Un viaggio in Lapponia : Coll'amico Stephen Sommier

By Paolo Mantegazza

The Project Gutenberg eBook of Un viaggio in Lapponia
    
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Title: Un viaggio in Lapponia
        Coll'amico Stephen Sommier

Author: Paolo Mantegazza

Release date: May 19, 2024 [eBook #73650]

Language: Italian

Original publication: Milano: Brigola, 1881

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UN VIAGGIO IN LAPPONIA ***


                                   UN
                          VIAGGIO IN LAPPONIA

                               COLL’AMICO
                            STEPHEN SOMMIER


                                   DI

                            PAOLO MANTEGAZZA



                                 MILANO
                            GAETANO BRIGOLA
                                EDITORE
                                   —
                                  1881




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

    868. — Firenze Tip. dell’Arte della Stampa, Via Pandolfini 14.




A

FRANCESCO DE SANCTIS

E

MICHELE COPPINO


Le vicende capricciose della politica possono aver disgiunti i vostri
nomi, ma il mio cuore li riunisce insieme con un vincolo di viva
riconoscenza e di affetto sincero.

Come amici e come ministri voi mi avete reso possibile un viaggio, a
cui le mie sole forze non sarebbero bastate; l’uno fornendomi i mezzi
di pubblicare in una mia monografia i ritratti de’ lapponi raccolti
nel mio viaggio, l’altro procurandomi i mezzi di portare nelle estreme
regioni del polo europeo macchine fotografiche eccellenti.

Possano il mio libro e l’altro che pubblicherò coll’amico Sommier non
essere del tutto indegni del vostro aiuto e del vostro nome.

  Firenze, 2 giugno 1880.

                                                           MANTEGAZZA




CAPITOLO PRIMO

  NOTE SCANDINAVE — IL LAGO DELLE BIONDE CHIOME — COPENAGHEN — I
  CANALI E I LAGHI DELLA SVEZIA — DA GÖTABORG A STOCOLMA — STOCOLMA
  E GLI SVEDESI — UN PRANZO IN CASA DI RETZIUS — CRISTIANIA — IL SOLE
  DI MEZZANOTTE E LE COSTE DELLA NORVEGIA.


I

I viaggi fatti in furia hanno il loro vantaggio, e non conviene
calunniarli come si suole. E poi nella vita febbrile del nostro
tempo che cosa è che non si faccia in fretta? Leggiamo forse mai un
libro per intiero? Studiamo forse per dieci anni almeno una riforma
politica prima di farla? Ci ricordiamo per caso di ciò che abbiamo
fatto ieri? S’è dormito per tanti e tanti anni colla ninna-nanna dei
dogmi immutabili, che una volta svegliati ci siamo messi a correre
per chi sa fin quando. E poi e poi, quando si sa leggere bene, si può
anche leggere presto; meno i rarissimi casi, nei quali il libro sia
un gioiello d’arte, che si mira, che si contempla, che si accarezza, e
che, come la donna amata, ogni giorno ci rivela un nuovo tesoro e una
bellezza nuova.

Così è dei viaggi; si possono anch’essi far presto e bene, e anche
dallo sportello d’un vagone e dalla finestra d’una locanda si possono
sorprendere colla stenografia del pensiero tante e preziose medaglie
estetiche e psicologiche. Attraversi, per esempio, i monti pittoreschi
e le valli ridenti del Tirolo; senti alle stazioni della ferrovia lo
squillo poetico delle trombe montane, vedi al crocicchio delle strade
campestri i grandi crocifissi, che proteggono il maturare delle biade
e ricordi i sentimenti profondamente religiosi dei buoni tirolesi.
Attraversi le foreste della Selva Nera, i campi della Germania
centrale, e vedi sospesi dovunque i nidi artificiali, che invitano gli
uccelletti del Signore a vivere presso la casa dell’uomo, ed eccoti
rivelata una pagina del sentimento germanico, che protegge con tanto
amore le piccole creature. E così di seguito.

Anche a quelli che hanno poco tempo da spendere consiglio un mese di
Scandinavia, e non abbiano rimorso di viaggiare in fretta. Sarà una
doccia psichica, che rinfrescherà loro il sangue febbricitante. Che
bella cosa riposare l’occhio, che nell’estate italiana trova tanti
prati riarsi e brulli, riposarlo sopra pianure interminabili, verdi
e fresche di prati, o farlo vagare tranquillo sulle dense foreste
dei pini e delle betule! Che bella cosa è riposare l’orecchio nel
silenzio di una società, che si muove, si diverte e lavora senza far
chiasso! Qui anche nelle grandi città le campane non suonano, i cani
non abbaiano, i venditori di giornali non gridano, i monelli non
bestemmiano: tutto tace e riposa in una serena contemplazione della
natura, e l’attività è anch’essa tranquilla e senza rumore. Silenzio
per l’occhio, silenzio per l’orecchio, e silenzio anche per quell’altro
senso, quintessenza di tutti e che ci innamora delle figlie di Eva. In
Italia abbiamo troppe chiome nere, che schizzano scintille, come pelle
elettrizzata d’un felino; abbiamo troppe pupille nere, nei cui abissi
profondi si perde la pace serena della vita tranquilla.

Qui da Copenaghen in poi nuotate nel calmo lago delle chiome bionde
(permettetemi l’innocente secentismo). Oh quanto biondo, oh quanti
bellissimi biondi! Biondo di stoppa di lino e biondo di barbe di
_mais_, biondo di _chifel_ e biondo di rame biondo, che al sole
risplende come oro fuso e oro castagno, dalle mille ondulazioni di
tinte intermedie; e poi sotto quelle cornici bionde tanto latte e tanti
petali di rose del Bengala da sentirsi rinfrescati per tutta la vita
e guariti dagli incendi delle chiome corvine e delle pupille profonde
delle nostre donne.

Vi è qualcosa d’altro che rinfresca e riposa nel mondo femmineo della
Scandinavia: la mancanza delle linee curve e del movimento serpentino.
(I geografi me lo perdonino, ma etnologicamente e psicologicamente io
chiamo scandinava anche la Danimarca). In Germania s’incomincia già a
vedere, che gli uomini si muovono con un altro sistema di giunture e
le donne, per non farli sfigurare, fanno lo stesso; ma in Scandinavia
poi la linea curva del moto è assolutamente proibita in tutti i casi
e in tutte le direzioni. Si cammina per angoli, si ride per angoli,
ci si siede e ci si leva e si parla per angoli; e sono angoli acuti.
Troverete la bellezza, la forza, la maestà, mille elementi estetici
della figura umana; ma la grazia è assente e d’ignota dimora. Chi mi dà
uno solo di quei movimenti flessuosi, che sono un poema di eleganza e
di voluttà; chi mi dà la grazia delle razze greco-latine? Ma gli angoli
hanno la loro virtù rinfrescante e calmante e se andate in Scandinavia,
vi faranno un gran bene.

Prego però le nostre belle signore a non insuperbirsi troppo. Lassù vi
è una coltura nelle loro sorelle, che sorprende davvero, ed è coltura
seria, profonda, non vernice di copale e di similoro. A Stocolma
ho potuto parlare italiano (immaginatevi con qual piacere) colla
contessa Hamilton e colla signora Retzius, moglie di uno fra i più
illustri antropologi; e quelle due signore parlavano benissimo anche
il francese, il tedesco, l’inglese. Qui i professori più illustri
hanno nelle loro compagne veri colleghi nel lavoro. Una di esse fa le
fotografie, mentre il marito studia un paese o una razza; un’altra
osserva al microscopio o dissecca gli insetti, perchè l’uomo l’ha
fatta compagna dei suoi lavori come delle sue gioie; e anche in Italia
conosco donne dalle chiome corvine e dalle pupille profonde, che
potrebbero e saprebbero far ciò che ogni giorno fanno le loro sorelle
scandinave.

A Copenaghen mi ha consolato un’altra cosa: il non vedere straccioni
per le vie, e d’allora in poi non ne ho più veduti. Il monello sudicio
e lacero non esiste, l’operaio mal lavato e con molte parti del suo
vestito assenti, non si trova; ogni uomo e ogni donna hanno l’aspetto
decente, pulito; si direbbe che il proletario non esiste o si nasconde.
E poi l’uomo si rispetta molto e vuol esser rispettato; nelle botteghe
si deve cavare il cappello; non si può fumare in moltissimi luoghi;
vi è un grand’ordine dappertutto. Si sente insomma di vivere in una
società più sana di dentro e di fuori, che è attonata e vigorosa; non
convulsa e stracca, che ora s’agita e ora s’accascia.

Nel parco di Frederikstoy ho veduto a Pentecoste passeggiare migliaia
e migliaia di persone; un’onda di gente tranquilla e serena, che
sorrideva, parlava poco e mostrava di divertirsi assai. Nel Tivoli
poi son rimasto più di otto ore e ho studiato l’ingenuità beata di
un popolo, che è felice, perchè si sente bene, e che non ha bisogno
di innebbriarsi per godere della vita. L’ingenuità è virtù sparita da
un pezzo nelle razze latine: nel Tivoli di Copenaghen ve n’era tanta
da allagare tutta l’Italia. Quella brava gente si divertiva sulla
slitta russa, si divertiva a tirar le boccie, si divertiva a romper le
pipe con palle di legno, e un avviso a stampa invitava il pubblico ad
ammirare la _straordinaria bellezza della fioritura dei tulipani_....
Oh chi darà anche a noi un pochino di questa cara, di questa _sancta
simplicitas?_[1]

Ed ecco che io sto per chiudere la mia descrizione e non vi ho detto
nulla di Copenaghen; ma il mio carattere ufficiale di antropologo mi fa
studiare con più vivo amore gli uomini; e d’altronde aprite una guida e
vi troverete la descrizione dei monumenti, dei musei, delle chiese.

La Danimarca ha eretto al suo Torwaldsen un vero tempio, dove si
trovan riuniti in originale o in copia tutti quanti i suoi lavori. È un
palazzo e una chiesa nello stesso tempo, dove potete ammirare tutti i
frutti di uno dei più operosi artisti moderni.

L’Italia non ha saputo fare altrettanto per il suo Canova, per il suo
Raffaello, per il suo Michelangelo; ma è anche vero, che i danesi non
erano tanto ricchi di glorie dell’arte, e ogni nostra città è un museo
e un tempio in una volta sola.

Il museo preistorico e il museo etnologico di Copenaghen sono i primi
del mondo senza contrasto, ed io non ve ne potrei parlare leggermente,
come non si può parlare che in segreto e a bassa voce della donna
amata. Vi ho passate tante e tante ore da abbacinarmi gli occhi e da
rendermi paralitiche le gambe. Steinhauer e Worsoe me ne fecero gli
onori con quella grazia e con quella cortesia, che sono una virtù
carissima di tutti gli scandinavi.

Da poco tempo nel bellissimo castello di Rosenborg si è fondato un
terzo museo, che raccoglie i prodotti artistici e industriali dell’età
moderna, e così voi senza uscire da Copenaghen, potete seguire
l’evoluzione storica del lavoro umano dalle ciclopiche ascie di selce
dei padri degli scani fino alle ultime chincaglierie del nostro secolo
chincagliere.

Copenaghen è una città bella e severa. Qualche palazzo con architettura
puramente greca, e tutte le case senza balconi; vie larghe e diritte;
alberi dovunque. _Ciclopismo_ e mancanza di gusto dappertutto.
_Tramvays_ che sembrano torri, _omnibus_ che paiono balene, e gente
che cammina vestita in modo da farci credere, che i sarti non esistano
in Danimarca e che i vestiti furon mandati a Copenaghen da un lontano
paese per gente non mai veduta.


II

Da Götaborg a Stocolma ho attraversato la Svezia, seguendo la via dei
laghi e trovando ad ogni momento insufficienti le parole ammirative
del nostro dizionario e anche tutte le altre più mirobolanti del
vocabolario tedesco, ad ammirare tutte le bellezze, che passavano
dinanzi ai miei occhi innamorati: _wunderschön, wundergross,
wunderhübsch_... In Scandinavia bisogna sapere il tedesco, e sulle
coste della Norvegia conviene conoscere l’inglese per non vivere
isolati in mezzo a un mondo che non intendiamo e che non ci intende.
Pur troppo però anche il tedesco e l’inglese non servono che per
parlare colle persone colte; nelle botteghe, col popolo minuto, cogli
impiegati delle ferrovie ci vuole la lingua universale della mimica
e quella ancor più eloquente del denaro e delle minaccie; i due poli
entro i quali si muovono e si fanno muovere tante cose di questo mondo
sublunare.

La mia ammirazione durò tre giorni e tre notti, e all’ultimo era
talmente esaurita da potersi dir morta. I poveri nervi umani hanno
anch’essi dei confini e la coppa della gioia ha pur troppo un fondo che
si trova presto.

Consiglio i _touristes_ di non prendere il battello a vapore a
Götaborg, ma di raggiungerlo colla ferrovia a Traulhettan, per poter
visitar meglio e con maggior calma le incantevoli cascate del Gotaelo.
Così ho fatto; e a piedi, assaporando voluttuosamente il morbido e
fresco contatto dei muschi e delle borraccine, son passato d’una in
altra cascata, sulla guida del vispo e biondo monello, che portava
scritto sul suo berretto: _Cicerone N. 12_; una parola italiana giunta
fino nell’interno della Svezia e portata in capo del più caro e ingenuo
ragazzetto, ch’io m’abbia visto. Altri undici _ciceroni_ gli eran
compagni alla stazione, ma appena videro di non essere stati scelti
a nostra guida, ci salutarono cortesemente, senza neppur lanciare
al cielo una bestemmia o dare un pugno al fortunato rivale. Quanta
differenza fra quei ciceroni numerizzati di Traulhettan e i nostri,
che non portan numero sul berretto, ma che sono così spesso insolenti,
brutali e insopportabili!

Chi ha veduto le cascate classiche della Svizzera troverà che queste
della Svezia sono meno grandiose, ma in nessun luogo ne vedete in
maggior numero e che si succedono con maggiore varietà. Qui il fiume
si precipita d’un colpo da una grande altezza, circondando una rupe
con una chiesuola e un po’ più in là raccoglie un getto di spuma per
lanciarlo in un abisso nero, stretto e profondo; mentre a un mezzo
chilometro di distanza le acque spumeggiando fanno fra le rupi tre
o quattro salti, che si alternano con ondosi riposi, a guisa di un
cavallo, che fremendo caracoleggi. Fanno cornice alle cascate colline
gentili coperte di pini e fabbriche di carta di legno o casette
romantiche, che fanno spuntare attraverso gli alberi un profilo
civettuolo.

Passate la notte all’albergo di Traulhettan, tutto di legno e fragrante
del simpatico profumo del pino e dei mazzi di fiori e dei ramoscelli
di ginepro o di pino, che voi trovate sparsi nell’atrio delle case
o raccolti in piattini messi per terra in ogni camera; uso svedese e
norvegiano che è pieno di selvaggia poesia.

Al mattino seguente lasciate la terra e vi imbarcate nel _Baltzan
von Platen_, vapore che rassomiglia in tutto a un grosso cetaceo,
ma che porta un nome illustre, quello dell’uomo, che, con ferrea
pertinacia, ha dato alla Svezia una delle vie acquatiche più lunghe e
più meravigliose che si conoscano. Non povertà del paese, non avarizia
di ministri, non capricci di parlamento poterono farlo recedere dal
suo proposito; e oggi coi sistemi di conche, che si succedono le
une alle altre, quasi gradini di una scala gigantesca, centinaia di
canali serpentini allacciano tutto un sistema di laghi naturali; per
cui ferro, legname e passeggeri si muovono da Götaborg a Stocolma,
riunendo due mari e due coste in fraterno amplesso. Il povero Platen
moriva pochi anni prima che la sua gigantesca impresa fosse ultimata,
ma moriva felice di saperla ormai assicurata per sempre. Non volle
grandiosi monumenti: egli dorme l’ultimo sonno sulle rive del suo
canale presso Motala, all’ombra di betule gigantesche, ed io gli ho
cavato il cappello, trovando che aveva scelto a se stesso la più grande
e la più poetica delle tombe. L’uomo che dorme al piede della sua
opera, deve dormire il più dolce e il più glorioso dei sonni.

Attraverso le conche stupende della Scozia ho ricordato il nostro
grande Leonardo e le lontane glorie del mio paese. Come appassionato
amante delle bellezze naturali son rimasto estatico cento volte,
vedendo da lungi le navi gigantesche, che innalzavano i loro alberi
al disopra dei pini, vedendo coi miei occhi avverato il sogno di un
battello incantato, che si muove fra le foreste e in cima dei monti. È
poi davvero incredibile la somma abilità con cui quei marinari infilano
i loro piroscafi e le loro grosse navi in quelle conche, scendendo e
montando senz’urti, senza scosse e senza il menomo accidente. Anche il
timoniere deve essere abilissimo, perchè ad ogni momento il canale si
piega, e si ripiega, come un serpente, seguendo i capricci del bosco e
del piano, accarezzando le rive per baciarne i fiori, non già per fare
avarie alla nave.

A Venersborg il canale si apre a un tratto nel lago di Vener, il più
grande della Svezia, il terzo di tutta l’Europa. Basterà dirvi che ha
una superficie di 5,215 chilometri quadrati, una lunghezza di 150 e
una larghezza di 75 chilometri. È insomma un vero mare, che ha infatti
le sue procelle e i suoi naufragi, ma che io ho trovato tranquillo
e carezzevole, coperto da un magnifico cielo azzurro, intorno a
cui faceva bella corona un’aureola di nubi bianche con forme quasi
meridionali. Dopo aver serpeggiato fra i pini e aver navigato sui
monti, quel gran lago silenzioso e calmo produceva in me una sensazione
nuova, profonda, che mi rammentava le vicende della vita, che si
alternano con quadri così variati.

Finito il lago, rientrate nel canale, e fra l’una e l’altra conca
potete scendere e passeggiare lungo le sue sponde, pestando un tappeto
morbidissimo di fiori, quasi foste in un parco principesco. Ed è un
parco, che è lungo quasi tre giorni di viaggio, e che vi innamora
colle sue fresche ombre, coi suoi licheni scintillanti di rugiada, col
velluto dei suoi muschi. Ad ogni stazione del vapore bionde ragazzine
dal musino sempre pulito, vengono ad offrirvi mazzolini di mughetti, di
narcisi, di lilla, e ve li presentano senza parlare, senza insistere,
accontentandosi di un soldo, magari di nulla. Come erano belle e
carine nel loro silenzio! Mi pareva che fosse la natura stessa, che ci
offrisse quei fiori per mezzo di piccole ninfe, che non erano di questo
mondo.

Dopo un lungo giro di canali, attraversate un altro lago, quello di
Vetter, azzurro come lo zaffiro, e poi altri fiumi e canali senza fine.

Il sole tramonta dopo le nove, in un cielo che fiammeggia fra la
porpora e le perle. Nel morbido contorno delle colline lontane un
mulino a vento gigantesco, fermo anch’esso in tanto silenzio, riposa
l’occhio, e sembra una croce che pianga la morte del sole. I villaggi
dalle case porporine di legno dormono anch’essi, e le betule tremolanti
muovono appena le loro eleganti foglioline e senza far rumore.

Durante la notte, colla luna che fa all’amore con una luce di sole,
che qui e in questa stagione non muore mai, vi sono punti nei quali il
nostro battello si fa strada fra i rami delle betule e dei pini, e noi
possiamo dal cassero accarezzare le piante.

Alla mattina, passate per Motala, città delle grandi officine, e per
una gradinata di conche, scendete nel lago Boven, grazioso, gentile;
un vero amore, uno specchio trasparente, nel quale il cielo si guarda
civettuolo, e vi si riproduce colle sue nubi bianche. Le coste sono
tutte flessuose, tondeggianti, fin voluttuose, con ondulazioni molli di
corpo di donna; pubescenti di abeti e di betule.

In una delle più belle colline si nasconde pudica fra gli alberi
una villa forata a giorno, e il fortunato mortale che la possiede,
nell’atrio della sua casa può vedere in una volta sola due laghi,
perchè il Boven, girando intorno ad una penisola, si raddoppia,
moltiplicando all’infinito le sue bellezze. La temperatura dell’aria è
tiepida e fresca nello stesso tempo, e mi sembra la carezza d’un uomo
burbero, che riesce tanto più simpatica quanto più è rara.

Poi passate Husbyfiöl e il lago di Jocksen, posto fra collinette
ondulate, lillipuziane, con villaggi sparsi e ville bianche e nere,
basse, adagiate in prati molli e fra cornici di pini, e che ti sembrano
fatte per nascondervi le delizie segrete di un lungo amore.

Passato Norskolm, il canale corre parallelo a un fiume che si vede
dall’alto, e che nella moltiforme varietà delle sue rive si svolge
dinanzi ai vostri occhi come un nastro magico. E la corsa fantastica
continua, e voi dai laghi, dai canali, dai fiumi entrate di notte nel
Baltico, senza accorgervene, e di nuovo per un canale ripassate in
un lago, quello di Melarn, che vi condurrà fino a Stocolma. E voi la
vedete seria, là nel fondo dei pini, colle sue alte cupole e il suo
campanile sforato di ferro nero nero, e acuto come una spada.

O amanti fortunati, che volete un nido fresco e tranquillo per godervi
il vostro primo amore, andate nella verde Svezia, e baciatevi sulle
rive di quei laghi che mi hanno innamorato.


III

Stocolma è una bella città, severa e grande, e le fanno cornice alcune
foreste così profonde, così verdi, così alte da far diventar druido
chiunque passeggi sotto le vôlte di quelle betule gigantesche e di
quelle quercie, che contano i secoli come noi contiamo gli anni. Chi ha
confrontato Stocolma a Venezia non ha visto Stocolma o non è mai andato
a Venezia, o, meglio, non ha veduto alcuna di queste città. La capitale
della Svezia è posta sull’acqua e circondata dall’acqua; ma non ha il
silenzio misterioso dei canali veneziani, non ha i marciapiedi di mezza
città cambiati in acqua, non ha la gondola; infine non è un luogo che
ti fa dire: _Qui non si può che cospirare o fare all’amore._ Stocolma
è posta sulle rive del lago Målar e sopra un’isola che si adagia sulla
sua imboccatura nel mare e l’acqua s’intreccia colla terra in amplesso
amoroso; per cui in nessun altro luogo si sente più vivo il bisogno di
avere un _yacht_ elegante per muoversi in quel labirinto di acque salse
e di acque dolci, di foreste e di ville.

La città è dominata dall’imponente palazzo reale, che innalza le sue
mura colossali con pareti di 130 e 137 metri. Di faccia vedete un altro
palazzo, che non è fatto per i re, ma per _comfort_ dei viaggiatori;
è il Grand-Hôtel, uno dei più belli che abbia veduto in tutta Europa
e che domina colla sua posizione il più bel panorama di Stocolma.
Tanto qui come in Danimarca vedete alternarsi la pura architettura
greca colla scandinava. Parrebbe in teoria che, messe l’una accanto
all’altra, dovessero dare una nota stridente di disarmonia, ma le
affratella una certa maestà severa, che viene dalla semplicità delle
linee. Tutto può passare in architettura, purchè rappresenti un’idea;
nulla più mi ripugna del pasticcio, dell’invasione delle chincaglierie
e fin delle confetterie nei sacri dominii di quell’arte suprema, a cui
dovrebbero attingere ispirazione e guida tutte le altre.

Il palazzo delle Belle Arti, o Museo nazionale, è uno splendido
edifizio di architettura veneziana del rinascimento, e noi vorremmo
vedere così splendidamente alloggiati i nostri capolavori.
Sgraziatamente a Stocolma il contenuto è meno importante del
contenente. Nell’atrio vi accorgete subito di essere in Scandinavia,
ammirando le tre statue colossali fatte dal Fogelberg, di Odino, Thor
e Balder. Al primo piano troverete molti disegni del Dürn, e alcune
statue di Sergel, di Byström, di Göthe, di Fogelberg e Quarnström, che
non si vergognano troppo di vedersi accanto all’Endimione dormiente,
quello stesso che fu trovato nel 1783 nelle rovine della Villa
d’Adriano. Come cosa curiosa, non lasciate di guardare una Venere
Callipigia, che il re Gustavo III fece fare da Sergel, mettendovi la
testa della contessa di Höpken, per vendetta dell’opposizione, che
questa dama dell’alta aristocrazia moveva alla Corte.

Stocolma ha anche un museo preistorico dedicato solo alla Svezia, un
museo etnologico ricco specialmente in oggetti delle razze iperboree,
e un museo antropologico, che è storicamente il padre di tutti i musei
antropologici del mondo, essendo stato fondato dal grande Retzius,
creatore della craniologia moderna e padre di uno dei più illustri
scienziati che abbia oggi la Svezia. Il figlio è professore d’istologia
nell’Università e con Kei ha fatto scoperte importantissime sulla fine
struttura del sistema nervoso. In questi giorni ha pubblicato un’opera
gigantesca sull’etnologia e la craniologia dei finni e che non sarà
messa in commercio essendo stata tirata a soli 200 esemplari; ma di
questi una dozzina almeno è destinata all’Italia, che Retzius e la
sua signora adorano tanto, da aver convertito la loro casa ospitale
in un piccolo tempio dell’arte italiana. Mobili, sculture, acquerelli,
incisioni, vasi, tutto è italiano, e belle piante del tropico, facendo
corona a quei gioielli artistici, ti fanno del tutto dimenticare che
tu sei su terra scandinava. Ora Retzius si sta occupando dell’istologia
comparata dell’orecchio nei batraci, nelle salamandre e nei pesci, e le
sue prime scoperte sono già molto importanti, portando nuovi e preziosi
materiali alla scienza darwiniana.

Per non parlare che dei miei studii, quanti grandi scienziati non ha
oggi la Svezia; e il Loven, l’Illebrand padre a figlio, l’Axel Kei, il
Montelius, il Van Düben, lo Stolpe e tanti altri, stanno a dimostrarci
che le terra che ci ha dato Linneo e Berzelius, continua ad esser
feconda di grandi uomini, che aprono orizzonti nuovi nel campo della
natura.

La fisonomia degli svedesi è caratteristica. Nel basso popolo tu vedi
non rare le facce a tipo finnico, direi quasi lapponico; sono quadrate,
larghissime con naso piccolo, bocca grande. Nella classe alta vedi
invece la fisonomia germanica o meglio _scanica_. In generale è gente
grassa, bionda, robusta e rubizza, che esprime la forza e la bonomia;
occhi grigi o azzurri, non grandi. Allegri, senza _grazia rotonda_
nei loro movimenti. Tutto è in essi angoloso; salutano inchinandosi, a
guisa di compasso che si chiuda, o abbassano e innalzano il cappello
più volte come macchine. Cortesi, ospitali, ti offrono mazzolini di
fiori ad ogni momento.

Fu detto che gli svedesi sono i francesi del nord, ma ciò fu detto
anche dei russi e queste frasi ad effetto sono quasi sempre dei _lieux
communs_, che ci risparmiano le osservazioni fine e profonde. Un
carattere umano è cosa che non si definisce con una frase.

Fu anche detto, che i costumi sono piuttosto _facili_ nella Svezia, e
qualche statistica proverebbe che Stocolma è, dopo Monaco, la città
che dà in Europa il maggior numero di figli illegittimi. Io vorrei
ancora mantenere aperta la questione, perchè ho veduto molto contegnoso
il riserbo nelle figlie d’Eva d’ogni classe, e non ho trovato le
etarie, che in tante altre città portano in giro le loro provocazioni
impertinenti.

Nella Svezia ho trovato assai accentuata una tendenza democratica
nelle classi medie e più ancora fra gli uomini di lettere e di scienza.
Mentre in Danimarca un nastro all’occhiello fa felici tanti mortali,
nella Svezia nessuno porta il nastro e conosco molti professori
dell’Università che lo hanno rifiutato. Il Nordenskjöld, il grande
esploratore del polo, che si aspetta da un giorno all’altro col
bottino glorioso delle sue intraprese, ebbe una volta una lezione dal
re. Questi gli aveva conferito non so qual ordine e il Nordenskjöld
l’aveva rifiutato. Il grande scienziato alla sua volta offerse al re
una magnifica pelliccia portata dal suo viaggio, e Oscar l’accettò,
dicendogli: «Tu sei più superbo di me; io ho accettato il tuo dono, tu
hai rifiutato il mio.»

Il partito _pietista_ è nella Svezia molto _remuant_, ed è combattuto
con molta vivacità dalle classi medie e dagli scienziati. L’istruzione
popolare è coltivata con immenso amore, e le signore più distinte di
Stocolma vi dedicano il meglio del loro tempo e del loro danaro.

Ho avuto il piacere di essere invitato ad un pranzo, in cui il Retzius,
con squisita cortesia, volle circondarmi degli antropologi e fisiologi
più illustri della capitale. Più schietta, più larga, più splendida
ospitalità io non aveva mai veduto. Un pranzo in Svezia è qualche cosa
di originale, di grande, che rammenta il medio evo nelle sue più belle
forme. Innanzi tutto vi vedete schierati in tavola almeno dodici o
venti piattini, nei quali la terra e il mare vi offrono i loro tesori
più pizzicanti e appetitosi; lingua di bue e uova di merluzzo, aringhe
della Norvegia e anguille marinate, salame crudo e prosciutto. Si
pizzica qua e là e poi si beve un bicchierino d’acquavite, che potete
scegliere profumata in tre o quattro maniere. Poi viene la zuppa, che
può essere di tartarughe o di gamberi di acqua dolce o anche d’ortiche.
Tengon dietro i grandi pesci di mare o di fiume, il cervo o il bove
e i fagiani della foresta; gelati, crema balsamica; i vini di tutti
i popoli della terra che hanno una vigna. Il Retzius con delicata
premura aveva messo in tavola anche il fiasco del Chianti e il moscato
di Gerace. Ed ogni volta che il padrone di casa beveva, m’invitava
a bevere con lui, facendomi sempre un nuovo augurio. Ed io beveva e
ringraziava; mentre tutti i commensali dirigevano verso di me i loro
bicchieri con grazia affettuosa. Sempre che si beve, si invita qualcuno
all’amichevole augurio e questo si chiama _skole_. Circolò anche a
metà del pranzo la maestosa _Olbolle_, immensa tazza di legno dipinto,
piena di birra, e tutti bevettero nello stesso nappo fraternamente.
Dopo il pranzo ognuno va a stringere la mano al padrone e alla padrona,
ringraziandoli. Sono usi patriarcali, pieni di un profumo di antica
cavalleria, che ci riportano a un tempo, in cui non si arrossiva
di esprimere quel che si sente, per poi imparare con sottilissima
ipocrisia ad esprimere quello che non si sente. Benedetti i paesi, nei
quali _progresso_ non vuol dire cancellare tutte le memorie del passato
e vergognarsi di aver avuto degli antenati.


IV

Cristiania è una delle città più originali di Europa, e solo qua e là
ti ricorda qualche lineamento della Scozia e dell’Olanda. Essa è in
ordine di tempo la terza capitale della Norvegia. Toccò all’antica
Nidaros (oggi Trondhjem) l’onore di essere la prima fino al 1397,
quando Margherita, regina dì Danimarca, che fu chiamata la Semiramide
del Nord, univa sul suo capo e tramandava ai suoi successori le tre
corone di Danimarca, di Svezia e di Norvegia. Dopo il 1397 divenne
capitale la città di Opslo, fondata verso l’anno 1100, ma nel secolo
XVII fu totalmente distrutta da un incendio. Fu allora che Cristiano
IV, re di Danimarca, edificò nel 1624 una nuova città, che dal suo nome
fu detta Cristiania.

Nel centro della città avete alcune vie molto larghe e dirette, dove le
case si appoggiano le une alle altre come in tutte le città del mondo,
ma fuori di lì, senza strozzatura di mura nè tirannia di regolamenti
urbani, Cristiania si muove a suo capriccio nel piano, sui colli e
lungo il _fiord_, seminando di ville un largo giro di terreno. Son case
isolate, tutte o quasi tutte di legno, ora candide come il marmo, ora
bianche e nere, ora gialliccie, coperte di piante arrampicanti, che
fanno lieta ghirlanda alle scale esteriori, al balcone e alla _varanda_
e che si nascondono pudicamente fra boschetti di lilla, violetti e
bianchi, che in questa stagione mostrano una profusione incredibile di
fiori di un raro splendore. Dalla maggior parte di queste ville si gode
una vista bellissima sul mare lontano, sui colli e sulla città.

Fra gli edifizi più rimarchevoli di Cristiania ho notato il palazzo
reale, imponente e bello che domina l’intiera città, circondato da un
gran parco, dove passeggiano i pacifici norvegiani, trovando sotto
la frescura degli alberi anche botteghine democratiche, dove bevete
dell’acqua di Seltz per cinque centesimi e vi è servita quasi sempre da
una bionda e giovane figlia di Thor.

Sotto il castello (che così si chiama il palazzo reale) trovate
l’Università, fondata solo nel 1811 e che è divisa in varii edifizi.
Uno di essi è la _Domus Academica_, destinato alle lezioni di teologia,
di diritto, di lettere e di filosofia, e dove hanno sede il gabinetto
numismatico e il gabinetto delle antichità norvegiane. Nell’edifizio
centrale hanno loro stanza la facoltà di medicina coi suoi laboratorii
e i musei di storia naturale; mentre un terzo edifizio, parallelo al
secondo, non contiene che la biblioteca, ricca di circa 200,000 volumi.

Il professore Roeg mi fece da cicerone nel museo preistorico e
archeologico, dove non si trovano che cose norvegiane, che sono del
resto molto rassomiglianti alle svedesi. Anche qui manca affatto
l’epoca paleolitica che la Norvegia non ebbe mai. Il giovane Nielsen
mi fu guida cortese nella corsa che feci nel museo etnografico moderno,
che è giovane di età, ma già molto ricco, specialmente in oggetti della
Lapponia e della Groenlandia. Vi sono anche molte e buone cose della
Polinesia, della Nuova Zelanda e moltissime della China e del Giappone.
Il Nielsen è l’autore della miglior guida per la Svezia e la Norvegia,
guida che ha il merito raro di essere scritta in lingua tedesca e non
in danese[2].

Lo _Storthingshaus_, o edifizio del parlamento, è più originale che
bello, ma ha una fisonomia severa, del tutto medioevale.

Tutta la città coi suoi palazzi, colle sue chiese è però un nulla in
confronto dei suoi dintorni, che formano un parco gigantesco, in cui
potrebbe muoversi ed anche nascondersi tutta la popolazione di Parigi
o di Londra. Vale la pena di venire in Norvegia anche soltanto per
ammirare lo splendido panorama, che si gode dall’alto della torre di
Oscar’s Hall, villa dei re di Svezia, posta sulla riva opposta a quella
su cui è edificata la città di Cristiania. Quel castello, tutto bianco
come la neve, innalza le sue torri merlate sopra un oceano di smeraldi,
dove vi sembra di nuotare in mezzo a tutte le gradazioni infinite del
verde. In fondo il _fiord_, che è lago, mare e fiume in una volta,
colle sue grandi isole; di faccia, la città colla massa imponente del
palazzo reale e la gran cupola della chiesa della Trinità.

Tutto all’intorno colline, piani ondulati, monti, prati e ville e
villaggi e gruppi di betule, che riposano sopra tappeti molli, smaltati
di fiori, o un ondeggiare di ombre e di luci argentine in mezzo ad un
silenzio di uomini e di cose, che nei nostri paesi del mezzodì ci è
affatto sconosciuto. Mai come al castello di Oscar’s Hall io ho provato
l’ebbrezza del verde, del verde fresco, infinito, che riposa e calma i
nervi irritati dal nostro cielo caldo e azzurro.

Ho veduto molte terre e molti mari, ma io credo di poter mettere
accanto ai divini panorami di Rio Janeiro e di Napoli quello di
Cristiania veduta da Oscar’s Hall. Il golfo di Rio è la ricchezza
feconda, inesausta, del cielo tropicale; Napoli è uno dei più bei
quadri della natura mediterranea; Oscar’s Hall è il quadro più fresco
delle verdi bellezze del nord. Nè questo è il solo paesaggio divino,
che si può ammirare nei dintorni di Cristiania. Sono salito anche sul
colle, dove è posto il grande serbatoio d’acqua dolce per spegnere
gli incendi, e ho veduto anche lì profili nuovi e nuove bellezze nel
contorno dei monti e dei colli e nell’argentino bagliore del _fiord_
norvegiano, che mi stava ai piedi. Quel serbatoio, quell’acqua e
l’apparato dei pompieri mi sembrarono però una grande ironia, perchè
proprio in quel momento stesso, in cui mi godeva quello stupendo
panorama, bruciavano cinquanta case di legno in Cristiania, senza che
si potessero salvare che i camini, che erano di calce e di mattoni.

Nessuno però si inquietava molto per quella sventura, dacchè non si
aveva alcuna vittima. I norvegiani sono calmi, sereni, pazienti, come
gente che campa molto e che non si affretta mai. _Straks_ vuol dire sul
dizionario _subito_; ma quando un norvegiano vi dice _straks_, sia pur
egli un cameriere o un negoziante, un cocchiere o un medico, traducete
pure: _mezz’ora_.

Un altro carattere del norvegiano è l’indipendenza e l’autonomia
dell’individuo. Voi arrivate ad una stazione, dove si deve far
colazione o pranzare e voi vi sedete alla _table d’hôte_, aspettando
di esser servito. Potreste aspettare fino al giorno del giudizio
universale: voi dovete alzarvi, prendervi cucchiaio o forchetta e
servirvi da voi, scegliendo fra i molti piatti, che vedete schierati
sopra un tavolo centrale. Così avviene quando in una _cariole_
giungete ad una casa di posta. Prendete pure la vostra valigia,
slegatela e portatela al nuovo veicolo o all’albergo. Essa è piccina
e il viaggiatore deve avere la forza di portarla da sè. Io non ho
mai guidato un cavallo in vita mia, ma qui mi son visto mettere in
mano le redini e da me solo ho dovuto guidare la mia _cariole_ lungo
gli abissi, per vie impossibili, su ponti rotti, e vi assicuro che
lo _struggle for life_ mi ha fatto diventare in due giorni un famoso
_baroccinaio_.

Fuori dell’unica ferrovia che va da Cristiania a Trondhjem, la Norvegia
non ha altro mezzo di locomozione oltre le gambe di ogni bipede implume
che la _cariole_; e vi posso dire, che, all’infuori dei suoi pericoli,
ha molta seduzione. Figuratevi un guscio di noce, nel quale un olandese
non potrebbe far capire la parte molle e posteriore del suo corpo, ma
dove ogni altro abitante d’Europa deve adagiare la suddetta, mentre
poi non sapete sulle prime dove collocare tutto il resto del vostro
corpo. Ben presto però imparate che testa, collo, tronco, braccia e
gambe devono restare in aria e che vi si concedono due staffe di ferro
per appoggiarvi i vostri piedi. Seduto così in aria e tenuto al disopra
della terra da due grandi ruote, avete in mano due redini, colle quali
dovete trasmettere i vostri desiderii al cavallo, che rapidamente e
quasi sempre senza bisogno di frusta vi trasporta per strade senza
pilastrini e dove la menoma distrazione degli occhi o delle mani vi
precipiterebbe in uno dei bellissimi torrenti della Norvegia o per lo
meno in una torbiera o in un prato. Vi assicuro però, che quando avete
scontate le prime paure della vostra inesperienza, voi provate una vera
ebbrezza di movimento in quella locomozione semiaerea e originalissima.


V

Frederika Bremer, scrittrice molto popolare della Svezia, ha fatto
conoscere nei suoi romanzi, a tutta Europa, le feste che si fanno in
Scandinavia per festeggiare nel giorno di San Giovanni la levata del
sole a mezzanotte. I _touristes_ volgari leggono nelle loro guide che
questo fenomeno è curioso, è interessante; e partono da Londra, da
Dublino, da Vienna, per portarsi a Bodö. E là sulle prime frontiere del
circolo artico otto volte su dieci accade che il cielo è coperto dalle
nuvole e il sole non si può vedere nè di mezzanotte, nè di mezzogiorno.
Nel caso fortunato, in cui l’astro maggiore voglia essere cortese,
i _touristes_ anzidetti cavano dal baule la loro lente biconvessa
comperata _ad hoc_ e concentrando i raggi del sole di mezzanotte sopra
un punto qualunque del loro cappello o del loro soprabito, serbano
eterna memoria di una puerilità umana e di una delle più grandi scene
della natura.

E l’ho veduta anch’io quella scena e me ne sono sentito profondamente
commosso; tanto che cavai fuori penna e calamaio e scrissi nel mio
giornale la data memorabile, dirigendo il pensiero ai miei cari, che
avrei voluto chiamare testimoni del grandioso fenomeno. Humboldt, uno
degli uomini che più di ogni altro ha adorato la natura con intelletto
d’amore, lasciò scritto, che quando il viaggiatore giunge nell’emisfero
australe e si accorge che fin le stelle che brillano sul suo capo
sono diverse da quelle che ha ammirato dalla sua infanzia, sente più
profonda che mai la distanza dalla patria lontana. Questo stesso fatto
si verifica, e con maggiore intensità, quando, giungendo nel circolo
artico, si trova abolita la notte e scomparse per giorni e settimane le
tenebre.

Io era in mare, quando con un cielo serenissimo salutai per la prima
volta l’alba della mezzanotte. Aveva passato di poco l’isola pittoresca
di Torghatten e navigava in quel labirinto insuperabile di monti
nevosi, di colli, di isole, di canali e di coste frastagliate, che
formano una delle scene più originali di questo nostro mondo sublunare.
Il cono di Torghatten si disegnava grande e isolato in un campo di
opale dell’Ungheria, richiamandomi alla mente il _Pan de Azucar_, che
sta all’entrata della baia di Rio de Janeiro. Era quasi la mezzanotte
e del sole non rimaneva sull’orizzonte che un piccol lembo falcato, una
_pepita_ d’oro senza raggi, perchè la refrazione dell’atmosfera marina
ci dava l’immagine di un sole che era già scomparso per pochi istanti.
Da quel punto irradiava una luce d’argento dorato, che illuminava ogni
cosa, come si fosse veduta attraverso un topazzo del Brasile. Tutti
si domandavano, se quell’arco d’oro fosse di sole morente o di sole
nascente. Era l’uno e l’altro insieme, o piuttosto nè l’uno nè l’altro:
era un fantasma del nostro padre massimo, del pontefice supremo della
vita planetaria, che si faceva rappresentare da una larva, mentre era
andato a riposare per pochi istanti. Qualche nubecola crepuscolare
riposava l’occhio in tanta allegrezza di luce, quando ad un tratto
i monti nevosi a mezzodì si fecero color di rosa; poi quel sorriso
innamorato scese giù giù, accarezzando le betule tremolanti, i licheni
policromi, finchè tutto il mare fu preso da un fremito di vita al primo
bacio del sole nascente e dorò le sue onde di zaffiro con uno splendore
di armatura brunita.

Dopo una breve pausa, il sole riuniva in una bellezza sola due
crepuscoli, quasi due sospiri di un amore stanco di voluttà e d’un
altro amore che ricomincia con desiderio nuovo. Un silenzio infinito
avvolgeva uomini e cose, quasi tutto volesse salutare rispettosamente
quella grande scena della natura, immagine di una vita ideale, in cui
il riposo non è che un mutar di lavoro e la luce regna sempiterna e
feconda.

Ahimè! tutto ciò che è grande e sublime dura poco; e quando ogni
giorno da un pezzo voi vedete il sole per ventiquattr’ore di seguito,
incominciate a desiderare le tenebre amiche, che ci riposano gli occhi
e i nervi e il cuore, e colle loro ombre pietose coprono tante miserie
e tante brutture. Noi, uomini di zona temperata, fin dall’infanzia
siamo cresciuti in questa alterna vicenda di luce e di tenebre, e
così come il sole ci invita al lavoro e alla gioia col primo raggio
dell’alba, così ci riposa e ci addormenta col primo velo di tenebre,
con cui ricopre i cieli. L’ombra è il riposo della luce, così come il
sonno è l’ombra della vita, e la luce non ha valore senza le tenebre,
come senza il riposo ogni forza si consuma. Qui invece, dove mi trovo,
la luce ti perseguita sempre, e le case piene di finestre, senza
persiane, senza imposte, ti imbevono di sole ogni ora, ogni minuto del
giorno e della notte; ed io mi guardo più di una volta per vedere,
se mai non fossi diventato trasparente, come un cristallo di rocca.
Il sonno scompare e col sonno la pace dei nervi. E chi andrebbe a
letto quando il sole fiammeggia nell’orizzonte? E quando ti svegli di
notte e ti vedi circondato di luce, ti siedi a soprassalto, credendoti
in ritardo e svegliato di pieno mezzogiorno. La luce sempiterna può
essere un tormento del troppo, come le tenebre sono una tortura del
nulla, e l’estrema Lapponia è nell’estate pessimo clima anche per la
sovraeccitazione continua dell’attività nervosa.

Tutta questa trasposizione di luce ha però quadri secondari di
singolare bellezza. Ad esempio, tu passeggi per le vie solitarie di un
villaggio o di una piccola città: le botteghe attraverso i vetri senza
imposte lascian vedere le loro merci, le case mostrano i loro vasi
di fiori; tutta la vita intima dell’umana famiglia (di una famiglia
senza ladri e senza assassini) si lascia vedere in una nudità pura come
l’innocenza.

Eppure per quelle vie non si vede anima viva, e la luce silenziosa e
trasparente passeggia sola in un mondo abbandonato dagli uomini. Rumore
e luce sono per noi compagni fedeli; qui nelle notti della Norvegia
trovi il silenzio e la luce, che sembrano abbandonarsi ai misteri di un
amore nuovo, di un amore che si direbbe incestuoso.

Io dovrei descrivervi ora le mille e una bellezze delle coste
occidentali della Norvegia, ma chi mi può prestare la magica tavolozza
del mio grande De Amicis? Dovrei dirvi di avere ammirato per la prima
volta una Svizzera in mezzo al mare, e di aver veduta una nuova e
singolare armonia di cose, che sogliono essere disgiunte, quali i
ghiacciai che vanno a toccare l’onda azzurra, e le navi che toccano coi
loro fianchi i monti coperti di prati alpini. E sono catene di monti
che ti accompagnano per giorni e giorni, che si accavallano, che si
intrecciano, quasi ti volessero sbarrar la via, e poi ti aprono una
porticina, e il tuo sguardo di nuovo penetra in altri fiumi di mare, in
altri labirinti di isole, in altri dirupi di roccie scoscese, lacerate
dai ghiacci secolari, dalle bufere, dalle valanghe, dai venti, da tutti
gli agitatori massimi della natura.

Una fanciulletta, che va colle forbici capricciose ritagliando in un
foglio di carta seni e merletti, non potrebbe superare ciò che ha
fatto la natura, frastagliando i _fiords_ della Norvegia e facendo
penetrare il mare in seni di pochi metri o in labirinti di centinaia di
chilometri, che sembrano portare la circolazione capillare della vita
fin nei più interni recessi del continente.

Mancano a quasi tutti i monti della costa e delle isole della Norvegia
occidentale le foreste delle nostre Alpi, ma non mancano però i piccoli
quadri pittoreschi della vita umana e della vita animale. Dopo un
lungo deserto di scheletri di monti, in un piccolo seno della costa
vedi un prato verdeggiante e un boschetto di betule, e lì annidato
un villaggio di legno con cinque o sei case, e all’intorno piccole
torricelle di merluzzo che seccano al sole, e vedi biondi e rosei
fanciulletti e giovani splendenti di salute folleggiare per i prati.
Così su qualche scoglio nero come il carbone trovi casette artificiali
di pietra apprestate dall’uomo all’_eyder_ che vi annida, preparando
ai suoi figliuoli un letto di mollissime piume, che appresterà
più tardi voluttà orientali ai molli fianchi delle nostre ricche
signore. Quelle anitre norvegiane si sentono così protette dall’uomo,
che non si lasciano sgomentare dalla sua presenza, e perfino si
lasciano accarezzare dalle nostre mani. Dove una regione è dichiarata
_vogel-vere_, significa che quel luogo è sacro, che lì annidano gli
_eyder_, una delle ricchezze norvegiane, e che per qualche miglio
all’intorno è proibito tirare un colpo di fucile, per non spaventare
quelle anitre polari. E qui le leggi si ubbidiscono assai più che tra
noi, senza bisogno di _policemen_ o di _questurini_.




CAPITOLO SECONDO

  LA GITA A ÖJUNGEN — I PRIMI LAPPONI.


Ritornando un passo addietro, io voglio raccontarvi una gita fatta
sull’altipiano centrale della Norvegia per visitare alcuni lapponi,
che abitano da tempo immemorabile le montagne che circondano Röros. Il
professor Fries, prima autorità in fatto di cose lapponiche, ci aveva
detto a Cristiania, che quei lapponi rappresentavano il tipo più puro
della loro razza e per animarci a visitarli, ci aveva dato una lettera
di raccomandazione per suo fratello, distinto ingegnere che dirige le
fonderie di rame di Röros.

