Sola contro tutti! : romanzo

By Nicola Misasi

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Title: Sola contro tutti!

Author: Nicola Misasi

Release date: May 21, 2024 [eBook #73667]

Language: Italian

Original publication: Milano: Quintieri, 1911

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK SOLA CONTRO TUTTI! ***


                             NICOLA MISASI


                          _Sola contro tutti!_

                                ROMANZO


                               SÉGUITO DI

                           _CAPITAN RICCARDO_



                                  1911
                   DOTT. RICCARDO QUINTIERI — EDITORE
                  MILANO — Corso Vittorio Emanuele, 26




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I.


Sua Maestà il Re Ferdinando IV, per grazia di Dio Re di Napoli e di
Sicilia, si annoiava mortalmente nel suo esilio della Ficuzza, la
villa che era tutto il suo regno ormai, quantunque anche in essa non
fosse libero che di attendere ai prediletti esercizi ginnastici, alla
caccia nel parco e ad ascoltar due o tre messe nella cappelluccia.
Lord Bentinck l’aveva costretto a nominar Vicario Generale l’erede
presuntivo della Corona, che aveva piegato ai suoi voleri e del quale
era sicuro, perchè un odio profondo, in cui metteva tutta l’energia
della sua anima frolla, lo divideva dalla madre che gl’Inglesi
accusavano di aver tentato d’avvelenarlo. Il Re si era acconciato mal
volentieri a quella vita che gli divenne insopportabile sol quando il
suo caro duca d’Ascoli era stato dagl’Inglesi esiliato in Sardegna. Non
gli restava dunque nessuno più dei suoi vecchi amici, chè gli altri,
come il conte di S. Marco, il duca di Sangro, i marchesi di Circello
erano venduti agl’Inglesi che ne avevano fatto le loro spie. Di una
sola cosa il vecchio Re era contento, di viver diviso dalla moglie che
era stata relegata a Castelvetrano, la quale però di tanto in tanto, e
sovente di nascosto, si recava a visitarlo per non perdere l’ascendente
su lui, ascendente che non gl’impediva di confortare i suoi ozii nella
compagnia di una bellissima vedovella, Lucia Migliaccio, principessa
di Partauna, che doveva poi divenir regina morganatica col titolo di
duchessa di Floridia.

Sapeva Carolina d’Austria la senile passioncella del marito? Se la
sapeva non era donna da impensierirsi per sì poco: ben altro occupava
la sua torbida mente, da ben altra spina erano punti il suo cuore ed
il suo orgoglio. L’odio in lei per gl’Inglesi era divenuto assai più
rovente di quello che aveva covato per coloro che l’avevano scacciata
dal trono di Napoli. Almeno i Francesi avevan combattuto da nemici
leali, e solo al valore dovevano la conquista: ella che aveva dello
eroico nella sua natura così complessa, così varia, così contradicente,
così fluttuante tra il bene ed il male; ella che aveva tutti i grandi
vizi e nessuna delle virtù piccine che il volgo apprezza più delle
grandi, era fatta per comprendere le ambizioni e gli ambiziosi,
ammirava il Bonaparte, e di aver lottato lei sola contro di lui si
sentiva ben fiera; ma odiava e sprezzava quegl’Inglesi calcolatori
e subdoli, che a poco a poco, freddamente, lentamente, senza venir
meno alle convenienze, avevano relegato il marito in una villa,
lei in un villaggio e spadroneggiavano crudelmente sulla Sicilia,
il cui Parlamento, ossequioso ai voleri di lord Bentinck, emanava
leggi in nome di re Ferdinando, leggi nefaste pel popolo siciliano
ma che favorivano la non mai appagata ingordigia degli Inglesi.
Questo accresceva il suo cruccio; non che a lei importasse del popolo
ammiserito, cui era stato tolta ogni libertà; ma poichè è proprio
dell’umana natura l’odiar negli altri quei vizi ai quali siamo più
inclinati, lor faceva una colpa della crudeltà e della prepotenza, come
faceva una colpa al popolo che sopportava senza ribellarsi le angherie
e le spoliazioni.

Era di già la notte discesa ed il Re si era ritirato nelle sue stanze
per aspettare che fosse chiamato a cena, quando una pesante carrozza
seguita da quattro dei così detti campieri a cavallo, si fermò innanzi
la gran porta della villa guardata da alcuni invalidi che gl’Inglesi
avevano concessi al Re pel suo servizio. Il portinaio, che allora
allora era entrato nella sua stanza per deporre il cappello piumato, lo
spadino ed il gran bastone dal pomo d’oro, al rumor dei sonagli venne
fuori in maniche di camicia, non sapendo spiegarsi quella visita in
così tarda ora in cui per lo più S. M. andava a letto.

In questo il soldato di guardia gridò:

— Sua Maestà la Regina.

Carolina d’Austria era sveltamente discesa dal cocchio e si era
fermata per aspettare che ne discendesse la duchessina di Fagnano, al
cui braccio si appoggiò entrando nella villa fra una doppia fila di
veterani schierati innanzi la porta. Alla bell’e meglio il portinaio si
era rivestito e si teneva immobile appoggiato al lungo bastone, insegna
del suo ufficio.

— Il Re è a letto? — chiese la Regina al portinaio.

— Credo di sì, Maestà. Il maggiordomo aveva dato l’ordine di spegnere i
lumi e di chiudere le porte.

Scendeva in tal mentre il vecchio maggiordomo che un valletto era
corso a chiamare, ed incontratosi con la Regina a mezzo le scale
s’inchinò profondamente; poi, con la domestichezza che gli veniva dai
quarant’anni di servizio alla Corte borbonica:

— Maestà — disse — come a quest’ora?

— Il Re è a letto?

— Gli è stata servita ora la cena... Lo troverà in sul finire.

— No, no, accompagnatemi nelle mie stanze. Dopo che avrà cenato gli
direte che son qui e che gli chieggo un’udienza.

— Veda un po’ che caso! Il Re nostro signore poco fa mi diede una
lettera che avrei mandato dimani a Vostra Maestà.

— Datemela — disse lei continuando a salire.

Il maggiordomo fece un nuovo inchino, poi precedendo la Regina si
diresse verso l’appartamento di lei, da gran tempo disabitato.

— Sei stanca, figlia mia? — disse Carolina d’Austria volgendosi ad Alma.

— Sì, un poco — rispose questa.

— Andrai a letto appena nelle nostre stanze. Mi aspetterai però senza
addormentarti. Dovremo discorrere a lungo.

La giovinetta interrogò con lo sguardo la sua signora, ma intanto
erano giunte nell’appartamento del primo piano di cui alcuni valletti
si erano affrettati ad accendere i lampadari. Il maggiordomo, facendo
un nuovo inchino, aveva in un vassoio di argento dato alla Regina la
lettera del Re.

Ella non si affrettò ad aprirla; aveva gittato su un divano lo scialle
e si toglieva i guanti con aria pensosa.

— Lasciateci sole — disse infine rivolta al maggiordomo. — Mi
avviserete quando Sua Maestà avrà finito di cenare.

— Dirò alle cameriste...

— No, no, per adesso non voglio nessuno...

Nuovo inchino del maggiordomo che uscì richiudendo la porta.

— Hai notato quel mendicante — disse ad Alma la Regina — che testè
sbucando da un folto di fichi d’India si avvicinò alla carrozza come
per chiedermi l’elemosina?

— Sì — rispose Alma, che non ne potendo più dalla stanchezza si era
appoggiata allo schienale del divano.

— Quel mendicante è una spia da me mandata in Calabria donde è tornata
ieri.

Alma trasalì, il pallido suo viso si fece più smorto.

— Nelle lettere che mi ha portato trovo una notizia assai triste per
me e forse anche per te. Ricordi quel giovane che ci difese in Napoli
la notte del veglione, che poi a capo della sua banda combattè contro
gli assalitori del castello? Ebbene, quantunque dopo essere stato fatto
prigioniero avesse potuto evadere, pure in Calabria non si sa dove sia.

Alma non rispose, ma negli occhi dolci e sognanti aveva come un velo di
malinconia.

— Ed ora io avrei bisogno di lui, bisogno assoluto, comprendi? di
un cuore nobile, di un’anima risoluta, di una devozione cieca, di un
coraggio invitto! Ed egli aveva promesso, aveva promesso! Pure ho fatto
continuar le ricerche da un altro agente.

— Se ha promesso, verrà! — rispose Alma con accento sicuro ma triste.

— Verrà, ma quando? Quando io sarò vinta, quando io, come mi si
minaccia, sarò mandata in esilio? Quando i miei nemici avran trionfato?
Di chi fidarmi, di chi? Neanche tuo padre mi assicura. Anima fredda,
calcolatrice, doppia, che si tiene legato a noi per te, si tien legato
agli Inglesi per....

— Se Vostra Maestà non ha bisogno di me — disse Alma con fredda ed
altera cortesia — permetta che mi ritiri.

— Hai ragione, hai ragione — proruppe la Regina accorgendosi d’essersi
lasciata trasportare — perdonami. Ma entra, entra in questo cuore
esulcerato, misurane lo strazio dell’impotenza, dell’umiliazione,
della dignità vilipesa, dell’orgoglio ferito. Pensa quale esser deve
l’orrenda angoscia di una leonessa che i lupi rapaci e le volpi han
chiuso in una gabbia di ferro, e mentre la pungono, la molestano,
la ingiuriano con gli atti e le tendono agguati ed insidie, con
vigliacca ironia le si inginocchiano dinanzi pur non risparmiandole le
sottili e sapienti torture in quell’ipocrito attestato di riverenza!
Ah, fanciulla, fanciulla — continuò la Regina i cui occhi mandavan
faville di odio — io ti ho vista più volte pensosa ed afflitta ed ho
avuto pietà del dolore, qualunque sia, che toglie il sorriso alla
tua giovinezza, che appanna il roseo delle tue guance e il fulgore
delle tue pupille. Ma che cosa è il tuo dolore al paragone del mio?
Se sapessero quanto ho sofferto coloro che mi dicono crudele ed
inesorabile coi miei nemici, se sapessero quale inferno di dolore è
stata la mia vita che il volgo stupido ed ignaro, senza cuore e senza
mente, sol perchè vissuta in una reggia crede felice e spensierata!

— Non io l’ho creduto, mai — disse Alma scossa dalla voce e dalle
parole della Regina.

— Lo so, perchè tu mi hai visto talvolta frenar le lagrime di rabbia
e di vergogna presso a sgorgare; soffocar nelle viscere il grido di
angoscia presso a prorompere, e sorridere mentre le vipere mordevano a
sangue le pareti del cuore; ma non sai tutto, non sai tutto della mia
vita che se fosse finita su un patibolo come quella della mia povera
sorella, sarebbe stata al certo più sorrisa dalla fortuna. Sai tu quel
che io ero a sedici anni, quando sulla mia fronte bianca ed innocente,
si posò questa maledetta corona regale, fra le cui gemme si ascondevano
le spine avvelenate, sai tu? La più pura e più buona creatura fra
quelle che Dio manda ai popoli per reggerne i destini; ed io sentivo
in me con la saggezza dei miei avi il fiero sangue di mia madre,
e mossi pel paese del sole e degli aranci che le nostre giovanette
sognano mentre la nebbia incombe intorno ad esse, con l’animo pieno
di illusioni e col proposito di far felice il popolo al quale Dio mi
aveva destinata, felice il Re sul cui trono salivo, ben credendomi
degna del volere divino che mi aveva fatto nascere per tale missione.
Con lo studio avevo temprato la mente, nessuna branca dello scibile
mi era estranea; con l’esempio dei gloriosi imperatori che avevano
ereditato lo scettro dai Cesari avevo temprato il cuore, fatto per
intendere ogni grandezza come regina, ogni virtù come donna, e sognavo
che dalla reggia che mi doveva accogliere tali virtù si irradiassero
onde il paese del sole fosse anche il paese della civiltà, del sapere,
dell’arte che dar dovevano alla mia giovane fronte una triplice corona,
ben più preziosa di quella che Dio allorchè nacqui aveva deposto sulla
mia culla!

E nel dir ciò la Regina pareva trasfigurata come se i ricordi delle
sue illusioni giovanili l’avessero cinconfusa di una siderea luce: un
velo di dolce malinconia si era diffuso pel suo bellissimo volto il
quale aveva una impronta di maestà che rivelò ad Alma i tesori nascosti
di quel cuore e di quella mente regali, rimasti finallora sepolti in
un condensamento di odio, di livore, da cui poi erano scaturiti tutti
i vizi che le avevano creato dintorno una così sanguinosa e turpe
leggenda.

La giovinetta ascoltava con interesse sempre più crescente, anche
perchè da gran tempo la Regina non era stata così espansiva con lei,
da gran tempo, quantunque vivessero nella intimità inerente al suo
ufficio, ci era un distacco in quelle due anime, come se qualcosa che
ognuna di esse teneva celata fosse sopravvenuta che destava nei loro
cuori una scambievole diffidenza. Di un tratto il viso della Regina
si abbuiò, gli occhi ebbero un lampo che era di odio e di disprezzo
insieme.

— Invece, in questa Reggia in cui un giovane re mi aspettava
ebbro d’amore come io lo sognavo, tenero, premuroso, gentile come
un cavaliere, ardente come un amante, bello e magnifico come un
eroe, trovai l’indifferenza, la freddezza, la grossolanità plebea,
l’irrisione per ogni nobile e grande ideale, il pregiudizio imbecille,
l’ipocrisia più nauseosa! Invece, mi vidi circondata da gente sordida
e maligna, da cortigiani senza onore, da femine senza vergogna,
sovrastanti ad un popolo che era quale essi l’avevano fatto; mi vidi
circondata da corrotti che mi corruppero, da spregiatori di ogni virtù
che fecero di me... quel ch’io divenni. Arroganti quando nulla non
avevano a temere, vili nei pericoli, appena sentirono rumoreggiar
lontano la tempesta abbandonarono chi prima per carpirne i favori
avevano adorato in ginocchio. Mi guardai intorno e vidi la viltà,
il cinismo, l’incuria assisi sul trono. Allora decisi di lottare
io, sola, io per i miei figli, io per colui che mi avevano dato a
consorte, io pei generali indegni di portare una spada, io pel popolo
che si acconciava indifferente allo straniero; lottai i osola, decisa
a vincere o inabissarmi col marito, coi figli, col regno nel vortice
della tempesta. E poichè con tutti i mezzi mi avevano combattuto,
con tutti i mezzi io li combattei, ebbra di sangue come ero ebbra di
dolore, cercando nella strage di scordar le umiliazioni che mi avevano
inflitto, volendo ad ogni costo esser regina, non avendo potuto nel
bene, nella pace, nella virtù, regina nel sangue, nel lutto, nel vizio,
regina sorta dall’Inferno, poichè non avevano voluto che io fossi la
creatura venuta dal Cielo!

Le nari le fremevano come se odorassero il sangue, il labbro inferiore
caratteristico degli Asburgo le tremava, mentre il viso sconvolto,
aveva una espressione di ferocia che spaventò la giovinetta.

— E lotterò, lotterò — riprese la Regina con voce soffocata
dall’orgasmo — contro questi Inglesi di cui siamo lo zimbello, che
hanno in loro balìa il Re e i miei figli, i miei figli che io ho
partorito, io, misera leonessa madre di vili conigli!

Alma volle interromperla per cercar di calmarla stornando il pensiero
di lei, che nell’impeto del dire era andata spiegazzando la lettera del
Re, datale dal maggiordomo.

— Sua Maestà, il Re nostro signore le ha scritto, e...

— Ah sì — disse la Regina alzando le spalle distratta, chè il suo
pensiero era ancora in preda alla collera ruggente nel suo cuore.

Aprì la lettera e lesse con un sorriso di sdegno e di disprezzo:

      «Mia cara Carolina,

  «Ho ricevuto le tue lettere a tempo debito, mia cara Carolina,
  e te ne ringrazio: esse mi distraggono e ho bisogno di grande
  distrazione. La pesca è impossibile qui e per varie ragioni, di cui
  la principale è che non v’è acqua alla Ficuzza.

  «Dove è andato il bel tempo in cui noi pescavamo insieme nei
  bei laghi di Patria e del Fusaro, in cui io vendevo la mia pesca
  ai miei clienti? Rigorosamente parlando potrei pescare alla mia
  tonnara di Solanto, ma non è la stagione del tonno, e poi se mi
  avvicinassi alle coste gli Inglesi immaginerebbero che volessi
  andar via. Per andar dove? A Napoli? Ah, piacesse a Dio e a San
  Gennaro che la cosa fosse possibile! Mia cara Carolina, non ci è
  che una Napoli al mondo!

  «Non resta altro sollievo che la caccia, ma non so perchè, da
  qualche tempo in qua mi piace assai meno, e non caccio quasi più.
  Ieri tuttavia ho ucciso un cignale nel bosco del Cepellaro; ma i
  cignali siciliani non valgono quelli di Persano!

  «Il mio cappellano mi dice regolarmente due messe al giorno,
  talvolta anche tre, ed è una grande consolazione per me che ti
  abbraccio.

                                                      «FERDINANDO».

  P. S. «Riapro la lettera per dirti che la mia cagna, quella dal
  pelo arancione, ha fatto quattro piccoli e si spera allevarli
  tutti e quattro. A proposito, sai tu che nostro figlio Francesco
  mio Vicario Generale, ha avuto dei dolori colici che minacciarono
  di mandarlo all’altro mondo? Vuoi uno dei piccoli della mia cagna?
  Sono intelligenti e fedeli»[1].

La Regina rimase un istante a fissare la lettera, mentre tentennava il
capo con le labbra strette per commiserevole spregio.

— Ed ecco — disse poi lentamente — di che si occupa il Re, nipote di
Enrico IV e di Luigi il Grande, mentre metà del suo regno lotta contro
gli stranieri e l’altra metà è oppressa dalla superbia e dall’avarizia
britannica! Ecco di che si occupa mentre tanti generosi muoiono
per lui, mentre tanti oppressi gemono sotto il piede dei tracotanti
Inglesi!

E stette immobile un istante con lo sguardo fisso e bieco, la fronte
corrugata, le labbra tremanti.

— Sua Maestà il Re nostro signore aspetta la Maestà Vostra nella sua
stanza — disse entrando il maggiordomo.

Ella, tratta dai suoi pensieri, si rivolse ad Alma:

— Va, va a letto, mia cara amica. Dovrò trattenermi un pezzo col Re:
chi sa non giunga a scuoterlo, chi sa!

Fece un gesto come per dire a se stessa che era vana ogni speranza
e si diresse, preceduta dal maggiordomo e da due servi in livrea che
reggevano dei candelabri accesi, verso l’appartamento abitato da Sua
Maestà Ferdinando IV.

Il quale, sorpreso da quella visita che non si aspettava, essendo già
di molto inoltrata la notte, si era alzato per andare incontro alla
moglie che se non amava temeva tanto, e tanto ne subiva il fascino da
dissimulare il suo malumore. Ferdinando, alto, membruto, poteva dirsi
un bell’uomo, se non che ci era qualcosa di grossolano e di facchinesco
in quella bellezza dal grosso naso, al quale dovea il suo nomignolo di
Nasone. Gli esercizi ginnastici nei quali si compiaceva di essere assai
bravo, avevano vieppiù sviluppato le sue membra a cui l’adiposità della
vecchiaia incominciava a togliere la elasticità e la forza.

Si avanzò con le braccia aperte incontro alla Regina che si lasciò
stringere al petto senza mostrarsi punto commossa.

— Qual buon vento ti ha portato qui, mia cara Carolina? — le disse
il Re mentre l’accompagnava nel suo appartamento — Giusto oggi ti
ho scritto... Lo so, avrei dovuto da gran tempo rispondere alle tue
lettere, ma mi son lasciato sopraffare dalla inerzia. E poi tu sai
che io con la penna non ci ho una grande dimestichezza; non sono un
letterato e, scusa sai, tu che sei un’arca di scienza, me ne vanto. Ora
ti dirò quel che ti ho scritto.

— L’ho avuta qui la vostra lettera.

— Ah, sai dunque che Zaira, la cagna arancione, mi ha regalato quattro
maglifici cagnolini che ti farò vedere. Una bellezza, una bellezza!
Per la caccia al fermo nessuno eguaglia quella cagna lì! Che fiuto,
che sicurezza, e quando si ferma col muso basso, gli occhi fissi, la
coda alzata, e resta immobile, puoi star sicura che quaglia, starna
o beccaccia, l’uccello è là! Peccato che oramai le gambe non più
mi reggono come un tempo. Devi ricordartelo: un tempo, in una sola
giornata uccisi centoventi beccacce! Ahimè, adesso mi stanco appena
fatti cento passi!

Ed il Re trasse un sospiro di rimpianto.

— Vostra Maestà era in procinto di andare a letto? — chiese lei.

— Sì, ma se devi dirmi qualche cosa che non può rimandarsi a dimani, e
sarebbe meglio perchè devi essere stanca... via, per quanto sei sempre
bella, sempre piacente come una donna nel pieno della giovinezza, pure
gli anni contano qualche cosa anche per te!

— Non sono stanca io — disse lei bruscamente — specie se si tratta di
affari gravi, del bene di questo povero regno, del nostro avvenire e
dall’avvenire dei nostri figli!

— Ah! — fece il Re grattandosi la testa con un gesto comune alla plebe
napolitana. — Hai ancora di queste fisime pel capo?

— Ho bisogno di restar sola con Vostra Maestà — disse lei con accento
risoluto.

Gli è che fra i due staffieri che reggevano i candelabri accesi, e
in mezzo a cui si teneva ritto e immobile il vecchio maggiordomo,
aveva visto il cappellano, un frate dei padri Scolopi, e due o tre
cortigiani, che dividevano l’esilio col Re.

— Ma dunque si tratta davvero d’affari seri? — fece il Re tra lo
scherzoso e l’infastidito. Poi voltosi a quelli del suo seguito:

— Ritiratevi, signori, e buona notte.

Il maggiordomo e i cortigiani s’inchinarono e si ritrassero, seguiti
dai valletti.

— Entra, mia cara — disse il Re additando alla moglie l’uscio della
camera da letto.

Poi fregandosi le mani, con uno scoppio di riso che gli gonfiava la
gola e negli occhi uno sguardo malizioso:

— Chi sa che avran pensato quei signori chè io ho voluto restar solo
con te... nella mia camera da letto? Sei così bella, così fresca, e
ancora così... così...

— Nipote di Enrico IV e di Luigi il Grande, figlio di Carlo III,
dovresti vergognarti di tali buffonate, indegne del più vile lazzarone
del tuo regno, mentre sul tuo trono di Napoli è assiso un osceno
palafreniere e sul tuo trono di Sicilia un fantoccio che in tuo nome
e per saziare l’ingordigia dei nostri padroni, gl’Inglesi, opprime e
dissangua il popolo tuo che ti esecra e ti maledice!

Ferdinando IV che si era già seduto sulla sponda del letto e si
apprestava a coricarsi, si raddrizzò a quell’apostrofe col viso che
esprimeva la sorpresa e insieme la noia.

— Per questo sei venuta, per questo? — mormorò infastidito. — Già,
dovevo immaginarmelo! Tu vieni sempre per darmi un dolore o per
accrescere le mie pene. Pur dovresti avere un po’ di pietà di me se non
ne hanno gli altri. Ho perduto il sonno e l’appetito, non trovo più
piacere neanche nella caccia, mi hanno tolto il mio povero d’Ascoli,
l’unico amico mio, non son più padrone neanche di restar solo, chè per
tutta questa casa è un viavai di gente che io vorrei mandare a mille
diavoli e nol posso! Non ci mancavi che tu adesso con le tue vane
querimonie!

— Vane sol perchè tu sei vile, vane solo perchè il più indegno dei tuoi
sudditi avrebbe vergogna di una tanta abiezione, mentre tu la sopporti
pazientemente come il bue sopporta il giogo!

— Il bue! — osservò il Re con un sorriso tra il malizioso e l’amaro. —
Fai certi paragoni tu!

— Vane — continuò la Regina che finse di non aver compreso il sarcasmo
contenuto nell’osservazione del marito — perchè tu ti compiaci
dell’inerzia obbrobriosa nella quale ti sei lasciato condannare.

— Non è compiacenza la mia; è filosofica rassegnazione ai voleri di Dio.

— Rassegnazione? — esclamò fieramente la Regina, i cui occhi
sprizzavano faville. — Non siamo noi i Re legittimi? Non lo abbiamo
avuto da Dio questo trono? Non siamo forti del nostro diritto? Non
abbiamo per noi la Giustizia?

— Sì, è vero — rispose il Re sbadigliando — ma gl’Inglesi han qualche
cosa di più: hanno le baionette dei loro soldati e i cannoni delle loro
navi.

— E ne avremo anche noi, come ne abbiamo che per noi combattono in
Calabria ed altrove: cuori di ferro e braccia gagliarde, che la fede
nel trionfo finale rende invitti. È bastata la mia parola per far
balzare in armi a mille a mille i campioni che han visto dai nostri
nemici disertare i loro campi, distruggere le loro famiglie, che
cacciati per ogni dove come belve, pur restano saldi ed impavidi,
invano dal loro Re, cui difendono i sacri diritti, aspettando una
parola di conforto! Ne abbiamo dunque anche noi delle baionette e
dei pugnali per aprirci le porte della reggia, sol che tu accenni a
risalirci.

— Ma — rispose il Re che aveva ascoltato tentennando il capo — non
cercherei di meglio se non si trattasse che di alzar la gamba. Ma gli
è che temo di spingere questi maledetti Inglesi alle ultime estremità
come per le tue imprudenze spingemmo i Francesi. Perchè, via, sii
ragionevole, non fosti tu che m’inducesti ad aprire i nostri porti
non solo agl’Inglesi, ma financo ai Russi, ciò che poi servì di scusa
al Bonaparte per scagliarci contro tutto un esercito... quantunque ci
fossimo dichiarati neutrali? Ora io che, come dicono i nostri buoni
lazzaroni, sono scottato dall’acqua fredda, debbo anche adesso seguire
i tuoi consigli e avventurarmi chi sa a quale arrischiata impresa?
Infine, dopo di me il diluvio, disse mio zio, o prozio, non so bene,
Luigi XV!

— E alla tua salute eterna? Non ci pensi alla tua salute eterna?

— E che ci entra? Non mi confesso ogni venerdì? non ascolto talvolta
fino a tre messe al giorno?

— Non sai che cotesti Inglesi sono degli eretici e che Santa Madre
Chiesa ci fa una colpa della nostra tolleranza? Dei protestanti assai
più nefasti alla nostra santa religione dei mussulmani, ed assai più di
essi nemici, che governano in tuo nome questo popolo di un sentimento
religioso così vivo e profondo! Non è questo uno scandalo del quale
dovremo dar conto a Dio?

Un tale argomento parve scuotesse il vecchio Re, il cui aspetto era
divenuto pensoso.

