchè, adesso, siete qui voi, in mezzo alla via, e madonna Bianca
trovasi sola a Cremona?

— Non ci è sola, messere — fu sollecito a rispondergli Terremoto —
ella è parte del seguito di Sua Magnificenza la duchessa di Ferrara,
la quale s’è recata colà, insieme al suo illustre consorte, per
complimentarvi anzitutto Sua Maestà Cesarea il Serenissimo imperator
Carlo V... di là, come ha fatto il duca, la duchessa pure doveva
portarsi a Busseto per ossequiare Sua Beatitudine il papa; ma,
al momento istesso in cui apparecchiavasi a partire, è giunta una
staffetta del signor Gerolamo Pallavicino, che annunziava essere tale
e tanto il numero delle persone accorrenti al suo castello, ch’egli
non avea modo di tutte ricovrarle convenientemente, onde ne dava
avertimento massime alle dame, acciocchè provedessero a’ casi loro,
per non doversi poi dolere dei troppo scomodi che avrebbero altrimenti
patito.

— E voi? — fece Neruccio.

— Quanto a me, è altra cosa — disse il gigante — io fui destinato dallo
stesso signor duca ad accompagnare l’uomo di fiducia di un amico suo,
messer Gaspare Gozzelini, segretario del signor don Ferrante Gonzaga e
dovetti però staccarmi per la prima volta dalla mia signora.... con che
cuore vel lascio ideare.

— E da che traete argomento a temere?

— Da una circostanza, messere, di cui giudicherete a vostra volta,
che mi ha posto le fiamme dell’inferno nel core.... oh, a Busseto ho
commesso delle grandi imprudenze!...

— Spiegatevi: toglietemi d’ansia!

— Io c’ero andato, come v’ho detto, al seguito di messer Gaspare
Gozzelini, che il suo padrone spediva inanzi a fiutare il terreno e ad
iscuoprire come stessero apparecchiate le cose, prova sia che, in luogo
di scendere col suo vero nome al castello signoriale, dove avrebbe
avuto posto segnato, e’ chiese asilo ai Minori Osservanti, cui si dètte
a credere per un Manfrone Aretusio, che forse non ha mai esistito,
fuori che nel suo cervello maliziuto, tutto pieno di quelle trappole,
che sanno inventare gli uomini di lettere e di toga.... eravamo a pena
nel dormentorio, che un monellaccio, ivi pure giunto e ricovrato di
fresco, tentò mettere le ladre zampe nelle tasche di lui per derubarlo:
io, comunque al buio, lo indovinai allo strisciar de’ piedi e lo
azzannai ben fermo, giusto nel punto in cui stava per fare il suo
fiocco.... il convento si levò a romore; accorsero i frati; accorse
il Gozzelini, ch’era uscito per certe non so quali sue faccende; ed
accorse eziandio il padrone del ragazzo da me colto in flagrante....
questo padrone era una mia vecchia conoscenza, mastro Pellegrino di
Leuthen, un tedesco che bazzicava frequentissimo in casa il mio ottimo
signore di Camia e che io ho sempre ritenuto per uom dabbene e da
potersene fidare.... per questo mi portai garante al Gozzelini non
solo di lui ma anco del suo valletto, il quale era un giovincello tra
i diciotto e i vent’anni, affatto imberbe e con la faccia già per sè
brunazza e olivigna tutta impillaccherata di negro untume, come fosse
un magnano od un carradore.

— E chi era? — chiese con premura l’Anguissola.

— Consentite, messere — fece il gigante — ch’io proceda col più
d’ordine che posso, se non volete mi confonda per via e più non sappia
dove vado a riuscire col naso.... vi basti che, da quel momento,
cominciarono le mie madornali imprudenze.... la prima è stata quella
di dar retta alle scaltre sobbillazioni del segretario di don Ferrante
Gonzaga.

— E cosa tendevano? — interrogò Neruccio.

— Eh, messere — gli rispose Terremoto — alla cosa più giusta, più
onesta, più santa di questo mondo.... tendevano a farmi dimandare
udienza al sommo imperator Carlo V, onde rivelargli tutto quanto era
occorso alla mia povera signora, in causa del figliuolo del papa, e
a dimandargli protezione a vantaggio di lei.... ben mi pareva che,
trovandosi donna Bianca al securo, e omai da oltre due anni, presso
la corte del magnifico signor duca di Ferrara, non ci fosse proprio
il bisogno di una simile pratica; ma il segretario, col suo dire
condito e artifizioso, tanto me ne seppe infinocchiare e su le braccia
lunghe della famiglia Farnese, e su i possibili tradimenti de’ piccoli
signori, e su questo e su quest’altro, che io cascai tutto d’un pezzo
nel bertovello e mi lasciai trascinare sino dinanzi allo imperatore.

— E all’imperatore diceste ogni cosa?

— Il gran tutto, messere.

— E la chiamate una imprudenza cotesta?

— Sì, messere, perchè, intanto, se la faccenda è stata riferita al
signor duca di Castro, io ho, come si usa dire, dato de’ calci al cane
addormito e richiamatolo su le nostre peste; e poi, a non contar altro,
ho indicato a tutto quel nugolo di gente attornianti il sovrano che
madonna Bianca trovasi adesso a Cremona, e precisamente insieme alla
corte della signora duchessa d’Este, per cui chiunque le voglia male sa
dove si ha da dirigere per trovarci il suo conto.

— E voi credete?...

— Eh, lasciatemi terminare, messere, che vedrete come non sia questa
nè la sola, nè la più marchiana delle imprudenze che io mi abbia
commesso.... v’ho parlato del tedesco Pellegrino di Leuthen, ch’io
aveva imparato a conoscere presso de’ miei signori, i Camia, e ch’io
stimavo per uomo onesto e di garbo: ebbene, con costui nel convento
de’ Minori, mi sono lasciato andare a tutte le più baggiane confidenze:
nulla gli ho taciuto delle peripezie toccate alla mia giovine signora,
e de’ casi atroci avvenuti alla famiglia del suo avolo, e de’ pericoli
corsi, prima a Castell’Arquato, eppoi a Perugia, in causa di quel
dannato di monsignor Pierluigi, e finalmente com’ella avesse trovato
ricetto e protezione appo i magnifici signori d’Este e come fosse
presentemente, insieme alla duchessa, a Cremona.... il tedesco, con
quella sua aria melensa e que’ suoi grugniti, più da maiale, salvando,
che non da cristiano, mi ha rivolto un mondo di interrogazioni, alle
quali io, soro, mi son dato premura di rispondere il più potessi
diffusamente, sempre nella fiducia di parlare a un amico.

— E invece?

— Invece, m’ho poi avuto modo di capacitarmi ch’e’ non mirava se non a
farmi cantare, per trarre partito delle mie confidenze e forse a danno
della sventurata mia signora.

— Da che lo deducete?

— Da una scoperta, che ho fatto staman’istesso, dopo averci pensato
su tutta la notte.... stavo iersera poco prima del bruzzolo,
chiaccherando, come al solito, con mastro Pellegrino, il quale mi
domandava i più minuti particolari circa la condizione, in cui si
trova la mia signora presso Sua Grazia la duchessa di Ferrara, e
circa l’altre persone che le stanno dintorno.... a un tratto, mastro
Pellegrino mi lasciò ed io, rimasto solo, m’accostai, così per
avventura ad una finestra della foresteria prospicente sul cortile
interno, sotto la quale è suggellata una piccola fontana a vasca di
marmo.... dinanzi a questa, tenevasi curvo un giovinetto, che delle
due mani si andava lavando la faccia.... lo sbirciai e riconobbi il
ragazzaccio da me sovrappreso in atto di rubare, al momento stesso del
mio arrivo nel monistero, quel lesto fante di valletto, che non avevo
poi più riveduto a’ fianchi del suo padrone.... per lavarsi bene la
faccia ed il collo, e’ s’era discinto e sbottonato il giustacuore,
dallo sparato del quale, tra le pieghe rimosse della camiciuola,
chinato siccome teneasi, lasciava travedere una parte del seno.... io
fui per mettere un grido: quel giovinetto era una donna!...

— Olimpia Marazzani? — sclamò l’Anguissola.

— V’ho già ripetuto, messere — fece Terremoto — che di nome io non la
ho mai conosciuta, nè tampoco la riconobbi al momento, comunque avessi
agio di esaminarne accuratamente le fattezze, che l’aque della fontana
aveano monde dello untume onde, a bello studio, erano state brutte....
solo mi ritrassi con una incerta e vaga reminiscenza, la quale mi
è andata frullando in capo tutta quanta la notte e m’ha impedito di
chiuder occhio.... sentivo, comprendevo non esser stata quella la prima
volta, in cui m’ero imbattuto in quel bruno e fiero volto di femina;
ma giammai veniami fatto di ricordarmene nè il dove, nè il quando....
questa mattina soltanto, risvegliandomi come di sobbalzo, dopo un breve
e leggero pisolare di pochi minuti, le idee mi si sono schiarate tutte
d’un tratto: nel dormiveglia, tra il fosco e il chiaro la imagine
di quella medesima donna m’è riapparsa, quasi per incanto, dinanzi
agli occhi della fantasia, e proprio tal quale la ho vista la prima
volta, vale dire: nel giugno del 1549, a Castell’Arquato, in casa i
Santafiora, mentre aiutava quello scellerato di Monsignor Pierluigi a
usar violenza alla mia giovine signora.....

— La Marazzani, dunque? — rintostò il conte Anguissola.

— E sarà bene la Marazzani — riprese, come un po’ uggiato l’ottimo
Rinolfo — se voi sapete ch’ella si noma in cotesta maniera.... io ci
ho niente a ridire, ma, vel ripeto, di nome non ho mai saputo come la
si chiami.... il fatto è solo, che, entrato in un grande sospetto,
sono balzato immediatamente giù dal mio saccone e corso a ricercare
del tedesco, per addimandargli stretto conto di quel suo servitore
ermafrodita; ma il mio sospetto ed il mio tentativo, onde appurarlo,
giungevano troppo in ritardo: i buoni Minori mi risposero che sì questi
che quello aveano lasciato insieme il convento sino dalle prime ore
d’iersera e s’erano diretti per la strada maggiore verso il Po....
il mio sospetto s’è rimutato allora in una terribile certezza: quella
mala femina non poteva essere camuffata da uomo senza qualche iniquo
intendimento; mentr’ella stava risciaquandosi la faccia alla fontana,
apparecchiandosi così alla già divisata partenza, il tedesco, suo
complice, m’interrogava e mi scavava sotto il terreno per conto suo....
forse, chi può divinarlo? anche quel trappolone di messer Gozzelino
è del complotto!... già, quella sua pallida cera e que’ suoi neri
occhiolini, privi di luce come quelli del pesce morto, non impromettono
nulla di buono.... senza dubio, que’ due si sono recati a Cremona,
con qualche malvagio intendimento a pregiudizio di madonna.... perciò,
senz’altro maggiormente indugiare, sono montato sul mio gramo ronzino e
mi son subito posto in viaggio, pregando, dal più profondo del cuore,
Gesù Benedetto e la Santissima Vergine dei sette dolori di farmi
giungere in tempo!

— E vi giungeremo in tempo! — sclamò Neruccio, infliggendo un forte
colpo di sprone a’ fianchi del proprio cavallo.

— Oh sì, che vi giungeremo! — gli fece eco l’Anguissola, imitandone
l’esempio.

E partirono con la velocità di due saette scoccate dalla faretra.

Ma, a breve tratto, dovettero arrestarsi per attendere il loro
colossale compagno di viaggio, il quale — in causa appunto della misera
cavalcatura ond’era provisto — non poteva seguirli che camminando a
piccolissimo trotto.




CAPITOLO XLVI.

L’incognita di Castro.


Carlo V, — nella breve sosta che fece a Cremona, prima di condursi
al convegno di Busseto, — avea preso stanza in quel celebre Castel
Leone, eretto da’ cremonesi in loro difesa contro l’avversaria Milano,
presso le cui mura la superba metropoli lombarda subì, nel 1213, quella
memorabile disfatta, che le fece perdere persino il carroccio, e nelle
cui sale il famigerato Cabrino Fondulo esercitò, in seguito, gli atti
più crudeli della sua tirannica signoria.

A Castel Leone — oltre il seguito dello imperatore — convennero pure,
affine di rendere omaggio al medesimo, diversi principi italiani,
tra quali il duca Ercole d’Este con la moglie e la costei corte, di
cui faceva parte Bianca della Staffa: e sappiamo per qual motivo non
si rendesse questa insieme al duca a Busseto, rimanendo invece, con
la duchessa e l’altre dame, a Cremona, in attesa ch’egli vi facesse
ritorno.

Delle girandole montate da don Ferrante Gonzaga in pregiudizio di
Pierluigi Farnese, non ci sarà d’uopo porgere molti schiarimenti al
lettore, ond’egli se ne renda pienamente capace. Sapendo, anche per le
voci insistenti che ne correvano, come — nel chiedere un abboccamento
all’imperatore col solito pietoso artefizio dell’adoprarsi pel
ristabilimento della pace — scopo precipuo di Paolo III quello si fosse
di conseguire pel suo beniamino la investitura del milanese, cui egli
stesso, il Gonzaga, avidamente agognava; pensò spedire inanzi a Busseto
il suo fedel Gozzelini a mo’ di scandagliatore e di dargli a compagno
il membruto Terremoto, che si fece imprestare dal duca di Ferrara,
sì per giovarsene nel modo che abbiamo poi visto e sì perchè, in ogni
perigliosa evenienza, a quello servisse di valida scorta e difesa.

Diremo, invece, come in Busseto si trovassero Pellegrino di Leuthen ed
Olimpia Marazzani.

Morta, sepolta e resuscita a Perugia, Olimpia erasi ricongiunta al suo
Pierluigi e — mentr’egli debellava i faziosi Colonna — tenutasi ascosa
nella di lui casa di Ripetta, d’onde poscia aveva tratto al palazzo
ducale di Castro, costrutto nel 1537 da Antonio Picconi, e che il suo
augusto amatore aveva fatto in quel torno abbellire espressamente per
lei da Jacopo Meleghino.

Ivi ella tenevasi nel massimo riserbo ed acciocchè i molti curiosi del
piccolo luogo non potessero giugnere a riconoscere chi veramente ella
fosse, mai mostravasi in publico se non con la faccia coperta da una
maschera di velluto.

Però non andò guari che venne denominata la _Incognita di Castro_, nè
altrimente fu nota che sotto un tal nome.

Le cagioni di un simile contegno si comprendono ovviamente: ella voleva
sfuggire alle indagini, che avesse fatto di lei l’Anguissola, e ad ogni
contatto con lui.

Nella situazione d’animo, in cui ella trovavasi rispetto al suo antico
amante, annidavasi un mistero psichico ch’ella istessa mai era giunta
a spiegarsi; per l’uomo, che le aveva consacrato i più caldi affetti e
che, per suo amore, s’era macchiato di un nero delitto di sangue, ella
provava a un tempo — lo abbiamo già detto — e simpatia e repugnanza.
Questa l’aveva sempre distolta dal darsi interamente a lui e spintala
tra le braccia di un altro: quella le vietava di atteggiarglisi a
nimica aperta e di arrecargli alcun male.

Il saperlo tra gli uficiali a’ soldi del Farnese viemmaggiormente la
pose in apprensione ed impiccio.

Come schivarne l’incontro?

Confidarsi anche parzialmente a Pierluigi avrebbe equivaluto ad
intorniare l’uomo, che voleva preservato, di rischi e pericoli senza
fine: un sospetto, che fosse sbucciato in core del principe poteva
facilmente convertirsi per quello in una minaccia di morte.

E per qual via premunirsi altrimenti?

La fede cieca che il Farnese riponeva ne’ suoi astrologi e dottori, le
suggerì un ottimo spediente. Col di lui istesso danaro si accaparrò il
concorso di un di costoro, dal quale si fece solennemente prognosticare
dipendere la sua vita e la sua felicità dalla sua nè troppa vicinanza
nè troppa lontananza dal conte Giovanni Anguissola; le stelle collegare
il suo al destino di costui; ogni sciagura, o danno, o malore, che a
questi intervenisse rimutarsi inevitabilmente in suo malore, danno
sciagura: ned esservi laonde più acconcio mezzo a preservarla, se
non ch’egli vivesse tranquillo nella condizione e nel luogo in cui si
trovava, ma senza che giammai, per niuna cosa al mondo, potesse aversi
secolei il minimo contatto.

Tali canzonature venivano congegnate nella casa di Ripetta, dove — al
suo ritorno dalla guerra del Sale combattuta in Abruzzo — Pierluigi
n’ebbe pienamente a contezza. Sollecito della donna sua ed uso a non
discutere, nè a revocare mai in dubio i sentenziati della scienza
astrologica; fu egli stesso allora che imaginò di ricovrare Olimpia nel
suo palazzo di Castro, esortandola a non uscire mai per le vie se non
col volto larvato, e che — per tenerglielo più possibilmente, senza
che il fosse troppo, discosto — assegnò per stanza all’Anguissola il
castello di Nepi.

Per via di tale accorgimento, le faccende procedettero, infatti, senza
mai dar luogo a inconveniente nessuno, e di guisa tale che il conte
Anguissola erasi quasi indotto a ritenere d’aver sognato quando eragli
parso di rivedere Olimpia su la piazza di Perugia.

Allorchè si trattò del convegno tra il papa e l’imperatore, Pierluigi
trovavasi appunto a Castro ed esponeva all’amante sua i dubi forti che
lo ingombravano, circa la riuscita del novello tentativo che l’augusto
suo genitore proponevasi fare in suo vantaggio. Noto, com’eragli, il
poco buon concetto in cui lo si teneva dallo universale, e’ vedeva un
emolo, un avversario, un nimico anche in ciascun membro del numeroso
suo parentado, persino negl’istessi suoi figli, e temeva però si
mettessero al fianco dell’imperatore ed anco di suo padre, ma specie
del primo, uomini intesi a scalzarlo ed a lavorare sott’aqua per
attraversargli la riuscita. Dolevasi, quindi, di non avere nel luogo,
in cui l’importantissimo e decisivo abboccamento doveva effettuarsi,
nessun servitore fedele, o schietto amico, che perorasse per lui od,
almeno, invigilasse l’andamento delle cose e, nel caso, lo tenesse
istruito de’ pericoli che il minacciassero.

Stando in simili angustie, nè sapendo a qual partito appigliarsi,
l’arrivo a Castro del nostro vecchio conoscente, il tedesco di Leuthen,
gl’ispirò il pensiero di spedire appunto costui su le calcagna del papa
e dello imperatore e di affidarsi a lui per quell’uficio di cui non
sapeva chi meglio incaricare.

Pellegrino — per la sua qualità di creato e spione de’ Farnesi — era
uno de’ pochi — a non dire: il solo — che fosse a parte del segreto
d’Olimpia e conoscesse chi veramente ascondevasi sotto la maschera
della _Incognita di Castro_.

Tale circostanza fece scattare una ardimentosa idea nella calda
fantasia di quella donna, vaga ed amante più che altra mai di
agitazioni e d’arrischiate imprese: questa, di farglisi occultamente
compagna nella spedizione a cui lo destinava il Farnese.

E così fu.

Mentre Pierluigi lasciava Castro, per recarsi a Piacenza; ella
travestivasi da ragazzo del contado e, così camuffatta, partiva, a
sua volta, per Bologna prima e quindi per Parma, in compagnia di
Pellegrino, d’onde — al momento dato — si portò, come vedemmo, a
Busseto, nel convento de’ Minori Osservanti.

La faccia, le vesti, i modi del Gozzelini non mancarono di svegliare
subito i suoi sospetti e di eccitarla e tenerlo d’occhio e a studiare
qualche spediente per venire in chiaro delle sue intenzioni. Fu
nel mettere in atto il più ardito di tali tentativi, quello, cioè,
d’impadronirsi del suo borsello e delle carte, che il medesimo potesse
contenere; ch’ella cadde tra le grinfe di Terremoto e che ne susseguì
la scena di cui fummo testimoni.

L’incontro fra il gigante e Pellegrino ed il riconoscimento di quello
da parte di Olimpia, che ravvisò subito in lui l’uomo formidabile da
cui era stata atterrata nel castello de’ Santafiora, le fece nascere
il desiderio d’iscuoprire, per di lui mezzo, cosa fosse intervenuto
di Bianca della Staffa. Il tedesco, sotto il manto dell’amicizia
che avea professato per la famiglia di costei e della fiducia, che,
necessariamente doveva però a quello ispirare, servì di mezzano a
tali suoi finì. Risaputo, per siffatta via, tutto quanto risguardava
la giovane amante del nostro Neruccio, e visto risolversi in isfavore
del suo Pierluigi tutto lo armeggio de’ cotidiani colloqui che avevano
avuto luogo tra il papa e l’imperatore; ella decise di abbandonare alla
chetichella Busseto e di condursi in Cremona, dove tentare un’altra
volta d’impadronirsi di colei, contro la quale sentivasi sempre animata
da un cieco e quasi istintivo livore.

Il rimanente ci è noto.




CAPITOLO XLVII.

Triplice alleanza.


Neruccio, l’Anguissola e Terremoto giunsero a Castel Leone di Cremona,
che volgevano tuttavia le prime ore del mattino.

I due giovani uficiali si tennero in disparte, mentre il colosso,
ch’era ben conosciuto dalle genti del luogo, introducevasi nel
castello.

Vedendolo entrare affrettatamente e con sul volto quell’aria
interrogativa che accompagna sempre le ansiose agitazioni; talune
donne, attinenti alla corte della duchessa d’Este e che furono le prime
a badargli, credettero giungess’egli apportatore di qualche infausta
novella e gli si fecero incontro premurose, chiedendogli a dieci voci:

— Ecchè?... perchè di ritorno voi solo?... chi v’ha spedito inanzi?...
cos’è mai accaduto?... che è mai che qui vi conduce?... qualche malanno
è forse toccato a monsignore il duca?...