Partii dunque il mattino del 15 giugno da Cristiania coll’amico
Sommier, con quell’entusiasmo pieno di curiosità e d’impazienza,
che ci porta a veder le cose nuove. Il tempo era di malumore e ci
ricordava le giornate bizzose del nostro mese di marzo, quando con
bisbetica alternativa piove, tira vento e brilla il sole a pochi
minuti di distanza. Il malumore del cielo però non poteva passare in
noi; perchè un clima interno di calda contentezza ci corazzava contro
tutte le intemperie della Scandinavia. Fra due o tre giorni, fors’anche
all’indomani, noi avremmo veduti i primi lapponi; come avremmo potuto
essere scontenti?

Alle otto del mattino coll’ultimo fischio d’una piccola locomotiva
si lasciava la città di Cristiania e si dirigeva la prora dei nostri
ardenti desii (come direbbe un secentista) verso Röros. La pioggia
rendeva uggioso il paesaggio e si preferiva cercare nell’interno del
vagone un’occupazione al nostro pensiero. La guida tedesca del Nielsen,
lo studio di alcune parole norvegiane ci rubarono le prime ore del
viaggio; poi si passò all’esame del piccolo ambiente in cui eravamo
chiusi. Vagoni piccini, ma puliti: fra l’uno e l’altro scompartimento
un’urna di cristallo piena di ghiaccio ci offriva acqua fresca per
mezzo di un rubinetto argentino; ma non se ne sentiva davvero il
bisogno, involti come eravamo ancora nei caldi soprabiti d’inverno. Un
immenso cartone appeso al vagone ci offriva una carta geografica del
paese che si percorreva, colle stazioni, coi minuti di fermata e con
tutte le notizie necessarie al viaggiatore. Un altro cartello dava i
prezzi degli alberghi, che avremmo trovati lungo il cammino e dove si
sarebbe potuto passar la notte. Eccovi un saggio di queste preziose
indicazioni:

  HOTEL DI KOPPANG (Centrale)

  16 camere e 38 letti

  Una colazione con carne calda o fredda, da  Kr. 1 a 0,80[3]
  Un pranzo con due piatti caldi di carne     »   1,25
  Un pranzo con un piatto di carne fredda     »   0,80
  Una cena con carne calda o fredda, da       »   1,50 a 1
  Un pane burrato                             »   0,10 öre
  Un caffè o thè                              »   0,20
  Una bottiglia di birra                      »   0,40
  Un bicchiere di latte                       »   0,10
  _Alloggio._ Una camera                      »   2,00
  Due letti in una camera, ciascuno           »   1,50
  Tre o più letti in una camera, ciascuno     »   1,25

Seguono poi i prezzi di due altri alberghi di secondo ordine.

Un vagone norvegiano è una guida e una scuola. Un terzo cartello in
lingua norvegiana e in inglese vi avverte di non gettar dalle finestre
i fiammiferi o i sigari accasi, perchè potrebbero incendiarsi le
foreste, che attraversate.

_Passengers are requested not to throw lighted cigars, matches etc.
out of the carriage windows. The doing so has occasionally caused turf,
heath and thereby forests to be ignited._

Intanto vengono le 10,46’ e si deve scendere dalla ferrovia alla
stazione di Eidsvold per attraversare in un battello a vapore il
lago di Mjösen, il più bello di tutta la Norvegia, che ha la forma
ad _ipsilon_ come il nostro lago di Como e che per le sue rive,
povere di villaggi, ma ricche di pini e di rupi scoscese, rammenta
i laghi scozzesi. Pranziamo a bordo serviti da bionde e robuste
amazzoni scandinave, che sono assai più lusinghiere dei piatti, che
ci sono serviti: montone allesso, l’eterno salmone, l’eterna birra e
un’insalata condita con zucchero e latte. Una crema eccellente servita
col _multeber_ (frutti del _rubus chamaemorus_) mi riconcilia però
colla cucina norvegiana e mi fa benedire la vita. Benchè lombardo,
devo per amor del vero confessare, che la panna della Norvegia è molto
superiore alla nostra, che pure è tanto squisita: essa è soave e grassa
come la lombarda, ma è più profumata e meno densa; è un vero balsamo
per i ventricoli schizzinosi e di difficile contentatura.

Alle 2,15 il lago di Mjösen è tutto percorso e si ritorna in ferrovia,
dove con grande compiacenza trovo che il mio biglietto di seconda
classe mi dà il diritto di passare in prima ed io entro col fido
amico in un vagone tutto specchi e velluto porporino. In quel grazioso
salotto si attraversano bellissimi boschi molto fitti di abeti, che
s’innalzano sopra molli tappeti della _cenomyce rangiferina_. Qua e là
vediamo casette di legno tutte coperte di terra che alberga arboscelli
e erbe, un vero giardinetto aereo posto sul capo dell’abitazione
dell’uomo. Sulla riva destra del Glommen incontro sei o sette villaggi,
sempre di legno e variopinti. Le stazioni son tutte piccine, ma
linde, ma pulite. Non mancano mai i vasi di fiori dietro le finestre
e campeggia sempre un enorme termometro, che annunzia a tutti uno dei
fatti più importanti per la salute dell’uomo in quei paesi iperborei.
Alcune stazioni sono ornate di corna di alce o di rangifero.

A destra ci accompagna sempre il fiume Glommen e qua e là grossi
ammassi di ciottoli morenici ci dicono ad alta voce, che noi
percorriamo il letto di antichi ghiacciai.

Alle stazioni osservo con attenzione di antropologo la faccia degli
abitanti. Fra le faccie lunghi e bionde e le grosse teste degli
scandinavi spiccano nel basso popolo altre faccie mongoloidi molto
larghe e con naso molto piccolo. Saranno finni o lapponoidi? Non
rispondo alla domanda, perchè troppo facile è arrischiare congetture e
fabbricare teorie, ma la scienza severa giudica le une e le altre come
altrettante pagine di romanzi storici.

La stazione di Koppang ci ferma alcuni minuti e si lascia ammirare.
La circondano belle case di legno a grosso bugnato; ma io preferisco
sempre ai lavori dell’uomo le opere della natura e sulla guida del
mio Stephen, che erborizza anche nelle stazioni, colgo in quei pressi
per la prima volta la _betula nana_, il più microscopico albero
dell’Europa, molte viole silvestri del pensiero e una bellissima
ericacea, l’_andromeda polifolia_.

Si giunge a Toenset alle 11,55’ della sera e si cena con salmone
salato, uova sode e birra. È in questa stazione che dobbiamo passare
la notte: perchè in Norvegia non si viaggia che di giorno e il treno,
come una buona e brava diligenza dei tempi passati, sta fermo dinanzi a
noi, aspettandoci al risveglio dell’indomani; mentre molti viaggiatori
lasciano nei vagoni le loro cose, sicuri di trovarvele intatte
all’indomani. Il nostro albergo, tutto di legno, ha sulla porta grandi
corna di renne e la nostra cameruccia è piccina piccina, il letto
piccino piccino e la luce pacata d’una notte che è giorno c’inonda
soavemente, cullandoci in una sonnolenza, che non può esser sonno.

La luce velata si fa poco a poco luce viva, sfacciata; i due crepuscoli
della sera e del mattino, come due ardenti innamorati, che non possono
separarsi che per pochi istanti, si son dati un nuovo bacio e si sono
confusi in un amplesso di una sola aurora. La tromba del treno ci
avverte, che convien partire; ma se qualche viaggiatore si è attardato,
o se vuole con maggior agio sorbire il suo caffè, il conduttore non
ne farà per questo una questione di gabinetto e ritarderà di qualche
minuto la partenza. Qui gli uomini non son fatti per i treni, ma i
treni per gli uomini e le ferrovie sono piene di bonomia, di pazienza e
di condiscendenza.

Siamo rientrati nel nostro elegante salottino di velluto rosso, ma lo
possiamo godere per poco più che due ore; perchè la stazione di Röros
ci arresta. È qui che dobbiamo raccogliere le notizie sui lapponi di
Ojung, è qui che il bravo ingegnere Fries deve servirci di guida e di
maestro per la nostra avventurosa spedizione. Egli è così gentile,
che mentre ci dirigiamo alla sua casa, egli ci è venuto incontro e
ci indovina, senza bisogno di fotografia o di passaporto colle note
personali. In casa sua si studia la carta geografica del luogo e si
decide di inviare un telegramma all’ingegnere Hauan, che ad Eidet
dirige un’altra fonderia di rame. Ci risponde dopo qualche ora, che vi
sono lapponi a Ojungstrakten e ch’egli all’indomani ci aspetterà alla
stazione di Eidet con tutto il necessario per la nostra spedizione.

Röros è luogo triste e che ti agghiaccia il cuore; è posto nel
centro della Norvegia sopra un altipiano a più di 2000 piedi sul
livello del mare; nessun albero: una landa quasi deserta, sparsa di
rovine di ghiacciai, monti all’intorno mal disegnati, brulli, quasi
mai abbandonati dalle nevi. Nell’inverno gela sempre il mercurio e
l’ingegnere Fries nell’ultimo inverno ha fatto un bel chiodo argentino
di mercurio, battendolo a colpi di martello sopra un’incudine. Le case
piccine, grigie; vie selciate di scorie metallurgiche; fumo, vapori di
solfo dappertutto; un torrente, che ha lacerato le viscere di quella
terra infeconda e mugge fra i massi di carbone e i cumuli del minerale
di rame, che dà a quel paese un pane, che deve sapere di solfo ed
essere freddo anch’esso.

Anche a Röros raccolgo però due sorrisi di bellezza e di vita. Nelle
aride sabbie, che circondano quel paese infernale, fioriscono spontanei
cespugli così fitti di viole del pensiero, da farne un mazzo con una
sola pianta. Nell’albergo della stazione, fragrante di resina di pino,
sorridono altri fiori: sono le bionde e rosee figlie del capostazione,
che è anche oste, e che dai loro occhi azzurri lasciano piovere raggi
di fresca giovinezza e d’innocente simpatia. Ti portano il caffè di
buon mattino, quando tu sei ancora a letto, fidando giustamente nella
loro virtù e nel rispetto dell’uomo per la purezza virginea della
giovinezza.

Da Röros la ferrovia discende fino ad Eidet e mano mano si va lasciando
l’arido altipiano, gli alberi s’innalzano e la foresta si fa più folta.
Ad Eidet è pronto l’ingegnere n.º 2, il signor Hauan, che colla sua
faccia seria si direbbe molto ammusonito per dover accompagnarci in
cima ai monti in cerca di lapponi; ma che invece è tutto cuore, ci
ha già preparato un cavallo, un carretto, e gli uomini necessarii per
portare alla sua fonderia, che è giù nel fondo della valle, i nostri
pesanti bagagli fotografici.

L’ingegnere Hauan, discepolo della scuola di Freiberg, è uomo di poche
parole, ma di molti fatti. Egli vede scendere le nostre casse dal
vagone dei bagagli e le guarda con straziante silenzio. Alle nostre
insistenze, perchè voglia tradurci in lingua tedesca, e magari anche
in lingua danese, quel suo silenzio, risponde con degli _hum hum_,
molto lunghi e di pessimo augurio. Siam dunque costretti, io ed il mio
compagno, a fare da noi stessi la traduzione di quel tenebroso silenzio
ed eccola qui in poche parole: _Questi due italiani son due veri
matti, se pensano di poter portare sulle alture di Ojung le loro casse
fotografiche e sarebbe più semplice far scendere i lapponi e fors’anche
le montagne nel fondo della valle._

Nulla di più crudele quanto il dover parlare in una lingua straniera
con poche e stentate parole con un uomo che tace in tutte le lingue. Si
sentono venire al labbro fiumi di parole e di ragioni e di persuasioni,
torrenti d’interrogazioni, di seduzioni e di argomentazioni e si
vorrebbero tutte quante schierare in legioni, in reggimenti, in
squadriglie, in batterie, per persuadere, per chiedere scusa, per farsi
perdonare; e invece da una parte un monolito umano, che vi guarda e
tace; e dall’altra le vostre poche parole, che escono ad una, ad una,
stentate, storte e sempre male a proposito. Se Dante ritornasse in
vita, assegnerebbe un nuovo girone al suo inferno, condannando tutti
gli uomini espansivi e ciarlieri alla tremenda pena, che io ho sofferto
alla stazione di Eidet nell’altipiano centrale della Norvegia.

Se non si può parlare, vediamo dunque di schierar fatti contro fatti,
e là nella stanza delle merci di Eidet, io e Sommier ci mettiamo a
semplificare il nostro bagaglio fotografico, riducendolo ai minimi
termini possibili. La camera lucida col grande obiettivo Dalmayer, la
tenda per lo sviluppo, poche lastre e pochissimi reattivi. E intanto
per colmo della nostra felicità, piove.

Il _minimum possibile_ intanto è installato in un baroccino a due ruote
tirato da un pachiderma, che ha in una volta sola dell’asino, del mulo
e del cavallo e accompagnato da noi, che camminiamo a piedi, scende
giù per la china alla fonderia diretta dal signor Hauan. Ospitalità
schietta e sincera, signore bionde e rosee, bambini di latte e di miele
ci riconciliano colla vita e coi lapponi di Ojung. Finita la colazione,
l’uomo dalle poche parole e dai molti fatti ci invita a passare nel
cortile, dove è pronta la carovana, che ci deve portare alla meta
del nostro viaggio. Un cavallo per il signor Hauan, una _cariole_ per
me, una seconda _cariole_ per Sommier, un carretto a due ruote per il
bagaglio trascinato dal pachidermo di specie incerta. Ognuno si mette
al posto assegnatogli, ed io colle mie redini in mano, per la prima
volta in mia vita guido un cavallo, senz’essere a cavallo. E su, e su
per erte pendici popolate di pini fino a Törmo, dove anche le _cariole_
non possono più avanzare e conviene trasformare gli animali da tiro in
cavalli da sella. La sola carretta e il solo cavallo _incertae sedis_
tireranno avanti così come stanno. Mentre la carovana subisce questa
radicale trasformazione, si entra in una casa di Törmo, dove ci offrono
latte freschissimo, sedie di legno bianche quasi quanto il latte e
volti sorridenti della più cara, della più simpatica ospitalità. Le
donne sono occupate nel forno a fabbricare il loro _fladbröd_ o pane
piatto. È una scena dei nostri padri dell’epoca della pietra. Una donna
dalle robuste braccia nude, con singolare agilità e prestezza foggia
un sottilissimo disco di pasta, in cui entrano molti cereali diversi,
segale, orzo, fors’anche avena; e appena è fatto lo getta sopra un gran
disco di pietra, che è stato riscaldato rapidamente da un buon fuoco
di fuscelli. L’alta temperatura di quella pietra e la sottigliezza
della pasta rendono la cottura quasi istantanea, e il cialdone scottato
sulle due faccie è raccolto secco e semitostato e già pronto ad entrare
in bocca di chi abbia appetito. Questo pane nazionale della Norvegia
dura mesi ed anni, è saporito, di facile digestione e può sembrare un
manicaretto in confronto del pane dei lapponi, più preistorico che mai.

Ma noi siamo già a cavallo, abbiamo già salutato le nostre donne del
forno e su e su per l’erta del monte, che diventa sempre più ripido.
Intanto una pioggia minuta, gelata, uggiosa ci penetra fino alle ossa e
ci rende tutti quanti più muti dei pesci. Io guardo Sommier dall’alto
della mia sella. Sommier guarda me dall’alto della sua; non possiamo
dire davvero di divertirci, ma si subisce il martirio, aspettando
i lapponi. Non dallo spegnersi della luce, che in quelle latitudini
e in quella stagione non si spegne mai, ma dalla nostra stanchezza
si capisce che l’ora d’andare a letto dovrebbe esser già venuta; ma
il direttore della carovana tira sempre via e le guide lo seguono
ammusonite e di pessimo umore. L’orologio ci dice, che le undici della
sera sono vicine e ci viene imposto di fermarci, mentre ingegnere e
guide, chi a cavallo e chi a piedi, si sbandano per diversi sentieri,
in cerca di qualcuno o di qualche cosa. Cercano forse i lapponi e
l’idea di passare la notte in una capanna lappone ci rialza gli spiriti
affranti e ci promette molta poesia. Cercavano invece un _saeter_. E
il _saeter_ fu trovato: una casuccia ridotta alle minime proporzioni,
di legno e di paglia, dove i pastori passano due mesi dell’estate
per far pascolare le loro vacche. La chiave è nascosta nel tetto, a
cui si giunge all’altezza del braccio. Si entra chinando il capo e
si accende subito la stufa di ferro, che è la parte più importante e
più cara di tutta la casa. In un momento i rami di betula schioccano,
ardono e riscaldano il piccolissimo nido in cui siamo raccolti, mentre
i cavalli lasciati in libertà sotto la pioggia minuta o gelida cercano
fra le zolle appena abbandonate dalla neve qualche filo d’erba stenta e
gialliccia. Del pane, del burro, della cioccolata e dell’acquavite ci
tengon vivi fino all’indomani e distesi sul legno ci prepariamo alle
future fatiche. Tre ore di sonno son presto passate e l’alba di un
giorno che non è mai morto ci invita a rimontare a cavallo.

Sono le tre del mattino e siamo già tutti raccolti davanti alla
porticina del _saeter_, circondati da un anfiteatro di monti coperti
di neve. Ai nostri piedi, nel fondo della valle, dorme il pittoresco
lago di Ojung, colle sue isolette multiformi, piene anch’esse di neve
e di alberetti brulli, dove col nostro canocchiale possiamo vedere le
prime gemme verdeggianti (è il 18 di giugno!). Se gli alberi lassù
dormono ancora gli ultimi sonni del lunghissimo inverno, i prati
sottili di quelli altipiani sono una vera bellezza, ed anche l’uomo
meno innamorato della natura li rassomiglierebbe subito ad un tappeto
della Persia, tanto sono variopinti e nel loro disordine policromo
seducentissimi. Il mio Stephen, che mi accompagna nel mio viaggio, che
mi conforta nella durezza del cammino coll’intelligente affetto e la
giovinezza gagliarda, battezza per via tutte quelle gentili creaturine
della flora norvegiana, ed io, conoscendole per nome, sento di amarle
meglio.

È difficile trovare una vegetazione più originale, più caratteristica
di quella che ho ammirato sugli altipiani di Ojung. Lassù alberi,
muschi ed erbette, domati dal comune nemico, il freddo, si fan tutti
piccini, si livellano alla stessa altezza e formano una superficie
a cento colori, quasi una cesoia intelligente li avesse tosati. Fra
i cespugli microscopici della _Betula nana_ tu vedi i fiori folti
della _Azalea procumbens_ di color di rosa, i cuscinetti bianchi
della _Diapensia lapponica_, i ricami rossi anch’essi della _Silene
acaulis_, le chiazze gialle della _Pedicularis oederi_, le macchie
bianche dell’_Arctostaphylos alpina_, le testoline dorate della
_Viola biflora_; mentre fra un giardinetto e l’altro si distendono i
microscopici boschetti dell’_Empetrum nigrum_ e i larghi ciuffi dei
licheni dai cento colori. Fra essi erge il suo capo molle e vaporoso la
_Cenomyce rangiferina_, che ti fa sapere come il renne non debba esser
lontano.

Ma pur troppo l’amor della vita non mi lascia ammirar lungamente quel
tappeto persiano disteso sugli altipiani della Norvegia. Le difficoltà
del cammino crescono ad ogni passo. Ora è una palude torbosa che
ci minaccia, ora è un cumulo di neve che intercetta la via e dove i
cavalli sprofondano: una volta il mio cadde sulle ginocchia e fu un
miracolo se si potè uscirne, io e lui, colle membra sane.

Pioveva, faceva freddo e il silenzio intorno a noi era più freddo della
neve; ma al di là del lago vi erano i lapponi e si tirava avanti con
molta rassegnazione. Ma ahimè, un fiume spietato, il Galoe, cresciuto
colle ultime pioggie, ci arrestava il nostro bagaglio fotografico,
e soli col nostro cavallo, a guado e con molto pericolo si passava
l’acqua scellerata, che ci impediva di fotografare i lapponi di Ojung.

A un certo punto una guida gridò: _Ecco un renne!_ Era il primo ch’io
avessi veduto e il suo bianco profilo e le sue corna gigantesche e
il suo passo calmo e compassato mi rimasero scolpiti profondamente,
là dove durano fino alla morte le memorie più spiccate dei nostri
viaggi. Era un renne sbandato o un renne selvaggio? La nostra fantasia
ci portava più volentieri alla seconda ipotesi, benchè si sappia da
chi ha viaggiato nelle regioni polari, che dove abitano i rangiferi
domestici, i selvatici si allontanano, quasi ripugnassero dall’ambiente
della schiavitù che li circonda. Questo fatto però deve avere alcune
eccezioni, dacchè il renne selvaggio si avvicina talvolta alle mandre
delle renne civili e amoreggia con esse e le feconda, come vediamo
accadere fra il cignale e il porco, tra il muflone e la pecora.

L’effetto esilarante di quel renne passò ben presto, perchè il cammino
diveniva ad ogni passo più impraticabile e conveniva lasciare i cavalli
in libertà e continuare a piedi la ricerca dei nostri lapponi. E i
piedi ora si ghiacciavano nella neve ed ora si sprofondavano nella
torba traditrice, or scivolavano lungo le pietre domate dalle lunghe
carezze del ghiacciaio; ed io, sudato di dentro, inzuppato dalla
pioggia di fuori, mi fermai più di una volta, guardando verso il sud
e pensando a Firenze, alla mia bella Firenze, che in quella stessa ora
doveva brillare nei raggi d’oro della sua aria profumata dai fiori.

L’ingegnere Hauan e le guide correvano dinanzi a noi coi loro garretti
norvegiani, ma parevano tutti di pessimo umore, perchè non trovavano
i lapponi. Alle nostre domande non rispondevano e dalla loro mimica
generale era facile comprendere come dovessero bestemmiare, magari
tra i denti, magari nel profondo silenzio della loro coscienza; ma
con bestemmie cupe, crudeli, proprio di quelle che si riservano alle
grandi occasioni, alle battaglie campali, che si devono combattere
cogli uomini e colle cose. A noi incerti se dovessimo andare o
stare, bastava vedere di quando in quando il profilo di una guida
o il cappello di Hauan; ma a un tratto sparvero le guide, sparve il
cappello dell’ingegnere e per più d’un’ora sentimmo intorno a noi il
freddo del silenzio, che insieme alla pioggia minuta e ghiacciata, ci
demoralizzava profondissimamente. Io, che colla mia fantasia e coi
miei nervi corro dalla gioia al dolore con una velocità superiore a
quella della luce, mi diedi per morto addirittura e mi sentii tutto
quanto sommerso nella più nera nebbia della disperazione. Il bagaglio
fotografico al di là del fiume in campagna rasa; i cavalli abbandonati
al di qua, ma forse spersi; noi soli nel deserto abbandonati dalle
guide e senza provviste. Mi gettai abbandonato sopra un tappeto di
neve bianchissima, non contaminata da piede d’uomo o da zampe di
animali, desiderando che esso mi avvolgesse come un lenzuolo funebre.
E incominciai le lamentazioni di Geremia, accusandomi d’imprudenza e
di leggerezza, bestemmiando anch’io come l’ingegnere e le guide contro
i lapponi e più ancora contro il mio appetito, che è sempre maggiore
del mio stomaco. Senza i conforti del mio amico, sempre sereno, sempre
calmo, sempre sicuro di se stesso io mi sarei dato per morto; ma egli
mi consolava, mi faceva vedere i lapponi a pochi passi di distanza, mi
avviava sui colli fioriti della speranza....

Ma ecco ad un tratto un lontano latrar di cani, che si va facendo
sempre più vicino.... Sono i cani dei lapponi. Sorgo dal mio lenzuolo
funebre di neve, mi sento palpitare il cuore e rinasco a nuova vita.
I piccoli cani neri son già fra noi e ci fanno festa; li seguiamo
e in breve siamo dinanzi a due capanne lappone poste nel fondo di
due piccole colline. Da una di esse esce una colonna sottile di fumo
azzurro, che sembra farci festa e invitarci al desco ospitale di quella
buona gente. Poco più che formicai di termiti, quelle due case sono
un impasto di torba e di zolle tenute su da pochi pali. Un’apertura
di sopra per lasciar escire il fumo, un’apertura triangolare davanti
per lasciare entrare gli uomini, chiusa da una tela tenuta distesa
da alcune assicelle. Essa è così stretta da dovervi passare a stento
e con una duplice operazione di curvatura. Conviene chinare il capo
e doppiare il dorso e poi mettersi di traverso. Non è comoda davvero
quella porta, ma io vi sarei entrato a carponi, pur di poter vedermi
in una capanna di lapponi. Qui convien davvero insegnare al corpo a
piegarsi ad ogni momento e nelle più strane maniere; perchè appena
entrato, devo gettarmi sul letto dei rami di betula, che formano il
pavimento della casa, onde non esser soffocato dal fumo.

L’interno di quella capanna era uno dei quadri più originali che avessi
veduto. Quanta miseria di agi e quanta ricchezza di vita, quanta
povertà di spazio e quanto addensarsi di creature, quali contrasti
di tinte per un pittore fiammingo, quante scene psicologiche per un
filosofo, quante tenerezze per un amico degli uomini! Un imbuto nero
capovolto, ecco la forma della casa; nere le pareti dal lungo bacio del
fumo, nere le faccie umane, perchè anch’esse affumicate; neri Fick,
Nump e Kiarf, che colle loro orecchie aguzze e i loro occhi più neri
e più lucenti di un carbonchio si intanavano nelle pelliccie di renne
distese sopra un elastico letto di betule; in mezzo, il fuoco contenuto
fra tanta materia combustibile da grosse pietre e sopra il fuoco una
catena che sosteneva una pentola. All’ingiro un monte di mestole, di
coltelli, di carni affumicate, di redini per le renne, un arruffio
di fanciulli, di donne, di ragazze, che sembravano rimescolarsi e
fermentare insieme. In un angolo un quadretto di genere, che spiccava
lieto e pittoresco nel quadro più grande. Era un bambino impellicciato,
che alzava la sua bionda testolina impaurita dal suo letticciuolo e coi
suoi grandi occhi ancora lucenti e istupiditi dal sonno beato di quella
età ci guardava, senza sapere se dovesse piangere o ridere. Hauan e
le guide erano anch’essi accovacciati in quell’antro, che sembrava
risolvere il grande problema, che secondo la tradizione sacra dovrà
esser risolto nel dì del giudizio universale dalla piccola Valle di
Giosafatte. In quella capanna il contenuto pareva molto maggiore del
contenente.

Nessuno di noi darebbe una simile abitazione al proprio cane o alla
propria capra; eppure quei buoni lapponi, ricchi di più che tremila
renne e che portavano anelli d’argento e che erano altrettanti
Rotschild della Lapponia, non solo erano contenti di quella casa, ma
erano gai, sereni, felicissimi. Quanto son mai diversi i gradi della
contentabilità umana! Poco a poco feci conoscenza dei miei ospiti, che
ci avevano accolti con una cordialissima stretta di mano. Gli uomini
tutti assenti, perchè seguivano le renne, che pascolavano sopra un
colle vicino. Margherita, la madre di famiglia, sui quarant’anni, dai
capelli biondi castagni, colla sua faccia mongolica, col suo nasino
piccino, colle sue mani e la sua pelle annerita dal fumo. Eva sua
figliuola, di 18 anni, coi capelli d’oro chiaro, che rideva sempre,
mostrando i suoi dentini bianchi, serrati gli uni contro gli altri.
Era ingenua, era agile, era fragrante di una selvaggia bellezza. Coi
suoi occhi azzurri, coi suoi capelli biondi, col suo piccolo nasino
impertinente, coi suoi zigomi sporgenti, colla fresca pelle abbronzata
dai lunghi geli, coi suoi piccoli piedi nudi e le sue piccole mani,
aveva tutte le pericolose seduzioni di un frutto agreste, di cui
s’ignora il sapore. Una sorellina di poco minore d’Eva, e due o tre
fanciulli completavano la famiglia.

Quella buona gente parlava discretamente il norvegiano e il bravo
ingegnere Hauan ci traduceva in tedesco ciò ch’essi dicevano,
mettendoci in continua relazione di simpatie e di idee. La madre si
mise subito a macinare dell’ottimo caffè, preparando in un batter
d’occhi colle sue mani la bevanda prediletta dei lapponi, e si bevette
raddolcita da candidissimo zucchero in pane. Dopo il caffè venne la
colazione: carne di renne affumicata con sego di renne pietrificato dal
freddo, il tutto cotto rapidamente al fuoco vivissimo di betula. Era
un cibo duro ma saporito, fragrante di un aroma ircino, direi quasi
selvaggio. Si mangiò tutto, si digerì tutto; ma si dovette lottare
contro un vero mal di mare, vedendo la strana pulizia della buona
Margherita. Essa aveva un suo grande mestolone di metallo, con cui
ci serviva ora il caffè, ora il brodo denso e grasso di renne, ed ora
l’acqua da bere. Quell’istrumento universale era sempre lavato colla
lingua, che a guisa di strofinaccio mobilissimo ripuliva ogni grassume
e rendeva il cucchiaio più terso dell’argento.

La lingua era per quella brava donna il sapone dei saponi, la scopa
delle scope; tanto è vero, che quando ci congedammo, Margherita,
prima di porgere la mano, se la leccò rapidamente e con straordinaria
agilità. Di tanto in tanto la cortese ospite nostra, colle sue dita
faceva anche la pulizia del naso, senza ricorrere in questo caso alla
lingua.

Margherita era il movimento perpetuo in azione: ora rattizzava il
fuoco; ora dava uno scapaccione ad un cane, che allungava il muso con
troppa impertinenza verso la carne o il sego; ora puliva il naso colle
mani ad una bambina, ora dava un pezzo di carne cruda ad un fanciullo,
che aveva troppa fame per aspettare che il bollito fosse fatto; e tutto
questo colla pipa in bocca, che si svuotava e si riempiva a brevissimi
intervalli.

Saziata la fame e la sete, asciugati gli abiti, innalzati a più
spirabil aere dall’ottimo caffè di quei lapponi, venne l’ora delle
cortesie squisite, dei doni e del commercio. Uomini più diversi era
difficile riunire in più piccolo spazio: latini e goti e scandinavi
e figli degli antichi mongoli dell’Altai; gente cresciuta sotto i
pampini della vite e i rami dell’ulivo o indurita dai geli sempiterni
del polo, figli di Odino e figli di Orazio; ma tutti erano stretti
in quel momento intorno ad uno stesso focolare e un unico ambiente li
ravvicinava e li riscaldava alla stessa fiamma di simpatia.

Offersi un’eccellente sigaretta a marca dorata ad Eva. La prese con
diffidenza, guardando cogli occhi timidi la mamma.

— Le fanciulle non fumano fra noi.

Ed Eva voleva restituirmi la spagnoletta.

Non la volli accettare.

— Signora Margherita, oggi, oggi soltanto per amor nostro, lasci che
Eva fumi una spagnoletta.

Chinando il capo, assentì.

Ed Eva, arrossendo di gioia e ringraziandomi soavemente con un sorriso
degli occhi, accese la sigaretta e tirò su due o tre boccate di fumo,
poi la passò alla mamma che finì di fumarla.

L’ingegnere Hauan versò del cognac ai nostri ospiti e Margherita, Eva
e tutti quanti vuotarono i bicchierini d’un fiato, dopo aver tuffato
in essi la punta dell’indice e aver segnata una croce sulla fronte....
_Perchè non faccia male_, dicevano essi.

Offersi della cioccolata. Non l’avevano mai veduta. Margherita domandò
se era sapone. Le dissi di assaggiarne e le diedi l’esempio. La trovò
eccellente; la fece gustare ad Eva e poi la nascose sotto le coscie,
dicendo di serbarla al marito. In quel luogo nascondeva ogni cosa,
denaro, sigarette, coltelli. Era il santuario della casa. Era là vicino
che aveva un suo banchetto di legno, chiuso a chiave, dove teneva
i gioielli d’argento, la bibbia norvegiana, un evangelo in lingua
lappone.

Comperai due corna stupende di renne per due corone (tre lire). Mi
innamorai di una _chatelaine_ di cuoio, che Margherita teneva al suo
fianco e che da una bella stella di ottone lasciava cadere un sonaglio
di piccoli strumenti domestici. La voleva ad ogni costo per il mio
museo di Firenze.

— Quanto volete, Margherita, per questa _chatelaine_?

— Non la posso vendere; mi accompagna dal mio matrimonio.

— Vi darò tanti quattrini che bastino per farvene fare una nuova e più
bella.

— Non posso, me ne duole.

Offersi un magnifico coltello norvegiano con astuccio scolpito di legno.

Margherita lo trovò bellissimo, lo mostrò ad Eva; fanciulli e bambini
se lo fecero passare, ammirandolo uno ad uno; ma il coltello non fu
accettato.

Offersi quattro corone, poi sei, poi sette, otto e per otto corone la
_chatelaine_ diventò mia.

Il buon ingegnere Hauan dovette però prenderne il disegno e promettere
di farne fare un’altra eguale da un orefice di Eidet.

Margherita sapeva vendere, ma non era esosa. Le volli comperare una
salciccia fatta di latte e sangue di renne, ma essa me la diede ridendo
e dicendo in cattivo norvegiano: _Ikke betale_, questa non si paga.

Più curioso di tutti fu il cambio di una ciocca di capelli per
una bella forbicina inglese, che aveva in tasca e che era piaciuta
immensamente ad Eva.

— Dammi una ciocca di capelli ed io ti do la forbice.

— Impossibile, impossibile — e rideva come una pazza.

Io rimetteva in tasca la forbice, ma poco dopo mi era domandata di
nuovo. E di nuovo la forbicina esciva dalla tasca e la bionda Eva la
apriva, la chiudeva, ammirando il congegno con cui si piegava sopra se
stessa, nascondendo le proprie punte. Ed io sperava di nuovo di avere i
capelli e di metterli nel mio museo fiorentino.

Ad un tratto Eva si mette a ridere coll’aria di chi ha trovato qualche
diavoleria, onde conciliare due opposte cose, e mi propone il cambio
della forbicina inglese coi capelli di sua sorella.

Accetto, ed essa colla stessa mia forbice recide una ciocca di capelli
alla sorellina, che avevan lo stesso colore dei suoi. Aveva vinto la
partita! aveva la forbice e non aveva sagrificato un filo dei suoi
bellissimi capelli.

Non volli darmi vinto del tutto alle furberie di una Eva lappone e le
dissi, che per di più voleva un bacio da lei.

E la innocente fanciulla mi baciò sulla bocca, senza scrupoli come
senza malizia. Ella era però troppo felice, perchè potesse contenere
la sua gioia nell’angusto recinto di quella capanna e si offerse a
chiamare le renne, perchè le potessimo vedere più da vicino. Imbottì le
sue scarpe di renne con un fieno così verde, così profumato, così ben
pettinato, ch’io le invidiai quella calzatura. E allora uscita fuori,
si mise a correre sulle rupi molli di licheni, balzando di sasso in
sasso, come camoscio petulante, coi capelli spettinati dal vento, e
aguzzando lo sguardo sul lontano orizzonte per scoprire dove fossero
le renne e per additarcele, ridendo e folleggiando. Quanto era bella
quella sua innocenza selvaggia, quanto era cara quella giovinezza senza
peccati; quella gioia senza rimpianti, quel sorriso di una vita felice,
che rispondeva a un pallido raggio di sole, che, fra le nubi rotte dal
vento, brillava in mezzo ad una pioggia fina fina di piccolissime perle
d’argento.

Eva sapeva leggere, sapeva parlar norvegiano, sapeva munger le renne e
guidarle, sapeva cucire e cucinare e vestire i fratellini. Era buona,
intelligente e, al modo lappone, sapiente, e quel che è meglio, felice.
Quante delle nostre signore non potrebbero invidiarla lassù nella sua
capanna di Ojungstrakten!




CAPITOLO TERZO

  LETTERE LAPPONICHE DELL’AMICO SOMMIER — UN BAGNO FINLANDESE PRESO A
  ELVEBAKEN — I LAPPONI A KAUTOKEINO — BOZZETTI LAPPONICI.


I

Facendo dolce violenza al mio caro amico e compagno di viaggio
in Lapponia, mi dichiaro segretario, o dirò meglio, scrivano del
signor Stephen Sommier, e sotto la sua dettatura vi narro che cosa
avvenisse a un povero fiorentino, il quale agli ultimi dello scorso
luglio si trovava a Elvebaken nel Fiord di Alten, colle sue macchine
fotografiche, per vedere se i lapponi di Kautokeino e di Karaschok
fossero diversi dai lapponi svedesi veduti e studiati insieme a me
nell’isola di Tromsoe.

                             . . . . . . .

Ieri sono venuto qui in barca da Bossekop coi pesanti attrezzi
fotografici per vedere di ritrarre i dolci sembianti di cinque
lapponi, che si trovano sparsi sulla spiaggia del mare. Tre di questi
sono un curioso esempio del passaggio dal Lappone nomade al lappone
pescatore, un bellissimo _specimen_ di evoluzionismo darviniano
preso in flagrante. Sono stabiliti qui da cinque anni e lavorano per
i pescatori; si chiamano ancora _fieldfinne_ (lapponi nomadi), ma
per verità sono già _fisckfinne_ (lapponi pescatori) e i loro figli
soltanto avranno diritto di appartenere alla nuova specie del _genere
lappone_. Anche qui le tradizioni hanno la loro forza irresistibile,
anche qui come in Italia l’inerzia è la forza più forte fra tutte. Qui
mi assicurano che mai o quasi mai i lapponi s’incrociano coi _Quæne_
(Finni).

Ieri sera, dunque, son andato sopra un _naes_ (promontorio) dove i
miei lapponi si erano stabiliti da varii mesi, occupati a seccare il
_clipfisk_ (baccalà) per i pescatori norvegiani. Ho veduto la loro
tenda alta poco più di un metro, larga meno di due, sotto la quale
abitano il padre, la madre e una figlia; che è un vero gioiello
etnologico; la faccia più mongolica che abbia veduto fin qui tra i
lapponi. Là, in un boschetto di betule, ci siamo seduti sull’erba
a confabulare. Espressi il desiderio che quei signori venissero il
giorno dopo a Elvebaken per farsi fotografare. La vecchia non ne voleva
sapere, e la _pige_ (fanciulla) non si lasciò piegare al mio onesto
desiderio se non dopo un’ora di discussione persuadendo il papà; che
anche in Lapponia, a quanto pare, fa sempre la volontà della figliuola.
È strano come questa gente, avara e avidissima di denaro, si ricusi
talvolta, pur di non muoversi, a guadagnare senza alcuna fatica due o
tre lire, mentre altre volte ti stanno a seccare ore ed ore per avere
dieci centesimi più di quanto si è convenuto di dare.

Oggi, dunque, nuovi disinganni fotografici! Credo davvero che la
fotografia, coi suoi capricci, colle sue incognite, per le quali
non bastano neppure le tre cifre cabalistiche _x, y, z_, debba far
diventare fatalisti, turchi, anche i cervelli più sodi di questo mondo.
Il tempo è bello, sereno, caldo, asciutto, i miei obiettivi tersi come
il diamante; i _chassis_ si muovono, come se avessero le rotelle,
i reattivi freschi, eccellenti; eppure tutte queste belle cose mi
dànno questi splendidi risultamenti: _Prima negativa tutta macchie.
Seconda negativa tutta nera, Terza negativa tutta rigata._ Le meno
peggio non sono che _densamente velate_! Peccato per quella ragazzina
splendidamente mongolica, che avreste adorata nel Museo di Firenze!
Tutti questi disastri non impediranno che domani, posdomani, fra tre o
quattro giorni, io non faccia altre fotografie belle, perfette, e che
mi faranno credere di essere il migliore fotografo, che fin qui abbia
calcato il suolo lapponico.

In ogni modo oggi le cose andavano molto male, ed io avevo bisogno
di far qualche altra cosa, per non dire sospirando alla sera: _diem
perdidi!_ Mi risolvo dunque a prendere un bagno finlandese. Il mio buon
amico Wikstroem, _quäene_ di nascita e che mi accompagnava come alleato
in questa battaglia fotografica, mi andava dicendo già da un pezzo: —
Prenderemo un bagno finno, ed ella sentirà che cosa stupenda, proverà
come ci si sente rinnovellati di novelle frondi!

Per allestire un bagno finno occorre preparare i preliminari qualche
ora prima di sottoporsi alle delizie nordiche di questa abluzione;
occorre cioè qualche ora per riscaldare le pietre, che devono _jouer
le premier rôle_ nel grande cataclisma. Quando le pietre furono quasi
roventi, andai col Wikstroem a visitare il luogo del patibolo. Era
una casetta alta due metri, tutta di legno e con un solo finestrino
di due decimetri quadri: vi era anche una porta degna in tutto di
quell’architettura lillipuziana. Nel centro un fornello, e su questo
un gran mucchio di sassi caldissimi; all’ingiro diverse panche molto
larghe; fornello, sassi e panche di una sola tinta nera, quella del
fumo. Sentii una vampa di forno ardente e scappai prima di entrare.
Il compagno non si scoraggì per questa mia ritirata e mi condusse in
un’altra casa distante un cento passi da quel forno balneario, dove ci
si spogliò e col _meno possibile addosso_, tanto da non crederci nudi
si ritornò al forno; e là, lasciato sull’erba _quel meno possibile_,
penetrai nudo come Adamo, seguendo i passi del mio _quäene_. Il fuoco
era spento, il fumo svanito affatto e il calore più secco e più alto
dominava sovrano in quell’antro vulcanico. Wikstroem prese subito
da una tinozza acqua fredda e la gettò sulle pietre roventi. Un
gran sibilo, e una vampa di vapore caldissimo riempì il piccolissimo
ambiente, cambiando ad un tratto il caldo asciutto in caldo umido. Io
era attonito e impietrito, quando mi sentii gettare molta acqua fresca
sul capo; battesimo di cui aveva un grandissimo bisogno; ma pare che
quel refrigerio non mi facesse gran cosa, poichè dopo mezzo minuto,
che mi parve mezzo secolo, mi entrò nel petto un’aria così rovente
da sentirmi ardere naso, faringe, laringe, bronchi, polmoni e ogni
cosa. Mi pareva di vedere disegnato in colore di fuoco, come in un
atlante anatomico, tutto il mio albero respiratorio; mi sentii quasi
trasformato in una fiamma vivente; e se non avessi veduto dinanzi
a me un altro uomo vivo, e che rideva e guizzava come un pesce in
quell’aria rovente, avrei creduto che fosse giunta la mia ultima ora e
sarei fuggito forzando la porta, o demolendo il tetto. Il quale altro
uomo era tanto vispo, che mi gridava allegramente: _Acqua fredda,
acqua fredda, e niente paura!_ Vidi infatti, che accanto al fornello
vi erano due tinozze, una piena d’acqua fredda e l’altra piena d’acqua
calda; e mi misi a tuffare nella prima la mia testa, che pareva essersi
trasformata in un forno ardente. Nella tinozza d’acqua calda erano
immerse due grosse scope fatte con rami freschi di _sorbus aucuparia_,
e il Wikstroem ne prese una e cominciò a frustarmi di santa ragione
dal capo ai piedi. Ormai ero uscito dal mio _io_, aveva perduto ogni
coscienza ben distinta della mia individualità, del mio passato e del
mio avvenire e mi lasciava fare _perinde ac cadaver_. E il _cadaver_
che vi parla fu ben insaponato, poi di nuovo frustato e di nuovo
spruzzato d’acqua caldissima. Devo aver espresso qualcosa d’orribile,
devo aver dato qualche segno di pazzia, perchè anche il mio carnefice
si mosse a compassione, mi aperse la porta e mi disse: _Fuori!_

Il mio _io_, senza aver coscienza di quell’altro me, che mi accompagna
da tanti anni, uscì fuori e si trovò a ciel sereno in costume di
Adamo prima del peccato, e senza punto accorgersi che il clima si
fosse mutato intorno a me. Mi sentiva trasformato tutto quanto in una
scottatura; la testa, non più mia, un tizzone di fuoco; le narici, i
bronchi, il petto tutto un fiume di lava glutinosa, che m’incendiava,
mi consumava, m’inceneriva. Passavano uomini e donne, che neppur mi
guardavano; ed io là, inchiodato nel mio dolore e aspettando da un
momento all’altro di essere cambiato nella statua di sale della Sacra
Scrittura. Intanto il Wikstroem nel forno eseguiva sopra se stesso ciò
che prima aveva inflitto al suo povero amico. Il bagno però non era
ancor finito; il calice rovente non era ancora _épuisé_; fui invitato
a rientrare e anche questa volta lasciai fare. Mi coricarono sopra una
delle larghe panche di legno e là, a brevi intervalli, botte da orbi
e secchie d’acqua calda e d’acqua fredda che si alternavano. Sudavo e
tacevo, tacevo e sudavo, e nei primi crepuscoli della coscienza, che
rientrava in casa, sembravami che forse tutto quel pandemonio potesse
esser piacevole. Una doccia abbondante d’acqua fredda mise fine al
cataclisma balneario e si uscì insieme al fido carnefice all’aria
aperta, dove rimasi al sole e al vento per più d’un quarto d’ora, senza
accorgermi del sole e del vento; senza sentire nè caldo nè freddo.
Poco a poco mi parve di sentirmi molto bene e per la prima volta in mia
vita, credetti giusta la teoria dello Schopenhauer, che il piacere non
sia altro che la cessazione del dolore. Mi vestii e ritornai a casa,
senza mal di capo, senza raffreddore, senza bruciore agli occhi; con un
senso di piacevole stanchezza, che durò fino all’ora del pranzo.

Questo bagno si fa qui anche di pieno inverno dagli indigeni _quaene_,
che ritornano a casa in _naturalibus_, pestando la neve coi piedi nudi.
La pasta umana deve essere di una singolare composizione per resistere
a un tal uragano!

Avrei meritato un ottimo pranzo; ma il mio desinare invece si ridusse
a salmone crudo e affumicato, a burro salato, a formaggio putridissimo
(_gammel-ost_), a pane nero e ad acciughe crude in salamoia. Per
bevanda acquavite di patate e un brodetto giallo fatto di latte
coagulato e stemperato nell’acqua della torbiera; il tutto accompagnato
da un coro di zanzare più feroci di Caligola, più numerose delle arene
del mare. Io però era felice, non dovendo più dire: _diem perdidi!_

Quella mia giornata campale di Elvebaken era stata davvero un giorno
ben impiegato.


II

                                          Hammerfest, 26 agosto 1879.

Eccomi dunque ritornato da una gita in Lapponia! Se tu mi domandi se io
sia contento di esserci stato, rispondo: certo, ma ancora più di esser
ritornato. Fin qui non facevo che decantare le bellezze della Norvegia,
ma ora che ho visto la Lapponia, faccio per questa parte di terra
norvegese le mie brave eccezioni. Non ho mai provato una malinconia,
un’uggia profonda come percorrendo quelle lande deserte. Ti aveva
giurato di portarti almeno un cranio lappone e mi facevo uno scrupolo
di mantenere la mia promessa. Mi risolsi dunque di andare a Kautokeino
o, come dicono i lapponi, Guovdagaeino, la città più importante della
Lapponia norvegese. Per andarvi da Bossekop vi sono due vie: la via
d’inverno e la via d’estate. Questa è un po’ più lunga e si percorre
in parte in barca sull’Altenelv. Quella è più diritta e lunga circa 16
miglia norvegiane (180 chilometri). Io per non sbagliare, presi un po’
dell’una e un po’ dell’altra.

Partito da Bossekop con un cavallo per il trasporto del baule e delle
provvigioni e con una guida, percorsi a piedi e tutto d’un fiato i
primi 28 chilometri, risalendo prima l’Altenelv, poi la graziosa valle
di Garkia. Il sentiero passa in mezzo a boschi di pini e di betule.
Pioveva dirottamente ed io seguiva a testa bassa il mio cavallo e la
mia guida, uno più taciturno dell’altra, meditando sui piaceri d’un
viaggio in Lapponia. La mia guida era un uomo di cinquantaquattr’anni,
ma che ha le gambe di ferro, ed io che poteva essere suo figliuolo, non
voleva mostrarmi meno di lui. Si arrivò quindi in meno di sei ore alla
_stue_ di Garkia.

La _stue_, per chi non lo sapesse, è una specie di _chalet_ in legno
con due camere; una per il padrone di casa e l’altra per i viaggiatori.
Intorno alle _stue_ un grande steccato racchiude altri _chalets_
minori, che servono di magazzino e di stalle; è insomma una vera
_seriba_. Fra tutte queste «dipendenze» vi è una specie di capanna
lapponica, fatta di tronchi di betule e zolle di terra, e serve di
albergo per i viaggiatori, che non sono in grado di pagarsi l’alloggio
sontuoso della _stue_. Sulla strada d’inverno tra Bossekop e Kautokeino
tu trovi tre di queste _stue_; furono costruite dal governo norvegiano,
il quale paga inoltre 160 corone all’anno al contadino che deve abitare
una di esse. I viaggiatori pagano 40 _öre_ al giorno, se occupano
la camera aristocratica, e 7 _öre_ se si contentano della capanna
lapponica, e con questi pochi centesimi hanno anche diritto all’acqua e
al fuoco. Io alloggiai aristocraticamente nella stanza dei forestieri,
ed ebbi una bella fiammata, latte di renne e due belle pelli _idem_,
sulle quali dormii saporitamente.