— Tu dunque — continuò la Regina, la quale si era accorta del
turbamento del Re e che voleva battere il ferro mentre era caldo —
non vuoi agire nell’interesse del trono; agisci almeno nell’interesse
del Cielo. Se i tuoi doveri di Re ti sembrano troppo difficili da
adempiere, adempi almeno i tuoi doveri di cristiano cattolico ed
apostolico.

— Sì, ma... ne convengo — mormorò Ferdinando ancora irrisoluto — pure
io non so, io...

— Al proposito — disse la Regina interrompendolo. — Hai conoscenza
della nuova legge sulla caccia che gl’Inglesi hanno estorto al
Parlamento senza che tuo figlio, il Vicario Generale, abbia osato di
protestare?

— Una nuova legge? — esclamò il Re in cui la passione per la caccia
sopravviveva ancora. — Quale? Che dice questa legge?

— Che oramai non potete più cacciare dove e quando volete, ma, come
tutti, ad epoche fisse ed in luoghi determinati.

— Sarebbe possibile? — gridò il Re che si accese in volto per la
collera. — Dopo avermi tolto il trono, dopo avermi relegato in questa
villa dove son guardato a vista come un prigioniero, mi si vuol
togliere quest’ultimo mio diritto? No, per Dio, no; questo affronto
colma la misura, ed io non lo sopporterò, non lo sopporterò, dovessi
mettere a fuoco e a fiamme il mondo intero!

Si era alzato e percorreva a gran passi la stanza gesticolando e
borbottando seco stesso, mordendosi le mani e scagliando dei pugni al
vuoto. La Regina che aveva raggiunto il suo intento lasciò che egli
sfogasse la sua ira; poi con voce calma, quasi carezzevole, gli disse:

— Via, calmati, Ferdinando; la tua collera per quanto legittima, nuoce
alla prudenza, e per riuscire ci occorre di aver molta prudenza, molta.

— Che bisogna fare? — chiese di un tratto il Re sedendosi vicino alla
moglie. — Via, su, parla: che bisogna fare?

— Prima di ogni altra cosa, bisogna aver piena fiducia in me. Poi non
far trapelare nè con gli atti nè con le parole quel che si stabilirà in
questo nostro colloquio. Tu sei, al par di me circondato da spie: ve ne
sono ovunque, che ti seguono da per tutto come l’ombra del tuo corpo.
Gl’Inglesi già avran saputo della mia venuta qui e faran di tutto per
appurare di che abbiamo discorso. Dimani, quando sarò andata via ti
lagnerai di me... Non sarà la prima volta che sparlerai di me coi tuoi
familiari...

E disse ciò con un sorriso di sdegnosa amarezza.

Il Re fece un gesto di protesta:

— Che dici. Carolina, che dici? Ti giuro che...

Ma la Regina scrollò le spalle e continuò:

— Dunque dirai che era venuta per la questione, insoluta ancora, della
mia dote, che io ti perseguito, che ti molesto, che non ne puoi più,
eccetera, eccetera. Io intanto che ho già tese le fila e che ho bell’e
fatto il mio piano da mettere in atto sol quando avessi avuto il tuo
consenso, preparerò le cose onde trionfi il nostro buon diritto, e
quando tutto sarà pronto ti avviserò con una lettera nella quale...
sta bene attento e non scordarlo... ti parlerò della mia dote: tu mi
risponderai che sta bene che hai capito.

— E che cosa avrò capito? Per carità, Carolina — esclamò il Re a cui
l’ira incominciava a sbollire, raffreddata dai pericoli che intravedeva
— non essere avventata, misura gli ostacoli, non fidare su quelli che
ti circondano...

— Io non fido che su me stessa — rispose lei — ed ormai l’esperienza ha
fatto della leonessa una volpe.

— Una tigre... come ti chiamano i nostri nemici! — mormorò il Re per
farle un complimento.

— Sia pure: una tigre che avrebbe salvato il regno se non avesse avuto
attorno a sè dei conigli...

— Prosegui, via, prosegui: sei divenuta ben permalosa! — disse
Ferdinando, punto dalla risposta di lei.

— Dunque nel ricevere la mia lettera capirai che tutto è pronto. Allora
lascerai la Ficuzza col pretesto di una partita di caccia e te ne
andrai dritto a Partinico dove troverai il principe di Cassero.

— Cassero? Ma se è un amico degl’Inglesi?

— Era, ma non è più. Quantunque membro del Gabinetto formato da
quell’ipocrita marrano di lord Bentinck, l’odio e l’invidia pel suo
collega principe di Belmonte lo hanno indotto a volgersi a noi. Egli
ti esporrà lo stato delle cose e tu, entrato a Palermo, te ne andrai
difilato alla Reggia dove col proclama che ho già bell’e preparato
dichiarerai che essendoti ristabilito in salute intendi ripigliare le
redini del Governo.

— E gl’Inglesi?

— Intorno alla reggia vi saran ventimila tra Siciliani e Calabresi che
basteranno per tenerli in freno.

— E tu?

— Io sarò là dove occorre.

Il Re guardò per poco in silenzio sua moglie. A vederla così fiera,
così impavida, così risoluta, quantunque ben poco l’amasse e avesse
molto da rimproverarle, non potè trattenersi dall’ammirarla, anche per
quel fascino che i forti esercitano sui deboli, gli audaci sui timidi.

— E cotesto proclama? Vediamo il proclama...

Ella dispiegò una carta, che lesse.

Nessuno dei deputati liberali del Parlamento di Sicilia, avrebbe meglio
scritto e con principi più altamente democratici un tal proclama. Vi
si diceva tra l’altro che «il popolo è di diritto sovrano; il principe
non è che il depositario delle leggi». Il Re prendeva formale impegno
di dare una larga costituzione liberale e di fondare l’indipendenza
siciliana su una nuova base.

Quando la Regina finì di leggere alzò gli occhi in viso al Re che
aveva ascoltato in silenzio, ma con un’aria di stupore e insieme di
corruccio.

— E sei tu — disse infine — sei tu che mi proponi di parlare così al
popolo? Ma è questo il linguaggio di un re per diritto divino come sono
io?

Carolina aveva preveduto il cattivo effetto che il proclama avrebbe
prodotto sul Re, onde rispose prontamente, sorridendo ironica:

— Se messer Niccolò Machiavelli avesse scritto un trattato sulla caccia
anzichè un libro sulla politica, avrebbe avuto l’onore di esser letto
da te! Via, via, non ti spaventino questi paroloni e queste frasi di
stile moderno. Il popolo è un fanciullone che si seduce con le parole e
con le promesse. Tutti i mezzi son buoni, dice il vostro Machiavelli,
purchè si raggiunga lo scopo, e chi vuol riuscire deve servirsi delle
armi stesse dei nemici. Non ci han combattuto gl’Inglesi con queste
parole e con queste promesse? Importa assai ad essi della libertà,
dell’indipendenza del popolo siciliano! Importa loro invece assai lo
zolfo delle solfatare, i frutti degli aranceti, il commercio dei nostri
porti. Essi han gettato della polvere agli occhi, polvere fatta di
paroloni e di promesse, per accecare i gonzi; e noi usiamo della stessa
polvere... Quando cadrà dai loro occhi, allora... allora ci saranno
i cannoni e le baionette! Via, via, hanno fatto tutti così i re, i
conquistatori, gli apostoli, per turlupinare i popoli, e faran sempre
così anche nei secoli venturi.

In così dire si alzò, prese dallo scrittoio una penna, la intinse nel
calamaio, e tornando al Re tuttora confuso e incerto:

— Firma — gli disse, porgendogli la penna.

— Che io firmi? Ora? Ma... debbo riflettere... debbo...

— Nessun indugio. Doman l’altro dovrò presentare il tuo proclama
firmato ai capi della Confraternita di S. Paolo, la setta famosa che
fece i Vespri e che ora è risorta per combattere gli Inglesi come
cinque secoli fa combattette gli Angioini.

— Sai tutto, tu, sai tutto! — disse il Re vieppiù sorpreso.

Il suo odio per gli affari che proveniva dalla coscienza di essere
incapace, aveva servito a Carolina che era riescita quasi sempre nel
suo intento.

— Via, firma! — gli disse poi con voce tra la preghiera e il comando,
come si fa coi fanciulli.

Il Re prese la penna, stette un istante sospeso, irrisoluto; poi
ubbidendo ad una subita decisione appose la sua firma a piè del foglio
che ella gli aveva dispiegato dinanzi.

— Ed ora — disse, gettando la penna e dando un sospiro di sollievo —
posso andare a letto? Debbo alzarmi per tempo dimani. Ho ordinato per
l’alba la messa e la colazione, per poi scovare un tasso che fu visto
ieri in un punto del bosco.

Ella si era alzata, soddisfatta, esultante; ma pur contenendosi:

— Siamo intesi! — disse mentre il Re stendeva la mano al laccio del
campanello.

— Sì, sì, siamo intesi. Non ne parliamo più, per carità.

E trasse a sè il laccio che fece squillare il campanello.

La porta della stanza si spalancò: nel mezzo della soglia ritto
in piedi si teneva il maggiordomo fra due valletti che reggevano i
candelabri accesi.

— Accompagnate Sua Maestà la Regina nel suo appartamento — disse il Re.
— Dite al mio servizio che mi spoglio da me. Domani, come ho già detto,
mi sveglierete all’alba.

— Che Vostra Maestà riposi bene — disse Carolina, facendo una gran
riverenza.

— Va, figlia mia... altrettanto... altrettanto....

La Regina uscì. Il Re rimasto solo trasse un gran sospiro di sollievo.

— Non ne potevo più; non ne potevo più. Quando ci si mette... Via,
dormiamo adesso, che è tardi, ben tardi!

E si coricò col pensiero alla caccia del domani ed al tasso che doveva
esserne la vittima.

Una lampada di argento in un globo d’alabastro spandeva un fioco
chiarore per la camera regale. I russi sonori dell’augusto dormiente
rompevano il silenzio che regnava nella villa, quando un’ombra uscì da
dietro una cortina che nascondeva la porta della stanza di toeletta.
Quell’ombra si diede a strisciare lungo il muro con gli occhi fisi sul
giacente, sostando talvolta, e ripigliando a strisciare allorchè si era
rassicurato. Finalmente fu fuori la camera regale.

— Ah — disse tra sè, stirando le membra attrappite per essere stato a
lungo immobile — quante lire sterline mi darà lord Bentinck per quel
che gli andrò a dire?




II.


Lo scoglio di Malconsiglio è un isolotto deserto in pieno mare,
dirimpetto all’estrema punta del porto di Trapani. La tradizione
vuole che Procida abbia ivi riuniti i congiurati al tempo dei Vespri
siciliani.

Alta era la notte, una notte tutta tenebre e senza stelle; la città
era tetra e muta, tetro e muto era il porto. Le lampade innanzi alle
Madonne annicchiate all’angolo delle strade e a prora dei bastimenti,
gittavano dei fiochi bagliori nelle vie tenebrose e nelle tenebrose
acque del mare.

Una barca condotta da due rematori mascherati e montata da un uomo
tutto chiuso in una tunica nera il cui cappuccio copriva il capo, il
cui viso era nascosto da una maschera, scivolava lungo il molo dello
scoglio di Malconsiglio. Fin’allora l’uomo dalla tunica nera si era
tenuto immobile; pur gli occhi, attraverso i fori della maschera
vagavano per le tenebre, ma in un punto si fissarono verso la riva
dalla quale si era staccato un canotto che tenendosi a distanza pareva
seguisse o spiasse la barca.

— Una spia! — mormorò l’uomo chinandosi all’orecchio dei rematori —
bisogna raggiungerla prima che si accorga della nostra intenzione.

La barca virò di bordo e con una arrancata fu a tre o quattro lunghezze
di remi dal canotto che ebbe un istante di esitanza, quindi prese la
fuga. Ma fu raggiunto. I due rematori della barca saltarono nel canotto
che era montato da un solo uomo; si udì un tonfo nel mare, poi tutto fu
silenzio. I due rematori tornarono nella barca che riprese a scorrere
fra le tenebre profonde.

Giunta allo scoglio la barca andò a collocarsi in un piccolo seno ove
altre barche che l’avevano preceduta erano già assicurate al lido. I
rematori accostarono la barca a un muricciolo, e l’uomo vi saltò, indi
si diresse verso il centro dell’isolotto in cui si tenevano aggruppati
alcuni che portavano su i comuni panni l’istessa tonaca nera e sul viso
la maschera. Il nuovo venuto fece udire un sibilo modulato stranamente,
al quale sibilo quegli uomini si ordinarono in cerchio, pur serbando il
silenzio.

— La parola d’ordine! — disse colui che pareva il capo penetrando nel
cerchio.

E si diede a percorrerlo, fermandosi innanzi a ciascuno che gli diceva
a bassa voce il motto di riconoscimento.

Quando il giro fu compiuto si fermò e traendo una lanterna cieca che
segnò un cerchio di luce nelle tenebre, disse:

— Vi è uno straniero fra noi, una spia. Si è tradito nel profferir la
parola di riconoscimento _Sicilia_. Che ognuno scopra il viso.

E togliendosi la maschera fece cadere il cappuccio scoprendo una
maschia e bruna testa di siciliano nella maturità degli anni.

Tutti lo imitarono: egli ripetè il giro facendo riverberare su ciascuno
la luce della lanterna.

— Ecco il traditore — gridò in un punto, fermandosi innanzi a uno dei
convenuti. — Impadronitevi di lui.

L’ordine fu eseguito appena dato.

— Un Inglese — esclamò il capo — un Inglese che ha osato introdursi
fra noi per sorprendere i nostri segreti e svelarli ai carnefici del
popolo siciliano! Già poco fa ho fatto giustizia di un’altra spia che
seguiva la mia barca; ora ne scopro un’altra sin nelle nostre fila.
Che il segreto dei fratelli di S. Paolo sia seppellito nei flutti col
traditore!

Il colpevole non cercò nemmeno di difendersi: si lasciò avvincere
ed imbavagliare, sopraffatto dal sentimento dell’irrevocabile che ne
paralizzava l’anima e il corpo. Quattro uomini lo portarono verso il
lido, e poco dopo si udì un tonfo nel mare; poi i quattro esecutori
tornarono e silenziosamente ripresero il loro posto nel circolo.

— La necessità ci fa crudeli — disse con voce solenne e triste il capo
dei congiurati. — Se i nostri statuti non ce ne facessero una legge, la
nostra sicurezza e i sovrani destini della Patria ce lo imporrebbero.
L’audacia dei nostri nemici mi spaventa: evidentemente sono state
commesse delle imprudenze. Il Governo ha fatto giustiziare ieri sette
dei nostri... no, non oso dire fratelli, quantunque il supplizio e
il silenzio serbato sulla nostra istituzione li abbiano riabilitati.
Invece di colpire, in nome della Patria oppressa, si erano arrogati
il diritto di colpire per loro conto, per soddisfare ambizioni e odi
privati: perciò non ho potuto sottrarli al giusto supplizio, che
altrimenti avremmo dovuto noi punirli per avere infranto le leggi
dei nostri statuti alle quali abbiamo giurato di sottometterci. Chi,
sia pure per vendicare un padre, un fratello, si giova della nostra
Associazione per colpire un suo nemico, è reo di morte. Tutto tutto
sparir deve innanzi al sacro, al magnifico, al supremo dovere che ci
siamo imposti di far libera e indipendente questa Sicilia adorata. Chi
sperpera le sue energie per scopo personale, chi con azioni delittuose
getta il discredito sulla nostra Associazione deve morire, come morir
debbono coloro che ne volessero carpire i segreti. Però avendo essi col
loro silenzio riscattato le colpe, v’invito o fratelli a pregare che la
pace di Dio sia con le anime loro.

— _Amen!_ — mormorarono in coro tutti gli astanti.

Per un pezzo quegli uomini tacquero, compresi da un sentimento
superstizioso che faceva lor volgere mentalmente una preghiera pei
defunti. Poi risuonò di nuovo la voce del capo:

— Ora che noi siamo sorvegliati, ora che il pericolo pende più grave
e minaccioso sul nostro capo, soffrite che per ritemprare i vostri
cuori al dovere ed alla speranza, io qui richiami l’origine e lo
scopo, della nostra istituzione. L’antica Confraternita di S. Paolo,
che hanno tanto calunniato, non aveva che un pensiero, che uno scopo:
la indipendenza della nostra diletta Sicilia, isola sfortunata che
aspirò sempre alla libertà e fu sempre serva or di questo, or di quello
straniero. I nostri avi, affiliati alla Confraternita, se riparavano
alle ingiustizie sociali, se castigavano i magistrati prevaricatori,
gli oppressori potenti, se vendicavano gl’innocenti e i deboli, si è
che intendevano fondare la felicità pubblica sulla felicità privata;
ma non perdettero mai di vista il voto supremo dell’ordine e più
volte furono sul punto di realizzarlo. Il fato volle altrimenti, e
la nostra istituzione, logorata dal tempo, esausta da tanti sforzi
e da tante crisi, era ridotta un’ombra che minacciava di svanire del
tutto. Fu allora che per salvarla ebbi l’idea di trasformarla e ne feci
una congregazione di nobili che serve ora di maschera e la missione
pubblica e pietosa copre la missione patriottica e segreta. Fedeli agli
esempi dei nostri padri, ciò che essi volevano noi vogliamo, procedendo
per lo istesso scopo se non per la stessa via. Abbiamo già fatto molto;
faremo di più ancora: Catania, Caltagirone, Mineo son già con noi:
Messina e Palermo son piene dei nostri: manca però un capo supremo,
ed io a voi che rappresentate tutte le città della nostra isola, ve
ne proporrò fra breve uno intorno al quale raccoglierci per l’estremo
conato.

Corse un mormorio di curiosità per gli astanti che finallora avevano
ascoltato immobili e muti.

Il capo comprese che essi erano impazienti di una spiegazione, onde
ripigliò a dire:

— Dobbiamo dare all’Europa la garanzia d’un governo stabile e duraturo,
nonchè legittimo. Le utopie danneggiano anche le più nobili imprese: le
idee debbono essere impersonate in un uomo e in un nome; è necessario
dunque avere un tal nome e un tale uomo onde la nostra guerra agli
Inglesi abbia probabilità di stabile vittoria.

E dopo una pausa, come se avesse cercato in sè stesso le parole per
esprimere tutto l’odio che covava nel suo cuore contro l’altera e
feroce Albione, proruppe:

— Sì, guerra, guerra agl’Inglesi, a questi esecrati, osceni, cinici
mercanti che tiranneggiano, che divorano la nostra Patria, che la
scannano sotto i nostri occhi, come sotto i nostri occhi ci hanno
scannato figli e fratelli!

— È vero, è vero! — esclamarono sordamente i convenuti.

— Non avevo io un figlio, pressochè un fanciullo, l’unico erede del
mio nome, l’unico rampollo della mia famiglia e che io amavo come
la pupilla degli occhi ama la luce, poichè esso era il solo conforto
alle sciagure che l’una su l’altra come le ondate della tempesta han
distrutto la mia casa? E sol perchè il mio figliuoletto che amava
una fanciulla alla quale io sognavo di unirlo perchè rinverdisse il
ceppo dei conti di Bucento, si oppose come era suo dovere, com’era
suo diritto, alle turpi insidie che le tendeva un Inglese, di lei
oscenamente invaghito, me lo vidi tratto in prigione, ove me lo
uccisero con inaudite torture che fecero del suo corpo tutta una piaga!

Vinto dalla memoria inconsolabile il povero padre s’interruppe
nascondendo fra le mani la faccia bagnata di lagrime. Un sordo rumorio,
simile al rumoreggiar dei flutti prima della tempesta, percorse le file
degli astanti. Quando ebbe ripreso un po’ di calma il conte di Bucento
proseguì:

— Come Procida ai suoi congiurati che noi rimpiazziamo sopra questo
scoglio deserto, consacrato da essi, e le cui ombre al certo ci stan
d’intorno, noi dobbiamo opporre l’astuzia all’astuzia, la forza alla
forza, ed esser crudeli e inesorabili come essi sono inesorabili e
crudeli. Ma non più colpi inutili, non più quelle esecuzioni parziali
in cui si sperdono tutte le nostre energie; concentriamole tutte su
un punto unico, colpiamo la testa e vinceremo. Voi sapete che in ogni
tempo abbiamo avuto a Palermo degli ausiliarii e degli addetti. Ed
è Palermo che deve insorgere, come insorse vittoriosa nei gloriosi
Vespri; ma ci vuole un agente sicuro e determinato per rappresentarci
in mezzo a loro che sono più di tutti invigilati dai nostri nemici. Chi
vuol partire per Palermo?

— Io — disse una voce.

Ed un uomo uscì dalle fila e si avanzò verso il capo che lo riconobbe.

— Cavalier Blasi, nessuno è più adatto di voi a tale nobile e
perigliosa missione; ma i tre anni di crudele prigionia nella quale vi
tennero i nostri nemici...

— Non temete — disse con energico accento il cavalier Blasi — che
questa mia precoce decrepitezza faccia ostacolo al mio assunto. Il
corpo è disfatto dalle torture cui mi sottoposero sol perchè non volli
cedere ad uno di essi la mia solfatara da cui traevo il pane quotidiano
per me e per la mia famiglia, alla quale ora provvede la carità dei
miei concittadini... Se dunque il corpo è disfatto, l’anima è ancor
salda e dall’odio inestinguibile trae maggior vigore.

— Cavalier Blasi, sappiamo tutti quel che avete sofferto per la nostra
causa, e il vostro passato ci è caparra certa per l’avvenire. Avete
tutta la nostra confidenza.

— Sì, sì — disse a coro l’assemblea.

— Cavalier Blasi, preparatevi dunque a partire per Palermo dove
riceverete le nostre istruzioni, coi mezzi e le cautele di cui avete il
segreto.

— Prima di partire, però, ho un’accusa capitale da portare.

— Contro chi?

— Contro il marchese Artale, un rinnegato siciliano, commissario
straordinario degl’Inglesi in Messina.

— Un traditore.

— Un carnefice dei suoi concittadini! A morte, a morte! — gridò
l’assemblea.

— Per quelli che nol sanno dirò che appena giunse a Messina vi sparse
il terrore: le lagrime scorsero nelle famiglie, il sangue nelle
prigioni. Dietro i suoi ordini, per una parola, per un sospetto, per
una denunzia anonima o per compiacere un Inglese, sia pure semplice
soldato, si gittarono nelle prigioni centinaia di cittadini. E
quali prigioni! Dei sotterranei in cui non si può stare nè in piedi
nè seduti, in cui gl’infelici prigionieri carichi di catene sono
dimenticati per settimane, per mesi interi, e appena lor si getta,
di tanto in tanto, un pezzo di pane ammuffito! E sapete come vengono
trattati? A nerbate e a bastonate i più docili; gli altri seviziati
con l’applicar loro dei ferri roventi alle piante dei piedi e con lo
strappar loro le unghie. Ed è un siciliano, un siciliano che ebbe ed
accettò dagl’Inglesi tale missione di sangue e d’infamia!

— Cavalier Blasi — domandò con voce solenne il conte di Bucento —
rispondete voi sulla vostra testa della verità dei fatti che avete
denunciato?

— Giuro innanzi a voi e innanzi a Dio che ho detto la verità. Se ne
dubitate ancora, guardate le mie carni che serbano le cicatrici delle
ferite. Un mese in quei sotterranei mi ha invecchiato di quarant’anni.
Se non soccombetti alle torture gli è perchè Dio mi serbava a portar
testimonianza innanzi a voi. Ed è perciò che io, cavalier Blasi,
domando a voi la morte di quel carnefice.

— Chi si oppone — disse il conte di Bucento voltosi agli astanti — esca
dalle file e dica le ragioni.

Nessuno rispose.

— Torno a chiedere, secondo le nostre leggi, se vi è qualcuno fra di
voi che si opponga alla condanna a morte del marchese Artale, accusato
dal cavalier Blasi!

Dopo avere atteso un pezzo nel silenzio profondo, il capo che, secondo
gli statuti, aveva l’obbligo di volger per tre volte la stessa dimanda
ai fratelli, allorchè trattavasi d’infliggere una pena capitale,
riprese con voce lenta:

— Sul vostro onore e sulla vostra coscienza siete convinti che il
marchese Artale meriti per i suoi delitti e per la sua infamia la pena
di morte?

— Sì — risposero gli astanti ad una voce.

— Io dunque, conte di Bucento e gran maestro della Confraternita di San
Paolo, in virtù dei poteri che mi son conferiti ed in esecuzione della
deliberazione presa ad unanimità, condanno a morte il marchese Artale,
commissario straordinario in Messina, accusato di atrocità contro i
nostri e suoi concittadini; e delego il fratello Accarditi di Catania e
il fratello Lombardi di Siracusa di eseguire la condanna.

I due prescelti per l’autorità che lo statuto conferiva al presidente,
si avanzarono.

— Noi siamo pronti — dissero.

— E benedette siano le vostre mani che dovranno punire un malvagio uomo
ed uno scellerato cittadino. Tornate ora fra i vostri fratelli.

— Ci resta ora di sapere — disse una voce — chi sia l’uomo intorno al
quale dovremo raccoglierci e quale sia il nome che dovrà rappresentare
le nostre aspirazioni.

— Ferdinando IV, Re di Napoli e di Sicilia — rispose il capo dopo avere
esitato alquanto.

Un mormorio di stupore si levò dal gruppo dei congiurati: il conte di
Bucento ne comprese il significato e si affrettò a proseguire:

— Sì, Ferdinando IV, che può sorgere per difendere, mercè il nostro
aiuto, i suoi diritti conculcati e vendicarsi delle umiliazioni che
gl’Inglesi gli infliggono.

— Ferdinando IV è un codardo che fuggì da Napoli e che ora si è
lasciato rinchiudere in una villa come in una prigione!

— Nol nego, ma egli sarà garante innanzi alle potenze d’Europa
del governo che noi gl’imporremo. Non ci illudiamo: se giungessimo
a scacciar gl’Inglesi e a proclamare la repubblica come molti di
voi vorrebbero, avremmo contro tutti i re d’Europa, non escluso
l’Imperatore dei Francesi; e se proclamassimo a re di Sicilia un
principe straniero, desteremmo la gelosia degli altri Stati e forse
non faremmo che mutar di padrone. La prudenza dunque c’impone quella
bandiera che ha già in sè un diritto riconosciuto. Ferdinando IV è un
codardo, voi dite, ma dietro a quell’uomo ci è una donna che ha osato e
osa ancora tener testa ai Francesi.

— Carolina d’Austria! — esclamarono tutti vieppiù stupiti.

— Sì, Carolina d’Austria, la tigre assetata di sangue, la turpe amica
di lady Hamilton, l’amante di Acton e di Caramanico: è questo che
volete dire? E che importa? Purchè la spada ferisca il nemico non
bisogna chiedere di qual ferro sia fatta. Carolina d’Austria è odiata
a morte dagl’Inglesi: questo vi dica in qual conto di formidabile
avversario essa sia tenuta. La Provvidenza talvolta si serve d’indegni
istrumenti per far raggiungere un nobile fine. I maggiori rivoluzionari
che proclamarono in Francia i diritti degli uomini non eran punto un
fior fiore di virtù; i grandi conquistatori, i grandi legislatori, i
geni ai quali l’umanità deve tanto del suo progresso, non furono immuni
dei vizi più esecrandi.