— No, no, — s’affannava a risponder loro il buon Terremoto — nessuno mi
spedisce.... non precedo nessuno.... non ci sono, almeno spero, malanni
di sorta....

— Ma che è, dunque?...

— Nulla, vi replico, madonne.... piuttosto io mi piglierò licenza di
domandare a voi se mi sappiate dire ove si trova, in questo momento,
donna Bianca, la mia signora.

Le damigelle si guatarono l’uaa l’altra di sottecche, con fare stupito,
quasi mormorassero tra loro:

— O intendiamo noi di sghimbescio, o costui, poveraccio, ha egli dato
il cervello a rimpedulare!

Terremoto girava l’occhio da questa a quella, meravigliando a sua volta
della inesplicabile loro meraviglia e cominciando a sentirsi il petto
sbattuto dal batticore.

— Vi domandavo — riprese esitante — se mi saprete indicare....

— Eh, v’abbiamo inteso, mastro Rinolfo — lo interruppe una di quelle
— ma solo non ci sappiamo spiegare il fine recondito di cotesta vostra
domanda.

— Fine recondito?... e che v’ha di strano in questo, che io, ritornando
dopo alcuni giorni di assenza, chiegga a cui primo incontro: dov’è la
mia signora?

— Ma egli è che, maestro, dov’ella sia il dovreste sapere voi medesimo
assai meglio di noi.

— Io?... oh marchiana cotesta!... e come?... e per qual ragione?

— Per la ragione semplice, che ella è partita da Cremona stamane
istessa al primo crepuscolo, con la persona da cui l’avete mandata a
ricercare.

Terremoto non fiatava per lo sbigottimento.

— Partita?... — farfugliava tra denti, che un’ansia mortale gli facea
sbattere come per freddo — partita al crepuscolo?... con una persona
che io?... ma chi è codesta persona?...

— Eh, gua’?... — fece la donzella — la persona istessa, che è venuta
per conto vostro a richiederla.

— Un vecchietto — soggiunse una delle costei compagne — una specie di
castaldo, che scortica la lingua nostra alla maniera de’ tedeschi.

— Ah! — sclamò con un grido Rinolfo.

E, con atto di suprema disperazione, si cacciò ambo le mani tra i
cerfugli cascanti dalla bionda capellatura.

Le damigelle lo contemplavano esterrefatte come se avessero dinanzi un
fenomeno.

— Ma come.... come? — ripigliò a dire il povero uomo, dopo la pausa
di un istante — com’è accaduto che donna Bianca abbia seguito quel
farabutto di tedesco, senza sospettare che sotto alle sue parole
indiavolate ci potess’essere qualche bertovello?

— Gli è facile a spiegarselo — fece una di quelle — come ve lo abbiamo
detto testè, il vecchierello che voi chiamate tedesco, è venuto qui
insieme ad un suo fante....

— Ah.... c’era pur seco un fante?

— Sì, certamente; ma questi nemmanco è entrato nella rôcca.

— Era egli un giovinotto sbarbato, con due grandi occhioni neri e
lucenti, le sopracciglia copiose e ritte ed alcunchè di donnesco in
tutta la persona?

— Che avesse del donnesco mal saprei asseverare, chè lo abbiamo
sbirciato solo così alla sfuggiasca; ma giovine e con occhi e
sopracciglia come voi dite, era per certo.

— Ebbene, ebbene?

— Il vecchierello, dunque, lasciato il suo servidore al di là del
ponte, s’è fatto inanzi a domandare di donna della Staffa, soggiungendo
ch’e’ veniva direttamente da Busseto, con una ambasciata vostra per
lei.

— Ed a chi s’era rivolto per ispifferare di simili fandonie?

— A messere Amerigo de’ Coronei, il mastro di Sua Magnificenza la
duchessa nostra; ma talune di noi... io, per esempio.... eravamo
presenti.

— E che gli rispose mastro de’ Coronei?

— Nulla; senonchè io medesima andai al nostro dormentorio ed a
madonna Bianca, che s’era a pena levata di letto, perchè un cotal poco
indisposta...

— Ah, er’anco indisposta quell’angelo santo?

— Cosa da nulla, Rinolfo caro! un po’ di gravezza al capo buscatasi in
una passeggiata che abbiamo fatto iersera lunghesso le rive del Po.

— Tirate inanzi.

— A donna Bianca, dunque, annunziai la persona che, per conto vostro,
l’aveva richiesta.

— E donna Bianca?

— C’è tampoco a domandarlo? non così udì il vostro nome, che subito si
lanciò fuori dell’uscio ad incontrare colui.

— E colui?

— Colui non le tornò nè ignoto, nè discaro, poichè ella a pena lo
scorse, gli volò inanzi sclamando: oh, messer Pellegrino! oh, messer
Pellegrino! e stette quasi per gittarglisi fra le braccia!

— Eh, mi spiego cotesto!... il manigoldo era già stato attinente e
divoto e pressochè familiare della casa del suo misero avo.... ella
non potea figurarsi che, ligio e venduto siccom’è alla genìa de’
Farnesi, dovesse tradire le antiche amicizie per darla in balìa del suo
persecutore... è sì buona ed onesta madonna Bianca, che si rappresenta
tutta l’umanità creata a sua similitudine!

— Sarà benissimo come voi dite; ma il fatto si è che ell’accolse il
nuovo venuto con ogni più manifesto segno di attenzione e di simpatia
e non l’ebb’egli così annunziato come venisse, per conto ed incarico
vostro, onde seco menarla direttamente a voi, che ella corse subito
alla duchessa, gliene chiese licenza e si apparecchiò senz’indugio a
partire.

— Oh, la mia disgraziata signora!... e quale strada hanno dessi
pigliata?

— Oh, non badammo a cotesto!... nevvero, voialtre?

— No, certo — risposero le compagne.

Ed una soggiunse:

— Ma egli è fuori dubio che avranno pigliato quella del Po’ se volevano
traversarlo per arrivare a Busseto.

— Eh, che a Busseto non ci hanno fatto ritorno!

In quel punto sorvenne mastro Amerigo de’ Coronei.

— Messere — gli chiese tosto Terremoto, nella cui grossa cervice era
balenata una idea — sapreste voi, per avventura, ove presentemente si
trovi Monsignor Pierluigi Farnese?

— Il duca di Castro? — fece mastro Amerigo, pigliandosi il labro
inferiore tra l’indice e il pollice della mano destra e stirandoselo
inanzi con fare di sufficenza — eh, il duca di Castro, se memoria non
mi falla, s’ha, in questo punto, da trovare a Piacenza, dove non so
se più stia per ingaggiare cavalli e fanti a servizio dello esercito
papalino, o per attendere quelle buone novelle che spera gli abbiano a
giugnere da castel di Busseto.

— A Piacenza, voi dite?

— A Piacenza, a Piacenza.

— Non mi rimane più dubio!

E con questa conclusione gittata là in modo esclamativo, il gigante
abbandonò in asso le dame e il gentiluomo della corte estense, per
tornar frettoloso fuori del castello e raggiungere i suoi due compagni.

Con vivo interessamento da parte dell’Anguissola e con profondo dolore
da parte di Neruccio, questi ascoltarono la triste narrazione che
quello fece loro di quanto aveva risaputo nel castello.

Bianca era disparsa; Bianca era stata rapita da donna Olimpia Marazzani
e Pellegrino di Leuthen; Bianca trovavasi probabilmente a Piacenza già
in potere di Pierluigi Farnese.

Un siffatto persuadimento rinfocolava gli odî mal sopiti dei due
sventurati amatori, a’ quali aggiungevasi Terremoto, che — a giudicarne
almeno dagli atti irosi e da’ sonori sospironi, che gli uscivano dal
colossale torace — appariva di loro non meno addolorato e sdegnato.

Senza pronunziar verbo, i due giovani capitani si strinsero
espressivamente la mano, quindi — volgendosi, in pari tempo, al
gigante, con uno sguardo che significava un invito:

— A Piacenza! — esclamarono a due voci.

— A Piacenza! — rispose Terremoto.

E partirono tutti tre al trotto, queglino de’ loro eccellenti corridori
e questi del suo misero ronzino.




CAPITOLO XLVIII.

La investitura.


S’era in sul finire di agosto dell’anno così detto di grazia 1545 e
nella città di Piacenza.

Entro un ampio salone di pianterreno, tappezzato in cuoio liscio e
grezzo a borchiellature di rame, e col mobiliare più antico di un
secolo della voga corrente a que’ dì; teneansi in colloquio due uomini,
nell’uno de’ quali — alla barba puntuta, al naso piovente e alle
volatiche onde avea chiazzata la pelle del volto — facile tornava il
riconoscere il signor duca di Castro.

L’altro era messere Alessandro Viustino, dottore in leggi ed allora di
lui rappresentante nel reggimento della podesteria di Novara.

Sin dal maggio, il Farnese trovavasi albergato nella casa di quella sua
creatura, dove, senza fallo, attendeva gli pervenisse da Roma la buona
novella.

La buona novella doveva essere la sua investitura nel ducato di Parma
e Piacenza, pel trattamento della quale causa Sua Beatitudine il Papa
avea già tenuto due distinti concistori.

L’ospite e l’ospitato stavano conversando delle difficoltà più o meno
grandi, che il pontefice avrebbe potuto incontrare a spuntarla: quando
un donzello — dopo aver bussato pianamente all’uscio — si fe’ inanzi
ad annunziare l’arrivo di tale, che chiedeva istantemente parlare a
monsignore il duca.

Pierluigi sobbalzò dalla sua scranna, con quel movimento irresistibile
di ansietà che è tutto proprio delle prolungate aspettazioni e:

— Fa entrare, fa subito entrare — intimò al valletto.

Il quale poco istette ad introdurre un’altra nostra conoscenza, il
tedesco Pellegrino di Leuthen.

Pellegrino giungeva direttamente da Roma.

Figurarsi se doveva essere il benvenuto!

Il duca gli corse incontro, come lo avrebbe fatto con una vezzosa dama
di corte e — stringendogli tutte le due mani nelle sue:

— Ebbene, ebbene, mastro di Leuthen — gli addimandò premuroso — quali
notizie mi recate?

— Pone! pone! — fece il tedesco, assidendosi s’uno scannello, che,
nel frattempo, il Viustino gli aveva profferto — gasa Farnese gasa biù
fordunate di gueste monte!

— Storia vecchia, Pellegrino: veniamo alle nuovità.

— Cranti, crantissime nuofità!... fostre eccellensce difenute nonne tue
folte in una folta sola.

— Cosa volete dire?

— Foler tire che fentisette gueste medesime mese Sua Magnificensce
tonna Marcherite t’Afstrie bartorito e tato alla luce tue cemelli, che
patezzati coi nomi di Alessantre e di Garle....

— Ah, mia nuora?... brava! è di buona razza; ma di cotesto assai
mediocremente mi preme... io bramerei piuttosto sapere come siano ite
le faccende....

L’astuto raccoglitor di cimeli interruppe il duca d’un cenno e
strizzando maliziosamente dell’occhio al Viustino che stava curioso in
ascolto:

— Monscignore — riprese a dire — subone io dimendicarmi suoi
inderessi.... ma sua eccellensce fare crantissime torte sue fetelissime
serfitore.... gome!... io breferire bartoriscione tonna Marcherite
t’Afstria a crante, imbordantissime afenimente fostre infestimente?...
ah, monscignore....

— Bene! bene! vi chiedo scusa del dubio... ma spiegatevi, spicciatevi
una volta.... chè vi caschi la lingua!

— Domine! domine! guante siede imbasciente!... se lincua tofesse
cascare fostre tefotissime serfe, fostre defotissime serfe non essere
gabace tarfi sbiecascioni tesiterate!...

— La vorrete finire una volta?

— Sùpito! sùpito! sùpito!...

— Ah, sia ringraziato il Signore!

— Tunque, fostre eccellensce tefe sabere tue goncistore state tenute
Sua Peatitutine per fostre facente.... fostre fetelissime secredarie,
messere Abollonie Filarete fatta crante berorascione in fostre
fafore; ma Antalot e Marquina, ministri serenissime imberadore, niente
folere.... folere infece infestite feute fostre tegnissime figlie,
signor tuca di Camerine... tenute tunque prime goncistore alli totici
questo mese e trofate molte, crante, ostinatissime obbosiscione...
gartinali di Cupis e di Purgos fatta obbosiscione abertamente;
gartinale di Pologna timantate crascia tacere; gartinali Bisano,
Garpi e Satolete barlate molto contro e gartinali Trifulscio, Garaffa
e Armagnac niente interfenuti goncistore.... oh, faccente brese
pruttissime bieche!...

— Per la croce di Dio, pare anco a me! — sclamò Pierluigi.

— E com’è andata a terminare? — chiese, non senza qualche ansietà, il
dottore Viustino.

— Antata derminare — rispose il tedesco — come tofefa antare
derminare.... Sua Peatitudine fatte gorrere molte splentite
bromissione gartinali regalcitranti.... settimana topo tenute segonto
goncistore.... e allora tutti borborati abbrofata brobosiscione e,
con crante, crantissimo blauso di tutti, fostre eccellensce broglamata
tuche di Biacensce e di Barme.

— Davvero! — gridò il neo-monarca, balzando nuovamente in piedi,
comunque un po’ a stento, acciaccato qual’era dai turpi malanni che lo
affliggeano del continuo.

E ricascò subito su la propria sedia.

— Daffero! daffero! — confermò il tedesco — guante io lassiate
Rome, Sua Peatitutine stare già brebarate foi espetire suo lecato ed
emissario ingompensato bortarvi pone nofelle.

— Ah, finalmente! — sospirò Pierluigi.

E il Viustino, facendogli eco:

— Sia ringraziata la bontà del Signore.

— E guella tel suo Ficario — concluse filosoficamente Pellegrino di
Leuthen.

Senz’attender altro, il Farnese inviò tosto persone di sua fiducia
a render palese il lieto avvenimento a’ più ragguardevoli principi
e così: Vincenzo Buoncambi a re Francesco I di Francia e il conte
Agostino Landi alla serenissima di Venezia.

Su i primi del settembre — come lo aveva annunziato il tedesco —
giunse a Piacenza l’emissario papale. Era quel medesimo Bernardino
de’ Castellari, vescovo di Casale, detto _Monsignor dalla Barba_, che
già ci accadde di vedere a Perugia, dov’era ito a seppellire la guerra
del sale e le libere guarentigie di quella nobile contrada. Monsignor
dalla Barba poteasi considerare, a buon dritto, quale uno augello di
malo augurio, la cui presenza rispondeva mai sempre a qualche grave
calamità di popolo. Egli, infatti, e sottomettere nel 1532 i ribelli
anziani di Ancona, cui impose a legato un Benedetto degli Accolti,
che, per conseguire il governo di quella città, aveva promesso pagare
alla Camera Apostolica l’annuo canone di ventimila scudi; — egli —
come vedemmo — a sostituire il medesimo Pierluigi nel governo della
soggiogata Perugia, che assoggettò alle più dure taglie e privò
de’ più antichi istituti, sino a cambiarle il supremo magistrato in
un _Conservatore dell’obbedienza alla Chiesa_; — egli, finalmente,
apportatore al duca di Castro ed a’ piacentini dei brevi papali che
quello costituivano duca di Piacenza e di Parma: nunzio egregiamente
scelto a tanta sventura di popolo!

Il giorno ventitrè dello istesso mese di settembre, il vescovo dalla
città, Monsignor Catellano Triulzio, il teatino Rocco de’ Tamburini,
il conte Jacopo Mandello e secoloro, Antonello Manzio, Alberto Penna,
Giannantonio Fasolo e Paolo Notari, cittadini piacentini, aventi
insieme, quali testimoni, gli altri cittadini Agostino Fasolo e Giovan
Battista Peragò; si portarono, con Monsignor della Barba, in cittadella
dove questi presentò solennemente i brevi papali al novello duca, il
quale trovavasi in letto.... dicono taluni cronisti, con la podagra; ma
tutti sanno di quale razza di podagra si trattasse.

Il Consiglio Generalissimo della città avea dato incarico, perchè al
nuovo signore prestassero giuramento di fede ligia e leal sudditanza,
al priore cavaliere Barnaba Del Pozzo, agli anziani: cavaliere Marco
Antonio Barattieri, conte Anton Maria Anguissola, Aurelio Cicala, Marco
Antonio Zanardi-Landi, Giovanni Stefano Anguissola, Giovanni Bartolomeo
da Fontana, Antonio Morselli, Giovan Battista Bonino, Benedetto
della Corte e Gabriello da Cinquate, ed ai dottori in legge: Lazzaro
Tedaldi, Alessandro Viustino, Pier Maria Pavesi, Marco Antonio Scotti,
Pellegrino Casati, Fabio Capallati, Dionigi Rocca, Lodovico Anguissola
e Battista Morselli.

Tutte cotali cerimonie vennero seguite da tre giorni di publiche feste
con spari, giuochi pirotecnici, processioni, torneamenti e con la
promulgazione di un bando, a tenore del quale rimaneva prescritto che
tutti gli anni il ventitrè di settembre si dovesse in ugual maniera
solennemente festeggiare.

Ma i bandi soventi propongono e chi dispone è quel grande laceratore
e costitutore insieme di tutte le legalità che ha nome il volere del
popolo.




CAPITOLO XLIX.

Il duca di Piacenza e di Parma.


Quale sia stato il governo o — piuttosto — lo sgoverno, che lo sterpone
di papa Paolo III fece de’ bei paesi balestrati in sua balìa da un
sinedrio pretesco; nessuno lo ignora.

Noi ci limiteremo, quindi, ad un breve e sfuggente cenno cronologico
desunto dalle cronache de’ tempi, tanto perchè — anche que’ pochi tra
i benigni lettori nostri, cui mancassero le nozioni istoriche, che
vogliamo ammettere nei più — possano formarsi una idea del modo di
procedere di Pierluigi come sovrano regnante.

Inteso egli pertanto a disporre la propria corte, designò a suoi
segretari intimi e partecipanti: Apollonio Filareto, Annibal Caro,
Anton Francesco Rainerio, Francesco Monterchi, Giovan Battista Pico,
Davide Spilimbergo, Gandolfo Porrino, il filosofo Giovanni Pasini, il
piacentino Bartolomeo Gotifredi, il Zuccardi, il Tebalducci. In cima a
tutti pose il Filareto ed, a reggere la podesteria, chiamò da Parma il
dottore in legge messer Francesco de’ Cusani.

Per l’amministrazione della giustizia cui sovratendeva Annibal Caro,
eresse pure un Supremo Consiglio, o Tribunale, composto di sette
giureconsulti, il quale teneva udienza nel palazzo grande di piazza,
publiche il lunedì ed il venerdì e segrete il mercoledì e visitava i
carcerati il sabato.

Tale Supremo Consiglio — che aveva a presidente quel Claudio Tolomei
da Siena, che fu poi vescovo di Curzola, a consiglieri: Alessandro
Viustino, Bernardo Bergonzio da Parma, Tomaso Avogadri da Novara, Pier
Filippo Martorelli da Osimo, Salvator Pasino da Colle di Toscana e
Francesco Campello, detto comunemente _Cecchino da Spoleto_ con titolo
ed autorità di capitano di giustizia, ed a segretario il gentiluomo
milanese dottore Anton Francesco Rainerio — tale Supremo Consiglio,
ripetiamo, cominciò a funzionare, tenendo la sua prima seduta publica
il giorno nove di novembre.

Pierluigi istituì, inoltre, il Maestrato delle Entrate, specie di
Ministero delle Finanze, che doveva invigilare su le rendite della Casa
Ducale ed i privati interessi del principe e gli dette a presidente
messer Pier Paolo Guidi ed a consiglieri il piacentino Giovanni Bosello
ed il parmigiano Angelo Cantelli.

Da principio, soleva il novello principe recarsi in su le rive del
Po ed ivi, tenendo corte alla consuetudine medioevale, rendere
egli in persona giustizia. In tali solenni occasioni, gli erano
compagni, scorta e consiglio, il conte Sforza Sforza di Santafiora,
suo nipote, Sforza Pallavicino da Fiorenzuola, il cavaliere Giovan
Francesco Asinelli, consigliere di guerra, Pier Filippo Martorelli, il
presidente del Magistrato delle Entrate, Alessandro Tomasoni da Terni,
maestro di Campo, che è quanto dire: ministro della guerra, il dottor
Fabio Copallati, il marchese Camillo Sforza-Fogliani, Bartolomeo da
Villachiara, suo primo ministro, e la pleiade de’ segretari.

Il buon popolo — sempre facile a sperare ed illudersi — prese per
moneta di buona lega quelle menzognere parvenze di ordine e di legalità
assunte da monsignore il duca e ne benaugurò pel proprio avvenire.
Ma — al solito — non istette gran pezza a doversi persuadere di aver
pigliato un madornalissimo granchio a secco. Pierluigi era sempre
Pierluigi: la volpe perde il pel non il costume.

Mutando però repentinamente ed intenzioni e pratiche, cominciò a mandar
fuori un suo nuovo bando col quale intimava a tutti i feudatari, che
aveano possedimenti e castella nel territorio della ducea di rendersi
ad abitare nelle principali città e di non rimanersene ne’ loro feudi,
sotto comminatoria della confisca de’ beni e di pene personali, che
molti non potettero sfuggire.

Quindi ordinò la famosa _Tagliata_ che egli stesso aveva già intrapreso
sino da quando trovavasi in Piacenza come capitano delle armi di Santa
Chiesa. Per tutto il paese dove quella _tagliata_ dovevasi effettuare,
leggevasi inciso su colonnette di pietra «INTRA HOS FINES NEMO
STRUCTURAM, ARBOREM, VITEM HABEAT. QUI SECUS FAXIT GRAVIS MULCTÆ REUS
ESTO.»

In circostanza delle gazzarre carnevalesche festeggiate con una grande
giostra su la piazza della cittadella e con altri publici giuochi e
sollazzi, il ticchio gli venne di comandare a tutti i suoi maggiori
vassalli che dovessero convenire in città in compagnia delle rispettive
loro consorti. E così da siffatte esorbitanze, a cui non tutti
consentivano d’ottemperare trasse argomento a sevire contro di questo e
di quello.