Il giorno dopo fummo raggiunti dalla _posta_, insieme alla quale si
doveva fare viaggio. La posta, che da Bossekop porta le lettere nella
Svezia, passando per Kautokeino, si compone di un postino lappone, di
un sacco e di un compagno che aiuta il postino quando si deve andare in
barca. Questa volta bensì la carovana era più numerosa, e ne facevano
parte un bel lappone tipico, dell’altezza di metri 1,40, ed una ragazza
norvegese, che andava a prendere servizio dal _Lansmand_ di Kautokeino,
uno dei due norvegiani che vi risiedono. Come appendice, aggiungi un
cavallo per la roba delle some e un condottiero per il cavallo della
serva: una carovana completa di sette bambini e due quadrupedi.

Ci si mise in cammino e dopo una salita di un’ora, vidi sparire
anche i poveri alberi di betule, e si giunse sul vasto altipiano
di Bescadasfield, dove si doveva camminare per ben quarantacinque
chilometri. Figurati una landa deserta, uniforme, una ondulazione
continua di terre, che ti restringe l’orizzonte e che non ti lascia
mai camminare in piano. Dovunque tappeti di licheni bianchi e gialli,
tra i quali crescono rari ciuffi di _betula nana_, i _vaccinium_, il
sempiterno _empetrum_, dei _carex_, delle _luzule_, delle _festuche_,
dei piccoli salici e poche altre piante. Tutti però camminavano così
lesti, che quando io mi soffermavo un solo minuto per raccogliere una
pianta, mi trovavo alla coda della carovana.

Tutti i _field_ della Lapponia si rassomigliano, e a conforto della
noia continua, non trovi che qualche valle con qualche boschetto di
betule e qualche palude torbosa che ti offre qualche fiore. È vero che
tu trovi qua e là anche qualche lago, ma colle loro rive basse, colla
loro acqua plumbea, che non riflette nè un ramo d’albero nè un profilo
di monte ti stringono il cuore invece di dare un po’ di varietà al
paesaggio monotono e desolante.

Dopo quattro ore di marcia ci si fermò in una capannetta di rifugio,
dove si fece fuoco con legna raccolta nella traversata dell’ultimo
bosco. Si prese il solito caffè lapponico, che tu conosci già, e poi
altre cinque ore di marcia, e altra fermata con ripetizione dello
stesso caffè. La seconda fermata fu più lunga e durò fino alle due
dopo la mezzanotte. Un nuovo caffè ci risveglia dal torpore notturno e
si entra in una barca, con cui si risale il fiume, ora remando ed ora
puntando, secondo la diversa profondità delle acque. Così si giunse a
Masi, unico luogo abitato che si trova dopo Garkia.

Masi è la residenza del postino; è un’altra _stue_, ma il campo chiuso
dallo steccato ci rallegra colla vista di pochi montoni e di cinque o
sei vacche. È quello il piccolo mondo che basta all’esistenza fisica
e psichica di quel povero uomo, che non conosce altro e non desidera
altro. Se vuol parlare con anima viva, deve percorrere almeno venti
chilometri; vive del prodotto dei suoi montoni, delle sue vacche, della
pesca e di quel po’ di farina che compra sulla costa e si porta a casa
nell’inverno, quando la neve rende più facili le comunicazioni. Va a
segare l’erba, spesso a qualche ora di distanza, e nell’inverno va a
raccoglierla colla slitta, o va sui monti a strappare dalle rocce i
licheni.

A Masi la carovana si divise: la posta continuò la sua strada, ed io
rimasi col postino per la ricerca dei cranii lapponi, che dovevano
trovarsi in un antichissimo cimitero, dimenticato da tutti, dove già
erano cresciuti arbusti e alberetti, e dove, senza alcuna profanazione
di affetti, io potevo sciogliere il mio voto e farti felice.

.... E i cranii si trovarono: appena comparve il primo, posata per un
momento la vanga, innalzai al cielo.... il fumo d’una spagnoletta,
l’ultima che possedevo e che conservavo da un pezzo. Avevo fatto
voto solenne di non fumarla prima di aver avuto un cranio lappone.
Non ho bisogno di spiegare a te, paladino degli alimenti nervosi, il
dolore che provai, vedendo ridursi in cenere quell’ultima spagnoletta.
Rimanere in Lapponia senza quel conforto, senza quell’ultima riserva
per i momenti di noia, di malinconia e di fame!

.... Il giorno dopo io era zoppo, e il mio cavallo era destinato al
trasporto delle casse dei cranii e dell’altro bagaglio.... Convenne
però adattarsi e senza sella mi accomodai fra i cranii e i pacchi
di carta sugante. Non era certo il modo migliore di viaggiare: ora
paludi nelle quali il cavallo affondava, ora pietre nascoste dai
cespugli nelle quali il cavallo inciampava, or boschi folti che mi
schiaffeggiavano coi loro rami. Io mi lasciava portare sonnolento,
muto e distratto, non senza pericolo. Infatti una volta il mio povero
ronzinante fece un buon capitombolo; fortunatamente in un terreno
coperto di morbidissimo _sfagno_. Peccato però che io mi trovai sotto
le casse dei cranii!

Non parlo delle zanzare, che sono la prima peste di un viaggio
lapponico. Ve ne sono di due specie, una mi sembra essere eguale
alla nostra; è soltanto un po’ più grulla, perchè si lascia ammazzare
molto facilmente. L’altra è più piccina, ma molto velenosa e ti vola
in branchi innumerevoli nel naso, nella bocca e negli occhi, in modo
da toglierti il respiro e da accecarti. Per fortuna non ti tormentano
nè a tutte l’ore, nè in tutti i tempi; quando tira vento e fa freddo,
scompaiono. Io avevo adoperato il barbaro metodo di difesa dei lapponi,
dipingendomi il volto con catrame sciolto nell’olio di pesce, ma benchè
mi fossi ridotto un mostro, non trovai che il rimedio fosse troppo
efficace.

.... Ti risparmio il monotono racconto della monotona continuazione del
mio viaggio e giungo a Kautokeino alle undici di notte. Vi ho veduto le
prime stelle, dopo due mesi passati nella luce sempiterna ed ebbi per
la prima volta dopo due mesi una candela. Quanta allegrezza! Era però
un’allegrezza molto fredda, perchè il termometro segnava cinque gradi
solamente sopra lo zero!

Kautokeino è pure una gran bella città! Una ventina di case tutte di
legno, 200 abitanti circa in 40 famiglie, e nell’inverno un 600 lapponi
nomadi, accampati intorno alla loro metropoli in un raggio di più che
100 chilometri. Vi risiedono un _lansmand_, un _handelsmand_ e qualche
volta anche un prete. Ora, per esempio, non ve n’è e bisogna farne
senza. Un paio di volte all’anno viene qui un sacerdote, fin da Tromsoe
o da Alten, e battezza, conferma, marita, comunica e dà tutti quanti i
sacramenti.

Neanche in questa grande capitale lapponica potei mangiare un po’ di
carne fresca di montone. Dicono che le pecore in questa regione sono
ridotte dalle zanzare a pelle ed ossa. Dovei quindi contentarmi di
carne di renna salata e di pane nerissimo, senza parlare delle altre
_delicatezze_ gastronomiche di questi paesi e che tu conosci già.

Uno dei personaggi più interessanti di Kautokeino è la levatrice,
che è indigena, ma ha studiato un anno a Cristiania, che è svelta,
intelligente, e parla molto bene il norvegiano. Mi dice però che i
lapponi nomadi ricorrono raramente a lei, perchè il marito fa da
ostetrico alla moglie e poi fa anche da sacerdote battezzando il
neonato.

Nel ritorno da Kautokeino fui premiato delle mie fatiche. Figurati
che ho trovato la _pinguicula villosa_ e la _vahlodea atrapurpurea_!
Tu, che hai viscere di naturalista, m’intenderai. Ho attraversato
il Beskadasfield colla pioggia, con un vento indiavolato e con un
freddo.... veramente lapponico. Nella sosta la guida mi fece una
specie di muraglia colle casse dei cranii, e raccogliendo lì per lì
alcune bracciate di sarmenti di _betula nana_ riuscì ad asciugarmi e
a riscaldarmi. Quella povera _betula nana_ era pietosissima; bruciava
benchè verde, bruciava benchè bagnata. Scendendo dall’altipiano,
salutai il riapparire dei pini colla stessa gioia con cui un arabo,
condannato a vivere lungamente nella Norvegia, darebbe il benvenuto
alla prima palma, che gli apparisse all’orizzonte. E più tardi salutai
con uguale amore il profilo dei monti nevosi e il mare azzurro, che
riflettevano un cielo azzurro, anche esso! Una vera orgia meridionale
e che nel Circolo polare mi riscaldarono cuore e paracuore agghiacciati
da tanta Lapponia! Non ricordò di aver salutato con più caldo amore il
divino golfo della Spezia, quando andando a San Terenzio, lo saluto dai
colli di Lerici.

Ora eccoti alcune notizie sui lapponi di Kautokeino: i fissi vi sono in
numero di circa 200, i nomadi in numero di 600.

I lapponi fissi che ho visti a Kautokeino sono in media più alti
e più membruti di quelli nomadi visti a Tromsoe. Alcuni (donne
specialmente) sono anche addirittura _grassi_, cosa mai vista a
Tromsoe. La maggioranza è di pelo biondo o castagno non scuro. Ho
visto delle famiglie numerose di cinque, di sei, e perfino di nove
figliuoli. Vi ho visto della gente vecchia assai e ben conservata,
senza infermità (da 80 fino a 90 anni). Il padre della levatrice, morto
a 90 anni, andava ancora alla pesca e lavorava come un giovane (dice
sua figlia). Non pare che si maritino presto; 16 anni, con maternità
a 17 è stato il caso più precoce citatomi. Sono tutti o quasi tutti
più o meno imparentati coi _quäne_: ma su questo punto è difficile
avere informazioni esatte; quando si tratta di cose che risalgono
oltre due generazioni, non ne sanno, in generale, più nulla. Sono
quasi tutti vestiti alla lappona (costume di Kautokeino, che è diverso
da quello di Karasuando); per lo più parlano anche _quäne_ e niente
norvegese. L’insegnamento nella scuola si fa in lappone, ma pretendono
d’insegnare anche il norvegiano (con infelice successo, a quanto pare).
L’insegnamento è obbligatorio. Anche i nomadi devono mandare i loro
bambini a scuola sei o sette settimane all’anno, se non possono da sè
dar loro l’insegnamento della lettura e della religione. Però oltre
ai due maestri (lapponi ambedue, che ho conosciuti) che insegnano a
Kautokeino, ve ne è un terzo, che gira di accampamento in accampamento
per insegnare a domicilio (_gratis_). Non sono confermati altro che
quando conoscono _la religione_, sanno leggere e fare le lettere: e non
possono sposarsi se non sono confermati. (Talvolta però, e non di rado,
si dispensano dal matrimonio come lo provano due ragazze (_pige_),
che ho conosciute e che avevano un bambino per una). Nell’inverno
hanno molti rapporti con la Finlandia, donde traggono specialmente il
legname da costruzione. In quella stagione vengono pure in gran numero
alla costa occidentale, ai mercati di Bossekop, ove vendono carne,
corna e pelli di renne, burro, e comprano acquavite, farina, caffè,
zucchero e stoffe di lana. Molti dei lapponi fissi posseggono renne
da tiro e le affidano ai nomadi per il viaggio d’estate alla costa.
I nomadi lasciano nei piccoli caseggiati inchiusi nelle _seribe_ dei
_fastboende_ (fissi), le loro slitte ed altre cose che non portano
seco alla costa. Lasciano inoltre i vecchi, che non possono più fare
il viaggio e che vivono in parte a spese pubbliche. I fissi hanno
per lo più vacche e montoni la cui lana lavorano da sè; pescano e
conservano in parte il pesce salato per l’inverno. Quando vi fui io,
erano tutti occupati a segare il fieno e nessuno pescava, per cui non
potei assaggiare i natanti abitatori della Kautokeinoelv. La coltura
della terra si riduce quasi a nulla; pochissimi e piccolissimi campi
di rape, ed un solo di pochi metri quadrati di patate, per le quali il
proprietario aveva buone speranze quest’anno; cosa rara! Vedendo il bel
sole e sentendo il caldo che ci faceva quando c’ero, pareva impossibile
che nei mesi d’estate la terra non potesse produrre altro. Ma bastava
per convincersene guardare un pozzo ancora coperto da un grosso
lastrone di ghiaccio forato nel mezzo per potere attingere l’acqua, e
sentirsi dire che a quattro piedi di profondità la terra è gelata tutto
l’anno, che la neve copre ancora il terreno nel principio di giugno e
comincia a cadere in settembre, e che ogni inverno vi gela il mercurio
ed il vino (anche quello di Porto!)

Ho conosciuto avvocati, che difendono i lapponi quando sono chiamati al
tribunale per rispondere di furti (solamente di furti e quasi sempre di
renne), e dicono che essi sono di un’abilità ed astuzia grandissima nel
difendersi, e che hanno metodi molto ingegnosi per rubar renne, senza
che poi si possa provare il loro delitto.

Ho avuto in Kautokeino molti particolari sul famoso furore religioso
che ha invaso i lapponi e li ha indotti a massacrare il _lansmand_,
l’_handelsmand_, ed a bastonare il prete, e che ha procurato al museo
di Cristiania lo scheletro di uno dei due lapponi giustiziati in
conseguenza di quell’assassinio. Fu opera dei lapponi nomadi, i quali
pare fossero persuasi di fare opera grata a Dio. Si deve all’intervento
dei lapponi fissi se non fu ucciso anche il prete (oggi vescovo).

Il lappone più intelligente fra quanti ne ho visti è un ex-maestro di
scuola, ora pensionato, che vive in Elvebaken presso alla missione
cattolica, di cui sua moglie è proselita (egli però non si è voluto
convertire). Capisce un po’ di tedesco e un po’ d’inglese, s’interessa
a molte questioni d’ordine generale, ha letto molto, e da lui ho saputo
che vi è una buona descrizione, con considerazioni geologiche, di
Elvebaken, fatta dal De Buch. Mi ha assicurato di essere di origine
lappone pura, e stando al tipo, potrebbe anche essere, quantunque abbia
barba alle gote. Egli è stato qualche tempo a Throndhjem in un ospedale
di alienati, e dicesi, dà ancora di quando in quando segni di pazzia.
Questo mi faceva pensare che quando si vuol ficcare in un recipiente,
che non è fatto per ciò, troppa roba, qualche volta il recipiente si
spacca!

Dei lapponi pescatori (_sœlappen_) ho visti moltissimi; ed in essi
come in quelli di Kautokeino si vede l’effetto del miscuglio con altra
razza, specialmente nella statura e nella forza; di quando in quando,
trovi tra essi, anche in uomini alti, un tipo prettamente mongolico;
t’imbatti in alcune ragazze che, quantunque nella loro faccia si
scorga ancora il tipo lapponoide, hanno forme rotonde, e vestite
all’europea e pulite si possono chiamare belline. Qualche volta parlano
bene norvegese, sono abbastanza intelligenti ed istruite, al punto di
conoscere che cosa sia l’Italia, e di sapere che vi crescono gli aranci
ed il fico, del cui frutto gl’italiani sono molto ghiotti.

In quanto al tipo dei _quäni_ non ci ho capito nulla. Se ne domandi
alla gente del paese, ti dicono che riconoscono subito un _quäne_ dalla
sua faccia; e ti descrivono una faccia lapponoide. E difatti di quelle
facce ne trovi fra quelli che si dicono _quäne_, ma che io sospetto
di esser tutti più o meno imparentati coi lapponi, sia ora con quelli
della costa, sia anticamente nella loro prima patria, ove da secoli
sono in contatto coi lapponi, poichè ho visto molti _quäne_, venuti di
recente dalla Finlandia, che non avevano nient’affatto quel tipo.

Ieri un norvegese, vedendo una _carriola_ con me, mi disse: Questo è
quello che un vostro compatriotta chiama un guscio di noce sopra due
ruote! Le tue lettere al _Fanfulla_ sono state tradotte per intero dal
_Morgenbladet_ e riprodotte in molti altri giornali norvegesi, per cui
tutti qua le hanno lette.


III

                                               Tromsœ, 25 luglio 1879

Ho fatto una visita all’accampamento di Tromsoedalen, composto di tre
_gamme_ (capanne), fatte a un dipresso come quelle di Ojung ed abitato
da più di trenta lapponi. Era di domenica e in una sola capanna era
riunita la maggior parte della colonia. Vi entrai: erano una ventina
tra adulti, uomini e donne, bambini d’ogni età; uno poppava, un altro
era cullato nella sua cuna dalla madre. Tutti stavano accovacciati
sopra pietre o rami recisi di betula e stavano silenziosi, ascoltando
il vecchio _pater-familias_, che, tenendo un libro in mano, salmeggiava
preghiere lapponiche, accompagnato da due altre voci, una di uomo e
l’altra di donna, che leggevano insieme in un secondo libro. Non si
lasciarono per nulla disturbare dalla nostra presenza. I soli cani
parvero protestare, volgendosi verso di noi con un sordo grugnito, ma
neppur essi si mossero. Si rimase lì finchè il vecchio ebbe finito di
leggere. Appena egli ebbe deposto il libro, un altro prese un nuovo
libro e si mise alla sua volta a leggere ad alta voce e abbastanza
correntemente. Seppi poi ch’egli era un predicatore lappone, che girava
di accampamento in accampamento per far udire la parola del Signore.
Tre austriaci, che erano con me, mi dissero, che udendo leggere in
lappone, pareva loro di sentir parlare ungherese.


IV

                                              Bossekop, 2 agosto 1879

Ieri dalla mattina alle nove di sera, caccia ai lapponi (sölappen).
Traversato il golfo a remi, remiganti due donne molto lapponoidi,
risalito la Refsbuttenelv, visitate diverse capanne di torba della
forma di quelle di cui hai visto un modello nel museo di Tromsœ.
Tornato poi lungo la spiaggia, passando a guado due fiumi larghi, ove
sono sparse simili capanne e casette di legno, vicino ad ognuna pesci
attaccati al sole e spine dorsali di pesci infilzate ad asciugare, ed
un puzzo corrispondente. Sono entrato in quante capanne ho potuto, ma
non sono riuscito a veder un vero _sœlappe_!

Gli uomini erano tutti alla pesca o dormivano nelle capanne chiuse.
Tutti quelli e quelle che ho visto erano _quänen_ o _inquänati_.
Già credo che nessuno confessa di essere vero lappone, quando ha
abbandonato la vita nomade. Ho visto un gran miscuglio di tipi da
non ci capir nulla. In due capanne ho visto due vecchie donne, vere
lappone ed ancora in costume con figlie maritate a norvegesi o _quäni_
(uno del paese mi diceva ieri che non vi erano matrimoni misti!!) I
_quänen_ stessi hanno alcuni tipi lapponoidi, ed altri sono belli,
grandi con naso lungo, barba abbondante, ora scuri, _molto più spesso_
biondi. I loro bambini sono vere bellezze. I _quäni_ vengono in parte
dalla Finlandia russa, ma in maggior parte dalla Finlandia svedese.
Mi è sembrato che erano più frequenti i tipi lapponoidi in quelli
svedesi, anzi in tutti quelli russi che ho visto stabiliti qua da una
sola generazione non ho riscontrato un solo di quel tipo. Ho visto
donne della Finlandia russa, alte, belle, a profilo greco, somiglianti
a certe russe che ho viste altrove. Nella Finlandia svedese da tanto
tempo vivono a contatto lapponi e finlandesi, che vi deve essere del
miscuglio. Mi dicono che grado a grado le _gammen_ di torba sulla
spiaggia vanno cedendo il posto a capanne di legno. Ed invero non si
comprende perchè vi siano ancora di quelle abitazioni preistoriche
con porte meno alte di un metro, ed una sola stanza abitabile, ove non
si può star ritti, ed ove non si capisce che possa abitare un’intera
famiglia, quando hanno bei boschi di pino, cioè materiale per capanne
di legno. Con una giornata stupenda, un sole da spaccare il cervello,
il salire e scendere per quei campi lungo il mare, coperti di pini, dai
quali i raggi del sole distillavano deliziosi aromi, faceva credere di
essere in Liguria e non a 70° lat. nord. Ho preso il pasto meridiano in
una di quelle _gamme_, pasto composto del pane di qua (un’altra specie
che non conosci e di cui ti auguro di non far la conoscenza) latte
accagliato, formaggio ed acqua: pittoresco se vuoi, ma non adatto a
sostenere le forze. Al ritorno ero in uno stato molto vicino a quello
nel quale eri ad Ojungen, vicino a quella famosa chiazza di neve! In
compenso ebbi a cena del salmone salato per ristorar le forze! Aggiungi
il sangue sottratto dalle zanzare e ti potrai immaginare come si sta
bene in compagnia dei lapponi!


V

                                       A bordo di Olaf Trygvason-Badö

                                                     6 settembre 1879

Come vedi dalla data di questa lettera, anch’io sono finalmente sul
punto di ripassare il Circolo Artico, e mi ravvicino a tutto vapore
alla famiglia, agli amici. Pure, nonostante il piacere che ne provo,
dicendo addio a Tromsœ mi parve di dire addio ad un vecchio amico.
Quando ci arrivammo insieme appena sbocciavano le foglie della betula:
ora digià cadono, ingiallite dall’autunno.

Ho dunque vissuto un’estate intera della vita di Finmarkia e vi ho
quasi acquistato i diritti di cittadino! Se vi ho avuto delle ore
di scoraggiamento e di stanchezza, ne riporto anche tanti buoni
e piacevoli ricordi da far dimenticare quelle. E poi già, colla
lontananza le ombre spariscono da sè: quando avrò messo fra me e la
Finmarkia questi cinque giorni di mare (che col vento e la pioggia
di questi giorni sono un’_ombra_ molto scura) sono sicuro che tutti i
ricordi di quest’estate mi appariranno illuminati dalla medesima lieta
luce.

Nel mio ultimo breve soggiorno a Tromsœ ho voluto vedere più da vicino
i lapponi nei loro rapporti colle renne, e per questo sono andato
nell’isola di Qualö, a poche ore di distanza, a chiedere l’ospitalità
ad una famiglia di lapponi che vi ha la sua _gamme_. Quando vi arrivai
la sera, avevano nello steccato circa un 500 renne tutte femmine,
coi piccini di quest’anno che sono di già divezzati; le donne erano
occupate a mungerle, mentre gli uomini le acchiappavano col _lasso_
e le legavano ad un tronco di betula. È straordinario l’occhio che
quella gente ha per riconoscere le renne. In quel luogo vi erano otto
famiglie di lapponi, e le renne appartenevano un po’ ad ognuna di
queste famiglie. Non solo gli uomini non gettavano mai il _lasso_ ad un
animale che era già stato munto, ma neppure scambiavano mai una renna
di un altro con una propria.

A cena mi diedero della carne di renna fresca eccellente, del formaggio
fresco fatto in mia presenza, della ricotta e del latte fresco, tutte
cose ottime. Dopo che ebbero fumate parecchie pipe e chiacchierato
fra di loro, si sdraiarono sulle loro pelli di renna stese per terra
intorno al fuoco, ed io feci come loro. Per il lappone lo spogliarsi
per la notte consiste nel levarsi la cintura; alcuni si levano anche
gli stivali. In mezzo alla notte volli godere dello spettacolo, che
presentava la _gamme_ e mi alzai cheto cheto per non disturbare nè
uomini, nè cani. Una vecchia si era già alzata per fare il caffè per
gli uomini, che dovevano partire nelle prime ore del mattino per andare
coi loro cani a cercare un’altra mandra di renne e condurla nello
steccato.

La vecchia aveva gettato sul focolare nuove legna, che con la loro
fiamma rossa illuminarono una scena molto caratteristica. Dapprima
non vidi altro, guardando per terra, che un _pêle-mêle_ di pelli di
renna buttate là alla rinfusa; ma poco a poco potei distinguere qualche
testa d’uomo, di donna o di bambino che sbucava fuori, qualche stivale,
qualche piede nudo, qualche muso di cane. Pareva che fossero stati
tutti buttati lì a caso, senza ordine, senza direzione; impossibile
il contarli; fu solamente dopo, che seppi che eravamo stati quindici
_cristiani_ (compreso io) a dormire in quella _gamme_, con un numero
corrispondente di cani (delle altre bestie _minori_ che non dormivano,
ma furono molto _attive_ tutta la notte, sarebbe difficile il valutare
il numero, anche approssimativamente). Sul fuoco brontolava il bugliolo
del caffè ed appesi ai rami di betula inclinati, che formano la parete
della _gamme_, stavano appesi gli stomaci di renna pieni di sangue
o di latte, e le graticole di legno sulle quali stavano asciugando
i formaggi freschi. Fuori della _gamme_ splendeva la luna piena in
un cielo limpido, nel quale a tramontana la luce di un sole di pochi
gradi sotto l’orizzonte, si confondeva con quella di una debole aurora
boreale. Queste tre luci fuse insieme in un dolce ed armonioso chiarore
illuminavano profili arditi di monti nevosi, bracci di fjord, che
s’insinuano non si sa come fino in mezzo alle terre e la collinetta,
sulla quale le quattro _gamme_ che formano l’accampamento lappone,
mandavano ognuna una colonnetta di fumo nell’aria tranquilla della
notte.

La mattina ricevei dalle mani della padrona di casa una tazza di caffè
preparata ad uso lappone e la bevvi in parte per non offendere chi
me l’offriva, in parte per conoscere il lappone anche nella sua arte
culinare; però mi ci volle un grande sforzo per trangugiarla, e lo
capirai facilmente quando ti avrò detto che oltre al caffè ed al latte
di renna collo zucchero, conteneva un bel pezzo di burro di renna
strutto e diverse fette di cacio salato e stagionato che mandavano un
odore, che secondo le nostre idee armonizzava molto poco con quello del
caffè. Tutta la mattina i lapponi rimasero nella _gamme_, occupati alle
loro diverse faccende.

Un uomo faceva il burro; una donna faceva bollire della scorza di
salice per conciar le pelli; una altra stropicciava una pelle di renne
con un _rabot_ per renderla pieghevole; un’altra cuciva le _skalle_
(scarpe); un’altra faceva il filo coi tendini, alcuni battevano
il fieno che serve loro di calze e se lo rimettevano nelle scarpe,
operazione delicata e che richiede molta abitudine. Mentre erano così
occupati fumavano le loro pipe e chiacchieravano, dicendo probabilmente
anche delle barzellette, poichè di quando in quando tutta la compagnia
dava in scoppii di riso.

Verso mezzogiorno arrivarono le renne e dagli uomini e dai cani furono
cacciate nello steccato. Questa volta erano quasi tutti maschi, e non
meno numerosi di quelli della vigilia. Vidi come fanno i segni mediante
i quali li riconoscono, tagliando via dei pezzi dell’orecchio e
facendovi diverse incisioni col coltello, e come li castrano coi denti.
Vidi anche il modo barbaro col quale li ammazzano, ficcando un coltello
nel torace in modo che l’agonia dura un quarto d’ora.

Fra pochi giorni anche questi lapponi ritornano nell’interno, facendo
attraversare il Sund a nuoto alle loro renne. L’estate prossima
troveranno le loro _gamme_ come le lasciano, e le loro botti di latte
mescolato ad acetosa (miscuglio che ho assaggiato e trovato pessimo!)
che seppelliscono nei paduli ad una profondità sufficiente perchè non
gelino.




CAPITOLO QUARTO

  L’AMBIENTE SCANDINAVO — IL MARE, IL FREDDO E IL SILENZIO — IL
  CARATTERE DEGLI SCANDINAVI.


Ogni paese ha il proprio ambiente, e finchè noi non l’abbiamo respirato
e assorbito, sicchè penetri nelle ultime venuzze del nostro organismo,
non possiamo dire di conoscere la nuova terra, che vogliamo studiare o
descrivere.

È una certa quantità e movenza d’aria e di luce, è un certo tepore di
fiati umani, è un particolare profumo, che emana la terra; son certi
colori dominanti nel cielo o nelle case; son certi suoni che danno le
cose morte e le cose vive, incontrandosi tra di loro; son certi profili
di donna e caratteri di uomo che si incontrano o si scontrano coi
nostri gusti estetici; son correnti ascose di simpatie o di antipatie;
infine è tutta quanta un’atmosfera fisica e morale che ci circonda e
per i cinque sensi del cervello e per le mille associazioni del nostro
passato ci lega coll’odio o coll’amore al paese, che percorriamo per la
prima volta.

L’ambiente scandinavo è dei più caratteristici, ch’io m’abbia
conosciuto nei miei molti e lunghi viaggi; e se le cose del nostro
mondo interiore potessero fotografarsi, come si fa di quelle che
si mettono dinanzi all’obiettivo della camera oscura, io sento che
ritrarrei fedele e viva l’immagine di quel mondo polare, perchè me lo
sento nel cuore e nel cervello come cosa mia.

Quel mondo è freddo e dovrebbe accapponare i larghi pori beanti della
nostra pelle italiana: quel paese è deserto e dovrebbe contristare
i nostri occhi, abituati a trovare un villaggio sopra ogni pendice e
una borgata in ogni vetta; quelli uomini son muti e il nostro orecchio
educato alla gaia gazzarra degli interminabili cicalecci dovrebbe aver
sete colà di parole e di canti; quelle terre sono sepolte per otto
mesi sotto un funebre lenzuolo di ghiacci, e noi cresciuti all’ombra
di lauri sempiterni e fra le dorate spighe dovremmo avere in orrore
quel suolo di desolazione e di geli. Eppure nulla di tutto questo: la
Scandinavia ha per noi un fascino misterioso, che ci attrae, che ci
innamora, che ci lascia un lungo ricordo più caro ancora del godimento
stesso. L’amor del contrasto, la concentrazione intima, profonda,
misteriosa della vita in piccoli punti separati da immensi deserti;
la festa ciclopica di un’estate, che non si stanca di un sole di
tre mesi; i frastagli infiniti di una terra, che in mille amplessi
s’intreccia con un mare turbolento; e una grandezza triste nella natura
e un’ingenuità piena di forza e di verginità negli uomini, son cose
tutte nuove per noi e che sodisfano ad un tratto gusti sani e vergini,
che non avevamo forse sospettato di avere, o appena presentito nelle
giovani ore della vita, quando il desiderio è una luce indistinta, che
indora tutto ciò che tocca.

L’uomo nella Scandinavia sembra sbarcato sulla terra e pronto a
ripigliare il mare, donde è venuto. Là il mare è tutto, la terra nulla:
qui la vita avara, stenta, breve; là la vita feconda, inesauribile,
sempiterna. Le isole son tante, che appena le puoi numerare, ma la
terra ferma è isola anch’essa e le coste, non le vie, segnano la strada
al viaggiatore. Suprema voluttà dei signori di Stocolma e di Cristiania
è quella di bordeggiare in un elegante _yacht_ nei loro _fiords_ e nei
loro fiumi; e nel Mar Glaciale ti incontri ad ogni momento in barche
guidate da braccia di donna. E la pesca è più che mezza la vita di
quella gente, e segue nelle sue vicende capricciose l’alto e il basso
della ricchezza nazionale. Le aringhe, che ora è un secolo, affollavano
le acque di Gotaborg, sparvero a un tratto al principio di questo; poi
a poco a poco ritornarono, finchè nell’inverno 1878-79 si lasciarono
vedere a stormi, a coorti, a legioni. A questi salti corrispondono
cifre diverse di mortalità, di ricchezza; corrispondono la prosperità e
la miseria di tutto un popolo. Quando le aringhe si mostrano numerose
verso la fine dell’estate, nei fiordi della Lapponia, la tristezza
è universale, perchè i pescatori sanno per lunga esperienza, che le
aringhe e i merluzzi non frequentano mai successivamente le stesse
acque nello stesso anno. Quando invece vi son poche aringhe, si
costruiscono nuove barche, si apprestano lenze e reti e si pregusta la
gioia della ricchezza vicina.

Il mare, trasformato nella via maestra di tutti, rende uomini e
donne coraggiosi e robusti; e certe svenevolezze isteriche delle
nostre signore e certe scrofole dell’animo, comuni a tanti nostri
giovani ingialliti alla ribalta dei teatri o nell’afa dei caffè, sono
impossibili in quel paese, tutto imbevuto del salso aroma dell’onda.
Per una fanciulla norvegiana, andare da Tromsoe a Bergen, per visitare
un’amica o una parente, è una gita di piacere, e basti gettare uno
sguardo sulla carta geografica per misurare la lunghezza di quella
corsa.

Quando poi tu sei sbarcato su quel lembo strettissimo di terra, chiuso
per ogni parte dall’Oceano, ti par sempre di doverti incontrare in
belve preistoriche, che hai sognate in qualche notte insonne della
tua fanciullezza. Temi o speri ad ogni momento di imbatterti in un
rangifero dalle lunghe corna, in un alce ciclopico, in un orso bianco,
o in una frotta di lupi[4]. Dove non vi son uomini, la terra dovrebbe
essere in balìa delle fiere.

E invece quella terra è in balìa del silenzio, che forma la nota più
caratteristica e, per noi italiani, più sorprendente di quella bella
e cara Scandinavia. Io non mi sapevo dar pace per quella mutolezza
continua di tutta la natura. Non fragore di tuoni nel cielo, non
frangersi d’onde nel mare, non canti di fanciulle nel campo; non cicale
sugli alberi, non grilli nei prati: muta la terra, muti gli uccelli e
i quadrupedi, muti gli uomini e i fanciulli, muti i cani e gl’insetti.
Tutta quanta la natura sommersa in un silenzio infinito, in una serena
e tranquilla contemplazione di se stessa. Non dimenticherò mai la
strana impressione di una mia passeggiata in un bosco di pini, che sta
intorno alla stazione di Kopang, nell’altipiano della Norvegia. La casa
d’alloggio era tutta di legno, a grosso bugnato; sulla porta due grandi
teste cornute di renne e al primo e unico piano, un terrazzino poetico
con sedie di rami intrecciati di nocciuolo. Nelle spianata, che stava
davanti alla casa, un microscopico palazzino albergava i colombi, che
sul far della sera, silenziosi accorrevano al loro asilo notturno.
Neppur quei colombi tubavano, ma mordendosi silenziosi coi becchi si
davano l’ultimo bacio, accavallandosi amorosamente gli uni sugli altri
e corruscando con un muto tremito le loro penne. Più in là abbandonato
il treno sulla ferrovia, senza strider di ferri, nè grido di uomini.
Nella casa di posta tutto taceva. Escii a passeggio nella foresta di
pini, dove non un uccello cantava, o faceva stormir le foglie; non
un insetto sussurrava. Il silenzio mi affascinava e mi assorbiva nei
misteri della sua impenetrabilità; a un tratto rimarcai, quasi con
terrore, che non udiva neppure il rumore dei miei passi; i cespugli
di mirtilli erano adagiati sul molle cuscino del lichene rangiferino
e anche i miei passi si smorzavano in quel tappeto molle e soave, che
sembrava messo lì per togliere ogni rumore e non disturbare i sonni
eterni della natura. Ebbi quasi paura di non esser più vivo, pensai che
forse la mia coscienza di sentirmi vivo, non era che un ricordo di una
vita già spenta e che si andava anch’essa disciogliendo nell’infinito
di quel silenzio; e preso da uno strano capriccio picchiai col
bastone sul tronco d’un albero. Quel rumore rimase solo e si spense
senza un’eco, senza una risposta di spavento o di sorpresa d’uomini o
d’animali; quel rumore mi sembrò una profanazione e non lo ripetei più,
immergendomi tutto quanto in quel mistero affascinatore.

E se tu pensi, che a quel silenzio si associa per otto o nove mesi
dell’anno anche un altro compagno più muto che mai, il freddo; potrai
indovinare qual concentrazione di sè in sè debba venire agli uomini di
quelle terre. Fra noi la casa è un rifugio contro il sole, è un nido
per deporvi il nostro riposo o il nostro amore; ma la vera nostra casa
è l’aperto campo, che ha per soffitta il cielo azzurro e per pareti le
lontane cortine dei monti e dei colli. Per lo scandinavo la casa è il
guscio dell’ostrica, è l’elitra del coleottero, è una seconda pelle,
quasi viva come l’altra, che ci ha tessuto la mamma, e forse più calda
di quella. Togliere la casa all’uomo del nord è strappare il guscio
all’ostrica, l’elitra all’insetto; è straziare e metterne a nudo le
viscere. E in quelle case, dove si passano notti che durano mesi, ogni
tavola di legno, ogni libro, ogni porta, ogni gradino di scala e ogni
quadro si imbeve di emanazioni umane, di desiderii e di ricordi; e la
casa vive, palpita, pensa, s’accende e si agghiaccia insieme all’uomo,
che vi dimora. Di qui un’intimità profonda della famiglia; di qui le
lunghe meditazioni solitarie, che rafforzano la dignità della coscienza
e le interminabili letture, fatte in comune, che raddoppiano le più
care famigliarità del pensiero e affinano le più celate delicatezze del
cuore.

In quelle case di Svezia e di Norvegia anche il giardino entra in casa
e ne fa parte, e gli architetti hanno dovuto raddoppiare le finestre,
non tanto a far più aperte e larghe le vie della luce, quanto per
render possibile la vita ai fiori, che quelle donne coltivano con arte
infinita. Io ho veduto nelle sale dei signori di Tromsoe, a quasi 70°
di lat. nord, le più belle rose, le più belle margherite del mondo;
perfino _cactus_ fiammanti del tropico.

Marmier vide una signora di Tromsoe piangere di commozione per un ramo
fiorito di _lillac_, che suo marito le aveva portato da Cristiania. —
Oh Dio mio! gridava essa, sono sette anni, che non ho veduto nulla di
simile. — Era il ricordo dell’infanzia, il ricordo di un paese che per
lei era più ricco di sole, più ricco di fiori.

Il freddo ha molte altre virtù; il freddo rallenta ogni atto della
vita e rallentando conserva. Uno di noi vede, e non ha visto ancora che
ama ed odia, adora o disprezza e nel vortice di un incendio subitaneo
s’accende, divampa e si spegne. L’uomo del nord vede e pensa e poi
ripensa ancora, per poter precisare se sente davvero e come sente.
Domani e posdomani ancora il lento pensiero lo condurrà ad un lungo
travaglio per deliberare e fare. Intanto le sorprese dei sensi e le
intemperanze della passione riescono impossibili e l’uomo si conserva
più immacolato e più sereno.

La lentezza a rispondere, a decidersi, a capire ci impazienta sulle
prime, ma poi ci persuade, che essa è una quasi virtù. Una volta
Marmier s’impazientì in una casa di posta, per aver aspettato tre ore
il cambio dei cavalli per il suo _kärra_. Allora il maestro di posta
gli si avvicinò con un’aria solenne, dicendogli: — Come, signor mio,
voi vi lamentate per aver atteso i vostri cavalli tre ore? Si aspettano
qualche volta anche quattro ore.

A questa lentezza va però congiunta una grande tenacità di sentimento.
Dopo parecchi anni di assenza voi potete esser sicuri di ritrovar
sulle istesse labbra lo stesso sorriso di un’amicizia, che non
ha dimenticato. Aggiungete a tutto questo una semplicità ingenua,
un’onestà profonda, una naturalezza seducentissima, tutte quelle virtù
simpatiche, che poggiano sul fondo d’una sincerità spontanea. Io non
ho veduto mai una barba tinta, una capigliatura posticcia, io mi son
sentito nell’ambiente scandinavo come trasportato in un mondo antico,
come in un paradiso terrestre, prima del peccato di Eva; mi son sentito
come lavato e purificato delle cento e una ipocrisie, colle quali ci si
tinge, ci si maschera, ci si traveste ogni giorno, ogni ora della vita.
Io ho trovato in quella terra ghiacciata una società umana fondata
sulla reciproca stima; mentre fra noi vedo una società, che appoggia le
sue leggi, i suoi costumi sopra una mutua diffidenza, tantochè una metà
dei cittadini è incaricata di vigilar l’altra[5].

Nè crediate che io, idealizzando, esageri; no, anche là vi sono vizii e
delitti, anche là si beve a iosa e si amano le femmine libertine, ma il
vizio è un episodio o una malattia; non è penetrato in tutte le vene,
in tutte le fibre, in tutte le midolle delle ossa. Là, non ho veduto
in ogni via un birro, e in ogni stazione un carabiniere; là io mi son
sentito libero da quell’inquisizione quotidiana, lenta, tirannica
dell’esattore, del prete o del giudice. Là ho veduto le ombrelle
lasciate sulle vie per non bagnare le scale. Là ho veduto tutte le
notti le botteghe del gioielliere non chiuse da imposte di legno, ma
solo difese da un fragile vetro, e là ho saputo che tutta la grande
città di Trondhiem non aveva che otto poliziotti; e anche quelli non
escivano mai dalla caserma, per mancanza di occupazione!

Ma sarà dunque vero, che l’uomo non si moralizza, che quando è tenuto
nel ghiaccio, a guisa della carne, che non si conserva che sotto
la neve? Ma sarà dunque vero, che quello stesso sole, che accende
il nostro sangue agli impeti della passione, ci infiammi alla bassa
lussuria; che quella stessa luce, che ci abbrucia le carni e ci esalta
i nervi, ci conduca all’ombra dell’ipocrisia, ai tradimenti e al
delitto? Ma sarà dunque inesorabile questa sentenza, che vuole concessa
all’uomo una sola virtù, o quella dell’impeto o quella della tenacità?
Non potremo dunque mai, noi altri figli del cielo azzurro, aspirare
alla luce serena e sempiterna degli astri, per divampare soltanto nelle
eruzioni dei vulcani o per ardere nelle afe della canicola?

L’ardua sentenza ai posteri; noi per ora accontentiamoci di salutare
con amore quella terra vergine del nord, dove gli uomini son così
sinceri, le donne così serene e la libertà non è scritta soltanto sulle
superbe tavole di bronzo delle nostre leggi; ma è fusa nel sangue e
nelle carni di ogni cittadino dal re al lappone, e forma la prima luce
di quel cielo inclemente, la prima nobiltà di quella gente operosa e
valente.




CAPITOLO QUINTO

  STORIA NATURALE DEI LAPPONI — LORO NUMERO E LORO NOME — RITRATTO
  DEI LAPPONI FATTO DA UN POETA E DA UN PRETE — ABITUDINI E COSTUMI
  — LE SLITTE, LE CAPANNE E LA VITA NOMADE — LORO PSICOLOGIA — LE
  NOZZE E I FUNERALI — ORGANISMO SOCIALE ED ECONOMIA POLITICA — LORO
  INDUSTRIA — ORIGINE DEI LAPPONI.


Che cosa sono dunque questi lapponi? Qual posto dobbiamo assegnare
nella gerarchia dell’intelligenza e del sentimento a questi nostri
fratelli geografici, che sono così poco europei e sono così diversi da
noi? Incominciamo dalla parte più facile, contiamoli: l’aritmetica sarà
sempre l’alfabeto della scienza e la base più sicura per appoggiarvi
l’edifizio delle nostre cognizioni.

Frijs e Rèclus sono i due autori più attendibili per ciò che si
riferisce al censimento dei lapponi. Il dottissimo professore di
Cristiania ci dice che son poco meno di 30,000, sparsi sopra una
superficie di 10,000 miglia quadrate norvegiane[6]. La Norvegia ne
conta 17,178 di sangue puro e 1,900 incrociati; la Svezia 7,248; la
Finlandia 1,200; la Russia 2,000.

La statistica del Rèclus è più recente. Egli ne calcola il numero a
30,000 così distribuiti:

  Lapponi norvegiani e meticci       21,179 }
     »    svedesi                     6,600 } 1875
     »    russi e finlandesi          2,822   1859

A questo censimento è necessario contrapporre quello delle renne,
animale così intimamente collegato al lappone e senza di cui questa
varietà del genere _Homo_ sparirebbe senza dubbio.

  CENSIMENTO DELLE RENNE

  Svezia nel 1870       220,800 cioè 165 per famiglia
  Norvegia nel 1865     101,768    » 130     »
  Finlandia nel 1865     40,200    » 325     »
  Russia nel 1859           232?

Secondo Rèclus i lapponi, invece di scomparire, crescerebbero di
numero, specialmente in Norvegia. Secondo le liste di imposizione fatte
nel 1567, nel 1799 e nel 1815, i nomadi sarebbero triplicati in tre
secoli, e nella sola Norvegia settuplicati.

Von Buch dà per il 1799 queste cifre:

  Svezia e Finlandia          5,118
  Norvegia                    3,000
  Russia                      1,000
                             ——————
                              9,118

Ma ognuno sarà del mio parere, che quando si rimonta a statistiche
così antiche, le cifre non sono che pie intenzioni di un’esattezza
impossibile, specialmente quando si tratta di un popolo nomade.

Ed ora che son contati, battezziamoli: anche nella storia naturale è
questo il primo sacramento che si deve imporre ad ogni creatura viva.
I lapponi chiamano se stessi col nome di _salme_ o _same_ (plurale
_samek_). Il nome con cui noi li chiamiamo fu dato loro dai finlandesi,
che li dicevano _lappalainen_ (plurale _lappalaiset_). Questa parola
deriva probabilmente dal finlandese _lappaa_, che vuol dire _avanti
e indietro_ (dalle loro abitudini vagabonde). I norvegiani, e più
specialmente quelli del nord, li chiamano col nome di _finner_,
battesimo falso, nato dalla confusione di due razze diverse, benchè
strette fra loro con vincoli di remota parentela.

I lapponi si distinguono in _fieldlappen_ o lapponi di campo e
_fisklappen_ o lapponi pescatori. Questi, che in lingua lappone si
dicono _jaure-kadde-sameh_, costituiscono tutto quanto il gruppo che
si trova in Russia, mentre nella Svezia non son che pochi e per lo più
costituiti da nomadi impoveriti, che, avendo perduto le loro renne,
hanno cercato nel mare il pane, che negava loro la terra. Alcuni
autori distinguono anche i lapponi in _nomadi_ e _fissi_, ma è una
classificazione arbitraria e molto artificiale, dacchè nomadi sempre
per natura e per antiche tradizioni, possono per eccezione fissarsi per
alcuni anni in un porto, per ritornare poi alla vita vagabonda, appena
il terreno non dia sufficiente pascolo alle loro renne.

Anche le divisioni geografiche, benchè traggano seco differenze di
dialetto, non mutano però essenzialmente la pronuncia e il carattere
dei lapponi, che possono essere studiati tutti insieme, come uno dei
gruppi più naturali e più omogenei della grande famiglia umana. E
diciamo _omogenei_, perchè l’incrociamento dei lapponi coi finni è un
fatto raro; rarissimo quello cogli scandinavi.

Ed ora che li abbiamo contati e battezzati, guardiamoli in faccia per
vedere quanta parte di essi sia in noi e quanta parte di noi si ravvisi
in essi.

Heine ce n’ha dato un ritratto umoristico in alcuni versi famosi, dove
però l’umorismo si associa al tratto sicuro dell’uomo di genio. Spesso
la caricatura è più rassomigliante che il ritratto.

    In Lappland sind schmutzige Leute,
    Plattköpfig, breitmaulig und klein,
    Sie kauern um’s Feuer und backen
    Sich Fische und quäcken und schrei’n.

Un altro ritratto a stile linneano ci fu dato dal Knud Leem, ma
non vale quello dell’Heine: _Vultum habent fusci et luridi coloris,
capillos curtos, latum os, genas cavas, menta longa, oculos lippos_.
Qui si vede, che il prete studiava assai meglio l’anima che il corpo
e non sapeva vedere che le guance erano sporgenti, che il mento era
piccino e che la pelle era sudicia e non _fosca_. Il poeta ha saputo
vedere molto meglio che il prete, ma è naturalissimo. Se il poeta non
avesse lo spirito acuto e profondo dell’osservatore, mancherebbe la
corda più potente alla sua lira.

L’impressione prima, che ci fa un lappone, è quella di una creatura
umana povera, modesta, che chiede scusa ai forti di trovarsi in questo
mondo, di cui domanda d’occupare il menomo posto possibile. È tanto
piccino il poveretto, è così poco agile nel suo inviluppo di pelliccia,
ha così poche pretensioni a tutti gli _excelsior_ della nostra vita
europea, che noi proviamo per lui quella simpatia piena di compassione
e di benevolenza, che ci ispira ogni uomo che non desta in noi nè
invidia nè ira. Infatti tutti i viaggiatori hanno sempre parlato con
molta simpatia dei poveri lapponi e alcuni si spinsero fino al lirismo
del sentimento, che falsa la verità; e lo vedremo più innanzi, parlando
del carattere morale di questi nostri terzi cugini della grande
famiglia europea. Rèclus, che è forse l’ultimo scrittore che ci abbia
parlato dei lapponi, ne fa davvero un ritratto troppo lusinghiero,
seguendo il Van Düben. Dice, che la loro fronte è nobile e più grande
di quella degli scandinavi e aggiunge: _La bouche est souriante,
l’éclair du regard vif et bienveillant, le front élevé est d’une
veritable noblesse_.