— Ma accetterà essa le nostre idee? Sa essa che noi combattiamo per la
libertà e l’indipendenza della Sicilia?

— Il proclama che il Re dovrà firmare l’ho scritto io: in esso sta
detto che il principe non è che un depositario delle leggi e che
l’unico e vero sovrano è il popolo. Se il Re firmerà un tal proclama,
il nostro patto sarà conchiuso.

— Il Re lo firmerà per lacerarlo poi!

— E noi rovesceremo dal trono il fedifrago.

Intanto si bisbigliava, segno che i pareri eran discordi. Poi sorse una
voce e disse:

— E quale altro appoggio porterà la Regina alla nostra impresa?

— Duemila Calabresi scelti fra i più bravi e i più provati alle armi,
che ella manterrà a sue spese. Ma è già tardi e bisogna dividerci.
Crede l’Assemblea che io possa, se il Re avrà firmato il proclama,
stringere il patto in nome della nostra istituzione?

— Sì — risposero i convenuti.

Solo pochi rimasero silenziosi, pur non osando di opporsi alla
maggioranza.

— Che ognuno ritorni alla sua casa. Col mezzo convenuto farò giungere
le comunicazioni. Si lavori in silenzio: i loquaci e gli imprudenti
saran puniti con la morte come i traditori. A rivederci, fratelli, e
che Dio ci aiuti!

I congiurati si diressero verso le loro barche che ben presto
disparvero nelle tenebre del mare.

— La Regina non sarà qui prima dell’alba, quantunque il vento sia
favorevole — disse il conte seduto su uno scoglio. — Saran qui, in
questo giorno memorabile, decisi i destini della Patria!




III.


La Torre Nera si elevava a poca distanza dal mare fra due colli che
salendo si restringevano formando una angusta gola, ma che presso al
mare si aprivano in una insenatura per la quale scorreva un torrentello
le cui acque ai raggi infuocati del sole morente avevano tremolii di
luce sanguigna.

La Torre Nera, massiccia costruzione dei Normanni, era stata elevata a
difesa delle scorrerie barbaresche. Due colubrine sporgevano le bocche
dalle cannoniere dell’alto verso il mare che si dispiegava ampio allo
sguardo. Ma da gran tempo la torre era stata sguarnita di difensori,
chè le navi inglesi in continua crociera avevano spazzato quel mare
dalle barbaresche feluche.

La Regina aveva fatto di quella torre, che di poco distava dalla villa
in cui era stata relegata, la sua estiva dimora quando voleva sottrarsi
allo incessante spionaggio onde era circondata; e vi si trasferiva con
pochi dei suoi intimi, fra i quali Alma, oltre alla camerista, unica
compagna di esilio di Carolina d’Austria, chè ben poteva chiamarsi
esilio il suo.

Il giorno innanzi, quantunque l’autunno fosse inoltrato, la Regina che
era allora tornata dalla visita al Re, aveva, come se ubbidisse ad una
subita risoluzione, ordinato di apprestarsi la lettiga, volendo quella
notte andare a dormire alla Torre Negra. Quantunque usata ai capricci
reali, pure

Alma sì meravigliò di quella risoluzione, ma ne fu compiaciuta in cuor
suo perchè si confaceva al suo spirito meditabondo la solitudine di
quella torre donde lo sguardo spaziar poteva per l’azzurra distesa del
mare che ella amava di contemplare standosene seduta sull’alto della
piattaforma o presso ad una delle finestre. Il fosco paesaggio dei
colli rivestiti di una lussureggiante vegetazione, le ricordava meglio
di ogni altro sito i paesaggi della sua calabra terra della quale ella
talvolta sentiva l’acuta nostalgia.

Giunti nella torre, la Regina aveva fatto venire un uomo dal fare e
dall’aspetto marinaresco che fin dal mattino pazientemente l’aveva
attesa. Si era chiusa in una stanza con lui e quando ne era uscita,
Alma aveva sentito che diceva:

— Verrete un’ora innanzi giorno per poter giungere poco dopo l’alba.

L’uomo dall’aspetto marinaresco si era inchinato ed era andato via.

La Regina, mentre gli staffieri e i camerieri del seguito attendevano
al governo della torre che per più mesi era stata disabitata, prese pel
braccio la giovinetta e la trasse sulla piattaforma ove si era sicuri
di non essere uditi.

— Bisogna — le disse — che dimani nessuno sappia che ho lasciato la
torre.

La giovinetta la guardò meravigliata.

— Ascoltami bene — continuò la Regina — stanotte, un’ora prima
dell’alba uscirò dalla mia camera. Giovanni, l’unico servo su cui posso
fidare, mi aprirà la porta della torre; fuori mi aspetterà quell’uomo
che hai visto testè andar via, a cui ho affidato il comando della mia
goletta. Quando potrò tornare non so; forse dimani sera, forse diman
l’altro; ma bisogna che nessuno, intendi? nessuno sappia o sospetti che
io mi sono imbarcata; perciò son venuta qui, chè nella villa non avrei
potuto deludere la vigilanza dei tanti nemici di cui son circondata,
servi o cortigiani, dei quali non vi è alcuno che non sia venduto
agl’inglesi. Tu dirai che sono indisposta e che sono a letto nella mia
camera ove non lascerai entrar nessuno, neanche tuo padre se per caso
venisse qui.

— Neanche mio padre?

— No, figliuola mia, neanche tuo padre. Tu sei un’anima buona e leale,
ed io, vedi ho tanta fede in te quanta... quanta... non ne ho nel
duca. Perdonami, e promettimi di eseguire i miei... di esaudire la mia
preghiera.

— Eseguirò i vostri ordini — rispose Alma non dissimulando il suo
rammarico.

— No, cara, non dispiacerti di quel che ho detto di tuo padre. Tuo
padre è un ambizioso, e in politica bisogna guardarsi dagli ambiziosi.

Aveva così attenuato il suo pensiero, ma in cuor suo diffidava del
padre di Alma, nè l’aver permesso che questa adempisse il suo ufficio
di lettrice l’assicurava, tanto più in quanto aveva intuito, col
maraviglioso acume del suo spirito, che il duca aveva più volte tentato
di farsi una spia della figliuola; la quale però meno per diffidenza
e più per natural discretezza ne aveva sempre deluso le reiterate e
capziose domande. Onde la Regina, che non aveva in chi fidarsi, che
sapeva a prova quanto fossero pettegole, intriganti le altre dame
della sua Corte, preferiva la compagnia di quella giovinetta, anche
sapendo il padre di lei propenso a tradirla se tornasse utile alla sua
ambizione.

La sera a cena, mentre i camerieri e gli altri familiari erano intorno
alla sua mensa, finse di essere indisposta, e per tempo seguita dalla
sua lettrice, si ritirò nella stanza da letto. Nel mezzo della notte,
Alma che non aveva potuto prender sonno nella camera attigua a quella
della Regina, intese che essa si alzava. Quando entrò nella camera vide
che era bell’e vestita.

— Le tenebre sono fonde, il luogo deserto — le disse, impensierita di
ciò che ella credeva un capriccio dell’augusta donna. — Vostra Maestà
si espone chi sa a quali pericoli!

La Regina scrollò le spalle.

— Il pericolo è uno — rispose — quello di essere spiata da quei
maledetti Inglesi... Ascolta! Non ti pare che il silenzio delle tenebre
sia stato rotto da un fischio?

— No, Maestà.

— Senti, un altro fischio. È questo il segnale che mi si attende... Per
tutti dunque io sono a letto con una fiera emicrania, ed ho proibito
che si entri in camera mia.

— Sta bene — rispose la giovinetta.

La Regina tolse dal comodino presso il letto, due piccole pistole,
da parer quasi due gingilli, e le nascose nell’ampia saccoccia della
veste. Si avvolse in un mantello di cui calò sulla fronte il cappuccio
ed uscì.

— Ella stanca il buon Dio con le sue imprudenze e coi suoi capricci! —
disse Alma nel tornare a letto.

Nessuno il mattino si accorse che la Regina non era nella torre. Si
sapeva che ella ritiravasi in quella dimora quando aveva bisogno di un
po’ di solitudine e di raccoglimento, e l’averla vista la sera innanzi
indisposta precludeva l’adito ad ogni sospetto. Solo Giovanni, il
vecchio negro che era da trent’anni al servizio di lei, avrebbe potuto
svelare il segreto; ma Giovanni aveva una cieca devozione per la sua
Regina e non avrebbe parlato neanche se l’avessero sottoposto alle più
atroci torture.

Quanti terribili segreti non sapeva Giovanni, il vecchio negro, della
sua Sovrana! ma non una parola gli era mai uscita dalle grosse labbra
che mormoravano perennemente i versetti del Corano.

Per tutta la giornata Alma aveva avuto il contegno di chi debba
accudire ad una ammalata: dava degli ordini ai servi e agli staffieri
in nome della Regina; entrava nella camera di lei e ne usciva come per
attendere a questa o a quella cura del suo ufficio onde nessuno dubitò
menomamente che la Regina non fosse a letto indisposta.

Ma uno dei casi previsti accadde: era passato di poco il mezzogiorno
quando un servo corse a dire alla giovinetta che il duca di Fagnano
era allora allora giunto in carrozza, seguito da alcuni armigeri e che
entrato nella torre aveva fatto chiedere della figliuola.

— Mio padre, mio padre! — esclamò Alma cui il piacere di quella visita
era attenuata dall’imbarazzo per dover nascondere l’assenza della
Regina.

— Dite a mio padre che lo prego di aspettarmi — disse, dopo un istante
di esitanza — di aspettarmi alcuni istanti, onde ottenga da Sua Maestà
il permesso di allontanarmi.

Entrò nella camera della Sovrana per dar tempo al servo di avvisare
il padre. Era seco stessa in collera per dover così fingere e così
mentire, lei, anima schietta e leale che pur in mezzo agl’intrighi,
alle avventure ed anche ai capricci e ai vizi della sua regale signora
era rimasta semplice e pura, quasi l’anima sua fosse altrove e nulla
intendesse, nulla vedesse di quel che le accadeva intorno; non pertanto
subiva il fascino di quella donna e confessava a se stessa che quasi
suo malgrado l’amava e si sentiva disposta a qualunque sacrifizio. Se
aveva delle colpe, con quanti dolori non le aveva scontate, con quante
umiliazioni non aveva scontato il suo orgoglio; e se aveva talvolta
ecceduto nella vendetta, ben mortali erano state le offese che ne
avevano ferito e rincrudito l’anima! La natura energica, avventata,
estrema così nel male come nel bene della Regina; lo spirito ardente e
dominatore, l’indole irrequieta che non sapeva acconciarsi alla vita
inerte ed inutile cui l’avevano condannata, esercitavano per ragione
di contrasto un gran fascino su Alma, così mite, così raccolta in
se stessa che amava di obliarsi, nelle ore in cui il suo ufficio la
lasciava libera, nei vaghi sogni dell’anima sua senza chiedere alla
vita un perchè ed all’avvenire una felicità da raggiungere. Sola e
trascurata in mezzo a quelle aspre lotte politiche, a quell’urto di
passioni e di ambizioni, viveva si può dire come in un intontimento di
tutto l’esser suo.

E come spesso le avveniva, si era immersa nei suoi pensieri, e in essi
si era obliata quando udì venire dalle altre stanze la voce del padre.
Assai angusta era la dimora in cui la Regina amava di racchiudersi e
quindi maggior cautela occorreva per nascondere l’assenza della regal
donna, perciò Alma si trasse con uno sforzo dai suoi pensieri, uscì
dalla camera, ne chiuse a chiave la porta e si diresse verso quella in
cui il padre l’aspettava.

— E Sua Maestà? — le chiese il duca dopo averla baciata in fronte. — Mi
han detto che è indisposta.

— Sì, padre mio — rispose lei che per dissimulare il suo imbarazzo si
era rivolta al servo che si teneva ritto presso la porta, per dirgli:

— Sua Maestà dorme: avvertite i servi che non facciano rumore.

Il duca intanto si era seduto su un divanetto: Alma gli si sedette
vicino, non osando rivolgergli la parola temendo di tradirsi.

— Ma come è venuto in testa a Sua Maestà di lasciare la villa,
dimora di lei assai più degna? Questa è appena appena adatta per una
famigliuola di borghesucci.

— Voi sapete, padre mio — rispose Alma — che io non discuto gli ordini
e i voleri della mia signora.

— Lo so, lo so che tu... sei una gran furba tu, con quella tua aria
di sognatrice. Io ero venuto per discorrere di cose assai gravi con la
Regina... Se potesse concedermi udienza aspetterei che si svegli...

— Sarebbe meglio che veniste un altro giorno. Sua Maestà nell’andare
a letto oppressa come era da una fiera emicrania, mi disse che non
sarebbe stata in grado di ricevere neanche il Re.

— Il Re lo credo: non le parlerebbe che di caccia e di pesca; ma chi
come me deve parlarle nel suo interesse, e, figlia mia, bisogna che
anche tu lo sappia, pure nel nostro...

— Tornerete un altro giorno, vi ripeto; così avrò il piacere che
raramente mi concedete, di rivedervi.

— Ah, figlia mia! — esclamò il duca scrollando il capo e dandosi un
pugno sulle ginocchia — è un rimprovero questo, un rimprovero che io
non merito. Io non posso, non posso muovermi così spesso da Palermo
come pur vorrei, perchè son costretto a star ben guardingo per
difendermi dalle insidie dei miei nemici, i quali mirano a scalzarmi
dall’ufficio di sopraintendente alla Marina che il Re mi diede e
che gl’Inglesi vorrebbero togliermi per darlo a chi meglio di me ha
saputo entrare nelle loro grazie. E sarei rovinato se perdessi un tale
ufficio.

— Rovinato voi, il duca di Fagnano, il più ricco signore del Regno?

— Un tempo, prima che il Governo francese sequestrasse i nostri
beni!... E poi... tu non sai nulla, povera figliuola? Ma è meglio che
lo sappia da me, è meglio. Hai tu sentito parlare d’un tuo zio, una
testa matta, che faceva lo stregone e insieme il repubblicano, lui, di
una stirpe così nobile come la nostra che fu sempre puntello dei Re e
sostegno della Santa Madre Chiesa! Ebbene, quel tuo zio che io credevo
da gran tempo morto in Francia, ov’era fuggito, è tornato in Calabria
al seguito dei Francesi che lo hanno messo in possesso de’ miei beni e
lo hanno riconosciuto come duca di Fagnano!

— Mio zio? Vostro fratello dunque?

— Fratello, sì, non lo nego, pel sangue; ma egli ha rotto ogni legame
con me fin da quando per le sue perverse opinioni e per le sue azioni
malvagie si rese indegno della nostra famiglia. Un discendente dei
duchi di Fagnano, che ha del sangue regale nelle vene, far comunella
coi peggiori scellerati, congiurar contro i troni e contro la nostra
sacrosanta Religione! Ah, che la vergogna m’inonda la faccia ai
rossore! Quel mio... ebbene, sì, quel mio fratello, non contento di
aver dato l’anima all’Inferno praticando le più orrende stregonerie,
si bruttava di tutti i vizi, sedusse una donna dalla quale dicesi
abbia avuto un figlio, un bastardo, capace di ogni nefanda azione. Ma
di più non ti dirò per non affliggerti. Vedi dunque a che son ridotto
io, unico e solo duca di Fagnano: vedi a che mi ha ridotto la fedeltà
al mio Re e l’averlo seguito qui; che se io fossi rimasto in Calabria
e avessi fatto adesione al Governo francese, quel... quel mio fratello
non avrebbe avuto la tracotanza di tornare là donde una sentenza della
gran Corte Criminale lo aveva scacciato!

Si era alzato e misurava la stanza a gran passi in preda alla collera
che gli aveva acceso il volto.

— Padre mio — disse lei per calmarlo — è pur sempre vostro fratello!

— Che fratello, che fratello! Infine chi ne soffrirà il maggior danno
sarai tu, mia cara, ed ero venuto appunto per parlarti di un certo mio
disegno...

— Che disegno? — chiese lei guardando il padre tra curiosa e
impensierita.

Il duca facendo forza a se stesso, aveva ripreso il suo consueto
aspetto. Tornò a sedersi vicino alla figliuola e le disse guardandosi
intorno:

— Possiamo discorrere sicuri di non essere uditi?

— Ma sì...

— E di non essere interrotti?

— Nessuno oserà di entrare qui dentro.

— E se la Regina ti farà chiamare? Perchè quel che debbo dirti esige da
te una risposta precisa e risoluta che sarà, ne son certo, quale io la
voglio e quale il mio ed il tuo interesse la impongono.

— Non verrà nessuno qui. Parlate — disse lei vieppiù sorpresa e
impensierita.

— Chiudi quella porta.

Ella si alzò e chiuse la porta; quindi tornò presso il padre e stette
in attenzione di quel che le dovesse dire.

— Figlia mia — incominciò il duca. — Sua Maestà la Regina deve pur
comprendere che tu non puoi sacrificare la tua bella e fiorente
giovinezza al suo servizio e che devi pur pensare al tuo avvenire.
Se è a te indifferente perchè alla tua età non si bada al poi, corre
a me l’obbligo di pensarci onde tu un giorno non debba rimproverarmi
d’essere stato un cattivo padre. Insomma, a farla corta, bisogna che tu
lasci il servizio della Regina e te ne torni con me a Palermo.

— Lasciar la Regina, padre mio? — esclamò lei con visibile rammarico.
— Lasciarla proprio ora quando è da tutti abbandonata, quando non vede
intorno a sè che degli indifferenti o peggio, degl’ipocriti!

— Bei sentimenti questi, che molto ti onorano! — rispose il duca con
accento carezzoso, come se in cuor suo fosse ben lieto della bontà
della figlia. — Ma — continuò poi, mutando di tono — ma il proprio
interesse, il proprio avvenire innanzi tutto. Non c’illudiamo: i
Borboni...

S’interruppe per guardarsi di nuovo intorno: poi chinandosi per
avvicinarsi vieppiù alla giovinetta, continuò con voce sommessa:

— Non c’illudiamo: i Borboni attraversano un brutto quarto d’ora. Han
perduto il Napolitano ed han quasi perduto la Sicilia. Nè i Francesi,
nè gli Inglesi restituiranno quello che hanno tolto. È un’infamia, è
una prepotenza, è un delitto, non dico di no, ma quando i delitti son
commessi dai potenti, si ammirano, si esaltano e si trova sempre una
parola acconcia per legittimarli. Bisogna dunque, figlia mia, pensare
ai casi nostri, anzi pensare ai casi tuoi. Puoi tu, bella, colta,
leggiadra come sei, con un bel nome, un gran nome anzi, ad onta che
i Francesi ne abbiano investito un altro, puoi dunque continuare a
vivere in una villa, lontana da ogni centro di vita e di progresso,
in compagnia di una donna, per quanto sia una regina, già logora, non
dico dai vizi, come pretendono i suoi nemici, ma dalle sventure, alcune
delle quali ben meritate in verità?

— Padre mio — mormorò Alma, mal dissimulando la sua indignazione per
quel linguaggio che ascoltava, sempre più stupita — parlavate ben
diversamente in altri tempi... Allora la Regina al cui servizio ambiste
di mettermi, era per voi...

— Quel che è ancora adesso! — si affrettò a dire il duca interrompendo
la figlia della quale non gli era sfuggito lo sdegno. — Io l’ammiro
anzi, per la sua energia, pel suo intelletto, per l’anima veramente
non degenere da quella di sua madre Maria Teresa; e convengo, sì, che
se fosse stata coadiuvata da uomini di saldo animo al par del suo, ben
diversa sarebbe stata la sua sorte. Ma intanto il fatto è questo che
ella ha perduto ogni potere e che la sua amicizia, non solo a nulla più
giova, ma è dannosa, è rovinosa, a chi si ostina ancora a conservarla.
Ecco, per esempio: sai con quali armi mi combattono i miei nemici, o
meglio, coloro che aspirano a beccarsi la mia carica di sopraintendente
della Real Marina? Col dire che io sono un borbonico sfegatato, servo
di Maria Carolina, della quale la mia figliuola è lettrice! Debbo io
dunque offrire il fianco alle accuse dei miei nemici, debbo io stesso
somministrar loro le armi per ferirmi?

Era la prima volta che Alma leggeva addentro nel cuore del padre e ne
fu spaventata ed insieme acerbamente afflitta. Le si rivelava in tutto
il suo cinismo e in tutta la sua volgare ipocrisia; pure lo sdegno
combatteva in lei con l’amore e col dovere di figlia, troppo ribadito
nel cuor suo perchè potesse così di un tratto venir meno.

— Ma che volete da me, padre mio? — disse infine.

— Che mi segua a Palermo. Non ora, beninteso, ma fra qualche giorno.
Incomincerai col fingerti malata; io verrò con un medico, il quale
ti ordinerà di mutar clima... Così la Regina non potrà aversi a male
se la lasci. Vedi che io non voglio guastarti con lei, quantunque,
figlia mia, quando il proprio interesse lo impone, è da sciocchi aver
riguardi.

— E... venendo con voi a Palermo, in casa vostra ove sarei sola, io
povera ragazza, senza una madre, senza una parente... che farei in casa
vostra?

— Intendo, intendo quel che vuoi dire... La convenienza, è vero,
vorrebbe che tu avessi la compagnia di una signora matura, del nostro
grado. Ma poichè tu vi dimorerai per poco...

E il duca con aria sorridente, poichè riteneva di essere già riescito
nel suo intento, e compiaciuto in cuor suo che Alma si fosse mostrata
così pieghevole, la guardò con una espressione di sottile malizia negli
occhi.

— Non ti ho detto ancora la cosa più importante... quella per la
quale son venuto, e che mi sta a cuore pel tuo avvenire, per la tua
felicità... Veggo che ti struggi dall’impazienza di saperla, se già non
l’hai indovinata...

— Io non ho indovinato nulla — rispose Alma seria e grave.

— Dimmi un po’ quanti anni hai?

— Ventidue credo.

— A ventidue anni tua madre, quella santa e pia creatura che mi è
morta...

E il duca s’interruppe per alzar gli occhi al soffitto della stanza.
Poi continuò:

— Tua madre dunque a ventidue anni era già sposa da tre anni e aveva
una figlia, l’unico frutto del nostro amore.

— Ebbene?

— Ebbene, tu sei già una vecchia zitellona in questo paese in cui le
donne vanno a marito a dodici anni. Bisogna dunque far le cose alla
svelta. Io ho già bell’e pronto un buon partito per te e... per me:
lord Arturo Chilson, capitano di vascello della Real Marina britannica
e cugino... ascolta bene... e cugino di lord Bentink che è il vero
signore e padrone della Sicilia.

Ella era divenuta scarlatta in viso; si sentiva soffocare dall’orgasmo
in cui l’avevan messa le parole del padre. Con gli occhi chini,
anelante, non poteva profferir motto.

— Tu comprendi tutti, tutti i vantaggi — continuò il duca che
attribuiva il silenzio e il visibile orgasmo della giovinetta
all’orgoglio lusingato che però il pudore facea dissimulare — di un tal
matrimonio? Tu sarai tra le più belle, più ricche, più potenti signore
di Palermo, cugina nientemeno del vero Re di Sicilia, ed io... già
io purchè ti vegga felice, altro non bramo. Lord Arturo Chilson non
si può dire un giovanotto di primo pelo, ha di qualche anno varcato
la cinquantina, non è certo un Adone, ma in compenso è alle porte per
esser nominato contro ammiraglio, è ricco a milioni ed è molto amato e
stimato dal suo re. Ma tu devi ricordartelo: ti fu presentato a Palermo
nel palchetto della Regina, e da quella sera, mi han detto, egli
vagheggia di farti sua moglie.

— Sì — rispose Alma che si era riavuta — sì, lo ricordo bene, un
omaccione rozzo, arrogante, che quella sera era ubbriaco come il più
maleducato dei suoi marinai, e bestemmiava in inglese credendo che
nessuno capisse la sua lingua.

Il duca rimase interdetto. Nell’accento della figlia gli era parso
d’intravedere una sottile ironia. Era pur corrispondente al vero il
ritratto che Alma avea tracciato di lord Arturo Chilson, del quale eran
note a tutta Palermo le sbornie; pure riprese come se non desse molta
importanza alle parole della figlia:

— Ah già: gli è che è un marinaio, un vero marinaio; non è al certo
uno di quei bellimbusti impomatati che parlano in punta di forchetta!
È un bel lupo di mare il quale preso pel suo verso può esser ridotto
un agnellino da una donna di garbo. Dunque che ne dici? Già, una
superfluità il chiedertelo. Una ragazza saggia, seria, benedice il
Cielo per una tale fortuna... Benedice il Cielo ed anche il padre suo
che ha saputo procacciargliela... Non è vero forse?

Alma si alzò. Era grave, fredda, severa.

— Padre mio, — disse con voce ferma, ma tranquilla — il dovere mi
chiama nella camera di Sua Maestà che mi ha ordinato di svegliarla
nell’ora che scocca adesso. In quanto ad abbandonarla mentre tutti
l’hanno abbandonata, tutti quelli che ne ebbero favori ed onori
strisciando alle sue ginocchia allorchè essa era potente e temuta,
io, intendete? io non lo farò mai, nè alcuno sarà tanto ardito da
strapparmi dal suo fianco. È sempre lei la Regina di Napoli e di
Sicilia, è sempre lei la nostra Sovrana. In quanto poi al matrimonio
che mi proponete con un Inglese villano e scostumato, non ho che una
sola parola da rispondervi... Rifiuto.

Non aveva ancor proferito questa parola che il duca si era alzato
sconvolto, furente; e mettendosi le mani nei capelli:

— Rifiuti?... Ma è la mia rovina, intendi? la mia rovina! Ma è il
trionfo dei miei nemici che del tuo rifiuto si avvaleranno per finire
di perdermi nell’animo di lord Bentink.

— Direte a lord Bentink che il rifiuto viene da me, da me sola.

— Si dirà che hai rifiutato per odio contro gli Inglesi, che hai
rifiutato per una sciocca, per una stupida avversione politica,
che ti han guastato il capo coi balordi principi d’indipendenza, di
patriottismo e che so io... E magari accusassero te sola: accuseranno
me, me che sono affatto innocente, me che sono stato sempre un
uomo serio e che ho riso di tali scempiaggini. L’indipendenza, il
patriottismo! Eh via, non ci è che il proprio tornaconto al mondo!