Perchè il conte Gerolamo Pallavicino, signore di Cortemaggiore, non
s’era affrettato a mettere stabile dimora a Piacenza, profittò di
saperlo assente, per farne arrestare la madre, Lodovica d’Erasmo
Triulzio, e la moglie, Camilla d’Ottaviano Pallavicino, e tenerle a
lungo recluse nel vescovado di Piacenza, mentre inviava suoi uomini ad
occupare la terra di Cortemaggiore.

In pro’ del Pallavicino, s’interposero moltissimi distinti Signori
vuoi presso di Carlo V e vuoi della republica veneta, e tanto più
che la di lui moglie trovossi in istato di gestazione. Ma siffatte
pratiche a null’approdarono. Pierluigi schermivasi ora accusando il
sere di Cortemaggiore di quattro distinti omicidi, ora di parteggiare
segretamente per la Francia e lo stesso papa — cui s’erano pure rivolti
quegl’intercessori — chiarivasi del medesimo aviso del figliuolo,
trovando opportuno il sostener prigioniera donna Camilla, onde impedire
a Girolamo ogni successione e dichiarando che la gravidanza di lei
altro poteva non essere che una maliziosa simulazione.

In pari tempo, altre gravissime cagioni di sdegno suscitò il Farnese
nel nobile conte Giovanni Dal Verme, pretendendo da lui i balzelli per
le sue terre di Romagnese, che questi giustamente riteneva piuttosto
milanesi che piacentine.

Ed altre ancora nelle possenti casate degli Anguissola, de’ Landi, de’
Scotti e dei Fontana, col voler eleggere egli stesso il Vicariato di
Provigione che — per antichissime consuetudini e dritto — perteneva a
quelle quattro famiglie.

Arroge i vizî nefandi di cui Pierluigi era macchiato, e il suo continuo
insidiare all’onore ed alla domestica pace di quanti gli stavano
intorno.

Ciò doveva naturalmente alienargli in breve l’animo di tutti ed
accumulare una tremenda tempesta sul maledetto suo capo.

Scoppiò frattanto il moto de’ Fieschi.

Ma — prima di divisarne i casi — diciamo, in breve, da che muovesse ed
in che veramente consistesse.




CAPITOLO L.

La congiura dei Fieschi.


Come già ci avvenne di accennarlo — Genova era stata accomodata da
Andrea Doria di una nuova costituzione detta _legge del Garibetto_, ma
— in onta a ciò — oltre ad essere divisa in parte guelfa a ghibellina
«come — a dire del Varchi — generalmente tutte le terre d’Italia» eralo
ancora in nobili e popolani, questi ultimi in cittadini e plebei e i
cittadini, dal canto loro, in mercatanti ed artefici.

Le famiglie, nobili o no, che aveano primeggiato negli affari politici,
voleano accrescere la loro potenza altre aggregandosene, meno illustri,
ma numerose; laonde, non per vincolo di sangue, ma per comunanza
d’interessi e di fazione, s’erano costituiti de’ così detti _Alberghi_,
portando medesimo cognome e stemma, associati ne’ litigi, nei contratti
e nelle votazioni.

La fazione guelfa era capitanata dagli Adorno, la ghibellina dai
Fregoso, ed il popolo, parte schieravasi con quelli, parte con questi,
i quali prevalsero a lungo e — durante il loro predominio — a nessuna
persona nobile o di parte guelfa furono accessibili le magistrature, e
ghibellino e plebeo fu sempre il doge sino dalla metà del secolo XIV.
Siffatte discordie partorirono la servitù, e la servitù comune ritemprò
la fratellanza degli oppressi, talchè, se non spente, rimasero sopite
le rivalità.

Quando, dunque, la genovese indipendenza venne assecurata dal
disinteresse di Andrea Doria, ossia: nel 1528; dodici così detti
_riformatori_, istituiti per istabilire un nuovo governo, tolsero a’
ghibellini e popolani quel privilegio delle cariche, accomunandolo a
tutte le antiche case possidenti e contribuenti e costituendo così i
_gentiluomini_, e decretarono che ciascuna delle ventotto famiglie,
avente in Genova sei case aperte, formasse un _Albergo_, al quale —
come a nocciolo — s’aggregassero le stirpi meno facoltose, insieme
misturando guelfi e ghibellini, nobili e plebei, di maniera che le
prosapie cessassero dal rappresentare i partiti e si scomponessero
le casate degli Adorni e dei Fregoso, che perpetuavano gli antichi
secolari rancori.

Tali ventotto _Alberghi_ uscirono così: Calvi, Centurioni, Cicala,
Cybo, Doria, Fieschi, Fornari, Franchi, Gentili, Grilla, Grimaldi,
Giustiniani, Imperiali, Interiano, Lercaro, Lomellino, Marini, Negro,
Negroni, Pallavicino, Pinelli, Promontorio, Salvaghi, Sauli, Spinola,
Usodimare e Vivaldi. E dai medesimi _Alberghi_ si scelsero annualmente
a sorte quattrocento senatori e cento se n’elessero per voti, a’ quali
cinquecento spettava il nominare alle altre cariche: e dagli _Alberghi_
stessi doveva uscire il doge, primo de’ quali fu un Oberto di Lazzaro
Cattaneo.

Sibbene il Doria avesse ricusato d’essere principe; pure i benefizi
grandi che da lui ripeteva la patria e le sue eccelse virtù gli
assecuravano una specie di dominio, per cui teneva in porto propri
navigli e propri soldati su quelli ed a custodia del suo palazzo. Egli
per altro giammai trascese le condizioni del semplice cittadino, ma
coloro istessi che ne rispettavano la benemerenza, forte temevano non
voless’egli trasmettere la propria autorità al nipote Gianettino, cui
aveva ceduto il comando delle galee e che, quantunque valentissimo
capitano di mare, era uomo superbo e dissoluto, il quale, della
potenza dello zio e della grazia dello imperatore, usava ed abusava a
sodisfacimento di sue passioni.

Di tale preminenza di Giannettino grandissimo dispetto concepiva
Gianluigi Fieschi, conte di Lavagna e signore di Pontremoli,
disordinato, cupido, non di liberare la patria, ma di dominarla, una
delle solite riproduzioni di Catilina, il quale — mentre piaggiava
i Doria — accontavasi col sire di Francia, col papa e con Pierluigi
Farnese, novello duca di Piacenza e di Parma, per disfare ciò
che l’imperatore aveva composto e scassinare in Italia la potenza
imperiale, che pareagli minaccia per tutti.

Sotto altri caratteri, era sempre lo antico guelfismo, che tornava a
pullulare, il principio anche a questi dì nodrito ed accarezzato da uno
de’ nostri più grandi filosofi e che — per quanto si siano industriati
di dimostrare i preti ed i pretofili a puntello del loro predominio e
a sfregio, spesso, delle più lampanti verità storiche — è sempre stato
una delle più esiziali piaghe d’Italia.

Le simpatie che Pierluigi Farnese manifestava pel cospiratore genovese
avevano, per altro, un ben diverso obiettivo: e’ non era di tempra da
preoccuparsi troppo delle alte quistioni politiche e da far servire le
proprie azioni a qualche magnanima idea, buona o cattiva che fosse.
Ciò che lo spingeva stava unicamente nell’odio che gli s’era andato
man mano accumulando nell’animo contro Carlo V ed i costui prediletti,
massime contro il duca don Ferrante Gonzaga, nuovo governatore dello
Stato Lombardo dopo la morte di don Alvaro De Luna.

Verso quest’ultimo, in ispecie, egli sentivasi mosso dal più profondo
livore.

Già — sin da quando Carlo V non volle piegarsi, nel convegno di
Busseto, ad assegnare a lui il ducato di Milano — egli riseppe come
la repulsa fosse stata precipuamente causata da’ maneggi e dall’arti
messe in pratica dal Gonzaga. — Poi vi si aggiunse altro argomento di
sdegno. — Nel 1513, egli avrebbe desiderato conseguire da Giovanni di
Homodes, gran maestro dell’ordine gerosolimitano di Malta, il priorato
di Barletta nel proprio minor figlio Orazio, che — in quel torno —
trovavasi a militare in Francia, dov’era in trattative di matrimonio
con una Diana, spuria di Francesco I e della celebre duchessa
d’Etampes. Nel più bello, in cui ferveva l’operio del papa e de’ suoi
emissarî per l’ottenimento di quella lauta ed importantissima commenda;
ecco farsi inanzi l’aborrito Gonzaga, il quale mercè l’appoggio dello
imperatore — giunse a strapparla improvisamente dall’unghie già parate
al ghermire del giovine Farnese, per farla, invece, allogare al proprio
figlio Vicenzo. Poi — come tutto ciò non bastasse — e’ se lo aveva
adesso vicino, perchè residente a Milano, e vicino tanto importuno che,
ben frequente, gli rompeva le ova nel paniere, e metteva bocca e mani
nelle faccende sue come accadde a proposito delle pretensioni del conte
Giovanni Dal Verme, circa i tributi del Romagnese, che quello pure
sosteneva essere territorio lombardo; e come accadde a proposito del
marchesato di Soragna, scaduto dalle mani dei Lupi in quelle de’ Meli,
e sul quale esso Gonzaga armava le più insistenti pretese.

Nè a Soragna sola limitavansi probabilmente le ambiziose mire di
costui, dappoichè scrivesse allo inviato imperiale Natale Muzj: «Io
mi ricordo che quando voi foste in Genova ad incontrarmi, mi diceste
da parte di S. M. che, alla morte di questo Papa, voleva recuperar
Piacenza et Parma da le mani di Pierluigi, come membri di questo
Stato».

Quanto allo imperatore direttamente — malgrado che Pierluigi fosse
stato formalmente e solennemente investito dalla suprema autorità
pontificia degli Stati di Piacenza e di Parma egli continuava a non
designarlo mai altrimenti, anche nelle sue publiche scritture, che
col semplice titolo di duca di Castro, ed i suoi furieri, nel segnare
in Ratisbona l’alloggio del dott. Boncambi, segretario del duca,
scrivevano onninamente: _alloggio del signor segretario di Castro_.

Tutte cotali cose insieme riunite cacciavano nel cuore del malandato
ed atrabiliare Pierluigi Farnese siffatta dose di fiele ch’egli non
è a stupirsi se accolse con grande premura e con massima gioia le
domande d’aiuto fattegli dai Fieschi, che intendevano muoversi contro
la costituzione e la supremazia dei Doria portando così un colpo
fatalissimo alla causa dello imperatore e degli amici suoi.

Per altro — ambidestro ed anco, per natura un cotal po’ pusillanime —
e’ metteva studio precipuo nel serbare occulto il vero animo suo e se —
nel segreto — accedeva sollecito alle istanze dei cospiratori genovesi
— in publico avea cura di appalesarsi più di chiunque divoto all’impero
ed amico schietto di casa Doria.

Gianluigi Fieschi, intanto, era andato preparandosi il terreno in
patria, col captivarsi le simpatie de’ marinai e degli artegiani,
largheggiando secoloro in carezze e quattrini e — sotto specie di
allestire navigli per una sua spedizione contro de’ barbareschi
— faceva venire da vari suoi feudi tutte le persone più fide ed
arrisicate su le quali poteva contare. S’era al finire dell’anno di
grazia — o di disgrazia — 1546.




CAPITOLO LI.

Novelle gesta di Terremoto.


Gli apparecchi apprestati da Gianluigi Fieschi e da’ suoi trovavansi
al punto, che non eravi più ragione alcuna per indugiare l’arrischiosa
impresa.

E’ fermarono, infatti, di cimentarvisi e scelsero per tale uopo la
notte istessa del capo d’anno.

Lasciamo parlare per noi quell’accurato annalista di Lodovico Antonio
Muratori, il quale ha benissimo riepilogato tutto quanto su tale
impresa ce ne lasciarono scritto, Uberto Foglietta, l’Adriani, il
Campani ed il Mascardi. Nemmanco il Cappelloni, nella sua _Storia delle
tre Congiure_, aggiugne particolari di maggiore interesse.

Gianluigi Fieschi «chiamati seco a cena molti dei suoi amici nobili
popolani, e svelata ad essi l’intenzione sua, gli ebbe quasi tutti
seguaci nell’impresa. Uscì egli poscia alle dieci ore della notte colla
gente armata, e non tardò ad impadronirsi della porta dell’Arco, con
ispedire dippoi Girolamo ed Ottobuono suoi fratelli a far lo stesso
di quella di S. Tommaso. Era la principal sua mira di occupar la
Darsena, e di ridurre in suo potere le venti galee di Andrea Doria;
e gli venne fatto, ma con risvegliarsi allora un tumulto e strepito
de’ remiganti e marinai che in esse si trovavano. Nello stesso tempo
gli altri si fecero colla forza padroni della suddetta porta di San
Tommaso, divisando appresso di quindi passare al palazzo dello stesso
Andrea Doria, posto fuori della città, per quivi uccidere lui e
Giannettino. Ma intanto svegliato dallo strepitoso rumor della Darsena
esso Giannettino, credendo nata rissa o sollevazione tra i galeotti,
vestitosi in fretta, con un sol famiglio che gli portava innanzi la
torcia, venne alla porta di San Tommaso, e imperiosamente chiesto
d’entrare, per sua mala ventura v’entrò, perchè immantenente fu da’
congiurati con più colpi steso morto a terra. Maraviglia fu che non
corressero dippoi al palazzo di Andrea Doria, per levare anche a lui
la vita. Stava egli in letto, stanco sotto il peso di ottanta anni,
e maltrattato dalle gotte, quando gli venne avviso che la città era
sossopra, e udirsi gridare _Libertà_ e _Fieschi_, perchè molti della
vil plebe s’erano uniti per isperanza di dare il sacco alle case
de’ nobili (solita storia!). Però, come potè, posto sopra una mula,
si sottrasse al pericolo, ritirandosi alla Masone, castello degli
Spinola.»

Tra i non molti familiari e clienti, che gli facevano corteo nella
precipitosa fuga, rimarcavansi due cavalieri, i quali erano stati i
primi due che — correndo a spron battuto — fossero giunti al palazzo
Doria con le notizie della sollevazione popolare e di quanto accadeva
in città.

Alle vesti, agli arnesi, al parlare sembravano costoro estranei al
luogo ed, infatti, quando l’ottuagenario _Padre della patria_ dimandò
loro a chi dovesse il segnalato servizio:

— A due forestieri — gli rispose il più attempato — io sono il conte
Giovanni Anguissola, piacentino, e l’amico mio è il capitano Giovanni
Osca di Valenza.

— E come mai — fece il Doria, mentre si lasciava aiutare da’ famigli
ad inforcare con le gambe gottose il piccolo mulo, che dovea trarlo a
salvezza — come mai tanto interessamento e sollecitudine per me, che
neppur conoscete?

— Non tanto per amore di voi, messere — gli rispose l’Anguissola
— quanto per l’odio intensissimo, che ci anima contro il signore
nostro, Pierluigi Farnese, il quale.... per nimicizia che ha verso
l’imperatore e massime verso sua eccellenza don Ferrante Gonzaga.... si
è secretamente legato a’ Fieschi e cospira con gli avversarî vostri.

— Ah! gli scellerati — mugolò il venerando uomo, incitando al corso
la sua grama cavalcatura — non potendo battere il cavallo, tirano
colpi alla sella.... e intanto m’hanno ammazzato Giannettino, il mio
Giannettino, ch’era tutto il mio amore, la mia speranza, la mia gloria,
il bastone della mia decrepitezza!

— Questo è uno degli affanni che opprime noi pure — interloquì
il capitano Osca o, per meglio dire, il nostro Neruccio Nerucci —
col trionfo de’ nemici vostri, noi veggiamo prossimo anche quello
dell’abborrito principe, cui abbiamo giurato odio implacabile, ed un
simile pensiero ci mette le più crude smanie nel core.

— Attalchè — soggiunse l’Anguissola — a pena voi posto in salvo,
ritorneremo a briglia sciolta su la città e, dovessimo pure lasciarvi
la vita, tenteremo ogni sforzo per fare abortire l’iniquo tentativo
macchinato da un branco di facinorosi, che si fortificano, accarezzando
le più basse passioni della plebaglia, contro l’autorità vostra,
quella dello imperatore e gli onesti privilegi che assennatamente voi
riconquistate in pro delle classi elette e de’ gentiluomini!

— Fate! fate! giovani ardimentosi — sclamò il vecchio principe —
voi avrete compiuto un’opera veramente pia, impedendo che questa
nobile città ricaschi in arbitrio de’ miserabili, che ne fecero già
tanto malgoverno.... oh! morirei contento anche in su l’atto, solo
mi si annunziasse che un tale pericolo è rimosso e vendicato il mio
Giannettino!

Diciamo ora il più brevemente possibile in quale guisa l’Anguissola e
il Nerucci si trovassero a Genova giusto al momento in cui vi scoppiava
il tumulto de’ Fieschi.

Giunti da Castel Leone a Piacenza, insieme a Terremoto, null’avevano
potuto scuoprire in questa città che li mettesse su le tracce di
Olimpia de’ Marazzani e della misera Bianca: tuttavia — lo avervi
traveduto lo esoso Pellegrino di Leuthen, il quale sgusciava loro di
mano come un pesce per l’aque e scompariva improvisamente subito dopo
il loro arrivo — li fece persuasi non essersi male apposto il gigante
nelle sue conghietture e l’una e l’altra donna, quella per amore e
questa per forza, trovarsi in possesso di Pierluigi Farnese.

Spicciate le faccende che il trattenevano a Piacenza, Pierluigi non
istette gran che a ritornarsene al suo castello di Castro, mentre i
nostri due amici si restituivano a Nepi, in compagnia sempre del loro
fido Terremoto.

Durante il viaggio, e’ s’erano posti a’ fianchi del duca, per indagare
se l’una, o l’altra delle sospirate due donne, secolui si trovasse;
ma non approdarono che a riconoscere il contrario: Pierluigi era
completamente solo, nè lo accompagnavano che il suo primo segretario e
due o tre de’ suoi soliti capitani.

Comunque, tornava positivo che Bianca era stata vittima di lui, e che
la fiera nepote dello abate di San Savino avea servito a dargliela in
balìa.

Contro di lui, dunque, e contro di costei, giurarono i tre di compiere,
quando se ne offrisse loro il destro, la più atroce delle vendette.

Ma il destro si fece sempre aspettare.

Per quanto studiassero, vigilassero, spiassero; mai arrivarono a saper
più nulla nè di Olimpia, nè di Bianca.

Al momento, in cui Paolo III si destreggiava col Sacro Collegio per la
elezione del figliuolo a duca di Piacenza e di Parma; eglino vennero
spediti, da quest’ultimo, in Lombardia, onde preparargli il terreno
presso que’ non pochi gentiluomini che — possedendo terre e castella al
di qua e al di là del Po trovavansi, a un tempo, sudditi di Sua Maestà
Cattolica e di Santa Madre Chiesa.

Per via, Terremoto s’imbattè in Gaspero Gozzelini e lo riconobbe:
costui, — riconosciutolo a sua volta e memore del segnalato servigio
che gli aveva reso a Busseto — lo invitò a seguirlo a Milano, dove lo
avrebbe presentato al suo signore, novello governatore di quella città.
I due capitani, che non ignoravano quale segreto livore il Gonzaga
covasse in seno contro il Farnese, accettarono di buon grado eglino
pure quell’invito e si lasciarono trarre sino alla metropoli lombarda,
dove — tra don Ferrante, l’Anguissola e Neruccio — si strinse un patto,
che doveva essere indissolubile di odio comune e di comune vendetta
contro il preconizzato sire di Piacenza e di Parma.

Siccome lo abbiamo accennato, alle prime proposte che gli vennero
fatte da’ Fieschi, Pierluigi prestò sollecito orecchio e — comunque
in publico li sconfessasse e non negligesse arte veruna per darsi a
credere sempre ligio allo imperatore e parziale dei Doria — promise
loro soccorso d’uomini e quattrini e — fra quelli — spedì loro,
infatti, i nostri due inseparabili, che — secondo il consueto — si
tolsero seco il buon Arcangelo Rinolfo.

Ed ecco in quale guisa si trovavano a Genova.

Ma eglino avean giurato al Gonzaga di non fare mai più cosa al mondo
se non fosse in odio e pregiudizio e scorno del loro scellerato
signore, epperò — toccato a pena il suolo ligure e presentate le loro
credenziali a Gianluigi Fieschi — di null’altro più si preoccuparono se
non di indovinare i costui progetti e, possibilmente, di attraversarli
e sventarli.

Solamente la decisione d’insorgere nella notte istessa del capo d’anno
fu presa troppo repentinamente perchè avessero agio di controminarla.
Dovettero, quindi, contentarsi, — a pena scoppiata e quando Giannettino
Doria cadeva scannato dinanzi alla porta della città — di correre a
briglia sciolta alle case del vecchio principe, avertirlo del pericolo
e provedere alla sua fuga ed alla sua salvezza.

Erano, per altro, giunti troppo tardi: la malaugurata impresa de’
Fieschi riusciva già troppo completamente, perchè lo scampo di quel
nobile vegliardo potesse omai ispirar loro la più piccola speranza.

Le porte di San Tommaso e dell’Arco e quasi tutte le galee di Andrea
Doria trovavansi già in mano dei rivoltosi. Non rimaneva più a costoro
da prendere chè la nave capitana per intuonare securi l’inno della
vittoria, e verso di quella inoltravasi tutto radioso in volto lo
stesso Gianluigi Fieschi su di un leggero canotto spinto a volo dalle
robuste braccia di sei rematori.

Al fianco di Gianluigi — che, tutto in arme da capo a piedi, stava
ritto su l’agile barca, con le braccia incrociate e gli occhi
cupidamente intesi verso la meta della notturna ed audace sua
spedizione — tenevasi un uomo dalle atletiche forme, che — per contro —
affisava lui in modo, non cupido, ma feroce.