Questa è una vera adulazione, ma si avvicina assai più al vero che
lo sprezzo e la ripugnanza, che hanno quasi tutti i norvegiani per i
loro poveri vicini di stirpe mongolica. Sono espressioni comuni: _ne
faccio caso come di un lappone. — Un lappone non vale più di un cane_.
È il Von Buch, che ha raccolto questi insulti, che oggi si ripetono
forse meno spesso, forse perchè i lapponi si ubriacano meno di una
volta. In ogni modo è sempre assai diverso il punto di prospettiva,
da cui un popolo inferiore è veduto da un viaggiatore e dai vicini
di casa. Il viaggiatore è quasi sempre di buon umore e disposto
all’ottimismo e colora quindi con tinte rosee tutti gli oggetti che
vede e che riproduce nei suoi libri; quando invece una razza superiore
ha nelle sue costole uomini molto inferiori, che non può nè educare,
nè uccidere, si sente poco disposta ad essere indulgente. Se voi
andate in Norvegia e parlate con i prefetti delle provincie, occupate
anche da lapponi, non vi siete ancora seduti, che avete subito a udire
le lamentazioni dello scandinavo contro il same: — _Son sudici, son
furbi, colle loro renne ci invadono i campi; non se ne può far nulla,
essi sono il flagello della mia provincia_. Hanno in parte ragione, ma
dimenticano ancora che il nord della penisola non saprebbe dar nè pane
nè salute alle razze scandinave e che queste dovrebbero nell’inverno
far senza dei ghiotti bocconi della carne di renne, se quei poveri
_same_ sparissero dall’oggi al domani dalla faccia della terra.

I lapponi sono fra gli uomini più bassi della terra. Dalk trovò la
statura media dei lapponi pastori di metri 1,60; secondo Van Düben e
Humboldt sarebbe invece di 1,50. Ecker trovava queste misure:

  Nilla ♂   d’anni  20  metri  1,53
  Puches ♂    »     17    »    1,37
  Kaisa ♀     »     24    »    1,42
  Ippa ♀      »     20    »    1,44

Le misure prese da Sommier e da me darebbero i seguenti risultati:

  Statura med. di 59 uom.   Met. 1,52  Mass. 1,70  Min. 1,32
  Stature med. di 22 donne   »   1,45  Mass. 1,60  Min. 1,27

In questi calcoli furono escluse tutte le persone aventi meno di venti
anni.

Il lappone non ha di certo l’aspetto d’uomo atletico, ed è più spesso
asciutto che grasso; posso anzi dire di non averne mai veduto uno solo,
che meritasse questo aggettivo. I bambini, come avviene in pressochè
tutte le razze umane, sono paffutelli ed anche grassocci, ma coll’età
diventano magri.

Il Knud Leem li dice _magni roboris_, benchè piccoli, e cita come una
prova della loro robustezza il fatto di una donna, che cinque giorni
dopo aver partorito, faceva nell’inverno un lungo viaggio a piedi
attraverso monti nevosi per essere purificata nella chiesa. Questa
è invece una prova di resistenza al freddo e null’altro. Tutti i
lapponi veduti da me e da Sommier furono sottoposti all’esperimento del
dinamometro e diedero cifre generalmente più basse assai della nostra
media.

Quando sono vestiti delle loro pelliccie e sembrano fagotti ambulanti,
nessuno li crederebbe agili, ma invece lo sono per gli esercizi ai
quali li costringe la loro vita polare. Sui loro pattini sembrano
volare e il Knud li descrive con parole poetiche: _Et tanta feruntur
pernicitate, ut venti circa aurea strideant, crinesgue surrigant_.
Per il buon parroco norvegiano è prova di grande agilità il potersi
sedere piegati in due coi talloni sotto le natiche, e di questa virtù
è anche da farsi parte meritoria all’olio di pesce con cui si ungono
continuamente(!). È questo stesso olio, di cui sono imbevuti anche
i loro abiti, che li rende fetidi anzi che no: _Eundem foetorem non
aliunde quam ex vestibus hujus gentis perpetuo in tuguriis fumo et oleo
ex pinguedine piscium expresso, imbutis et perunctis, provenire_.

I lapponi sono tra gli uomini meno pelosi. Gli uomini hanno poca barba
e spesso ne mancano affatto alle gote, non avendone che al labbro
superiore e al mento. Ne abbiamo veduti senza peli alle ascelle ed un
uomo robusto fotografato da noi nudo non aveva peli al pube. Alcune
donne, nelle quali con grande stento si potè esplorare le ascelle,
le avevano pelose; ma fu assolutamente impossibile esplorare regioni
più basse. Questo esame ci permise di riscontrare mammelle floscie e
pendenti in donne giovani e che dicevano di non aver mai partorito,
fatto singolare in gente, che vive in clima così rigido.

Hanno molti capelli e le donne sempre più lunghi che gli uomini; non
mai ricciuti, ma neppure rigidi e grossi come li presentano molte razze
mongoliche e americane. I colori più rari sono il biondo chiaro e il
nero intenso. Fra i lapponi svedesi fotografati da noi a Tromsoe, uno
solo aveva i capelli veramente neri e il biondo chiaro non fu veduto
che a Ojung e qualche altra rara volta. La tinta più generale è il
castagno, che oscilla dal chiaro all’oscuro, presentando talvolta anche
una bella tinta fulva. Non abbiamo mai veduto capelli albini o rossi.
Incanutiscono più tardi di noi e anche la calvizie è assai rara e per
lo più parziale. I capelli lapponi conoscono ben di raro il pettine
e la loro acconciatura si potrebbe chiamare scapigliata o arruffata.
Anche le donne si accontentano spesso di raccogliere i loro capelli in
un fascio, legandoli sul vertice del capo; le più civili fanno treccie
molto semplici, che spesso dimenticano per giorni e settimane.

I lapponi hanno la pelle bianco-bruna e molti fra di essi, quando
fossero ben lavati, sarebbero più bianchi di un italiano.

La fronte del lappone è bella, ampia, alta e tale da fare singolare
contrasto con altri lineamenti proprii di razze inferiori.

Gli occhi per lo più grigi o d’un azzurro chiaro, non di raro però
anche castagni. Sono piccoli, con poche ciglia e spesso lagrimosi ed
anche cisposi, ciò che si deve al viver sempre tra il fumo e il baglior
delle nevi. Il Leem racconta, che nell’inverno al ritorno dalla caccia
rimangono ciechi per varii giorni. Eppure non sogliono portar occhiali
per difendersi dalla bianchezza delle nevi, come fanno altri popoli
circumpolari. Alcuni di essi mi dissero di averli gettati via, perchè
indebolivan loro gli occhi, che devono invece fortificarsi contro il
riflesso bianchissimo dello nevi e del ghiaccio[7].

Il naso è in quasi tutti i lapponi di una stessa forma e può dirsi
uno dei caratteri più salienti della loro razza; è corto, appiattito,
larghissimo alla base e con una punta piccina, talvolta rivolta anche
all’insù. La bocca è grande, con labbra sottili e denti stupendi; sia
per la loro regolarità, quanto per la loro bianchezza e resistenza.
Anche i ciukci avrebbero queste preziose prerogative e lo stesso si
afferma anche di altre genti iperboree, per cui si potrebbe sospettare,
che la bellezza dei denti fosse in essi conservata dall’atmosfera
fumosa delle loro capanne e dall’azione del freddo.

La faccia è sempre larghissima, ma questa larghezza diminuisce
rapidamente verso il mento, che termina quasi a punta, essendo il
mascellare inferiore piccolo e delicato. È questo che dà alla faccia
d’un lappone il carattere tipico del mongolo, che talvolta trovasi
evidente come nelle razze più turaniche del nord dell’Asia orientale,
mentre per gradazioni infinite può svanire tanto da dare alla
fisonomia il carattere ariano. È difficile dire se ciò si debba alla
mischianza di altro sangue o alle variazioni individuali, delle quali è
suscettibile ogni uomo nato sotto il sole.

Le mani e i piedi sono piccoli, come la piccolezza del corpo lo esige
e il dito indice della mano è sempre più corto dell’anulare, talvolta
in modo veramente rimarchevole. Quest’osservazione, che fu fatta per
la prima volta da noi darebbe ragione all’Ecker[8] che in questo fatto
trovava un carattere proprio delle razze inferiori, e che le ravvicina
alle scimmie antropomorfe.

I lapponi son gente longeva e sana. Il mio compagno di viaggio ne
vide parecchi ottuagenarii e anche nonagenarii. Non hanno malattie
speciali e il Leem dice di non averli mai veduti nello spazio di dieci
anni malati di dissenteria, di lebbra o di febbri maligne (febbri
tifoidee?). Pare che soffrano rarissime volte di tisi, spesso di
cefalea, ma è assai difficile raccogliere notizie positive sulla loro
patologia, perchè si curano da sè e ben di raro ricorrono ai nostri
ospedali. Dicesi che sieno loro rimedii popolari i rivellenti e l’assa
fetida. Curano molti mali interni, bevendo sangue caldo di foca o
di renna. Curano il leucoma, mettendo nell’occhio un pidocchio, e il
mal di denti, fregandoli con un legno tolto da un albero colpito dal
fulmine. Adoperano il filo tolto dai tendini del renne per legare le
membra rotte o lussate, ma le donne devono prenderlo da un animale
femmina e i maschi da un maschio. Il grasso d’orso era rimedio sovrano
contro i reumi, ma anche in questo caso uomo e donna dovevano servirsi
dell’adipe tolto dall’animale dello stesso sesso.

Qualche rara volta entrò in essi il vaiuolo e ne fece strage.

I lapponi non son brutti, e le fanciulle nel sorriso della loro
primavera possono talvolta dirsi anche belle.

Il concetto, che ho potuto formarmi della loro fisiologia generale,
non può dare appoggio alla opinione del Virchow, che vorrebbe fare dei
lapponi una razza patologica. È una razza piccola, meschina, ma adatta
all’ambiente che li circonda. Tanto varrebbe dire che la _betula nana_
è una specie patologica. Del resto non insisto nel combattere il mio
illustre amico di Berlino, non avendo mai creduto che le frontiere
fra la fisiologia e la patologia esistano davvero nella natura; sono
confini segnati dalla nostra matita nei nostri libri e nulla più.

L’alimentazione del lappone è quasi esclusivamente animale: carne,
latte e cacio presso i nomadi; pesce presso i pescatori.

Nell’inverno mangiano sempre carne fresca di renna, cotta nell’acqua o
bollita prima e poi tuffata nel grasso strutto. Il Leem dice: _Crudis
carnibus lappones vesci a non nemine quidem relatum est, sed invita
veritate_. Io però ho veduto dare ai bambini carne cruda, ma salata.
Non mangiano mai il polmone delle renne, ma lo danno ai cani. Mangiano
poi intestini, visceri ed ogni cosa, mostrandosi ghiottissimi del
midollo delle ossa. Il Leem descrive a questo proposito una scena che
ha un colorito preistorico: _Dum hoc agit, humi sedet et super corium
rangiferinum, quod in gremio expansum habet, ossa malleo confringit,
confractaque elixanda curat, donec, quidquid pinguedinis in illis
residuum fuerit, extractum sit_. Non possono mangiare la carne di
porco, ma mangiano bensì l’orso, le pernici ed altra selvaggina.

Io ho veduto salciccie e pasticci fatti di latte e sangue di renne, ma
erano cibi talmente ripugnanti, che, ad onta del mio largo eclettismo
gastronomico, non osai assaggiarne. Sommier li vide mangiare un budino
fatto di cervello, sangue e farina. I pescatori usano spesso un loro
manicaretto di acqua, sego e farina. Ne mangiano un altro, detto
_vuorra-maelle_, fatto di acqua, sangue, sego contuso e farina.

Il renne non dà latte nell’inverno, perchè partorisce nel maggio; e non
si può mungere le renne che dalla fine di giugno alla fine d’ottobre;
ma il lappone ha sempre del latte in casa, perchè lo conserva gelato
per molti mesi. Quando i nomadi devono lasciare sul finir dell’estate
la costa norvegiana per portarsi all’interno, seppelliscono in vasi di
terra il latte di renne ad una grande profondità e lo ritrovano l’anno
dopo, come si trattasse di vino conservato in una cantina. Il latte
gelato si fonde al fuoco e mentre si fonde, si leva col cucchiaio la
parte liquida che galleggia. Quando il lappone è satollo, si riporta
al freddo il prezioso liquore, che si rapprende di nuovo e si conserva
per un altro pasto. Il latte congelato si considera come ghiottissimo e
si conserva in vasi di betula. È la prima cosa che si offre al curato o
all’ospite, che si vuol onorare. Quest’uso ci fa ricordare i ciukci, i
quali nelle loro capanne tengono appeso il latte gelato e lo succhiano
uno dopo l’altro, quasi bambini che poppassero.

Il latte si fa coagulare col _Rumex acetosa_ o coll’_Empetrum nigrum_.
Colle bacche di questo arboscello si fa anche un pasticcio di latte e
empetro, che si conserva gelato in uno stomaco ben ripulito di renna.
Quando si vuol mangiare, si fa fondere al fuoco o si tagliano insieme
le bacche del frutto, il latte e le pareti del ventricolo.

Il formaggio di renne è per i nostri palati esigenti un pessimo cibo. È
così grasso, che brucia come una candela. I lapponi lo mangiano com’è,
o cotto nell’acqua, o arrostito sul fuoco. I lapponi pescatori fanno
anche un ottimo burro colla crema delle vacche, delle pecore o delle
capre.

Il pane è usato ben di raro dai lapponi, ed anzi il Knud Leem dice
di non averlo veduto mangiare neppure coi cibi più grassi. Oggi però
per eccezione essi mangiano un pane ributtante fatto d’orzo e segale
con moltissima crusca. Tutti i viaggiatori parlano di pane di scorza
d’albero, mangiato non solo dai lapponi, ma anche dai norvegiani, ma
si fabbrica invece ben di raro. Si sospende in questo caso alla capanna
la parte più interna della scorza del pino, poi si fa seccare al forno,
si polverizza e si mescola con paglia sminuzzata, con avanzi di spighe
e con alcuni licheni e se ne impastano dei pani della grossezza di un
dito.

È un alimento amaro, astringente e ripugnante. Quando i norvegiani
se ne alimentano per una gran parte dell’inverno, si sentono poi in
primavera deboli, affranti e soffrono di dolori al petto. Anche la sola
scorza interna del pino si conserva nelle capanne come arma di riserva
per i giorni di più crudele carestia. Allora la raschiano e la mangian
cotta nell’acqua, a guisa di pappa.

In quei paesi sterili e poverissimi anche gli animali devono essere
sottoposti talvolta a diete singolari. Così Von Buch dice di aver
veduto dare a Roeros alle vacche, ai cavalli e ad altri animali
domestici gli escrementi del cavallo, che talvolta si facevano anche
bollire e si mischiavano con un po’ di farina.

Anche i poveri frutti della flora polare sono mangiati dai lapponi, che
li usan freschi o li conservano gelosamente per l’inverno: frutti del
_Rubus chamemorus_ e del _R. arcticus_, frutti di _Empetrum_ e di varie
specie di _Vaccinium_; tutto mangiano, dalle bacche più astringenti
alle più amare e alle meno nutritive. Aveva ben ragione quella
fanciulla lappone, che era levatrice e sapiente, di dire con immensa
invidia all’amico Sommier: _Ah voi siete dunque del fortunato paese,
dove crescono l’arancio e il fico!_

Non sarà inopportuno confrontare l’alimentazione dei lapponi con quella
degli esquimesi. Questi si nutrono specialmente di cibi animali e più
particolarmente di foche, di balene, di mammiferi terrestri e di grasso
di morsa. Questo si mangia crudo e si dà come una fina ghiottoneria
ai bambini. Quello delle morse non è dispiacevole e rassomiglia molto
al formaggio, quello delle balene ha invece un sapore di rancido. È
indifferente per gli esquimesi se la carne sia fresca o semiputrida,
cotta o cruda. Le carni degli animali selvaggi, anche se cotte, sono
sempre condite con una salsa d’olio di pesce. Questo si prende anche
coi frutti di cui si cibano. Il pesce si mangia quasi sempre crudo o
seccato al sole o conservato nel suolo ghiacciato. I cibi vegetali
sono molto scarsi e si riducono alle foglie crude e acidule del
_Rumex domesticus_ e alle radici del _ma-shu_ (_Polygonum bistorta_),
che arrostite sulla cenere rammentan la patata. Per l’inverno si fa
grande provvista dei frutti gelati dell’_Empetrum nigrum_, del _Rubus
acaulis_, del _R. chamaemorus_, del _Vaccinium uliginosum_, del _V.
vitis-idaea_, del _V. oxycoccus_, del _Cornus suecica_ e dell’_Arbutus
alpinus_[9].

Anche l’acqua per i poveri Lapponi è ghiacciata o torbosa e scarsa. Nel
primo caso fanno cuocere il ghiaccio per renderlo potabile, nel secondo
la sorbiscono dalle pozze sottili con un osso forato o una cannuccia.

Sono delizie della povera cucina polare il caffè e il tabacco. Avete
già veduto come preparano il primo; usano del secondo, fumandolo nella
pipa o ciccandolo. La pipa è sempre nella bocca d’ogni lappone di
ambo i sessi e d’ogni età e ciò impedisce loro di essere più spesso
ciccatori. Quando il tabacco è scarso, si mettono in giro seduti per
terra e da una sola pipa passata in giro fumano tutti. Quando manca del
tutto la divina nicoziana masticano perfino i vasi di legno o le boccie
che lo hanno contenuto. Si assicura anche che ciccando sputano nella
palma della mano e tiran su per le narici quel succo prezioso, onde
nulla vada perduto del loro divino narcotico. Aveva dunque ragione il
mio Sommier di dirmi, che i lapponi hanno tre Dei: il fuoco, il caffè e
il tabacco. Per me è fuor di dubbio che l’abuso del caffè e del tabacco
contribuisca assai a dare ai lapponi un nervosismo singolare, che tanto
spesso li porta alla allucinazione e a tutti i più strani isterismi
della fantasia; ma quei poveri uomini come potrebbero tollerare la loro
vita polare senza quei due alimenti nervosi?

I lapponi hanno tutti i caratteri più salienti dei popoli bassi.
Spensierati, inerti, o per eccezione, affaccendati; capricciosi e in
tutto simili ai nostri fanciulli. Sono i figli di una terra fra le più
sterili della terra, coperta dai ghiacci per tanti mesi dell’anno,
e nulla hanno fatto per tentar di corregger la terra e renderla più
feconda. L’ambiente li domina, non essi l’ambiente. Senza il renne
cesserebbero di esistere o si trasformerebbero (se pur fosse possibile)
con costumi o indole affatto diversi. D’inverno è notte eterna ed
essi dormono lunghissimamente: nell’estate il sole brilla sempiterno
sull’orizzonte ed essi dormono poco o nulla. Quando Forbes si
meravigliava di veder lavorare a Bosekop anche di notte e di veder la
gente dormir pochissimo e irregolarmente, gli si rispondeva: _abbiamo
tempo abbastanza per dormire nell’inverno_. Io però li ho veduti anche
nell’estate dormicchiare di giorno e di notte. Quando non hanno altro a
fare di meglio, si sdraiano lì per lì sopra il suolo, nel canto di una
via, sopra un mucchio di pietre o di tavole, e lì ammonticchiati gli
uni accanto agli altri sembrano fagotti di pellicce e di panni sudici.

Il vestito, la casa e la slitta del lappone dicono gran parte della sua
vita.

Se volete fare uno studio accurato del vestiario dei lapponi, leggete
il capitolo IV dell’opera del Knud Leem, già tante volte citata, e
che è uno dei migliori. Dopo più di un secolo quella brava gente si
veste ancora nello stesso modo, senza sacrificare alla capricciosa Dea
della moda. Hanno sempre i loro calzoni di pelle di renna, la loro
grande casacca di pelliccia di renna, le loro scarpe di pelliccia
di renna, e i loro svariati berretti. Pare soltanto che nel secolo
scorso portassero più spesso il _kersey_ o berretto in forma di pan
di zucchero. Le donne si distinguono dagli uomini quasi unicamente
per la copertura del capo, che ora è una cuffia, ora un elmo di legno
coperto di stoffe dai vivi colori. La camicia, le calze, tutto ciò che
è bisogno urgente di pulizia per tutti noi, brilla per la sua assenza e
non so davvero capire come l’abitudine possa render loro sopportabili
quelle ruvide pelliccie, che d’estate portano col pelo infuori e
nell’inverno col pelo in dentro. In questa stagione al di sopra della
prima casacca pelosa ne portano una seconda col pelo all’esterno e
aggiungono spesso un terzo vestimento di panno. Per i più ricchi o
i _lyons_ questo vestito si sostituisce nella stagione calda alle
pelliccie. Non portano mai quel soprabito di pelle d’intestino di foca
o di balena, che in altre razze iperboree impedisce che la neve si
appiccichi al pelo e formi una irta crosta di ghiacciuoli.

La calzatura è la parte più originale e civettuola del vestito lappone.
Sono scarpe di pelle di renna col pelo all’infuori, che si fermano
con lunghi lacciuoli di lana intrecciati sopra il calzone di pelle e
sono imbottite di morbido fieno, che chiamano _sueinek_ e i norvegiani
dicono _sene, senne, sennegraes_ o _lap-renne_ o _komagraes_. I
lapponi svedesi lo chiamano invece col nome di _kappnocksuini_, e gli
svedesi _lapsko-graes_. È il _Carex vesicaria_ di Linneo. I lapponi
portano spesso sopra di sè anche un’altra specie di odorosissimo fieno
(l’_Anthoxantum odoratum_) che nascondono nel petto e sotto le ascelle
per profumarsi. È questa davvero una leccornia epicurea, che non si
crederebbe trovare in un popolo di gusti così semplici e selvaggi.

La casa si distingue in quella d’inverno e in quella d’estate. Avete
già veduto nella gita a Ojung come sia fatta la prima, ma vi descriverò
meglio la povera porta di quella capanna collo stile pittoresco del
Leem:

_Janua tentorio ex tegillo laneo, in formam pyramidis secti conficitur,
cujus pars interior tendiculis, qualibus fumatus salmo distendi solet,
dispanditur. Hujusmodi tendiculis, quos zangak appellant lappones, si
careret tegillum, vicem januae praestare nequiret. Ad utrumque ostii
latus tenuis pertica birshiamas lapponice dicta, postium suppletura
defectum erigitur. Vento increbrescente, janua, quae superne tantum, et
quidem e solo loco, suspensa est, alberi perticarum alligatur, ita ut
ad illud latus, cui ventus instat, prorsus occlusa sit, quod ni factum
fuerit, perflante vento turbaretur in foco ignes, sufflaminatusque
fumus totum tentorium compleret_[10].

Quando un lappone in un viaggio marittimo deve sbarcare sovra una costa
deserta, con tre remi e un pezzo di stoffa si improvvisa una capanna.
E poco diverso da questa è la tenda d’estate fatta di tela e rami
d’albero.

La capanna dei lapponi pescatori non ha forse di diverso che un
_umbraculum_ sul tetto, che si cambia di posizione per difendere
l’interno dalle correnti del vento. Questi lapponi di mare, prima di
coricarsi, spengono ogni traccia di fuoco, gli altri non lo fanno,
lasciando invece spengere il fuoco da sè e accontentandosi della luce
morente del focolare. I pescatori vogliono invece la luce continua di
una lampada, che si improvvisa con una conchiglia, dello stoppino di
alghe, e dell’olio di pesce.

Ogni capanna fissa di lapponi ha un’appendice, che dicesi _loaavve_,
e che è un graticcio di tronchi e rami d’albero, ai quali appendono le
corna delle renne, e i loro utensili più rozzi e le loro slitte. È in
tutto e per tutto la _ramada_ degli argentini.

La _gedge-borra_ è una cantina o buca sotterranea, dove nell’eterno
gelo del suolo profondo conservano le carni e il latte delle loro
renne.

Nelle capanne del lappone il mobilio è proprio ridotto al minimo
possibile: non sedie, non tavole (_nullae sellae, mensae nullae_, dice
il Leem), ma pelliccie distese sopra rami di betula. Quello è il loro
letto e la loro copertura, dove entrano vestiti. Anche i ciukci hanno
il loro letto fatto di uno spesso strato di _Andromeda tetragona_ e di
pelli di foca o nei più ricchi di renna o di orso. Una sola pertica
di legno separa presso i lapponi un letto dall’altro e l’ingenuo
nostro prevosto mostra le conseguenze immediate di questa intimità:
_Alter tamen alteri adeo vicinus est, ut parentes liberos, hi servos
et viceversa cubantes, manibus si velit, contingere et contractare
possint_[11]. Ed oggi io non ho più veduto neppure quella povera e
pudica pertica isolatrice.

Anche in quelle poverissime capanne e con tanta promiscuità di sessi e
di membra esiste una gerarchia.

Dirimpetto alla porta il fuoco e il fumo impediscono che il freddo
esterno penetri direttamente, ed è quindi quello il posto d’onore
del padrone di casa e della sua consorte. I figli stanno ai lati dei
genitori e i servi stanno naturalmente dove si sta peggio, cioè accanto
alla porta. Quando entra un ospite, gli si cede il posto migliore e il
padrone va a collocarsi alla porta.

Il Leem distingue presso i lapponi quattro specie di slitte:

La _giet-kierres_, o slitta a mano; è tutta aperta ed è così leggera
che facilmente può portarsi sulle spalle d’un uomo.

La _raido-kierres_, o carro per i bagagli, aperta come la prima, ma
che si copre con pelli di renne, ed è più grande e più alta della
_giet-kierres_.

La _pulke_, somigliante alla prima, ma incatramata esternamente e
aperta soltanto nella parte posteriore; chiusa al davanti da una pelle
di foca, che ricopre le gambe. È la più usata per il trasporto degli
uomini.

La _Lok-kierres_ coperta pure di pece, e serve a portare i
commestibili; è più grande della _pulke_ e della _giet-kierres_[12].

Il lappone passa gran parte della sua vita in queste sue slitte. Il
pescatore non muta soggiorno che in primavera ed in autunno, ma il
_fieldlappe_ è sempre in viaggio: _Haud secus ac veteres Scythae, de
quibus in historia fecerunt, hodieque faciunt Arabes ac Tartari, semper
mobiles sunt, semper vagi, non eadem sede et loco diu contenti_.

Sono i viaggi per portar le renne alla costa nell’estate o quelli
di ritorno sul finire dell’autunno; sono le corse per cercar nuovi
pascoli o sono anche lunghi pellegrinaggi per far visite a parenti od
amici. Il van Duben, che parla di questi viaggi di cortesia, aggiunge
maliziosamente, che in essi i rapporti fra i due sessi sono molto
liberi e che se ne vedono spesso anche gli effetti, benchè anche i
più recenti viaggiatori parlino con entusiasmo dei buoni costumi dei
lapponi.

Nelle carovane il _paterfamilias_ va davanti a tutti e dietro a lui
tutte le altre slitte. Dove è il bambino è sempre la madre, che spesso
getta le briglie sul collo della renna e anche nel più rigido inverno
apre il seno e lo porge al bambino. Il renne corre serpeggiando e il
lappone butta le briglie sul collo dell’animale ora a dritta ed ora a
manca, secondo la direzione che vuol prendere. Quando un renne focoso
corre troppo, si lega alla slitta che gli sta davanti. Spesso si legano
molte slitte insieme e un solo lappone nella prima le guida tutte. È
incredibile vedere come quella gente sappia orientarsi senza bussola
in quelle pianure tutte bianche. Anche quando la neve cade così fitta,
da impedire al condottiero di vedere l’animale che lo tira, essi
non smarriscono mai la strada. Una pietra, un’ondulazione di terreno
bastano per contrassegno e nella notte servon loro di guida le stelle,
delle quali conoscono parecchie. Le Pleiadi ebbero dai lapponi un nome
molto poetico: quello di _nieid-gierreg_ o _famiglia di vergini_.
I ricchi si fanno sempre trascinare da rangiferi maschi castrati, i
poveri dalle femmine; ciò che mi ricorda il _gaucho_ argentino, che non
monterebbe una cavalla per tutto l’oro del mondo.

La renna è il compagno inseparabile del lappone e anche nei libri più
popolari trovate inni di poesia indirizzati a questo animale, che porge
all’uomo iperboreo la sua forza, le sue carni, il suo latte, la sua
pelle e i suoi tendini per farne il filo da cucire.

La renna è un animale semidomestico, che si lascia difficilmente domare
ed educare al tiro. Anche per mungerlo conviene legarlo e il suo latte
è meno copioso di quello d’una capra. Vien castrato coi denti, colla
schiacciatura del cordone spermatico (_admoto ore, dentibus contundit_,
Leem). Il renne si è adattato alla vita nomade del lappone e riesce
a farsi carnivoro in casi di grande carestia, mangiando i sorci e una
pasta fatta di teste e lische di pesci miste a paglia, ad alghe (_Fucus
serratus_) e ad olio di pesce. Avidissimo dell’orina umana, la ricerca
avidamente, rompendo la neve colle sue zampe. Ciò spiegherebbe anche la
loro avidità per l’acqua di mare.

E qui, se mi permettete, lascio la parola al mio illustre amico, il
prof. Friis, il quale nel suo libro sulla Lapponia, descrive con molta
evidenza i costumi vagabondi di quella gente, ch’egli ha studiato con
tanto amore:


MIGRAZIONI DEL FJELDLAPPE

«Seguiamo un lappone nelle sue migrazioni dal _Fjeld_ alla costa del
paese (trakten) intorno a Kautokeino alla costa vicino a Seglvigen
dove dimora d’estate, cioè durante circa due mesi. La distanza che deve
percorrere due volte all’anno è di circa 30 miglia (340 kilom.).

«Durante l’inverno il _Fjeldlappe_ è stato attendato nei medesimi
luoghi ove lo sono stati i suoi padri per secoli, ora sui monti,
ora nelle valli, ora nel piano. Tutto l’inverno ha dovuto tenersi
in guardia contro il lupo, il suo peggior nemico, che ora solitario
s’aggira con invidia intorno alla mandra, ora arriva in branchi ed
insegue ed attacca le renne. Per questo la notte fanno la guardia, e
per turno i vecchi ed i giovani devono star fuori colle renne ed esser
tanto più attenti quanto maggiore è il freddo, più forte la bufera e
più buia la notte. Ogni quarto d’ora chi sta a guardia deve fare il
giro della mandra, impedire coll’aiuto di cani di sbandarsi, urlare,
sparare il fucile e fare quanto rumore può perchè il lupo, lontano o
vicino, si accorga che la gente veglia. Se il lupo è veramente affamato
nulla lo spaventa, neppure i colpi di fucile; se non è tanto affamato,
rimane in distanza ed aspetta il suo momento; perchè egli conosce
il pericolo che corre e sa che quando la neve è alta è facilmente
raggiunto dal lappone sui _ski_. Ma può darsi che per l’appunto
quando dopo una ronda intorno al gregge si è appiattato in un buco in
qualche mucchio di neve per ripararsi dal vento gelato e vuol prendere
un momento di riposo, la sua quiete sia disturbata ad un tratto. I
cani che si erano coricati sulle gambe del guardiano, servendogli da
coperta, saltan su e s’allontanano abbaiando. Le renne che si sono
accorte anch’esse d’un pericolo, dapprima si stringono fra loro in una
massa compatta, ma dopo corron pazzamente qua e là finchè sentono il
lupo: allora fuggono a tutta velocità, in generale contro il vento,
inseguite dai lupi che cercano di sbandarle per sopraffare a due a due
gli animali isolati. Si tratta ora pei guardiani, spesso ragazzi di 15
anni, di essere svelti; l’uno coi cani va dietro al gregge, l’altro
corre sui _ski_, presto quanto può, alla tenda per fare escire ed
accorrere sui _ski_ la famiglia o le famiglie col grido di «Gumpe lae
botsuin!» Il lupo! il lupo ha aggredito il gregge! Frattanto l’altro
guardiano coi cani ha cercato di difendere il gregge come ha potuto. I
cani _Muste, Ranne, Girjes_ e _Tschalmo_ (cioè il _nero_, il _bigio_,
il _macchiettato_ e _quello colle macchie sugli occhi_, particolarità
che ha dato origine alla parola Tschalmo — dai quattro occhi — ) hanno
cercato di tenere il gregge riunito e di aggredire il lupo. I cani dei
lapponi sono piccoli, ma alcuni di essi sono abbastanza coraggiosi per
aggredire il lupo e l’orso.

«Guarda là _Muste_ come si azzuffa col lupo. _Muste_ non ha coda. È
il lupo che glie l’ha portata via? no; _Muste_ non l’ha mai avuta. È
nato senza coda[13] ed è per l’appunto per questo che è più difficile
al lupo di agguantarlo. Più in là sul monte due renne si fanno strada
con fatica sulla neve profonda: hanno la lingua pendente per la fatica
e certamente la loro ultima ora sarebbe già suonata, se _Muste_ non
avesse saputo coi suoi attacchi fermare il lupo. Tutte le volte che
questi riprende la corsa per perseguitare le renne, _Muste_ lo segue,
sicchè il lupo deve voltarsi per provare di sbarazzarsi dell’incomodo
nemico. Ma non gli serve. _Muste_ gli corre intorno come un turbine,
e il lupo, che al dir dei lapponi ha la schiena poco pieghevole, ed
è lungi da potersi voltare colla rapidità del cane, fa dei salti per
acchiappare _Muste_ inutilmente, come li potrebbe fare un cane da
lepri dietro ad un coniglio. Per questo un cane come _Muste_ non ha
prezzo per un lappone e non lo venderebbe per 10-15 _speciesdaler_.
Per un’ora _Muste_ ha tenuto il lupo in scacco ed ha salvato le due
renne. Finalmente il suo latrato disperato si è sentito ed ha chiamato
la gente al suo soccorso. Finalmente due skilöbere (gente montata sui
patini) appariscono sul ciglio del colle e calano giù colla rapidità
della freccia fra il lupo e le due renne. _Muste_ rinnova il suo
attacco con furore raddoppiato, tanto che senza dubbio si farebbe
sbranare dal lupo, se questo non fuggisse spaventato nel vedere gli
skilbere. Se riesce a fuggir da _Muste_ non può fuggire dai skilbere.
Questi rapidi come il vento, passano oltre a _Muste_ ed ora comincia
una corsa sfrenata col lupo. Se il terreno è favorevole e la neve
profonda, il lupo è spesso raggiunto. Il skilbere, che prima gli arriva
a lato, gli dà col skistok (bastone che adoprano quando sono sui
patini) un colpo sul _kroùtgrüken_, il punto il più vulnerabile del
lupo, che lo paralizza in modo che rimane là sulla neve, senza poter
più fare un passo colla gola aperta e minacciosa contro i suoi nemici,
mandando fuori dalla bocca rossa ed avida di sangue un nuvolo bianco
di fiato caldo. Arriva tosto anche _Muste_ senza fiato ed ansante e
comincia a saltare intorno al lupo, non essendo ancora sicuro che il
lupo si possa rialzare e rincorrerlo. Può darsi che i lapponi non si
diano il tempo di uccider subito il lupo e che vadano dietro ad un
altro, ben certi che quello colla schiena rotta non potrà muoversi
di lì fino a che tornino a dargli il colpo di grazia. Ma sia ora, sia
dopo, non lo uccidono senza prima aver sfogato il loro odio contro il
loro peggior nemico con un _discorsino_. Solo dopo avergli rammentati
i suoi misfatti e quelli dei suoi padri, e dopo aver vuotato il loro
sacco di ingiurie contro di lui gli danno la morte, piantandogli un
coltello nel fianco o tirandogli una palla di fucile sulla testa. Il
picchiarlo sulla testa col bastone non serve, poichè sa perfettamente
parare i colpi ricevendoli sui denti.

«Ma non tutti i cani sono svelti come _Muste_. Per questo, non ostante
gli sforzi dei guardiani, succede quasi sempre che quando il gregge
è assalito da un branco di lupi perdono pochi o molti animali. Può
darsi che il lappone se la cavi con un paio di renne, forse le sue
due migliori bestie da tiro, ma può anche darsi che egli in una
notte ne perda 10, 20, 30; può darsi che la sera fosse un uomo ricco
che possedeva molte centinaia di renne e che alla mattina sia un
miserabile. I suoi animali saranno sbranati, cacciati nei precipizii,
stroppiati e nel caso migliore cacciati a molte miglia di distanza e
dispersi in modo che deve andare in giro per raccoglierli nelle altre
mandre ove si sono rifugiati, seppure dei ladri non hanno gareggiato
coi lupi. Però per alcuni anni può darsi che il lupo si mostri appena;
allora vi è «pace.»

«Quello che il _Fjeldlappe_ ha più da temere dopo il lupo è l’abitante
non nomade (Fastboend) di Kautokeino e Karasjok. Questi ha l’abitudine
come l’abitante della costa di segare del fieno qua e là per i monti,
spesso a diverse miglia (di 11 kilometri) dalla sua abitazione. Col
fieno o per meglio dire misera erba di padule che riesce a mettere
insieme, fa dei mucchi che ricuopre con più o meno cura. Questi sono
dichiarati _Privat Eigenthum_ ed i _Fastboende_ esigono che siano
rispettati come tali dai _Fjeldlappe_, quantunque spesso non abbiano
nessun diritto di proprietà sul terreno sul quale hanno segato quel
fieno. Le renne che hanno buon naso, quando per lo stato della neve
possono difficilmente arrivare ai licheni, hanno sentore di uno di
questi fienili, vi accorrono ed in un momento lo buttano all’aria,
spargendo il fieno ai quattro venti, e quando il lappone affannato
arriva dietro al suo gregge, il male è fatto ed irrimediabile. Quando
il _Fastboende_, avendo terminato la sua provvista, viene a cercare
i suoi depositi, non li trova più, se può sapere di qual _Fjeldlappe_
erano le renne colpevoli, lo denunzia, e questi deve pagare il danno.

«Nel mese di maggio il lappone nomade comincia ad avviarsi a corte
giornate verso la costa. Per antica abitudine (?!) o per istinto le
renne d’estate bramano andare verso la costa come le vacche verso le
alture (_saeters_). Come non vi è necessità assoluta per le migrazioni
delle vacche, così non vi deve essere neppure per le renne. Queste
possono vivere tutto l’anno nell’interno quando hanno estensione
sufficiente di terreno, ed alcune condizioni necessarie. Alcuni
_Fjeldlappe_ rimangono tutto l’anno all’interno senza mai venire al
mare. Così fanno alcuni lapponi norvegesi di Karasjok, che rimangono
sulle alture fra Karasjok e Parsongerfjord. Così fa il ricco lappone
svedese di Karasuando Lare Jansen Sikko[14] che possiede una mandra
di 3000 renne; rimane presso il lago d’Alte nell’Am di Tromsoe vicino
alla frontiera, da dove i suoi animali non scendono al di là di Bardo
distante diverse miglia (norvegesi) dal mare. Quel _Fjeldlap_ non solo
è il più ricco dei regni uniti, ma ha fama di tenere i suoi animali in
modo che non danneggino i Fastboende. Nessuna delle renne che dimorano
nella provincia di Throndjem, nè quelle selvatiche del Dovre ecc.
vengono mai alla costa. Non è dunque punto necessario che le renne
vadano alla costa a _bere il mare_. Nella Lapponia russa una parte
delle renne viene tenuta nell’interno, ma non prosperano come quelle
libere dei lapponi nomadi che vanno alla costa, dove non solo trovano
ricche praterie (d’estate i licheni sono secchi, e allora le renne
non li mangiano) ma ancora il vento di mare le libera dai millioni di
zanzare, che nei caldi estivi sono un tormento terribile nell’interno
per uomini e bestie. In Svezia si conservano alcune renne durante
l’estate; ma vengono talmente tormentate dagli sciami di zanzare, che
si deve accendere del fuoco perchè possano trovare un rifugio da esse
nel fumo. Sui monti dove trovano neve possono passare meglio l’estate.
Se tutte le renne potessero rimanere un’estate nei pascoli di licheni
dell’interno sciuperebbero cogli zoccoli tutto il lichene che cresce
tanto adagio (dieci e più anni), mentre d’inverno è protetto dalla
neve, e mettono allo scoperto solo quello che vogliono mangiare.

«Durante il viaggio verso la costa viene l’epoca della nascita delle
piccole renne; per il solito verso la metà di maggio; per questo il
maggio è detto dai lapponi _miessemanno_, mese di vitelli. I lapponi
assicurano che se durante quel tempo le loro mandre sono esposte
negli altipiani nudi dell’interno a diversi giorni di bufera, di neve
continuata, una gran parte, qualche volta la maggior parte dei vitelli,
muore. Per questo le famiglie più povere, che posseggono solo 100 o 200
renne, partono per la costa tanto presto da arrivare vicino alla costa
o alle isole avanti che le renne si sgravino, perchè sulla costa il
clima è più dolce e trovano più facilmente riparo.

«Il lappone procede lentamente nel suo viaggio. La neve cuopre la
terra; per lo più i laghi sono tutti gelati in modo da permettere
di passarci sopra sicchè le tende ed i loro pochi utensili possono
viaggiare in slitta. Per andar avanti in quel paese senza strade
occorre una conoscenza di ogni particolarità del terreno che non ha mai
nessun norvegese, ma che il lappone possiede a un grado superlativo.
Ve ne sono molti che conoscono dei tratti di fin venti miglia (230 (?)
kilom.) e più, sui quali si possono trovare 200 laghi e fiumi, con tale
esattezza che può anche indicare a un altro lappone un punto qualunque
di quel tratto, avendo nomi per ogni lago, fiume, monte, per le pietre
più grandi ed altre particolarità.

«Se il nostro lappone deve passare nell’isola di Stjern in primavera,
è obbligato di legare le quattro gambe ad ogni renna e trasportarle in
barca; d’autunno quando sono più grosse e le piccine sono cresciute,
passano a nuoto quella distanza di mezzo miglio (quasi 6 kilom.).

«Quando s’avvicina alla costa viene quasi inevitabilmente in lite col
_Fastboende_, al quale sciupa qualche campo di patate.

«Se il nostro lappone è diretto invece verso... dopo passato Alteidet
deve passare per il Joekelfjord, ove è un gran ghiacciaio che scende
verso il fondo del Fjord. Da quel ghiacciaio durante tutto l’estate
si staccano dei pezzi di ghiaccio che cadono nell’acqua e galleggiano
nel fjord. Non è possibile passare nè sopra il ghiacciaio colle renne
nè al piede di esso, e bisogna far passare le renne a nuoto nel fjord
a rischio di vederle schiacciate da qualche blocco di ghiaccio come
qualche volta è successo. Un paio di lapponi conducono un gran maschio
verso la spiaggia, entrano in barca, tirando dietro a sè a nuoto quella
renna, che deve servire da guida alle altre. Il gregge non è sempre
disposto a seguire. In masse serrate, corre qua e là, spinto verso il
mare dagli altri lapponi e dai cani, finchè finalmente si precipitano
giù per il pendìo della costa come una valanga nel mare, facendolo
schiumeggiare sopra grande estensione.

«Il giorno dopo il lappone passa ancora un ismo, fra due fjord e
finalmente arriva al suo soggiorno d’estate. La fine di giugno è
vicina; e si tratterrà qua circa un mese e mezzo. Se qui non vi è alcun
_fastboende_ (come certo lo desidera il nomade) le renne potrebbero
essere lasciate ora in intera libertà. Altrimenti è obbligato di
vigilarle affinchè non facciano danni.

«La guardia non si fa d’estate come d’inverno. Il lappone non sta
assieme al suo gregge, non lo accompagna come d’inverno da pascolo in
pascolo. Se d’estate fosse sorvegliato, tenuto riunito e confinato
a spazi ristretti, non solo deperirebbe, ma le malattie alle quali
quegli animali sono esposti, quando sono sottoposti ad una vigilanza
severa d’estate, ne farebbero sterminio. D’estate il gregge deve avere
tanta libertà da potersi estendere, cercare a piacere qua e là il suo
nutrimento, nei giorni caldi deve andare in alto sui monti per fuggire
le zanzare; nei giorni freddi, umidi o nebbiosi tenersi in basso nei
paduli, nelle valli e nelle boscaglie. Il renne è un animale a metà
selvaggio e non si può guardare e condurre come una mandra di vacche.
Non farebbe allora altro che correre irrequieto qua e là pestando il
suo pascolo, senza prendersi il tempo di pascolare. Le renne pascolano
tanto meglio quanto maggiore è la loro libertà. Perciò il lappone
lascia il suo gregge, e si stabilisce vicino ai campi del _fastboende_
per poterli proteggere; poichè le renne vi vengono spesso nei giorni
umidi e nebbiosi.

«Di quando in quando il padrone del gregge (che può per alcuni
giorni essere andato alla pesca che fornisce un supplemento di vitto
specialmente ai più poveri, che non potrebbero vivere di un piccolo
gregge) deve fare una visita alle sue renne per vedere come vanno
quegli animali e gli uomini che ha messo a guardia vicino ai campi
coltivati.

«Forse sentirà che dei cani di _fastboende_ hanno dato la caccia alle
sue renne e ne hanno uccise alcune. Forse sentirà che i _fastboende_ si
lagnano che sono stati sciupati i loro campi.

                             . . . . . . .

«Una volta avvenne (secondo quanto mi ha narrato un lappone) che le
renne sparivano senza che egli potesse trovare traccia nè di ladri nè
di cani. Egli si era messo in agguato luogo la spiaggia per guardare
se i ladri impiegassero battelli, ma non aveva scoperto nulla. Egli
era anche andato in giro nelle _stue_ o _gamme_ dei _fastboende_, ed
aveva parlato in tutta amicizia di tutt’altro che di furto di renne;
aveva «fumato tabacco e bevuto caffè» ma non per «passare il tempo»
oziosamente, ma per spiare se non scorgesse qualche brandello di pelle
di renna o qualche pelo. Ma invano. Finalmente un bel giorno nel fare
un giro nell’interno vede lungi dalla costa e dalle abitazioni una
colonnetta di fumo. Seguita con precauzione la sua strada e vede con
sua meraviglia una _gamme_ di torba in un luogo ove mai prima aveva
abitato alcuno. I ladri di renne che cercava sulla costa, per stare
più comodi si sono fabbricati una _gamme_ nei monti vicino alle renne,
ed in luogo dove era difficile trovare le loro tracce. Il lappone si
avanza cautamente contro il vento per non essere scoperto nel caso
che vi fossero cani nella _gamme_, si arrampica pian piano sul tetto
e guarda giù attraverso il foro per il fumo. I ladri non ci sono,
saranno forse alla caccia. Nella _gamme_ evvi solo un ragazzo, che
dorme sopra una pelle di renna. Il lappone entra, ed al vedere il
«fin» il ragazzo salta su spaventato dal suo giaciglio. «Mostra pelle,
vedere pelle» grida il lappone che sa un po’ di norvegiano. Egli vuol
vedere dalle marche degli orecchi se è uno dei suoi animali. Ma i ladri
hanno prudentemente tagliato gli orecchi. Intanto però ha riconosciuto
dal colore ed altri segni che è la pelle di una renna da tiro di suo
padre. Il nostro lappone prende la pelle e la tira a sè, ma il ragazzo
non la lascia andare. «Lascia pelle, pelle di padre,» dice il lappone
arrabbiato, e dà un colpo sulle mani al ragazzo col bastone. Questi
fugge urlando e corre fuori per raggiungere i suoi compagni. Il lappone
dal canto suo prende la pelle di suo padre e corre a cercare aiuto. Se
fosse raggiunto dai ladri potrebbe lasciarci anche la sua delle pelli.
Ma per l’appunto s’imbatte nei ladri.

«Questi vedon lui, lui vede loro armati di fucile. Il lappone getta
via la pelle e fugge da un’altra parte; ma il terreno è piano ed è
difficile il nascondersi ed egli teme di essere raggiunto. Però dopo
aver passato una piccola eminenza, essendo per un momento nascosto da
questa, si butta sul ventre sopra un blocco di pietra, si rannicchia
nella sua vecchia pelle di renna grigio-bruna come una tartaruga
nel suo guscio, ed in quella posizione si confonde tanto bene col
masso muscoso, somigliandogli tanto in forma quanto in colore, che ci
vorrebbe a distinguerlo un occhio tanto esercitato quanto a distinguere
una _Rype_ (_Lagopus_) macchiata che si accasci a terra davanti a un
cane da caccia. I ladri giungono all’eminenza e cercano invano il
_fin_, che è lì davanti a loro. Quando sono andati via, il lappone
cala giù dal sasso e scappa in un’altra direzione. L’indomani, quando
ritorna, la _gamme_ non c’è più, i ladri e i residui del furto sono
spariti.»


Eppure i lapponi amano questa vita piena di travagli e di pericoli,
e non la lascerebbero per nulla al mondo. Molti di essi potrebbero
vendere le loro renne e raccogliere i loro tesori sepolti in qualche
torbiera o sotto un macigno e ridursi in una città a fare la vita del
norvegiano agiato; e non lo fanno.