E divenendo carezzevole, quasi umile, con voce piagnucolosa continuò
rivoltosi alla figlia che l’ascoltava impassibile, ritta in piedi
innanzi alla porta, con la mano alla chiudenda:

— Via, riflettici bene. È la tua e la mia fortuna, capisci? E se
anche ti costasse un sacrifizio non rifletti tu al gran compenso che
te ne verrebbe? Sei stata sempre docile, rassegnata, pieghevole, si
può dire che non hai avuto mai una volontà tua, ed ora, di un tratto
mi ti riveli sotto un aspetto che non mi ti fa più riconoscere! Che
importa a te che il marito sia un inglese o un siciliano, un giovane
o un vecchio? Non ti sei mostrata sempre indifferente a tutto, non è
trascorsa quasi tutta la tua prima giovinezza in una completa dedizione
di te alla volontà mia e a quella della Regina? Com’è che di un tratto
vuoi far di tua testa e rifiuti di salvarmi, comprendi? di salvarmi?

— Padre mio — rispose lei con voce dolce ma sincera — voi non mi avete
mai conosciuta e non mi avete mai compresa.

— Che vuoi tu dire?

— Nulla che siate in grado di comprendere ora.

Egli fraintese il significato di quelle parole; nella sua mente
balenò un pensiero, che sua figlia chiedesse del tempo per risolversi,
trattandosi di una decisione così grave. A tale idea si rincorò: gli si
rasserenarono i tratti del viso, gli occhi ebbero un lampo di gioia.

— Ebbene, sì, hai ragione; ora non sono in grado di comprendere nulla
perchè confesso di essere in un grande orgasmo. Tornerò sicuro che
tu avrai vagliato le mie ragioni, sicuro che avrai apprezzato le mie
proposte che ogni ragazza avrebbe accolto con un grido di gioia. No,
non te ne ripeto i vantaggi, i vantaggi che potrebbero essere enormi,
intendi? enormi!

E mentre si copriva dopo aver gettato sulle sue spalle il mantello, si
avvicinò alla figlia e le disse sottovoce guardandosi intorno col suo
consueto fare sospettoso:

— Cugina di lord Bentink, capisci? Ciò vuol dire, avendo un po’ di
senno ed essendo una donna giovane e bella, esser l’unica e sola regina
di Sicilia.

Ella aveva aperto la porta presso la quale si teneva, pallida,
immobile, silenziosa. Appena un fremito delle labbra ed un corrugar del
ciglio erano stati indizio del suo sdegno. Non si piegò e non rispose
al bacio del padre che era tornato gaio e disinvolto.

— Bacerai per me la mano a Sua Maestà — le disse — e mi scuserai con
lei. Tornerò da qui a quindici giorni, chè prima non potrò muovermi da
Palermo. Tu intanto rifletterai. Ho troppa stima della tua saggezza per
aver dei dubbi sul risultato delle tue riflessioni. Già, io son sicuro
che la tua decisione è presa fin da adesso ed è quale esser deve pel
tuo e il mio interesse; ma conosco, conosco le donne: so che vogliono
esser pregate a dir di sì anche quando anelano di assentire... Fra
quindici giorni, dunque, fra quindici giorni.

Ella voltasi al servo che avea chiamato con uno squillo di campanello,
disse:

— Accompagnate il signor duca fino alla sua carrozza.

— A rivederci da qui a quindici giorni, figlia mia — ripetè il duca
salutandola con la mano.

Alma lo vide discendere la scaletta della torre che metteva alla porta
principale, e continuò per un pezzo a tenersi immobile, pallida in viso
e con gli occhi fisi a sè dinanzi. Infine si scosse e lentamente si
avviò verso la camera della Regina. Ivi giunta si lasciò cadere su una
ampia poltrona presso l’aperta finestra.

Il giorno già declinava: il sole infuocato scendeva sul mare in un
nimbo di nubi purpuree; sul mare calmo e di un azzurro cupo guizzavano
le fiamme del sole che tingevano di un sanguigno chiarore le vette dei
colli.

Non un viandante pei sentieri, non un contadino pei campi, e nella
solitudine profonda il silenzio di quel tramonto di autunno.

Ella poggiò i gomiti sul davanzale della finestra e stette un buon
tratto perduta nella contemplazione. Da prima il suo pensiero era fatto
di mille pensieri senza che potesse affissarsi in uno: le parole del
padre erano state la pietra che si getta nel padule, erano state il
soffio del vento che sconvolge le acque del lago fino allora stagnanti.
Il cinismo di quel vecchio non le riusciva nuovo, che ella, per quanto
si fosse mantenuta affatto estranea agl’intrighi dei cortigiani, ne
sapeva le ipocrisie e le perversità; e se suo padre era al par degli
altri ipocrita e perverso, non era al certo peggiore. La Regina si era
spesso rammaricata con lei delle sue disillusioni; nessuna sorpresa
dunque aveva in lei prodotto il linguaggio del padre, il quale fin da
quando i Sovrani erano stati esiliati da Palermo si era tenuto lontano
da essi, temendo di cadere in sospetto degl’Inglesi.

Ma ciò che ne aveva turbato profondamente l’anima era stato il
linguaggio che le aveva tenuto, sul suo avvenire e l’oscena e vile
proposta di quel matrimonio, che l’aveva costretta a ripiegarsi sul
suo cuore, ad interrogarsi, a penetrare attraverso la nebbia che
aveva fin’allora avvolto i suoi sentimenti. Perocchè, nelle parole
di suo padre ci era pure un fondo di verità, ci era pure un esatto
apprezzamento della condizione di lei. Invero, quale ne sarebbe stato
l’avvenire se avesse dovuto lasciare il servizio della Regina? Avrebbe
dovuto rinunciare ai suoi sogni ed accettare la triste, nauseosa realtà
della vita, dandosi ad un uomo che avesse avuto la vernice di un titolo
e di una ricchezza, e che ella non avrebbe amato, da cui non sarebbe
stata amata?

Aveva vissuto fino alla sua età di ventidue anni permanentemente
in un sogno, ciò che l’aveva fatta del tutto estranea, agl’intrighi
che vedeva svolgersi a lei d’intorno. Tra la folla di cortigiani in
cui aveva vissuto, ella così soavemente leggiadra, se pure era stata
fatta segno alle galanti premure dei giovani signori, o non li aveva
visti, o non li aveva curati; e se anche per poco lo sguardo e il
sorriso di un uomo erano giunti ad interessarla, aveva visto in breve
ora dileguarsi quello interessamento, non le restando che un senso
increscioso di meraviglia come ella avesse potuto anche per un istante
accogliere nell’animo suo il pensiero di quel sorriso e di quello
sguardo! Era giunta a credere quel che gli altri credevano di lei, che
fosse del tutto all’amore insensibile, come la Regina più volte le
aveva ripetuto. E si era così ostinata in tal pensiero da non saper
comprendere come una donna potesse darsi in piena balìa d’un uomo e
sottoporsi ad un connubio nel quale l’anima non avesse parte.

A tal pensiero rabbrividiva; l’anima si ritraeva sgomenta come innanzi
ad una mostruosità oscena. Era quella la realtà della vita, ben lo
comprendeva, ma comprendeva anche che non si sarebbe mai acconciata ad
una tale realtà e la respingeva con ribrezzo da sè, pur vedendo che era
da tutte le ragazze della sua età e della sua condizione accettata con
entusiasmo.

Ma era del tutto sgombra l’anima sua da ogni aspirazione? Ma nei
suoi sogni, per quanto vaghi, nessuna immagine di uomo ne turbava la
serenità del cuore e dello spirito?

Fin’allora aveva deluso una tale domanda che spesso si era rivolta,
quantunque un ricordo, un dolce ed insieme amaro ricordo le salisse
dal fondo dell’anima ogni qualvolta interrogandosi si ripiegava su sè
stessa. No, non avrebbe potuto dire che il suo cuore fosse del tutto
sgombro, non avrebbe potuto dire che tra il suo sogno e lei non si
frammettesse talvolta la immagine di un giovane intorno al quale si
svolgeva, suo malgrado, quel sogno. Quantunque non sapesse dell’amore
che quel che ne aveva inteso, attenuato dai riguardi che si avevano per
lei, pure il suo sogno era tutto fatto d’amore che intuiva come qualche
cosa di formidabile, al quale avrebbe dato tutta sè stessa, in una
dedizione intera dell’esser suo.

Ma chi era quel giovane che ella intravedeva nel buio delle sue notti
insonni? Chi era quel giovane che nei suoi vaneggiamenti, nelle sue
torride veglie, nei suoi indefinibili desideri ella vedeva sorgere a
sè dinnanzi pur senza evocarlo, pur respingendolo, ma invano, pur non
osando rivolger a lui il pensiero, tanto le pareva colpevole quella
visione?

Ed i suoi sogni di fanciulla erano stati finallora senza determinatezza
e le larve che fugacemente le apparivano non avean viso. Ma ora ne
avevano uno; da una sera, da una notte avevano uno sguardo, un sorriso,
una figura che ella riconosceva perchè l’aveva vista altre volte nella
lontana infanzia un giorno, là nella solitudine della sua Calabria.
L’aveva vista altra volta, ma avrebbe ritenuto per ben folle chi le
avesse detto che un giorno ella avrebbe accolto nell’anima sua la
visione di quel giovane e l’avrebbe custodita come un gioiello che non
ci appartenga, che non potrà mai appartenerci e che rappresenta una
colpa agli occhi del mondo, una insidia infernale ai propri occhi!

Quel giovane, della cui voce udita ben poche volte aveva pieno
l’orecchio, del cui sguardo che si era incontrato col suo non più
di due o tre volte, aveva la luce nel cuore, il cui sorriso triste e
dolce insieme vedeva in tutti i suoi sogni; che inesorabilmente le era
dinanzi, attirandola a sè, mentre ella ben sapeva che oltraggioso era
il fascino che ne subiva; quel giovane che non aveva più visto dacchè
in una notte in cui lo aveva sorpreso fra le braccia della Regina,
aveva esposto la sua vita come già altra volta, per lasciar loro il
tempo di porsi in salvo, era... l’amante della Regina!

L’amante della Regina!... Perocchè nulla, nulla a lei era sfuggito,
tutto aveva compreso, la sua inesperienza verginale essendo stata
acuita dalla gelosia, una gelosia vaga che non aveva odi, ma che aveva
sofferenze ed amarezze.

Pure ella si sentiva amata da quel suo sogno: ella ricordava i giorni
della sua infanzia in cui lo aveva incontrato la prima volta, e nello
sguardo che egli le aveva rivolto allorchè in quella notte al castello
si era incontrato in lei, aveva letto l’anima di lui nella quale ella
si sentiva. Ma ormai un doppio abisso li separava: l’esser lui un
povero avventuriero e l’esser lui l’amante della Regina!...

Un povero avventuriero! No, non era questo l’abisso insuperabile
essendo egli nobilitato con un decreto reale che gli conferiva un alto
grado nell’esercito: eppoi, quantunque ella vivesse in una Corte che
rappresentava quanto vi era di più vieto negli antichi pregiudizi,
quanto di più rigido nel rispetto per le prerogative nobiliari, al
soffio dei nuovi tempi si erano incominciati a piegar gli animi,
tanto che si era parlato sul serio del matrimonio di una figlia del Re
col principe Beauharnais il cui padre era stato un povero soldato di
ventura, e si dava per certo quello di una Arciduchessa d’Austria col
glorioso Imperatore dei Francesi, figlio di un borghese di Ajaccio! Se
dunque quel giovane fosse andato in Sicilia a far valere i suoi diritti
ad un reggimento nell’esercito, bene avrebbe potuto aspirare a lei...

Ma non era lui l’amante della Regina? E poteva ella accogliere e
vagheggiar nell’anima sua quello amore per un uomo del quale la
Regina aveva fatto il suo amante? Se pure egli, quando non era ancora
il capobanda famoso che aveva reso tanti servigi alla causa del Re
e salvato col rischio della vita più volte la Regina, ma un oscuro
contadinello, un povero bastardo, aveva osato volgere a lei l’anima
sua, cosa aveva fatto di quell’anima la tresca nella quale si era
lasciato impigliare?

Ella non osava fermarsi per analizzarne la natura, chè ripugnava
alla sua purezza di fanciulla, comprendendo vagamente esser quello
un amore del quale ella non doveva discorrere neanche a sè stessa
senza arrossirne. Si trovava dunque in un turbamento che la rendeva
insoddisfatta di sè e degli altri, benchè un tale turbamento in nulla
scemasse il fascino che su lei esercitava la sua Sovrana e non le
impedisse di volgere il pensiero a quell’uomo dal quale un abisso
insormontabile la separava, pur senza fargliene una colpa; chè non era
tanto inesperta della vita da non comprendere certe contradizioni cui
può indurre un momento di ebbrezza. Ma comprendeva anche che ella non
avrebbe mai svelato l’amor suo ad un uomo che avesse avuto ancor calde
le labbra dei baci di una donna, ad un uomo che non fosse tutto suo pur
sentendosene profondamente ed unicamente amata!

Non era quella la prima volta che l’anima sua meditabonda vagava
in tali pensieri che aveva tenuto gelosamente occulti. Da tutti era
creduta fredda d’indole e che col cuore vuoto e sereno vivesse come del
tutto estranea alle passioni che le fremevano d’intorno. La compiacenza
di lei per la solitudine, la sua aria pensosa, la sua docilità
tranquilla al subito volere e disvolere della Regina erano interpretate
per indizio di una natura senza volontà e senza energia. Solo la Regina
aveva talvolta dubitato che ella fosse ben altro, in fondo; che se era
così fredda ed altera coi cortigiani, alcuni dei quali avevano per la
giovinetta un’ammirazione che avrebbe potuto divenire amore sol che
ella l’avesse voluto, un mistero si nascondeva in cuor suo, quantunque
sapesse ben nasconderlo. L’aveva vista trasalire allorchè talvolta le
parlava di Riccardo, ma poichè tornava di un subito indifferente, il
vago sospetto dileguava per tornare a balenarle più vivo ad un nuovo
incidente.

Ma ella era vittima di un fenomeno strano: finchè sapeva vivo Riccardo
aveva imposto a sè stessa di respingerne l’immagine, di stornarne il
pensiero non solo perchè le pareva indegno di lei, ma anche perchè le
faceva correre dei brividi per le vene ricordandole quelle notte in
cui l’aveva sorpreso in una stanza con la Regina, ricordando quelle
notti in cui a Napoli, mentre egli era convalescente in una stanza del
palazzo reale la Regina era stata con lui fino all’alba.

Ella era stranamente turbata dalle visioni che le destava quel ricordo
nelle quali sentiva germogliare quasi una punta di odio e di sdegno
per la Regina e per Riccardo: ma da quando si era andato accentuando il
dubbio che egli fosse morto o per le ferite riportate nell’assalto del
castello, o in uno scontro coi Francesi, pensava a lui con melanconica
dolcezza e giungeva financo a credere che ne amasse la memoria come
se la morte, depurandolo, lo avesse reso a lei e fatto tutto suo,
perchè credeva che la Regina, distratta da altre cure, impigliata in
tanti intrighi, lo avesse del tutto dimenticato, quantunque di tanto
in tanto, allorchè più urgente era il bisogno di un amico risoluto e
devoto, con rammarico profondo ne deplorasse la perdita.

L’immagine di lui che sorgeva da un letto di morte le era assai più
cara dell’immagine di lui fra le braccia della Regina, e Alma si era
fatta un’amara ed insieme una invocata compagnia del pensiero di quel
morto che la teneva assorta per ore e ore in un tacito raccoglimento.

E quella sera appunto mentre il sole declinava lontano sul mare che
aveva mormori lamentevoli, era stata per un pezzo affissata in tal
pensiero, nel quale l’anima sua si era rifugiata per dimenticare le
tristi cose che il padre le aveva detto e l’osceno mercato che le aveva
proposto.

Mentre era così assorta, le ombre della notte scendevano lentamente
velando le cose. La Regina intanto tardava a tornare; ella però non era
punto preoccupata, avvezza alla vita avventurosa di lei e nulla temendo
per sè, chè la torre se non era una comoda dimora poteva dirsi ben
sicura.

In questo ella udì verso la spiaggia rimbombare alcuni colpi di fucili.

— Dio mio, la Regina forse, la Regina! — esclamò lei alzandosi di
botto. — Un qualche incontro, un qualche agguato!

E stette col cuore tremante, con gli occhi fissi verso la spiaggia
donde giungevano a lei alcune voci che le parvero di uomini che
inseguissero un uomo. Ma nulla vedeva perchè l’estremità del colle
dietro al quale avveniva l’inseguimento glieli nascondeva. Infine
vide come un’ombra che di corsa si dirigeva verso la torre, seguita
da alcune altre che le parevano soldati. Ad un punto l’inseguito
si fermò ed esplose due colpi d’arma da fuoco i quali arrestarono
gl’inseguienti, certo perchè alcuni di loro erano stati feriti. Ma
intanto altri soldati avevano raggiunto i primi, e tutti insieme si
diedero di nuovo ad inseguire il comune nemico.

— Non si tratta della Regina, Dio sia lodato! — disse lei traendo
un sospiro di sollievo. — Sono soldati inglesi che inseguono qualche
povero diavolo di siciliano.

L’inseguito si era sempre più avvicinato alla torre, ma quando era
per esser raggiunto da alcuni soldati che per esser più veloci avevano
sorpassato gli altri, si fermò. Ella vide che l’inseguito, un uomo, al
certo un giovane a giudicare dalla snella ed agile persona, si rivolse
per affrontarli: la mischia fu breve e feroce, ella sentì alcune grida
di dolore venir dal gruppo dei combattenti.

— L’avranno ferito, l’avranno ferito! — disse a sè stessa col cuore
stretto dall’angoscia per quell’orrendo spettacolo.

Pure non sapeva staccar gli occhi da quel gruppo in cui vedeva
dibattersi l’inseguito a favor del quale ella pregava, prendendo parte
a quella impari lotta con animo trepidante.

— Salvo, salvo un’altra volta! — gridò, vedendo che il giovane si era
di nuovo liberato dai suoi nemici, uno dei quali giaceva lungo disteso
a terra, e correva verso la torre da cui era lontano non più di trenta
passi.

Era vestito di nero, col cappello alla calabrese tirato fino sugli
occhi.

— Un calabrese — mormorò lei — un calabrese!

Sapeva che chiamati dalla Regina ne erano sbarcati molti, deludendo la
vigilanza degl’Inglesi, onde ella sussultò con una vaga apprensione
e con un più vivo interessamento ormai per la sorte di quel suo
conterraneo, di cui tra per l’ombra della sera, tra pel cappello calato
sulla fronte non giungeva a vedere il viso.

Quando fu sotto la torre ella si sporse, mentre i soldati che
emettevano grida di rabbia si erano avvicinati anch’essi, tanto che
ella poteva vederne gli abiti rossi. Ma giunti innanzi la torre si
fermarono interdetti.

— Ne hanno perduto le traccie — esclamò lei — avrà guadagnato l’erta
del colle dietro la torre...

Si tolse dalla finestra, accorse all’altra di contro donde potevasi
vedere il colle dirimpetto. Appuntò gli occhi, scorse con lo sguardo
per tutta la pendice... Nessuno!

— Per dove sarà fuggito, per dove? — mormorò sorpresa, spiegandosi il
perchè i soldati si fossero fermati incerti.

Questi non erano più in pochi perchè raggiunti dagli altri, fra cui
riconobbe un ufficiale che interrogava coloro i quali erano stati alle
prese con l’inseguito.

— Ah! — disse lei, ammirata dal valore del fuggitivo che per ben due
volte aveva sostenuto una lotta così impari uscendone vittorioso, e
nella quale aveva dovuto uccidere o ferire parecchi degl’inseguitori —
un eroe, un eroe! Se la Regina ne avesse molti come questo calabrese e
come...

Le sue labbra mormorarono il nome di Riccardo. Sospirò e si ritrasse
dalla finestra avendo sentito un rumore nella stanza attigua nella
quale uno dei servi accendeva i lampadari.

— Eccellenza — disse entrando uno dei valletti che faceva l’ufficio
di maggiordomo nelle brevi dimore di Sua Maestà in quella torre — un
ufficiale inglese chiede un’udienza a lei, signora duchessa, avendogli
io detto che Sua Maestà è indisposta.

Ella trasalì: certo nella chiesta udienza ci entrava per qualche cosa
lo scacco che i soldati di Sua Maestà Britannica avevano patito.
Comprese che non sarebbe stato prudente il negarsi di riceverlo e
rispose:

— Introducetelo.

Non si sentiva punto tranquilla, chè sapeva quanto fossero rozzi
e arroganti gli ufficiali inglesi anche con le donne e in quanta
diffidenza tenessero la Regina e coloro del suo seguito. Sedette con
l’animo sconvolto, ma nulla ne traspariva dall’aspetto che era quale si
conveniva ad una giovinetta del suo grado.

— Sir Edoardo Walter — annunciò il maggiordomo.

L’ufficiale inglese, un uomo già maturo dai capelli e dai baffi rossi
in un viso butterato dal vaiuolo, si avanzò verso Alma, ma parve ben
sorpreso di trovarsi innanzi ad una giovinetta.

— Ella ha chiesto un’udienza a Sua Maestà, ma è indisposta e ha
ordinato che non la si disturbi per nulla. Può dire a me quel che le
occorre.

— A lei! — disse l’ufficiale imbarazzato. — Ma Sua Maestà non ha la sua
dama di compagnia?

— Ne fo io le veci.

— Quando è così... Gli è che ella è tanto giovane... Insomma, io sono
nella necessità di frugare per tutte le stanze di questa torre nella
quale credo si sia nascosto un tale fuggitivo dalle mani de’ miei
soldati, dopo averne feriti due e temo ucciso un altro.

— Ma — rispose Alma con accento reciso — sa che questa è la dimora
attuale della Regina di Sicilia, nostra signora e nostra padrona
assoluta, e che se anche quel calabrese...

— Come sa lei che è un calabrese?

Ella arrossì e rimase interdetta. Fece uno sforzo per rasserenarsi e
ripigliò:

— Me ne sono avvista agli abiti. Fui testimone dello inseguimento
stando alla finestra. Non credo che il fuggitivo abbia avuto l’audacia
di ricoverarsi proprio qui. Di dove sarebbe entrato? Non vi ha che una
sola porta custodita dal negro della Regina.

— Dietro la torre vi sono delle finestrette, degli spiragli che,
come ho visto, possono lasciar passare un uomo. Del resto è nota
la predilezione di Sua Maestà per cotesti Calabresi che con la loro
furfanteria han compromesso innanzi all’Europa la causa dei Borboni.

— Ella offende la mia Regina! — gridò Alma alzandosi — la mia Sovrana,
alla quale qui tutti debbono rispetto ed obbedienza non esclusi gli
ufficiali inglesi, essendo essa l’amica e l’alleata di Sua Maestà il Re
d’Inghilterra.

Il fiero aspetto e la dignitosa persona della giovinetta imposero
all’ufficiale che balbettò con tono più umile:

— Non ho punto voluto mancare di rispetto a Sua Maestà; pure debbo
compiere il mio dovere...

Ella comprese che non doveva spinger le cose all’estremo. Se
l’ufficiale, cocciuto come tutti gl’Inglesi, avesse voluto usare della
forza, come già molte volte era avvenuto, e fosse penetrato financo
nella camera della Regina, trovandola vuota non avrebbe scoperto il
mendacio di lei? E se con quel pretesto avesse voluto assicurarsi che
la Regina era altrove?

— Accetto le sue scuse — disse Alma — ma torno ad assicurarla che non è
possibile che il prigioniero sia penetrato nella torre; posso impegnare
la mia parola d’onore. Anche io che lo avevo seguito nella sua fuga,
fui sorpresa della sparizione; ma lo avrei visto se si fosse intromesso
per una finestra o per uno spiraglio, in questo luogo.

— Me ne dà dunque la sua parola d’onore?

— Sì — rispose lei con accento di convinzione che rassicurò l’ufficiale.

E veramente ella credeva per fermo di dire il vero. Come era possibile
che il fuggitivo fosse penetrato nella torre?

— Comprenderà — riprese la giovinetta — che io non posso ledere e non
posso permettere che si leda una delle prerogative delle dimore regali.
Solo la Regina avrebbe potuto concederle quel che ella ha chiesto,
signor ufficiale!

L’ufficiale pareva perplesso e irresoluto. Per quanto rozzo
comprendeva che sarebbe stata una villania inaudita il non prestar fede
all’assicurazione di quella nobile giovinetta, della quale ammirava
non solo la leggiadria soavissima, ma l’aria di bontà diffusa nello
aspetto, come ne aveva ammirato la fierezza nel difendere la sua
sovrana.

— Ma di che è reo quel... calabrese? — chiese Alma, vinta da una
curiosità nella quale c’era pure un vivo per quanto dissimulato
interessamento.

— Alcuni miei soldati — rispose l’ufficiale alquanto imbarazzato
— scherzavano un po’... troppo, via... un po’ troppo vivacemente
con certe ragazze del vicino villaggio, le quali... le quali se ne
mostravano offese senza ragione alcuna, perchè si sa che la giovinezza
è un po’ avventata, e poi dovrebbe pur perdonarsi ai nostri bravi
soldati, se venuti qui ad esporre la vita pel bene di questa isola
e del suo Re, cercano di prendersi un po’ di svago. Quel marrano di
calabrese, al certo un vagabondo, uno di quelli che nel loro paese
commettono ogni sorta di nefandezze col pretesto di far la guerra
agli invasori, corse senza che ce ne fosse alcun bisogno, in difesa di
quelle donne e ferì uno dei miei soldati...

Non proseguì, avendo egli una confusa coscienza che quel racconto, di
molto attenuato, produceva una sinistra impressione nell’anima della
nobile giovinetta, a danno del buon nome dei soldati inglesi. Ella non
rispose, per fargli comprendere che non aveva più voglia di continuare
quel colloquio e per liberarsi presto di quell’importuno, tanto più che
temeva sopravvenisse la Regina dalla sua misteriosa escursione.

Sir Edoardo Water era assai scontento di sè e della riuscita del suo
disegno. Come confessare di essere stato battuto da quella ragazza,
perchè sebbene non potesse dubitare menomamente delle assicurazioni di
lei, sopravviveva in lui il sospetto che il fuggitivo fosse penetrato
nella torre? D’altra parte non voleva insistere, per non esporsi,
se fosse avvenuto uno scandalo, e la Regina se ne fosse querelata a
lord Bentink, ad essere punito, tanto più che sarebbe venuto a galla
la scostumatezza e la indisciplinatezza dei suoi soldati. In odio
agl’isolani che vedevano in essi dei nemici, ben si poteva chiudere
un occhio sull’una e sull’altra, ma a patto che non destassero
troppo rumore, come aveva fatto intendere il generale Mac Ferlane che
comandava le armi di Sua Maestà il Re d’Inghilterra in Sicilia.

Volgendo in mente tali pensieri e comprendendo che sarebbe stata
villania l’indugiar più oltre, anche perchè nella sua rozzezza sentiva
il fascino di quella leggiadra e giovine creatura, salutò e senza dir
parola si diresse verso l’uscio.

Ella aveva risposto al saluto e si teneva immobile, trepidante, perchè
proprio non aveva sperato di cavarsela secondo i suoi voti. Sentì che
l’ufficiale scendeva, preceduto dal maggiordomo; per rassicurarsi corse
alla finestra e vide che i soldati, disposti in fila, prendevano la
volta d’onde erano venuti.