Era Terremoto.

Gianluigi — vistolo a pena in compagnia delle genti, che gli aveva
mandato in soccorso il duca di Piacenza, s’era affrettato a sceglierlo
come suo valletto e particolare scudiero, per affidargli, diceva,
certa speciali fatiche che solo la di lui erculea struttura e forza
fenomenale avrebbero potuto sostenere.

Di fatto, lungo tutto il fondo del canotto, stavano accatastate varie
grosse tavole d’abete che — una volta toccato della prora il fianco
della galea — doveano venir lanciate tra quello e questa, onde insieme
congiungerli, per montare all’arrembaggio.

E di siffatto lavoro l’incarico incumbeva a Terremoto.

Ai lati ed in coda del canotto, che portava il capo della fazione
fiesca, venivano altre maggiori e minori barche, cariche tutte d’uomini
armati, i quali — una volta che il gigante avesse adempiuto al còmpito
suo — sarebbersi dovuti lanciare dietro il loro duce all’arrembaggio
trucidando ed imprigionando le genti della nave capitana di Andrea
Doria.

Sul ponte di questa stavano galeotti e soldati, in armi essi pure, ma
forse più per mostra che per vero intendimento di oppor resistenza,
disanimati com’erano dal vedere l’altre diecinove loro galee già in
possesso de’ Fieschi.

E il capo di costoro, sempre ritto, immobile su la veloce sua barca,
con le braccia conserte, gli occhi acutamente fisi, procedeva rapido
quanto l’alcione, che sfiori le aque delle possenti sue ali.

Scorsero pochi minuti: la prua del canotto, i cui rematori aveano
smesso i remi per dar di piglio a scuri e coltellacci d’arrembaggio,
urtava blandemente contro il babordo della galea capitana, quando
Gianluigi Fieschi, uscendo dalla sua contemplativa immobilità, si volse
a Terremoto e:

— Da bravo! — gli gridò — mano alle tavole e presto!

— Subito! — rispose il gigante.

E si curvò un tratto, come per raccogliere la prima delle assi d’abete,
che giacevano in fondo alla barca, ma, invece — spingendosi inanzi
con l’impeto d’un montone infuriato — agguantò per gli stinchi il
malcapitato Fieschi e — sollevatolo quant’era alta la sua propria
persona — lo scaraventò lontano nel mare.

Il misero Gianluigi ricadde a capofitto tra l’aque; affondò, nè più
ricomparve.

Forse, in altra occasione, avrebbe potuto salvarsi a nuoto; ma coperto
com’era di ferro dalla radice de’ capelli alle piante de’ piedi, non
gli fu possibile tentare un moto e dovette morire in su l’atto annegato
come un cane.

Tutto ciò — com’è facile imaginarsi — avvenne nel fuggiasco volgere di
un attimo.

Per altro, i rematori del canotto, testimoni della orribile scena
— comprendendo subito di quale audace attentato fosse vittime la
loro fazione — si scagliarono con le scuri ed i coltelli levati su
Terremoto, gridando a squarciagola:

— Tradimento! tradimento!

Ma Terremoto era parato a quell’attacco: sferrando le formidabili sue
mani chiuse contro i primi due, che gli turbinarono addosso, li abbattè
d’un colpo, come bovi martellati su la fronte dal mazzapicchio del
beccaio; indi si gettò a mare ed — abile nuotatore quale era — si mise,
in poche bracciate, a considerevole distanza da proprî avversarî.

La notte favorì la sua fuga.

Seguitando a nuotare tra galea e galea, uscì dalla Darsena e si diresse
al lito, su cui non tardò guari a metter piede.

Il grido mandato da’ canottieri, al momento in cui Gianluigi
precipitava nell’aque, avea posto lo scompiglio su tutti quanti i
navigli, che si trovavano in porto: i partigiani de’ Fieschi s’erano
sentiti mancare il core; quelli dei Doria, per contro, avevano ripreso
coraggio: su ciascuna delle galee impegnavasi una lotta corpo a
corpo; i vincitori di pochi momenti prima, demoralizzati, infiacchiti,
vinti da un panico misterioso, cedevano in breve la palma della male
assodata vittoria: sgombravano le navi conquistate, riguadagnavano
i loro legni e si davano rapidamente alla fuga. La voce del disastro
correva intanto con la rapidità dello elettrico per tutta la città: i
faziosi s’ascondevano tremebondi nelle loro case; quei venuti da fuori
pigliavano ratti la strada de’ campi e ricovravano alle loro castella,
d’onde tentare una velleità di resistenza; del numero i due fratelli
dell’estinto Gianluigi.

L’ottuagenario Andrea Doria ritornò dalla Masone all’avito suo palazzo
ed, afflitto sempre per la morte del nepote, ma racconsolato dal sapere
la patria scampata al pericolo grave di cui la minacciavano i ribelli,
si consacrò, con ogni premura, a repristinare gli ordini allora allora
da lui medesimo istituiti ed inviò truppe, in pari tempo, a battere le
rôcche nelle quali i rimasugli di quelli s’erano rintanati.

Così — mercè l’ardita mano del nostro Rinolfo — ebbe fine il tumulto
de’ Fieschi, ch’era stato a un pelo dal rovesciare la benemerita
prevalenza di casa Doria e dare la patria in balìa del partito
democratico e della Francia, a detrimento de’ novelli gentiluomini e
dell’autorità imperiale.

Il ghibellinismo trasformato, ma pur sempre vivo, tornava a trionfare
e, coi Fieschi, anche Pierluigi Farnese subiva il suo bravo tracollo.

Rinstaurate le cose, Terremoto che non aveva nessun rischio a correre
mostrandosi alla chiara luce del sole, fruga di qua, fruga di là,
giunse finalmente a raccapezzare i suoi due signori e compagni, e
con essi riprese la via pe’ monti che dividono il genovesato dal
piacentino. Senonchè, lungo la strada — considerando come altri dei
loro li avessero preceduti nel ritorno e reso però conto al Farnese
del modo in cui erano ite le faccende — decisero di sviarsi alquanto
per dare una corsa a Milano ed ivi istruire del vero accaduto monsignor
Ferrante Gonzaga e secolui prendere nuove intelligenze.

Solo — in questa occasione — il conte e Neruccio pensarono non pigliar
secoloro Terremoto e lasciarlo proceder solo per Piacenza, affinchè ivi
potesse scandagliare lo stato delle cose ed informarli poi quando vi
fossero giunti alla loro volta.


  FINE DELLA QUARTA PARTE.




PARTE QUINTA.

P. L. A. C.




CAPITOLO LII.

I prigionieri.


Su la soglia di quel medesimo e misero tugurio della Chiappa, a’ piedi
di monte Osèro, dove già scorreva una vita tranquilla e modestamente
lieta la famigliuola dei Rinolfo e che, da lungo — dopo la morte del
vecchio Luca — trovavasi muta, diserta, spalancata a’ quattro venti e
dominio de’ topi e delle lucertole; teneasi adesso in atto sospettoso e
quasi in vedetta il protagonista di questa nostra istoria.

Il verno era in tutto il suo stridore; le circostanti campagne e
massime i colli ed i monti, coperti interamente da un altissimo strato
di neve, biancheggiavano al raggio della luna, spandendo tutto intorno
un luciore vivo insieme e melanconico, su cui spiccavano nere e
taglienti le ombre pesanti della notte.

Non percepivasi suono il più lieve per quanto s’acuisse l’udito; la
terra pareva una sterminata necropoli, in cui tutto fosse morto; gli
uomini come gli animali, gli alberi come le erbe.

Solo — di tratto in tratto — uno squillo lontano, lontano, flebile come
il sospiro ultimo di un moriente, fendeva l’aria diacciata e andava a
perdersi per le convalli, ripercosso in vibrazioni infinitesimali, che
pareano il tremolìo di un’arpa, toccata non dalla mano dell’uomo, ma
dal soffio di tramontana.

Era probabilmente la campana di Cogno San Savino, che suonava
l’_Angelus_ e le _Avemmarie_ della sera.

Dentro il casolare — nella più riposta sua stanza — ascondevasi una
donna tutta imbacuccata in un grossolano ferraiolo virile, tra le
pieghe del quale studiavasi amorosamente d’avvolgere una bambinetta
poco più in su dei due anni.

Quella donna noi l’abbiamo vista una prima volta a Parma, sin dal
principio di questa narrazione, in circostanza del solenne ingresso
che vi fece papa Paolo III; l’abbiamo riveduta nella rôcca di Camia,
al momento in cui vi facevano invasione e massacro i Nicelli; poi a
Castell’Arquato presso i signori di Santafiora; poi a Perugia, durante
la guerra del sale, e finalmente l’abbiamo perduta di vista a Castel
Leone di Cremona, d’onde l’aveano presumibilmente allontanata le
insidie di Pellegrino di Leuthen e di Olimpia de’ Marazzani.

Quella donna, era la nostra Bianca della Staffa.

Ma, ohimè, quanto cangiata!

Era sempre giovine, ma di quella giovinezza infelice che già
fievolmente combatte contro gli assalti di una precoce maturità; — era
sempre bella, ma di una bellezza pallida, meditabonda, severa, assai
più fatta per ispirare la reverenza e la pietà che non i dorati sogni
d’amore.

E stava seduta, o piuttosto, accoccolata s’uno scannello, con in
braccio quella bionda creaturina, che sbatteva i denti pel freddo, e
— a quando a quando — volgeva all’uscio uno sguardo insieme ansioso
e trepidante, come sperasse o temesse di là dovesse giungerle qualche
fausto od infausto annunzio.

Come accadeva tutto ciò?

Spiegamolo al lettore.

Terremoto — come frequentemente ci corse obligo di avertirlo — non
brillava nè per intelligenza nè per perspicacia. Contento però d’aver
contribuito — e come! — al rovescio de’ malaugurosi progetti macchinati
dai Fieschi ed anche un poco da Pierluigi Farnese; e’ se ne riedeva
a Piacenza, preoccupato solo di adempiere allo incarico affidatogli
da’ suoi due signori ed amici, ch’era quello di speculare come si
trovassero le faccende in seno alla novella corte farnesiana e di
riferirne loro a pena fossero di ritorno.

Mai più s’imaginava il dabbene, che qualcuno degli uomini, spediti dal
duca in soccorso de’ Fieschi e ch’erano retrocessi prima di lui, si
fossero informati, inanzi di partire da Genova, dei particolari della
morte di Gianluigi e ne potessero additare in lui l’uccisore.

Invece, tanto appunto era intervenuto e Pierluigi Farnese, che avea
risaputo ogni cosa, non solamente sentivasi animato dal più acerbo
sdegno contro di lui, ma eziandio contro il conte Anguissola ed il
capitano Giovanni Osca, di cui egli era riconosciuto a corte come
familiare e valletto.

Ned era questa la prima volta che Pierluigi concepiva sospetti sul
conto di Terremoto.

Sin da quando lo rivide in Piacenza a’ fianchi di que’ suoi due
capitani, gli parve di riconoscere in lui il formidabile gigante che —
a due riprese — prima a Castell’Arquato, poscia a Perugia — gli aveva
strappato di mano la giovine della Staffa.

Ma sì lungo tempo era intercorso, da un lato; dall’altro, non stimando
di averlo più a temere; punto o ben poco se ne curò.

Adesso, per altro — udendoselo denunziare quale suo perseverante nimico
e ministro primo di un delitto di sangue, che rovesciava, a un tempo,
uno dei suoi piani meglio combinati — tutto il suo antico livore gli si
risvegliò nell’animo feroce e — dal letto, su cui lo teneano chiovato
gli abituali malanni — impartì l’ordine al Bombaglino ed al Trentacoste
che — se mai quel furfante osasse ripresentarsi a Piacenza — venisse
tosto arrestato e tradotto nelle carceri della cittadella.

Quando, dunque, il buon Terremoto — insciente affatto del destino che
l’aspettava — fece ritorno in Piacenza, ivi trovavansi già in agguato
gli sgherri dei due capitani del duca, pronti a rovinargli addosso a
pena venisse loro dato di scorgerlo.

E siccome — dalle descrizioni, che ne avea fatto il medesimo duca,
e dal ricordo di quanto era toccato a parecchi di loro nell’osteria
della Magione, al Bombaglino in ispecie — sapevano con che razza d’uomo
avessero a fare; ci si erano messi in molti, ed armati tutti sino ai
denti, e muniti di un intero arsenale di funi e di catene, perchè — ad
ogni modo — non riuscisse a scappar loro dall’ugne.

Nè, infatti — malgrado la sua forza fenomenale — egli vi riuscì.

Inerme affatto, sovraccolto alle spalle da mezza serqua di quegli eroi,
imbavagliato, stretto da ceppi e da corde, alle braccia e alle gambe,
prima ancora che avesse il tempo di orizontarsi e di sapere tra quali
mani fosse caduto; egli non potè tentare che una debolissima resistenza
e — in onta a questa — venne coricato su d’una carriuola, trasportato
a braccia in cittadella ed ivi chiuso nella prima carcere che si trovò
sgombra.

Al momento in cui Terremoto cadde in balìa dei sbirri di Pierluigi,
che potevan essere intorno alle quattr’ore del pomeriggio, il duca —
informato dell’avventuroso caso — nissun provedimento volle, o potè
assumere a di lui riguardo, dappoichè stesse contorcendosi sotto gli
spasimi delle sue sordide malattie e fosse, frattanto, inteso a farsi
ripetere e confermare per la millantesima volta l’oroscopo trattogli
dal suo astrologo nel 1537 e che leggeva: «Saturnus genituræ Dominus ab
Jove recepitus tibi annos pollicetur 70, vel circiter.... Mors tua erat
naturalis, sed provenient ex nimia humorum ubertate, seu cattharali
suffocatione, aut nimio coitu post crapulam,» e l’altro trattogli
cinque soli anni prima e secondo il quale gli era presagito che Venere
«tibi gaudia, et corporis salubritatem solito robustiorem pollicetur,
dumodo nimiam bibitionem, crapulam, e crebrum, sive nimium coitum
effugias» e simili corbellerie.

Terremoto venne però cacciato — come abbiamo detto più sopra — entro
il primo carcere, che si trovò spiccio, ch’era una stambergaccia, al
pianterreno della cittadella, avente luce da due piccole finestruole
aperte su l’alto delle muraglie verso un cortiletto interno, e ch’era
tutta quanta ingombra d’arnesi dalle più strane ed orribili forme.

Quella stambergaccia dal pavimento terreo ed umidiccio, dal vôlto
basso, schiacciante ed affumigato era, difatti, la camera dei tormenti.

Gli scherani lo aveano, di prima giunta, buttato là dentro, perocchè
tutte l’altre prigioni fossero occupate da altrettante vittime della
farnesiana tirannide.

Lasciato solo, il gigante si guatò intorno intorno per riconoscere
il luogo; osservò e palpò ad uno ad uno — non senza qualche ribrezzo
— i cavalletti, gli eculei, le ruote, i cunei, i brageri e gli altri
diversi stromenti di supplizio che a quello faceano da mobiliare e —
visto giacere in un canto un saccone rimborrato di paglia, che — in
mancanza di meglio — potea fungere da letto; com’era alquanto stracco
per la camminata fornita, vi si sdraiò sopra e — con la tranquilla
coscienza del giusto, malgrado i pericoli di morte, da cui era
intorniato — non istette guari a lasciarsi vincere dal sonno.

Stringendo il verno, la notte era presto calata.

Terremoto dormiva forse da un paio d’ore, quando si destò di sobbalzo
sotto l’impero di un pauroso sognaccio, che avea attinto tutte le
proporzioni e i caratteri dell’incubo. Pareagli, dormendo, d’essere,
a sua volta — come avea visto il misero suo signore Giovanni Camia —
legato in croce a due legni e, da un orda di satanassi e di gnomi, che
gli sputavano in faccia faville e brage ardenti, mutilato e scuoiato
vivo.

L’orrore lo fece levar su un cotal po’ sul suo giaciglio di paglia e
starvi alquanto tra lo sdraiato e il seduto, come in trepida attesa.

In quella tenzione de’ sensi, frammezzo il perfetto silenzio che
regnava per la cittadella, gli giunse all’orecchio un gemito così
fioco, così a pena percettibile, che sembrava un sospiro.

Prestò maggiormente attenzione e il gemito si rinnovò; catellon
catellone si trascinò verso la parte, d’onde parea provenisse, e lo udì
ripetersi anche più distinto, ed allora — per una di quelle repentine
intuizioni, che son pur nel vero, ma delle quali arduo riesce il
rendersi un conto esatto — credette riconoscere in quel languidissimo
suono la voce della diletta sua signora.

Nè un siffatto pensiero gli ebbe così tosto attraversato il cervello
che la riflessione soccorse a dimostrarglielo oltremodo fondato. Bianca
era stata rapita da Castel Leone per ordine, al certo, di Pierluigi
Farnese; Bianca trovavasi, dunque, in balìa di costui: nulla, quindi,
di più naturale ch’ella pure gemesse sepolta entro quella tomba di
vivi.

Ma un uomo della devozione, del carattere, della tempra, delle
abitudini di Terremoto non poteva, non doveva arrestarsi a quelle
semplici deduzioni. Sinchè si fosse semplicemente trattato di lui, egli
poteva benissimo, con quella trascuranza ch’era un pochino distintivo
de’ tempi, lasciar correre le faccende per la loro china ed anco
affrontare indifferentemente la morte; ma — dappoichè si trattava della
sua signora — mutava specie; bisognava, a ogni costo salvarla.

Il dubio di pigliar equivoco, di cadere in errore, non gli si affacciò
tampoco alla mente: questa — o piuttosto il core — gli aveva detto che
la sua vicina di carcere doveva essere Bianca della Staffa ed omai gli
parea cosa certa quanto una verità matematicamente provata.

Non gli rimaneva, quindi, che trovare il modo di trarla a salvamento
ed — anzitutto — quello di avvicinarla e parlarle, nè per ciò poteva
scorgerne uno diverso dallo aprirsi un adito nel muro e penetrare sino
a lei.

Chiunque altro si sarebbe sgomentato così ad un tanto temerario
proposito, da non tentarlo neppure; ma Terremoto no.

Egli, invece — giovandosi del poco lume, che piovea nello stanzone
dalle due finestruole — e che le nevi rendevano meglio efficace
— trascelse, fra gli arnesi di tortura, ond’era circondato, tutti
quelli che più potevano servirgli alla bisogna, come a dire: cunei
e pungiglioni di ferro, mazzuoli e bracci di leva, e — con essi
— si riaccostò di nuovo al punto della parete, da cui aveva udito
più sensibile il gemito della supposta prigioniera, e si accinse
risolutamente all’arduo suo cómpito.

Non rompeva ancor l’alba che egli già lo aveva ultimato.

Un foro riquadro d’un metro circa per ciascun lato lo metteva
in comunicazione diretta con l’ambiente, da cui gli era giunto
all’orecchio il gemito rivelatore.

Vi entrò carpone.

Non s’era ingannato.

In quell’ambiente trovavasi Bianca della Staffa, con tra le braccia
una piccola creaturina. Senonchè l’ambiente, invece d’una prigione,
era una magnifica ed ampia stanza da letto splendidamente addobbata, la
quale di prigione non avea altro che i robusti usci serrati e le grosse
spranghe di ferro che ne sbarravano le finestre.

Tenuta desta dallo inconsueto e strano martellare di Terremoto — da
molte ore — stava Bianca vegliando, sospesa sempre, tra la paura e la
speranza.

Dire quale tumulto di affetti suscitasse nel di lei animo l’apparizione
improvisa del suo antico e fedele familio, non è attributo concesso
alla fredda parola del narratore.

Ella fu sul punto di svenire.

Terremoto si struggeva pel desiderio di interrogarla. Ma, in quel
medesimo punto, un pallido raggio di sole, che penetrava per le
socchiuse imposte ed uno scricchiolìo, che si fece sentire nella camera
attigua, lo consigliarono a temporeggiare e a riguadagnare sollecito la
propria prigione, dopo aver mormorato all’orecchio della signora.

— Tenetevi pronta!... bisogna scappare!

Lo scricchiolìo era prodotto da una chiave che girava nella toppa.

A pena, infatti, Terremoto fu rientrato nella camera dei tormenti,
che l’uscio se ne schiuse ed un grosso omaccione, dalla grinta tutta
butteri di vaiuolo e bitorzoli vinosi, vi si fe’ inanzi, dondolandosi a
mo’ d’un papero, e recando nell’una mano una scodella di cattiva zuppa
e nell’altra un piccolo orcio ripieno d’aqua.

Il mazzo di chiavi che gli penzolava dalla cintola lo denotava a
sufficienza pel carceriere.

Costui s’introdusse sbadatamente nella sala della tortura, senza sapere
con quale razza d’uomo si avesse da fare.

I berrovieri che, il dì inanzi, s’erano impadroniti di Terremoto
— cacciatolo entro quella sala, come l’unica spiccia, e scioltolo
affrettatamente de’ molti vincoli, onde lo aveano stretto — non
ad altro pensarono se non ad uscirne, con l’ali ai piedi, ed a
rinchiuderne la porta a chiavistello con la chiave che trovavasi
di consueto in su la toppa e che — solamente dopo quella cattura —
l’uno d’essi tolse dalla serratura e consegnò al carceriere, affinchè
l’aggiugnesse allo enorme suo mazzo, ma senza — per altro — porgergli
schiarimento ed aviso alcuno circa il novello suo carcerato.

Egli è però — ripetiamo — che costui si fece innanzi, con la sua
brocca d’aqua nell’una e la sua scodella di melopia nell’altra, senza
dubitare, nemmeno per sogno, d’aversi a trovare di fronte d’un uomo,
che — se manco ignorato — potea lasciare di sè la fama istessa del
mitologico Ercole e del biblico Sansone.

Questi — per contro — era tanto in su lo aviso che — fossero pur stati
dieci, e non uno solo, gli uomini, che sovraggiungevano a visitarlo
— egli avea già seco medesimo divisato di combatterli e sterminarli
tutti.