Il _divo_ Cristiano VI, in un suo viaggio in Lapponia nel 1733,
espresse a Leem il desiderio di avere un giovane lappone alla propria
corte; eppure fu difficilissimo trovarne uno, che volesse accogliere
le splendide offerte di Re Cristiano. Il Leem aveva potuto a furia di
preghiere e di promesse trovare un giovinetto, che sembrava disposto di
recarsi a Cristiania, ma la madre corse a lui e gli si gettò ai piedi
piangendo: «_Io sono incinta, mio buon pastore, e se mi togliete il
mio fanciullo, mi accadrà qualche sventura e Dio vi punirà._» Convenne
lasciarlo a casa e trovarne un altro. Se ne trovò un altro, che andò
alla corte; ma dopo poco tempo moriva, non so se di nostalgia o di
noia.

I lapponi sono di carattere dolce e benevolo e l’ospitalità è una delle
loro virtù più salienti. Il Leem dice che non bestemmiano mai, in ciò
(aggiunge egli) molto superiori ai norvegiani.

Fjellner racconta, che una volta erano ospitali nel _senso più ampio
della parola_[15], per cui l’ospite dormiva accanto alla moglie e alle
figlie del padrone di casa. Oggi invece, cresciuta la civiltà, sono
ospitali ancora, ma con certo _rationabile obsequio_. Von Back racconta
di avere picchiato una volta indarno alla capanna di un lappone. Il
padrone rispose alla sua richiesta con queste parole: _Sono giunti oggi
due lapponi stranieri ed hanno occupato gli unici posti disponibili_.
La guida, che accompagnava l’illustre viaggiatore, rimase mortificata,
e dopo un breve battibecco concluse con questa biblica sentenza:
_Quando vi ha un posto nel cuore si trova facilmente posto anche nella
tenda_. Anche il Van Düben dice, che oggi i lapponi non si vergognano
talvolta di mangiare colla famiglia, senza offrire cosa alcuna
all’ospite che li guarda. Quando però scoppia un temporale si vedono
entrare nella capanna fin 15 o 20 lapponi. Se sono conosciuti, si dà
loro caffè o carne; se invece sono sconosciuti, si riduce l’ospitalità
all’acqua e al fuoco.

Anche i più affettuosi fra i lapponi sono al primo incontro freddi e
riservati; poi rotto il ghiaccio colla conversazione o meglio ancora
con piccoli doni, diventano espansivi e cortesi. Nella Lapponia svedese
si salutano con un _buorist_ (bene) arrivando, e partendo con un _batze
dervan_. Si baciano col naso, o si abbracciano, stringendo il braccio
destro intorno alla vita e toccandosi naso con naso. Una volta vi era
tutta una gerarchia di saluti: il bacio sulle labbra fra parenti molto
vicini, il bacio sulle guancie fra parenti meno stretti; il bacio dei
nasi per gli altri. Oggi pochi si stringono ancora col braccio destro,
gli altri si danno la mano come noi.

Della loro bontà fanno fede anche i rarissimi omicidii e solo per
fanatismo religioso. Non è quindi del tutto falsa l’asserzione di molti
viaggiatori, che essi non spargono mai sangue. Sono però ladri di renne
e nel commercio spesso fraudolenti. Anche il buon Leem, che tanto li
ama, dice: _Lappones, ut reliqui mortalium suis quoque vitiis laborant,
sed paucis sane et raris_...; e questi vizii sono l’ubriachezza (oggi
quasi dimenticata) e la frode. Sanno fra le altre cose vendere pelli
guaste per buone, nascondendo con molta arte i rattoppi e i buchi. Il
furto domestico però è quasi affatto sconosciuto e il Leem racconta che
in tanti anni vissuti in Lapponia nulla gli fu rubato, benchè tenesse
aperte tutte le cose sue.

Ammogliati prestissimo, amano le loro mogli e i loro figli con
trasporto. Dell’affetto delle madri fanno fede le culle fabbricate con
tanta arte e ornate con studioso amore. Sono di legno, ricoperte di
pelli, e per l’inverno con un astuccio di morbida pelliccia, con un
soffietto per difendere dalla luce gli occhi del piccino. Allattano i
loro bambini per due anni e anche più.

Le nozze sono semplicissime. Lo sposo si reca a casa della sposa con
alcuni suoi parenti, uno dei quali si fa suo avvocato ed oratore, ed
entrando nella capanna offre al suocero futuro del vino. Se questo è
accettato, il matrimonio è combinato e tutti i parenti bevono della
stessa bevanda. Per ultimo entra anche il pretendente, che offre alla
fanciulla un piccolo dono, che per lo più è un oggetto d’argento.
Le nozze si compiono più tardi con un piccolo pranzo, senza pompa nè
apparato, senza balli nè canti. Compiuta la cerimonia, lo sposo rimane
quasi sempre colla sposa in casa del suocero per lo spazio di un anno,
trascorso il quale, va a stabilirsi da sè, ricevendo dal suocero tutto
il necessario per piantare una casa. I matrimonii tra parenti sono
proibiti.

I funebri semplici come le nozze. Il cadavere vien portato con piccolo
seguito sopra una barella in luogo appartato, dove è sepolto a piccola
profondità in una cassa di betula o anche senza cassa. Una volta si
piantava la slitta del defunto sulla fossa e si rizzava un grossolano
monumento di pietre e corteccie di betule.

I più ricchi fanno talvolta una cena funebre.

Sul pudore dei lapponi corrono diverse e opposte opinioni. Se dovessi
giudicarne dalla mia esperienza direi che le loro donne sono più
pudiche di molte altre, dacchè non ho riuscito a fotografarle nude, per
quanto offrissi una somma fin di lire 150 per questa accondiscendenza.
Un dotto entomologo tedesco invece, che visse lungamente fra essi, mi
disse di averli veduti sagrificare all’amore nelle loro capanne dinanzi
a’ suoi occhi, e a Trondhiem due lapponi furono arrestati, perchè
contro il muro di una casa riproducevano la specie. È vero però che
erano ubriachi. Alle nostre carezze le fanciulle non dicono sempre di
no e s’abbandonano all’amplesso per simpatia dei sensi, non per avidità
di denaro. Il Knud Leem li difende nella sua opera da un anonimo
scrittore, che li aveva detti scostumati:

_At ego sancte asserere ausim, nullum me unquam ab illis obscoenum
audiisse verbum, nec per totum illud quadriennium, quo inter duarum
Parochiarum Kilvigensis et Kiöllefiordensis, Lappones Missionarii munus
obibam, ullum in utroque coetu, extra legitimum conjugium, partum
fuisse editum, et per integrum sexennium, quo coetui Altensi curio
præeram, unicum duntaxat._

In ogni modo i figli del peccato non sono nè abbandonati, nè sprezzati;
perchè sopra ogni cosa amano veder crescere la popolazione.

Allegri e ciarloni amano chiacchierare lunghe ore; e a noi figli del
secolo XIX sembra strano come possan trovare nel loro piccolo mondo
materia a tante ciarle. Cantano senza alcuna armonia e declamano
volentieri le loro poesie, improvvisando anche i loro _vuoleh_,
specialmente quando sono rallegrati da un po’ di _acquavite_. Spesso
due cantori si abbracciano e tenendosi allacciati lungamente, si
rispondono a vicenda col canto, piangendo per la commozione.

A Hvalsund, un lappone russo, per nome Ole Olssen, udendo dinanzi a
Marmier cantare una melodia tenera e querula, si commosse, abbassò la
testa e le sue guancie si bagnarono di lagrime. — Oh, diss’egli a un
tratto, noi non cantiamo qui, ma noi canteremo nel cielo.

De Latour, leggendo questa scena commovente nelle lettere direttegli da
Marmier, rispose con questo sonetto:

    Pendant que tu disais ta ballade de France,
      Sous le toit de ton hôte un vieux lapon entra,
      Qui s’assit à tes pieds, dans un pieux silence,
      Longtemps te regarda chanter et soupira.

    Puis ses yeux s’animant d’un rayon d’espérance:
      «Nous ne chantons pas, nous, mais une heure viendra,
      Où Dieu, prenant pitié de sa longue souffrance,
      Dans un monde meilleur le lapon chantera.»

    Et tu crois, o vieillard, que sur d’autres rivages,
      Parce qu’elle est plus haut, la nue a moins d’orages,
      Et que l’homme au bonheur chante un hymne éternel?

    Ah! qu’il en est aussi dont les âmes blessées
      Traînent avec ennui le poids de leurs pensées,
      Et disent comme toi: Nous chanterons au ciel.

I lapponi non hanno orologio e contano alla grossa il loro tempo col
sole. Il tempo per loro è l’ultimo pensiero. Se una cosa non si fa
oggi, si farà domani, e se non potrà farsi domani, si farà un’altra
volta: questa è la loro filosofia. Non si decidono che lentamente,
vogliono e disvogliono, ma una volta decisa una cosa, la eseguiscono
puntualmente.

Sono umoristici come gli svedesi e allo scherzo rispondono con altri
scherzi, che spesso sono anche mordaci. Amano molto dare agli amici
soprannomi, che si pigliano per lo più da difetti corporali. Una volta
un parroco diede ad un lappone (certo per equivoco) del caffè con sale.
Lo bevette senza dir motto, ma restituita la visita dal prete, questi
ebbe delle more salate. Il lappone redarguito rispose sorridendo, aver
creduto che il parroco amasse il sale.

Fétis, in un suo saggio sul sistema di classificare le razze umane
dalla loro musica, disse sull’autorità di Acerbi, che i lapponi erano
affatto distinti dai finni, perchè erano il solo popolo, che non
conoscesse il canto.

Questa però è una esagerazione, perchè anche i lapponi cantano, ma
rarissimamente e molto male. È certo che non hanno alcun istrumento
musicale (_et ne instrumentum quidem musicum inter eos reperire
licet_, Leem). Sommier vide una volta un flauto di arcangelica, ma era
certamente di origine norvegiana. Il Leem tentò più volte di insegnar
loro il canto corale, ma sempre inutilmente. _Modulatio lapponum
incondito cuidam clamori vel etiam ululatui quam vero cantui simili
est._

I lapponi tirano al bersaglio per divertirsi, giuocano alla palla e al
giuoco dell’oca. È una volpe che deve difendersi da tredici oche. Hanno
anche il _sakku_, giuoco antichissimo, forse di origine asiatica, che
rassomiglia assai agli scacchi. Sogliono anche lottare con bastoni.

I loro nomi di battesimo si danno quasi sempre sulla guida dei sogni e
sono nomi norvegiani storpiati dalla desinenza lapponica:

  Andrea    diventa  _Anda_ o _Adda_
  Giuseppe     »     _Iuks_
  Lorenzo      »     _Lalla_
  Niccolò      »     _Nikke_
  Olav         »     _Wulla_ o _Volale_
  Pietro       »     _Piettar_
  Paolo        »     _Pave_
  Giovanni     »     _Anthe_.

Usando però lavare ogni giorno i loro bambini nell’acqua calda, danno
loro spesso dopo il lavacro un altro nome, quando piange troppo od è
malato e quando, come essi dicono, si mostra scontento del primo nome.
Questo battesimo si amministra colle parole:

_De mon bausam duu dam Nabmi N. N., ja dam Nabmi buurist kalkak sellet._

_Io ti lavo nel nome di N. N., col qual nome tu starai bene._

È questa la ragione per cui i lapponi portano spesso due o tre nomi,
e quello del lavacro riesce spesso più poetico, perchè inspirato
dall’affetto delle mamme. Ricordo fra gli altri questo: _utze beivatzh,
piccolo sole_.

I lapponi sono timidi e si lasciano spaventare come fanciulli,
giudicando subito per miracolo ciò che non hanno la facoltà
d’intendere.

La ricchezza dei lapponi è misurata dal numero delle renne che
posseggono. Ai tempi di Von Buch una famiglia, che non avesse che
cento rangiferi, era molto povera e non esente dal pericolo di morir
di fame. Incominciava ad essere agiata, quando il numero delle renne
giungeva a 400. Anche oggi con piccola differenza, queste frontiere
della povertà e dell’agiatezza durano ancora. In caso di epidemia del
bestiame, il lappone rimasto privo d’ogni ben di Dio, non ha altra
risorsa che di servire presso una famiglia ricca o di avvicinarsi
al mare, trasformandosi in pescatore. Il mendicante non esiste in
Lapponia. Noi abbiamo conosciuti lapponi, che possedevano 3000 renne e
70 od 80 mila lire in tanti talleri e gioielli d’argento, che mettevano
alla banca, o più spesso nascondevano sotto terra e nelle torbe. Van
Düben racconta il caso di un ricco divenuto cieco, che non potè più
ritrovare il proprio tesoro, nè dare indizii sufficienti ai suoi,
perchè lo trovassero. Si può calcolare all’ingrosso che duemila renne
rappresentano 20,000 _reichsthaler_, ma una buona renna da tiro può
valere anche 45 lire.

I lapponi in generale sono economi, e nei loro contratti preferiscono
l’argento, che chiamano _blanca_, alla carta, che non ha però corso
forzoso. Una volta il commercio si faceva per cambii, ora si fa invece
col denaro. Fanno spesso dei regali ai loro avventori e clienti, ma
colla sicurezza di riceverne il contraccambio. Ho veduti i lapponi
vendere e comprare e li ho trovati in tutto simili ai miei indiani
dell’America meridionale. Son brontoloni, insistenti, meticolosi;
nascondono la furberia sotto un denso strato di bonomia e di apparente
stupidità, ma alla fin dei conti, trattando con noi, gente di razza
alta e di morale evangelica, riescono più spesso canzonati che
canzonatori.

Ogni mercante scandinavo, che è in rapporto di commercio coi lapponi,
ha i proprii clienti. Quando si vuol fare un contratto, egli deve prima
d’ogni altra cosa far portare dell’acquavite e offrire piccoli doni. Il
lappone dal canto suo offre carne di renne e selvaggiume, che riceve
poi cotta dal suo mercante. In generale, saldati i conti, e chiuso il
bilancio, il povero lappone rimane sempre indebitato, ciò che lo tien
stretto al suo cliente, senza poter offrire le cose sue ad alcun altro
mercante. I debiti si segnano in modo molto semplice con tacche fatte
sopra un pezzo di legno, che si taglia in due pezzi eguali, uno dei
quali rimane al creditore, l’altro al debitore. Ogni tacca indica in
generale una mezza _corona_ (lire 0,75).

Quando si pensa, che immensi deserti di paludi e di ghiacci separano
debitori e creditori per lunghi mesi, si deve dare una corona civica
di onestà ai quei poveri nani iperborei, che menano i loro affari
commerciali con tanta ingenuità di forme e fedeltà di promesse.

I lapponi godono di tutti i diritti dei cittadini di Svezia e di
Norvegia, ma non si accorgono davvero di averli.

Pagano le loro imposte fedelmente; imparano a leggere e scrivere,
perchè è anche questo un loro dovere e perchè si rifiuterebbe loro il
sacramento della confermazione, al quale tengono moltissimo; ma la
loro coltura letteraria si riduce per lo più a leggere malamente il
Vangelo o a fare a un dipresso la loro firma. Alcuni di essi però sono
suscettibili di studio e di coltura. Io conobbi un lappone, maestro
di scuola stipendiato dal Governo di Norvegia e che insegnava il
norvegiano e l’aritmetica ai suoi piccoli scolari della Lapponia. Del
resto meglio assai saranno ritratti i lineamenti psichici di questa
gente nei due capitoli, che dedicheremo più innanzi al loro mondo
ideale e alla loro religione.

Qui basterà a completare il loro ritratto il poco che potrò dire delle
loro industrie e delle loro arti.

Di sensi acuti, sono molto abili al tiro, e così, come nel secolo
scorso erano ancora abilissimi tiratori d’armi, oggi lo sono col fucile
o la carabina.

Del resto, trovandosi in continui rapporti colla civiltà scandinava,
comperano belle e fatte molte cose, che potrebbero e saprebbero fare
da sè, se dovessero ricorrere alle sole proprie attitudini. Oggi essi
si accontentano di preparare il loro filo, le loro pelliccie, i loro
cucchiai d’osso ed altri piccoli utensili.

Il filo si prepara dalle donne coi tendini delle renne. Si tostano
al fuoco, si battono finchè divengono molli, o si masticano e poi
si fregano sulle guancie o sul ginocchio finchè siano ridotti in
fili sottilissimi (_et palma ad maxillam affricando, in tenuissima
fila contorquent_, Leem). Con telai molto primitivi fatti di osso
intrecciano le loro fascie di lana a varii colori. Filano lo stagno con
molta arte e ne ricamano le loro fascie. Sanno anche tingere il panno
in giallo o in rosso, adoperando il _Lycopodium complanatum_, la radice
del _Rumex acetosa_, i fiori del _Galium verum_.

Le donne preparano le pelliccie, scarnando bene le pelli e ungendole
poi a più riprese con olio di fegato di pesce. Gli uomini invece
fabbricano i loro cucchiai colle corna delle renne, incidendovi fiori
e disegni di renne. Fanno anche vasi di legno coi tronchi e le radici
delle betule. Bordier disse, che i disegni incisi dai lapponi sui
loro cucchiai e sulle loro scatole o agorai rammentano quelli dei
vasi scandinavi dell’epoca del bronzo. Egli aggiunge, che filtrano il
latte di renne attraverso un ingegnoso filtro di crino, onde levarne
i peli. Quanto a me, non ho trovato presso i lapponi altro strumento
più ingegnoso di un grande cucchiaio per cogliere rapidamente e bene
una grande quantità di frutti di bagiole, ed io consiglierei i nostri
montanari a farne di simili, invece di cogliere una per una le bacche
dei loro mirtilli. È un cucchiaio di legno simile in tutto a quello,
di cui si servono i barcaiuoli del Lago Maggiore e del Lago di Como
per cavar l’acqua dai loro burchielli e sul labbro anteriore vi è un
pettine a larghi denti, che scorrendo tra le pianticine del mirtillo,
ne distacca i frutti, facendoli cadere nel cucchiaio[16].

Ma questi nostri lapponi, donde sono venuti? Chi son dessi? Per quale
anello si congiungono alla grande famiglia dei popoli dell’Asia o
dell’Europa? Oggi, noi giustamente non crediamo di conoscere bene una
creatura qualunque di questa nostra pallottola sublunare, se non le
abbiamo assegnata la genealogia e il posto gerarchico nella grande
storia del _divenire_.

Per chi si accontenta della mitologia, potrebbe bastare l’iscrizione
seguente, che nel secolo scorso si leggeva ancora sopra un’antichissima
statua dell’isola di Gidschœe:

    Findus fratrem interfecit
    Quia inter eos de via non conveniebat;
    quapropter in Borealem regni partem concessit,
    ubi ejus progenies in immensum aucta est,
    Ab illo descendunt omnes illi Normanni,
    Qui sese Finnos appellant.

Ammessa per vera la leggenda, noi dovremmo sempre dimostrare che fra i
_finnos_ vanno contati anche i lapponi.

Knud Leem crede di riscontrare molti rapporti fra i lapponi e gli
antichi sciti; quali il vestirsi di pelli, la vita nomade e la
pastorizia. Gli par quindi, se non vero almeno verosimile, che i
lapponi siano una propagine degli antichi sciti e in una nota aggiunge,
che anche Leibnitz e Bajerus sono di questa opinione.

Il buon pastore norvegiano però non è troppo forte in etnologia,
dacchè, alcune pagine più innanzi, trova una _quandam etiam
convenientiam_ fra i lapponi e gli antichi ebrei; cioè capelli oscuri,
vestimenti simili, il canto sacro, usi relativi alla mestruazione ecc.
E quasi non bastasse questo vagabondaggio di opinioni, egli trova forse
una parentela fra lapponi e finni della Svezia. Davvero che questi
nostri amici del nord sarebbero parenti universali!

Appartiene forse alle fantasie etniche anche l’idea che i fenici
abbiano visitato il nord della Norvegia e che i cartaginesi andassero a
pescare alle Lofoden, riportando il pesce nella loro terra affricana.

Leopoldo Von Buch dice, che Thule deve essere la Norvegia
settentrionale e non l’Islanda e sostiene la sua opinione con validi
argomenti. Egli ammette che lapponi e finni discendano da uno stipite
comune, ma che si siano separati fra di loro prima di venire lì dove
si trovano oggi. Egli crede probabile, che i lapponi abbiano lasciato
la costa del Mar Bianco per venire ad abitare la Norvegia e la Svezia e
che i finni sian venuti dall’Estonia, attraversando la Finlandia.

Virchow considera i lapponi come un ramo dei finni; Schaffhauser invece
vede in essi i discendenti di mongoli respinti al nord lungo la costa
dell’Oceano glaciale. Ecker crede, che siano un ultimo avanzo di un
popolo, che occupava un tempo tutta la Scandinavia e fors’anche gran
parte della Germania; ma quest’ultima opinione, che pure parrebbe
a priori tanto verosimile, è contraddetta da tutte le ricerche
preistoriche fatte dai dotti paletnologici della Danimarca, della
Svezia e della Norvegia ed oggi in tutta la Scandinavia non vi ha anima
viva, che osi difenderla[17].

A me sembra che il Van Düben abbia il merito di aver studiato più
profondamente le origini dei lapponi, raccogliendo una cronologia
di dodici secoli, accompagnando i lapponi da Erodoto fino ai nostri
giorni. Poveretti! Essi ignorano la loro storia e non sentono il
bisogno di rifarla; tocca a noi, irrequieti indagatori di origini, fare
ciò ch’essi non sanno.

Erodoto è molto buio; ma Tacito nella sua _Germania_ (Caput 45 e 46)
lì dove parla dei sujones e dei finni, ci dà la prima notizia dei padri
antichissimi dei nostri lapponi. Ma dopo Tacito, essi sono scordati per
quasi 500 anni, se pur si vuol dimenticare il poco che ne dice Pomponio
Mela.

Procopio Cesarico verso il 560 dell’èra nostra descrive la storia
delle guerre gotiche e parlando degli eruli, che ritornano a Thule,
loro patria, dice che quella terra era in gran parte disabitata,
ma che la piccola regione coltivata contava tredici popoli diversi
con altrettanti re. Aggiunge che in quel paese ad ogni anno si
ripete il miracolo, che nel solstizio di estate il sole non tramonta
e nel solstizio d’inverno il sole per quaranta giorni sparisce
dall’orizzonte. Fra i barbari che abitano Thule, un solo popolo mena
vita selvaggia e sono gli _scrithiphinni_. Son gente, che non beve
vino, nè raccoglie frutta dalla terra, nè la coltivano; neppure le
donne lavorano in casa, ma escono cogli uomini a cacciare. I loro
monti e i loro boschi danno a loro le carni delle loro belve e dei loro
uccelli. Non hanno lino, ma si veston di pelli, cucite coi tendini.

I loro bambini non poppano, ma succhiano il midollo dei grossi animali.
Appena nasce un bambino, viene sospeso ad un albero e si copre di
pelliccie, dandogli in bocca un pezzo di midollo, che succhia, mentre i
genitori partono per la caccia.

Un altro goto, Jornandez, del tempo di Procopio (pag. 350), descrive
Thule, sotto il nome di Isola Scanzia, che è circondata dal mare e da
moltissime altre isole. Nel nord abita un popolo, che nell’estate ha 40
giorni di sole e nell’inverno 40 giorni di tenebre. Fra tutti i popoli
della Scanzia i più dolci di costumi sono i _fenni_.

Il longobardo Paolo Varnefried, duecento anni dopo, cioè verso il 780,
parla dello stesso popolo. Sono gli _scrito-finni_, che confinano
coll’isola di Scandinavia. Anche nell’estate hanno la neve e vivono
di carne cruda. Il loro nome deriva dal modo di camminare sopra pezzi
di legno in forma di barca. Hanno un animale simile al cervo, della
cui pelle fanno vesti simili ad una tonaca, che scende loro fino al
ginocchio. A ponente, nel mare, vi è un vortice (il Malstroem).

Sulla fine dell’800 il geografo di Ravenna, l’anonimo ravennate, parla
di un popolo scandinavo, che abita il paese più freddo del mondo. E
via via, per secoli trovate molti autori che si copiano l’un l’altro,
lasciandoci la parola di finni, con cui anche oggi danesi, islandesi
e norvegiani battezzano i nostri lapponi. Per il Van Düben i finni di
Tacito sono gli scrito-finni degli scrittori del medio evo.

Un’antica tradizione dice che son venuti dall’oriente; e Castren,
raccogliendo la tradizione, credette di poterla precisar meglio,
dicendo che essi son partiti dall’Altai coi finlandesi; cosa però che
è assai più facile a dire che a precisare. Il Van Düben, più scettico
del Castren, trova i lapponi troppo diversi dai finni per poterli fare
escire da un unico ceppo. È vero, che le loro lingue sono affini,
che appartengono entrambi al gruppo ugro-altaico; ma altra cosa è
l’affinità filologica ed altra la etnica. I lapponi emigrarono forse
per i primi da un grande centro altaico, emigrando verso il nord-ovest,
lungo il fiume Irtisch o l’Obi e passando gli Urali. Dire a qual’epoca
giungessero in Europa è cosa impossibile.

I lapponi hanno nella loro lingua 18 parole per esprimere la forma
dei monti, 20 per il ghiaccio, 11 per il freddo, 41 per la neve e le
sue varietà, mentre d’altra parte sono poverissimi di vocaboli che
esprimono cose di paesi temperati. Anche questo fatto è un potente
indizio per dimostrare, che questa povera gente nacque tra i ghiacci e
tra i ghiacci emigrò, mutando solo il freddo d’Asia in quello d’Europa.

Ecco il poco di sicuro, che la critica etnologica può affermare
sull’origine dei lapponi; inoltrarsi in vie ristrette per cercare
particolari più minuti sarebbe lo stesso che smarrire la via e perdersi
nel laberinto del romanzo storico.




CAPITOLO SESTO

  IL MONDO IDEALE DEI LAPPONI — LA LORO POESIA — I LORO PROVERBII E
  INDOVINELLI — NOVELLINE.


La poesia lappone è una rivelazione tutta moderna e se alcuni dotti
non avessero raccolto con cura paziente quegli inni polari, essi
sarebbero andati perduti per la storia dell’arte e del pensiero umano.
La civiltà, che tutto lisciando e tutto livellando, distrugge tanti
lineamenti della nostra psicologia, avrebbe consunti anche quei canti
epici e lirici della Lapponia, che hanno un sapore così agreste, una
forma così fantastica e note così tenere d’affetto. A furia di passare
di bocca in bocca, senz’essere stati mai consegnati alla penna, si
sarebbero evaporati insieme al fumo azzurro, che esce dalle povere
capanne dei lapponi.

Friis fu il primo, che nel 1856 pubblicò[18] una raccolta di favole
e leggende lappone, col modesto proposito di dare un saggio di
quella lingua, che egli aveva studiata con tanto amore. Prima di
lui si sapeva appena, che questo popolo iperboreo e in apparenza
così povero di pensiero avesse un mondo ideale, benchè Scheffer
fin dal 1673 nella sua _Lapponia_[19] avesse pubblicato due liriche
lapponiche nell’originale e nella traduzione[20]. Anche il pastore
Linder di Umea, che viveva ancora nel 76 più che nonagenario, aveva
pubblicato nel 1849 nel giornale svedese _Läsning för folket_ notizie
interessanti sulla Lapponia svedese e sui suoi abitanti, dando un
sunto del canto _I figli del sole_; ma erano poche gemme raccolte da
un tesoro ancora quasi inesplorato. Il Van Düben nella sua classica
opera sulla Lapponia ci diede tradotto per intero _I figli del sole_
ed altre poesie epiche, raccolte specialmente dalla bocca del venerando
pastore lappone Fjellner. Il Donner, finlandese di nascita, venuto dopo
tutti, ci ha dato una vera antologia lapponica, pubblicata prima in
un giornale in lingua finnica e poi in un volume a parte pubblicato ad
Helsingfors[21].

Il venerando Fjellner, che forse vive ancora, merita una calda
parola di riconoscenza per avere conservato lo scrigno prezioso della
poesia lapponica. Nell’estate del 74 il Donner, passando per Umea e
Lycksele, viaggiando a piedi e in barca, si portò a Sonde, dove il
vecchio Fjellner di ottant’anni e cieco viveva colla sua famiglia e
le sue poche renne, predicando ai suoi paesani la parola del Signore.
Cortesissimo col dotto filologo finlandese gli dettò la maggior parte
delle poesie che faremo conoscere agli italiani.

Anders Fjellner nacque a ciel sereno in una fredda notte di autunno,
il 18 settembre 1795, sui nevosi altipiani di Ruta, fra Votta e Sal
nell’Herjedal. I suoi genitori erano lapponi nomadi e ancor prima di
ricevere il battesimo del cristiano, ebbe il battesimo lappone, dacchè
appena nato lo lavarono in una sorgente ghiacciata. Mortogli il padre
nel 1804, fu mandato da lontani parenti alla scuola di Ostersund nel
Jämtland, poi al ginnasio di Hernösand e nel 1818 all’Università di
Upsala. Fin dai primi anni della sua educazione egli stesso aveva preso
il nome di Fjellner, perchè nato sopra un _fjäll_ (altipiano, monte).

Lo studio del latino, del greco e della teologia si alternavano colla
vita nomade del pastore, che egli riprendeva con passione nelle vacanze
della scuola. Nel 1820, lasciata l’Università, passò molti anni fra
i lapponi svedesi, facendo il missionario, finchè, presa seco la
moglie, due figliuoli e undici renne, portò la sua carovana a Sorsele,
dove rimase sempre come curato (_pastor_). Nessuno più di lui poteva
raccogliere con religioso amore la poesia di un popolo, di cui aveva il
sangue nelle vene, benchè l’educazione lo avesse posto tanto in alto;
e Van Düben e il Donner, conversando col vecchio _pastore_ di Sorsele,
trascrissero ciò che il povero cieco non poteva più tramandare ai
posteri colla parola scritta.

Il Fjellner crede di ravvisare nelle poesie epiche della Lapponia
un’origine asiatica; ma il Van Düben e il Donner non sono di
quest’avviso. Benchè questi canti abbiano un’origine antichissima,
e può dirsi preistorica, sembrano ad essi lapponi, null’altro che
lapponi. In alcuni di essi sono evidenti alcune ricuciture e rammendi
fatti in epoche posteriori, per cui sulla maschia e mitica orditura
antica si vedono i ricami medioevali e le storpiature moderne di nomi e
di paesi. La stoffa primitiva però è così robusta e così ben tornita,
che rammendi, ricuciture e ricami non bastano a guastarla, e noi ci
troviamo innanzi agli occhi una delle più franche e più originali
espressioni del mondo ideale di un popolo iperboreo.

Lasciamo, che eruditi e filologi dissertino sopra l’origine di questi
canti. È probabile, che essi rimontino ad un’epoca, in cui le diverse
stirpi finniche si trovavano raccolte in un più stretto territorio.
Separate le une dalle altre per successive emigrazioni, portarono seco
il palladio prezioso della poesia dei loro padri, e se la tramandarono
con culto religioso da padre in figlio.

Leggendo le poesie lapponiche, che daremo letteralmente tradotte dallo
svedese o dal tedesco, voi troverete i caratteri più salienti d’ogni
poesia arcaica di popoli primitivi insieme ai lineamenti più speciali
della natura e dei costumi lapponici. Il nervosismo sommo di quella
gente, che li espone ad allucinazioni frequenti, a veri miraggi della
fantasia, dà anche alla loro poesia il carattere fantastico; e lo
stesso Fjellner, cristiano, sacerdote e dottorato ad Upsala, raccontava
in piena buona fede di aver veduto un giorno la figlia del sole. Egli
viaggiava sui monti dell’Herjedal e si trovava ravvolto nella nebbia.
Egli ode a un tratto un grande scampanio di armenti e vede sedere sopra
una pietra la splendida figlia del sole. Egli pian piano se l’avvicina
per di dietro, onde stringerla fra le sue braccia; ma egli non stringe
che una pietra, contro cui batte il capo. Essa era sparita! La figlia
del sole, _paive neita_, è detta anche dai lapponi _saivo neida_ o
figlia del mondo sotterraneo, o _ruona neida_, cioè la figlia della
primavera o la verdeggiante. Chi riesce ad abbracciarla senza che ella
se n’accorga, conserva i suoi armenti di renne e le sue ricchezze.

Friis, il quale si è occupato specialmente della favola e della
leggenda, le divide in tre categorie: la prima è mitica e ci offre
sotto la forma di leggende i ricordi dell’antica religione dei lapponi;
la seconda attinge le sue ispirazioni da avvenimenti storici e ci parla
specialmente delle lotte fra tribù o popoli diversi; la terza ci dà le
descrizioni e i costumi degli animali. Nelle pagine seguenti il lettore
troverà molti saggi di queste tre diverse forme di poesia, e senza
bisogno di commenti saprà assegnare ad ognuna di esse il battesimo
scolastico. A noi però importa assai più il segnare i caratteri
salienti di questa poesia, che è forse neolitica e che certamente
accompagna i primi crepuscoli ideali del pensiero umano.

Voi trovate nelle pagine seguenti i ricordi atavici dell’antropofagia
e dei sacrifizii umani[22], il culto degli astri e le lotte e le
rapine fra tribù e tribù. L’ardore dei sensi è nudo e innocente come
la natura, senza foglie di fico, nè veli di ipocrito pudore. L’astuzia
primitiva e quasi infantile, va compagna della violenza selvaggia,
ma il sentimento della famiglia domina il campo degli affetti, e il
tradimento, la viltà, la menzogna sono assenti; per cui il carattere
di questo popolo si dimostra fino dalla più remota antichità onesto,
buono, sincero. Se a questo aggiungi un amore caldo, tenerissimo per
gli animali domestici, per il renne, amico e compagno inseparabile
dell’uomo iperboreo e il terrore sacro per gli animali selvaggi, tu
avrai segnati i lineamenti caratteristici di questa poesia lapponica,
che a volta a volta dalle puerili fantasie si innalza fino alle forme
più auguste dell’epopea omerica, o si intenerisce fino alle note più
soavi della nostra poesia moderna. Uno studio critico di questi canti
segnerebbe di certo le leggi più fondamentali dell’estetica dell’arte,
mostrando ciò che è umanamente bello per tutti e ciò che commuove le
viscere e il pensiero di ogni creatura intelligente nata sotto il sole.

Il viaggiatore russo Dantschenko fece un viaggio nella Lapponia russa
durante il 1873 e raccolse parecchie canzoni dalla bocca degli stessi
abitanti del paese. Eccone una ch’egli udì cantare da una fanciulla,
che lo conduceva sul lago Imandra, facendogli da barcaiolo:

    Venne da me un vecchio pescatore
    Un ricco pescatore del lago Murd,
    Mi portò reti dorate
    Reti d’oro e reti d’argento.
    Ascoltami, o fanciulla, disse egli,
    Io ti voglio prender nella rete,
    In quella d’argento, in quella d’oro.
    Io risi così forte al pescatore,
    Che mi si udì al dì là dei monti:
    Vecchio pescatore tu sei venuto troppo tardi,
    Ricco pescatore, colla rete
    Colla rete d’argento, colla rete d’oro.
    La tua buona pesca è andata a male
    E tu hai lasciato scappare il pesce:
    Da lungo tempo è già caduto
    In un’altra rete, che lo stringe
    Non nella tua d’argento, nè nella tua d’oro,
    Ma in una rete tessuta di canapa.
    Ma non sei tu che l’hai preso, ricco pescatore,
    Ma un povero giovinotto.

Un’altra canzone lappone raccolta dallo Dantschenko è la seguente:

    Sugli alti monti io me n’andai
    Alla caccia del rangifero,
    Uno ne cadde colla freccia di ferro
    E il ferro penetrò
    Nel caldo cuore dell’animale.
    Ad un tratto cadde il renne
    Sulla neve e giacque senza moto.
    Presi l’animale sulle mie spalle
    E lo portai giù al villaggio.
    Gli tagliai ambo le corna
    Le staccai e gettai sdegnoso
    Nel lago le superbe corna.
    Tagliai pure tutte le zampe
    Le tagliai e le gettai nell’onda.
    Solo il corpo io presi con me
    E lo portai nella capanna ai miei genitori
    E diedi ad essi la carne.
    Solo il caldo, l’ardente cuoricino
    Diedi io festoso alla mia fanciulla.

Nel prezioso libro del Donner troviamo questi altri saggi di poesia
lapponica:


IL SALICE

    Piccolo salice, piccolo salice, perchè rimani tu così confuso?
    Ti culla bene il vento del nord, o piccolo salice?
    Ti culla il vento del nord o ti flagella colla pioggia battente?
    O accarezza le tue radici colle fredde onde?
    Le donne del Maggiore camminarono, camminarono,
    Si fabbricarono due remi
    Due remi e il canotto fu il terzo.
    Presero così la bella fanciulla
    E la posero in mezzo al canotto.
    Fanciulla, fanciulla, perchè sei tu così turbata?
    Piangi tu, o fanciulla, per il padre o per la madre?
    Piangi tu per il padre, la madre, la sorella, il fratello?
    Piangi tu per la sorella, il fratello o i congiunti?

Questo canto non finisce qui, ma il Popov che lo pubblicò per il primo,
non potè averne la continuazione.

L’amore profondo e tenero per la patria e la famiglia si trova nelle
poesie lapponiche come nelle sirianiche e nelle finniche. Nei preziosi
manoscritti lasciati dal dottissimo Castren, e che si trovano oggi
nella Biblioteca dell’Università di Helsingfors, avete sette canzoni
sirianiche, tutte dedicate al matrimonio, ed eccone una come saggio:


IL CANTO DELLA SPOSA

    Mi si è tolta la libera volontà,
    Mi si è preso teneramente il mio cuore,
    Mi si incatenò la mia giovine testolina,
    Mi si tennero fermi i miei ricci d’oro,
    Mi si trascinò per la punta delle dita?
    O mio padre, mio educatore,
    O mia madre, che ebbe cura di me,
    O fratello, coraggioso come il falco,
    O mia propria, o cara sorella,
    Fratello di mio padre, o buona cugina,
    Così voi avete già deciso
    Io devo abbandonare casa e cortile!

    Così io andai alle nozze
    Presi il calice ripieno
    E a tutti gli ospiti offersi il vino,
    Guardai a tutti i convenuti
    Attraverso le mie ciglia d’oro;
    Non lo prese però il buon fratello,
    Lungi egli è, il lieto falco
    Egli siede nella nera _tundra_[23]
    Nel seno dell’oscuro mare
    Sotto le alte rupi degli Urali.
    Accorri qui, o mio nobile fratello,
    Non odi: io son scacciata
    Dalle dorate regioni del mio paese
    Vieni, o vieni, mio caro fratello,
    Che giacesti sullo stesso seno della madre,
    Vieni e vedi come io parta!
    Scegli le renne dall’armento,
    Scegline sei, delle maggiori,
    Attaccale ad una slitta,
    Aggiogale ad una slitta,
    Legale solidamente con nere cinghie
    E corri rapido a casa!
    Spumeggin pure cento e venti fiumi,
    Irrompano selvaggi i torrenti di primavera,
    Frapponendosi sulla tua via,
    E tu innalzati leggero come il cigno
    O veloce come un’anitra.

    Venerato padre, cara madre,
    Io fui pur fedele, povera fanciulla,
    Sempre come un figlio prediletto,
    Perchè volete voi scacciare
    La fedele serva dalla vostra casa,
    Per darmi in cambio stranieri genitori,
    Sconosciuti fratelli e sorelle?
    Dovrò io diventar cento volte più saggia,
    O poveretta, dovrò io sempre
    Piegar la mia testolina
    Per trovar gioie presso di loro?
    Se il piacere non dimora presso di loro,
    Io penserò alla patria,
    E godrò la gioia passata
    Presso il padre e la madre.

Celebre è la poesia lapponica seguente, raccolta da Fjellner:


I FIGLI DEL SOLE

    Un tempo gli uomini erano pochi
    E le fanciulle mancavano agli uomini.
    Un uomo aveva abbracciata la sua donna,
    Aveva mischiato il suo sangue con quello di lei,
    E la madre allatta il bimbo,
    Bagna e alimenta il fanciullo.
    Si dimena il fanciullo nella culla,
    Perchè egli aveva ricevuto dal suo genitore
    Tendini forti e solidi,
    E l’antenato diede l’ingegno
    Alla progenie del figlio di Kalla.

    Corre voce, così suona la leggenda:
    Dietro la stella legata (_forse_ fissa)
    Ad occidente lontano dalla luna e dal sole
    Son le pietre oro e argento,
    Pietre del focolare, pietre delle reti.
    Scintilla l’argento, fiammeggia l’oro,
    Le rupi si specchiano nel mare.
    Anche i soli, le lune, le stelle,
    Luccicano, sorridono, specchiandosi risplendono.

    Il figlio del Sole stacca la sua barchetta,
    Prende con sè il meglio della sua gente.
    Il vento soffiando gonfia le vele,
    Lo spirito delle acque spinge la barchetta,
    L’onda trascina all’innanzi gli uomini.
    Il timone si drizza al disco
    E il vento d’oriente culla la barchetta.
    Onde non tocchi la luna,
    La luna e il sole diventarono
    Più piccoli della stella del nord.
    Sorge ora una luce d’un’altra specie
    E diventa più grande che il sole,
    Risplende in rosso e illumina gaiamente.

    Passano lunghi anni in mare.
    Finalmente, ecco alla fine del viaggio
    Si apre la spiaggia del gigante,
    Si fa orribile e s’innalza.
    E la giovane figlia del gigante,
    Essa, la cucitrice del vecchio cieco,
    Lava alla luce di una fiaccola gli abiti,
    Stropiccia e batte i vestiti con diligenza,
    Poi li risciacqua e li spreme,
    Li fa seccare e li ripulisce.

    Dando grazia al suo seno[24]
    Rivolge rapida i suoi sguardi,
    Guarda forte il giovane negli occhi;
    Parla, donde vieni? chi cerchi tu?
    Vieni tu al tavolo della morte
    Per nutrire il mio padre,
    Per dare a me un boccone da succhiare,
    Per ristorare il mio fratello stanco,
    Per dar parte al mio suocero?

_Il figlio del Sole:_

    Sarakka[25] mi diede dal padre
    Tendini robusti, potenti forze
    Mischiando le forze dei due genitori.
    Uksa Aka col suo latte
    Mi versò nel capo l’ingegno.
    Io cerco colei che mi dia calma nella procella,
    Che freni l’ira,
    Che felicemente mi segua nella morte e nella vita,
    Una che mi freni nella fortuna,
    Che mi protegga nella sventura,
    Che mi conforti nei tormenti del cuore,
    Che nella fatica e nell’angoscia mi riposi,
    Che mi porti fortuna nella pesca,
    Che nella commozione mi dia pace,
    Che doni degli eredi alla mia razza.

_La figlia del gigante:_

    Ogni goccia del mio sangue ribolle,
    Più alto si gonfia il seno della vergine,
    Tutti i miei sensi si sconvolgono.
    Mescoliamo il nostro sangue,
    Intrecciamo i nostri corpi,
    Mescoliamo gioie e dolori,
    Tu figlio di madre straniera.
    Al mio padre, al mio caro
    Voglio dire il mio desio, la mia aspirazione,
    Le mie amare lagrime chiamano
    La mia madre che giace lì nel profondo dell’arena e della scorza di
          betula.

_Il gigante, che ha l’intenzione di mangiarlo, dice con sprezzo:_

    Vieni presto, o figlio del Sole!
    Mettiamo alla prova colla mano
    La piegatura delle nostre dita,
    Vediamo chi abbia le dita più pieghevoli,
    Chi abbia le dita più solide.

(_La figlia porge al giovane un’àncora di ferro e il giovane la
presenta al vecchio_).

    Davvero, sono abbastanza forti
    I tendini delle dita dell’eroe solare;
    Forte è la piegature delle dita del giovane.

_Il figlio del Sole dà poi per consiglio della figlia al vecchio come
doni:_

    Un barile d’olio di pesce come cibo di nozze,
    Un barile di catrame come bevanda di nozze,
    Un cavallo per pietanza.

_Il gigante parla:_

    Dolce, dolce è la bevanda
    Del paese del sole: essa si beve volentieri.
    Forte è anche la bevanda
    Del figlio del Sole e fa smarrire i sensi.
    Eccellente pure è la pietanza.

    Ma ahimè, ecco ch’egli si ubriaca,
    E la sua dura testa si confonde,
    Il grasso del pesce e del legno
    Scendono al suo core e lo rammolliscono.
    Egli afferra l’àncora di ferro,
    Suda e si riscalda sempre più.

    E il vecchio cieco
    Li pone e dà posto ad ambedue
    Sulla pelle del dominatore delle acque (_balena_).
    Incide loro il mignolo
    E mischia il sangue di amendue,
    Congiunge le mani, unisce petto a petto,
    Allaccia anche i nodi dei baci,
    Mette da parte gli impedimenti,
    Scioglie le mani, scioglie i nodi,
    Si portano le pentole nuziali, poi si beve.

    Alla sua tessitrice, alla valente,
    Alla sua unica filatrice di tendini,
    Alla sua cucitrice, alla unica
    Sceglie egli i doni nuziali:
    Pezzi d’oro degli scogli della riva
    Fa egli rompere, fa egli portare,
    Portare sulle navi barre d’argento,
    E lo aiuta l’amante della vergine,
    Il giovane dai bei ricci,
    Nella barca dalle ali di canape,
    Colle vele floscie.

_Il gigante domanda:_

    Vi è posto ancora nella tua barca,
    Può essa portare un peso maggiore?
    — Sì, vi è posto. — E si portano altri doni.
      (_La sposa_)
    Sì lascia cadere le scarpe virginali,
    Segue il servizio del fratello straniero,
    Alla guardia della suocera
    E riceve la chiave magica.
    Poi essa porta via dalla capanna
    Tre casse fatte di pino;
    Azzurra la prima, rossa la seconda,
    Bianca la terza; oltracciò tre nodi.
      (_Le casse contengono_):
    Guerra e pace, sangue e fuoco,
    Malattia, morte e pestilenze
    E i tre nodi del panno di bagno
    Di Sar, Uks e Madderakka.
      (_Portano_):
    Dolci zeffiri, vento e procelle.
    Si fanno i nodi della castità e si danno[26]
    In guardia di Madderakka.

    Allora ritornarono dalla pesca i figli,
    Dalla pesca della morsa, delle foche, delle balene
    E cercarono della sorella. — Dove è dessa?
    Dov’è la bellezza della capanna?
    Nulla rimane di essa fuorchè le orme,
    Il sudore di chi fu ad essa così simpatico,
    L’odore di chi ce l’ha sedotta?
    A chi ha essa dato la mano,
    Chi ebbe forza per conquistarla,
    Chi ha giuocato da uomo o da donna,
    Chi giuoca scherzando colla fanciulla?
    Chi ha forse picchiato alla porta di Uksakka?

_Il gigante risponde:_

    Il figlio del Sole allargando le vele l’ha involata. —
    Vola in mare la barchetta dei fratelli
    Per inseguire e dare la caccia
    E restituire il poledro alla casa.
    Già si sente il batter dei remi,
    Più vicino si fa il rumor del timone
    E il muggire e l’infuriar delle onde.
      (_La sposa_)
    Scioglie per difendersi un nodo virginale,
    Un vento allora gonfia le vele,
    E la barchetta rompe le onde,
    Le getta da ambo le parti
    E i giganti rimangono addietro.
    Più forte abbrancano essi i remi,
    Il sudore goccia dai loro occhi,
    Si odono l’ira, il grido e le minaccie,
    Cuoce la bile e divampa il furore.

    E la sposa è pensierosa per lo sposo,
    Le brilla l’occhio e le batte il cuore,
    Pensa alle gioie delle nozze,
    E le si gonfian le vene
    E il sangue la inonda fortemente.
    Domanda allo sposo, facendogli riverenza:
    La tua barchetta può sopportare maggior vento?
    Solidi e forti sono l’alberatura e le sarte?
    Scioglie allora il secondo nodo sanguigno
    E il vento incomincia da occidente
    A sollevare i figli del mare (_le onde_),
    Gonfia e tende le vele
    E i fratelli rimangono molto addietro.
    Bolle il sangue, la vendetta ha sete,
    Ricorrono agli ultimi sforzi,
    Si asciugano il sudore sanguigno dal volto,
    Le mani si affrettano, i dorsi si piegano,
    I pugni si irrigidiscono sul remo.
    Poi diventan caldi e via corre la navicella
    Rompendo i flutti dell’aperto mare.
    Così vennero più vicini alla barchetta.

_La sposa:_

    Sopporta la tua barchetta vento più gagliardo,
    Sopporta dessa più forte bufera?
    Scioglie allora il terzo nodo.
    Anche Ilma Razza montò in collera
    E il servo del dominatore del cielo.
    Il vento del nord dal mezzo del cielo
    Mandò la procella e piegò le antenne.
    Qua e là ondeggia la vela,
    Balza la barchetta e si piega sui fianchi.
    Anche la sposa si corica e si rintana
    Nel più profondo della navicella
    E nasconde le scintille dei suoi occhi
    Alla luce dell’aurora.
    Sullo scoglio andarono i fratelli
    Ambedue per cercar la sorella.
    Il Sole li disciolse
    E poi li indurì in due rupi.
    Si vedono anche oggi a Vake.
    Anche la loro cuprea navicella si mutò in rupe.