— Dio, ti ringrazio! — mormorò lei.

Ringraziava Dio sol perchè il segreto della Regina non era stato
scoperto, ma era ben lungi dal credere che il fuggitivo fosse nella
torre.

— Ma dove, dove mai si è nascosto? Sparito di un tratto, come se fosse
stato ingoiato dal terreno! Se avesse cercato di salvarsi su pel colle
donde incomincia il bosco, l’avrei visto attraversare il piano!

Uscì dalla stanza in cui aveva ricevuto l’ufficiale inglese e si
diresse in un gabinetto ove era solita di ritirarsi allorchè la
Regina o in colloquio coi suoi confidenti o occupata a sbrigare la sua
corrispondenza le concedeva un po’ di riposo. Quel gabinetto, incavato
per così dire nel muro massiccio della torre, era attraversato in
un angolo da una scala a chiocciola che saliva sulla piattaforma e
scendeva nei sotterranei della torre.

Ella ritrovava lì dentro i suoi libri, i suoi ricordi, ed era il luogo
che prediligeva perchè lontano da ogni rumore. Sedette sul lettuccio
da campo che era ivi con le spalle alla scaletta ed aperse uno dei
grossi volumi istoriati che divertivano la sua solitudine, proponendosi
di attendere ivi che la Regina tornasse, perocchè era convinta che
l’augusta donna sarebbe tornata a notte alta per non esser vista dai
servi e dagli staffieri.

Ma Alma non aveva testa alla lettura. La storia che l’ufficiale
inglese le aveva narrata aveva vieppiù acuito il suo interessamento pel
fuggitivo, ben comprendendo che l’ufficiale aveva di molto attenuato la
colpa dei suoi inglesi.

Non era dunque un volgare vagabondo colui che era intervenuto per
difendere alcune povere donne dalla scostumatezza soldatesca: certo
aveva ubbidito ad un generoso sentimento che gli aveva fatto affrontare
lo sdegno e la vendetta di tutto un manipolo di soldati, e l’uomo che
di tanto era stato capace non poteva essere un volgare malfattore. Si
sentiva come lusingata nel suo amore per la terra in cui era nata,
della quale sentiva talvolta un’acuta nostalgia, perocchè gli anni
suoi più belli e più dolci, prima che la paterna ambizione l’avesse
costretta a vivere nella Corte, erano stati quelli che aveva passato
nel castello dei duchi di Fagnano, e forse quel vago sentimento che
la faceva pensare a Riccardo con un senso di viva simpatia, mutatosi,
or che lo credeva morto, in una memoria dolcissima, era dovuto alla
suggestione che esercitavano in lei i ricordi di quegli anni.

Silenziosa la campagna, silenziosa la torre, chè i servi si erano
raccolti tutti nelle stanze inferiori. Ella sfogliando il volume
mentre vagava coi suoi pensieri era di tanto in tanto sopraffatta da
un senso di paura, chè aveva udito raccontare alcune leggende intorno
a quel luogo del tempo in cui i Saraceni facevano di molte escursioni
in quelle terre; leggende di donne rapite, di vendette sanguinose, di
stragi e di orrendi misfatti. Ella rabbrividiva cercando di stornarne
il pensiero, col rievocare la memoria della sua infanzia trascorsa sui
monti della lontana Calabria e delle persone che più l’avevano amata e
che ella aveva amato. Ben poche veramente: nessuna però aveva lasciato
una traccia profonda nel suo cuore i cui affetti, anche quelli di
famiglia, erano stati ben superficiali. Ah, se avesse avuto i baci e
le carezze di una madre in quella età in cui più se ne ha bisogno! ma
ella non l’aveva conosciuta la madre sua; ed il padre che aveva sempre
una ambizione da soddisfare, sempre un intrigo a cui attendere, pure
amandola molto, non aveva saputo col suo affetto far le veci dei tanti
affetti che le erano mancati.

Solo la Regina aveva saputo prender posto nel cuore di lei, che però
era come insoddisfatto di quell’amore quasi le costasse una violenza,
di quell’amore che era fatto più di suggestione che di stima verace
e profonda, ma che non era per questo meno devoto e meno capace di
ogni sacrifizio. Certo v’influiva il contrasto tra la sua natura
e quella della Regina, della quale ella non ignorava le colpe e i
vizî, pur sentendo per lei talvolta una pietà profonda che giungeva a
giustificarla e ad assolverla: certo v’influiva il vederla decaduta da
tanta altezza, circondata da nemici, insidiata, calunniata, abbandonata
anche da coloro che un tempo le strisciavano alle ginocchia mentre
ella, sola, impavida, superba, continuava a lottare in Calabria contro
i Francesi, in Sicilia contro i ministri di Sua Maestà Britannica.

Ed Alma si sentiva di qualunque sacrifizio capace per la sua signora
e padrona, pur biasimandone in cuor suo certe intemperanze e certe
perversità, ed ammirandone profondamente certe virtù eroiche che
ne facevano un impasto singolare di bene e di male, di maestà e di
fralezza.

La notte era discesa da più ore ed ella tutta immersa nei suoi pensieri
non se n’era accorta. Quando alzò gli occhi ad un orologio della parete
si scosse mormorando:

— Un’ora per la mezzanotte! E la Regina non è rientrata! Eppure bisogna
che l’aspetti vegliando. Voglia Iddio che non le sia accaduto nessun
male!

Trasalì ad un lieve rumore che intese nel fondo della stanza
attraversata dalla scala a chiocciola. Era stato uno scricchiolio cui
aveva tenuto dietro di nuovo il silenzio profondo.

— È il caldo che fa scricchiolare il legno — disse a se stessa per
rincorarsi.

Ma lo scricchiolio si udì di nuovo. Ebbe l’impressione che qualcuno
cautamente salisse per la scaletta fermandosi ad ogni gradino.

— Dio mio — mormoro — Dio mio!

Si era alzata e, incapace a muoversi, a chieder soccorso, stava con
gli occhi fisi, sbarrati, sulla botola aperta per la quale scendeva la
scaletta.

— Un uomo, un uomo! — balbettò vedendo uscir fuori dalla botola una
testa coperta da un cappello calabrese.

Col viso sconvolto dal terrore, con la mano nei capelli fissava
quella testa della quale ancora non vedeva il viso. Infine l’uomo
dovette alzare il capo perchè ella ne vide gli occhi, due occhi neri
e scintillanti, che la fissavano immobili come se anche quell’uomo
fosse colpito da stupore e non sapesse risolversi nè a discendere nè a
salire.

— Il fuggitivo, il fuggitivo! — gridò lei con voce soffocata ricordando
le parole dell’ufficiale.

Si rincorò per una istintiva persuasione che non avesse nulla da temere
da quell’uomo che aveva difeso le donne perseguitate dagl’Inglesi.
Vincendo la paura, facendosi sostegno della mano alla spalliera del
lettuccio sentendo tremar le ginocchia:

— Chi è? — chiese con voce tremante.

L’uomo salì due gradini in modo che ella potè vederlo tutto dalla
cintola in su. Sogno, allucinazione, realtà? Quell’uomo lo riconosceva:
quel viso, quegli occhi, quell’aspetto li aveva già visti altre volte;
li vedeva spesso nei suoi ricordi, nei suoi sogni. Sapeva il nome di
quell’uomo... Come era lì, come era lì, mentre da tanto tempo non ne
aveva più nuove?

— Oh! — disse infine quell’uomo — se è questa una visione che debba
dileguare... Se è questo un miraggio... che io sappia se son folle...

Ella aveva ripreso possesso di sè. Pure, se lo spavento era cessato,
era sopraggiunto un imbarazzo, una perplessità che le produceva come un
intontimento. Comprendeva che avrebbe dovuto rassicurarlo, che toccava
a lei far cessare quella incertezza per entrambi convulsa.

— Salite, signore — gli disse con calma ben simulata.

Egli salì il resto della scaletta, ma giunto sul limitare della stanza
non osò proseguire. Si era tolto il cappello e si teneva immobile,
quasi come un colpevole. Ella di un solo sguardo aveva notato certi
particolari della persona e delle vesti di lui che facevano arguire
come da lungo tempo lottasse coi bisogni più urgenti. Gli occhi, il
cui sguardo era fiero talvolta, ma che nel fissarla diveniva sì dolce,
erano affossati nell’orbita; le guance scarne, i capelli lunghi ed
incolti gli davano un aspetto di sofferente, mentre le vesti lacere e
sordide di fango ne attestavano la miseria.

Ella ne ebbe pietà, più che pietà forse. Quali casi fortunosi l’avevano
ridotto in sì misero stato? Pure non osava chiedergli, quasi temesse di
mostrar per lui un troppo vivo interessamento.

Additandogli una sedia discosta dalla sua gli disse:

— Dovete essere stanco, sedete.

Egli sedette. Poi per rompere l’imbarazzante silenzio le si rivolse
dicendo:

— Ma dove sono io, signora duchessa?

— In, una delle due dimore di Sua Maestà la Regina, le sole che le
hanno assegnato gl’Inglesi.

— La Regina è qui dunque! — esclamò lui.

Ella esitò, ma non volle mentire con quel giovane, quantunque
l’esclamazione di lui l’avesse non poco turbata per i ricordi che
evocava.

— No — rispose — Sua Maestà è assente ma tornerà questa notte.

Egli si alzò di botto.

— Perdonatemi — disse — perdonatemi. Io non sapevo a chi questa torre
appartenesse... quando vi vidi all’improvviso pur non potendo credere
agli occhi miei... pur credendomi in preda ad una allucinazione... non
sapevo che foste sola in questa casa... Ditemi per dove posso andar
via... Ho cercato al buio mentre ero in un angusto sotterraneo una
finestra, uno spiraglio per dove uscire... quello pel quale entrai
era chiuso... Andando a tentoni trovai questa scala; ne salii i primi
gradini sperando di trovare una finestra per saltar giù e... e mi
trovai qui. Se per non esser visto dai servi non posso andar via dalla
porta, additatemi una finestra per la quale saltar giù...

S’interruppe: aveva visto a sè dinanzi le socchiuse imposte di una
finestretta. Vi si diresse dicendo, voltosi alla giovinetta:

— Per questa, non è vero?

— No, no, che fate? — gridò lei sgomenta. — Vi uccidereste!

— Ma allora? — fece lui smarrito, perplesso.

Ella ben comprendendo per qual delicato riguardo il giovane voleva
andar via anche saltando dalla finestra, arrossì, ma in cuor suo ne
fu esultante. Per quanto sentisse come una ritrosia a parlargli della
Regina, pure la gratitudine gliene faceva un obbligo, non sapendo con
quali altre parole trattenerlo.

— Sua Maestà — gli disse — vi vedrà con piacere. Era molto impensierita
sulla vostra sorte, non avendo da gran tempo vostre nuove. Anzi si
diceva....

— Che fossi morto?

— Sedete dunque, poichè non posso farvi uscire avendo Sua Maestà
proibito che si apra la porta della torre in assenza di lei.

Egli tornò a sedere.

— Debbo spiegarvi come io sia qui — disse il giovane.

— Lo so.

— Lo sapete?

— Sì. Ero alla finestra e assistetti al vostro inseguimento, ma non vi
riconobbi. Seppi poi dall’ufficiale inglese comandante i soldati che vi
davano la caccia perchè vi si inseguiva. Egli sosteneva, e non a torto,
che vi eravate rifugiato in questa torre, e avrebbe voluto frugarla
in ogni suo angolo. A me non pareva possibile che l’inseguito avesse
potuto penetrarvi e diedi la mia parola d’onore che qui non c’era
nessuno.

— Sicchè, se mi aveste veduto entrare? — fece lui con una mal
dissimulata amarezza nella voce.

— Non avrei data la mia parola d’onore ma avrei impedito che si
frugasse per non ledere le prerogative delle dimore reali...

— È vero — disse il giovane — tali prerogative mi avrebbero salvato!

Stettero per un pezzo in silenzio. Ella aveva chinato gli occhi
confessando a sè stessa che le sue parole avevano dovuto ben ferire
quel giovarne. Poi li alzò per dire:

— Narrate dunque. Come risolveste a rifugiarvi qui?

— Compresi che ero perduto. Per ben due volte mi avevano raggiunto e
per ben due volte avevo potuto liberarmi dalle loro mani.

— Ferendone parecchi e uccidendone qualcuno.

— Ho il cappello bucato da due palle — rispose lui per iscusarsi — e
una ferita al braccio di un colpo di daga... Ma poichè eran cresciuti
di numero, se mi avessero agguantato la terza volta sarebbe stata
inutile ogni resistenza. Non so chi mi abbia ispirato di dirigermi
verso questa torre che io, nuovo affatto di questi luoghi, credevo
disabitata; solo quando fui vicino mi accorsi che la porta era
custodita da un negro. Girai la torre e vidi una finestrina. Con
un salto fui sul davanzale, poi mi lasciai andar giù e caddi in un
sotterraneo presso un mucchio di legna nel quale mi nascosi. Dopo
un’ora circa sentii un calpestio. Era un tale che si avvicinò alla
finestra per la quale mi ero salvato, ne sbarrò le imposte, e assicurò
con una catena che chiuse a chiave onde non potesse aprirsi neanche dal
di dentro... Ed io compresi che se non ero prigioniero degl’Inglesi,
ero, a loro insaputa, prigioniero degli abitanti di questa torre,
perchè non avrei potuto, come ne avevo fatto il disegno, riaprire la
finestra appena fosse alta la notte, per andar via.

— Per andar dove? — chiese lei.

Ma si pentì di aver fatto una tale domanda che tradiva il suo
interessamento.

— Per presentarmi — rispose il giovane — a Sua Maestà la Regina alla
quale avevo data la mia parola d’onore di raggiungerla in Sicilia, se
mai i Francesi non mi avessero ucciso.

Lo strano era questo, che anche la giovinetta si faceva una colpa
del suo interessamento, mentre si rimproverava quel colloquio e
la compiacenza che ne sentiva come sconveniente; mentre cedendo
al suo interessamento anelava di sapere quali dolorose vicende il
giovine avesse subito prima di giungere in Sicilia pur non osando
chiederglielo, Riccardo si sentiva punto ed offeso delle parole e
dal contegno di lei; offeso in quel culto, in quella religione che
custodiva da tanti anni nel cuore per quella nobile giovinetta che era
sua cugina, ma per la quale lui era pur sempre un misero avventuriero
nato e cresciuto fra i servi della gleba.

E tale si proponeva di rimanere, chè per nulla al mondo l’avrebbe
umiliata, per nulla al mondo avrebbe voluto darle un dolore. Ma non
per questo egli doveva far credere che pitoccasse cosa alcuna; anzi
per quanto più profondo sentiva nell’animo suo l’amore per quella
giovinetta che si proponeva di non lasciar mai trapelare, tanto più
vivo era in lui il desiderio che ella non lo tenesse in conto di un
volgare intrigante.

Pure non si era ancora riavuto dalla emozione di quel così strano
incontro. Ah, se ella sapesse per quali legami era avvinto a lei,
se ella sapesse qual sangue le scorresse nelle vene, a qual nome e
a qual titolo avesse diritto, come vieppiù fatale le sarebbe parso
quell’incontro che li aveva messi a fronte per la prima volta nella
loro vita, mentre finallora appena appena due o tre volte avevano
scambiato qualche parola!

Alle parole del giovane Alma si era alzata, non sapendo ella stessa a
qual sentimento ubbidisse. In questo dalla riva giunse loro un fischio
che li fece trasalire.

— Sua Maestà sarà qui fra poco — disse lei rivoltasi a Riccardo — Sarà
bene stanca. Sarebbe meglio che vi presentaste a lei domani.

— Sta bene — rispose il giovane.

Ella si era avvicinata alla porta ove si fermò indecisa. Qualcosa
combatteva in lei un’aspra battaglia: la sua pietà, il suo
interessamento, fors’anco il rimorso di aver ferito con le sue
parole quel giovane che aveva veduto soffrir tanto, come appariva
dall’aspetto, lottavano col decoro, col pregiudizio, col suo pudore di
giovinetta.

Come lasciarlo lì per tutta una notte, mentre forse aveva fame? Ma
era prudente mettere a parte i servi di quel segreto, a rischio anche
di compromettere il segreto della Regina? Ma doveva lei, proprio lei,
appena la Regina fosse tornata, parlarle di quel giovane, ben sapendo
quali fossero i loro rapporti? Non era più conveniente che aspettasse
il mattino per rivelarle la presenza di Riccardo in quella torre?

Si rivolse come mossa da una subita risoluzione.

— Resterete qui questa notte, in questa stanza che io chiuderò a chiave
onde nessun servo possa entrarvi. Voi chiuderete la botola della scala.
E... e penserò a portarvi io stessa di che rifocillarvi.

— Grazie — rispose lui che la fissava con un lungo sguardo.

Ella uscì e chiuse a chiave la porta. In questo udì un rumore di passi
giù nel cortile. Giovanni il negro precedeva la Regina rischiarando la
scala con una lanterna. Alma dal vocio che aveva sentito si era accorto
che alcuni uomini avevano accompagnato fino alla torre l’augusta
donna, la quale poco dopo entrò nella piccola sala in cui la giovinetta
l’attendeva.

— Buona notte, figliuola, buona notte. Sei stata in gran pensiero per
me, non è vero?

— Non lo nascondo, Maestà.

La Regina si volse al negro che si era arrestato sul limitare.

— Dammi le lettere che son giunte durante la mia assenza.

Il negro le porse inchinandosi un fascio di carte: poi, traendo un
plico dalla tasca interna della sottoveste:

— La persona che Vostra Maestà ha mandato in Calabria... quella che io
solo conosco, ha lasciato questo plico.

— Ah! — fece la Regina con un grido di gioia — Le notizie che ho
chiesto... Saprò che è avvenuto di quel giovane che oggi mi sarebbe
tanto utile! Andiamo, figlia mia, seguimi nella mia stanza.

Poi si rivolse al negro e lo guardò mettendosi un dito sulla bocca.

Il negro aprì le grosse labbra scarlatte ad un sorriso poi incrociò le
mani sul petto e s’inchinò profondamente.

Appena nella sua camera la Regina si tolse il mantello e il cappellino
di feltro nero sormontato da una nera piuma e lo gittò sul letto con
atto impaziente.

Alma comprese che la regal donna era tra turbata e soddisfatta; gravi
cose eran dovute accadere e forse molti importanti avvenimenti si
maturavano, a giudicare dall’aspetto preoccupato di Maria Carolina,
la cui fronte or si spianava mentre le labbra sorridevano, or si
corrugava, a seconda i pensieri che fervevano in quella mente.

— Vostra Maestà non va a letto? — le chiese Alma.

— Non per ora, quantunque invero sia stanca. Ma debbo leggere prima
le carte che mi ha dato Giovanni, il plico specialmente mi dirà
tutti i particolari dell’affar nostro nel Napoletano. Tutta la mia
corrispondenza era stata intercettata finora. Quel mendicante, che è
uno dei miei fidi, non mi portò che notizie vaghe; ma questa volta son
sicura che ne avrò di precise.

In ciò dire si era seduta allo scrittoio e con mano febbrile apriva il
plico donde uscirono di molti fogli di carta che la Regina si diede a
scorrere mentre il volto rifletteva come uno specchio le impressioni
che quella lettura le destava.

Alma non si era mai intesa così turbata, così sconvolta, anzi. Era la
prima volta che l’anima sua aveva un segreto da nascondere, un segreto
per lei assai più delicato ed imbarazzante che se fosse stato di
capitale importanza.

Che avrebbe detto il giorno appresso la Regina nel sapere che ella
per tutta una notte le aveva celata la presenza in quella casa del
giovane che aveva fatto ricercare per ogni dove? Che avrebbe pensato,
che avrebbe creduto? Non indovinerebbe il vero motivo che Alma non
confessava neanche a sè stessa, pel quale aveva rimandato al domani
la rivelazione? Doveva dunque, checchè potesse accadere, dirle quanto
era avvenuto, anche se avesse dovuto esser testimone di un incontro
ripugnante per tante ragioni alla dignità sua e fors’anche al suo
cuore? Al suo cuore, perchè se infine una Regina era discesa dall’alto
del suo trono per stendere le braccia a quel giovane, poteva anche
ella, libera com’era di sè...

Interruppe a mezzo un tal pensiero che l’aveva fatta vacillare mentre
un’onda di sangue le imporporava il viso. A questo era giunta, che il
pensiero della possibilità di un intimo rapporto fra lei e quel giovane
non era più un vago ondeggiar di sentimenti, ai quali non si poteva dar
alcun nome, ma erano così determinati che ne aveva rabbrividito.

Ella la rivale della Regina, ella? Ella, a quella donna che se per
gli altri era una perversa creatura, per lei era un’amica buona ed
affettuosa, avrebbe tolto forse l’unica gioia degli ultimi anni
di una vita così fortunosa, perchè se anche biasimevoli erano i
rapporti interceduti fra la Regina e quel giovane non toccava a lei di
giudicarli, ma non doveva lei contrastarli.

Alma era sdegnata seco stessa che un tal pensiero le fosse balenato, e
ne sentiva offeso il suo pudore di fanciulla, la sua dignità di donna,
il suo orgoglio: e se finallora era stata indulgente col proprio cuore
che con troppa compiacenza aveva vagheggiato la immagine di lui, si
proponeva d’indi innanzi di esser più severa per giungere a scacciarla
del tutto.

E si decise di svelare alla Regina la presenza di Riccardo nella torre,
si decise, formando il disegno di lasciarli soli appena avesse condotto
l’uno all’altra. Pure attese, perchè non le era lecito d’interrompere
la lettura della Sovrana, attese che avesse finito.

Ma nel volgere gli occhi lesse nel volto della Regina che teneva fissi
gli sguardi su un foglio, lo stupore misto ad un sentimento che era tra
la gioia e la maraviglia; poi la udì mormorare mentre alzava gli occhi
in viso alla giovinetta:

— Possibile, possibile?

E stette come perplessa, or guardando la carta, or guardando la sua
lettrice. Infine le disse:

— Leggo qui una notizia assai strana, così strana che non par possibile
sia vera, quantunque io non possa punto dubitare della veridicità
di chi mi scrive. Sai tu come aveva nome il Commissario civile che
seguiva i soldati francesi che assaltarono il castello? Sai tu chi
era? Il fratello di tuo padre, colui che da una sentenza della Gran
Corte Criminale fu condannato a morte, onde tuo padre potè ottenere la
investitura del ducato di Fagnano coi beni e i privilegi che vi erano
annessi?

Alma rimase fredda e tranquilla, come se una tale nuova non la
riguardasse punto.

— Ora l’antico condannato ha ottenuto dai Francesi il riconoscimento
de’ suoi diritti, dei quali ha potuto godere per poco, essendo morto
quindici giorni dopo che era rientrato nel suo castello. Come vedi, si
tratta di un tuo zio. Ma non è tutto.

La Regina fece una pausa e stette con gli occhi fissi sulla giovinetta,
quasi non sapesse risolversi a dirle ciò che più importava.

— Ma — disse poi — lo strano è in questo, che quel tuo zio aveva un
figlio, e quel figlio fu da lui riconosciuto per legittimo, nato da non
so qual matrimonio, e dichiarato erede del titolo e dei beni.

Ella ascoltava senza punto commuoversi; solo disse, sbadatamente:

— Me l’aveva già detto mio padre stamane.

— Ah, è stato qui tuo padre? E ti ha detto chi sia quel figlio e come
ha nome?

— Mi ha detto soltanto che è un bastardo...

— Ma se fu riconosciuto per legittimo, certo in base a documenti... E
non sai altro, non sai altro?

— No — rispose lei calma e fredda.

— Ebbene — disse la Regina con voce lenta e fissando la giovinetta come
se avesse voluto studiare nella fisonomia di lei la impressione che
le sue parole le avrebbero prodotto — ebbene, quel figlio riconosciuto
per legittimo da suo padre morente ed erede del titolo e dei beni, si
chiamava un tempo... capitan Riccardo!

La giovinetta impallidì tanto che la Regina credette stesse per
svenire. Era più che stupore il suo, era uno sconvolgimento di tutto
l’esser come per un urto formidabile che avesse mandato in soqquadro
tutte le sue idee.

La Regina non la perdeva di vista e aveva nel suo sguardo una pietà
profonda, ben comprendendo il complesso dei sentimenti che quella
notizia aveva sconvolto. Volle farle animo quantunque non sapesse
con quali parole, ignorando in che Alma fosse stata ferita, se
nell’orgoglio, se nel suo amore di figlia pel dolore che ne avrebbe
provato il padre, se nelle sue vaghe aspirazioni per l’avvenire che
quel riconoscimento rendeva assai incerto ed oscuro.

— Non accorarti, via! Del resto — continuò con un sospiro — quel
giovane è sparito; nulla si sa più di lui!

Ella intanto aveva avuto il tempo di riaversi, di riprendere il dominio
di se stessa: l’orgoglio la sostenne, l’orgoglio le diede la forza di
tornar tranquilla e le fece in un baleno comprendere qual fosse oramai
il suo dovere. Onde rispose con voce sicura:

— Quel giovane è qui, in una di queste stanze ed aspetta che Vostra
Maestà gli conceda l’onore di una udienza.

Toccò alla Regina d’impallidire, colpita da stupore profondo. Credette
di avere inteso male, credette, chi sa, fors’anco ad un sarcasmo della
figlia del duca di Fagnano, ad una rappresaglia, tanto non le pareva
possibile che Riccardo fosse nella torre.

Balzò presso a lei, le mise le mani sugli omeri, e con gli occhi
minaccevoli, fissandola in viso:

— Tu non m’inganni — gridò — tu non m’inganni? Bada, i più audaci,
anche i miei più fieri nemici han tentato di colpirmi a morte, ma non
dì prendersi giuoco di me...

— Vostra Maestà sa bene — rispose Alma senza punto scomporsi — che
il mio orgoglio non mi ha permesso di abusar mai della dimestichezza
che mi concesse la mia Sovrana. I duchi di Fagnano sanno per lunga
consuetudine come si parli a chi Dio fece nascere sul trono.

— Dunque è vero, dunque è vero! — proruppe la Regina sfavillante di
una gioia convulsa. — Perdonami, perdonami... Gli è che non sai qual
bisogno io ho di un cuore devoto come il suo, da non creder vero che
il destino mi abbia concesso finalmente tanta fortuna. Dov’è dunque,
dov’è?

— Nella stanza della torre per la quale passa la scala a chiocciola che
sale alla piattaforma. Perchè i servi non vi entrassero ne ho chiusa a
chiave la porta. Ecco la chiave.

La Regina tuttora convulsa prese la chiave ed era per uscire
dalla camera, ma comprendendo che la sua dignità regale ne sarebbe
compromessa si fermò, e porgendo la chiave alla giovinetta le disse
assumendo un contegno grave quale a lei conveniva:

— Poichè ha chiesto un’udienza, va a dirgli che gliela concedo e che
l’aspetto.