Figuriamoci poi trattandosi di uno solo!

Povero carceriere!

Non era egli, infatti, così entrato nella prigione e mentre stava
tuttavia girando intorno intorno l’occhio imbambolato, per riconoscere
il suo nuovo pigionale; che due branche di ferro lo azzanarono a’ lombi
e, sollevatolo di pianta, lo slanciarono a fracassarsi il cranio contro
i denti ferrati d’una ruota da supplizio.

Il misero — a pena si sentì, in tal maniera, aggredito — lasciò
cascarsi l’orcio da un lato e la scodella dall’altra ed — agitando
disperatamente le braccia — raccolse tutto il fiato, che avea ne’
polmoni, per mandar fuori un alto grido d’all’arme; ma fu sì rapido
ed inaspettato l’attacco, che il grido gli morì in un rantolo nella
strozza.

Battendo con la nuca sul ferreo ordegno, contro il quale Terremoto
lo avea scaraventato di tutta forza, l’osso craniale gli si spaccò in
due, come una boccia incrinata, e le cervella schizzarono a bruttare le
pareti ed il pavimento della lurida stanza.

Vistolo immoto, il gigante gli fu immediatamente sopra, gli staccò
dalla cintola il mazzo delle chiavi; indi volò alla porta, rimasta
semichiusa.

Ne uscì pian piano, la rinchiuse e la chiavistellò.

Per tal modo, egli assecuravasi che nessuno potesse entrare nella sua
carcere e scuoprire la morte del carceriere e la sua evasione.

Benchè tardo di mente, la gravità del pericolo, l’urgenza di scamparne,
gli davano una facilità di concezione che non era da lui.

L’uscio della camera de’ tormenti metteva ad uno angusto corritoio, il
quale — a destra — andava a sboccare in un’ampia sala, tutta contornata
di grezzi seggioloni a cuscini di cuoio e con in mezzo un grande tavolo
coperto da un negro tappeto. Probabilmente era la sala de’ giudizi: e
questa adduceva ad altre, che poi aveano sfogo su d’un cortile.

Da simil parte non poteva, dunque, convenire lo avventurarsi,
imperocchè fosse ovvio che — per quanto si dovesse approdare a un
egresso — tornava indispensabile il transitare per ambienti abitati
e custoditi sa Iddio da quale sterminato novero di servidori e di
sgherri.

Laonde Terremoto retrocesse e tentò l’altro ramo, che si prolungava a
sinistra.

Questo terminava ad una stretta e bassa postierla, al sommo della
quale, un piccolo occhio di pavone sbarrato di ferro, lasciava scorgere
chiaramente come, per essa, si potesse uscire liberamente all’aperto.

Era, di fatto, la postierla per cui si smaltivano i cadaveri de’ morti
in prigione, o sotto gli spasimi della tortura: una specie di porta
libitinense.

Felice dell’avventurata scoperta, il buon Rinolfo ne osservò
attentamente la serratura e si dispose ad esperimentarvi su — l’una
dopo l’altra — tutte quante le chiavi penzolanti dal grosso anello, che
teneva fra mani. Ma non ebbe mestiere di esaurire tale uggiosa bisogna:
al secondo giro della terza chiave la stanghetta della toppa cedette,
la pesante postierla girò silenziosa su’ propri cardini ed egli potette
convincersi di non essersi male apposto supponendo che, per essa, si
avesse direttamente adito fuori delle mura della cittadella.

In due salti, egli ritornò, quindi, alla camera dei tormenti, e,
da questa — sgattaiolando pel foro che egli stesso avea poco prima
praticato — passò in quella, dove trovavasi Bianca, e — senza
trattenersi in perigliose ed inutili spiegazioni:

— Seguitemi — le disse, con tono quasi imperioso — possiamo fuggircene,
senza alcun rischio.

La giovine donna lo guatò stupita, come mal sapesse acconciarsi a
prestar fede a quelle sue iattanti promesse; ma egli non le lasciò agio
nè di muovergli una domanda od una obiezione, nè di smarrirsi nei dubî
e nelle paure e — strettala per una mano:

— Seguitemi, madonna — le ribattè — seguitemi subito, o guai per
l’anima vostra!

Bianca, dominata, non ebbe cuore di muover verbo; si strinse al seno la
bambinetta, che le dormiva fra le braccia, e lo seguì.

Pochi minuti dopo erano fuori della cittadella.

La sera dello stesso giorno ricovravano nel casolare della Chiappa,
dove li abbiamo visti al principio di questo capitolo.




CAPITOLO LIII.

Stefanaccio.


Mentre la meschina donna — ravviluppata con la sua creaturina entro
un grossolano mantello, che il suo fido servo erasi fatto cedere in
cammino da un antico vassallo de’ Camia — cercava un po’ di riposo alle
fatiche ed alle emozioni di quella memoranda giornata; egli — Terremoto
— teneasi, come abbiam detto, in sentinella su la porta del povero
tugurio, affin di vedere se mai — per mala sorte — la sua fuga e quella
della sua signora fosse stata troppo presto scoperta e le cavallerie
del Farnese sguinzagliate a dar loro la caccia.

Nel caso di quella scoperta non c’era altro d’aspettarsi.

Stava da mezz’ora circa in quella postura, allorchè gli parve vedere
inoltrarsi alla sua volta una piccola forma umana che disegnavasi in
nero sul bianco della neve nel modo più strano e grottesco.

Le gambe — perchè due sole — comunque torte e bistorte, apparivano
pur sempre quelle di un uomo, ma il restante — le braccia lunghe
così che quasi toccavano il suolo; la testa avvallata in guisa tra
le spalle da non lasciare nessunissimo posto pel collo; i capelli
irsuti, scarmigliati, lunghissimi tanto da parere piuttosto un fastello
di vetrici o di sarmenti — aveva più che altro dello animalesco e
bestiale.

Terremoto che — lunghesso la via fornita — erasi andato agguerrendo ed
armando di tutto punto, onde essere parato ad ogni possibile evento;
s’impostò all’omero un grosso moschettone, sul quale s’era finallora
appoggiato e stette in attesa.

Quando l’ibrido personaggio, gli fu a portata dell’arma:

— Chi sei? cosa vuoi? — gli gridò con voce tonante.

— Ah, vi riconosco — gli rispose una voce rauca e belante — siete voi,
finalmente, Arcangiolo!

— Ma io non riconoscovi — fece Terremoto, senza levarsi il moschetto di
spalla — e se non vi decidete a ragguagliarmi, e presto, sul vero esser
vostro, giuro al cielo che....

— Non vi mettete in collera, per mia cagione... oh, sarebbe il peggio
de’ spropositi, in cui poteste incapare!... io non vi sono nimico;
al contrario, vengo a voi per faccenda, che v’ha a destare sommo
interesse; vengo a voi per incarico espresso di messere il conte
Giovanni Camia, il Grosso, buon’anima sua!

— Messere il conte?... ma egli è morto da omai nove anni buoni!

— Ed egli è appunto dal momento della sua morte, che io tengo questo
incarico per voi.

— Ma il vostro nome; dunque?

— Domine! e che non l’avete per anco indovinato? ma sono Stefanaccio,
il solo superstite de’ batellieri al navalestro della Nure, tra Camia e
Borgo San Bernardino.

— Oh, che Iddio vi danni — borbottò Terremoto — e perchè non dirmelo a
tutto prima?

E si rimise l’arma al piede, lasciando così che il mal sagomato
navichiere potesse accostarglisi liberamente.

Come gli fu così presso da poterne ben scorgere e riconoscere le laide
sembianze:

— Ah, siete proprio voi — riprese — non c’è rischio di prendere
equivoco.

Forse al lettore sarà caduto di mente; ma noi traemmo Stefanaccio in
iscena sin dal principio di questa nostra narrazione. Lo abbiamo visto
assistere alla tortura ed alla morte di Giovanni Camia, del quale era,
a un tempo e vassallo e figlioccio, e fargli un solenne giuramento, cui
la sua natura sovrammodo superstiziosa non gli avrebbe consentito di
mancare.

— E voi dite — continuò il gigante — che venite a me con un incarico di
messere il conte, già mio ottimo e riverito signore?

— Sì, Arcangiolo mio — rispose il batelliere — ed un incarico che, da
nove anni, mi pesa su la coscienza peggio del più grosso tra i sette
peccati capitali.

— E qual è, dunque? sentiamo!

Lì Stefanaccio gli narrò, in prima, tutte le sevizie e i
maltrattamenti, onde i Nicelli aveano reso vittime il loro antico
signore e, quando fu a dire del momento, in cui quella nidiata di
malandrini, chiamati dai due dei loro, abbandonarono, d’improviso
l’accampamento, non lasciandovi, a vegliarlo, chè un paio di scolte:

— Il conte — seguitò — gemeva e sbuffava corcato supino e col sollione,
che gli bruciava dritto dritto la cappa del cervello.... il pover’omo
avea una sete da Gesù Nazareno e strillava: «aqua! aqua!» ch’era uno
stringimento di core a sentirlo.... Io gliene recai un pochino nella
mia fiasca ed, appanciolatomi di costa a lui, glie ne dètti bevere....
Allora e’ mi guatò di sottecche e, riconoscendomi, mi pregò d’un
servizio e mi fece giurare su la salvezza dell’anima mia di adempierlo
scrupolosamente e di non farne mai verbo se non con la persona, cui
m’avrebbe mandato... questa persona, Arcangiolo, siete appunto voi.

— E cosa vi commise di dirmi?

— Siamo qui al punto.... Io vi ripeto le sue parole, una ad una, tali
quali gli uscirono allora di bocca.... Bada, Stefanaccio; mi disse, a
pena tu mi veda, e mi sappia finito, e corri subito a casa di Arcangelo
Rinolfo, il figliuolo dello antico mio castaldo, e a quattr’occhi,
senza che manco l’aria possa portarti via una parola, digli che, nel
core della notte, si rechi guardingo alla torre Farnese... sapete bene
dov’è la Torre Farnese?

— Sì, sì — rispose Terremoto.

— Adesso la è compiuta e ci risieggono anco dentro que’ cari commessari
di Sua Magnificenza il serenissimo nostro novo duca, che, per spellare
i poveri valligiani, sono il flagello vero di questi nostri paesi; ma
allora e’ non n’erano gittate che le fondamenta.

— Tirate inanzi, Stefanaccio.

— Che si rechi dunque di notte alla Torre e scenda nella casamatta di
destra, verso mezzodì... al piè della scaluccia, che vi conduce, si
situi dritto col tallone proprio rasente l’ultimo gradino e muti cinque
passi in avanti.... a capo di questi, si pieghi e presso lo zoccolo
troverà una pietra del pavimento con in mezzo un piccolo foro....
v’insinui un uncino, un ferro qualunque e tragga a sè la pietra,
che cederà facilmente.... sotto, c’è un còfano di legno di sandalo a
chiodetti di argento.... lo prenda, lo porti seco cautamente, e vada
subito a consegnarlo a donna Costanza Sforza di Santafiora, signora di
Castell’Arquato, dicendole: «questo è il cofanetto, di cui voi tenete
la chiave?»

— Eh sì, donna Costanza.... ma già da due anni, anche donna Costanza
non è più di questo mondo!

— C’è bene sempre il su’ figliolo, messer il conte Sforza Sforza, che,
avendone redato tutte le signorie e sostanze, terrà certo in sue mani
anche quella tal chiave!

— Per la croce.... che mistero c’è sotto in cotesto?

— Grave di molto, Arcangelo, pe’ giuramenti sacrosanti che il povero
messer conte esigette prima di confidarmi il suo segreto.

— E come non pensaste subito?...

— A pena lui morto, corsi diviato qui istesso; ma voi non ci eravate:
rimise allora la cosa all’indomani mattina; ma all’indomani il vostro
babbo in persona mi disse che avevate preso la via de’ monti, nè sapea
quando sareste per ritornare.... vi aspettai, vi aspettai, e son nove
anni che aspetto; ma, prima d’ora, non vi ho più riveduto.

— Avete ragione, Stefanaccio: e vi ringrazio anche per conto dell’anima
riconoscente del nostro defunto signore, che vi terrà conto di lassù
del vostro zelo e della vostra prudenza.

— Lo credete, sì, Arcangelo?

— Ne vo’ certo!

— Egli è che, quando il tiro secco mi colga, de’ conti da regolare
con Nostro Signore Iddio benedetto ce n’avrò parecchi e, se non è
appunto qualche anima buona che s’interponga a blandirne la collera,
temo forte, e dassenno, di non poter scampare a qualche briciolo di
arrostitura!

— Sperate! sperate!

— E non vi parrebb’egli che questa notte medesima fosse momento
opportuno?

— A far che?

— A compiere la missione che v’ha lasciato messere il conte Giovanni?

— Ma non m’avete detto che la Torre Farnese è già occupata da’
Commessari del Duca?

— Vero; ma io ci tengo le mie entrature.... Mastro Pietrone, il
custode, è mio zio dal lato di madre ed è uomo eretico a segno che
di vin battezzato non vuole udirne a parlare.... si potrebbe andargli
a fare una visita; io vi presenterei e, mentre si stesse trincando e
facendogli perdere, com’è facile, il lume della ragione, voi avreste il
campo....

— No, no: questa notte non posso....

— Non siete solo qua dentro?

— Non sono solo.

— E, s’è lecito?...

— Non è lecito, Stefanaccio.

— Bene, bene, come vi aggrada.... ma se in alcuna cosa vi posso tornare
giovevole.... gretto, salvatico, briacone anche se volete, ma sempre
pronto a rendere servigio a un vecchio amico: non avete che ad aprir
bocca.

— Vi ringrazio di nuovo, Stefanaccio; ma.... pel momento....

In quella s’udì un lontano rumore.

— Tsitt — fece Terremoto, protendendo inanzi il collo ed
accartocciandosi la mano intorno all’orecchio, affine di meglio
ascoltare — che è questo mai?

Stettero un momento in silenzio.

— E’ mi pare — fece Stefanaccio — che siano persone, e anche non poche,
dirette verso questa banda.

— Vi pare, sì?

— Lo giurerei.... giurerei eziandio che sono gente a cavallo.

— Santi del Paradiso!

— Cos’avete, Terremoto?

— Ho.... ho.... infine vel posso dire: ho che dentro questa misera
capanna ci stà nientemeno chè la misera nipote del nostro vecchio
signore...

— Donna Bianca della Staffa?

— Appunto.... donna Bianca della Staffa che io sono riuscito a
strappare dalle ladre ugne di monsignor il Duca.

— Gesummio.... cosa sento?

— E cotesti, che vengono, sono senza dubio suoi scherani sguinzagliati
su le nostre traccie.

— Cosa intendete fare?

— Non lo so, Stefanaccio, non lo so; ma difendere sino all’ultimo
respiro la mia giovine signora.

— Ed io con voi, Terremoto.... se nostro Signore Iddio non vuole
tenermi conto del poco bene, che ho fatto sinora, ce ne aggiungerò un
altro tanto, affinchè non mi possa niegare il suo perdono!

— Non c’è più dubio, Stefanaccio: sono uomini a cavallo.... chiudiamo,
chiudiamo la porta, asserragliamola, prepariamoci alla difesa.... oh,
perchè siamo d’inverno!

Il superstizioso Terremoto pensava sempre alla predizione di Gerolamo
Cardano: temeva si dovesse avverare e, non tanto per sè, come sempre,
quanto per l’amata persona, che trovavasi sotto il suo patrocinio.




CAPITOLO LIV.

Preliminari.


Erano, nel frattempo, ritornati di Milano i nostri due amici Anguissola
e Neruccio ed inutilmente avevano ricercato di Terremoto, acciocchè
gl’informasse della situazione delle cose: Terremoto non c’era. —
Voci vaghe e strane correvano, per altro, tra il popolo minuto ed in
particolare tra i birri ed i lanzichenecchi di palazzo. — L’arresto
del gigante e la sua fuga di cittadella, con una donna misteriosa,
ch’ivi il Farnese tenea serrata e prigioniera, non erano omai più un
segreto per nessuno. Solamente nulla se ne sapeva di certo: chi diceva
bianco, chi nero; chi ingrossava la faccenda sino a darle proporzioni
e caratteri fantastici, leggendari, diabolici; chi l’ammenciva al grado
di una ridevole farsa.

Posti in sospetto da un sì incerto ondeggiare di dicerie, i nostri
due amici pensarono venirne in chiaro col ridursi alla presenza del
medesimo duca. — Lo trovarono circondato da’ maggiorenti di corte;
il Filareto ed il Caro gli stavano a’ fianchi e — dietro tutti come
nascoso nella penombra, tenevasi un giovine paggio, che — al loro
ingredere — dètte un trabalzo e subito si allontanò. Non così presto,
tuttavia, che il conte Anguissola non avesse prima agio di fissargli
gli occhi negli occhi e di ravvisarlo.

Era Olimpia de’ Marazzani.

Partecipò, lì per lì, tale sua scoperta all’amico, il quale —
almanaccando in quel punto quale potess’essere la donna, che diceasi
fuggita insieme a Terremoto — ne fu tratto a conchiudere che — se non
era Olimpia — doveva essere necessariamente Bianca.

E un simile persuadimento gli cacciò una spina nel core.

Il duca li ricevette, con apparenza di cordialità e di sodisfazione; ma
non senza un cotal ghignolino sarcastico e malauguroso, che lasciava
indovinare com’e’ sapesse, o sospettasse almanco, la parte tutt’altro
che propizia a’ suoi fini ch’eglino aveano sostenuto nelle cose di
Genova.

E così Neruccio, come l’Anguissola lessero chiaro in quel ghigno la
loro sentenza: la mano, che loro stendeva il principe, era coperta di
un morbido guanto di velluto; ma quel guanto celava a stento artigli di
ferro acuti e retrattili.

Bisognava pensare a uno scampo.

Mentre stavano interrogando questo e quello su i casi, di cui aveano
inteso ciaramellare popolino e sbirraglia; un novo personaggio fece
irruzione nella grande sala ducale. Era il Trentacoste.

Pierluigi — malgrado gli acciacchi, che lo chiovavano su l’ampio suo
seggiolone — si drizzò in piedi sollecito e mutò un passo per muovergli
incontro.

— Ebbene? — domandò ansioso al suo capitano.

Costui gli si abassò quasi all’orecchio, susurrandogli alcune parole,
che a lui dovettero tornare oltremodo gradevoli, poichè:

— Potenzinterra! — sclamò, giugnendo le mani in atto di gioiosa
meraviglia — tu se’ così fortunato e felice nelle intraprese tue,
Trentacoste, ch’io vuo’ perderci il nome se non ti fo’ patrizio e
cavalier speron d’oro.... comecchè vi si opponga il tuo nascere e poco
legittimo e niente affatto illustre!

— Vostra Magnificenza mi ricolma — fece inchinandosi, lo scherano.

— Sei tu, invece — gli rispose il duca, stendendogli amichevolmente la
mano e riassidendosi barcollante — sei tu, che ricolmi il tuo sovrano
di gioia, e il tuo sovrano, rammentalo bene! non iscorda mai nè i buoni
servigi nè i tradimenti e sa, del paro, compensare gli uni e gastigare
gli altri!

E, in ciò dire, lanciò una bieca occhiata su l’Anguissola.

Il conte strinse di sottomano il gomito all’amico e gli mormorò:

— È d’uopo romper gl’indugi!

Ed uscirono, senza nulla aver potuto appurare delle dicerie che li
interessavano.

Una volta fuori del palazzo, l’Anguissola si portò alla propria casa,
d’onde spiccò immediatamente un corriere suo fidato a don Ferrante
Gonzaga a Milano.

Con questo principe egli aveva già scambiato molti propositi per
liberare Piacenza dalla odiosa signorìa farnesiana e darla in
sudditanza dello impero.

Vari — come già ci accadde indicarlo — erano gli argomenti di livore
che il governatore di Milano covava in animo contro Pierluigi Farnese.
Oltre a’ dissensi avuti secolui pel Priorato di Barletta e i possessi
Dalvermeschi del Romagnese, altri motivi di dissidio faceva sorgere
egli medesimo adesso, con le sue pretese sul castello di Poviglio e le
terre di Soragna scadute dai Lupi nei Meli. Ed, a maggiormente aizzare
il suo imperiale signore contro il novo duca di Piacenza, non ristava
dal mettergli continuamente sott’occhio i costui amori per la casa e la
signoria di Francia, e la sua immistione nella congiura de’ Fieschi,
e il malgoverno che faceva delle cose e de’ sudditi, ond’era stato
infeudato.

Carlo V chiudeva un orecchio ed apriva l’altro a siffatte denunzie e
— se esitava nel dare un assenso alla macchinazione tramata dal suo
luogotenente contro colui, ch’egli s’ostinava a chiamar sempre: il duca
di Castro — era unicamente in riguardo della propria figlia Margherita,
che — volere o volare — trovavasi stretta a costui con vincoli di
sangue.

Ma — dinanzi alla ragione di Stato — i vincoli di sangue si allentano
sempre e — dàlli e dàlli — anche il sommo monarca di Lamagna finì
a lasciarsi cascare il capo sul petto in modo così equivoco, che il
Gonzaga s’ebbe tutta agevolezza di prenderselo per un segno adesivo.

S’affrettò, quindi, a intendersi con l’Anguissola e col nostro
Neruccio, che il suo fedel Gozzelini gli avea designato come i due
uomini meglio acconci a condurre l’ardua faccenda a buon porto.

Ma l’Anguissola — nelle sue trattative col Gonzaga — voleva, a giusto
titolo, mandare inanzi il debito di buon cittadino e di patriota alla
sodisfazione del proprio risentimento: esigette, quindi, che alla città
sua, a lui ed a quanti contava aversi compagni nel periglioso cimento,
venissero fatte ampie, profittevoli e secure condizioni.