    Sulle pelli d’orso e di renne
    La sposa festeggiò le sue nozze,
    Diventò piccola come gli altri uomini.
    Con un’ascia tolta dalla sua cassa
    Si fa la porta, si fa più larga
    E s’ingrandiscono le camere.
    Essa partorì i figli del Sole,
    Essa partorì i figli di Kalla.

    Quando l’ultimo finì in Svezia
    L’ucciso, il celibe (_Carlo XII_),
    Un altro ramo andò a Karjel,
    Un altro ancora più al sud
    Dietro la Danimarca e l’Iutland[27].


IL FIGLIO DI PISSA PASSA

    Pissa, capo dei villaggi del paese del sole,
    Passa, la figlia del capo del paesi della notte,
    Nelle loro nozze avevano giurato
    Sulla pelle d’orso
    Non splenderà una scintilla del secondo mondo
    A colui, che rompe il giuramento;
    Ma ecco che uno stalu toglie la vita all’uomo
    E gli rapisce il suo tesoro come pure gli armenti.
    La moglie prende con sè una parte del gregge
    E via se ne fugge incinta.
    Là partorisce un figlio.
    Il figlio domanda: — Dove è mio padre?
    — Mio figlio, tu non hai padre.
    Il figlio ripete:
    — Il francolino ha il suo maschio, il gallo di montagna la sua
          gallina,
    La pernice delle nevi il suo compagno, la renna il suo renne,
    L’orsa ha il suo orso e l’alce il suo maschio.
    Anch’io non posso esser nato dalle pietre o dagli alberi!
    Il fanciullo cresce d’anno in anno,
    Diventa un uomo, va a caccia nel bosco,
    Importuna sua madre: — Chi è mio padre?
    Finalmente essa risponde:
    — Tuo padre porta l’alce vivo dietro la porta,
    Egli lo porta giù dal pascolo delle renne,
    Lo porta giù colle scarpe di neve.
    — Madre, madre, dimmi il nome di mio padre.
    — Il padre porta il pellegrino del bosco (_l’orso_)
    Che muggisce e brontola dietro la capanna. —
    Il fanciullo indossa il proprio vestito e si reca alla casa dove si
          riunisce il popolo.
    Se ne va di là e prende col laccio la madre dei boschi (_l’orsa_),
    La muggente, la brontolona, che si agita e sbalza di qua e di là.
    Egli la lascia muggire e brontolare e la trascina alla porta della
          capanna.
    Egli vi entra:
    — Mammina, mammina, fammi un pane.
    La madre fa un pane e lo cuoce sui roventi carboni.
    — Mammina, dammi il pane colla tua mano,
    Cara madre, dammi la tua mano.
    La madre gli porge la mano, il figlio
    La stringe col caldo pane:
    — Mammina, mammina, chi è mio padre?
    — Pissa Passa, mio figlio.
    — Dove andò egli?
    — Il vecchio della nera montagna lo ha ucciso segretamente.
    Ci prese gli armenti, ci prese il nascosto tesoro.
    Già da lungo tempo io ti ho ammonito
    Di non andare sugli alti monti splendenti,
    Non sui pendii e sulle rive di Baikkala.

_Il figlio dice:_

    Gli uomini hanno tenuto la riunione della giustizia,
    Gli assistenti, i becchini
    E l’araldo sono riuniti.
    Mammuccia,
    Dammi il bastone di guerra di mio padre,
    Coprimi colla veste di guerra del padre e col suo elmo[28],
    Colle sue scarpe e coi suoi guanti.

_La madre:_

    Allora io rimango abbandonata nei miei vecchi giorni,
    Nessuno si cura della mia vita, nessuno
    Mi seppellisce, quando morta, nella corteccia di betula e
          nell’arena.
    Il figlio benedice la madre, l’abbraccia e se ne va,
    Entra nell’ultima capanna della nera montagna
    E entrando dice:
    — Andate e dite ai vostri capi del villaggio,
    Che ora il capo dell’altro villaggio
    È divenuto capo di questo.

    _Hures_ il servo tuona,
    _Hureskutje_ lancia lampi,
    _Ilmaratje_, il più valente servo del dominatore del mondo,
    Lancia i suoi colpi, e versa giù torrenti di acqua.

    Un servo se ne va e racconta al vecchio:
    — È venuto ora il capo dell’altro villaggio.

_Il vecchio:_

    Invitate il capo dell’altro villaggio
    Ad ospite di questo capo.
    Quale figura ha egli?
    — Egli è più alto di una testa che tutti gli altri,
    Lo copre l’elmo e i suoi denti e i suoi occhi risplendono,
    Ha il bastone di guerra in mano,
    I guanti e la veste di guerra lo difendono,
    Egli è largo di spalle, con forti gambe.
    Il tamburo magico rumoreggia, l’araldo grida,
    I tuoi e i suoi assistenti
    Errano d’ambo i lati dei colli,
    I seppellitori dei caduti stanno pronti.

_Il vecchio:_

    Preparate il pranzo con un intiero vitello di renne,
    Portatemi la mia camicia di ferro (_o di cuoio_),
    Archi, freccie, aste e lancie. —
    Il giovane viene e vede un cranio appuntato
    Con serpenti velenosi avvinghiati,
    Dal quale i fanciulli prendono il veleno per le freccie.
    L’araldo grida il suo messaggio e dice:
    — Io lo sfido, io lo sfido (_alla lotta_) sulla superficie delle
          acque.

(_Non si risponde_).

    Io lo sfido, lo sfido a tuffarsi!

(_Non si parla_).

    Io lo sfido, lo sfido al pugilato,
    Io lo sfido, lo sfido alla lotta!

(_Siccome nessuno risponde, dice il giovane_):

    Vecchio, vecchio, di chi è quel cranio?
    — È il cranio di Pissa Passa.

_L’araldo:_

    Io lo sfido, lo sfido al tiro dell’arco! —
    Il vecchio tira una freccia fuori della finestra.
    Essa non trapassò.
    Il giovane la strappò e la gettò contro una pietra:
    — Vecchio, vecchio,
    Dove si spuntò la tua freccia?
    — Contro i denti di Pissa Passa.

_Il giovane:_

    Veramente, i suoi denti avevano scalfiture.

_L’araldo:_

    Io lo sfido, lo sfido alla balestra. —
    Il vecchio tira una balestra rovente col suo arco.
    Il giovane l’abbatte colla sua lancia,
    La prende, la batte contro una betula, poi la piega:
    — Dove si piegò la tua balestra?
    — Contro i denti di Pissa Passa.

_L’araldo:_

    Lo sfido, lo sfido alla lotta colla lancia. —
    Coll’arco da piede lancia il vecchio fuori della finestra
    Una lancia avvelenata.
    Il giovane abbatte la lancia volante col suo bastone di guerra,
    La prende e la batte tra le pietre,
    La piega, la rompe e dice:
    — Padre, vecchietto, dove si ruppe la tua lancia?
    — Contro i denti di Pissa Passa.

_Il giovane:_

    Aha! l’orso è chiuso nella sua tana!

_Il vecchio:_

    Dove escirò io, nipotino,
    Dalla porta davanti o per quella di dietro?
    — O babbuccio, vieni giù per la porta di dietro. —
    Il vecchio sen viene armato,
    Il giovane lo riceve col bastone di guerra,
    Lo trascina a sè, prendendolo per le gote,
    Preme le penne della camicia di guerra
    Nel suo petto e le contorce.

_Il vecchio:_

    Venite, venite in mio soccorso,
    Ora lottano i capi dei due villaggi fra di loro.

    Il servo più valente del dominatore del cielo
    Lancia i suoi lampi contro la capanna e li getta sulle pietanze che
          vanno cuocendo
    E ardono.

_Il giovane:_

    Ora sarai tu cotto e lavato
    Nel brodo delle renne di Pissa Passa! —
    I servi vengono, l’uno colle legna,
    L’altro coll’ascia, il terzo coll’ago,
    Altri con altre cose.
    Il figlio di Pissa Passa abbatte il vecchio,
    Lo accarezza, poi lo spinge contro il suolo,
    Lo batte e gli dice:
    — Che cosa scegli tu, te ne vai da questo paese o diventi mio
          schiavo?
    Dov’è il tesoro nascosto di Pissa Passa,
    Dove sono i suoi armenti?

_L’araldo:_

    Il lampo di Dio o annerisce il cuore
    O rischiara le anime.
    Che cosa sei tu, quando cessi di vivere,
    Quando tu getti via il cucchiaio, quando tu muori?

_Il vecchio:_

    Gli occhi infuocati dell’ombra di Pissa Passa
    Scintillano come fuoco, mi bruciano, affascinano.
    Egli mi si affaccia irato, egli m’impedisce la via per l’altro
          mondo.
    Indarno io vorrei farlo sorgere colla vita, colle ossa,
    Col sangue, coi tendini.

_Il giovane:_

    Che cosa scegli tu, te ne vai da questo paese o diventi mio
          schiavo?

_Il vecchio:_

    Dove è un dono d’espiazione, che soddisfi Pissa Passa,
    Che mi conceda il suo perdono?
    Un’azione compiuta è come una freccia tirata,
    Chi può ammansare i morti?

_L’araldo:_

    Dio solo può rimediare,
    Quando egli ha lanciato il suo fulmine,
    Quando ha dato i colori, quando ha rischiarato i falli,
    Quando ha tutto arso, tutto riscaldato.
    Egli solo lava, cancella, perdona, riunisce.
    Egli solo è egli stesso, egli non è come io e tu,
    Non è come tu ed io!
    Egli solo rischiara e perdona
    E volge tutto al meglio.
    Ma si deve riceverlo con gioia,
    Esso diviene il più prezioso tesoro,
    Il desio più ardente del cuore.
    Se tu non te ne curi, il fulmine ti annerirà,
    Ti guasterà, t’incanterà, ti trascinerà dalla cattiva parte.
    Le anime dell’altro mondo non hanno
    Ossa o carne, eppure esistono davvero.
    Esse non occupano spazio, le rupi non le arrestano,
    L’acqua non le rattiene, non le affoga.
    Esse sono come i pensieri e trapassano
    La terra, il sole, la luna e le stelle.
    Esse non hanno tempo, il tempo è passato dietro ad esse.
    In sogno
    Esse si mostrano a coloro
    Che sono pazzi o allucinati.
    Sono le anime sotterranee, che Ilmaracca ha risanato;
    Sono le ombre infelici, che son divenute nere
    (Che sono sudicie e impure),
    Si vedono ora, buone e cattive,
    Esse non prendono più alcun tempo, nè alcun spazio.
    Alcune hanno indossato il vestito del cielo,
    Quelle, che al contrario hanno messo il vestito al rovescio, son
          divenute brutte,
    Esse sono sempre in lotta, incessantemente,
    Esse non sono mai riscattate e congiunte.
    Incessantemente son sempre le une contro le altre.
    Il padre del cielo solo è egli stesso,
    Egli non è come noi e voi, voi e noi,
    Egli stesso governa il cielo,
    Egli solo signoreggia sull’altro mondo.

_Il vecchio:_

    Io vedo, egli può lavare i peccati
    Può perdonarli e farli sparire,
    Calmare il cuore e dare il riposo all’infelice.
    Egli può temperare, può condurre alla concordia.
    Io dunque me n’andrò,
    Mi separerò dai tesori e dal loro possessore,
    Il possessore può prendere da sè i suoi armenti.
    Io mi alimenterò con un manipolo di essi
    Al lato orientale delle alte rupi,
    Nel paese dei monti e delle pietre,
    Nei Monti Reppe, il ramo più alto dell’Ammart.
    Io non domando altro
    Che gli argini da salmone alle rive del Läna,
    Ai luoghi di pesca dei monti del fagiano cedrone. —
    Il figlio di Pissa Passa
    Per mezzo del suo cane separò la metà degli armenti,
    E qui morì il vecchio gigante.
    Nella palude fra l’acqua e il fango fu egli sepolto,
    I becchini conservarono le sue ossa.
    Una parte della sua fortuna diede egli agli assistenti.

_Il giovane:_

    La gente di casa del vecchio gli tenne dietro.
    Il sangue non fu versato. —
    Col cuore tranquillo rivolse egli la faccia ad occidente
    A sua madre.
    Egli aveva vinto la procella,
    Riconciliato l’un coll’altro i morti.
    Abbracciò sua madre, egli l’uomo eccellente
    Del mezzodì, del nord, della casa di riunione del popolo.
    E così egli rinnovò e innalzò
    Le pareti e la casa del proprio padre.


LA VERGINE DEL SOLE

    In un giorno splendido di sole un uomo pigro
    Vide sotto un ammasso di rupi, che pendeva minaccioso,
    Sedere la vergine del Sole.
    Egli si avvicina a carpone adagio adagio e l’abbraccia.
    La vergine del Sole dice:
    — Sì, sì, io fui sorpresa.
    Guarda però, tu o omiciattolo, guarda,
    Lasciami stare.
    Bada bene, va dietro di me e spingi gli armenti
    Qualunque cosa tu ascolti, non guardare indietro. —
    Innanzi va la vergine del Sole,
    Dietro di lei cammina il gregge come guidato colle redini.
    Egli allora ascolta dietro di sè terribili minaccie,
    Lo si prende e lo si minaccia terribilmente,
    Lo si schiaccierà e lo si pugnalerà,
    Si tirerà dietro a lui; così egli ascolta
    E si guarda addietro.
    Nello stesso momento, in cui egli guardava all’indietro,
    Sparisce la parte del gregge che stava più addietro.
    La vergine del Sole dice:
    — Spingi, spingi sempre gli armenti, gridando. —
    Quando egli ode dietro a sè
    Gonfia e le renne di fianco corrono;
    — Va, va, spingile. —
    Quand’ecco che dietro a lui scoppiò una procella.
    Egli guardò di nuovo dietro a sè.
    E allora si smarrì anche il centro dell’armento
    E si cambiò in renne selvaggie,
    Altrimenti sarebbero divenute proprietà di quell’uomo pigro e
          malvagio.
    La vergine del Sole disse (con voce fioca):
    — Ora, ora l’uomo ha peccato di nuovo. —
    Mentre essi fabbricano la capanna o coprono il suolo di rami, essa
          così lo ammaestra:
    — Copri perbene tutti i buchi,
    In modo che non ne rimanga uno solo —
    Ora egli pensa e dice fra sè:
    Si deve chiuderli tutti esattamente e con molta cura.
    Allora preparò la vergine del Sole
    Un soffice e comodo letto.
    Quando essi si svegliarono molto per tempo
    Apparve il Sole attraverso un piccolo buco.
    E la vergine del Sole disse:
    — Ah! Io vedo gli occhi di nostro padre, di nostra madre; —
    Ed essa fuggì via rapidamente,
    Sparisce e dietro ad essa l’armento,
    Le renne si mutano in dure pietre
    E si sente raccapriccio nel guardarle.


L’UOMO DALLA GROSSA PELLICCIA O L’UOMO STUPIDO

    Solevano i fanciulli, maschi e femmine,
    Giuocare e cantare,
    Saltellando correre e schiamazzare qua e là,
    E lasciare le traccie dei loro piedi al margine delle sorgenti.
    Lo _Stalu_ preparò le sue trappole di ferro,
    Le apprestò nell’acqua, le nascose nel fango.
    Il vecchio lappone si accorse
    Delle nascoste trappole del mangiatore degli uomini,
    Si nascose nella sua stretta pelliccia,
    Si pose nella trappola dell’orso.
    Stalu visita le sue trappole:
    — Aha, haha!
    Il vecchio amico ha preso abbaglio,
    Egli è morto qui. —
    Lo _stalu_ lo porta a casa e lo appicca
    Al tetto sopra il fumo.
    Il più giovane _stalu_ dice:
    — Vedi, vedi
    Come egli piagnucola, com’egli grugnisce! —
    L’altro (il maggiore) figlio:
    — Tu stesso piagnucoli e grugnisci,
    Non già questo dono di Dio. —
    Il vecchio lappone pensa:
    — Di Dio sa anch’egli qualche cosa. —
    Stalu:
    — Sì, sì, egli incomincia già a dimoiare. —
    Dietro il colle egli spacca la legna per il truogolo,
    La recide, taglia i rami, spacca e taglia,
    La porta ad un truogolo presso la porta posteriore.
    Al più vecchio figlio:
    — Caro fanciullo, portami la scure (fuori dalla capanna). —
    Il vecchio lappone porta via la scure.
    Il più giovane _stalu_:
    — Padre, ora egli guarda in alto, ora egli si muove,
    Ora egli afferra anche la scure! —
    Stalu
    Si rallegra, canta e suona,
    Egli non ode cosa alcuna, non osserva cosa alcuna, non sa cosa
          alcuna.
    Il vecchio
    Percuote (il fanciullo maggiore) sul capo e lo uccide.
    Stalu
    Trova che egli tentenna, canta ed aspetta.
    Egli dice al figlio minore:
    — Portami la scure, affrettati, affrettati! —
    Il vecchio lappone
    Spaccò anche a questo il cranio,
    Ne prese fuori il cervello e
    Recise il canale dell’aria.
    Stalu (ascolta):
    — Essi girano per tutti gli angoli
    Dimenano teste ed occhi,
    Io stesso voglio prendere la scure. —
    Il vecchio
    Aspetta con cura coll’ascia dietro la porta e il possu,
    Aspetta e si muove qua e là.
    Egli calò un fendente sul capo dello spaventoso,
    Spaccò il largo cranio,
    Strappò gli occhi e il naso,
    Versò il sangue del divoratore degli uomini
    E il sangue schifoso colorì il suolo.

(_Il vecchio lappone porta fuori il caduto, lo fa in pezzi e li getta
l’uno dopo l’altro a_ Ludac[29], _che in quel frattempo è venuta a
casa_).

    Ludac batte sul suolo qua e là.
    Fiuta, annusa e si rallegra
    Di ciò che entra nel _possu_.
    Essa riprende la presa,
    La batte colle mani e grida in collera:
    — Gettami delle zampe di renne
    E non dei piedi coperti di calze!

(_Essa continua, mentre va mangiando la suppa preparata dal marito e
dai figli_):

    Come è buona: però
    Ha proprio il suo sapore!

(_Il lappone prende gli occhi della donna, che giacciono sotto la
porta, li arrostisce in una padella ed essa se n’accorge e domanda_):

    Che cosa scoppietta, crepita, sibila,
    Che cosa fischia sui carboni,
    Scoppia, scroscia, crocchia?
    Guardate, o occhi miei,
    Diventate chiari sotto la porta,
    Diventate chiari, o miei occhi, o mie scintille!
    Il lappone:
    Ha tuffato la carne di tuo marito, i tuoi occhi nel grasso e se li
          ha mangiati.
    Ludac:
    Nello stomaco sono i miei occhi, o mio marito,
    La mia piccola civetta, caro ragazzo, mio piccolo![30]

(_L’uomo dalla grossa pelliccia, il lappone, se ne parte scherzando_).


LA BELLEZZA DELLA SPOSA

    O sole, risplendi potente sul Lago di Orri!
    Io vorrei salire sulle cime dei pini,
    Sol ch’io sapessi di vedere il Lago di Orri,
    E dove esso si nasconde sotto le eriche.
    Io tagliai i rami,
    Che qui crescono di nuovo,
    Ed io taglierei tutti i ramoscelli,
    Che portano buone gemme verdiccie.
    Io seguirei il corso delle nubi,
    Che si dirigono al lago di Orri
    Se io vi potessi volare colle ali del corvo
    Ma mi mancano le ali, le ali dell’anitra, per volar colà
    Ed anche i piedi, i piedi dell’oca, i piedi della bella anatra,
    Coi quali io mi dirigerei sempre a te.
    Abbastanza a lungo hai tu aspettato,
    Con lunghi giorni, i tuoi più bei giorni,
    Il tuo occhio è simpatico, il tuo cuore soave.
    Se anche tu volessi volarmi via
    Ben presto ti raggiungerei.
    Che cosa può esser più forte
    Dei tendini e delle catene di ferro,
    Che stringon forte?
    Così ci allaccia il nostro capo (_l’amore_)
    E congiunge tutti i nostri pensieri.
    La volontà del fanciullo è volontà dello zefiro,
    I pensieri del giovane sono lunghi pensieri.
    Se io li volessi tutti ascoltare,
    Smarrirei la mia strada.
    Io ho preso una determinazione e la voglio seguire,
    Ben lo so, così io trovo dinanzi a me la strada migliore.


AL RENNE

    O Kulnasaz, piccolo renne, caro piccolo renne, siamo veloci,
    Corriamo, vogliamo essere qua e là,
    Le paludi sono ancora lontane
    E abbiamo quasi finite le nostre canzoni.

    Vedi là, io ti amo, o Lago di Kaiga,
    Ti saluto, o buon Lago di Kalloa,
    Mi palpita già il cuore
    Pensando al mio caro Lago Kaiga.

    Su, su, o caro piccolo renne,
    Vola, vola la tua corsa!
    Che presto saremo al nostro porto
    E ci rallegreremo del nostro lavoro.

    Tosto io vedrò i miei cari.
    Su, piccolo renne, vedi, vedi!
    Piccolo Kulnasaz, non li vedi già
    Là che si bagnano!


IL CANTO DEL RENNE

    La femmina del renne, il piccolo renne, il renne da tiro
    Va errando per due, per tre strade,
    Bela in varii luoghi e nel giovane bosco.
    Dopochè egli è salito, si corica sulla cresta del monte.


CANTO PER I PICCOLI FANCIULLI

    Cara formica, cara formica,
    Vieni, vieni, tira, tira
    Il fanciullo nel lago
    Con redini di capelli,
    Tira, tira.

In lappone suona così:

JOIJUHTAHTA UHTJE MAANAI PILJELN

    Korko graddnam, korko graddnam!
    Potheh, potheh — keseh, keseh
    Manav jaurai
    Vuobtalabtjijn!
    Vanah, vanah.


IL CANTO DELL’ORSO

    Vecchio del monte, vecchio del monte,
    Sorgi, sorgi!
    Già sono le foglie grandi
    Come orecchie di sorci.


SUI MONTI

    Quale è il vento
    Che ti è più aggradevole?
    È forse il vento del sud, torbido e rugiadoso,
    O è il fresco vento che scende dai monti del nord?


IL CANTO DELLA ZANZARA

    La cavalletta domanda alla zanzara:
    — Che cosa fai tu durante l’estate?
    — Io canto; ma che cosa fai tu stessa
    — Io ballo.


IL CANTO DELLO SCOIATTOLO

    Possano vivere tutte le fanciulle,
    E morire tutti i giovani! (_perchè uccidono gli scoiattoli_).


IL LUPO

    Il lupo, il lupo
    Attraverso nove boschi, colla coda tra le gambe
    Corre egli — ha, ha!


IL CANTO DEL LAMENTO

    Con lamento io piango le mie renne sui monti,
    Invano io vo spiandole di qui nella fredda casa.
    Non mi è più concesso
    Di correre sopra un colle e di scenderne alla corsa
    Nè di vedere le renne macchiate di bianco.
    Come posso io prosperare
    Quando io non mungo più le mie renne,
    E devo vivere del latte della vacca dalla lunga coda?
    Ebbene, se questa è la mia sorte, io mi devo pur rassegnare
    E non correr più sui monti dietro le renne.


LA VITA DEL LAPPONE

    Io affaticato lappone ed uomo errante
    Sul faticoso calle di questa terra,
    Devo pellegrinare per tutto il mondo
    E così passare il mio tempo.


IL CANTO DEL RIFIUTO

    Triste è il mio cuore, sì, pesante è il mio cuore,
    Perchè mi hanno portato via la mia cara neve.
    Io sospiro al cielo, dove entrambi c’incontreremo
    Sebbene il mondo mi trovi triste e miserabile.

    Io ho scelto una fanciulla, e me la tengo cara,
    Essa possiede il mio cuoricino, finchè avrò vita.
    Finchè rimanga caldo il mio sangue e mi duri la vita
    Il mio cuore arde nella triste era fino all’ultimo istante.

    L’uccellino canta gioioso alla sua compagna,
    Ma quando la palla le rapisce il suo amico,
    Allora vede il suo cuore nella tristezza e nel cordoglio.

    Io ti ho dato una coppa piena d’amore,
    Ma il tempo e il mondo me l’hanno vuotata.
    Ora essa va circolando per tutta la terra,
    Ma alla fine giungerà nelle tue mani.

    Vi sono alcuni falsi amici
    Che hanno lacerata la nostra amicizia.
    Essi ci avevano vinto
    E così avevano ucciso il nostro amore.


UN ALTRO CANTO DELL’ORSO

    Con tutta l’attenzione io sono andato cercando (_in cerca
          dell’orso_).
    Sia lodato il mio Dio,
    Che ci hai dato
    L’orso senza difetti (_o generoso_).

    Dopochè lo hanno preso, si canta:
    Quando abbiamo tagliate le membra dell’orso,
    Grida il capo, grida il capo.
    Lo possiamo noi vincere,
    Cacciare o sbranarlo?

    Lo sparviero (_l’uccisore dell’orso_) dà
    Alla fine due o tre colpi;
    Non muori tu, o mio caro piccolo vecchio?
    Andate in fretta, o uomini,
    A quel colle col bosco.
    Le vostre cinghie, le vostre corregge,
    Fermiamo colle catene la fanciulla (_l’orsa_)
    In modo ch’io possa di nuovo andare ai monti e alle foreste.


IL CANTO DELLA RICHIESTA

        _L’amante, che offre i doni:_
    Sei tu pronta, o fanciulla, a prender questo
    Come un principio del nostro amore?
    I nostri genitori ci sono favorevoli.

        _La fanciulla:_
    Benvenuto! se il destino vuole
    Che io debba seguir la tua strada
    E aver cura dei tuoi armenti di renne.

        _L’amante:_
    Prendi dunque i miei doni
    Come pegno della nostra futura unione
    Se così è deciso
    Che noi dobbiamo esser congiunti.

        _La fanciulla:_
    E se noi non ci riuniremo
    Riprendi colla stessa mano
    Questi doni.

        _L’amante:_
    Vediamo ora, quanto tempo
    Durerà il nostro amore.
    Pensa bene, o fanciullina,
    Se tu mi potrai aiutare
    Ad aver cura delle mie renne.

        _La fanciulla (ai circostanti):_
    Abbiate le mie grazie, o congiunti
    Del giovane, anche questa volta!
    Quando io mi sarò decisa
    Sarà di nuovo e per l’ultima volta
      (_festeggeremo il matrimonio_).


POVERO SCIOCCO!

_Un lappone pastore va da un lappone pescatore, di cui non aveva mai
veduto gli ordigni. Egli dice:_

      Ha, ha, di quest’uomo
    Il _legno-spauracchio_ è troppo lungo
    E quando è mosso, passa attraverso il camino della capanna,
    Mai ho veduto niente di simile.
      Povero sciocco,
    Esso è il legno che spaventa i pesci,
    Fa rumore e picchia attraverso la porta della rete.


DUE VOLTE

    Quante volte suona la campana della domenica
    Nei vostri paesi? —
    Tre volte.

    Quante volte ciancia
    Il povero predicatore nei vostri paesi? —
    Due volte.


DAI MANOSCRITTI DI CASTREN

    Gente cattiva fa schiamazzo
    E va gridando con voce odiosa.
    Tacete qui nel nostro paese,
    Non dovete far molti passi
    Su queste travi.
    I vermi della terra
    Presto vi scaveranno i vostri luoghi (_occhi?_)
    E gli animali della foresta vi porteranno via
    Se voi incominciate
    Ad aprire la porta della nostra capanna.
    Lascia chiusa,
    O straniero, la porta.
    Noi siamo gli abitanti di questo paese,
    Voi siete abitanti di.....?
    Erranti verso......?
    Noi vi odiamo:
    Voi distruggete e scompigliate
    I nostri luoghi di caccia
    E noi abbiamo poco bottino
    Per cagion vostra.
    Voi altri avete molti bambini rapiti,
    Noi abbiamo molte abitazioni.
    Ora voglio io andare errante,
    Andate anche voi
    In un altro luogo. Se voi venite
    In vicinanza di una comoda pietra,
    Mettetevi a dormire.
    Allora io vedrò
    Se voi dormite,
    Come le pietre scivolano davanti a me,
    Come le renne corrono verso di me.
    Non movetevi prima
    Che queste pietre
    Vi tocchino
    E allora movetevi per vedere.
    Io ho già portato molte renne
    E ho legate loro solidamente le zampe.
    Esse non posson più
    Correr via dinanzi a voi.
    Prendete una grossa pietra
    E una bianca pietra.
    Vi si portano degli orsi,
    Uccidete questi.

    Noi abbiamo veduto un gran mucchio (_di uomini_)
    Ed ora ci si prendono ai nostri Dei
    I prodotti della natura, il denaro,
    L’oro e l’argento.
    Egli dà agli altri di queste cose,
    Noi lo abbiamo onorato (_il Dio_)
    E ciò non gli ha procurato alcun vantaggio.
    Noi raduniamo
    Corna di renne e ossa di orsi,
    Ed egli?
    Ora noi possiamo
    Andare in collera col nostro Dio,
    Dacchè egli ci disprezza:
    Noi portiamo via le corna.
    Noi lo abbiamo unto
    Col grasso d’orso,
    Col grasso di renna.

    Andiamo lontano
    E cerchiamo un Dio buono,
    Finchè noi abbiamo trovato un Dio che ci dia caccia,
    Che noi possiamo servire,
    Che noi possiamo onorare.
    Là noi andremo ad abitare e ricercheremo
    Una pietra (_per il nostro Dio_),
    Là restiamo noi un istante
    E dormiamo per vedere
    Come sia fatto quel luogo,
    Se là noi possiamo
    Innalzare un Dio.
    Lasciateci dormire un istante;
    E se essi di nuovo si avvicinassero a noi
    Noi prenderemo pietre nelle mani,
    Noi tireremo coll’arco buono,
    Noi tireremo colle freccie di osso,
    Ciascun di noi con quanta fretta può,
    E così noi ci guadagneremo un luogo di caccia.

I tre canti seguenti furono raccolti da Fellmann durante il suo
soggiorno a Utsjoki dal 1819 al 1833.


DEL ROMBO

    Il rombo nuota
    Lungo il fondo del mare;
    È un pesce prezioso
    Grande e potente.
    Quando esso prende l’amo
    Appena può
    Un uomo robusto
    Tirarlo nella barca.


DEL SALMONE

    Il salmone nuota
    Lungo il fondo dell’acqua,
    Il potente pesce,
    Il prezioso pesce,
    Che si porta innanzi
    Anche se il fiume
    Penetrasse attraverso la terra.
    Così egli si porta sempre
    Alla punta (_sorgente_) del fiume;
    Egli diventa così nero
    E si cambia per modo
    Che mai più.
    Egli mangia
    Non una sola volta colla più grande fame.
    Egli ritorna
    In giù per la corrente
    Donde egli è partito,
    Nell’ampio mare
    Dove sono molti salmoni,
    E di nuovo diviene
    Così bianco
    Come era stato innanzi.
    Quando egli allora esce dal mare,
    Quando egli incomincia a mangiar le aringhe,
    Diventa grasso di nuovo,
    E appunto così
    Come era stato prima.


CANTO DEL LUPO

    Quando il lupo è satollo, egli canta: voi voi, la la,
    Lu lu, fam fam, huo huo.
    Quando egli si pasce di carne di renna, grida egli:
    Huo huo, vuva vuva.
    Digiuno di nuovo, incomincia a cantare:
    Vuoa vuoa.
    E quando ha finito, incomincia a correre
    Lungo i boschi.
    La volpe segue le orme del lupo
    E mangia ciò che trova.
    E incomincia a cantare:
    Uva uva.
    Questa è la sua melodia,
    Quando ha mangiato abbastanza;
    Questo è il suo ringraziamento,
    Quando ha riempito lo stomaco
    Coll’aiuto del suo sacro fratello.

    Anche la volpe polare segue
    In simile maniera le orme del lupo,
    Essa è molto sciocca.
    La volpe polare ha piccoli occhi
    E larga bocca, mangia anch’essa come l’altra.
    Poi corre via
    E si pone a dormire.
    La punta della sua coda è nera
    E puzza orribilmente.

    Anche il falco è un nemico,
    Che sparge le penne del francolino,
    Lo afferra e lo uccide,
    Mangia e incomincia poi a volare
    Gridando: Pir pir.

    Il gufo è un nemico
    Dei piccoli animali;
    Fra le fessure delle rupi grida:
    Tsir, tsir, tsir.
    Sono i lemming
    Quelli che il gufo afferra sulla terra.
    Li appende ai rami della betula
    E grida dalla cima
    Il gufo dagli occhi rotondi.

    Anche l’aquila è un nemico,
    Che porta via le giovani renne, gli agnelli e le lepri
    Ed anche i piccini degli uccelli acquatici,
    E vola anch’essa gridando:
    Harm harm harm.

    Anche il ghiottone è un animale
    Che segue le traccie del lupo,
    Manda un cattivo odore ed è nero.
    Quando ha trovato una carogna
    Se ne riempie lo stomaco e va a spasso
    Come un gelato norvegiano.
    Poi dà del vento e incomincia a gridare:
    Irru irru.


IL MIO CUORE ARDENTE

    Avanti tu vai pellegrinando,
    Ma i tuoi pensieri si volgono addietro:
    Dove è rimasta,
    Dove è rimasta
    La mia sposa?
    Lontana se n’è andato
    Il mio cuore ardente!


IL CANTO DEL GEMENTE KASKIAS

    Torajas, il grande mago,
    Torajas, il celebre mago,
    Che rapì dal nostro paese il bottino
    E ci lasciò la fame,
    Per cui noi non mangiamo più
    E non abbiamo più alcuna preda (_di caccia e di pesca_)
    Egli ci prese tutto il nostro bottino
    E se lo portò al paese di Kitteli[31].
    Ora noi non prendiam più pesci nell’acqua,
    Non più renne nei boschi,
    Nessuna preda mai più:
    Poichè vuote sono le alture del monte,
    Vuoti i boschi
    E vuote anche le acque.
    L’uomo cattivo portò
    La fame nella nostra bocca,
    E fu così perverso,
    Che tutte le nostre prede
    Portò via dal nostro paese.

    Non è ancor nato l’uomo,
    Nato nella nostra terra,
    Che le prede di nuovo
    Porti al nostro paese? —
    Ma ecco che già le porta,
    Il Dio ci riporta la preda
    Nelle acque e nei boschi.
    Grazie sien date al protettore della terra,
    Grazie al fondatore della terra,
    Grazie allo spirito protettore
    Molte migliaia di volte,
    Perchè Dio ci ha fatto grazia di nuovo,
    E ci ha riportato la preda.
    Onore e grazie insigni
    A te, o sovrano Iddio,
    Tu, che nell’acqua e sulla terra
    Riportasti la preda,
    Benchè l’uomo malvagio
    Portasse via la preda
    Il Dio sovrano la riportò
    Di nuovo a noi.
    Al buon Dio sieno grazie
    Molte migliaia di volte,
    A colui che portò la preda.
    Il cattivo uomo fu colui
    Che dalle acque, che dalla terra
    Ci rapì la preda.
    Torajas, il cattivo, il disutile uomo,
    Che il bottino portò via dal nostro paese
    E ci portò la fame.
    Torajas, l’uomo famoso
    Ci portò la fame.
    Egli mi picchiò mortalmente
    E sperò ch’io fossi morto.
    Ma io non morii
    E sono ancora in vita,
    Io non morii,
    Ma vivo ancora,
    In Dio io vivo ancora.
    In Dio è la mia vita,
    In Dio io dimoro
    Benchè l’uomo malvagio sperasse
    Che io fossi morto.
    Egli mi lanciò nell’acqua,
    Egli mi gettò nel fiume.
    Il luccio mi trovò,
    Ma io mi posi sotto il suo fegato.
    Il luccio mi prese in sua custodia,
    Egli mi pose sotto il suo fegato,
    Dove ci rimasi per un anno.
    Dopo però pose
    L’uomo malvagio le sue reti nell’acqua,
    Egli mi prese
    Ed io potei abitare una casa
    E in quella casa vissi tre anni.
    Dopo di ciò io andai a.....?
    Io venni a.....?
    Quando io giunsi a casa
    L’uomo malvagio mi uccise.
    Egli fece una cassa
    E mi pose dentro
    Ed io rimasi
    Tre anni nella cassa.
    S’incominciò allora
    A condurmi al cimitero.
    E tutti vennero,
    Anche il prete era presente,
    Io però parlai: — Non portatemi là,
    Io non sono morto ancora
    Benchè mi abbiano desiderato la morte. —
    E tutta la gente disse,
    Così come il prete:
    — Perchè un uomo vivo
    È stato messo nella bara? —
    Io risposi: — Non sono morto,
    Benchè mi abbian augurata la morte.
    L’uomo malvagio si rallegrò
    Che io fossi morto,
    Ma benchè egli sperasse
    Ch’io fossi morto,
    Io non lo sono
    Ed io vivo ancora,
    Ancora, ancora.

    Ah, se mio figlio venisse qui,
    Io non posso qui rimanere! —
    E il figlio venne subito,
    Venne volando come un gallo di montagna.
    Altri sarebbero venuti
    E avrebbero cotto mio figlio come un gallo di montagna,
    Ma egli disse:
    — Se io come un.....? fossi cotto
    Io non sarei morto. —
    E il padre si adirò assai,
    Ma il figlio si trasformò in un altro uomo.
    Il padre (_propriamente il vecchio_) disse:
    Mio figlio, perchè vieni tu
    In questa figura a me? —
    Il figlio replicò:
    — Se tu sei in collera,
    Quando io ti ho irritato,
    Io me ne ritorno
    Volando per la mia strada. —
    Egli incominciò a volar via,
    Ma il padre volò subito
    Dietro a lui in forma di un’anitra.
    Riportò il suo figlio indietro,
    E allora sedettero entrambi sulla terra.

_Il padre:_

    Non venirmi innanzi in figura d’uccello.

_Il figlio:_

    Io non sapeva, mio padre,
    Che tu mi avresti fatto cuocere. —
    E mentre essi così se la discorrevano fra di loro,
    Si diedero a leticare
    E ne nacque una discordia.
    Mentre essi così disputavano
    Il figlio si pose sopra un ramo d’albero
    E di là parlò così:
    — Tu ti sei dunque adirato con me, o padre?
    Dacchè tu sei tanto in collera con me,
    Io non ritorno più a te,
    Davvero, io non ritorno più a te.

_Il padre:_

    Chi occuperà il tuo posto,
    Mio figlio, se te ne vai?

_Il figlio:_

    Si occupi o no il mio posto,
    Io non ritorno più,
    Giammai,
    Giammai in questo mondo
    Ritornerò io a te.

    E così volò via il famoso figlio del mago
    E se n’andò,
    E il padre rimase solo.
    Perciò egli si adirò contro l’altro uomo,
    E l’uomo malvagio
    Portò via tutte le prede,
    Per cui noi non abbiamo più pesci nell’acqua,
    Non più renne nei boschi,
    Nessuna preda di sorta alcuna.

Il Donner nel darci il canto seguente, dice di aver omesso 160 versi,
che avevano poco interesse. È una contesa fra alcuni coloni, che
vogliono occupare un paese e l’antico possessore che è un mago. Le
idee pagane vi dominano come nel canto precedente. Per essere un vero
mago, bisogna innanzi tutto aver la forza di potersi trasformare in un
animale.


        _Il ladro:_

    Il mio Dio ora se ne è andato pellegrinando,
    Io ho preso i frutti della terra,
    Io ho raccolto l’erba e i frutti,
    Io mi son preso legno e pietre;
    Io non ho preso cosa alcuna che ad altri appartenga,
    Io ho preso solo sempre dei frutti della terra.
    Eppure un uomo venne a me
    E disse che io sono un ladro.

        _Il mago:_

    Tu non conosci i costumi del paese,
    Tu non sai che io son qui.
    Guarda le erbe e fa attenzione,
    Guarda i segni sugli alberi,
    Guarda anche l’erba in un’altra maniera.

        _Il ladro:_

    Qual uomo singolare sei tu,
    Non sei tu come gli altri uomini?
    O sei tu un Dio,
    Hai tu creato l’erba,
    Hai tu fatto gli alberi?
    Non sei tu polvere della terra?
    Tu strisci qual verme com’io faccio.
    L’erba non è tua,
    Le piante, le pietre non son nostre.
    Sii padrone delle cose tue.
    Buono è ciò che è buono,
    Ed io so ciò che tu sei
    Sulla terra, o nero mago.
    Rimani dunque sulla tua proprietà,
    Tienti l’erba, che tu hai piantato.

_Qui il mago manifesta il desiderio di rimanere tranquillo sulla sua
terra e fa delle minaccie, dicendo di essere un mago, a cui ubbidiscono
anche le malattie. Il ladro allora gli tiene un lungo discorso, nel
quale gli dice fra le altre cose:_ O povero mago, rendi i deboli
debolissimi, ma non me. In figura di uno scoiattolo, io posso correre
su e giù per gli alberi e tu non mi puoi ammazzare. Io faccio cadere
un albero sopra di te e tu rimani preso, o mago; mentre io, che sono il
ladro, divento padrone dell’erba e delle piante. Povero uomo, non farti
un Dio sulla terra; nei nostri canti tu non figuri che come un falso
Dio. Tu mi tieni per un ladro; ebbene il ladro ti cambierà in fumo(?).
_Allora il canto continua:_

    Il ladro e il mago lottano,
    Essi sen vanno
    Per fiumi e per laghi,
    Essi si arrampicano sugli alberi o sulle roccie.
    I vecchi hanno cantato
    I fatti singolari del mago.
    Il tempo viene, il tempo passa,
    I maghi sono seduttori,
    Essi allacciano insieme ricchi battezzati?
    Colle loro cattive azioni molestano,
    Nel tempo opportuno tacciono;
    Nel tempo di discorrere l’uno dice:
    Vieni anche tu vicino.
    L’altro se ne va, ritorna,
    Ma non può far nulla,
    Vien deriso come un prigioniero,
    Le sue dita sono diritte, immobili.

_Il ladro allora gli dice motteggiando, che ora può egli prendersi
l’erba, gli alberi e le pietre, dacchè egli se n’è dichiarato
proprietario. Il mago replica:_

    Rimani, rimani tu stesso proprietario,
    O ladro, dacchè sei divenuto padrone
    Di questi alberi, di queste pietre, di questa vita;
    Ma tu però allontanati,
    Vanne, donde sei venuto.
    . . . . . . . . . . . . . . . .
    Io sono, io sono sempre al disopra di te,
    Io vado, io prendo, io depongo,
    Io getto, io ti opprimo.

        _Il ladro:_

    Tu ti affatichi indarno, o povero mago.


IL TAMBURO MAGICO

    Questo (_tamburo_) gli eroi di un tempo
    Gli estinti padri
    Hanno forse battuto,
    Quando essi spaurivano le renne.
    Da lontani paesi portarono essi
    Le renne a questo colle,
    E vennero renne bianche
    Ed anche di nere come la pece.
    Qui forse hanno grugnito le renne,
    Qui hanno sbuffato.
    Gli uomini si sono curvati (_per mungerle_),
    Qui han risuonato i tiri del fucile.
    Qui si sono ammazzate
    Grandi e grasse renne femmine,
    Qui si è fatto cuocere il grasso
    E se ne son fatte anche salciccie.

A chiarire ancor meglio la psicologia dei nostri lapponi, aggiungerò
alcuni dei loro proverbii e dei loro indovinelli.


PROVERBII LAPPONI

(SADNEVAJASAK)

_Adde bädnagi ja gula baha sanid._ — Dà al cane e udrai cattive parole.

_Buöreb lä cagar giedast, go buojde mäcest._ — Meglio è una pellicola
(il magro) in mano, che il grasso nel bosco.

_Buöreb lä bitta njalmest, go havve oajvest._ — Meglio è una
screpolatura in bocca, che una ferita al capo.

_Buöreb lä jode, go oro._ — Meglio è andare che stare.

_Dam olbmast läk ämbo juonak go suonak._ — Quest’uomo ha più intrighi
che tendini.

_Dat, gäst gukkek läk dolgek, allagassi girda._ — Chi ha lunghe penne,
vola alto.

_Galle gaddest visaj, go avest vahag sadda._ — È facile avere sapienza
sulla riva, quando in mare succede una disgrazia.

_Garranasa bäsest matta gavdnujuvout majda njufcamoune._ — Nel nido del
corvo si possono avere anche uova di cigno.

_Go ciegnalis lä caue, de lä rukkas, bodne._ — Quando l’acqua è
profonda, il fondo è limaccioso.

_Havske guojbme vaned matke._ — Un aggradevole compagno accorcia la via.

_I goarpa goarpa ealmi cuokko._ — Una cornacchia non becca gli occhi di
un’altra.

_I läk jakke jage viellja._ — Un anno non è fratello dell’altro.

_I sat häppad niära gaske._ — La vergogna non morde più la propria
guancia?

_I sat oarre-gazza galloi baste._ — L’unghia di uno scoiattolo
non ferisce più la sua fronte. (Egli è fuori di sè per la gioia o
l’affanno).

_I bäjve nu gukke, atte igja i boade._ — Per quanto lungo sia il
giorno, viene però la notte.

_Ik galga calmetes gaope dakkat._ — Tu non devi comperare ad occhi
chiusi.

_Loge visasa äi nakas sanigujm ovta jalla sabmelazain._ — Dieci
sapienti non possono competerla a parole con uno stupido lappone.

_Oapes bahha lä buöreb, go amas buörre._ — Un cattivo amico è meglio
che un buono sconosciuto.

_Ovce visasa äi buvte buoddot ovta jalla._ — Nove saggi non possono
chiudere la bocca ad uno stolto.

_Ai läk buok vielljak ovta ädne cizid njammam._ — Non tutti i fratelli
hanno succhiato il petto della stessa madre.


INDOVINELLI

(ARVADUSAR)

Che cosa è più alto di tutti i monti e più basso dell’erica? Un
viottolo.

Va sempre errando con un piccolo carico sulle spalle e non è mai
stanco? La rôcca.

Prima che il padre sia mezzo pronto, il figlio è già nel bosco? Il fumo.

Di giorno in prigione, di notte in libertà? Le dita dei piedi.

Batte notte o giorno, ma non riceve spellature? Una campana, la campana
del renne.

Volto all’insù, vuoto, volto all’ingiù, pieno? Il berretto.

Chi è il più saggio di questo mondo? La stadera.

Sta sulla cima colla radice insù, o colla cima ingiù e la radice insù?
La coda della vacca.

Piede di pietra, fianchi di refe e testa di legno? La rete.

Il morto, che tira fuori i vivi dal bosco? Il pettine.

Una vergine, che siede sull’orlo della fontana col cappello sul capo?
L’angelica (non ancora sbocciata).

Senza copertura e senza suolo, ma pure pieno di carne fresca? Il ditale.

Va di giorno, va di notte, ma non trova mai la porta? Un orologio.

Che cosa è, che entra in un buco, ma ad un tratto si mostra a tre
buchi? Un uomo, che indossa un vestito lappone.

Che cosa può stare in una tana di sorcio e non può voltarsi in una
stalla di bue? Un bastone.

Che cosa è che va al fiume per lavarsi e porta le viscere a casa? Un
secchio.

Qual’è la creatura che sta più vicina all’uomo? Il pidocchio.

Erra nel bosco e nel bosco perde la coda? Un ago.

Mangia colla bocca e manda fuori colla nuca? La pialla.

Quattro sorelle guardano in un buco? Le punte delle stanghe della tenda.

Tu lo vedi, ma non lo puoi prendere? Il fumo.

Uno che guarda all’ingiù, mentre l’acqua va insù del colle? Un cavallo,
che beve.

Un uomo batte, cadono le pellicole e nulla si ode? La neve.

Il davanti come una botticella, il mezzo come una tinozza, il didietro
come una granata? Il cavallo.

Un uncino all’insù, un uncino all’ingiù e una piegatura nel mezzo? Gli
uncini di ferro coi quali si appendono le pentole.

Un corvo marino che vola sul mare e dalle cui ali sgocciola il sangue?
Una barca in cui si rema.

Un cavallo nero trotta giorno e notte, ma i suoi zoccoli non si muovono
mai? Un fiume.

Un uomo di cent’anni e colla testa di una notte? Un tronco d’albero,
sul quale è deposta neve fresca.

Piccolo come un uovo ma è impossibile vedervi il fondo? Il cuore
dell’uomo.

Appena più grosso che il filo di una rete di salmoni, ma la luce del
giorno non lo vede mai? Il midollo degli alberi.

Chiuderemo quest’antologia lapponica, dando alcune novelline tolte dal
Frijs[32].