Ella non stese la mano per riprendere la chiave e disse facendo un
inchino:

— Che Vostra Maestà mi perdoni, ma non mi reggo in piedi e le chiedo il
permesso di ritirarmi nella mia camera.

Quelle due donne si guardavano e l’una ben lesse nel cuore dell’altra.
La Regina pallida, accigliata, come colpita da un sospetto che le si
era conficcato come una spina nel cuore; Alma fiera, ma tranquilla in
vista e col viso improntato a risolutezza che dava una espressione del
tutto nuova alla sua leggiadria.

— Andate — le disse la Regina con le labbra tremanti per la collera e
per la puntura di quel sospetto.

Alma s’inchinò di nuovo, poi uscì dalla camera senza che il suo
contegno nulla tradisse di quel che aveva nel cuore.

— Ah! — disse la Regina che l’aveva seguita con lo sguardo — era una
fiammella che adesso potrebbe divenire un incendio.

Stette un istante pensosa; poi scrollando il capo:

— No, quella è una natura tutta fatta d’orgoglio. Avrebbe forse amato
capitan Riccardo, confessando il suo amore; ma adesso a costo di
morire, non confesserebbe l’amore per suo cugino, il duca di Fagnano!

La gioia tornò a sfavillarle negli occhi: scrollò le spalle come se
avesse dato troppa importanza a quello incidente e troppa anche al suo
decoro regale che non le permetteva di recarsi nella stanza in cui quel
giovane era rinchiuso.

— I miei nemici, i Francesi, che in fondo han del buono, dicono: Alla
guerra come alla guerra! E non sono io in una guerra continua e feroce
con tutto il mondo quasi, e più forse con quelli che mi si dicono
amici?

Era la donna, era la Regina, era l’impavida lottatrice che esultavano
in lei, la lottatrice feroce, implacabile da preferir di sommergersi,
come scrisse in una lettera, coi figli e col marito in un abisso e
trascinar seco nella rovina i popoli del suo regno, anzichè venire a
patti col nemico.

La donna già presso a declinare, ardeva ancora di tutte le fiamme
del sole al tramonto; la Regina che si era vista abbandonata dai
cortigiani, innumeri un tempo, aveva bisogno di un saldo braccio e
di un cuore devoto. Ed ecco che lo ritrovava, ed era quale lo aveva
sognato, lo aveva cercato, lo aveva voluto. Superstiziosa come tutte le
nature violente ed impulsive, le parve quello un buon auspicio per la
impresa che si preparava. I duemila Calabresi avevano un capo di loro
degno, e se l’impresa non fosse riuscita aveva ora di chi servirsi per
tentare un altro mezzo da lei vagheggiato lungamente e che era tale da
scacciar per sempre dalla Sicilia gli Inglesi odiati.

Accese una candela ed uscì dalla sua camera. Quando fu innanzi alla
porta della stanza indicatale da Alma sostò per calmarsi e per assumere
un contegno. Era la donna o la Regina che tremava così, che era così
convulsa al pensiero che tra poco si sarebbe trovata innanzi a quel
giovane la cui immagine le ridestava ricordi di gioie e di abbandoni
che le facevan fremere tutte le visceri?

Capitan Riccardo, rimasto solo, era stato per un pezzo immobile come
se ancora vedesse nella realtà innanzi a sè quella soavissima creatura
che era da tanti anni nel suo pensiero; nè il sapersi di lei congiunto,
a lei uguale per diritto di nascita, nè il saperla usurpatrice, senza
di lei colpa, è vero, del suo titolo e de’ suoi beni che mentre lui
derelitto, senza pane, senza vesti, senza tetto languiva nella più
tetra miseria, la facevan passare superba e sdegnosa a lui dinanzi,
a lui povero verme indegno financo di affissar la luce emanata da
quella stella; nè il ricordo di quanto aveva sofferto da fanciullo,
da giovinetto, da uomo, era valso ad intiepidire il culto che aveva
perennemente custodito per quella soavissima creatura. Nè a lui pareva
che ora la distanza enorme che un tempo l’aveva separato da lei fosse
sparita, nè che l’abisso fosse colmato; anzi vieppiù adesso se ne
sentiva lontano, vieppiù adesso vedeva profondo l’abisso.

E non era strano che egli dopo tante vicende dopo aver superato tanti
pericoli, giunto in Sicilia, per un incidente che avrebbe potuto
costargli la vita, fosse capitato proprio in quella dimora della Regina
e di Alma, delle due donne per le quali a tutto rinunciando era venuto
in Sicilia?

E non era strano che egli fosse sotto l’istesso tetto con colei che
ne aveva tutto il cuore? Perchè lo sentiva bene lui che il sentimento
dell’anima sua per Alma non era dell’istessa natura di quello che lo
legava alla Regina. Pure al pensiero che essi eran soli in quella torre
così angusta; che la giovinetta del suo sogno era separata da lui da
una o due di quelle stanzuccie; che insieme respiravano la stessa
aria; che bastava avesse alzato la voce perchè ella udisse, un tal
pensiero lo turbava, un tal pensiero lo sconvolgeva senza però che egli
osasse aver desideri oltraggiosi per la purità di lei. Ed ora che si
sapeva della stessa famiglia, che poteva pensare a lei come non solo
ad una sua pari, ma ad una con la quale aveva comune il nome e comune
l’orgoglio di famiglia, scioglieva i freni a quell’amore fino a quel
giorno contenuto e si abbandonava ad esso, quantunque fosse risoluto a
non esser per lei che capitan Riccardo.

Ma qual contegno avrebbe assunto con la Regina, alla quale aveva
promesso una devozione completa?

Certo non era uomo da tornare indietro, da venir meno alla parola data
e quindi era venuto deciso a dare per essa la sua vita.

Egli notava in sè stesso un fenomeno strano: di quelle due donne,
l’una pallida, bionda, delicata non era che anima per lui, non era che
idea che egli vedeva attraverso un velo bianco in alto in alto, come
se ella vagasse per l’azzurro infinito del cielo; l’altra invece era
la donna turgida di voluttà, la cui matura bellezza sprizzava fiamme,
del cui ricordo sentiva arse le visceri. Il pensiero dell’una non
s’incontrava coi desiderî dell’altra, perchè il primo si nascondeva, si
rincantucciava nel profondo dell’anima quando i desideri gli bruciavano
il sangue.

Ed era per lui una dolcezza ineffabile che lo compensava di quante pene
aveva sofferto dalla morte di suo padre fino a quella sera in cui una
mano benigna l’aveva guidato a quel luogo, era per lui una dolcezza
soavissima quel sentirsi vicino a lei, la cui immagine radiosa era
rimasta là, dinanzi a lui.

Riccardo non si era offeso del riserbo in cui Alma, calmato lo stupore,
si era tenuta, benchè egli non avesse potuto frenare certi impeti
di dispetto: ne aveva compreso l’imbarazzo, ne aveva giustificata
la scontrosa timidezza, effetto del suo pudore di fanciulla nel
vedersi sola, di notte, con un uomo; e forsanche quella incertezza
nel contegno proveniva dal saperlo omicida, avendo assistito alla
lotta contro i suoi persecutori. Ma doveva pure esserle riconoscente
se aveva assentito a dargli asilo, rendendosi così complice di lui;
doveva pur esserle grato se pur essendo per quella nobile e fiera
giovinetta un avventuriero aveva promesso di arrecargli con le sue
mani di che rifocillarsi. Ah, se ella avesse saputo che a suo cugino
avrebbe reso quel servizio, all’unico e legittimo erede del titolo che
ella portava! Ma l’avrebbe saputo? Avrebbe egli umiliato quella deità
del suo pensiero con l’onta che sarebbe ricaduta sul padre strappando
a lei quel titolo che aveva portato sì nobilmente? No, non l’avrebbe
mai fatto: ella avrebbe pur sempre visto in lui l’avventuriero, il
bastardo, il figlio della gleba ed era questo, questo l’olocausto
che ei faceva all’amor suo che lo riabilitava ai suoi occhi di quei
rapporti, dei quali al certo lei gli faceva una colpa, con la Regina.

Ma perchè non aveva voluto che la Regina sapesse che lui era lì quando
il fischio che veniva dal mare ne annunziò il ritorno? Proprio per
non turbare il riposo dell’augusta donna? proprio per una gentile
e previdente premura d’amica? Non poteva avere un altro significato
il ritegno di lei, un significato che scopriva in parte il segreto
di quell’anima giovinetta a cui non era sfuggito al certo ciò che
egli aveva in cuore? Non era stata indotta da una vaga e forsanco
inconsapevole gelosia a rimandare al giorno appresso la rivelazione
della sua presenza nella torre?

Un tal pensiero lo aveva fatto sussultare di gioia, ma era stato un
baleno.

— No, no — disse a se stesso — vi fu indotta dal suo pudore di
fanciulla. Ah, io debbo essere ben spregevole ai suoi occhi! Che sa lei
di certi strani fenomeni della vita? che sa lei di certi fascini che
non giungono fino al cuore e che non tangono l’anima?

Ed aspettava sicuro di vederla apparire per poco per apportargli il
cibo: aspettava col cuore gonfio di tenerezza che però avrebbe bene
dissimulato per non accrescere il suo imbarazzo quando si fosse trovato
in presenza della Regina.

Trasalì nel sentir stridere la chiave nel foro della porta: certo era
lei che gli apportava il cibo. Si alzò ed attese.

La porta si aperse e nel vano apparve la Regina.

Egli che non si aspettava quell’apparizione retrocedette sorpreso,
confuso.

— Vi siete fatto attendere un bel pezzo signor duca di Fagnano — disse
la Regina entrando, mentre con un sorriso porgeva la mano al giovane
perchè gliela baciasse.

— Che! — gridò lui — Vostra Maestà sa?...

— La Mia Maestà ha troppo a cuore i suoi sudditi più devoti perchè
ignori quel che ad essi avviene. Ma la vostra sorpresa, duca, non deve
impedirvi di baciarmi la mano.

— Perdono Maestà, perdono — esclama Riccardo inchinandosi per portare
alle labbra la mano piccioletta e bianca di Carolina d’Austria.

Era bastato quel bacio perchè sentisse il sangue accendersi e pulsargli
impetuoso nelle vene. Anch’ella aveva rabbrividito mentre contemplava
il giovane con occhi accesi.

— Come vi aspettavo — mormorò — come vi aspettavo! Come temetti di non
vedervi più, chè, per quanto avessi mandato attorno per aver vostre
nuove, nessuno sapeva darmene! Solo stasera lessi in un rapporto
l’essere stato voi riconosciuto da vostro padre.

— Regina — disse lui serio e grave — io la supplico di una grazia: di
non vedere in me che il colonnello Riccardo, ben potendo assumere qui
un tal grado. Ragioni di delicatezza e di riguardo per una persona a
lei devota m’impongono di non portar un titolo che d’altra parte mi
potrebbe esser conteso non possedendo io, anche se avessi l’intenzione
di farlo valere, il documento che si richiede.

— Voi non volete che Alma ne soffra o per lo meno soffra del danno che
il vostro riconoscimento apporterebbe a suo padre!

Aveva la collera nello sguardo, e il sospetto geloso le aveva fatto
corrugar la fronte e assumere l’aria feroce in lei caratteristica.
Senza aspettare la risposta del giovane soggiunse con un convulso
tremito nella voce:

— Voi dunque amate quella che un tempo era la figlia dei vostri padroni
e che adesso è vostra cugina?

Egli diede un balzo a queste parole: comprese il terribile, il
mortale pericolo cui avrebbe esposto Alma se si fosse tradito, se
quel suo amore che non aveva alcuna speranza e che egli si proponeva
di soffocare nel suo cuore fosse stato scoperto da quella donna così
crudele nella sua vendetta e che aveva dei diritti su lui. Onde, poi
che in fine dal fascino di quell’ardente bellezza si sentiva di nuovo
potentemente agguanciato, le si inginocchiò dinanzi, ne prese le due
mani, e alzando gli occhi per ricercar quelli di lei.

— O Regina — le disse — o Regina, per venir qui ho rifiutato la pur
lusinghiera offerta di mio padre che avrebbe ottenuto per me un alto
grado negli eserciti francesi. Per venir qui sono stato sordo alle sue
preghiere, alle sue suppliche e mi son fatto ricondurre in carcere. Per
venir qui sono evaso abbandonando il padre mio che ne morì dal dolore.
Per venir qui mi sono avventurato solo in una barca, chè sarebbe stato
ben pericoloso affidarmi ad una delle navi che approdano in questi
porti. Fatto prigioniero da corsari barbareschi, portato da essi come
schiavo in Algeri, per venir qui ho spezzato le catene, ho vagato
pel deserto affrontando le fiere, soffrendo la fame e la sete, con un
solo intento nel cuore, giungere fin qui; con una sola imagine nella
mente, la vostra, o Regina; guidato, sostenuto da un sol pensiero, il
giuramento che aveva fatto di raggiungervi ad ogni costo. E non di
me m’importava, come non mi era importato di mio padre e del grande
avvenire, e degli onori e del grado e del titolo che mi si offrivano;
ma di voi, o Regina, di voi cui facevano bisogno un braccio sicuro e
un cuore devoto. E quando mi credetti sul punto di esser fucilato dai
Francesi, d’essere sgozzato dai corsari, di cader vittima dei feroci
guardiani degli schiavi in Algeri; allorchè traversando il deserto
inseguito da coloro cui ero sfuggito, con le fauci arse dalla sete,
con le visceri attenagliate dalla fame, scalzo, lacero, con le antiche
ferite che si erano riaperte, temeva di non giungere al mare, io non
pensavo punto a me, alle mie sofferenze, alla mia giovinezza, al mio
avvenire: io pensavo a voi, a voi e al giuramento che avevo fatto. Ed
ora che sono qui ai vostri piedi, ditemi, o Regina che io amo, ditemi
voi cui ho dedicato questa vita mia, ditemi se meritavo di essere
accolto con quelle tristi parole! Guardatemi in viso e vi leggerete
i patimenti sofferti; guardatemi nel cuore e vi troverete una sola
immagine, una sola idea, voi!

Ella a poco a poco dalla voce di lui inebbriata aveva inteso dileguar
la sua collera e l’atroce sospetto. L’ardente ed eloquente linguaggio
del giovane ne rammorbiva a grado a grado il cuore e le carni. Gli
aveva messo una mano sulla testa e ne veniva dolcemente carezzando
i capelli, mentre i suoi occhi, che da principio aveva stornati, ora
pregni di dolcezza fissavano gli occhi del giovane che mentre parlava
la vedeva chinarsi sempre più su lui, come attratta da un fascino
irresistibile, finchè alle ultime parole le loro bocche s’incontrarono
e gli cadde fra le braccia.

Quando ella rinvenne da quell’ebbrezza stette a contemplarlo a lungo,
a lungo; poi sollevandone i capelli dalla fronte quasi volesse legger
bene nel pensiero di lui:

— No — gli disse — tu non mi tradirai come gli altri mi han tradita.
Perdonami, ma gli è che le tante infamie di cui sono stata vittima mi
han fatta così trepida, così ombrosa, così facile al dubbio. Tu sei
tutto mio dunque, fino ad abbandonare tuo padre, fino a rinunziare ad
un grado, ad una fortuna?! Di questi uomini un tempo i re facevano i
loro principi, le regine il loro amore; io ti avrei fatto il mio genio.
Vuoi tu nell’alto del trono o nel profondo dell’abisso, salire con me o
precipitare con me? Di’, lo vuoi tu?

Egli che aveva ancora nel cuore e nelle labbra la voluttà dei baci di
quella donna rispose:

— Sì, sul trono o nell’abisso.

— Ascoltami dunque. La Sicilia sta per insorgere contro gl’Inglesi in
nome della sua indipendenza. Il Re emanerà un proclama e riprenderà le
redini del Governo. Io metterò ai servigi della Rivoluzione duemila dei
nostri Calabresi che giungono alla spicciolata e si van raccogliendo
nei piani di Segeste. Vuoi tu esserne il capo?

— Io voglio ciò che la mia Regina vuole — rispose lui.

— E non è tutto ancora. Bisogna avere più frecce al proprio arco. Se la
Rivoluzione non riesce a scacciare gl’Inglesi, sai tu chi sarà il mio
alleato contro di essi?

— Chi?

— Bonaparte.

Il giovane che era rimasto a metà giacente sul letticciuolo facendo del
braccio ripiegato sostegno al capo si levò a sedere, tanto quel nome
gli parve strano in bocca alla sorella di Maria Antonietta.

— Tra giorni riceverò un suo messo che gl’Inglesi hanno imprigionato in
Messina, e poichè desta troppa diffidenza non potrò servirmi di lui per
continuare i negoziati. Andrai tu in Francia dal Bonaparte.

— Io?

— Sì, tu. A questo ti destinavo allora quando ti feci giurare che mi
avresti raggiunto. Perchè mi guardi con cotesti occhi sorpresi? Non mi
credevi tu capace di sì vasti disegni?

— Io — rispose lui sorridendo — sono un povero moscherino che contempla
il volo d’un’aquila.

— Di un’aquila che ha le ali ferite e il rostro spuntato, ma che pur fa
paura. Io dunque ti associo ai miei disegni. Se riesciranno, per quanto
tu spinga in alto lo sguardo non vedrai adesso l’altitudine a cui io
ti destino. Ah, tu per me hai rinunciato ad un grado nell’esercito di
Francia ed al titolo di duca di Fagnano che i Francesi pei servigi a
lor resi da tuo padre avrebbero riconosciuto, ma un giorno forse ti
parrà povera cosa al confronto di ciò che da me avrai.

— Un’ora come questa — disse lui cingendo col braccio la vita della
Regina — vale bene la corona di un re!

— Parliamo d’affari ora — disse lei respingendolo. — Ma se non sarà
un’altitudine, sarà l’abisso, te lo prevengo.

— L’abisso con la mia Regina sarà sempre una altitudine — rispose
Riccardo serio e grave.

— Ora ascoltami bene. Dimani avrai delle vesti, avrai delle armi, avrai
un cavallo e del denaro. Una guida ti condurrà alla pianura di Segeste
ove si accampano i Calabresi mano mano che giungono. Lord Bentink può
disporre di pochi soldati e li tiene quasi tutti a Palermo temendo una
rivolta; quindi tu potrai attendere e disciplinare i tuoi uomini, fra i
quali vi saran molti di tua conoscenza. Io tornerò a Castelvetrano ove
verrai per i miei ordini ogni tre o quattro giorni. A proposito: hai
bisogno di rifocillarti.

— Confesso che...

— Uscirai da questa stanza e andrai in quella che vien dopo la stanza a
questa attigua. Troverai la cena che avevano imbandita per me. Io torno
in camera mia. Ho da legger molto e da scriver molto stanotte.

Si era alzata e con lei si era alzato anche Riccardo che innanzi a
quella donna si sentiva ben meschino. Non era più la donna che pur
testè gli si era data con tanto abbandono; nel vederla così calma
mentre accennava ai suoi vasti e torbidi disegni, così presente a sè
stessa da non dimenticare nessun particolare, così imperiosa e sicura,
così trasfigurata in viso da fargli quasi dubitare che fosse la stessa
donna uscita allora allora dalle sue braccia, quasi se ne sentiva
indispettito pure ammirandola, pure subendone il fascino non solo della
bellezza, ma anche della mente e del carattere.

Egli non aveva compreso esser quello un fenomeno di sdoppiamento pel
quale la donna e la regina erano quasi due esseri a parte di cui l’uno
non influiva sull’altro.

Nel punto di varcare la soglia della stanza gli si rivolse:

— Vi avverto — disse — che la figlia del duca di Fagnano, mia lettrice,
sa che voi siete suo cugino. Glielo ho detto io stasera, prima che ella
mi dicesse che eravate qui.

— Ah! — fece lui quasi sgomento.

Ma giunse a dissimulare il suo dolore; e poichè la Regina gli stendeva
la mano, la prese fra le sue e portandola alle labbra vi depose un
lungo bacio.




IV.


Prima d’incominciare questo capitolo, il romanziere sente l’obbligo di
dichiarare che cede la penna allo storico come del resto l’ha più volte
scambiata in questa narrazione per la quale si è servito di quanto le
cronache di quel fortunoso periodo han registrato; giacchè non dice
e non fa dire ai suoi personaggi nulla che non sia di una scrupolosa
esattezza.

Questa dichiarazione è necessaria quando le cose che si raccontano
si oppongono alle cose che sono comunemente adottate. Per esempio,
pochi sanno che Carolina d’Austria era una fervida ammiratrice del suo
maggior nemico: Napoleone Bonaparte. Il Sainte-Beuve nei suoi _Nouveaux
Lundis_, volume X, riporta il brano di un colloquio di Armand Lefebvre
che scrisse la «Storia dei Gabinetti di Europa durante il Consolato e
l’Impero» e che era stato ambasciatore a Napoli e vi aveva conosciuto
da vicino «cette fameuse reine Carolina, fille de Marie-Térèse, notre
ennemie jurée, une femme violente, capricieuse, passionée, et qui à
laissé dans l’histoire des souvenirs romanesques et sanglants» la quale
gli disse un giorno queste parole che riporto dal testo:

«Assurement, il me serait pardonnable de ne pas aimer Bonaparte; eh
bien, je ferais volontiers mille lieues pour le voir. Si j’osais me
comparer à ce grand homme, je dirais que j’ai un sentiment commun avec
lui, c’est l’amour de la gloire; mais il a poursuit son objet en grand
et il l’a obtenu, au lieu que moi, j’ai cherché la gloire dans les
buissons, et je ne suis parvenue qu’à me piquer le bout des doigts.
Quand vous lui écrivez, dites lui que je ne me lasse pas d’admirer
l’adresse avec laquelle il a su profiter d’un temps ou Frederic et
Catherine ayant disparu du thêatre des affaires du monde, il n’y a plus
sur tous les trônes de l’Europe que des imbeciles».

Va da sè che tra gl’_imbecilli_ Maria Carolina annoverava suo marito
Ferdinando IV e _pour cause_, avrebbe detto l’ambasciatore Armand
Lefebvre!

Nel salone della villa di Castelvetrano ove la Regina era stata
relegata, sedeva ella in attesa che il maggiordomo introducesse
l’ufficiale francese che era stato da poco liberato dalle carceri di
Messina in cui l’avevano rinchiuso gl’Inglesi poco persuasi ch’egli
fosse sbarcato in Sicilia per attendere ad alcuni studi di archeologia.
Egli il giorno innanzi aveva chiesto di esser ricevuto dalla Regina
alla quale avrebbe arrecato notizie del capitano Amelio da lei mandato
in Francia.

Questo nome l’aveva fatta sussultare, che le ricordava la grande
umiliazione subita nel saper chiuso nel forte di Vincennes colui che
era andato in Francia latore di una lettera per Napoleone. Era dunque
curiosa di sapere che le dovesse dire l’ufficiale francese che si era
fatto annunziare col nome di colonnello Elbéne.

— Sedete — disse la Regina allorchè il colonnello, che si era
profondamente inchinato appena giunto sul limitare della sala, aveva
fatto alcuni passi innanzi. — Entriamo senz’altro in argomento. Che
cosa dovete dirmi in nome di Bonaparte?

— Bonaparte? — rispose il colonnello con un fine sorriso. — Non
conosciamo nessuno in Francia che porti questo nome. Vostra Maestà
intende parlare certo dell’Imperatore Napoleone. Bonaparte è morto il
28 fiorile anno XII...

— Dite, dite colonnello; non facciamo questione di parole.

Il colonnello si inclinò, poi riprese:

— Io non sono e non posso essere che un messaggero verbale: le cose che
dovrò dire sono troppo importanti per potersi, senza pericolo, affidare
alla carta. Il mio imprigionamento a Messina prova abbastanza di quali
precauzioni gli Inglesi sappiano circondarsi.

— Comprendo. Ditemi intanto se Bo... se l’Imperatore continua ancora a
chiamarmi Fredegonda.

— Giusto, egli mi ha incaricato di chiedere se ancora Vostra Maestà lo
chiama il tiranno côrso.

— Ciò dipende — disse la Regina sorridendo per l’arguta risposta del
colonnello — dal modo come si condurrà con me.

— In tal caso Vostra Maestà per ragioni di gratitudine lo chiamerà il
nuovo Carlomagno.

— Ma come conciliare le vostre parole con le sue azioni? Se avesse
prestato orecchio alle mie proposte non sarei ridotta in tanta misera
condizione e da tempo la Sicilia sarebbe stata purgata degl’Inglesi.
Invece, che ha fatto il vostro Imperatore? Spedisco in Francia un
ufficiale della Marina, un mio uomo di confidenza e il maresciallo
Marmont, al quale prima si dirige, lo manda al vostro ministro
di polizia, Rovigo, Savary, che so io... i vostri alti funzionari
hanno tanti nomi oggi che è impossibile distinguerli. Il mio uomo
di confidenza espone l’oggetto della sua missione ma invece di
esser presentato a Napoleone vien gettato in un carcere ove ancora
è rinchiuso. Ed è così che Bonaparte mi dà prova delle sue buone
intenzioni!

— Ma il vero, l’unico colpevole, mi permetto di far osservare alla
Maestà Vostra — rispose il colonnello — fu il suo uomo di confidenza,
che ricorse agl’intermediari invece di presentarsi all’Imperatore,
come io mi sono presentato a Vostra Maestà. L’Imperatore non dice ai
suoi ministri e neanche ai suoi più intimi che ciò che gli garba far
loro sapere e qualunque negoziato che passa pel loro tramite prima
di giungere a lui è un negoziato venuto meno, perchè egli non soffre
che si sappiano prima di lui i segreti di Stato. Del resto, la sua
posizione era oltremodo delicata: l’Imperatore non poteva innanzi al
pubblico trattare coi nemici della Francia; e dico pubblico perchè
egli è del parere dell’adagio: «Qualunque segreto posseduto da più di
due, non è più un segreto» e già il vostro emissario lo aveva svelato
al maresciallo Marmont, duca di Rovigo, e chi sa a quanti altri.
Vostra Maestà comprenderà dunque che l’imprigionamento dell’emissario
era imposto dalla ragione di Stato. Tali sono le spiegazioni che
l’Imperatore mi ha ingiunto di dare a Vostra Maestà, desiderando egli
sinceramente che giungano a scusarlo.

— Tali spiegazioni sono più facili a darsi che ad accogliersi, pure le
terrò per buone soltanto se le mie proposte avranno un buon risultato.

— Non debbo nascondere a Vostra Maestà che da principio l’Imperatore
aveva delle prevenzioni contro... contro...