Le prime di tali condizioni, accettate da don Ferrante, erano contenute
in una nota d’istruzioni, che egli stesso dètte al capitano Federigo
Gazino e che suonavano così:

«La prima, che mandano ad offerire della città (Piacenza)
all’Imperatore, et a me, come suo luogotenente, con che dentro il
termine di un giorno mi debbia risolvere di accettarla insieme con le
altri conditioni, che si dicono appresso, altramente, che, passato il
termine di un giorno s’intendono esser liberi di tale offerta; perchè
havendo a far con nemici tanto potenti, non si assecureno di star
senza patrone, per non haver forze bastanti a poter difendersi per se
stessi, et che quando non possano havere Sua Maestà per patrone, come
desiderano essi, non ne mancherà loro degli altri.

«La seconda, che vogliono, ch’io prometta loro di far che tutti i
feudatarj così di Piacenza, come di Parma, venghino alla devotione di
Sua Maestà, et a quelli che recusassero si confiscassero i beni.

«La terza di far, che Sua Maestà non facci relassar Pierluisi per
assecurarsi di non haver andar a dar conto a Parma.

«La quarta, ch’io abbia a procurar, che la città di Parma si reduca
alla medesima devotione, et obedientia di Sua Maestà, acciocchè
rimanendo quella città sotto altro patrone non havesse a causar guerra
nel paese con rovina, et destruttione d’ambedue dette città.

«La quinta, ch’io non habbi a disponer de la persona di Pierluisi
finchè detta città di Parma non sia in potere di Sua Maestà.

«La sesta ed ultima, che di quello fussi seguito il dì del caso, o
di morti homini, o di guadagni facti non si abbia a parlar, nè cercar
conto, ma reputarsi, et tenersi come cose fatte, et acquistate di buona
guerra.»

Ed è grazioso l’osservare come ad un omicidio ed un sollevamento
di popolo premeditati e, con ogni finezza di avvedimenti e cautele,
complottati e condotti, si dèsse lo ingenuo e semplice nome di _caso_;
non altrimenti che, de’ giorni nostri, ad un _caso_ di vaiuolo o di
colèra.

Ma di quelle sei condizioni, i congiurati non si chiamarono per
sodisfatti. E’ sapeano bene — per lunga sperienza — che — nel volersi
sottrarre alle prepotenze di un Pierluigi Farnese, per affidarsi alla
protezione di un Ferrante Gonzaga — il misero burchiello delle loro
aspirazioni e speranze rischiava molto d’andar sbattuto fra Scilla
e Cariddi, imperocchè si potesse dire di quei due che, se quello un
galeotto, e questi un marinaro. Laonde — mentre si ribellavano contro
le bricconate dell’uno — studiavano premunirsi contro le presumibili
insidie dell’altro.

Non tornava, per altro, agevole troppo il condurre don Ferrante a fare
in tutto e per tutto il piacer loro e — prima che fossero giunti a
mettersi secolui di accordo — ce ne volle del bello e del buono.

Intanto sopravenne novella cagione d’indugio.

Il Duca Ottavio — come n’ha lasciato scritto il buon padre Affò
— partitosi dalla Corte Imperiale senza aver nulla rilevato delle
trame già ordite giunse in questi giorni a Piacenza vicino al padre.
Questo inaspettato arrivo parve di grande ostacolo all’impresa, della
quale impazientissimo dimostravasi l’Auguissola, e davasi a conoscere
deliberato di ultimarla a tutto costo. Conobbe don Ferrante macchinare
i congiurati fra loro di voler ammazzare Pierluigi; della qual cosa
mostrò dolersi, e chiesta la mente loro, e raccomandata la persona
d’Ottavio genero dell’Imperatore a’ medesimi, ebbe in risposta che non
si assicuravano di poterlo salvare.

L’odio dell’Anguissola, semprepiù aizzato dalla recente vista d’Olimpia
Marazzani, e quello di qualcun altro fra’ compagni suoi, era giunto a
tale, che — ne’ loro sanguinarî proponimenti — e’ chiarivansi pronti ad
ogni estremo, pur di finirla. Ma il Gonzaga fece tanto «che promisero
di star a segno sino alla partenza di Ottavio.»

Il duca di Camerino arrivò a Piacenza su i primi di agosto, poco dopo,
cioè, che sua sorella Vittoria fu andata sposa a Guidobaldo Dalla
Rovere, duca d’Urbino, e che il suo fratello naturale Orazio s’ebbe
impalmato in Francia la figlia adulterina di re Enrico II e della
contessa d’Estampes; e vi si trattenne sino al penultimo giorno del
mese istesso, nel quale trasse per alla volta di Roma.

Nel frattempo, e col proposito forse di conciliare un po’ al padre
l’animo de’ cittadini, che ben gli riconobbe alieno ed avverso,
massime in causa del pazzo dispendio occasionato dalla costruzione
del castello; e’ si mostrò oltre ogni dire manieroso ed affabile e
cercò mansuefarli con ogni maniera divertimenti e sollazzi, tra cui
una grande giostra tenuta il giorno di San Bartolomeo. Ma non approdò:
pochissime dame v’intervennero e le sue blandizie caddero tutte a terra
come freccie spuntate.




CAPITOLO LV.

P. L. A. C.


Oltre il Po, tra Piacenza e Casalpusterlengo, sorgeva allora un
vecchio castello feudale, di cui si veggono anche oggidì le ruine, che
apparteneva a don Luigi Gonzaga, signore di Castiglione delle Stiviere
e cognato del conte Giovanni Anguissola.

Ivi — nella notte del 9 settembre 1547 — trovavasi un grosso di
signori, per il più piacentini, radunati intorno a due emissarî di don
Ferrante, ossia il suo segretario Gaspare Gozzelini, di nostr’antica
conoscenza, ed il suo capitano Federigo Gazino.

I signori, che a questi facevan corona, toccavano circa la quarantina
ed — oltre il conte Anguissola ed il nostro Neruccio, sempre celato
sotto il pseudonimo di Giovanni Osca da Valenza — erano: altri
due Anguissola, il conte Francesco Maria ed il cavaliere Annibale;
due Cavalcabò, Vincenzo e Carlantonio; due Pallavicino, i marchesi
Alessandro e Camillo da Scipione; il conte Olderigo Scotti, il conte
Agostino Landi, Giuseppe del Pozzo, Franceschino Malvicini, Gianluigi
Confalonieri, Diogene Doria, Vincenzo da Narni, Giuliano Mancini,
Gaspare Paveri, Filippo Arcelli, Giulio Ziani, Pierantonio Gramigna,
Giorgio di Verona, Gianluigi Lusardi, Francesco Mandola, Battista
Rosignoli, Giovanni Buratto, Antonio Mannini, Pietro da Monza,
Francesco Dell’Angiolino, Giacopino Musso, il capitano Antonio Ugoni,
Ercole Malerba, Girolamo Solero, Aurelio Buzzoni, Domenico Barili,
Francesco Maria Marconi, Andrea Bracco ed Opilio Pallini.

Fatto silenzio, dopo un primo scambio di saluti e di strette di mano,
il Gozzelini si trasse un largo foglio di tasca e lesse:

«Oltra gli altri capitoli concessi et sottoscritti di mia mano sotto
li 30 di luglio proximo passato al conte Giovanni Angusciolo, e agli
altri, che intervengono nel trattato di dar a S. M. Cesarea la città
di Piacenza, si concedono li due infrascritti: e prometto che S. M. li
osserverà, et farà osservare.

«Il primo, che Sua Maestà ridurrà l’entrate di detta città pertinenti
alla Camera a quel segno, che erano in tempo che detta città era ad
obbedienza della Sede apostolica, et che si exigeranno in quel modo, et
forma, et per quella sorta di officiali, et ministri, che si exigevano
in detto tempo senza alterar in ciò cosa alcuna.

«Il secondo, che S. M. farà, che tutte le cause da mille scudi abasso
s’habino a decidere in Piacenza per li officiali deputati da S. M. in
essa città, senza poter essere tirate a Milano, nè in la prima, nè in
la seconda, nè in la terza instanza, così come si osservava al tempo
della Sede Apostolica.

«Dato a Milano il 3 di agosto 1547.»

Come si vede, l’Anguissola preoccupavasi principalmente degli interessi
della sua città natale. Ma tutto ciò non era ancora bastevole per
tranquillare le sospettose paure degli uni e per appagare la cupida
avarizia degli altri. Di tutti i tempi, le congiure non sono mai
altro che la cospirazione ad un medesimo fine di tanti e disparati
rancori, interessi e propositi. Chi mira solo a trar vendetta di un
nimico aborrito, chi a liberare la patria da una esosa tirannide, chi
a salvare sè stesso da minacciata rovina, chi a sgravar di balzelli e
la città e gli averi propri, chi un po’ all’uno, un po’ all’altro, un
po’ all’altro ancora. Bisognava dunque contentarli tutti, e gli otto
capitoli sino allora concertati non riuscivano sufficienti all’uopo.
Però l’Anguissola avea, di bel novo ed a lungo, dovuto tirarsi pe’
capegli col governatore di Milano e co’ suoi delegati e non era
approdato a qualche buon risultamento, se non giuocando a rimpiattino
con la testa del giovane Ottavio Farnese. Aveva detto: «O concedermi
quanto desideriamo od ammazziamo anche lui!» E Don Ferrante — onde
salvar la testa al genero del suo augusto signore — aveva dovuto
concedere.

Finita che il Gozzelini ebbe la sua lettura:

— Non basta!... non basta! — sorsero a protestare diversi ed, in
particolare, i fratelli Pallavicino ed il conte Scotti.

— Lo so, che non basta — fece alteramente l’Anguissola — ed eccovi
perciò appunto messer Federigo Gazino, che sta dando mano ad un secondo
foglio per leggervi ciò che vi manca.

Il Gazino, infatti, s’era avanzato nel mezzo il circolo de’
cospiratori, e si teneva una carta sotto il naso, in atto di leggere.

— Silenzio!... badiamo!... — mormorarono taluni.

Ed egli lesse:

«Capitoli concessi al conte Gio. Angosciolo in Milano a li VII
settembre.

«Oltre gli altri capitoli concessi per me in nome di S. Maestà al conte
Giovanni Angosciolo seguendo l’effetto del trattato di Piacenza, si
concedono anchora li due infrascritti, cioè:

«Che de li omecidii, che seguissero in la città il giorno del _caso_
(!) non sarà adomandato conto nè ragione, nè similmente di robbe, et
denari, che fussero stati acquistati in qualsivoglia modo, ma che tale
robbe, et denaro saranno tenuti per acquistati a buona guerra.

«Perchè la città di Piacenza dice, che in tempo dei Duchi di Milano
era assai aggravata in le cose dell’estimo, si promette fare, che sia
disgravata, et reducta a quello, che si troverà convenirsi di ragione,
et oltra questo, che in le impositioni, et graveze extraordinarie, che
s’imponeno a lo stato di Milano, sarà sempre della terza parte de la
portione, che toccasse ad essa.»

I congiurati si dichiarano pienamente sodisfatti.

— Ora — soggiunse il Gozzelino trattosi in mezzo a loro — l’alto
ed illustre mio signore ha già reso d’ogni cosa partecipe l’augusta
persona dello imperatore Carlo V e tiene già in pronto quattrocento
cavalli bene agguerriti, onde, a pena spiccia la faccenda di
Pierluigi, volare all’occupazione di Parma... guai se a questo non si
provedesse!... restando Parma in potere del papa non è a dubitarsi che
subito guerra ne scoppierebbe e bisogna evitarla a ogni costo.

— E Sua Maestà — interpellò il conte Landi — ha dato l’adesione sua
agl’intendimenti del magnifico vostro signore?

— No, messere il conte — fece scaltramente il segretario — ma il mio
signore ha saputo trovare il modo di farne senza... ed eccovene la
prova in questo brano di lettera, che io medesimo ho scritto per lui
alla Maestà Sua.

E lesse ghignando ciò che segue:

«..... come la M. V. vederà, v’è un capitolo, per il quale mi si dà un
giorno di tempo, et non più ad accettar o no l’offerta, in virtù del
qual capitolo vengo posto in necessità di accettarla senza consulta di
V. M. per non lasciarla andare in mano de’ francesi. Et per questa via
pare a me, che non solamente io vengo scusato del fatto; ma V. M. molto
più justificata, che non seria in caso, ch’el negocio si diferisse
fin a poterlo consultare con essa: perchè aspettando a quel tempo a
far l’effetto, pareria fatto di ordine et con sentimento di lei; dove
facendosi di presente non si può conjetturare che essa vi habbia avuto
parte.»

Un mormorio d’ammirazione scorse per l’assemblea. Tutti s’inchinarono
dinanzi alla politica scalabrina del duca di Guastalla, il quale
preludeva, trecento anni sono, all’arti oggidì tanto decantate dei
Talleyrand, dei Metternich e dei Bismark.

— Egregiamente! — sclamò il Confalonieri.

— E come divisate menare a fine l’impresa? — ripigliò il Gozzelino.

— Oh, semplicemente — fece l’Anguissola — domani istesso la faremo
finita.

— Domani? — susurrarono alcuni meravigliando.

— Sì, sì — continuò il capo del complotto — ogni remora ormai può
tornarci fatale e disastrosa.... domani!... Cinque di noi, designati
dalla sorte, capitaneranno i restanti.... procediamo immediatamente al
sorteggio.

Francesco Maria Marconi che — come uomo di lettere — aveva recato seco
il necessario; trasse la carta, le penne d’oca ed un piccolo calamaio
di peltro e — situato il tutto s’un largo tavolo, che occupava un canto
dello stanzone — invitò i compagni a scrivere ciascuno il proprio nome
su di altrettanti quadrucci, che, arrotolati, vennero quindi raccolti,
come in un bossolo, entro il morione del capitano Antonio Ugoni.

Opilio Pallini — perchè il più giovine de’ radunati — s’ebbe allora
l’incarico di rappresentare la cieca figlia del caso ed estrasse cinque
rotoletti dall’elmo.

Lo stesso Gozzelino — come il più imparziale, perchè non attivamente
implicato nella congiura — sciolse le cartoline e ne proclamò ad alta
voce il contenuto.

Il primo rotoletto diceva:

— Pallavicino conte Alessandro.

Il secondo:

— Pallavicino conte Camillo.

Il terzo:

— Landi conte Agostino.

Il quarto:

— Anguissola conte Giovanni.

Il quinto:

— Confalonieri Gianluigi.

— Fatalità e destino! — gridò il conte Scotti, a pena ebbe udito que’
cinque nomi.

Il conte Olderigo Scotti si dilettava un poco d’alchimia e di scienze
occulte ed era però tenuto nell’alto concetto di una sorta di mago.

— Perchè? — gli chiesero alcuni.

— Badate alle iniziali di que’ cinque nomi — rispose lo Scotti —
Pallavicino, Landi, Anguissola, Confalonieri; PLAC.... _Placentia_:
nessuno meglio di loro avrebbe potuto rappresentare e fare le vendette
della nostra città: è Dio che lo vuole!

— Plac.... Plac!... — ripeterono molti — ebbene: sia questa la nostra
parola d’ordine, il nostro segno d’intelligenza.

— Domani mattina all’alba — fece solennemente l’Anguissola — troviamoci
tutti su l’altra sponda del fiume.

— A domani!... a domani!... — risposero i congiurati.

— Ed ora.... separiamoci!...

Ed uscirono dal castello alla spicciolata.




CAPITOLO LVI.

Dio non paga il sabato.


Arrivato il primo al castello di Luigi Gonzaga, il nostro Neruccio
fu l’ultimo ad uscirne. E fu l’ultimo per molte e diverse ragioni.
Anzitutto il suo amico Anguissola lo avea incaricato di regolare e
dirigere tutto ciò che concerneva quel loro notturno e misterioso
convegno. Gli era occorso però di precedervi gli altri, affine di
disporre alquanto la sala, che li doveva accogliere, e le scuderie, in
cui riporre le loro cavalcature. Così gli facea d’uopo rimanervi dopo
tutti, onde chiudere le porte dietro di loro ed invigilare a che nulla
mancasse al momento della loro partenza.

Il castello, di cui Luigi Gonzaga avea rimesso le chiavi al proprio
congiunto era affatto inabitato e diserto.

Poi, a trattenere Neruccio, concorreva una serie di tristi pensieri, di
penosissime conghietture.

Un segreto impenetrabile erasi sempre addensato intorno a Terremoto e
alla donna, che, secondo il dire della gente, il colosso avea strappato
dalle carceri della cittadella.

Chi poteva essere questa donna?... cos’era accaduto di lui?

Tali le domande, che, da lunga pezza, gli mulinavano in cervello, ed
alle quali non avea mai potuto fare nessuna risposta.

Nel convegno di quella notte, per altro, qualche sprazzo di luce
s’era insinuato fra le tenebre de’ suoi dubî e delle sue paure.
— Taluni de’ congiurati credeano saper qualche cosa di quanto sì
vivamente lo interessava. — Chi diceva la donna una delle molte
concubine di Pierluigi, che — stanca di vivere al di lui fianco —
avea fatto scappare di cittadella un prigioniero, mettendogli a patto
di pigliarsela seco nella fuga: gli uomini del duca li avrebbero
inseguiti, raggiunti e massacrati tutti due. — Altri pretendevano,
invece — ed era tra questi il capitano Ugoni — che quella fosse una
povera creatura, rapita e tenuta captiva dal duca, e da un antico
servo di sua famiglia, un gigante, a ciò che si narrava, tratta
prodigiosamente a libertà ed a salvamento. E questa versione rispondeva
a puntino alle supposizioni di Neruccio, o — direm meglio — all’intima
voce del suo cuore.

Il misero giovine sbattuto da un continuo alternìo di timori e speranze
per mezzo il pelago delle incertezze; era rimaso a meditare su i
proprî casi, dimentico omai che i suoi compagni lo avessero da lungo
abbandonato.

Si scosse, finalmente, ed uscì dal castello; ma — nel mentre girava
intorno alla sua muraglia esterna, per raggiungere il proprio cavallo,
che aveva attaccato ad un albero, onde non ingombrare di troppo le
anguste scuderie — un romore improviso lo colpi e lo trattenne.

Era il calpestio di due persone, che s’avvicinavano, camminando caute
e sarebbesi detto in punta di piedi. Egli si schivò rapido dietro il
pilastro di una stecconaia e stette ad osservare.

Quando gli furono presso, scôrse ch’erano due uomini di bassa statura,
i quali si accostavano in silenzio a un punto della campagna, in cui
spiccavano due forme nere: i loro cavalli.

Nel passargli accanto, l’uno richiese all’altro sommessamente:

— Afete botute ascoldare?

— Parola per parola — gli rispose l’interrogato — a momenti vi narrerò
tutto: oh, è una cosa tremenda!

La voce di costui produsse uno strano effetto su l’animo di Neruccio:
credette riconoscerla e — senz’attender altro — sgattaiolò pian piano
sino a raggiungere il proprio cavallo e gli balzò in sella.

Nel tempo medesimo i due sconosciuti avean fatto altrettanto e già si
slontanavano di trotto.

— Sono spie! — pensò Neruccio.

E — cacciati gli sproni ne’ fianchi del suo cavallo — si slanciò a
briglia sciolta dietro di loro, gridando a squarciagola:

— Traditori! traditori! fermatevi!

A tale intimazione, anche coloro, cui veniva indiretta, si dèttero
a scappare con tutta velocità e si sarebbero indubiamente sottratti
amendue al pericolo, che li minacciava, se il cavallo di uno di
loro — incespicando contro un grosso macigno — non fosse d’improviso
traboccato a terra.

L’altro tirò via ed, in breve, disparve.

Neruccio raggiunse il cavaliero caduto, scese di sella e lo sollevò.

Affisandolo in faccia, comunque al debole chiarore della notte, subito
lo riconobbe: era la stessa persona, con la quale s’era scontrato e
battuto ne’ pressi di Perugia, era la terribile Olimpia Marazzani.

Come?... perchè in quel luogo?

Facile a spiegarsi.

Da parecchio tempo, profittando della circostanza che l’Anguissola, suo
spauracchio, trovavasi a Genova per la faccenda de’ Fieschi; ell’aveva
lasciato Castro e gli abiti muliebri, per rimettersi in ispoglie virili
e recarsi a Piacenza. Pellegrino di Leuthen le era — come di solito —
compagno.

Ritornato il conte, la prudenza avrebbe dovuto consigliarla ad
allontanarsi di nuovo; ma il contegno di lui e di alcuni altri
gentiluomini di corte la pose in allarme. Ella sola per prima e forse
unica concepì il sospetto che qualche oscura cosa stessero insieme
macchinando a pregiudizio del suo amante e signore e si propose
spiarne, scuoprirne, sventarne le trame.

L’astuto tedesco serviva egregiamente a’ suoi fini: e’ sapeva — come
suol dirsi — dove il diavolo tenesse la coda e le forniva i più esatti
e minuti particolari su le abitudini e le pratiche di coloro ch’ella si
prefiggeva di tener d’occhio.

Per tale via seppe del convegno loro al castello di Luigi Gonzaga.
Vi si recò di buon’ora; fece nascondere il proprio ed il cavallo di
Pellegrino dietro un fitto d’alberi e — mentre questi stava in vedetta,
acciocchè nessuno potesse sovraccorli e sorprenderli alla sprovista —
ella s’insinuò strisciando carpone fino al vano di una finestra, d’onde
si ripromise, e le riuscì, infatti, di udire e vedere tutto ciò che si
dicesse e facesse dai congiurati.

Terminati i loro armeggiamenti, ella si trattenne ancora a lungo
al proprio posto, non volendo scostarsene, sino a che tutti, insino
all’ultimo, se ne fossero iti. Ma non fece attenzione o — per meglio
dire — non potè pensare a Neruccio, che accidentalmente soltanto erasi
tanto più degli altri indugiato.

Come l’ebbe riconosciuta:

— Ah! ah! — sclamò egli in tono di trionfo — la Marazzani?... colei,
che io ho scannato alle porte di Perugia?... colei, che è morta e
seppellita nel convento de’ padri Agostiniani?... ah! ah! ora tu più
non mi sfuggi!