IL GIGANTE CHE AVEVA NASCOSTA LA SUA VITA NELL’UOVO DI UNA GALLINA

(DA UTSZOK)

Una donna aveva un marito, che durante sette anni era stato in guerra
con un gigante. Quella donna piaceva al gigante, il quale avrebbe
volentieri levato di mezzo il marito per prendere la moglie per sè.
Dopo sette anni riuscì finalmente al gigante di uccidere l’uomo. Ma
questi aveva un figlio. Quando il figlio fu cresciuto, egli pensò al
modo di vendicarsi del gigante, che aveva ucciso il suo padre e sposato
la sua madre. Ma il giovane non poteva uccidere il gigante, qualunque
cosa tentasse e facesse riesciva vana. Pareva proprio che non vi fosse
vita nel gigante.

— Cara mamma — disse il ragazzo un giorno — sai tu forse dove il
gigante nasconde la sua vita?

La madre non ne sapeva nulla, ma promise di domandarlo al gigante; ed
un giorno che questi era di buon umore, gli domandò dove fosse la sua
vita.

— Perchè mi chiedi ciò? — rispose il gigante.

— Perchè — disse la donna — se tu o io siamo in qualche pericolo, sarà
una consolazione di sapere che la tua vita è ben difesa!

Il gigante, che non aveva nessun sospetto, fece il seguente racconto
alla moglie:

— In mezzo ad un mare di fuoco vi è un’isola, sull’isola vi è un
barile, nel barile vi è una pecora, nella pecora vi è una gallina,
nella gallina vi è un uovo e nell’uovo sta la mia vita!

Il giorno seguente il ragazzo tornò dalla madre e domandò:

— Cara mamma, hai potuto sapere dove il gigante abbia nascosto la sua
vita?

— Sì, mio caro figlio — rispose la madre — egli mi ha raccontato, che
la sua vita si trova nascosta lungi di qua. In mezzo ad un mare di
fuoco vi è un’isola, nell’isola vi è un barile, nel barile vi è una
pecora, nella pecora vi è una gallina, nella gallina vi è un uovo e
nell’uovo della gallina sta nascosta la vita del gigante.

— Allora — disse il figlio — io debbo cercarmi dei servitori, coi quali
possa traversare il mare di fuoco!

Egli noleggiò un orso, un lupo, un falco ed un _ymmer_ (un grande
uccello di mare) e con questi partì. Egli stesso andò in mezzo al fuoco
seduto sotto una tenda di ferro; prese con sè sotto la tenda il falco e
l’_ymmer_, perchè non si bruciassero; ma fece remare l’orso ed il lupo.

Di lì viene che l’orso ha i peli bruno scuro, e che il lupo ha sul
manto delle macchie brune; perchè entrambi hanno fatto un viaggio in
mezzo ad un mare infuocato, le cui onde bruciavano come la fiamma.

Così arrivarono all’isola dove doveva essere la vita del gigante.
Quando furono giunti all’isola ed ebbero trovato il barile, l’orso gli
diede una zampata e lo sfondò. Dal barile saltò fuori una pecora. Ma
il lupo inseguì la pecora, l’afferrò e la sbranò. Dalla pecora volò
fuori una gallina. Il falco l’inseguì, l’afferrò cogli artigli e la
fece a pezzi. Nella gallina vi era un uovo e l’uovo cadde nel mare
ed affondò. L’_ymmer_ volò e tuffò in cerca dell’uovo. La prima volta
che tuffò, rimase molto tempo sotto, ma non potendo stare tanto tempo
senza respirare ritornò alla superfice. Dopo aver ripreso fiato, si
tuffò di nuovo, e rimase sotto più della prima volta, ma pure non trovò
l’uovo. Tuffò per la terza volta e rimase sott’acqua più delle due
volte precedenti e questa volta trovò l’uovo nel fondo del mare. Quando
il giovane vide che l’_ymmer_ aveva l’uovo nel suo becco fu pieno di
gioia. L’_ymmer_ portò l’uovo al giovane, questi raccolse delle legna
e fece un gran fuoco sull’isola. Mise l’uovo in mezzo al fuoco per
bruciarlo. Quando il fuoco fu ben acceso, egli tornò indietro. Egli
aveva ottenuto quello per cui aveva intrapreso il viaggio. Tostochè
fu giunto alla spiaggia dalla quale era partito, corse in casa, ed
allora vide che il gigante stava bruciando come l’uovo sull’isola. La
madre sua fu essa pure contenta, vedendo tornare il suo figlio dalla
pericolosa spedizione.

— Grazie, caro figlio, perchè hai trionfato della vita del gigante!

Vi era ancora un poco di vita nel gigante, mentre la madre ed il figlio
discorrevano insieme.

— Che follia fu la mia — esclamò il gigante — di lasciarmi indurre a
raccontare il segreto della mia vita a quella malvagia donna!

Allora il gigante afferrò il suo tubo di ferro (col quale soleva
succhiare il sangue della gente), ma la donna ne aveva messo una
estremità sul fuoco. Egli allora aspirò fuoco e cenere e quindi bruciò
di dentro come di fuori e tutte le parti del suo corpo, che poterono
bruciare, vennero distrutte dal fuoco. Finalmente il fuoco si spense, e
col fuoco si spense la vita del gigante.


LA DONNA DEL MARE (AVFRUVA)

(DA NAESSEBEGY)

Una bella notte di luna due fratelli andavano verso la spiaggia ad
aspettare una volpe, che soleva andar lungo la spiaggia a mangiar
pesci. Mentre stavano là seduti venne fuori dal mare una _Havfrue_
(Sirena?) e sedette sopra uno scoglio poco distante dalla spiaggia. Il
più giovane dei fratelli si preparò a tirarle, ma il maggiore lo impedì
dicendo:

— Non tirare, potrebbe succederci disgrazia, se tu lo facessi.

Frattanto l’_Havfrue_ sedeva sulla pietra, scioglieva i suoi lunghi
capelli e li pettinava.

Il fratello più giovane volle di nuovo tirare, ma il maggiore lo
sconsigliò, dicendo:

— A cosa pensi, non puoi lasciarla in pace: essa non ci fa nessun male,
perchè vorresti tirarle?

Ma il giovane non si curò di quello che gli diceva il maggiore, egli
alzò il cane e prese di mira la _Havfrue_.

Il maggiore vedendo ciò gridò:

— Guarda te, _Havfrue_, tu sei in pericolo!

Nel medesimo momento l’_Havfrue_ saltò in mare, ma tornò fuori un po’
più distante e gridò al fratello maggiore, che l’aveva salvata:

— Vieni qui domani a quest’ora, che tu non te ne pentirai.

I due fratelli tornarono a casa, ma la sera seguente il maggiore escì
solo e sedè là dove era seduto la sera avanti. Non era molto che stava
là, quando giunse una volpe nera ed egli la uccise. Tosto dopo venne
anche l’_Havfrue_ dal mare, si sedette sul medesimo scoglio e gridò al
giovane di venire anche esso.

— Non hai da temer nulla — aggiunse — non ti farò alcun male!

Il giovane fece come gli veniva comandato.

— Sediti ora sulle mie spalle — disse l’_Havfrue_ — e nascondi il
naso e la bocca sotto i miei capelli, affinchè tu non venga soffocato,
mentre ti condurrò attraverso alla profondità del mare alla dimora di
mio padre.

Il giovane fece così. Allora l’_Havfrue_ tuffò nel mare col giovane, e
quando furono giunti al fondo del mare, essa prese un’àncora e la diede
al giovane e disse:

— Quando saremo arrivati nella casa di mio padre, questi vorrà provare
la tua forza, ma egli è cieco e per questo non gli devi dare la mano,
ma gli devi stendere l’àncora.

Essi arrivarono al luogo ove abitava l’_Havfrue_ e lì non vi era nè
l’acqua, nè buio; la luce vi era chiara come sulla terra e l’acqua
stava al disopra di loro come una vôlta. Quando il giovane stese
l’àncora e disse buon giorno, il padre dell’_Havfrue_ la strinse con
tanta forza che le branche si piegarono. Il padre e la figlia dettero
al giovane un monte di argento e l’_Havfrue_ vi aggiunse ancora una
gran coppa d’oro, che una volta era stata sopra la tavola di un re.
Essi quindi tornarono nel modo stesso che erano venuti fino al punto da
dove erano partiti.

Il giovane diventò un uomo considerato ed ebbe sempre fortuna sul mare;
il fratello minore che aveva voluto tirare all’_Havfrue_, appassì come
un albero bacato. Tutto quello che intraprendeva e faceva gli riescì
male e non ebbe più alcuna fortuna sulla terra.


IL RAGAZZO POVERO, IL DIAVOLO E LA CITTÀ D’ORO

(DA KARASJOK)

Vi erano una volta un uomo povero ed un uomo ricco, che erano vicini;
l’uomo povero era molto indebitato col ricco vicino. Un giorno andavano
fuori entrambi in barca per pescare. Il ricco fu fortunato; in poco
tempo riempì la sua barca di pesci e ritornò alla spiaggia. L’uomo
povero rimase sul lago, ma non potè prendere un solo pesce; finalmente
dovette tornare indietro esso pure, ma mentre remava, la barca incagliò
e nello stesso momento sentì una voce sotto la barca che diceva: «Se
tu mi prometti quello che la tua moglie porta sotto il cuore, diverrai
ricco come il tuo vicino.» L’uomo lo promise. «Getta la lenza» disse
di nuovo la voce. Così fece e tosto sentì mordere il pesce. Era molto
pesante, ed a stento potè tirar su il pesce; ma quando l’ebbe avuto
nella barca, escirono fuori dalla sua bocca una quantità di monete
d’oro. L’uomo gettò di nuovo la lenza e prese subito un altro pesce. Da
questo non escirono monete d’oro, ma in poche ore ebbe la barca piena
di pesci, ed allora se ne tornò a casa. Quando entrò, vide la sua casa
piena di oggetti di valore. Egli domandò alla moglie donde tuttociò
era venuto, ma essa non ne sapeva nulla. Essa aveva dormito e quando
si era svegliata aveva visto tutte quelle cose. L’uomo andò subito dal
suo vicino e gli pagò in una volta tutto il suo debito. L’uomo ricco
ebbe paura e pensò che quei denari dovevano essergli stati rubati.
Egli cercò in tutti i suoi nascondigli, ma trovò che nulla gli mancava.
Quando l’uomo tornò dalla sua moglie, questa gli disse che era incinta.
L’uomo non lo sapeva, ma la cosa era così, e quando venne il tempo,
venne al mondo il suo primogenito. Quando il ragazzo ebbe otto anni,
fu mandato a scuola dal prete; il ragazzo era grande per la sua età,
ed imparava con facilità. Il giorno che compì i suoi quindici anni,
il diavolo arrivò in una barca, che somigliava ad una fiamma verde,
per portar via il ragazzo. Quando videro arrivare la barca, il prete
cominciò a scrivere una lettera che il ragazzo doveva portare con sè.
Allora il ragazzo andò giù verso la spiaggia incontro al diavolo, e
quando questi gli disse: — Vieni con me, ragazzo mio, vieni nella mia
barca — il ragazzo stese la lettera al diavolo. Il diavolo non ardì
toccarla; fintanto che teneva la lettera in mano, si grattava la testa
ed era imbarazzato.

— La magagna sia del prete — disse il diavolo — che è causa che io non
possa prendere il ragazzo! Prendi quella barca e vieni con me sul lago!
Il prete stava a guardare.

— Prendi pure la barca e va con lui sul lago! — disse il prete.

Quando furono sul lago, venne un gran temporale, cosicchè il ragazzo
dovette lasciar portare la barca dal vento. Il diavolo allora
volle, che il ragazzo passasse nella sua barca, ma ogni volta che si
avvicinava a lui, il ragazzo gli presentava la lettera. Finalmente
il diavolo si arrabbiò tanto, che se ne ritornò di nuovo sotto forma
di una fiamma verde da dove era venuto. Il ragazzo seguitò ad essere
spinto dal vento e dalle onde. Finalmente arrivò ad un paese totalmente
ignoto, ma sulla spiaggia era un palazzo reale che splendeva come
l’oro. Il ragazzo entrò per una porta, sulla quale era una iscrizione
in lettere d’oro, ed entrò in cucina. La ragazza di cucina gli disse di
non parlar forte, perchè la padrona di casa era lì vicina e dormiva.
Ma il ragazzo andò avanti e nella camera seguente trovò la cameriera.
Questa gli proibì pure di parlar forte, perchè la sua padrona era nella
camera attigua e dormiva. Il ragazzo però andò avanti fin nella camera
della padrona stessa, e vide che questa era ancora più bella della
cuoca e della serva. Essi parlarono insieme per un pezzo e s’intesero
per sposarsi. Ma il ragazzo disse, che avanti di maritarsi doveva
andare a visitare il suo padre e il suo padrino, il prete: — Se sapessi
solamente — soggiunse — dove devo andare per trovarli.

— La cosa è facile — disse la sposa. — Qui al mio dito ho un anello col
quale si può avere quello che si desidera e andare dove si vuole!

Il ragazzo prese l’anello della sua amorosa, se lo mise al dito ed
espresse il desiderio di tornare da suo padre e dal prete. Nello stesso
momento vi giunse. Egli raccontò tutto quello che gli era successo
dal momento che li aveva lasciati, ma nessuno gli voleva credere. Egli
mostrò l’anello che aveva al dito, ma pure non gli volevano credere.
Finalmente la sera, quando ebbero cenato dal prete, il giovane non
potè più tenersi, quantunque la sua amorosa glielo avesse severamente
proibito, dicendogli: «Tu non mi devi desiderare la dove sei tu con
i tuoi!» e disse: «Potesse essere qui la cuoca per sparecchiare la
tavola!» Nel momento la cuoca comparve e portò via il piatto che stava
davanti al ragazzo e sparì. Quando fu l’ora di andare a letto, il
ragazzo disse di nuovo: «Potesse venire ora la cameriera a prepararmi
il letto!» Essa arrivò tosto e gli rifece il letto. Il giovane andò
a letto e formò il desiderio: «Potesse ora venir la mia fidanzata a
riposare al mio fianco!» La sposa comparve all’istante, abbracciò il
giovane e lo baciò. Ma al momento stesso gli prese dal dito l’anello,
escì e non si vide più. Il giovane cominciò ben presto ad avere tal
desiderio della sua amante, che abbandonò suo padre e suo padrino e si
mise in viaggio in cerca della città d’oro. Egli arrivò da prima dal re
dei pesci:

— Buon giorno, nonno — disse il ragazzo, — mi puoi forse dare qualche
notizia sulla città d’oro?

— No! non ne so niente — disse il re dei pesci — ma radunerò i miei
pesci, forse qualcuno di essi ne saprà qualche cosa!

Egli fischiò per radunare i pesci, ma nessun di questi seppe dar
notizia della città d’oro. Lo _Stenbiten_ (_Anarrichas lupus_) non era
ancora venuto, ma finalmente arrivò anch’esso.

— Perchè arrivi tanto tardi? — domandò il re.

— La lontra mi aveva acchiappato — rispose lo _Stenbiten_, — fu a
stento che mi potei liberare!

Ma lo _Stenbiten_ non seppe dir niente neppur lui della città d’oro. Il
giovane andò avanti ed arrivò al re degli uccelli.

— Buon giorno, vecchio nonno — disse il ragazzo, — mi puoi dare nessuna
notizia della città d’oro?

— Non ne so nulla! — disse il re degli uccelli — ma chiamerò i miei
sudditi!

Egli allora fischiando riunì tutti gli uccelli, ma nessuno potè dir
nulla della città d’oro. Per ultimo venne il cigno.

Questi aveva deposte le uova e gli uomini avevano teso un laccio presso
il suo nido, nel quale era rimasto preso. Ne era escito a stento,
ma quando finalmente fu giunto non seppe dir nulla neanche lui della
città d’oro. Il giovane seguitò la sua peregrinazione senza sapere dove
andasse. Mentre camminava vide due figli di gigante che si battevano.
Il ragazzo si avvicinò a loro e domandò:

— Perchè vi battete? Si direbbe che siete due fratelli, ma se è così,
perchè vi battete?

— Sì, siamo due fratelli — risposero entrambi — e ci battiamo per un
berretto ed un paio di scarpe, che abbiamo avuto in eredità da nostro
padre.

Il ragazzo, che era accorto ed istruito, domandò cosa avessero di
particolare il berretto e le scarpe. Gli fu risposto, che quando si
avevano le scarpe, si poteva in un salto essere là dove si voleva e che
quando si aveva in testa il berretto, si diventava invisibili.

— Prestatemeli un momento — chiese il ragazzo — che vi possa provare se
è vero quanto mi dite!

I figli del gigante non vollero dapprima prestare la loro eredità al
giovane che essi non conoscevano, ma infine si lasciarono persuadere,
quando il giovane ebbe promesso di fare solamente due salti come prova.
Ma appena il giovane ebbe messo le scarpe e il berretto, andò d’un
salto alla città d’oro, e vide un gran bastimento dorato sul mare. Gli
dissero che quel bastimento apparteneva ad un figlio di re, il quale
era venuto a cercar moglie. Il giovane entrò senza essere veduto nella
reggia e vide e sentì il figlio del re, che chiedeva la mano della
sua amante. Egli rimase nascosto finchè venne l’ora di andare a letto.
Quando la sua amante andò a letto, vi andò pure il figlio del re e si
coricò al suo fianco. Nel momento che il figlio del re volle baciare la
sua sposa, il giovane gli dette un calcio sulla bocca. Il figlio del
re non potè capire cosa volesse significare un tal trattamento. Egli
si offrì di nuovo, ma ricevette un secondo colpo del duro stivale di
gigante che il giovane aveva nel piede.

— Perchè mi batti così? — domandò il figlio del re, meravigliato dei
modi poco amabili della sua bella.

— Io non ti batto niente affatto — disse la figlia del re; ma il
giovane che stava dietro alla sposa rideva per sè. Nello stesso momento
diede un nuovo calcio al figlio del re, cosicchè questi arrabbiato,
saltò su e ritornò al suo battello dorato. Aveva avuto abbastanza di
quella ragazza, pensò, e ritornò al suo paese. Il giovane si alzò pure,
escì e si levò gli abiti del gigante. Quindi tornò e cominciò così a
parlare colla figlia del re:

— Chi era quel forestiero che venne qua mentre io ero via?

— Era un figlio di re, che veniva a sposarmi — rispose la sposa.

— E perchè non l’hai sposato?

— Oh l’avrei preso volentieri — disse la figlia del re — ma egli ebbe
paura di me!

— E perchè ebbe paura di te?

— Non so donde viene, ma mentre eravamo accanto l’uno all’altro
assicurò che io gli davo dei calci sulla bocca invece di baciarlo, si
mise in collera e se ne andò. Io non lo seguii; sapevo di non avergli
fatto il minimo torto.

Il giovane allora ricominciò la sua antica corte, furono fatte le nozze
ed il ragazzo diventò padrone della reggia della città d’oro.




CAPITOLO SETTIMO

  IL MONDO SOPRANNATURALE DEI LAPPONI — PROFILO DELLA LORO
  RELIGIOSITÀ — CONVERSIONE DEI LAPPONI AL CRISTIANESIMO E
  FERVORE APOSTOLICO DEI MISSIONARII NORVEGIANI — STREGHE, MAGHI E
  PREGIUDIZII — LA MITOLOGIA LAPPONE SECONDO GLI ULTIMI STUDII DI
  FRIIS.


Il buon parroco norvegiano Knud Leem trova, che la prima virtù dei
lapponi è quella di essere religiosi: _Inter virtutes lapponum primas
merito tenet veri Numinis cognitio_. È naturale che quel bravo prete
così timorato di Dio si entusiasmi per la calda religiosità dei suoi
amici polari, benchè ne dia il merito principale al _divo_ Federigo
IV, che si occupò con molto amore della loro conversione. Prima di
questo re _immortale_, dice egli, l’ignoranza religiosa dei lapponi era
infinita e aggiunge come prova di questo, che uno di essi interrogato
come Cristo fosse asceso al cielo, rispondeva: _con due tavole di
pietra!_ (confondendo l’ascensione del Cristo con Mosè e le sue
tavole). Ecco le parole testuali di Knud: _Exemplum dabo crassissimae
ignorantiae, qua tunc temporis miserrima gens laboravit_.

Noi, meno credenti di Knud, e più psicologi che teologi, troviamo
strano come i lapponi abbandonassero senza alcuna lotta e quasi direi
senza alcun rimpianto la loro poetica mitologia, che era stata per
tanti secoli la religione dei loro padri e si facessero cristiani
senza spargere una goccia di sangue nè una goccia di lagrime. Mutarono
religione come avrebbero mutato il vestito e abbandonarono quasi senza
rimpianto i loro dèi, i loro tamburi magici, le loro mosche magiche,
tutto l’olimpo fantastico del loro cielo ideale per abbracciare una
religione monoteista ed altissima, nata sotto il cielo azzurro della
Palestina. Credo, dopo averli studiati, che domani si farebbero turchi
coll’eguale facilità, e sarebbero i più fervidi musulmani del mondo.
Egli è perchè sono docili, timidi e pieni di un nervosismo, che li trae
facilmente ad aver paura della forza o delle cose invisibili. Le loro
donne furono le ultime a conservare un culto per i loro idoli, ma oggi
non rimane più dell’antica mitologia, che qualche pregiudizio e qualche
rito appena disegnato nelle nebbie di una superstizione vaporosa e
indistinta[33].

La prima missione cristiana fu fondata in Lapponia nel 1714 e il
Knud, divenuto missionario egli stesso pochi anni dopo, trovava già
profondamente cristiani i suoi neofiti. Alcuni sapevano a memoria 36
salmi. Un vecchio più che settuagenario, di nome Nikka Kokko-gedda,
analfabeta, aveva imparato a memoria in brevissimo tempo le tre prime
parti del catechismo. Chiamavano i loro parroci col nome di _buorre
atzkie, buon padre_. Quando appariva loro dinanzi un prete, si levavano
immediatamente con molto rispetto, offrendogli ciò che avevano di
meglio, _ut lac rangiferinum congelatum, caseum, linguam et medullas
ejusdem animalis_; ringraziavano con parole calde il sacerdote che
aveva fatto la predica, dicendogli più e più volte: _Kiitos ednak
Ibmel sanest, molte grazie per il Verbo di Dio_. Non bestemmiavano
mai, in ciò superiori ai norvegiani (aggiunge il Knud) e moltissimi
fra loro non prendevano cibo senza prima averlo benedetto colle parole
_Jesusatzh sioned_ (benedici, o Gesù).

Molta parte di merito nella conversione dei lapponi è da attribuirsi
ai missionarii, i quali, animati da un santissimo fervore, si
sacrificarono per la loro nobile intrapresa, che fu anche opera di
moralità, dacchè è per essi che i lapponi lasciarono quasi affatto il
vizio dell’ubriachezza, che fino allora era stata la prima loro gioia.

Knud descrive con vera esaltazione il piacere di convertire i lapponi
al cristianesimo, mostrando nello stesso tempo, quali fossero i forti
travagli della vita di un missionario in quelle regioni polari. Allo
svegliarsi veder la brina del proprio fiato ghiacciato sulla pelliccia
del letto, trovar ghiacciato l’inchiostro anche presso il fuoco,
sentirsi ardere i piedi e gelar le spalle e veder disegnata colla
brina la forma del proprio corpo sulle pareti delle capanne, perchè il
corpo faceva da paravento per il calore del focolare: «Praeter omnem
opinionem deprehendi eam parietis partem, quae propter umbram corporis
mei vim calefantis ignis admittere non poterat, pruinam induisse,
meique quasi imaginem et simulacrum albo colore depictum, in pariete
retulisse.

«Nec molle et plumosum cubile in hujusmodi hospitiis Missionario
expectandum est, cui loco culcitae est hispidum corium rangiferinum,
super nudam humum, vel saltem super corrasa lignorum sarmenta expansum,
vestibus, quas cubitum iturus exuerat, loco pulvini suppositis. Ad
requiem qualemcunque ita compositus, ipsam nivem capita fere attingit,
exiguo unius duntaxat palum spatio ab ea remotus, cubat enim in
pavimento, pedibus focum versus exporrectis, capite autem parieti
proximo qui, quemadmodum supra observatum est, ima sui parte perpetuis
nivibus, tanquam vallo cinctus est et circundatur.» (Pag. 535).

E dopo aver descritto il piacere di viaggiare nell’inverno in mezzo a
turbini di neve che oscurano il cielo:

«Accidit praeterea, ut, saeviente frigore et multa nive cadente, genis
proficiscentium glacies incumbat, quae laminae instar, postea avellitur
et stiriae palpebris adhaerescant, digitis similiter avellendae, quod
incommodum admodum molestum est, iis praesertim, qui a teneris perferre
non didicerunt. Incommodis hisce et periculis tandem superatis,
pervenitur in tentorium, teterrimo fumo oppletum, quod sane haud
leviorem viatori molestiam creat; et, ut reliqua incommoda taceam, hoc
unum, memorasse sufficiat, efficere hunc fumum, ut facies hospitis, si
per complures dies hic commoratus fuerit, variis tuberibus intumescat.

«Et, ut paucis multa complectar, tot Missionarium lapponicum
circumveniunt et exercent incommoda, tot labores exantlandi, sive
frigus spectes, quod suo tempore paene intolerabile est, sive hospitium
in parvo et rimoso tentorio, sive denique alimenta consideres, qualia
sunt lac rangiferinum congelatum, fontana, eaque interdum frigidissima
et nive permixta etc. aliaque innumera, quibus recensendis vix
sufficio, incommoda respicias, ut speciali Dei providentiae, eique soli
tribuendum sit etc.»

Dice però che egli non vuole con queste tristi pitture sgomentare i
missionarii, perchè l’idea di far del bene e di far entrare in cielo le
anime dei lapponi basta a tutto.

«Enim vero qui gloriam Dei in tot animarum a tenebris ad lucem, a
potestate Satanae ad Deum, conversione promovendam unica respicit,
haec et alia, quae se circumvenire possunt incommoda, parum curat,
sed puro et sinceri Christi oviumque pretiosissimo ipsius sanguine
redempturum amore incensus quaevis molestias laetus adit, laetus
sustinet et superat. Quae initio dura sunt, uti assueveris, sensim
mollescunt, et profecto (absit omnis jactantia et vana coram Deo et
hominibus gloriatio) confidenter ausim asserere, me omni illo tempore,
qua pars aliqua missionis regiae in hisce oris eram, mea sorte adeo
contentum fuisse ut numquam magis. Si causam quaeris, praeter multas
alias et hanc accipe; esse lapponibus ingenia adeo docilia, mitia et
tractabilia, ut, quod in commercio cum aliis hominibus, sua et aliorum
opinione his multo politioribus, animum liberalem aequique amantem et
justi, haud raro offendant, et ad iram ac indignationem irritant, inter
lappones versanti non sint metuenda.»

Le streghe e i maghi furono gli ultimi a sparire dal mondo mitologico,
e non oserei dire che neppure oggi sia del tutto scomparsa la magia in
Lapponia; nè possiamo stupircene, quando ricordiamo la magia bianca
dello spiritismo, che si esercita anche oggi sotto i nostri occhi da
uomini serii e di buona fede.

Knud racconta molte confessioni di streghe, dalle quali apparisce come
queste donne credessero esse stesse agli straordinarii poteri, dei
quali eran dotate, sia per fare il bene che per fare il male. Alcune ad
esempio credevano di essere state nell’inferno e di aver avuti continui
rapporti col diavolo, altre confessavano di avere coi loro maleficii
fatto naufragar navi o perir vacche e bambini. Il buon Knud è disposto
a credere, che queste confessioni fossero il risultato di sogni o di
accese fantasie, fors’anche estorte dalla paura o dalla tortura; ma non
nega che anche l’arte magica possa essere della partita: «Artem tamen
magicam olim fuisse exercitam, minime nego, cum diabolus in infidelibus
efficax sit, et quis id, quod sacrae paginae luculentis dictis
exemplisque testificantur negare sustineret?»

Prima di segnare a grandi tratti l’antica mitologia lapponica,
raccogliamo le superstizioni e i riti, che regnavano ancora poco prima
del Knud e che possono valere a disegnarci la particolare forma di
religiosità che è propria dei lapponi.

Usavano una specie di sagrifizio in cui ardevano in una _cymbula_
pezzetti di carne, di cacio, di burro e di viscere di renne.

Si credeva, che taluni uomini avessero il potere di lanciare da lungi
piccole freccie avvelenate di piombo per vendicarsi dei proprii nemici.
Queste freccie producevano malattie gravi o contagiose.

Si tenevano lontani i lupi, gridando o piuttosto urlando il canto
_juvigen_:

«Kumpi! don ednak vahag lekdakkam, ik shjat kalka dam paikest orrot,
mutto dast erit daakkan maibme kietzhjai mannat, ja don kalkak dai
patzhjatallat daiheke jetzhja lakai hawanet»

«Lupo, autore di molti mali, non rimaner più qui, vattene lungi di
qui agli ultimi confini del mondo. Altrimenti o sarai trafitto dalle
freccie o in qualunque altro modo perirai.»

I maghi, per scoprire il ladro, mettevano dell’alcool in una _obba_,
e dicevano di sapervi vedere il ritratto del colpevole. Che s’egli non
avesse reso le cose rubate, perderebbe un occhio o un membro. A rendere
più solenne questo esorcismo, il mago urlava durante la sua inchiesta;
e il ladro lappone, assai più ingenuo dei nostri, si rivelava spesso e
restituiva ciò che aveva involato.

Agli antichi lapponi era giorno sacro il giovedì; con minor frequenza
anche il sabato e il venerdì. Nei giorni creduti sacri era proibito
cacciare e pescare.

Rispetto alla menstruazione avevano usi molto simili a quelli degli
antichi ebrei. Quando una donna aveva il flusso mensile, il marito
non poteva dormire con lei e neppur toccarle gli abiti. Essa non
poteva scavalcare colle gambe un fucile giacente sul suolo, nè montare
sul tetto della capanna, nè munger le vacche, nè passare presso la
spiaggia, dove si mettevano a seccare i pesci.

Non mangiavano mai carne di porco, credendo che quest’animale fosse il
cavallo dei maghi.

Non andavano a cacciare o a pescare dove erano chiese.

Non nominavano mai o quasi mai l’orso col proprio nome di _guouzhja_,
temendo di offenderlo e di irritarlo a maggiori stragi. Lo chiamavano
invece _vecchio dalla pelliccia, moedda-aigja_. L’orso ucciso era
condotto quasi in trionfo a casa, ma si costruiva una speciale capanna
per riceverlo, dove doveva esser cotto e dove nessuno entrava prima
di aver mutato gli abiti. Era mangiato quasi unicamente dagli uomini,
e solo qualche pezzetto era portato alle donne, badando che non fosse
però degli arti posteriori. Questo scarso tributo non poteva esser
portato loro attraverso la porta della capanna, ma sollevando in un
angolo riposto un lembo della tenda. Le ossa dell’orso si seppellivano
e per tre giorni uomini e donne vivevano isolati.

Quando si fondevano le palle per il fucile, si pronunziavano parole
oscene.

Chi prendeva uno _Sturnus cinclus_, lo conservava vivo o morto, come un
talismano, che portava fortuna.

Era grande fortuna potersi mettere sotto un albero, dove cantava un
cuculo e rimanervi prima che fosse volato via. Era pure di ottimo
augurio il trovarne le uova.

Trovar pietre singolari per grandezza o per forma significava che
qualcosa di strano doveva accadere.

Il tuono spaventava i maghi e li uccideva; donde il proverbio: _Se non
vi fosse il tuono, i maghi distruggerebbero il mondo_. Si credeva che
i maghi inorriditi dal tuono, corressero qua e là, finchè avessero
trovato un albero in cui nascondersi e appena rifugiati colà, il
fulmine incendiava la pianta maledetta.

Gli alberi fulminati avevano particolari virtù, ad esempio questa, che
una scheggia del loro legno curava il mal di denti.

Appena una donna si sentiva incinta, cercava nel cielo una stella,
che fosse vicina alla luna, e dalla maggiore o minore distanza dei due
astri traeva augurio sulla fortuna della gravidanza e del parto.

_Securi manubrium infigere in domo, ubi puerpera erat, nefas habebant._

Nel travaglio del parto bisognava badar bene che non vi fossero nodi
nelle vesti della partoriente, perchè ognuno di essi rendeva più
laborioso il parto. Gli abiti portati nel momento del travaglio non si
potevano portar più per tutto il corso della vita.

Le donne non potevano mangiare la carne della testa del renne e gli
ammalati non dovevano assaggiare la parte dello stesso animale, che
corrispondeva a quella che in essi pativa.

Durante la malattia si facevano spesso doni votivi alla chiesa vicina.
Morto il malato, si uccideva il renne, che serviva come animale da
tiro al defunto, e mangiatene le carni, si seppellivano le ossa. Si
abbatteva la parte della capanna, in cui si era deposto il cadavere e
spesso si abbandonava anche il luogo visitato dalla morte.

Per difendere il gregge dalle disgrazie si credeva utile sospendere al
fienile una testa di pecora involta di fieno e di lana. Si credeva pure
molto utile segnare una croce sui loro armenti[34].

Dopo aver segnato questi tratti sulla religiosità dei lapponi, daremo
alcuni cenni della loro antica mitologia, desumendola dagli studii
profondi di Friis.




MITOLOGIA LAPPONE


Dei _noaide_ dei lapponi ossia dei loro sacerdoti e medici

I _noaide_ avevano una parte importante nel culto pagano dei lapponi;
erano uomini intendenti di magia, di arti soprannaturali e facevano la
parte di sacerdoti, di indovini, di consiglieri, non che di medici.
Erano gli intermediarii fra gli Dei o il mondo degli spiriti e gli
uomini: potevano fare il bene ed il male. Essi erano numerosi, ma pochi
avevano grande fama; alcuni furono tanto celebri, che anche al giorno
d’oggi i loro nomi e le loro gesta sono consacrati nelle leggende
lappone.

I _noaide_ cadevano in una specie di sonno magnetico, durante il quale
la loro anima veniva condotta da un _sairro-gnolle_ o un _sairro-jodde_
(un pesce o un uccello del regno dei morti) là dove ricevevano i
responsi desiderati. Il Friis, quantunque ammetta che spesso quel sonno
potesse essere simulato, dice che i lapponi in generale sono soggetti
ad una grande nervosità osservata non solo dagli antichi, ma anche dai
recenti viaggiatori, per la quale sono facilmente presi da accessi
di furore improvviso, estasi, svenimento ecc., determinati da cause
piccolissime, come un rumore improvviso. Questo stato è così frequente
tra loro, che hanno una parola speciale per designarlo. Alcuni lapponi
dicono, che quella disposizione è loro venuta dall’essere stati
spaventati da giovani. Quella nervosità non è speciale dei lapponi,
ma si trova in altri popoli polari nomadi e che vivono in circostanze
simili. Friis racconta poi il modo col quale venivano iniziati i
nuovi sacerdoti coll’aiuto dei _noaide-gazze_, spiriti che erano al
servizio dei _noaidi_. I _noaidi_ conoscevano forse alcuni rimedii
per le malattie, ma ricorrevano per lo più a parole cabalistiche,
oppure facevano un viaggio nel regno dei morti per dissuadere questi
dal far del male al malato, essendo loro credenza, che i parenti morti
mandassero ai vivi le malattie o per punizione o per desiderio di avere
la loro compagnia. Alcuni _noaidi_ potevano distinguersi per qualità
speciali, e per questo aver nomi speciali. Così visse nel XVII secolo
un _noaide_ chiamato _Guttavuorok_ (che può prendere sei forme). Questa
proprietà di prender forme di animali si ritrova negli angakut dei
groenlandesi, nei tadibe dei samojedi e nei schamani dei finlandesi.


Degli _angakut_ dei groenlandesi

Gli _angakut_ dei groenlandesi corrispondono ai _noaidi_ dei lapponi,
ed hanno con questi una grande rassomiglianza. L’autore descrive i
loro ufficii, il modo col quale vengono iniziati, i loro viaggi nel
mondo di sotto, attraversando prima la terra o il mare, quindi il
regno dei morti, trovando poi nel suo palazzo (a guardia del quale
stanno delle foche e un grosso cane) la regina dell’inferno colla
quale devono lottare nel cielo (il regno delle anime) ove apprendono
lo stato e la sorte dei malati, e dove possono anche prendere per
questi una nuova anima, o guarirli col cucire alla loro anima l’anima
di un animale (poichè i groenlandesi s’immaginano l’anima come una
cosa dalla quale si possono levare e ricucire dei pezzi). Potevano
anche aprire un ammalato, levarne gli intestini, lavarli e rimetterli
al posto. Facevano questo in pieno giorno davanti a molta gente, e
tutti, compreso l’ammalato, erano persuasi che lo facessero davvero,
prova che erano abili giocolieri. Avevano come i _noaidi_ una lingua
convenzionale conosciuta da loro soli.


Dei _gobdas_ o _kobdas_ dei lapponi (_runebom_ in norvegiano)

Pare che tutti i _schamani_ dei popoli turanici abbiano adoprato
nell’esercizio delle loro arti uno strumento più o meno somigliante
a un tamburo. Questi tamburi avevano però forme diverse. Quelli
lapponi erano composti di una cassa di legno scavato, ovale o rotondo,
con incisioni per ornamento, con una pelle di renna tesa sopra. Su
questa erano disegnate tutte le divinità lappone, ognuna nella parte
dell’universo ove si credeva che avesse il suo regno.

Vi erano disegnati pure il sole, la luna, le stelle, gli animali
selvaggi, i pesci, gli stessi lapponi e le loro abitazioni, come pure
i norvegiani o cristiani e le cose che parevano loro più strane, tutto
insomma quello che poteva interessare il lappone, per cui il _runebom_
era la sua bibbia, il suo oracolo, la carta geografica del mondo che
conosceva o s’immaginava. Esistono ancora pochi _runebom_; 70 sono
stati distrutti da un incendio a Copenaga. Portavano appesi degli
anelli ed altri oggetti, specie di _ex-voto_ regalati al _runebom_ per
i responsi ricevuti.

Il _runebom_ dei lapponi mi richiama alla mente la pipa sacra dei
Payaguas, che ho illustrato nei miei viaggi e che ha lo stesso
valore psichico sotto una forma molto diversa. Anche in quella pipa
il povero selvaggio americano ha chiuso in piccolo spazio la natura
e la fantasia, il mondo dei sensi e quello della poesia, le cose
umane e le divine, quasi volesse concentrare tutte le forze naturali
e soprannaturali in quello strumento con cui voleva scongiurare la
malattia, quasi si studiasse di conoscere tutti gli elementi del creato
per combattere le battaglie contro la morte; fantastico accozzo di
puerili immagini e di sublimi aspirazioni, abbozzo grottesco d’arte, di
scienza e di fantasia[35].

Il mio ottimo amico prof. Pigorini ha scoperto ultimamente un tamburo
magico lappone, e lo ha acquistato per il Museo etnologico di Roma e
grazie alla sua squisita cortesia, ne posso dare qui il disegno. Anche
in questo vi è distinta la parte celeste dalla terrestre, e tu vedi
disegnati gli Dei, il sole, la casa dei cristiani, il renne e l’orso.
Nella tavola è disegnata anche la bacchetta magica, che però non è di
corno di renna, ma di legno.

   [Illustrazione: UN TAMBURO MAGICO LAPPONE Scala 10/100]


Del _coarve-vaecer_ e del _vuorbe_ o _vaeiko_

Il primo era la bacchetta di corno di renne scolpito in forma di T,
talvolta rivestita di pelle, colla quale battevano il tamburo. Il
_vuorbe_ era un anello di ottone con altri anelli minori in giro
o un triangolo di osso: esso rappresentava il sole, e quando si
voleva consultare il _runebom_ si poneva quell’anello o triangolo
sull’immagine del sole, che era disegnata sul mezzo del tamburo magico.


Dell’uso del _runebom_

Ogni volta che un lappone doveva intraprendere una cosa della menoma
importanza, un viaggio, una caccia, una pesca o chiedere consiglio in
caso di malattia, consultava il _runebom_. Pare che vi fosse uno di
questi tamburi magici in ogni famiglia, come v’è una bibbia da ogni
protestante. Solo nei casi più gravi si aveva ricorso all’intermediario
del _noaide_ per consultare il tamburo; altrimenti era il padre di
famiglia che lo faceva. Dopo molti preparativi e gesticolazioni si
poneva il _vuorbe_ (l’anello) sul tamburo e si cominciava a battere
sulla pelle colla bacchetta, finchè l’anello dopo varii salti e
movimenti si fermava sopra un segno del _runebom_ e non voleva più
andar via di là. Dal luogo in cui si era fermato l’anello si deduceva
la volontà degli Dei: se si trattava di viaggio e che l’anello si
fermasse sul segno del mattino o della sera, ciò indicava l’ora nella
quale bisognava intraprenderlo. Se si consultava per una pesca, il
fermarsi dell’anello in mezzo allo scompartimento ove era segnato un
lago con pesci, prediceva successo; se si fermava al margine di quello
scompartimento, il dio dei pesci voleva avere una offerta per essere
propizio; se non voleva andare in nessun modo da quella parte la pesca
non poteva riescire. Il _runebom_ aveva il suo posto in una divisione
speciale e sacra della tenda; nessuna donna lo doveva toccare, e
neppure passare per la strada sulla quale era stato portato, se non
voleva esporsi a morte o a qualche grande disgrazia.

Eccovi un racconto che si trova nel manoscritto di Naerö e che vi do
tradotto letteralmente:

«Il lappone Andrea Livortsen aveva un figlio unico Giovanni di anni 20,
tanto malato che nessuno credeva che la potesse scampare. Il padre che
era disperato adoprò tutte le _runerie_ o arti magiche che conosceva,
ma invano. Finalmente si decise di ricorrere al _runebom_. Egli stesso
era un gran _noaide_, ma trattandosi di cosa che lo riguardava tanto
da vicino, non gli era permesso secondo i suoi articoli di fede di
consultare da sè il _runebom_. Perciò mandò a chiamare il fratello
della sua moglie morta, che era abile quanto lui nelle arti dei noaidi.
Dopo le cerimonie preliminari, il cognato pose l’anello sul _runebom_
al suo posto, e cominciò a battere col martello. Ma vedi! L’anello va
tosto sul _jabmicuci-balges_, la via dei morti, proprio vicino al regno
dei morti. Il padre rimase costernato, tanto più quando vide che non
ostante i più forti colpi della bacchetta, accompagnati da ogni sorta
di scongiurazioni, non si voleva muovere da quel posto; finchè, secondo
il consiglio del cognato, promise di offrire ai morti un renne femmina.
Allora finalmente, tornato a battere sul _runebom_, l’anello si mosse,
ma non andò più in là del _ristbalges_, la via dei cristiani, per cui
il cognato battè di nuovo. Ma l’anello tornò di bel nuovo sulla via dei
morti. Questa volta il padre promise un renne maschio a _Mubben-aibmo_
(Satana), perchè suo figlio potesse rimanere in vita. L’anello si
mosse, ma ritornò alla via dei cristiani, nè vi fu verso di farlo
andare su quella parte del _runebom_ ove sono le capanne dei lapponi
(che sarebbe stato segno sicuro di guarigione). Il cognato battè per
la terza volta con molti esorcismi, ma l’anello tornò al suo posto di
prima, cioè alla via dei morti e vi rimase fisso, finchè il padre oltre
alle due renni fece voto di sacrificare un cavallo al _noaide_ del
regno dei morti, affinchè egli _runasse_ in modo tale da determinare i
morti a fare andare l’anello alla capanna dei lapponi, e così il padre
avesse l’assicurazione che il figlio vivrebbe. Ma questa volta venne
esaudito ancora meno delle altre: l’anello rimase fisso nella via dei
morti non ostante tutti i colpi, sicchè veniva predetta con certezza
la morte del giovine. Il cognato rimase sbalordito, nè poteva capire
come mai l’anello desse un prognostico peggiore, e gli Dei rimanessero
più inesorabili, dopo aver ricevuto tante offerte. Finalmente si
appigliò a questo consiglio: calò alla spiaggia e prese un sasso
allungato. Dopo aver consacrato quel sasso con molti esorcismi e
canti, lo appese davanti alla capanna; quindi si gettò davanti ad esso
colla faccia contro terra, e gli diresse una preghiera, chiedendo poi
a _Mubben-aibmo_ (Satana) da cosa derivasse, che l’anello non voleva
abbandonare la via dei morti, quantunque si fossero promessi doni
tanto splendidi a lui, ai morti ed ai _noaidi_ del regno dei morti.
Egli allora udì la pietra dargli questa risposta: che le cose promesse
dovevano essere offerte a lui e agli altri Dei nello stesso momento,
se no il ragazzo doveva morire, a meno che vi fosse un’altra vita umana
da offrire in vece della sua. Queste erano dure condizioni; perchè era
impossibile al padre di essere così sollecito nel suo pagamento come
lo chiedeva Satana, non avendo sotto mano nè le renne nè il cavallo
promessi; e dove avrebbe trovato un uomo disposto a offrirgli la sua
vita per salvare il suo figlio? Se dunque il padre voleva conservare il
figlio in vita, non aveva altro mezzo che di morire egli stesso; e si
risolvette volentieri a ciò. E tosto che ebbe preso questa risoluzione,
colla quale dimostrava un amore più grande pel figlio che per la
propria anima, il cognato battè di nuovo sul _runebom_ dove l’anello
stava ancora al suo primo posto; ma ora si rimosse e andò sulla capanna
lappone, il che profetizzava vita e salute per l’ammalato. Il più
strano di tutto è che il giovane cominciò tosto a star meglio, mentre
il padre nel tempo stesso divenne mortalmente ammalato e che il dopo
pranzo dell’indomani il figlio era completamente guarito, nello stesso
momento in cui il padre con una _misera_ morte rendeva la sua _misera_
anima al diavolo.

«Il figlio mostrò la sua riconoscenza al padre, secondo il desiderio
espresso da questi nei suoi ultimi momenti, offrendo alla sua anima
un renne maschio; affinchè nel regno dei morti potesse più comodamente
andare in giro là dove voleva.

«Il lappone Giovanni, al quale questo è successo cinque anni fa, e
che ora serve nella mia parrocchia in Helgeland, ha raccontato questa
storia, insieme ad altri lapponi e le loro mogli in mia presenza nella
mia casa nel gennaio del presente anno 1723[36].»

I _runebom_ non sono tutti compagni fra loro, sebbene abbiano molta
analogia. Ve ne sono di quelli ove le figure sono quasi tutte
prese dalle credenze cristiane ed appartenevano probabilmente a
lapponi ufficialmente cristiani, ma che di nascosto seguitavano le
loro pratiche pagane. Ora è completamente sparito tra i lapponi la
conoscenza del _gobda_ (_runebom_) del quale non conoscono neppur più
il nome. I lapponi erano rinomati presso ai loro vicini i finlandesi
per le loro arti magiche.


Il _gobda_ e il _sampo_

Friis dimostra come il _sampo_, l’arnese miracoloso celebrato in
diversi canti del _kalevala_ finlandese, che venne costruito dal
finlandese Ilmarino per potere ottenere in matrimonio la figlia di
Locchis, la più bella ragazza di Pohjola (Lapponia), del quale sono
state date molte spiegazioni, ma nessuna sodisfacente, non era che un
_gobda_ o _runebom_.


DEGLI DEI LAPPONI IN GENERE E DELLA LORO DIVISIONE IN CLASSI

È completamente falsa l’opinione, che la religione dei popoli turanici
fosse uno _schamanismo_, che cioè non credessero a potenze superiori
a quelle dei loro _schamani_ (sacerdoti). Si può assicurare invece,
che non si trova nessun popolo nè nei deserti dell’Asia nè nella
Tundra della Siberia, nè nelle regioni polari d’America, che non creda
alla esistenza di esseri o forze superiori agli uomini. I lapponi
specialmente adoravano moltissime divinità: tutto l’universo era per
loro pieno di Dei e Dee e oltre agli Dei elementari, ogni bosco, monte,
lago, sorgente ecc., aveva il suo _halde_ o spirito protettore. Secondo
Jessen si può ammettere, che i _noaidi_ lapponi dividevano le loro
divinità in quattro classi, che corrispondono alla distribuzione dei
disegni sui _runebom_, cioè in

  _Dei sopracelesti_;
  _Dei del cielo e dell’aria_;
  _Dei della terra_;
  _Dei dell’inferno_.


DEGLI DEI SOPRACELESTI

Pare che i lapponi non abbiano avuto alcuna idea della creazione.
Gli Dei sopracelesti avrebbero abitato nella regione delle stelle e
sarebbero stati un _padre_, che avrebbe avuto un potere superiore a
tutte le altre divinità, un figlio, potere esecutivo del padre, una
moglie del padre e una figlia; ma è probabile che questo concetto di
divinità superiori derivasse dalle credenze cristiane.


DEI DEL CIELO E DELL’ARIA

_Ibmel_, che significava cielo, era anche Dio del cielo, e venne poi a
significare divinità in generale. È lo stesso nome che danno adesso al
Dio, che i cristiani hanno insegnato loro a conoscere.