— Contro di me! — gridò lei sollevandosi in tutta la persona, superba,
sdegnosa, con la maestà della sua stirpe imperiale e della quasi
ieratica sua natura. — Ed io dunque, la figlia di Maria Teresa, io
sovrana per diritto divino non ho dovuto lottare e a lungo meco stessa
prima di rassegnarmi ad un tal passo di me indegno e che avviliva
la mia corona e la mia porpora regale? Pure ho ceduto alla necessità
imperiosa della ragion di Stato, immolando la mia dignità di regina
scacciata dalla prepotenza dal suo trono, i miei odi di sorella a cui
la vostra gente crudelmente e vigliaccamente ha ucciso una sorella, ai
supremi interessi del popolo e del regno che Dio, intendetemi bene, che
Dio affidò al mio governo. Dissi a me stessa che un uomo, qualunque
fosse, chiamato non importa come, a sì alti destini, non poteva che
essere uno strumento della Provvidenza, la quale senza dubbio ha i
suoi arcani intenti allorchè li fa sorgere in certe epoche, e a lui
mi rivolsi per espiare con la mia umiltà le mie colpe, delle quali ora
gli uomini mi accusano, per le quali mi avrebbero esaltata se il potere
fosse tornato nelle mie mani!

Anelava come sconvolta dall’ira e dall’orgasmo, stupendamente bella di
orgoglio e di dolore.

— Si calmi. Maestà — le disse rispettosamente il colonnello. —
L’Imperatore l’ammira e s’interessa vivamente per lei, tanto più...

— Tanto più che vagheggia un certo disegno il quale se riuscisse mi
farebbe zia di colui che mi cacciò da Napoli...

— Lei stessa l’ha detto, Maestà; la Provvidenza ha degli arcani intenti!

— Nè io voglio forzarle la mano. Perdonerò a Napoleone le sue
irrisoluzioni, le sue lentezze, se riparerà il male che poteva
impedire. Poichè mi ha precipitato dal trono, il meno che possa fare è
di aiutarmi ad ascendervi di nuovo.

— La volontà dell’Imperatore su questo riguardo è ben salda, anche
per preparare la via a quell’alto disegno a cui Ella ha accennato. Non
esita più che su i modi di attuarlo.

— Che mi lasci fare; quantunque esiliata e sorvegliata dagli Inglesi,
ho ancora i mezzi per sbarazzarmene.

— Cotesti mezzi, quali si siano, l’Imperatore l’ignora e vuole
ignorarli; ne lascia a Vostra Maestà la scelta e l’uso.

— Le mie proposte sono chiare e le ho già formulate un’altra volta:
la presenza degl’Inglesi in Sicilia è per Napoleone un soggetto
costante d’inquietudine, un pericolo ed un grande imbarazzo: da qui
essi disturbano, inceppano le sue operazioni nel mezzodì di Europa e
lo tengono in iscacco. Dunque i nostri interessi su questo punto sono
identici.

— Tale è anche l’opinione dell’Imperatore.

— Sarei dunque in diritto, poichè il suo interesse è così legato
al mio, di reclamare il suo aiuto per scacciar gl’Inglesi. Tuttavia
m’incarico io sola di questa non facile impresa. Le mie misure sono
prese in modo che son certa di riuscire e riuscirò. Ma in politica
bisogna preveder tutto, anche i rovesci più improbabili; nel caso in
cui non riuscissi reclamo un asilo sicuro ed onorevole a Genova o a
Milano, a sua scelta.

— L’Impero francese sarà aperto a Vostra Maestà in tutta la sua
ampiezza.

— È questa una questione incidentale; non mi ci fermo e riprendo il
filo. Liberata dagl’Inglesi ripiglio con Re Ferdinando le redini dello
Stato e apro i porti della Sicilia ai bastimenti francesi, tanto da
guerra che da commercio.

— E Vostra Maestà domanda in cambio?

— Primo: soccorso di uomini e di navi se mai gl’Inglesi volessero
tentare una rivincita.

— Questo va da sè.

— Secondo: che mi si restituisca, per non più ritormelo il mio Regno di
Napoli col diritto concessomi da Dio di alta e bassa giustizia sui miei
popoli.

— Ecco il nodo della questione — disse il colonnello scrollando il
capo. — Testè l’Imperatore ha nominato Re di Napoli suo cognato, il
granduca di Berg. L’attuale Regina di Napoli è dunque una sorella
dell’Imperatore.

— La regina, l’unica regina di Napoli sono io! — gridò Maria Carolina.
— La volontà divina non può essere cancellata dalla prepotenza umana.
Al mio cospetto non si deve parlare d’altro re di Napoli, d’altra
regina di Napoli!

— Perdono Maestà, ma gli è che...

— Dare un tal titolo — continuò la Regina accendendosi di più — un
tal titolo che conferisce una parte della divinità al figlio di un
albergatore, ad un palafreniere! Dare un tal marrano per successore a
noi!...

— L’Imperatore ha tante corone a sua disposizione che ben potrebbe
darne un’altra a suo cognato e restituire quella di Napoli a Vostra
Maestà. Ma bisognerebbe che si agisse lealmente anche coi re di... con
Gioacchino Murat, il quale ha saputo che financo nella sua Corte... nel
suo palazzo vi son degli agenti di Vostra Maestà che lo spiano, e ne sa
anche i nomi...

— Chi glieli ha detti, chi? — gridò Maria Carolina confusa, sgomenta da
tali parole.

— Indovini.

— Ma non so, non potrei...

— Gl’Inglesi.

— Murat corrisponde con gl’inglesi?

— Con Bentink istesso.

— Ma Bentink non sa nulla.

— Ecco l’inganno, Regina. Bentink sa tutto. Un tal Romeo, confidente di
Vostra Maestà, vendeva agl’Inglesi i segreti che Lei gli confidava.

La Regina era rimasta immobile, colpita da tali parole.

— L’infamia, il tradimento — mormorò, mordendosi a sangue le labbra
— ovunque, lungo il mio cammino!... Ma — disse poi alzando il capo
— stento a credere e a comprendere il perchè Bentink abbia avvertito
Murat. Quale interesse a ciò lo induceva?

— Primieramente l’interesse di nuocere a Vostra Maestà, di deludere
le speranze e di attraversarne i disegni. Purchè gl’Inglesi siano
padroni della Sicilia, non importa che sia Gioacchino o Ferdinando il
re di Napoli. La mia opinione è che se fossero chiamati a scegliere,
sceglierebbero Gioacchino. Ciò si capisce. I Borboni hanno dei
diritti incontrastabili sulla Sicilia. Murat non ne ha, onde gli
assicurerebbero volentieri, non vedendo in lui un nemico, e gli
garantirebbero il continente napolitano, alla condizione di lasciar
loro il libero godimento dell’isola. Del resto, che essi facciano
la corte a Murat e che lo mettano in guardia contro la Maestà Vostra
poco importa, essendo Ella destinata a rientrare in Napoli non per la
via tenebrosa delle cospirazioni, ma per quella in pieno sole della
politica e dei trattati.

Tacquero entrambi per prepararsi ognuno dei due alla parte più
importante del colloquio che non ancora era stata toccata.

Il colonnello ruppe pel primo il silenzio.

— In contracambio l’Imperatore esige...

— Esige? — gridò la Regina. — Di già delle condizioni? Signor
colonnello, prima che ella continui, tengo a dichiararle che se
Napoleone vorrà essere per me a Napoli ciò che gl’Inglesi sono a
Palermo, se non devo infine che mutar di padrone, preferisco di
rimanere nell’abiezione in cui sono, nella quale se tutto è perduto,
è rimasto salvo l’orgoglio. Meglio il nulla che il simulacro della
grandezza e della potenza, ed è perciò che mi trovo confinata qui
senza soldati alla porta, senza cortigiani nell’anticamera. Non sono
di quelle menti vanitose che si accontentano dell’apparenza: voglio
essere e non parere, io! Che Murat si lasci guidare come un burattino
da colui che lo ha spogliato delle vesti di palafreniere per coprirlo
di un manto regale: che faccia del trono un palco da saltimbanco e
rappresenti col suo mantello preso a prestito il fantoccio coronato,
poco importa, non fa che il suo mestiere d’istrione. Ma io, ma io? Han
dimenticato chi sono io? Dond’esco io?

— Perdoni, Maestà — rispose il colonnello inchinandosi e con un fine
sorriso — sono un soldato e poco esperto nell’adoperar le parole.
Quando ho detto che l’Imperatore esige, intendevo dire che l’Imperatore
desidera...

— Sentiamo che cosa...

— Che si lascino ai Napolitani le leggi francesi e che si adottino
anche in Sicilia.

— Vuole cioè un cambiamento di costituzione? — disse la Regina che si
aspettava qualcosa di peggio.

— Ma no, ma no; chi parla di costituzione? La moda delle costituzioni
è passata, grazie a Dio; non si tratta che del Codice Napoleonico.
Certe baie, la Maestà Vostra lo sa bene, non possono essere vagheggiate
oramai che dalle teste vuote degl’ideologi. La migliore delle
costituzioni è un uomo... o una donna di genio. A tal titolo la Francia
e le Due Sicilie avran la più ambita delle costituzioni.

Ella aveva ascoltato col viso di chi non solo assente a quel che
ascolta, ma che senta dir cose che erano da gran lunga nella sua
convinzione.

— Non mi oppongo — rispose poi alzando le spalle come se la richiesta
le paresse assai futile — che i miei sudditi sieno giudicati con queste
o con quelle leggi: tanto valgono le une come le altre. L’importante
non è la legge ma colui che l’interpreta e l’applica. I buoni
magistrati fan buono qualunque codice, e il codice più perfetto non è
che uno straccio di carta se i magistrati sono ignoranti o corrotti.
Povera umanità che si vuol guarire dai ciarlatani or con queste or con
quelle nuove e pompose parole... Non avete da dirmi altro?

Il colonnello comprese che la Regina lo accomiatava, onde si alzò.

La Regina si trasse dal dito un anello e porgendolo al colonnello:

— Per ora non mi è concesso dalla prudenza d’insignirvi di uno dei
nostri ordini; tenete intanto per mio ricordo questo anello.

Il colonnello si chinò per baciare la mano della Regina e nel rialzarsi
disse:

— Esso mi ricorderà fino all’ultimo mio respiro della fortuna che mi è
toccata in questo giorno.

— Poichè voi — continuò la Regina — non potrete tornare qui che quando
avrò riavuto il trono, manderò io un mio fido all’Imperatore con una
lettera per averne la ratifica ai patti stabiliti.

— Che Vostra Maestà stia bene in guardia e non confidi un tal segreto a
un possibile traditore.

— Traditore lui, l’uomo che porterà la mia lettera! — esclamò la Regina
il cui viso s’illuminò dell’espressione di una fede profonda. — Ah,
signor colonnello, se avessi conosciuto un tal uomo leale come un re
e valoroso come un paladino, in altri tempi, il tradimento e l’infamia
non avrebbero attraversato i miei disegni.

— Sarà il suo amante — pensò il colonnello mentre s’inchinava
profondamente.

Nello scendere le scale della villa, preceduto dal maggiordomo che
l’aveva introdotto, mormorava scrollando il capo:

— Capisco ora perchè l’Imperatore la chiama Fredegonda. Questa donna è
un impasto di tigre e di leonessa, di aquila e di rettile.

La Regina che si era finallora contenuta, diede libero sfogo alla gioia
ed all’intima ebbrezza al pensiero della prossima vendetta, e vedendosi
sola proruppe nella frase che le era abituale:

— Pesterò Bentinck in un mortaio e con lui tutti questi Inglesi
maledetti!

Ripetiamo quel che già abbiamo detto in principio di questo capitolo:
tutti i particolari di un tal colloquio sono autenticamente storici.
Che Carolina e Napoleone giocassero a chi fosse il più furbo: che
accomunando i loro interessi entrambi nutrissero in fondo al cuore il
pensiero di gabbarsi dopo la riuscita dei loro disegni è probabile, ma
è certo che frattanto camminavano di accordo sui sentieri dell’intrigo
come provano le lettere intercalate, alcuna delle quali ci è venuto
fatto di leggere.

La Regina rientrando nel gabinetto attiguo alla sua camera vide Alma
seduta presso la finestra donde la vista spaziava per l’ampio mare. La
giovinetta era così immersa nei suoi pensieri, i quali a giudicar dalla
espressione del viso esser dovevano ben tristi, che non si accorse
della Sovrana se non quando questa mettendole una mano sulla spalla le
disse:

— A che pensi?

Alma si alzò di soprassalto e impallidendo come se temesse che la
Regina le leggesse nel cuore:

— A nulla — rispose — a nulla!

— Non è venuto nessuno nella mia assenza, nessuno?

— Che io mi sappia, nessuno.

— Pure son tre giorni omai che egli è partito... Avrebbe dovuto far
ritorno.

Sapeva bene Alma che la Regina parlava di Riccardo, il quale la mattina
di quella notte, essendo ancora Alma nella sua stanza era partito per
la pianura di Segeste con l’incarico di formar due grosse bande dei
Calabresi che vi si erano radunati. La Regina lo aveva fornito di vesti
e di armi nonchè di un cavallo; e da lei stessa Alma aveva saputo che
al ritorno sarebbe stato ricevuto alla villa in forma per dir così
ufficiale.

Ora ella si sentiva incerta, confusa, non sapendo a qual partito
appigliarsi. Doveva ella continuare a far parte della casa della
Regina, rendendosi complice dei rapporti di lei con quel giovane,
rapporti che non poteva più oltre fingere d’ignorare e che a parte il
turbamento che destavano nel suo cuore, compromettevano la sua dignità
di fanciulla? La Regina era la Regina, nè lei si sentiva in diritto
di biasimarla anche perchè i tanti sofferti infortuni la facevano
meritevole di una certa commiserevole indulgenza.

Ma lei, poteva lei esser testimone di rapporti sconvenevoli, non
giustificati o legittimati neanche da una passione vera e profonda;
chè ella ben ne sapeva l’origine in un capriccio della Regina, la quale
aveva trovato in quell’avventura uno svago?

D’altra parte, come lasciar quella donna, che era la sua Sovrana,
che era stata sempre buona ed affettuosa con lei, alla quale ella non
avrebbe potuto rimproverare quei rapporti se non svelandole il mistero
del suo cuore? Ed anche se l’anima sua non avesse potuto resistere,
dove sarebbe andata? A Palermo da suo padre, da suo padre che aveva su
lei delle mire così turpemente ambiziose, e che avrebbe voluto col suo
assenso ad un matrimonio odioso comprare il favore degl’Inglesi?

In quei tre giorni la giovinetta non aveva avuto pace, funestata
da tali pensieri, resi più tristi dal saper Riccardo suo prossimo
congiunto e quindi non indegno del suo amore; che almeno se l’avesse
come pel passato creduto un misero avventuriero, quella simpatia che a
poco a poco era divenuta un sentimento ben celato sì, non confessato
neanche a se stessa, ma pur doloroso, avrebbe avuto un freno, mentre
ora poteva abbandonarsi a quell’amore, poteva senza arrossire svelarlo,
essendo ormai quel giovane un suo pari.

Anzi, più che un suo pari era lui il vero duca di Fagnano, era lui
che poteva chiedere a lei ed a suo padre conto di tanti anni di
usurpazione, di godimento di un titolo e di una ricchezza che a loro
non appartenevano. E avrebbe lei confessato quell’amore che avrebbe
potuto credersi un calcolo vile, e avrebbe lei potuto frammettere il
suo amore così puro nei rapporti fra lui e la Regina?

Doppiamente dunque il suo orgoglio si ribellava. L’abisso che li aveva
separati un tempo era meno profondo e meno insormontabile dell’abisso
che ora li separava!

Ella non aveva risposto alle parole della Regina e continuava a vagar
con lo sguardo trasognato per la spiaggia deserta, quando vide un
cavaliere che di galoppo veniva verso la villa. Quantunque fosse ancor
lontano, trasalì avendolo riconosciuto. Era Riccardo.

— Se Vostra Maestà non ha bisogno di me — disse lei dissimulando il suo
turbamento — vorrei ritirarmi nella mia stanza.

La Regina si era alzata e avendo volto lo sguardo al di fuori diede un
grido di gioia.

— È lui, è lui, è Riccardo! — esclamò.

Poi, sovvenendosi di un tratto delle parole di Alma le si rivolse:

— Non l’avevi visto anche tu, non l’avevi riconosciuto?

Alma non seppe mentire ed accennò di sì col capo.

— Ed è per questo che vuoi andar via?

— Vostra Maestà mi perdoni, ma gli è che una fiera emicrania da stamane
mi attenaglia il capo — rispose lei senza osare di alzar gli occhi in
viso alla Regina.

Questa la contemplò un istante in silenzio; poi, continuando a
fissarla, le disse severamente:

— Andate.

Alma uscì, dimenticando nel suo turbamento d’inchinarsi alla Regina.

— Non vi è più dubbio, non vi è più dubbio, ella lo ama! — mormorò
la Regina — ma non oserà contendermelo. Ella ha subito il contagio
dell’amore: dovevo prevederlo. Se saprà contenersi gliene sarò grata
evitando lo spettacolo della felicità mia... altrimenti la stritolerò
come ho stritolato tutti coloro che osarono lottar meco.

Però il suo viso si rischiarò e attese impaziente che uno dei valletti
venisse ad annunciarle il ritorno di Riccardo. Non era più un capriccio
il suo, cominciava ad amare il giovane come forse non aveva amato mai
in sua vita. Era quello l’ultimo amore nel quale raccoglieva tutta
l’energia della sua anima e del suo cuore, in un ritorno violento alla
giovinezza di cui sentiva nel sangue tutte le vampe.

In questo il servo dell’anticamera si fece all’uscio e gridò:

— Il colonnello Riccardo.

Il giovane si era fermato sul limitare, aspettando che la Regina lo
invitasse ad avanzarsi. Ella che conteneva a stento la sua gioia gli
sorrise a vederlo, e stendendogli la mano:

— Venite, venite signor colonnello, chè vi aspettavo impaziente.

Riccardo vestiva un abito stretto alla vita di velluto nero, con un
cappello a larghe falde pur esso nero. Quei pochi giorni erano bastati
a far dileguare le tracce dei patimenti sofferti e a ridare mia sua
persona il vigore e tutta la sua bellezza.

La Regina lo contemplava con occhi accesi. Poteva ora amarlo senza
avvilirsi, chè egli era pur sempre della sua casta: già avrebbe dovuto
indovinarlo non solo dall’aspetto, ma anche dai modi; avrebbe dovuto
indovinarlo da certe sue delicatezze istintive anche negli abbandoni
più deliranti che un nobile sangue gli scorreva per le vene.

Il valletto si era ritirato; il giovine ubbidendo all’invito della
Regina, le si era seduto appresso.

— Che nuove mi portate dei nostri campioni? — chiese la Regina.

— Bravi fino all’eroismo individualmente, ma insofferenti d’ogni
disciplina. Bisogna che Vostra Maestà si mostri a loro per renderli più
docili ed anche per presentarmi ad essi come il loro capo.

— Non sarebbe prudenza; gl’Inglesi mi sorvegliano.

— Lo so, ma è necessario; tanto che ho promesso che dimani l’altro
Vostra Maestà li avrebbe passati in rassegna. Ero tanto sicuro del
suo assenso che ho già designato gli uomini che dovranno servirle di
scorta. Partiremmo a mezzanotte per essere all’alba nella pianura di
Segeste. A tal patto, Maestà, io accetto di esserne il capo.

— In tal caso venite a dare degli ordini anche a me, obbligandomi a
fare il voler vostro...

— No, non il voler mio — rispose lui freddamente — ciò che esige
l’interesse dell’impresa. Bisogna che Vostra Maestà si persuada che la
riuscita di un disegno dipende dall’ordine, dalla preveggenza, dalle
cure che presieder debbono ai mezzi per attuarlo. Ora io ho trovato
quei poveri Calabresi laceri, affamati, randagi per quella pianura
deserta ove erano stati diretti e dove non trovarono nessuno per
soccorrerli, per guidarli. Vostra Maestà fu bene ispirata nel chiamar
qui quei suoi sudditi fedeli, ma...

— Ma appena qui, li ho abbandonati, volete dire. Insomma, se io ho
delle iniziative, non so poi ben dirigerle!

— Vostra Maestà ha fatto troppo, anzi, ma gli è che mancano gli uomini.

— E una donna non sa e non può fare quello che sa e può fare un uomo...

— È proprio questo il mio pensiero — rispose il giovane inchinandosi.

— In tal caso — proruppe la Regina — io per la prima dovrò ubbidire
alla volontà d’un uomo, io che ho ubbidito solo e sempre alla mia!

— In ciò che è bene, sì — rispose Riccardo senza scomporsi — in ciò
che un tale uomo creda necessario al vostro interesse. Un tal uomo vi
ha messo per posta la sua vita; è giusto che voi vi mettiate qualcosa
delle vostre regali prerogative.

In ciò dire si era alzato.

— Andate via? — disse la Regina tra indispettita e ammirata. — Sapete
che una delle prerogative reali è quella di accomiatare coloro che han
chiesto udienza?

Egli prima di rispondere si guardò intorno; assicuratosi d’essere soli
le si avvicinò e le disse, guardandola fissamente:

— Ero chiuso in carcere ed aspettavo che mi si conducesse al luogo
del supplizio, ma non era il pensiero della morte che mi riempiva
il cuore di angoscia: era il pensiero che in me perdevate un cuore
devoto ed uno spirito risoluto. Mio padre voleva spianarmi la via ad
un avvenire di onori e di grandezze degne del titolo che mi avrebbero
fatto riconoscere, ed io rifiutai per venir qui, come avevo promesso,
per offrirvi il mio braccio ed il mio cuore. In Algeri ruppi le
catene, vagai non so per quanti giorni pel deserto, arso dalla sete,
affamato, lacero, sfuggendo solo Dio sa come alle fiere, ma sostenuto
dal pensiero di mantenere a voi la mia promessa. Ora son qui, disposto
a tutto, parato a tutto, ad uccidere e ad essere ucciso, ma ad un sol
patto, o Regina, a patto che io sia libero e che non vediate in me nè
il cortigiano nè il servo. Questo vi direi anche se aveste il carnefice
a lato, pronto ad un vostro cenno a colpirmi con la sua scure; questo
vi direi anche se inebbriata d’amore mi stringeste fra le vostre
braccia.

Ella aveva ascoltato da prima con una espressione di sorpresa ed
insieme di un principio di collera contenuta, ma a poco a poco si
era intesa come soggiogata. Nessuno le aveva parlato mai così, i suoi
nemici occulti le avevano strisciato alle ginocchia; i suoi cortigiani
l’avevano adulata servilmente per carpirne i favori. Solo quel giovane
che le dava la vita, che le sacrificava il suo avvenire, a cui doveva
per ben due volte la salvezza le aveva parlato in modo così fiero.

Lo contemplò qualche istante in silenzio.

— Voi siete un uomo, voi — disse infine lentamente con una profonda
espressione di rammarico. — Perchè, perchè vi ho conosciuto così tardi?

— Vostra Maestà dunque si tenga pronta per mezzanotte. Non vi è qui una
porticina segreta donde possa uscire all’insaputa dei familiari?

— Sì, che si apre nel viale dietro la villa. Potrò uscire senza esser
vista, ma non all’insaputa della mia lettrice, vostra... cugina.

— È una creatura devota e fedele — disse lui trattenendo un sospiro.

— E dove andrete ad alloggiare? — chiese la Regina che lanciò
uno sguardo incerto sul giovane, dolente di vederlo andar via ma
comprendendo non esser prudenza che rimanesse.

— Che Vostra Maestà non si preoccupi. A un miglio da qui havvi una casa
di campagna il cui padrone mi ha ceduto una stanza.

— Andate — rispose lei divenuta pensosa.

Quando il giovane uscì, ella stette un pezzo in silenzio come in
colloquio con se stessa.

— Ah — disse poi — se avessi incontrato un tal uomo, un tale amore nei
primi anni del mio regno!




V.


La spiaggia in cui alla spicciolata eran convenuti i Calabresi
ingaggiati dagli emissari di Maria Carolina era deserta ed inabitabile
nella calda stagione, perchè l’aria ne era avvelenata da mortifere
esalazioni; pure vi crescevano rigogliosi e selvatici il fico, il
melograno e gli innumeri arbusti parassitari. L’acqua stagnante di
un piccolo fiume che scorreva sotto i giunchi e le ninfee contribuiva
alla insalubrità dell’aria, onde per parecchie miglia all’intorno non
s’incontravano nè abitazioni nè abitanti.

La scelta del luogo per lo sbarco degli _amici della Regina_, come
amavano appellarsi quegli audaci avventurieri, era stata ottima perchè
del tutto remoto e non soggetto quindi alla sorveglianza degl’Inglesi.
Un brik noleggiato dagli emissarî, fra i quali certo Castrone che
era stato un tempo valletto alla Corte e che aveva saputo guadagnarsi
la fiducia e la confidenza di Sua Maestà, tanto da divenire l’agente
principale, imbarcava gl’ingaggiati nella spiaggia di S. Eufemia, e
deludendo con abile manovra la crociera inglese, li sbarcava in quel
luogo, donde partiva per far ritorno con altra gente. Ma non si era
pensato alla provvigione ed all’alloggio, e tale dimenticanza aveva
provocato la giusta ira di tutti gli sbarcati che correvano il rischio
di morir di fame in quella pianura deserta.

Era questo che Riccardo aveva voluto dire alla Regina, essendosi
trovato in mezzo a tutta quella povera gente, alla quale per prudenza
aveva occultato che egli avrebbe dovuto esserne il capo. Non era un
campo di partigiani ma un’accolta di pezzenti che andavan vagando per
quella spiaggia, non osando di avventurarsi nell’interno del paese
per provvedere col saccheggio e con le estorsioni ai propri bisogni, e
che rimpiangevano di essersi lasciati abbindolare e di aver lasciato
i patrî monti, ove correvano pericolo di cadere uccisi, è vero, o di
cadere in mano dei Francesi, ciò che era lo stesso, ma dove non mancava
ad essi, nè il cibo abbondante e succolento, nè il vino generoso, di
cui si rimpinzavano e si gonfiavano accanto alle belle fiamme di tutto
un pino, nè l’amore delle belle fanciulle di Carafa o di Garopoli, di
Tirolo o di Marcellinara, famosi per le belle donne.

Nel giungere in quel luogo Riccardo era stato guardato con diffidenza
per i suoi begli abiti e pel bellissimo cavallo della scuderia della
Regina; ma fu creduto anche lui un mistificato e potè sentire le
lagnanze irose di tutti quei poveri diavoli il cui numero cresceva
sempre più. Ma quale non era stata la sua meraviglia quando aveva visto
distaccarsi da uno di quei gruppi due degli sbarcati e correre alla sua
volta gridando:

— Capitan Riccardo, capitan Riccardo, siete voi, siete voi!

E quei due avevano preso per le briglie il cavallo che si era fermato,
mentre essi continuavano a dire:

— Vivo, sano, e qui con noi! Ah! finalmente, almeno abbiamo chi potrà
dirigerci in questo maledetto paese!

— Tu qui, Magaro, tu qui, Ghiro! Anche io son lieto assai di rivedervi.

Aveva riconosciuto quei suoi fedeli seguaci e ne aveva inteso pure lui
una gran gioia, anche perchè gli avrebbero facilitato la sua missione,
informandolo sui bisogni e sugli umori di tutta quella gente.

Era balzato dal cavallo e seguito dai suoi amici si era ritratto
all’ombra di un muricciuolo.