Ed — abbrancatala a’ fianchi — la sollevò di peso e la trasse con sè
sul proprio cavallo.

Olimpia fremeva di rabbia: era pallida come un cadavere.

— Per Iddio! — fece il giovine capitano, come si fu messo all’ambio
— è un onorevole mestiere quel che tu fai; ma la tua mala stella ti
vieta di cavarne alcun frutto!... Tu se’ la druda di quello scellerato
del Farnese; tu hai voluto interessarti più che a donna non si competa
delle faccende sue; hai sperato scongiurare la tempesta, che si aduna
sovra il suo capo maledetto, hai sperato prevenirlo in tempo; sottrarlo
al pericolo, che lo minaccia; salvarlo; ma tutto indarno: eccoti
ridotta all’impotenza!

— Lo so; oh, lo so! — disse la donna, co’ denti stretti — traggiti
pure lo stile di cintola ed assestamene un colpo nel cuore, ch’io nè
implorerò misericordia, nè metterò il più debole lagno: sono parata
a tutto!... La vita è guerra continua che gli uomini si menano a
vicenda: quando l’un prevale e l’altro soggiace, questo, se ha senno,
non debbe dare a quello anco il godimento della propria umiliazione.
Ed io non tel darò, stanne certo. Uccidimi, è il tuo dritto; ma non
allegrartene tanto, che, prima che io muoia, t’ho già fatto tanto male
in prevenzione, da lasciartene grossa parte in retaggio.

— Che male m’hai tu fatto?

— Non se’ tu l’amante di Bianca della Staffa?

— Sì... lo sono, lo fui!

— Ebbene, mio bel capitano, conosci tu quale sia attualmente la sorte
di quella dilettissima tua?...

— Oh, darei una parte del mio sangue a saperlo.

— Non darai nulla e lo saprai parimente.... Ti ricorda della sua
disparsa da Castel Leone di Cremona?... fui io, io con Pellegrino
di Leuthen, che la indussi in abbaglio, la eccitai a seguirci e la
tradussi in balìa di Pierluigi Farnese.

— Oh, ma perchè... scellerata?

— Perchè la sua ritrosia, la sua castimonia mi ferivano nell’amor
proprio; m’erano come un rimbrotto; perchè volevo avvilirla.

— Iniqua.

— E ci sono riuscita, e più ancora di quanto non isperassi.... Ella
volle bensì scampare, per tutte le vie, al destino, che le sovrastava;
strillò, si svelse i capegli, battè del capo nel muro per darsi la
morte; ma a nulla le valse; c’ero io, io, che prestavo mano ed aiuto al
mio vendicatore e, fra tutti due, riuscimmo ad averne ragione.

— Infame!

— Da quel giorno, o.... piuttosto.... da quella notte, ella languì
in un ritiro della cittadella di Piacenza; ma, da quella notte.... fu
madre.

— Che dici tu?

— Il vero, mio bel capitano, null’altro che il vero.

— Anima d’inferno!

— Ultimamente, uno de’ suoi antichi vassalli, il suo fedel Terremoto,
giunse a strapparla da quel ritiro e la trasse, con la sua creatura,
nella propria casuccia del Valnurese....

— Ah, non mi hanno, dunque, ingannato!

— No, no; ma a nulla le valse.... gli sgherri del duca s’ebbero
ragione del formidabile villano e gli ritolsero la sua signora....
Ti ricordi il giorno, in cui tu e l’Anguissola, reduci da Milano,
veniste alla presenza del duca?... ti ricordi che, in quel momento,
arrivò il Trentacoste e gli mormorò all’orecchio una notizia, che parve
ricolmarlo di gioia?...

— Ebbene?

— Ebbene: Trentacoste gli annunziava appunto che Bianca della Staffa
era stata ritolta al gigante e riconfinata nella sua muda.

— Maledizione!

— Nevvero ch’io t’ho preparato un sorridente avvenire?

— Ma vero è altresì che io ti scannerò in questo punto medesimo.

E sguainò ferocemente il pugnale.

— Fallo — disse Olimpia imperterrita e quasi con un soghigno di sfida —
ci sono pronta.

Neruccio era demente d’odio. Stette un momento col ferro sospeso sul
petto di quella femina scellerata; poi — rinvaginandolo:

— No — soggiunse, crollando il capo — la morte è troppo poco pe’ tuoi
misfatti: ci vuole di peggio.

Olimpia allibì.

— Cosa intendi fare? — gli chiese.

— Lo saprai fra breve!

E spronò il cavallo al galoppo, e non disse più verbo.

Traversato il Po s’un burchiello menato da quattro uomini della sua
compagnia d’arme; e’ giunse pochi istanti dopò a Piacenza.

Nella sua qualità di capitano a’ soldi di monsignore il duca, e’
comandava un corpo di ottanta lanzi, che tenevano caserma presso
l’entratura della città. Il suo pensiero di vendetta era infernale.

Arrivato dinanzi alla caserma; smontato d’arcione, trascinandosi
dietro Olimpia; penetrò, con essa, dentro i quartieri e — a mezzo del
trombetta — fece svegliare e raccorre i propri uomini d’arme.

Come se li ebbe tutti d’attorno, affollati nella più grande sala del
luogo, e’ spinse loro trammezzo la Marazzani, sciamando:

— Figliuoli! costei, che vedete sotto abiti d’uomo, non è, invece,
che una donna, una giovine donna, che vi abbandono.... fatene ciò che
volete.

Olimpia mise un urlo.

E noi tireremo una pietosa cortina su ciò che ne fecero ottanta
lanzichenecchi, la maggior parte spagnuoli, svizzeri e tedeschi.

Ed egli — Neruccio — tenendosi, con le bracci conserte, su la soglia
del vasto stanzone, assisteva al mostruoso saturnale.

La misera — cui, nella lotta, erano cadute di dosso sino all’ultime
vesti — anelante, sfinita, più morta che viva, si dibatteva, si
trascinava carpone, cercava inutilmente svincolarsi da’ sordidi
amplessi di quei brutali: e’ se la palleggiavano come monelli un cervo
volante.

Alla fine Neruccio credette prudenza lo intervenire e:

— Figliuoli — soggiunse — badate che la presenza di costei in questo
luogo è un periglio per tutti... se l’accaduto si conoscesse, io
n’avrei il patibolo e voi le vergate.

Non avea conchiuso il suo dire, che ottanta ferri balenavano
sinistramente su l’ignudo corpo della misera vituperata; ed uno le
penetrava dritto nel core; e l’altro le spiccava, d’un manrovescio, il
capo dal busto; ed altri la colpivano, la frastagliavano, la recidevano
in cento pezzi.

Di lì a un istante, di quella giovine donna feroce e superba non
rimaneva più chè un ammasso di informe carname, che quei bestiali,
altrettanto vili e paurosi quanto malnati, seppellivano in un canto del
cortile entro una buca scavata lì per lì e coperta di poca terra.

Non solo Olimpia Marazzani non era più, ma nessuno poteva nemmanco
sapere od imaginare cosa ne fosse seguito.

La vendetta di Neruccio s’era compiuta.

Dio non paga il sabato.




CAPITOLO LVII.

Ultime gesta di Terremoto.


Abbiamo lasciato il protagonista di questa nostra narrazione al
momento, in cui rinchiudevasi affrettatamente, col navichiere
Stefanaccio, entro la propria casuccia e ne sbarrava ed asserragliava
accuratamente la porta. — Egli non avea preso abbaglio circa il
rumore, che lo spingeva a quelle sollecite cautele: erano veramente gli
uomini di Pierluigi, che s’inoltravano nella notte in busca di lui.
— Li capitanava il Trentacoste ed il Bombaglino ed erano in numero
di sedici, tutti a cavallo. — Chi li avea posti su la via era stato
un villano presso cui Terremoto avea sostato un breve momento, per
farsi prestare un cencio di mantello, col quale la sua signora potesse
riparare dal freddo intenso sè e la propria creaturina. — Il villano
stupido — assediato dalle interrogazioni de’ sgherri — non avea saputo
schermirsi e s’era lasciato andare a narrar loro tutto quanto avea
visto e sapeva sul conto de’ fuggitivi. — Il gigante — così avea detto
— era persona del luogo, abitante al di là di borgo San Bernardino, al
di là dello antico castello de’ Camia, in una piccola catapecchia del
villaggio della Chiappa, che incontravasi alle falde di monte Osèro. —
Trentacoste e Bombaglino non desideravano di più.

Erano scorse forse meno di dieci minuti, dacchè il gigante ed il
navalestro s’erano ritirati, quando quelli giunsero sul luogo.
Raccomandarono le loro cavalcature a un gruppo d’alte ed annose querce,
che sorgevano alla loro destra, nel luogo istesso dov’era l’umile tomba
della vecchia Rinolfo; quindi si sparsero in giro dintorno al tugurio e
lo circuirono come d’assedio.

Trentacoste picchiò alla porta sbarrata.

Nessuno rispose.

Tornò a picchiare.

Uguale silenzio.

— Ah, ah! — disse allora — vônno fare i sordi? ebbene, ragazzi miei,
introniamo loro le orecchie con un linguaggio più persuasivo....
gittiamo a terra la porta.

E — col calcio del moschetto — cominciò ad arietarla tremendamente,
mentre quattro o cinque de’ suoi, che gli si erano aggroppati intorno,
facevano altrettanto.

A quell’attacco, risposero tre o quattro colpi di fuoco e due di
loro, mortalmente feriti, dovettero ritirarsi dalla impresa. I colpi
partivano dall’alto del tetto, dove Terremoto erasi inerpicato col suo
grosso archibugio.

Ma non era provisto di munizioni. Fece altri cinque o sei colpi, bucò
la pelle ad altri due o tre de’ suoi persecutori; poi dovette gittare
l’arma come uno inutile peso.

Gli armigeri farnesiani — sgomentiti al principio di quella improvisa
aggressione — ritornarono ad assalire la porta ed anche con maggior
furia di prima.

Terremoto era salito sul tetto, perchè il casolare non avea finestre,
da cui poterli offendere e tener lontani. Da stare lassù ordinò a
Stefanaccio che gli passasse per l’abbaino i pochi mobili e le poche
suppellettili e masserizie, che si trovavano nella casa, e si dètte
a scaraventar loro su la testa tutti quanti i diversi oggetti che
questi, man mano, gli rimetteva. Erano frammenti di panche e di sedie,
arpioni e cunei di ferro, accette e penniti, orci ed orciuoli, ch’egli
lanciava a dovere, mirando e colpendo giusto, poichè il piano nevoso,
su cui coloro spiccavano stipati dinanzi alla porta gli permettesse
benissimo di distinguergli ad uno ad uno, il che essi non poteano fare
di lui, che si perdeva, per così dire, tra l’ombre pesanti del cielo
grigiastro.

La lotta durò per qualche tempo, durò — vale dire — sino a tanto che
Stefanaccio ebbe un oggetto da consegnare a Terremoto. — Ogni novo
proiettile, che rovinava su gli assedianti, spaccando a questo la
testa, a quello schiacciando un occhio od il naso e molti mettendone
però fuori di combattimento; causava loro momenti di confusione, di
scompiglio, d’incertezza e li sforzava a tante successive remissioni
de’ loro tentativi, dimanieracchè il complesso di questi mai poteva
approdare a nissun resultato.

Ma quando Stefanaccio — pur rifrugando e rovistando ogni più
riposto e recondito canto della casa — si fu avveduto che essa nulla
più racchiudeva, allo infuori del modesto scanno, su cui teneasi
accoccolata Bianca, con in braccia la sua bambina; — quando Terremoto
dovette, di conseguenza, smettere dal mitragliare e tenere a stecco i
proprî nimici; — questi, che non duravano fatica molta a indovinare il
motivo di tale desistenza dalle ostilità, rimbaldanzirono di rimpatto
e — con sempre maggiore accanimento — si gittarono tutti — meno due
rimasi a guardia del posteriore della casa — a tempestarne la porta.
— La porta — solidamente affortificata e puntellata nello interno —
opponeva loro una seria resistenza. Ma l’impeto loro faceasi così forte
e continuo, ch’essa molto a lungo non avrebbe potuto durarla. — Già,
infatti, barellava su i cardini e — cigolando con malauguroso lamentìo
— pareva essere giunta allo stremo delle proprie forze. Il chiavistello
schiodato, la toppa smurata, sbalzavano sul pavimento; una parte della
imposta si frangeva piuttosto che cedere e volava in ischegge; un urto
ancora e il varco sarebbe stato dischiuso.

Stando inoperoso, acciapinato e pencolante dalla grondaia, Terremoto
— se non vedeva od udiva — intuiva tutto ciò. — Il pensiero che — tra
poco volgere di minuti — quella bulima di manigoldi avrebbe irrotto
entro la sua povera casa, per impadronirsi e trarre nuovamente prigione
la sua giovane ed amata signora; gli mise per tutto il corpo un
fremito di sublime disperazione, quello istesso, che dee provare il
suicida, quando — dal sommo della eminenza o della sponda del fiume —
misura la sterminata altezza, o la profondità delle aque, per cui od
entro cui sta per gittarsi a volo, onde spegnere anzitempo il corso
dei travagliati suoi giorni. Gli parve che lo spettro del vecchio
Giovanni il Grosso gli sorgesse inanzi mutilo scuoiato, lurido, come
già n’avea visto l’osceno cadavere penzolo dalla croce presso le rive
del Barbarone, a rimbrottargli la sua inazione, la sua vigliaccheria.
Un sentimento, che avea quasi del rimorso, lo addentò al cuore e lo
fece drizzar stecchito sul tetto, come se uno scatto lo avesse sospinto
su di repente. In quel punto, i farnesiani davano l’ultimo cozzo alla
porta, che, sfasciandosi, si spalancava: e in quel medesimo punto,
Terremoto — dato nuovamente di pugno al suo archibugio — si lanciava
giù a pie’ giunti sovra di loro, schiacciandone, massacrandone altri
due col proprio peso.

La caduta impensata di quel vivente proiettile spaurì siffattamente i
cinque o sei uomini, che soli si trovavano ancora a far forza dinanzi
alla porta, da costringerli a rinculare in disordine, — Terremoto
— che, nel cadere, aveva saputo mantenersi eretto — profittò di
quel primo moto regressivo, per impugnare il moschetto a due mani
nell’estremità della canna e girarlo intorno vertiginoso, percotendoli
sconciamente del calcio. Così ad uno spaccò il cranio d’un colpo,
a un altro lacerò in orrido modo la faccia. Quattro soli nimici gli
restavano di fronte: il Trentacoste, il Bombaglino, che digrignava
i denti e bestemmiava come un ossesso, memore tuttora delle botte
cieche, che quel medesimo avversario gli aveva inflitto all’osteria
della Magione, presso il Trasimeno, e due semplici scherani. Altri
due tenevansi sempre a custodia della parte posteriore del casolare.
I restanti della geldra o erano morti, o si trascinavano boccheggianti
su la neve, contorcendosi fra spasimi atroci, o rantolando nell’agonia.
Quattro soli nemici! Terremoto reputavasi già certo della vittoria e —
roteando sempre il formidabile archibugio — s’avanzava minaccioso sopra
di loro, omai securo di sterminarli.

In quella, il Bombaglino — che, al repentino assalto del gigante,
era stato il primo ad indietreggiare ed a farglisi più d’ogni altro
discosto — si trasse di cintola un pistolettone, lo prese alla meglio
di mira tra lo incerto bagliore delle nevi e ne fece scattar la
rotella.

Colpito proprio nel mezzo del petto, Terremoto mandò un urlo disperato,
si rigirò su i talloni e traboccò a terra boccone, mormorando:

— Ah, l’inverno! — l’inverno!

Era morto!...

La predizione di Gerolamo Cardano s’era avverata.

Stefanaccio che — da stare dentro la casa — non poteva nè sapere,
nè imaginare cosa accadesse al di fuori — trattovi da stimolo
d’irresistibile curiosità — osò, in quel punto, affacciarsi e sporgersi
inanzi dalla porta scardinata. Non lo avesse mai fatto.

Il Trentacoste, che — visto cader Terremoto — ritornava in quel
medesimo istante alla riscossa, lo passò fuor fuora col proprio
spadone.

Il misero navalestro stramazzò a sua volta tra i legni ed i ferri, che
già sbarravano la porta e — portandosi le mani al seno trafitto:

— E il còfano!... il còfano!... — sospirò.

— Quale còfano? — gli chiese il Bombaglino, che dopo essersi assecurato
con un calcio che il gigante era ben morto per davvero — sovraggiungeva
tutto esultante.

— Il còfano — tornò a gemere Stefanaccio — quello.... della Torre
Farnese.... oh! oh!...

E la voce gli si spense in un vomito di sangue.

I due capitani passarono sovra il suo corpo, seguiti da’ pochi
satelliti che i colpi di Terremoto aveano risparmiato, e s’inoltrarono
nello interno della casuccia.

Bianca della Staffa, pallida come una statua, tremante come una canna,
sempre assisa su l’umile suo scanno, sempre con la sua bambina tra le
braccia; li stava, per così dire, aspettando, come la vittima aspetta
il carnefice, che dee tradurla allo estremo supplizio.

I due fidi di Pierluigi se la tolsero in ispalla, la posero in sella
d’uno de’ loro corridori e — lasciati i loro uomini a curare i compagni
feriti e a dar sepoltura ai morti — si rimisero di galoppo su la via di
Piacenza.




CAPITOLO LVIII.

Il fine di Pierluigi Farnese.


Siamo agli sgoccioli.

Neruccio, che — da tanti mesi — si struggeva indarnamente su la
presumibile sorte di Terremoto e della sua Bianca; Neruccio, cui le
ciniche rivelazioni di Olimpia Marazzani avean posto l’inferno nel
core; fu de’ primi a trovarsi al convegno, che i suoi complici nella
ordita cospirazione contro Pierluigi, s’erano indetto pel dì successivo
al loro ritrovo nel castello di Luigi Gonzaga.

Era il 10 settembre 1547.

Radunati tutti prima ancora del rompere dell’alba, l’Anguissola
espose il proposito di compiere la impresa entro quel medesimo dì e
di scegliere il mezzogiorno, siccome l’ora, «nella quale solevano
le guardie di cittadella parte tornarsene alle case loro, parte
spensierate, e disattente impiegarsi nelle ciarle, e nel giuoco.» Un
buon numero de’ più animosi, fra’ quali — oltre agli altri quattro
designati dalla sorte, vale dire: il Confalonieri, Agostino Landi ed
i fratelli Alessandro e Camillo Pallavicino — si contavano il nostro
Neruccio e Francesco Maria Anguissola; doveano essergli compagni
nell’arduo cimento. Egli stesso, con altri pochi, proponevasi di
penetrare nello interno de’ quartieri e di adossarsi il più grosso
della faccenda. «Gianluigi Confalonieri prese l’assunto di stare
alla sala per sopraffare le guardie, e impadronirsi del posto; e il
conte Agostino Landi, ed Alessandro e Camillo fratelli Pallavicini si
disposero a prender la porta di cittadella, levarne il ponte, e frenar
coll’armi alla mano chiunque avesse ardito di far ostacolo.»

Ciò prestabilito si sciolsero, per intendere ciascuno ai dovuti
apparecchi nell’attesa dell’ora deputata.

Ed ora diamo la parola al buon padre Ireneo Affò.

«Era da qualche tempo costume del Duca d’uscir la mattina per visitar
i lavori della fortificazione; onde anche nel fatal giorno seguito da’
suoi cortigiani fece lo stesso. Pretendevasi dal Goselini, e scritto fu
anche dal Villa, che il giorno addietro fosse a lui mandato da Cremona
l’avviso d’una vicina congiura: contro alla quale volendosi premunire
nell’atto, che ritornò alla cittadella per girsene a pranzo, diede
ordine segreto al mastro di campo Alessandro da Terni, che avvertisse i
cavalleggieri suoi di star pronti ad ogni comando, e ritornasse poscia
dopo il desinare a lui.»

E qui osserveremo, che l’avviso della congiura non fu già mandato
a Pierluigi da Cremona; ma datogli bensì da Pellegrino di Leuthen,
il quale — sebbene nulla avesse potuto risapere di quanto la sua
disgraziata compagna di spionaggio era giunta a scuoprire nella
loro notturna escursione al castello Gonzaga — tanto, per altro, già
conosceva della procella, che andava addensandosi sul capo del duca da
potergli dire.

— Fostre Magnificensce stare molte ficilante.... suoi centilfomini
stare macchinanto cranti macchinascioni... tonna Olimbia afer sorprese
iersere crante complottascione.... io niente sapere positife; ma crante
bericole minacciare Fostre Magnificensce!

Ed ecco il perchè Pierluigi aveva impartito ordini segreti a mastro
Tommasoni da Terni.

Ma ritorniamo all’Affò.

«Il conte Giovanni, che seguito egli pur l’aveva nel giro della
mattina, fermossi nell’anticamera, quasi in atto di volersi trattener
ragionando col Duca, poichè avesse pranzato, e gli altri tutti
dell’accompagnamento sbandati, e dispersi andarono pei fotti loro.
Anche un buon numero di cortigiani mancava in quel dì, o partissi
allora di corte dietro al segretario Apollonio Filareto, che per
occasione di certe nozze dava di fuori un solenne banchetto. Sicchè
non rimanevano che alquanti _Lanzi_ alla sala, i quali deposte le armi
attendevano a ragionare, e giuocare, e le guardie della porta, e del
ponte a tutt’altro attente che a badare a chi entrava, ed usciva. Il
conte con aria d’uomo spensierato guatava da’ balconi risguardanti
la piazza della cittadella, quando venissero i compagni. Ed ecco
giugnere il Confalonieri con alquanti del suo seguito, che montate
le scale unironsi a ragionare con quei soldati che le guardavano.
Di poi entrarono con altre persone Alessandro e Camillo Pallavicini,
che a guisa d’uomini di varie faccende parlanti fermatisi abbasso, ed
aggirandosi nel cortile stavano attenti all’arrivo di Agostino Landi;
il qual poichè venne, e ritiratosi in un salone terreno diè segno con
un tiro di pistolla, esser venuto il momento di far faccenda, sorse per
tutta la cittadella un feroce tumulto. Lanciatisi alcuni più forti, e
risoluti alle catene del ponte, l’alzarono in un momento, ed occupate
l’armi delle atterrite guardie a un tratto le sottomisero. Lo stesso
fece nella sala il Confalonieri.»