_Diermes_ o _Tiermes_ o _Horagales_ (che ha poi molti altri nomi nei
diversi dialetti lapponi) era uno degli Dei più antichi e più venerati,
e per questo si trova sopra tutti i _runebom_. Era il Dio del tuono
e del baleno, e comandava ai venti, alla pioggia, alla neve, al mare,
ai laghi: poteva fare il bene o il male degli uomini; farli vivere o
morire. Era armato di un martello e di un arcobaleno col quale lanciava
freccie. Egli proteggeva il _Noaide_, mentre questi era svenuto e la
sua anima andava nel regno dei morti, e quando il diavolo o gli spiriti
cattivi volevano impedire l’anima dal tornare nel corpo, li scacciava
col suo martello. Non gli si doveva sacrificare nessun’animale femmina,
nè alcuna donna doveva assaggiare la carne degli animali che gli
venivano sacrificati.

_Varalde olmai_ (uomo della terra). Lo pregavano per tutto quel che era
abbondanza di pesca, di licheni per le renne, di nascite nelle mandre,
di burro e di formaggio ecc., e lo pregavano anche perchè mandasse un
buon raccolto di grano ai cristiani, affinchè da questi potessero far
buona compra di farina, di birra, di acquavite e di tutto quello che
deriva dal grano.

_Bieggagales_ (Dio del vento). Lo pregano di calmare il vento quando
questo a primavera fa morire i vitellini delle renne al momento
della nascita, o quando sono in pericolo sul mare. Col mezzo del loro
_runebom_ lo legano con tre nodi: sciogliendo il primo ottengono vento
discreto; sciogliendo il secondo, vento assai forte; ma se si scioglie
il terzo, è inevitabile il naufragio.

Questi tre Dei, _Horagales, Varalde olmai_ e _Bieggagales_ erano i tre
grandi Dei dei lapponi.

La nozione dei _tre uomini santi_, che quasi servivano d’intermediario
fra i lapponi e i tre grandi Dei, pare derivata dall’adorazione
cattolica dei santi.

Erano _l’uomo della domenica, l’uomo del sabato_ e _l’uomo del
venerdì_. Ma parrebbe che avanti di venire in contatto coi cristiani
i lapponi dividessero il tempo in settimane e mesi (i nomi dei giorni
sono difatti tutti derivati dal norvegese), dunque questa credenza in
tre uomini santi devesi ritenere come di origine mista.


_Baeivve, Manno_ e _Nastek_

(Il sole, la luna e le stelle)

Pare che i lapponi siano stati grandi adoratori del sole. Era la sola
divinità alla quale offrissero olocausti sopra alcune pietre sacre
speciali. Friis crede, che la forma rotonda che i lapponi danno ad ogni
cosa derivi pure dall’adorazione del sole. Le tende, le capanne, gli
steccati per le renne, i cucchiai, i recipienti pel latte sono rotondi;
perfino le scarpe anticamente erano rotonde, e non è improbabile che
le madri, per l’adorazione che avevano di questa forma rotonda, che a
loro pareva la più bella, cercassero di rendere rotonda per mezzo di
fasciature anche la testa dei loro bambini. Un resto dell’adorazione
del sole si trova ancora nell’uso di spalmare di burro le pareti della
capanna, affinchè il sole lo possa struggere quando torna a farsi
vedere dopo la lunga notte d’inverno. Pare che adorassero anche la
luna.

_La luna e le stelle._ Al sole, come alla maggior parte degli Dei,
davano famiglia, moglie e figli, i quali però non venivano adorati in
modo speciale.

_Mader-acce_ è un Dio che si trova solo in un _runebom_ e del quale si
hanno poche notizie; abitava in cielo, ed aveva per moglie _Mader-akka_
e tre figlie, le quali però abitano in terra (il che va d’accordo
colla idea che i lapponi hanno, che le donne sono molto inferiori agli
uomini).


DEGLI DEI DELLA TERRA

Le tre figlie di _Mader-akka_

Ecco come i _noaidi_ spiegavano il modo nel quale nascevano gli uomini.
Il figlio del Dio supremo (sopraceleste) riceveva dal padre il potere
di creare l’anima e gli spiriti. Quando aveva creato un’anima, la
mandava a _Mader-acce_. Questi prendeva l’anima nel suo stomaco (che
per questo stava sempre aperto) e con essa faceva il giro del sole,
attraversando tutti i suoi raggi e scendendo per l’ultimo raggio sulla
terra, ove consegnava l’anima a _Mader-akka_ sua moglie. Questa la
riceveva in sè e formava intorno all’anima il primo embrione. Se doveva
diventare un maschio lo mandava alla sua figlia _Juksakka_, dea dei
maschi, se doveva esser femmina la mandava all’altra figlia _Sarakka_.
Quella di queste due figlie che l’aveva ricevuto, lo prendeva nel
suo corpo, ne determinava il sesso, e lo portava quindi alla donna
che doveva metterlo al mondo. Lo stesso era degli animali. Tutto ciò
si faceva tanto bene, che l’anima non poteva venire intercettata da
nessuno degli spiriti maligni. Questa idea doveva venire al lappone
dal suo modo di vivere, dovendo egli, popolo debole e circondato da
altri più guerrieri, ricorrere sempre all’astuzia per difendersi,
cercar di nascondersi, e nelle sue migrazioni far lunghi circuiti e
tentare di far perder la sua traccia al nemico[37]. Gli spiriti maligni
insidiavano all’anima nel suo viaggio per arrivare alla terra come gli
tschudi, i kareli o altri popoli perseguitavano i lapponi sulla terra,
e per questo _Mader-acce_ la doveva nascondere nel suo stomaco, fare
dei rigiri fra tutti i raggi del sole, prima di azzardarsi a scendere
sulla terra e farla arrivare attraverso ad altre tre divinità alla sua
madre terrestre. _Sarakka_ era una dea molto venerata da tutti, ma
specialmente dalle donne incinte. Nei primi tempi dell’introduzione
del cristianesimo i lapponi introdussero il battesimo e la comunione
nelle loro cerimonie pagane, trasformandoli a modo loro. Dopo che
un loro bambino era stato battezzato in chiesa ed aveva ricevuto un
nome cristiano, essi lo ribattezzavano nella loro casa in onore di
_Sarakka_, dandogli un nome lappone, col quale dopo lo chiamavano
sempre tra loro. Così prima di andare alla comunione in chiesa,
mangiavano e bevevano in onore di quella e di altre divinità.

L’altra figlia di _Mader-akka_, _Juks-akka_, aveva essa pure influenza
sui bambini, e sacrificando ad essa si poteva ottenere, che il feto
destinato da _Sarakka_ ad essere femmina potesse cambiar sesso. La
terza figlia di _Mader-akka_, _Uksakka_, soggiornava presso la porta
della tenda o della capanna, e sotto la sua protezione stavano i
bambini dopo la nascita.

A queste tre dee era rivolta una grandissima parte nell’adorazione dei
lapponi, e sono le sole delle quali rimanga ancora qualche ricordo.

Il Dio della caccia dei lapponi era _Laeibolmai_. Sotto la sua
protezione stavano tutti gli animali selvaggi e specialmente l’orso,
che fra loro come fra la maggior parte dei popoli affini, è un animale
sacro.

Pare che vi fosse una Dea, forse sua moglie _Barbmo-akka_, che
comandava a tutti gli uccelli di passo.

I lapponi credevano che nel mare, nei laghi, nei fiumi esistessero
esseri soprannaturali, che proteggevano i pesci, e sacrificavano loro
(per esempio gettando un po’ del loro cibo nell’acqua avanti i porti)
perchè permettessero che si pescasse nel loro dominio.

Oltre agli Dei della terra soprannominati vi erano degli spiriti
protettori degli oggetti, che i lapponi chiamavano _Haldek_, che essi
dovevano pure cercare di propiziarsi. Ogni bosco, pezzo di terreno,
rupe, cascata, fonte, ruscello, lago, insenatura del mare aveva il suo
_Haldde_. Quando un lappone, per es., voleva costruire la sua capanna,
doveva con una offerta rendersi propizio l’_Haldde_ del luogo. Quando
il lappone abitava solo in mezzo al deserto, era pure circondato da una
schiera di spiriti, coi quali i suoi pensieri e la sua fantasia erano
continuamente occupati. Questa credenza negli spiriti protettori esiste
ancora tra essi, e gli _Haldek_ prendono ancora una grandissima parte
nei loro racconti.

È generale la credenza tra i lapponi, che i bambini che, nelle nascite
clandestine vengono uccisi dalla madre, errano per i boschi e le terre
per molto tempo in cerca della loro madre, piangendo e lamentandosi.
Se alcuno li sente deve dare loro un nome, se no quelle anime non
battezzate non possono trovar pace. Questa superstizione forse ha
spesso impedito l’infanticidio in mezzo a quelle lande deserte dove
sarebbe tanto facile celarlo. Laestadius racconta, che si è trovato
qualche bambino ucciso colla lingua tagliata, affinchè non seguitasse a
perseguitar la madre coi suoi lamenti dopo morto.


DEI DEGLI INFERNI

La sola divinità dell’inferno che pare realmente lappone era
_Jabmi-akko_, la vecchia dei morti, che regnava sui morti. La nozione
del _Rota_, che abitava giù basso nella terra, ma veniva su per fare
il male degli uomini e degli animali, pare venuta dopo che ebbero
conoscenza del diavolo dei cristiani. I noaidi avevano il potere
di legarlo o scioglierlo. Ad esso si sacrificava un cavallo, che si
seppelliva intero in terra, affinchè _Rota_ potesse, quando faceva del
male sulla terra, ritornare su di esso a _Rota-aibmo_, la sua dimora
sotterranea.

I lapponi credevano anche a diversi altri spiriti cattivi, segnatamente
_Fudno_, che giù abitavano nella terra.

Il nome, che in oggi adoprano per designare il diavolo, è _Bergalak_ di
origine incerta.

Un altro essere molto cattivo, che i _noaidi_ adopravano per far
male agli uomini e agli animali, era un insetto chiamato dagli
autori norvegesi _Ganflue_ (mosca magica), che si trova disegnata
sopra quasi ogni _runebom_. Solamente i _noaidi_ più potenti avevano
a loro disposizione di queste _ganflue_, che essi facevano escir
fuori dal becco di un uccello magico. Erano tanto velenose, che gli
stessi _noaidi_ non le potevano toccare altrochè con dei guanti; le
conservavano in scatole, dalle quali le lasciavano volar via una alla
volta, quando volevano far danno a qualcuno; compiuta la sua missione,
la mosca tornava al suo padrone. Queste _ganflue_ si ereditavano e
si prestavano da un _noaide_ ad un altro. Specialmente le eruzioni
cutanee, i gonfi e tumori, lo sputare sangue, erano prodotti da queste
mosche[38].

Alcuni _noaidi_ avevano anche una bacchetta magica (_gandstar_), colla
quale potevano fare il male; altri sapevano costruire dei _tyre_,
palla leggera che lanciata sopra un uomo o un animale, che si voleva
offendere, produceva lo stesso effetto della mosca _ganica_. Il
_finskud_ (tiro finno) era un altro modo, col quale il _noaide_ sapeva
nuocere al prossimo. Esso faceva un’immagine della persona colla quale
era in collera, e quindi tirava una freccia contro questa immagine
nella parte del corpo che voleva render malata. L’arco col quale tirava
era piccolo e di corno di renna; le freccie di due specie, appuntate o
no secondo il genere di male che voleva infliggere[39].

Pare certo che i lapponi, anche prima di avere avuto sentore delle
credenze cristiane, credessero all’immortalità dell’anima e al
rinnovamento del corpo per gli uomini, non solo, ma anche alla
continuazione dell’esistenza degli animali. Essi credevano pure ad
una ricompensa ed una punizione dopo morte, ma forse questo è dovuto
a infiltrazione d’idee cristiane. _Saivvo_ era la dimora delle anime
beate. Era sotto la terra a piccola profondità, i lapponi vi vivevano
come sulla terra, ma più ricchi, più felici, insieme a tutti gli
animali che vi sono sulla terra.

Vi erano molti _Saivvo_, in ognuno dei quali abitavano pochi lapponi, e
andavano dall’uno all’altro come sulla terra con renne e cavalli.

Gli abitanti del _Saivvo_ potevano mostrarsi agli uomini sulla terra,
come i _noaidi_ potevano fare una visita al _Saivvo_. I parenti morti,
che erano nel _Saivvo_, erano in qualche modo gli spiriti tutelari di
quelli vivi. Ogni lappone aveva diversi di questi spiriti del _Saivvo_
a sua disposizione e più ne aveva, più era rispettato. Questi _Saivvo_
si ereditavano, non solo, ma anche si vendevano e compravano. Un
padre morendo, lasciava i migliori e più potenti _Saivvo_ al figlio
prediletto. Un matrimonio si considerava come felice, quando gli sposi
tra loro portavano in corredo molti _Saivvo_ o potevano sperarne molti
in eredità. I _Saivvo_ non prestavano i loro servigi gratuitamente, ma
dovevano ricevere in ricompensa dei doni.

Fra gli animali del _Saivvo_ tre specialmente erano al servizio
degli uomini e dei _noaidi_ ed erano i _Saivvo-loddek_ (uccello),
_Saivvo-gnolle_ (pesce o verme), _Saivvo-sarvvak_ (renne maschio).


_Saivvo-lodde_

Questi uccelli potevano essere di specie, grandezze e colori diversi.
Invocati con canti magici mostravano al lappone la via nelle marcie,
gli portavano notizie de’ luoghi lontani, lo aiutavano a stare a
guardia delle sue mandre ed altre proprietà, a ritrovare oggetti
perduti ecc.

Il sentire cantare certi uccelli, mentre erano ancora a digiuno, era
segno di disgrazia per i lapponi: per questo si dice che alcuni usino
la precauzione di tenersi sotto la testa sul loro giacile un pezzetto
di pane per mangiarlo appena svegliati e non essere colti in fallo
dall’uccello di cattivo augurio.


_Saivvo-gnolle_

I _Saivvo-gnolle_ erano diversi per grandezza, nome e colore, e si
trovano disegnati con forme diverse sui _runebom_. Solamente i _noaidi_
ne avevano al loro servizio e li avevano tanto più lunghi, quanto più
erano esperti nelle arti magiche. Se ne servivano per nuocere ai loro
nemici, o per scendere sul loro dorso nel _Jabmi-aibmo_ (regno dei
morti).

Si trovano ancora delle superstizioni, che sembrano resti della
credenza nel _Saivvo-gnolle_. Alcune parti dei serpenti sono ancora
adoprate come medicina dai lapponi. Un pezzetto infuso nell’acquavite
agisce come elisir d’amore.

Quando andavano alla pesca in certi laghi dalle acque chiare (dei
quali dicevano che avevano un doppio fondo) osservavano una quantità di
prescrizioni superstiziose, come di escire dalla porta di dietro della
capanna, di non aver con sè alcuna donna ecc.


_Saivvo-sarvvak_

Le renne maschie del _Saivvo_ erano al servizio di pochi _noaidi_;
essi le facevano combattere fra loro e il proprietario della renna che
rimaneva ferita ammalava o moriva.


_Jabmi-aibmo_

Era la dimora dell’oscurità, della peste, del pianto. Qui andavano i
cattivi, i ladri, i bestemmiatori, i violenti; questi erano i soli
difetti che per essi costituivano un peccato. Nel _Jabmi-aibmo_
regnavano _Rota_, la sua moglie _Jabmi-akko_ (la madre dei morti
che porta le malattie con sè) e _Fudno_. Ogni malattia veniva dalla
dimora di _Rota_ (_Rota-aibmo_) e proveniva da parenti morti, che vi
abitavano; per guarire bisognava sacrificar loro, o mandare un _noaide_
a cercar di placarli. Per guarire un bambino lo si ribattezzava, sicchè
dal numero dei nomi di un lappone si poteva dire quante volte era
stato ammalato da bambino. Il viaggio dei _noaidi_ al _Jabmi-aibmo_
non era sempre e unicamente per guarire un ammalato; qualche volta
lo intraprendevano per ottenere, che qualche antenato o parente morto
tornasse sulla terra per stare a guardia delle renne.

Quando un _noaide_ doveva intraprendere un viaggio nel _Jabmi-aibmo_,
radunava il maggior numero di uomini e di donne che poteva. Fra questi,
due donne dovevano essere in abiti di festa con cuffie di tela sulla
testa, ma senza cintura intorno alla vita. Queste donne, durante questo
ufficio, si chiamavano _Sarak_. Uno degli uomini presenti doveva pure
sciogliere la cintura e levarsi il berretto, ed a questo si dava il
nome di _Maerro-oaivve_. Quando tutto era pronto, il _noaide_ impugnava
il _runebom_ e cominciava a batter sopra e a cantare dei canti magici
a squarciagola. Tutti i presenti si univano ad esso con un forte e
continuo _jouigen_ (canto magico). Quindi il _noaide_ cominciava ad
evocare i suoi _Saivvo-gazzek_, le anime del _Saivvo_ che lo dovevano
aiutare. Prima evocava il _Saivvo-lodde_ (l’uccello) gridando: _Haette
dal gocco du matkai!_ (Ora ti devi mettere in via!). Quando questi
era arrivato, visibile naturalmente per lui solo, gli ordinava di
condurgli altri _Saivvo-gazzek_ e primo di tutti _Saivvo-gnolle_, il
pesce o il serpente. Quando erano arrivati tutti, il _noaide_ levava
il suo berretto, scioglieva la sua cintura e i legacci delle scarpe, si
metteva le mani davanti al viso, cadeva in ginocchio e dondolandosi col
corpo avanti e indietro, col _runebom_ in mano, cominciava e correre in
giro sui ginocchi con straordinaria rapidità e gesticolazioni strane.
Di quando in quando gridava: _Valmasteket haerge, saccaleket vodnos!
Si attacchi la renna, si metta il battello nell’acqua!_ Prendeva colle
mani e gettava in aria dei tizzoni di fuoco, mostrando che il fuoco
non lo bruciava, beveva acquavite, si picchiava sul ginocchio con
un’ascia, minacciando colla stessa dietro di sè, e portandola tre volte
in giro alle _Sarak_. Finalmente tutto quell’eccitamento combinato
col digiuno che aveva osservato per tutto il giorno avanti, agiva in
tal modo sul suo corpo che cadeva come morto, in modo tale che «non
si poteva udire nè vita nè anima in lui.» In quello stato rimaneva
un’ora. In quel tempo nessuno lo doveva toccare; non dovevasi neanche
lasciarsi accostare una mosca. Durante questo svenimento, la sua anima
viaggiava sul _Saivvo-gnolle_ verso il _Saivvo_ e il _Jaibmi-aibmo_
sotto la protezione di _Noragales_ e del suo cane. Mentre la sua anima
era assente, le _Sarak_ discorrevano tra loro a voce bassa, cercando
d’indovinare verso qual _Saivvo_ potesse essere andata. Quando nel
nominare i diversi _Saivvo_ (dei quali, come abbiamo visto, ve n’eran
molti con un nome speciale per ognuno) arrivavano a nominare quello nel
quale era andato lo spirito del _noaide_, questi cominciava a muovere
un poco la mano o il piede. Allora le _Sarak_ seguitavano a discorrer
tra loro, giuocando ad indovinare cosa faceva e come gli andava, ed
il _noaide_ cominciava a ripetere quello che sentiva dire dai morti
e quello che contrattava con essi nel mondo invisibile, o a rendere
oracoli, che si riferivano al da farsi nel caso presente.

Qualche volta il _noaide_ doveva sostenere dura lotta nel regno dei
morti col _Jabmek_, che non voleva lasciar partire il morto che voleva
avere per guardiano delle mandre, o che voleva assolutamente che
il parente ammalato lo venisse tosto a raggiungere; in quei casi il
_Saivvo-gnolle_ aiutava fedelmente il _noaide_ nella lotta.


_Basek_ dei lapponi, luoghi sacri, luoghi di adorazione e di sacrifizi

La fantasia dei lapponi colpita da qualche pietra o rupe di forma
strana lo attribuiva all’azione dei suoi Dei e i luoghi dove si
trovavano questi monumenti naturali, che chiamavano _Basse_, erano
i loro luoghi sacri, dove adoravano e sacrificavano, in piena aria,
quello che è la chiesa o il tempio per altri popoli più civili,
che hanno accomodato le cose più comodamente per sè e per i loro
Dei. Consideravano pure come _Basse_ alcuni luoghi ove cascata o un
ghiacciaio rendeva loro difficile il transitare colle renne, o luoghi
ove era successa qualche disgrazia o dove avevano avuta grande sfortuna
alla pesca o alla caccia. Colà sacrificavano a quel Dio, che pareva
loro esserne stato causa. Potevano esser luoghi sacri anche quelli ove
il lappone era stato fortunato; si chiamavano allora _Basse-varre_ e
lì si sacrificava parte della preda; ancora oggi molti luoghi hanno
conservato il nome di _Basse_. Questi _Basek_ potevano essere più o
meno conosciuti: potevano essere il luogo sacro di una sola famiglia
o di un distretto intero. (Ancora 20 anni fa si sa di un lappone che
aveva il suo idolo e vi faceva sacrifizi). Il rispetto dei lapponi
per i loro _Basek_ era molto grande; non costruivano le loro capanne
troppo vicine per non disturbare il Dio col pianto dei bambini, non vi
passavano davanti senza fermarsi e si avvicinavano sempre con tutti i
segni della riverenza, genuflessioni ecc.


I _Sieide_, idoli

In questi _Basek_ stavano gli idoli dei lapponi, che potevano essere
di pietra o di legno. Questi idoli rappresentavano la divinità;
forse anche qualche lappone credeva che vi risiedesse dentro, ma
tutto fa credere che non fossero veri idolatri. Questi _Sieide_ o
idoli non erano fatti ad arte: erano o le roccie di forma speciale
che si trovavano nei _Basek_ o pietre di forma strana trovate sopra
una spiaggia e portate nel luogo sacro ove simboleggiavano le loro
divinità. Ve ne erano per il solito diverse in uno stesso luogo.
Intorno ad ognuna si costruiva un muro di pietre e sopra uno steccato
di legno per proteggere gli oggetti sacrificati. In vicinanza
dell’idolo costruivano una specie di trespolo per deporvi le offerte.
Si trovano ancora resti di questi muri di cinta in molti punti in
Finmarkia, ma gli idoli sono spariti, distrutti o gettati via dai
missionarii e dai lapponi stessi. Solamente alcuni dei più grandi
di questi idoli foggiati dalla natura e troppo grandi per essere
rovesciati o portati via esistono ancora. Gli idoli di pietra fatti
dagli stessi Dei erano tenuti in molto maggior conto di quelli di legno
fatti dall’uomo.

Tutte le corna delle renne ammazzate venivano portate in dono agli Dei.
Si disponevano in cerchio come uno steccato intorno all’idolo; ancora
pochi anni fa si trovavano ancora di questi ammassi di corna (spariti
in oggi che le corna sono diventate articolo di commercio).

Gli idoli di legno erano fatti colla base del tronco o più spesso colla
radice della betula; la radice formava la testa, e colla base del
tronco foggiavano il corpo e le membra; erano alti circa un braccio
e mezzo o due, larghi uno; avevano la forma che alla stessa divinità
davano sul _runebom_. Questi idoli si tenevano per il solito nei boschi
ove erano costruiti dei grandi trespoli. L’idolo si metteva sopra
questo o accanto ad esso, le offerte sempre sopra. La massa di legno in
questi altari era qualche volta ingente.

Il missionario Kildal bruciò in Ofoten in 14 giorni 40 di questi altari
con tutti gli idoli e le ossa degli animali sacrificati. Questi sopra
qualche altare si trovavano in così gran quantità, che non si sarebbero
potuti portar via (non compreso l’altare) con cinque o sei cavalli.


DEI SACRIFIZI

Quantunque i lapponi sacrificassero in qualunque epoca, vi erano
certe stagioni in cui facevano dei grandi sacrifizi. Questo era verso
l’autunno, alla fine di settembre, quando essi sogliono macellare
il maggior numero di animali per mangiarli subito e per conservare
la carne seccata per la primavera quando non è buona la carne.
Probabilmente nel dicembre vi era un gran sacrifizio, perchè quel mese
si chiama in lappone _Bassemanno_, mese dell’arrosto. Per sacrificare,
il lappone chiamava un _noaide_, che conosceva tutte le cerimonie
che si dovevano fare. Questi si purificava con digiuno e abluzioni
dell’intiero corpo. Nei casi gravi, come di malattia mortale, poteva
darsi che si dovesse sacrificare tutto l’animale intiero e intatto;
allora non vi era banchetto. Ma in ogni altro caso si invitavano tanti
ospiti quanti ce ne voleva per mangiare tutta la carne dell’animale
sacrificato. Con abiti speciali in dosso e una corona di foglie e
fiori in testa, il _noaide_ si apprestava al sacrifizio, chiedendo per
mezzo del _runebom_ a quale Dio doveva sacrificare. Se era un renne
l’animale destinato si sceglieva senza difetti: messogli un filo di
colore diverso, secondo la divinità cui si dedicava, in un orecchio,
una corona in capo, tutta la compagnia andava al _Basse_, dove erano
le immagini degli Dei, avendo cura, prima di lasciar la capanna, che
fossero legati tutti i cani. A nessuna donna era concesso di aver che
fare coi sacrifizi fatti dagli uomini. Le donne non dovevano neppure
avvicinarsi al luogo sacro, nè attraversare il sentiero seguìto dagli
uomini e neppur guardare in quella direzione. (Le donne però potevano
fare sacrifizi minori in casa alle Dee).

Giunti al _Basse_, il _noaide_ immergeva il coltello nel cuore della
vittima, che cadeva morta dopo pochi minuti. Tutti insieme levavano
la pelle. Levati gli intestini, veniva raccolto un po’ di sangue in un
recipiente particolare ed il _noaide_ divideva l’animale alle giunture
senza rompere nessun osso: quindi levava il naso, gli occhi, gli
orecchi, il cuore, il polmone ed un po’ della carne di ogni membro e
quel che più di tutto importava, gli organi genitali, se era un maschio
e metteva tuttociò da parte come olocausto. Il resto si metteva in
una pentola. Pregato in ginocchio il Dio di accettare il sacrifizio e
di esser propizio, tutti mangiavano la carne, dopo di che pregavano
di nuovo. Radunate le ossa e rimesse in posizione si gettava sopra
il sangue, ed il _noaide_ a capo scoperto, strisciando sui ginocchi,
andava ad offrirle all’immagine del Dio. L’idolo stesso si spalmava col
sangue e gli occhi col grasso della vittima.


VARIANTI NEL MODO DI SACRIFICARE AI DIVERSI DEI E SULLA SCELTA E SESSO
DEGLI ANIMALI

Le donne sacrificavano quotidianamente alle Dee segnatamente
a _Sarakka_, che riceveva un pochino di tutti i pasti. Quando
abbandonavano un luogo, versavano un po’ della zuppa di latte in terra
per ringraziare di esser stati bene in quel luogo.

I lapponi facevano offerte anche ai morti. Spesso immolavano la renna,
colla quale il cadavere era stato portato alla tomba, e ne seppellivano
le ossa. Quando passavano dinanzi alla tomba d’un parente od amico
suolevano gettarvi sopra un pezzetto di tabacco o di qualche altra cosa
che potesse piacere al morto: nella bara mettevano diversi oggetti,
come arco, freccie, ascie, gli oggetti per accendere il fuoco, un po’
di cibo; forbici, aghi ecc. se era donna. Nella Lapponia russa, Friis
ha visto mettere sulla tomba, anche al giorno d’oggi, diversi arnesi
come ascia, coltello ecc.

Al Dio _Rota_ offrivasi qualche volta anche un cavallo.

Quando era stato promesso a un Dio un animale, bisognava che tutte le
ossa fossero conservate con cura e portate all’idolo o seppellite: se
un cane rubava uno di questi ossi, lo si uccideva e si sostituiva uno
dei suoi ossi a quello involato.


CERIMONIE PER LA CACCIA DELL’ORSO

L’orso era per i lapponi un animale sacro, che stava sotto la
protezione di _Laeibolmai_ (Dio della caccia).

Quando si accingevano a questa caccia, i lapponi non parlavano mai
dell’orso col suo nome (_guofca_) ma gli davano diversi epiteti come:
animale santo, nonno del monte, rospo del monte ecc. Le diverse parti
del suo corpo e tutto quello che si riferiva a tale caccia si esprimeva
con un linguaggio mistico speciale, inintelligibile per altri.

Le cerimonie, che cominciavano prima della partenza, seguitavano
poi per tutto il tempo della caccia, nella quale si portava anche un
_runebom_. Le donne non dovevano guardare l’orso ucciso che attraverso
un anello di ottone. Nelle tre notti, che tenevano dietro alla caccia
fortunata, gli uomini non dovevano dormire colle mogli. Mangiavano
la carne cotta in modo speciale, senza sale; alle donne si dava solo
la parte inferiore e dovevano mangiare il primo boccone attraverso
un anello d’ottone. Tutti i cacciatori dovevano poi purificarsi. Le
ossa si serbavano tutte e si mettevano in ordine in una fossa nel
luogo ove era stato cotto, insieme agli organi genitali. La pelle era
distesa sopra alcuni rami e le donne erano condotte davanti cogli occhi
bendati; allora si dava loro in mano un arco o un bastone e dovevano
cercare di colpire la pelle; e solo quando una di esse era riescita a
colpire (sarà il suo marito che ucciderà il prossimo orso) nel segno,
erano tutte sbendate e potevano per la prima volta guardare la pelle.
Così si compievano le cerimonie della caccia dell’orso.




BIBLIOGRAFIA


1

  OSKAR SCHMIDT. _Reise von Bosecop nach Torneo_ in MEYER’S
  _Volksbibliothek für Länder, Volker und Naturkunde_, B. 48.

L’autore è un naturalista e si occupava di infusorii. È forse per
questo che trova ridicoli gli svedesi che da Stocolma vanno ogni
anno a Matarengi per vedere nel dì di San Giovanni sorgere il sole a
mezzanotte.

«Quando si pensa, egli dice, alla lunghezza del viaggio, alla spesa
forte, quando si ricorda che la notte del 24 giugno può esser nuvolosa
quanto ogni altra e che il sole di mezzanotte di Matarengi ha lo stesso
aspetto del sole al tramonto, bisogna proprio avere una grande tendenza
al romanticismo per spendere _tanta fatica, tanto tempo e tanto denaro_
per un piacere, che consiste quasi tutto nella pura immaginazione.»!!

L’autore descrive bene alcune scene della vita finlandese; sono veri
bozzetti fiamminghi.

Interessante assai è quanto riguarda la flora generale dei paesi
percorsi.


2

  BOUCHER DE PERTHES. _Voyage en Danemarck, en Suède, en Norvège
  etc., fait en_ 1854. Paris, 1858.

È un libro pettegolo, è un giornale da viaggio che può interessare
l’autore, i suoi amici e pochi altri. È un lavoro leggero, superficiale
e che non si aspetterebbe da un uomo, che ha un posto eminente nella
storia della paletnologia.

  FILIPPO PARLATORE. _Viaggio per le parti settentrionali di Europa
  fatto nell’anno_ 1851. Firenze, 1854.

È minuto, è esatto, spesso prolisso; più fotografia che quadro; la
lingua sempre eletta, lo stile classico.

L’enumerazione delle piante occupa la parte migliore.

Le notizie sugli uomini scarse; importanti quelle che riguardano le
università, gli stabilimenti, l’industria, il commercio.

  KNUD LEEMS, _det Lappiske Sprog Beskrivelse over Finmarkens Lapper
  etc.; og_ JESSEN’S _Afhandling om de Norske Finners og Lapper
  Hedenske Religion_. Copenaghen, 1767. Grosso volume in-4, di pag.
  544, con 100 tavole incise.

È lo studio diligente dei lapponi fatto da un missionario, che passò
gran parte della sua vita fra di loro. Libro prezioso per l’accuratezza
delle osservazioni, la minutezza dei particolari e l’attendibilità
delle notizie.

Sono importanti soprattutto le notizie, che riguardano gli animali
della Lapponia e la religione antica dei lapponi.

Di fianco al testo danese vi è sempre la traduzione latina.

Le tavole sono di un’infantile ingenuità e rozzamente disegnate.

È un libro molto raro, che devo alla cortesia del dottore L. M. Borthen
di Tromsoë[40].

  GUSTAF VON DUBEN. _Om Lappland och Lapparne företrädesvis de
  svenske. Ethnografiska studier_. Stockholm, 1873, con tavole.

È la monografia più recente e più completa dei lapponi ed è il frutto
di lunghi e profondi studii. Le parti più importanti del libro sono
quelle che riguardano i costumi e le origini dei lapponi.




INDICE


  CAPITOLO I

  Note scandinave — Il lago delle bionde chiome —
    Copenaghen — I canali e i laghi della Svezia — Da
    Götaborg a Stocolma — Stocolma e gli svedesi — Un
    pranzo in casa di Retzius — Cristiania — Il sole di
    mezzanotte e le coste della Norvegia                       Pag. 7

  CAPITOLO II

  La gita a Öjungen — I primi lapponi                              43

  CAPITOLO III

  Lettere lapponiche dell’amico Sommier — Un bagno
    finlandese preso a Elvebaken — I lapponi a Kautokeino —
    Bozzetti lapponici                                             71

  CAPITOLO IV

  L’ambiente scandinavo — Il mare, il freddo e il silenzio — Il
    carattere degli scandinavi                                    103

  CAPITOLO V

  Storia naturale dei lapponi — Loro numero e loro nome —
    Ritratto dei lapponi fatto da un poeta e da un
    prete — Abitudini e costumi — Le slitte, le capanne
    e la vita nomade — Loro psicologia — Le nozze e i
    funerali — Organismo sociale ed economia politica — Loro
    industria — Origine dei lapponi                               115

  CAPITOLO VI

  Il mondo ideale dei lapponi — La loro poesia — I loro
    proverbi e indovinelli — Novelline                            181

  CAPITOLO VII

  Il mondo soprannaturale dei lapponi — Profilo della loro
    religiosità — Conversione dei lapponi al cristianesimo
    e fervore apostolico dei missionarii norvegiani — Streghe,
    maghi e pregiudizi — La mitologia lappone
    secondo gli ultimi studii di Friis                            267

  BIBLIOGRAFIA                                                    321


868. — Firenze, Tip. dell’Arte della Stampa.




NOTE:


[1] Il cartellone del 3 giugno 1879, che annunziava gli spettacoli e
i divertimenti, che si potrebbero godere nel Tivoli, aveva una nota
stampata in grossi caratteri che diceva appunto così: _Pubblicums
opmœrksomhed henledes paa Tulipanfloret_.

[2] NIELSEN, _Schweden und Norwegen nebst Führer durch Kopenaghen_.
Terza edizione, Jena, Gustavo Fircher, 1880.

[3] La _corona_ (Kr.) equivale a circa L. 1,50 e l’_öre_ ad un
centesimo e mezzo della nostra moneta.

[4] Anche in Scandinavia le belve vanno facendosi ogni giorno più rare.
Secondo Elis Sidenbladh furono uccisi nella Svezia:

                          ORSI    LUPI   LINCI   GHIOTTONI

  Dal 1865 al 1870         618    865     673     611
  Dal 1871 al 1875         259    229     526     504

Il renne selvaggio non si trova oggi che nelle parti più solitarie
della Lapponia ed anche l’alce è divenuto animale molto raro. Se si
trova ancora al sud di Cristiania, è perchè è difeso da una legge, che
proibisce di distruggerlo. E in quel paese le leggi sono ubbidite.

[5] In Scandinavia non ci sono accattoni. Vedi a questo proposito un
lavoro molto interessante _Sulla beneficenza ed assistenza pubblica in
Norvegia_, negli Annali di Statistica, serie 2ª, vol. 11, pag. 157.

[6] Un miglio quadrato corrisponde a circa 130 chilometri quadrati.

[7] Il nostro Bove trovò che i ciukci non usano occhiali, benchè molti
di essi abbiano gli occhi in tali condizioni da far pietà. Invece gli
indigeni delle coste americane polari e gli esquimesi usano occhiali
di legno con una strettissima fessura longitudinale, che non lascia
passare che pochi raggi luminosi.

[8] ECKER, _Einige Bemerkungen über einen schwankenden Charakter in
der Hand der Menschen._ (_Archiv., für Anthropologie_), MANTEGAZZA,
_Della lunghezza relativa dell’indice e dell’anulare._ (_Archivio per
l’Antropologia e l’Etnologia_, vol. 7, Firenze 1877, pag. 19).

[9] B. SEEMANN, _On the Anthropology of Western Eskimo Land etc._
(_Journ. of the anthrop. society_ 1864, pag. CCCIII).

[10] KNUD LEEM, op. cit., pag. 101.

[11] KNUD LEEM, op. cit., pag. 109.

[12] Leem racconta di aver percorso in una slitta lappone 88 chilometri
nello spazio di sei ore.

[13] In Kautokeino ed Enare diverse famiglie di lapponi hanno una razza
di cani che nascono senza coda. Naturalmente non è una razza propria,
ma quella particolarità proviene in origine da ciò che per dei secoli,
generazione dopo generazione, si è tagliato loro la coda finchè alcuni
individui finalmente nascessero senza. Questo è talmente inerente alla
razza adesso, che cani di quella razza, anche accoppiati con cani colla
coda producono dei piccoli che ne sono privi.

[14] L’abbiamo fotografato. Ebeltoft ci diceva che aveva duemila renne
e 4000 _sp. daler_ alla banca.

[15] È bello raffrontare il carattere dei ciukci con quello dei
lapponi. Anche quei fratelli orientali dei nostri buoni amici di
Scandinavia sono benevoli, teneri in famiglia; nè ladri, nè omicidi.
Se date ad un bambino un dolce o una leccornia qualunque, invita
fratellini ed amici a dividere il dono con essi. Nulla assaggiano
i figliuoli senza prima offrire ai genitori e ottenere licenza di
mangiare. Quei poveri fanciulli a sette od otto anni incominciano a
seguire le carovane, che vanno alla pesca della foca, a 9 o 10 anni
guidano già un _equipaggio_ di sette od otto cani; a 13 o 14 hanno
già un arpone, una lancia ed un arco, armi che non poseranno più fino
all’ultimo respiro. Son gente allegra e felice. I ciukci sono molto
ospitali e un tempo offrivano le loro donne al loro ospite. Ciò non
avviene più, benchè si debba dir che le donne ciukce non conoscono
affitto il pudore.

Anche i ciukci amano poco la musica e non hanno altri strumenti
musicali che un tamburo fatto colla vescica di foca ed una viola ad
una corda. Conoscono poche canzoni con ritornelli monotoni e dolci. Le
sole ragazze ballano e la loro danza consiste in piccoli salti, ora a
destra ed ora a sinistra, storcendo orribilmente gli occhi e gemendo e
soffiando come le loro belve e i loro cetacei.

Molte analogie esteriori si trovano fra i nostri lapponi e i ciukci.
Anche questi portano nell’inverno due vesti di pelliccia, una col pelo
all’infuori, l’altra col pelo all’indentro. Anch’essi, quando riposano,
sogliono con un rapido movimento ritirare un braccio o ambedue
le braccia dalle maniche, onde riscaldarle meglio. Anch’essi non
abbandonano mai il coltello, la pipa e la borsa di tabacco. Il nostro
Bove vide più d’una volta ciccare le donne dei ciukci e i bambini
lasciare il capezzolo materno per prendere in bocca la pipa.

[16] Lo schizzo psicologico che abbiam dato dei lapponi sarà giudicato
da taluno un po’ prolisso; ma noi speriamo che il ritratto sia
rassomigliante. In questi casi la concisione è sempre a scapito della
verità e basterebbe a provarlo il quadro dato dall’illustre Castren:
«Son gente lenta, malinconica e burbera. Sono accusati di invidia,
di implacabilità, di scaltrezza e di altri vizii inerenti a questo
carattere. Si lodano invece per il loro animo mite, per il loro buon
volere, per essere servizievoli ed ospitali, per il loro timor di Dio
e la loro continenza.» È questo un ritratto che può servire per molti
altri popoli!

[17] Fra gli altri Valdemar Schmidt combatte la credenza che i lapponi
abbiano abitato la Danimarca all’epoca della pietra.

Nel nord della penisola scandinava non si trovano _dolmen_ e i cranii
dei _dolmen_ danesi sono molto diversi da quelli dei lapponi. _Le
Danémark à l’Exposition universelle._ Paris, 1868, in-8.

[18] J. A. FRIIS, _Lappiske sprogpröver. En samling of lappiske
eventyr, ordsprog og gaader, med orbog_. Christiania, 1856.

[19] SCHEFFER, _Lapponia_. Francofurti, 1673, pag. 282.

[20] Eppure un passo del _Kalevala_, l’antico poema epico dei finni,
avrebbe dovuto farci cercare i canti lapponi. Là dove Lemmin-Käine
narra il suo arrivo alla casa di Pohjola in Lapponia, si legge (Canto
XII):

    La stanza era piena di maghi
    I cantori erano seduti sulle panche
    Gli uomini sapienti presso la porta
    Gli indovini sulla prima panca
    Gli scongiuratori presso la stufa;
    _Tutti cantavano canti lapponi_.
    . . . . . . . . . . . . . . . . .

Come è noto il _Kalevala_ non fu raccolto dalla bocca del popolo che
sul principio di questo secolo.

[21] O. DONNER, _Lieder der Lappen_. Helsingfors, 1876.

[22] Lästadius riferì a Marmier una vecchia leggenda lappone, nella
quale una madre mangia il bambino della propria figlia.

[23] Deserti della Siberia.

[24] Questi versi suonano anche in lappone dolcissimi:

    Nabbudalla cabbudalla
    Nammositis nalkutalla
    Vuoinumitis vilutalla.

[25] _Sarakka_ era la Dea, che presiedeva all’allevamento dei figli.

[26] Sul valore dei tre nodi delle castità Van Düben dice: «Sanguis in
coitu primo effusus lavando colligitur in linteolo et adservatur; nodi
tres in tali linteolo facti nodi virginitatis appellantur et de his in
poemata loquitur.»

[27] Questi ultimi versi furono aggiunti modernamente al poema antico.

[28] Non si deve intendere però che si parli di elmo di ferro, ma solo
di cappello da guerra. Donner crede che questo canto sia tanto antico
da giungere al di là dell’epoca del ferro.

[29] La moglie di Stalu è chiamata _Ludac_ (cimice), perchè essa
succhia con una canna di ferro il sangue dal corpo degli uomini.

[30] Si chiamano con parola vezzeggiativa di _civetta_ i piccoli
bambini perchè aprono grandi i loro occhi per guardare.

[31] Una regione della Finlandia settentrionale.

[32] Il Frijs, fa precedere le sue novelline da una pittoresca
descrizione della vita intima dei lapponi nomadi:

«È specialmente fra i nomadi che ancora si raccontano di queste favole.
Se le raccontano da generazione in generazione nelle lunghe, chiare
notti d’estate accanto all’accampamento nel bosco, o nelle oscure
serate d’inverno intorno al focolare, quando la tenda è impiantata
sulle deserte pianure di neve dell’altipiano.

«Diamo uno sguardo all’interno di una di queste tende in una serata
d’inverno. Là dietro al _Boasshjo_, l’ultima divisione della tenda,
proprio dietro il focolare, sta seduta una vecchia nonna col viso
grinzoso e bruno come una indiana, fissando il fuoco coi suoi occhi
rossi e lacrimosi. In bocca tiene una pipa, il cui corto tubo sparisce
interamente tra le sue labbra sottili. Essa con voce seria racconta le
storie dei tempi passati. Intorno ad essa stanno seduti rannicchiati
colle gambe in croce alcuni bambini, che ascoltano il racconto
con avida attenzione, mentre il figlio e la nuora stan seduti nel
_Loaiddo_, cioè nella divisione al lato del fuoco e lavorano lui ad un
cucchiaio di corno di renna, lei ad un _komagband_ (nastro col quale
al malleolo si lega la scarpa e il pantalone), che si tesse con uno
strumento molto primitivo che s’impiegava nei tempi passati anche in
Norvegia.

«A un tratto può essere disturbata la quiete dai cani, che fin lì
erano rimasti rincantucciati in qualche angolo della tenda, ma che
ora ad un tratto si precipitano abbaiando fuori della porta della
tenda. Vi deve essere qualcosa di nuovo. Può essere uno dei servi che
la notte doveva stare a guardia delle renne, che arriva col grido il
più terribile per il lappone: _Gumpe lae botsuin!_ (Il lupo è tra le
renne!). Tutti quelli che possono mettersi i _ski_ (pattini) allora
saltan su e corrono per salvare quel che si può ancora salvare. — Può
essere un viaggiatore. Per esso l’abbaiar dei cani è sempre un grato
suono, perchè è sicura prova che non è lontana una capanna di lapponi.
Per quanto ristretta sia, essa gli darà un riparo al freddo e al vento,
che soffia sul deserto di neve dell’altipiano. Gli vien dato subito
il posto migliore presso al focolare ospitale del Fjeldlappe, e senza
esserne richiesta viene spesso una delle donne a levargli i _komager_
(le scarpe) e a dargli nuovo fieno morbido e asciutto. Forse anche
avrà del buon brodo e della carne di renna. — Può anche essere stato
un falso allarme. Il marito che è andato fuori dietro ai cani non può
scorger nulla: sarà stato l’odore di qualche animale minore che avrà
dato l’allarme ai cani. Tutto è tranquillo e non vi è nessun pericolo.
Il marito rientra nella capanna e con lui i cani: questi cercano di
prendersi con mille furberie il posto l’uno all’altro, e finalmente
si rimettono alla cuccia brontolando. Ognuno riprende le proprie
occupazioni, e la vecchia nonna ritrova il filo della sua narrazione,
che spesso è lunga quanto le lunghe e buie serate dell’inverno.»

[33] Lo stesso Knud racconta come alcune vecchie da lui conosciute
continuassero, benchè cristiane, a prestar culto ad idoli antichi. Vi
fu quindi, benchè fugacissima, anche tra essi un’epoca di transizione,
nella quale si poteva dire che servissero due dèi: «Praeter faedam
illam et abominandam, cui olim dediti erant lappones, idolatriam, verum
et trinum Deum, in cujus nomen baptizati erant, cujus verbum audiebant,
cujus sacramentis utebantur, colere etiam videri volebant; priscis
Samaritanis non dissimiles, qui verum Israelis Deum et vicinarum
gentium ficta numina junctim et promiscue adorabant.»

[34] I lapponi non hanno capito che la parte più grossa e più
superficiale della religione cristiana. Von Buch racconta al principio
di questo secolo, che essi si accostavano alla Comunione con molta
frequenza, ma soltanto perchè la riguardavano come una specie di
sortilegio, che li preservava dall’influenza degli spiriti maligni.
Non è ancora molto tempo, dice egli, ch’essi portavano alla Chiesa un
panno bianco, e vi inviluppavano con grandissima cura il pane santo,
che dividevano poi alle loro case in una quantità di piccoli pezzi, che
davano poi ai loro rangiferi per difenderli da ogni pericolo.

[35] MANTEGAZZA, _Quadri della natura umana_. Milano, 1871, vol. II,
pag. 317.

[36] Manoscritto di Naerö, pag. 11-13.

[37] Quando a _Mace_ cercavo l’antico cimitero trovai sopra un’area
estesa delle depressioni regolari nel suolo, delle quali non capivo
l’origine. La mia guida non sapeva neppure cosa fossero, ma suggerì
che potessero essere i luoghi dove i lapponi costruivano le loro
capanne; egli supponeva che avessero scavato la terra, perchè non
elevandosi i tetti al disopra degli alberi non si potessero vedere da
lontano poichè, mi diceva, anticamente il paese era sempre soggetto
alle scorrerie dei russi, ed i lapponi cercavano più che potevano di
nascondersi, spegnendo i loro fuochi, perchè non se ne vedesse il fumo
quando sapevano che il russo era vicino. Non so se questa spiegazione
valga, ma prova per lo meno che esiste ancora tra i lapponi la memoria
delle incursioni dei loro vicini e delle astuzie a cui dovevano
ricorrere per nascondersi. In quanto al nome di russi, è probabile
che abbia sostituito quello di qualche popolo, come: tchudi, kareli o
altri, essendo oggi i russi i soli vicini temibili che abbiano.

La voce _cutte_ dal significare _Tschudi_ è passata nella lingua
lappone a significar nemici.

[38] Questa credenza delle mosche _ganiche_ è nata sicuramente da
qualche infezione prodotta dalle punture di una mosca, che aveva
assorbito il virus di un animale domestico o selvaggio malato di
pustola maligna.

[39] Questa superstizione si trova sotto forme poco diverse presso
popoli delle più lontane parti del mondo ed è giunta fino a noi e tra
noi coll’_impiccamento in effigie_.

[40] Di questo libro esiste un’edizione latina, che porta la stessa
data dell’edizione bilingue: LEEMIUS (CANUTOS). _De Lapponibus
Finmarchiae, eorumque lingua, vita et religione pristina, cum notis_ J.
E. GUNNERI. Abbiamo pure una traduzione tedesca stampata a Lipsia nel
1771, in-8.

Lo stesso Leem ha pubblicato una grammatica e un dizionario della
lingua lappone.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK UN VIAGGIO IN LAPPONIA ***


    

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Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

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the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
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