Il conte Giovanni Anguissola colse il destro di quel momento di
confusione e di trambusto, per penetrare con altri due, nella stanza
del duca, il quale — al dire dell’autore delle _Tre Congiure_ —
trovavasi con Camillo Fogliani e col dottore in leggi Giulio Coppelato.
Per quanto all’uno dei due compagni del conte, lo stesso autore dice:
«Accompagnava l’Anguissola, Francesco Maria Anguissola.» Per quanto
all’altro, ce lo indica il Rossi, nelle sue _Storie Piacentine_, con le
parole: «Il conte Anguissola entrò con Giovanni Osca da Valènza (vale
dire: il nostro Neruccio) che dètte il primo colpo, e un altro.»

Fu, dunque, il nostro Neruccio — siccome colui, che, più d’ogni altro,
sentivasi animato da odio acerrimo e profondo — quello, che si avventò
pel primo su Pierluigi Farnese e lo trafisse d’una pugnalata. Allo
infelice suo zio, al moriente Cosimo Gheri, vescovo di Fano; egli
aveva quasi promesso di perdonare; ma non lo aveva ugualmente promesso
alla tradita sua Bianca: con quel colpo, e’ vendicava, ad un tempo, e
l’amante e il congiunto.

I due Anguissola seguirono il suo esempio e, con altre due pugnalate,
stesero morto il Farnese.

Egli erasi drizzato a stento d’in su la sedia, che sosteneva le
attrappite sua membra e — come Cesare alla vista di Bruto — aveva
sclamato, scorgendo, l’Anguissola:

— Voi.... signor conte?

Ma non gli ressero le forze a dir altro; s’accasciò su la persona e
ricadde cadavere a terra.

Facciamo parlare di nuovo il buon biografo bussetano.

«Udendosi un tanto sconvolgimento da’ cittadini si alzò ben tosto
rumore. Alessandro da Terni venne con mille fanti sulla piazza, e
dall’incerta plebe gridavasi = Duca! Duca! = I congiurati a chiarir il
popolo, che il duca non v’era più, ne appesero fuori d’una finestra
l’insanguinato cadavere, indicando d’aver tolto dal mondo un tiranno,
e liberata la patria dall’oppressione. Nè per questo acchetandosi
il tumulto, forse perchè non credevasi, che veramente quel fosse
il corpo di Pierluigi, lasciato che l’ebbero penzoloni per alcuni
momenti, precipitaronlo nella sottoposta fossa, onde in quelle
sfigurate sembianze ravvisassero i cittadini, essere estinto colui,
che chiamavano. Intanto Girolamo Pallavicino da Scipione, che aveva
il segreto della congiura, girando per la città, e promettendo al
popolo giorni in avvenir più tranquilli, fece non solo che ognuno si
ritirasse, ma eziandio che una gran parte si disponesse alla difesa
della libertà. Armata quindi la cittadella coll’artiglieria si diè
segno co’ spari della medesima alle vicine città di Lodi, e di Cremona,
esser il colpo già fatto, onde Girolamo Pallavicino di Busseto, il
quale era governatore in Lodi, subito mandò la novella a Don Ferrante
in Milano....

«Ma per dir le cose occorse la stessa giornata in Piacenza,
osserveremo, che in quel primo tumulto volendosi il Priore, gli
Anziani, e i Richiesti della città tener fedeli alla Chiesa,
scrissero dolentissime lettere al Papa, ed al Cardinal Farnese
pubblicate dal Fontanini, e dal Poggiali, ove manifestando l’acerbo
evento, protestavano essere la città innocente, e voler perseverare
nell’ubbidienza consueta. Fecero poi quanto poterono affin di
tener vivo il partito farnesiano, ma con assai poco successo perchè
prevalendo il favore de’ congiurati, e facendosi già creder vicine
l’armi spagnuole, lo stesso Alessandro da Terni si ritirò nel castello,
e lasciò di opporsi ad una piena; che non avrebbe potuto affrontare.

«Aveano saputo i congiurati impadronirsi d’una porta della città:
però spogliata ch’ebbero, e saccheggiata delle cose più preziose la
cittadella uscì l’Anguissola accompagnato dal Confalonieri, e da lui
poscia dividendosi, e lasciandolo a guardia di dètta porta, recossi,
come si crede, a Lodi ad incontrar il Gonzaga. Giaceva intanto
inonorato, e vilipeso il cadavere del Duca in quella fossa con alcuni
altri rimasti morti nel conflitto: del che prendendo compassione
Barnaba del Pozzo dottor di leggi, e Prior del comune, andò con
servitori suoi a levarlo, e fattolo portare nella vicina chiesa di
S. Maria degli Speroni, detta di S. Fermo, ve lo fece tenere a porte
chiuse tutta la notte, e la mattina seguente collocatolo in una cassa
di legno, diedegli sepoltura.

«Radunato la stessa mattina, che era giorno di domenica, il popolo
nella chiesa di S. Francesco per ordine degli altri congiurati,
apparvero eglino a giustificarsi pubblicamente, e a protestare, che
per solo amor della patria avevano posto a sì manifesto pericolo la
vita loro. Fu il conte Agostino Landi, che arringò, e propose esser
necessario di darsi sotto protezione di qualche gran potentato, per la
difesa comune, escludendo però il Papa come di Casa Farnese, la Francia
come troppo lontana, e lodando il collegarsi coll’Imperatore signor
tanto potente, e vicino. Il tutto fu conchiuso in questa maniera,
che il popolo ad essi, ed al conte Giovanni diede ampia autorità di
capitolare con quella potenza, che loro fosse paruta più propizia, e
meno dannosa alla città.

«Poco dopo giunsero milizie condotte da Alvaro di Luna, castellano
di Cremona, ed altre ne arrivarono da Lodi, che introdotte dal
Confalonieri per la porta da esso lui custodita si distribuirono in
varj posti della città. Don Ferrante giunto da Milano a Lodi, non solo
fu ivi incontrato dall’Anguissola, ma da altri malcontenti piacentini,
già dal Farnese esiliati, tra’ quali qui si trovarono specialmente
Girolamo Pallavicini da Cortemaggiore, ed Oliviero dalla Casabianca,
cui avea posto il Farnese gravissima taglia; e da questi, e da molti
signori accompagnato cavalcò a’ 12 verso Piacenza, ove assai bene
accolto dai cittadini fece l’entrata. La prima delle sue cure fu di
chieder conto del cadavere del Duca, e avendo inteso come fosse stato
sì poco nobilmente sepolto, lo fece disotterrare, e visitato che
fu, coll’intervento ancora di Girolamo e d’Oliviero già mentovati, i
quali in quelle lacere spoglie trovar dovettero compiacimento della
tanto desiderata vendetta, ordinò, che riposto in altra cassa chiusa,
e munita del suo proprio sigillo, e di convenienti arredi coperta si
trasferisse alla chiesa della Madonna allora de’ minori osservanti, e
oggi de’ riformati.»

E.... _parce sepulto!_




EPILOGO.


E Pellegrino di Leuthen?..

Il maliziuto tedesco, non così fiutò il poco respirabile aere, che
per lui si faceva in Piacenza, e vide la mala piega che pigliavano
le faccende di casa Farnese, se la svignò alla chetichella e viaggiò
diviato per alla volta di Roma, dove recò al pontefice la sconsolante
novella. Intesa l’atroce morte del figlio, tardi conobbe il vecchio
Paolo III di averlo amato troppo e troppo secondato coloro che incitato
lo avevano ad ingrandirne sempre più la potenza e i possessi. Allora
— come ha lasciato scritto monsignor Girolamo de’ Rossi — «si cacciò
dinanzi il Gambara, et non lo volle mai più vedere, come quello che era
stato autor di tanto male et per la Chiesa, et per la casa Farnese, a
tal ch’egli (il Gambara) se ne andò a casa sua tanto sconsolato che in
pochi giorni miseramente se ne morì, dicendo altro: Io insegnai bene al
Papa et a P. Aluisi come dovevano fare per aver Piacenza et Parma, ma
non gl’insegnai già che non vivesse da principe, e senza guardia come
faceva».

Nè a ciò arrestossi il furore del Sommo Gerarca Cattolico. In pubblico
concistoro uscì a dire: «Di Pietro Luigi Farnese Duca di Parma e
Piacenza io Alessandro padre di lui, come padre non piglierò mai
vendetta per tempo alcuno, ma sibbene come Paolo III Pont. Mass. e capo
della Chiesa, di Pietro Luigi figlio, e Confaloniero di Santa Chiesa
farò io vendetta a tutto mio potere, sebbene mi credessi andar al
martirio come molti altri».

Senonchè anche i papi propongono, ma chi dispone è spesso quel
Domeneddio, di cui si dicono vicari.

L’anno dopo tentò ben egli stringersi in lega con Enrico II di Francia
contro Carlo V di Spagna, per forzarlo alla restituzione di Piacenza;
ma nell’anno successivo, còlto da gagliarda febre su le prime ore
del giorno 10 novembre, verso l’imbrunire del giorno stesso, cessò di
vivere nella rispettabile età d’oltre ad ottantadue anni.

Lo scaltro tedesco lo servì sempre nel duplice uficio d’indagatore ed
intracciatore di preziosi cimelî e di preziosi segreti, vale a dire:
d’antiquario e di spia. È a lui che si dènno le prime escursioni e
scoperte metallurgiche nei monti del piacentino, percorrendo i quali a
quando a quando «potè accorgersi che il nostro suolo raccoglie nelle
viscere, non che ferro e rame, ma anche oro ed argento» sicchè più
volte avrà dovuto sclamare, col poeta delle _Georgiche_:

«Suolo felice, che

    .......... _argenti rivos, ærirque metallos_
    _Ostendit venis, atque auro plurimia fluxit!_

Morto il papa, Pellegrino volle pur continuare parimente nelle sue
antiche funzioni; ma — come ne ha scritto il chiaro archivista Amadio
Ronchini — era travagliato spesso dalla podagra e affralito da altri
malanni, che indi a poco ne spensero la vita, non sappiam bene se in
Bologna od in Modena.»

E il còfano dell’abate di San Savino?

Dopo il conte Giovanni Camia, Stefanaccio e Terrremoto n’avean recato
il segreto sotterra. Anche donna Costanza Farnese di Santafiora, che di
quel còfano teneva la chiave era premorta due anni inanzi. Nessuno però
ne sapeva più nulla.

Ma ciò che nessuno avrebbe più avuto ragione di imprendere, lo fece
casualmente il furor popolare.

Caduto a pena l’esoso Pierluigi sotto il ferro de’ congiurati, varî del
popolo uscirono dalla città ed — unitisi a moltissimi della campagna
— trassero in quello di Borgo San Bernardino, sino alla Torre Farnese
— odiato covo de’ gabellieri farnesiani, da cui procedevano tutti i
balzelli, le taglie e le angarie — e la diroccarono dalle fondamenta.

Nel menarla a sacco, nello scassinarne le costruzioni, qualcuno smosse
la famosa pietra riquadra di cui il morituro Giovanni il Grosso avea
dato le precise indicazioni al navichiero della Nure e sotto la quale
giaceva appunto il prezioso còfano di legno di sandalo borchiellato, a
lui rimesso morendo dall’abate Marazzani di San Savino.

Chi primo lo scorse se ne impadronì, ma altri sopravennero a
contenderglielo ed impegnarono con quello un litigio; conchiusione del
quale si fu che — mancando la chiave e dovendosi ripartire il contenuto
del còfano tra quanti avean partecipato alla demolizione della torre
— lo si avesse ad aprire con la violenza anche a costo di mandarlo in
ischeggie: l’importante era vedere e toccar con mano ciò che chiudesse
nel corpo.

Ma — forzatane la serratura con la punta di uno stilo — rimasero
amaramente delusi: esso non conteneva chè una ciocca di capelli bruni
ed un grosso piego di pergamene e di carte scritte.

Imprecando, bestemmiando, taluno si studiò di deciferare quest’ultime;
ma non potè riuscirvi, perchè scritte in latino ed anco assai male.
Solo, quinci e quindi, gli parve rilevare il nome della famiglia
Anguissola, misto a quello de’ Marazzani e de’ Sforza di Santafiora.
Altri opinarono perciò fosse buon consiglio il recare il tutto al
conte Giovanni, che — se mai vi trovasse alcunchè di confacente a’ suoi
interessi — non avrebbe mancato di compensarli.

E così fecero.

Il conte Giovanni Anguissola, ch’era appunto reduce da Lodi, gittati
a pena gli occhi su quelle scritture, riconobbe che, in qualche modo,
lo risguardavano. Laonde fece pagar loro qualche ducato di oro e se le
tenne. Scorrendole poscia a suo agio, apprese da esse un segreto che,
più volte, gli fece correre un sudor freddo lungo la spina dorsale.
Quell’Olimpia, ch’egli aveva tanto amato; quell’Olimpia, per cui avea
concepito tant’odio contro il Farnese; quell’Olimpia, che si era sempre
e quasi prodigiosamente sottratta a’ suoi amplessi, a’ suoi baci; non
era già la nipote, o — com’altri volevano — l’amante dell’abate di San
Savino; ma sibbene una figlia adulterina del defunto Bosio Sforza di
Santafiora e della istessa contessa Anguissola, sua madre; Olimpia era
però sua sorella. Quelle carte ne contenevano le prove.

Il misto di attaccamento insieme e di repugnanza, ch’ella gli aveva
sempre dimostrato, potevasi, quindi, spiegare come una mistica voce del
sangue.

Ma dov’era Olimpia?...

Neruccio non ebbe il core di palesargliene il misero fine, ned egli lo
seppe mai.

E Bianca della Staffa?...

Al momento istesso, in coi Neruccio ed i due Anguissola trafiggevano
Pierluigi Farnese, il più de’ loro complici, cui s’erano aggiunti
anche molti individui del popolo, si sparsero con l’arme in pugno, per
ogni più riposto ambiente della cittadella, impadronendosi delle più
preziose suppellettili; liberando i prigioni, che gemeano in carcere;
tutto mettendo a soqquadro.

Alcuni popolani, teneri delle gemme e delle coppe di oro e di argento,
assai più chè della emancipazione de’ carcerati; si lanciarono nella
parte più nobile del quartiere ducale e via — di stanza in stanza —
giunsero dinanzi un uscio serrato, di là del quale credettero udire una
voce. Con le piccozze, le partigiane e l’accette, ond’erano armati,
abbatterono in un istante quell’uscio e procedettero inanzi; ma una
giovine donna signorilmente abbigliata, pallida in volto come un
cadavere, coi capegli irti in capo pel terrore, si oppose risolutamente
al loro passaggio, respingendoli con tutte le sue forze e gridando
disperatamente:

— No, no, scellerati.... no.... piuttosto morire!

Quella giovane donna era la misera Bianca.

Ella si conteneva in tal guisa, a cagione di un tremendo diverbio, che
avea avuto il dì inanzi col suo tiranno, carceriere e carnefice.

— Comprendo — le avea detto il Farnese — comprendo il perchè de’ tuoi
eterni sospiri e delle uggiose tue reluttanze: è quella disgraziata
bambina; ma ch’io ci perda il mio nome se non te la fo strappare dal
fianco per affidarla alle aque del Po.

— Oh, no, monsignore — avea gemuto la meschina — voi non farete una sì
orribile cosa!

— È il solo mezzo che mi resti a farti mansueta; da lungo mi gironzola
per lo capo e, un dì o l’altro, stanne certa, lo metto ad esecuzione.

E la lasciò sotto il peso di tale atroce minaccia.

Ella credeva però che gli uomini armati, che avevano fatto
violentemente irruzione nel suo ritiro, fossero gli sgherri del
Farnese, incaricati da lui di trarre a fine quel suo crudele
divisamento.

Perciò s’opponeva al loro inoltrarsi; perciò li ributtava con tutta
la vigorìa delle sue gracili braccia; perciò ripeteva con voce rauca e
disperata:

— No, no.... piuttosto morire!

— E tu muori, dunque! — le rispose uno di que’ mascalzoni.

E — in pari tempo — le cacciò tutta quanta la lama della sua partigiana
nel petto.

La meschina strabuzzò orrendamente gli occhi; levò alte le braccia e —
barcollando — andò a cascare a piè del lettuccio, sul quale dormiva la
sua creatura.

Compiuto il principale atto della propria vendetta, anche Neruccio
s’affrettò a gittarsi per gli appartamenti ducali.

Col cuore anelo, ansiosamente sospeso fra le speranze e i timori, egli
volava in traccia dell’amata sua Bianca....

Transitò, a sua volta, per le medesime sale, d’ond’erano passati,
poco prima, i rivoltosi del popolo; giunse anch’egli dinanzi l’uscio
scassinato; penetrò anch’egli nella stanza fatale....

— Nessuno!....

Solo — nel mezzo del pavimento — giaceva boccone una donna immersa in
una larga pozza di sangue.

Un tremendo presentimento lo punse al cuore.

Si avanzò premuroso, piegò un ginocchio; sollevò quella caduta; la mirò
in volto....

Era Bianca, era la sua Bianca....

Ma non era più che un cadavere.

E la bambina?

Disparsa!

Chi interroghi _Le famiglie illustri_ del Litta potrà forse rinvenire
una traccia della figlia di Bianca della Staffa e di Pierluigi, in
quell’Antea Alessandra Farnese, di cui il Litta fa menzione e della
quale non è improbabile ci prenda vaghezza, altra volta, di narrare le
vicende e la storia.

Neruccio Nerucci, ossia: il capitano Giovanni Osca da Valenza morì
quattro anni dopo, nel difendere, contro l’armi francesi, il castello
di Torchiara, sotto gli ordini del principe di Macedonia, che ne
comandava il presidio.


  FINE.




INDICE


  PARTE PRIMA.

  Camia e Nicelli.

  Capitolo I. L’arrivo del Papa                            Pag.  1
      »    II. La bianca chinea                             »   11
      »    III. Il nipote del vescovo di Fano               »   19
      »    IV. Una occhiata in giro                         »   28
      »    V. Castel Canafurone                             »   39
      »    VI. Giovanni il Grosso                           »   46
      »    VII. La via sotterranea                          »   53
      »    VIII. Sorpresa                                   »   62
      »    IX. Prime gesta di Terremoto                     »   70
      »    X. Ciò che Terremoto aveva fatto prima e ciò
                che fece dopo                               »   79
      »    XI. Altre gesta di Terremoto                     »   90
      »    XII. Il pozzo delle cento taglie                 »  104
      »    XIII. Amore                                      »  114
      »    XIV. Il cofanetto dell’abate di San Savino       »  122
      »    XV. Il Crocefisso                                »  130

  PARTE SECONDA.

  Castell’Arquato.

      »    XVI. Un figlio di Papa                           »  140
      »    XVII. Il Cavalier Nero                           »  148
      »    XVIII. Olimpia Marazzani                         »  158
      »    XIX. Turpe mercato                               »  168
      »    XX. Per forza                                    »  176
      »    XXI. Gli affari di Stato                         »  187

  PARTE TERZA.

  La guerra del sale.

      »    XXII. Questione di tre quattrini                 »  195
      »    XXIII. Pierluigi Farnese                         »  203
      »    XXIV. I Venticinque                              »  212
      »    XXV. Perusia Civitas Cristi                      »  219
      »    XXVI. L’esercito di Santa Madre Chiesa           »  226
      »    XXVII. Il capitano Tre-Grazie                    »  233
      »    XXVIII. Castel Torsciano                         »  245
      »    XXIX. La taverna                                 »  260
      »    XXX. Il ratto                                    »  271
      »    XXXI. Un’altra Clorinda                          »  277
      »    XXXII. Terremoto ritorna in scena                »  287
      »    XXXIII. Come Terremoto fosse ritornato in
                     iscena                                 »  295
      »    XXXIV. Nuove gesta di Terremoto                  »  302
      »    XXXV. La resa                                    »  324

  PARTE QUARTA.

  La Congiura de’ Fieschi.

      »    XXXVI. Il conte Giovanni Anguissola              »  328
      »    XXXVII. In qual modo Olimpia fosse morta         »  339
      »    XXXVIII. Una disumazione                         »  347
      »    XXXIX. Il ticchio del Papa                       »  357
      »    XL. Gli esploratori                              »  365
      »    XLI. Il convegno di Busseto                      »  377
      »    XLII. Il lupo e la volpe                         »  384
      »    XLIII. Il genio malefico di Casa Farnese         »  395
      »    XLIV. Bianca ed Olimpia                          »  405
      »    XLV. Imprudenze di Terremoto                     »  412
      »    XLVI. L’incognita di Castro                      »  422
      »    XLVII. Triplice alleanza                         »  428
      »    XLVIII. La investitura                           »  434
      »    XLIX. Il duca di Piacenza e di Parma             »  440
      »    L. La congiura dei Fieschi                       »  444
      »    LI. Novelle gesta di Terremoto                   »  449

  PARTE QUINTA.

  P. L. A. C.

      »    LII. I prigionieri                               »  459
      »    LIII. Stefanaccio                                »  471
      »    LIV. Preliminari                                 »  478
      »    LV. P. L. A. C                                   »  485
      »    LVI. Dio non paga il sabato                      »  492
      »    LVII. Ultime gesta di Terremoto                  »  501
      »    LVIII. Il fine di Pierluigi Farnese              »  507

  Epilogo                                                   »  514




NOTE:


[1] Il Monte Ochino.

[2] Il capitano Lorenzo Villa.

[3] Il da Niceto.

[4] Il da Ebbio.

[5] Il marchese di Cattaragna.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK TERREMOTO ***


    

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or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
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Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
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freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
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