— E il Toro, e Vittoria? — chiese premurosamente.

Non aveva punto dimenticato nè il vecchio scorridore che gli aveva
fatto da padre, nè quella donna che per lui si era esposta a tanti
pericoli. Ad essi era andato sovente col pensiero in quelle ultime
traversie della sua vita, sicuro che non li avrebbe rivisti mai più.

— Pietro il Toro — rispose il Ghiro — si unì alla banda di Benincasa
con Vittoria che ha fatto cose inaudite, tanto che essendo caduto
Benincasa nelle mani dei Francesi, i quali gli hanno tagliato le
braccia a Cosenza e la testa a Rossano, fu acclamata ad unanimità
capobanda. Il Guercio che ci ha i peli sul cuore e che ne ha viste e ne
ha fatte di tutt’i colori, mi ha raccontato delle cose orribili! Quella
lì è divenuta una furia infernale.

— Ed ora? — chiese Riccardo pensoso.

— Ora non so dove sia. Contro la sua banda fu spedito tutto un
reggimento ed è stata quasi distrutta. Pure si dice che lei e Pietro il
Toro siano riusciti a fuggire.

Il giovane era ricaduto nei suoi pensieri. Era forse quell’amore, che
compresso nell’anima di lei perchè senza alcuna speranza, ne aveva
vieppiù fatta feroce l’indole, che avrebbe potuto anche piegare al bene
ed alla bontà? Ricordava col cuore stretto come da un rimorso, quando
quella donna, nata per imperare, che fin dalla prima giovinezza si era
usata al sangue ed alla strage, e che aveva vissuto senza fede, senza
religione, senza alcun freno ai suoi istinti selvaggi, era stata con
lui tenera, dolce, remissiva, e vieppiù che dell’aver rischiato la
vita per salvarlo, dell’essersi esposta a cadere in mano dei Francesi
per riuscire a farlo evadere, quella tenerezza, quella bontà, quel
mutamento avvenuto in lei testimoniavano dell’amore di quella povera
creatura che forse non era nata pel male!

E lui aveva respinto quell’amore, l’aveva respinto per tener dietro a
due chimere, al capriccio di una regina e ad un sogno dell’adolescenza!
Fra quei due amori, egli incerto, insoddisfatto vagava, nessun di essi
tenendolo del tutto a sè avvinto, mancando a ciascuno di essi qualcosa
che egli stesso non avrebbe saputo dire che fosse.

Pure di quei due amori uno solo brillava di pura luce al suo pensiero,
quello di Alma; ma fra lui e lei sorgeva la Regina per separarli, come
fra lui e Vittoria si erano interposti da una parte i suoi legami con
la Regina, dall’altra il suo purissimo sentimento per Alma.

Tutti questi pensieri già erano balenati in confuso nella mente mentre
ascoltava il Ghiro ed il Magaro. Ma si trasse dal ripiegarsi che aveva
fatto su sè stesso per chiedere ai due suoi antichi compagni:

— E che dicono i vostri amici sbarcati con voi?

— Dicono che ci hanno ingannato, che vogliono farci morire di fame e
di sete; dicono che siamo capitati in un tranello. Alcuni han proposto
di assalire la città od il villaggio più vicino per metterlo a sacco;
ed anche io mi vo’ persuadendo che sia questo un buon consiglio. A
noi ci dissero che avremmo trovato qui la Regina, la quale ci avrebbe
provveduto di tutto, come fece a Napoli, vi ricordate? Ma non abbiamo
trovato neanche la coda del gatto della Regina. Ieri sera un tale che
era sceso da un bastimento, l’istesso che ci ha portato qui, appunto
in nome della Regina voleva indurci ad aver pazienza. Buon per lui che
vedendo la mala parata s’imbarcò a tempo, chè si era già proposto di
farlo a pezzi, e vi assicuro che se la Regina fosse apparsa in quel
momento non si avrebbe avuto riguardi neanche per lei.

— Io non ho mangiato da ier l’altro e non ne posso più — disse il
Magaro, il cui viso sparuto confermava le sue parole.

— Ebbene — disse Riccardo — se mi promettete di star tranquilli, dimani
vi sarà fatta una distribuzione di pane e di carne. Andrò io a parlare
col capitano della nave che ora ha gettato l’ancora.

Infatti il brik si era avvicinato alla riva e una barchetta si era
staccata dal suo fianco vogando verso terra.

— Sono altri poveri corbellati che vengono a morire di fame con noi!

— Aspettatemi qui — disse Riccardo — finchè non torno dall’aver parlato
col capitano.

— Sappiate, inoltre, che, come ho sentito dire da alcuni, gli Inglesi
i quali fan qui quello che i Francesi fan da noi, si preparano ad
assalirci. Alcuni dei nostri hanno assalito due soldati a cavallo
che andavano a... a una città che si chiama Palermo con una lettera
per chiedere rinforzi. Diceva la lettera che in questa spiaggia erano
sbarcati molti briganti calabresi. Chi chiedeva i rinforzi diceva di
non aver soldati in buon numero. Questo ho inteso dire da chi ha letta
la lettera.

— Abbiamo dunque cinque o sei giorni innanzi a noi per riordinarci.

— E per sfamarci.

— La Regina, non dubitate, provvederà a tutto. Essa nulla sa che
vi lasciarono senza provvedere ai vostri bisogni. Dimani verrà lei
stessa...

— Non venga se prima non ci fu dato del pane, almeno; non venga...

— Pazientate — disse Riccardo che era risalito a cavallo. — Non dite
nulla del nostro incontro finchè io non torno. E se vedete che il
bastimento si allontana dal lido, non temete: vuol dire che avrò
costretto il capitano ad andare a provvedersi di quel che vi occorre
e che io l’accompagno. Seguitemi al lido. Vi lascierò il cavallo per
custodirlo fino al mio ritorno.

— La Madonna del Carmine vi ha qui mandato, la Madonna del Carmine! —
esclamarono i due.

Trovarono un pescatore che già aveva messo mano ai remi di una
barchetta. Riccardo vi entrò e in breve furono ai fianchi del brik
presso una scala di corde per la quale il giovane si arrampicò con
grande sorpresa dei marinai accorsi.

— Chi volete? — gli chiesero.

— Il capitano, d’ordine della Regina. — rispose Riccardo.

Fu accompagnato alla cabina del capitano, il quale era in colloquio
con un vecchietto dal muso di volpe e dagli occhi loschi. Nel vedere il
giovane interruppero stupiti i loro discorsi.

— Chi siete e che volete? — disse il capitano con modi bruschi.

— Sono il colonnello Riccardo — rispose il giovane con accento reciso
— preposto da Sua Maestà la Regina a capo dei Calabresi che avete qui
condotto. Che voglio? Voglio che immantinenti se il brik ne è provvisto
si provveda di cibo quella povera gente, o si vada in un porto vicino
ove si possa esser sicuri d’imbarcarne.

— Non a me dovete rivolgervi, ma al signore — disse il capitano. —
Io non ho altro obbligo che di condurre qui cotesta gente: il signore
avrebbe dovuto provvedere al resto.

— Come si chiama il signore? — chiese Riccardo voltosi all’omicciattolo.

— Si chiama Castrone.

— Dunque, caro signor Castrone, avete inteso? Non è possibile che la
Regina non vi abbia dato di che provvedere ai bisogni di quei poveri
diavoli, e perciò...

— Io non debbo dar conto che a Sua Maestà — rispose il vecchietto dal
muso di volpe — o ad un suo rappresentante. Avete voi una lettera, un
documento qualsiasi che provi di aver voi il diritto di parlarmi in suo
nome?

— Sissignore — disse freddamente Riccardo.

Mise la mano in tasca come per cercar la lettera e ne trasse una
pistola che appuntò sulla fronte del vecchietto.

— Se non ordinate al capitano di sbarcare ciò che il bastimento ha di
pane e di companatico, vi brucio le cervella.

Il vecchietto era divenuto livido e tremava a verga a verga, mentre il
capitano, un rozzo marinaio dalla fisonomia schietta ed aperta, dopo il
primo momento di sorpresa aveva dato in una risata fragorosa.

— Ve lo dicevo, vecchietto mio, che chi la tira la spezza! Giuro che il
signore, chiunque sia, ha ragione. Anch’io mi permisi di osservare che
era un far loro un cattivo giuoco di abbandonarli su una spiaggia, e mi
rispondeste che si sarebbero ingegnati.

— Ma io non ho danari! — gemeva l’agente della Regina — appena appena
ho potuto dare a ciascun di quei mascalzoni la caparra dell’ingaggio.
Ci ho colpa io se prima d’imbarcarsi la sperperarono? Io non ho più
del danaro, non ne ho più: questo dicevo testè al capitano che me ne
chiedeva.

— Danari o non danari — disse Riccardo — bisogna che quei poveri
diavoli abbiano del pane almeno, quindi è inutile far chiacchiere. Se
mi conosceste, non dubitereste delle parole mie.

— Sicuro che vi conosco... siete il famoso capobanda che...

— Che ha sempre fatto quel che ha detto. Animo, sbrighiamoci.

— Del resto — disse il capitano contenendo il riso che gli gonfiava le
guance — se non ha danaro può provarlo aprendo innanzi ai nostri occhi
la valigia che ho visto nella sua cabina, la quale scuotendola manda un
certo tintinnio dolcissimo all’orecchio.

E voltosi al vecchietto con un’espressione d’ironica pietà:

— Voglio aiutarvi a convincere il signore che non avete punto mentito.
Andrò io stesso, come avevo già in animo di fare, a prendere la vostra
valigia...

— Ebbene — esclamò il vecchietto — mi arrendo alla forza, mi arrendo
alla violenza. Nella valigia, è vero, vi è qualche moneta, ma è un
sacro deposito che debbo restituire appena sbarcato. Prendetelo,
spendetelo: saprò io far poi valere le mie ragioni con Sua Maestà la
Regina.

La sera di quel giorno il brik che aveva salpato per un villaggetto
vicino e ne era tornato ben provvisto, si diede a sbarcare di che
soddisfare ai primi bisogni degli _amici della Regina_. Appena si
sparse la nuova fu un accorrere di tutti al lido, finchè ognuno potè
ottenere di che sfamarsi.

Quando Riccardo raggiunse i suoi due antichi compagni li trovò seduti
sull’arena, lontani dagli altri, e intenti ad empirsi la bocca di pane
e di formaggio che il Ghiro aveva procurato mentre il Magaro custodiva
il cavallo.

— Voi vi chiamate la Provvidenza, la Provvidenza! — proruppero al
vederlo. — E sapete che non ci siamo potuti trattenere e l’abbiam detto
a tutti che per voi, solo per voi non siamo morti di fame!

— Orsù — disse Riccardo — ascoltatemi bene. Dovete scegliere fra i
vostri amici nove o dieci di quelli a cui non trema il cuore anche se
dovessero da soli dar l’assalto ad un reggimento, gente provata insomma
in più di una impresa. Direte che la loro fortuna è fatta se sapranno
meritarla: glielo direte in mio nome. Per ora avranno un’oncia d’oro
per ciascuno... sapete che l’oncia vale trenta carlini... e di che
empirsi lo stomaco abbondantemente.

— Che bisogna fare per meritarsi tatto questo ben di Dio? — chiesero i
due con occhi scintillanti per la gioia.

— Dimani sera... intendiamoci bene... domani sera vi avvierete per
quella strada che sale su per la collina e poi ne discende. Camminerete
sempre dritto a voi dinanzi e dopo due ore vi troverete presso una casa
di campagna nella quale sarò io ad attendervi. Avete compreso? Sempre
dritto...

— Abbiam compreso.

— L’importante è la scelta dei compagni. Non dovete nasconder loro che
ci sarà il caso forse di scaldarci un po’ le mani con gl’Inglesi.

— State sicuro — disse il Magaro. — Ne ho già scelti mentalmente
cinque o sei che han sempre freddo alle mani e non par loro vero di
scaldarsele, coi Francesi o con gl’Inglesi è tutt’uno.

— A domani sera, dunque. A proposito, avete armi?

— Possiamo mancar di pane, ma in quanto alle armi ognun di noi ha il
suo _crocefisso_ e due pistole.

Il crocefisso nel gergo dei montanari è il coltello.

— Sta bene e a rivederci.

— Andate con Dio e a rivederci domani a notte.

Il giovane spronò il cavallo e in breve disparve tra gli alberi della
collina.

Il giorno appresso, essendo già da un pezzo discesa la notte, Riccardo
che da quando vi era rientrato non aveva lasciato la stanzuccia presa
a pigione in quel solitario caseggiato a circa un miglio dalla villa
reale, uscì bene avvolto nel mantello e bene armato. Giovanni il negro
di cui la Regina si fidava più che di ogni altro servo, era andato a
dirgli aver lui provveduto per una lettiga che a mezzanotte si sarebbe
trovata innanzi la porticina segreta della villa. La Regina avrebbe
fatto credere di andare dal Re e perciò avrebbe portato seco anche la
sua lettrice.

Questo Riccardo non avrebbe voluto, chè ormai gli riusciva quasi
rincrescevole l’incontrarsi con sua cugina. Quantunque non avesse
nulla a rimproverarsi, quantunque avesse rinunciato financo al titolo
cui pure aveva diritto, sapendo che ella non ignorava il vero esser
suo, sentiva un imbarazzo, un turbamento al pensiero del contegno che
avrebbe dovuto assumere. Finallora l’aveva contemplata a distanza; ora
invece non solo aveva il diritto di trattarla da pari, ma anche quello
di considerar lei e suo padre come usurpatori dei suoi diritti.

Doveva lui infliggerle una tale umiliazione? Non era pur sempre vivo
in lui quell’amore che per tanti anni aveva portato nel cuore come
una religione? Ma se avesse taciuto incontrandola non avrebbe potuto
credere lei che egli le serbasse rancore? E quali parole le avrebbe
dovuto rivolgere se il caso di nuovo li avesse posti a fronte?

A tale domanda che si rivolgeva da più giorni non aveva saputo trovar
risposta.

Egli era andato ad aspettare i suoi amici, il Ghiro e il Magaro con
gli altri di loro scelta a piè del colle ove sarebbero giunti se,
come aveva lor detto, avessero percorso la via che dalla marina saliva
dritta verso la villa reale; e non dubitava punto che non si fossero
attenuti alle sue indicazioni.

Scese da cavallo ed aspettò con le braccia conserte, le spalle ad un
albero, nel silenzio profondo di una notte senza luna e senza stelle.

Era da un pezzo assorto ne’ suoi pensieri quando un sordo calpestio che
veniva dal fondo della collina lo riscosse.

— Son dessi — mormorò il giovane facendosi più dappresso alla via.

Un gruppo d’ombre nere s’avanzava silenzioso: quando fu a poca distanza
dal giovane, questi fece sentire un sibilo acuto e sottile col quale i
suoi compagni avrebbero di certo riconosciuto uno dei seguaci del loro
antico condottiero.

Un altro fischio acuto e sottile rispose al suo. Il gruppo si era
fermato, ma due ombre se ne distaccarono e mossero verso il giovane.

— Sei tu Ghiro? Sei tu Magaro?

— Siamo noi.

— Che novità?

— Nessuna; solo che oggi un drappello di soldati inglesi, certo per
tastare il terreno, come suol dirsi, si avventurò ad attraversare la
spiaggia senza però molestarci. Solo quando alcuni dei nostri che non
avevan mai visto dei soldati tutti rossi come altrettanti pomidoro,
incominciarono a dar loro la baia, si venne alle mani.

— Con qual risultato?

— Che i pomidoro scappano ancora. Erano assai più saldi i Francesi.

— È stato un male, un gran male! mormorò Riccardo. — Bisognava
lasciarli andar tranquilli.

— Andate a contar la ragione a certi nostri amici seccati dal non far
nulla!

— In quanti siete venuti?

— In dodici. Eravamo in dieci, poi altri due, che non ho visto bene in
viso perchè si unirono a noi quando era già notte, mi furono condotti
da Curullo, il _piede di lupo_. Vi ricordate? Uno dei più sicuri, che
garantisce di essi, e Curullo il _piede di lupo_ quando giura sulla
Madonna del Carmine...

— Avete armi?

— Pistole e pugnali.

Riccardo si avanzò verso il gruppo che l’accolse con un mormorio.

Due delle ombre si erano distaccate, quasi per nascondersi al giovane,
precauzione inutile, perchè le tenebre erano tali da non far discernere
i tratti del viso.

Una di tali ombre intanto disse all’altra:

— Io non resisto... sento un bisogno prepotente di gittargli le braccia
al collo...

— Taci — rispose l’altra ombra.

— È un tuo capriccio?

— Sì, un capriccio...

— Ma perchè debbo far sempre quello che vuoi tu?

— Amici — disse Riccardo. — Più fortunati degli altri voi iniziate
l’impresa per la quale siamo qui. Il compenso sarà proporzionato ai
vostri servigi. Il Ghiro ed il Magaro vi distribuiranno fra poco di che
rifocillarvi con un po’ di buon vino.

— In tal modo sì che l’impresa incomincia bene! — mormorò un’ombra.

— Capitan Riccardo ha sempre parlato come un sapiente — aggiunse
un’altra.

— E dimani — continuò capitan Riccardo — avrete ciascuno un’oncia
d’oro, cioè trenta carlini.

— Che bisogna fare? — chiese colui che il Ghiro aveva chiamato Curullo
il _Piede di lupo_. — A tal patto mi sento capace di prendere per le
corna Satanasso in persona.

— Sei tu, Curullo? — disse Riccardo. — Tu non sei mai venuto meno.

— Neanche noi! — esclamarono gli altri.

— Bisogna far da scorta ad una lettiga nella quale sono due donne.

— Tutto questo?

— Ma se mai fossimo assaliti, bisogna farsi ammazzare per difendere
quelle due donne.

— Son tali dunque che valgono la vita di noi tutti? — chiese Curullo.

— Una di esse è Sua Maestà la Regina nostra signora e padrona — rispose
Riccardo con voce grave.

Un silenzio che era di stupore e di esultanza insieme per l’onore cui
eran chiamati seguì alle parole di Riccardo.

— Direte a Sua Maestà che la vita di tutti noi è sua — rispose con voce
solenne una delle ombre.

— Vi disporrete secondo la nostra antica usanza: due precederanno la
lettiga di venti passi; otto cammineranno ai fianchi lungo i margini
della via; altri due seguiranno; Curullo farà da caporale e vi
comunicherà i miei ordini.

— Capitan Riccardo — rispose Curullo — io non voglio usurpare i diritti
di nessuno; qui c’è un tale che è assai più vecchio di me; a lui tocca
di far da caporale.

— Si faccia innanzi, dunque.

— Grazie Curullo, grazie — gridò una voce che fece trasalire capitan
Riccardo. — Ah, non ne potevo più! Sono io, sono io, Pietro il Toro!

E il giovane si sentì avvinto da due ferree braccia.

— Tu, tu, Pietro? Dio sia lodato! — esclamò il giovane abbracciando il
suo vecchio amico. — E di Vittoria, che n’è di Vittoria?

— Ah, Vittoria! — rispose Pietro il Toro con la voce incerta di chi si
trovi in grande imbarazzo — che so io, che so io! Le femmine, perchè
quella lì è pur sempre una femmina per quanto abbia un cuore che vale
cento uomini, hanno certi capricci... Chi ne comprende nulla di quel
che fanno?

— Ma vive, vive, sta bene?

— Sicuro che sta bene, benissimo anzi. Ma parlami di te, di voi! Ah,
credevo di non rivedervi più, di non incontrarvi più...

— Aspetta... dò gli ordini perchè i nostri amici ci seguano e poi
faremo insieme la strada.

Il Ghiro ed il Magaro erano rimasti ben sorpresi nel sentir la voce di
Pietro il Toro; quando questi si distaccò dal giovane fu salutato da
vigorosi pugni che è il saluto più affettuoso dei contadini calabresi.

— Ah vecchio rimbambito, e perchè non ti sei svelato a noi? — gli
dicevano i due, sinceramente lieti.

— Perchè, perchè? E che ne so io? Vi prego di non domandarmelo; lo
saprete un giorno, domani anzi, perchè queste tenebre non dureranno
a lungo. Ma intanto sbrighiamoci chè mi tarda di raggiunger capitan
Riccardo. Chi lo avrebbe supposto nello sbarcare stamane? Non ci volevo
credere quando mi dissero che anche lui era qui con noi e che bastò la
sua presenza per ottenere di che non morir di fame!

Poco dopo il silenzio e l’ordine furono ristabiliti nei dodici
avventurieri, che tennero dietro su per la via a capitan Riccardo e a
Pietro il Toro.

Quando giunsero nel viale del parco dietro la villa, videro ferma
dinanzi la porticina una lettiga rischiarata da due lanterne poste
sulle stanghe del davanti. Giovanni il negro si avvicinò a Riccardo
dicendogli:

— Sua Maestà è pronta.

— Siete sicuro dei lettighieri? — chiese Riccardo.

— Son due siciliani che Sua Maestà ha preso a proteggere — rispose il
negro — perchè perseguitati dagl’Inglesi. Di essi si serve anche nelle
sue furtive visite al Re.

— Sta bene dunque... Avvisate Sua Maestà.

Il negro rientrò nella porticina: Riccardo intanto si rivolse a Pietro
il Toro che pareva avesse perduto la loquela, tanto nel discorrere era
imbarazzato, come chi trovasse ad ogni frase un intoppo.

— Pietro, tu mi nascondi qualche cosa — gli disse Riccardo.

— Io? — esclamò con un riso sforzato il vecchio scorridore — che
vuoi ti nasconda? Ho risposto a tutte le tue domande il meglio che ho
potuto...

— Possibile che di Vittoria tu non sappia nulla, nulla di preciso,
possibile? Non foste insieme con la banda di Benincasa?

— È vero sì, ma... Insomma non so nulla e... non dico nulla.

— Ma parla, ma spiegati... Perchè balbetti, perchè sei incerto? Che
cosa devi tacere? — proruppe Riccardo.

— Io capisco che... la gratitudine... lei infine ti salvò la vita,
lei ti diede tante prove di devozione... la gratitudine ti fa esser
desideroso di sapere di lei quel che è avvenuto, lo capisco; ma sai tu
come sono capricciose le femmine! Ebbene, è un capriccio che bisogna
rispettare!

Riccardo invano si sforzava di capire le parole smozzicate di Pietro,
nelle quali pure intravedeva un mistero. Ma fu distratto dal vedere
che la porticina s’apriva per lasciar passare la Regina tutta chiusa
in un nero mantello il cui cappuccio le scendeva sulla fronte. Dietro a
lei veniva Alma che egli riconobbe alla persona sottile e all’incedere
agile e svelto.

Si avvicinò, scontento in fondo che Alma partecipasse a quella gita.
Grande era in lui l’imbarazzo nel trovarsi fra quelle due donne, tanto
più che da qualche giorno la Regina accentuava in presenza di Alma
la sua dimestichezza con lui che, d’altra parte, con irrefrenabile
dispetto aveva notato l’impassibilità della giovinetta, la quale aveva
sempre evitato di rivolgergli la parola.

La Regina avendo visto le ombre presso la lettiga, disse rivolgendosi
al giovane:

— Tutti calabresi, non è vero?

— Tutti.

— Credete che vi sia pericolo di cattivo incontro?

— Gl’Inglesi avran paura d’affrontarci finchè non saranno in buon
numero. Ma bisogna far presto quel che si ha da fare.

— Il Parlamento si radunerà fra qualche giorno per votare un’altra
tassa sulle granaglie. Sarà quella l’occasione per dare addosso
agl’Inglesi. Stasera istessa bisogna che le squadre si avanzino verso
Palermo.

Intanto eran giunti presso la lettiga. La Regina nel discorrere si
appoggiava al braccio del giovane e di tanto in tanto gli volgeva lo
sguardo ch’ei vedeva scintillare al buio. Sentiva tutto il fascino di
quel contatto e di quello sguardo nel quale leggeva gli acri desideri
di quella donna di cui pur negl’intrighi della politica, nella brama
di vendetta, nell’orgasmo della lotta, non si attutivano gl’impeti
veementi della sensualità.

— Credevo che sareste venuto ieri sera, ma attesi invano! — gli disse
sottovoce mentre si stringeva a lui con tutta la persona, sicchè ei ne
sentiva nel volto l’alito ardente che gli fece correre un brivido per
le vene.

— Aspettavo coloro che ho scelto per accompagnarci — rispose con voce
che risentiva del suo orgasmo.

— Vi aspetterò al ritorno... intendete? Al ritorno!

E gli sorrise. All’incerta luce delle due lanterne vide lo typo for
schiudersi di quelle labbra così ardenti e sapienti nei baci, vide il
lampo che scoccarono gli occhi azzurri e il seno che ansava, il seno
stupendo che aveva visto nello spasimo dell’ebrezza. Ed egli s’intese
vinto, intese che ogni altro sentimento dileguava, che al contatto di
quella donna era sopraffatto da una sola torrida sensazione nella quale
l’anima affogava.

— Aiutatemi a salire — disse lei nel porre il piede sul predellino
della lettiga.

La prese alla vita e tremante per l’orgasmo la strinse a sè mentre le
labbra sfioravano con un bacio il collo della regale donna che gli si
abbandonò per un istante fra le braccia. Poi vincendo con uno sforzo
l’incantamento del quale entrambi eran preda, la Regina entrò nella
lettiga e sedette.

Egli, come immemore del luogo, dell’ora, delle persone, che quantunque
non vedesse perchè fitte eran le tenebre, sapeva a lui d’intorno,
era rimasto innanzi allo sportello della lettiga con la mano in
quelle dell’amante ch’ei vedeva in tutta la sua bellezza pur nel buio
profondo. I suoi propositi di riserva, il suo disegno di sottrarsi a
poco a poco al fascino di quella donna, pur rimanendone devoto fino a
consacrarle la vita, eran venuti meno a quel contatto: egli sentiva
scorrere per le vene il veleno della voluttà, e la stretta convulsa
della mano lo rendeva come folle di desiderio.

Aveva tentato di ribellarsi finchè era lontano; ma ora si sentiva
riconquistato come se un nuovo e più ardente veleno ella gli avesse
trasfuso.

In questo fu urtato bruscamente da un’ombra: una voce che lo fece
trasalire disse, volgendosi ad Alma, che in quel mentre se ne era stata
in disparte, immobile, silenziosa:

— Salite, signora duchessa.

Comprese in un lampo la sua villania e quantunque iroso chiedesse a
se stesso chi della scorta fosse stato così ardito da toglierlo con
quell’urto dal dinanzi dello sportello, alla vista di Alma riacquistò
la padronanza del suo spirito.

— Perdono — disse — perdono!

E stendeva le braccia per aiutar la giovinetta a salire, ma questa
gli si rivolse con tale sguardo ed un gesto di fierezza che egli
indietreggiò.

— Posso ben salire da me — disse la giovinetta mettendo il piede sul
predellino.

Lui era rimasto immobile, come fulminato, in un canto. Ma essendo ben
alto il predellino, la giovinetta non riesciva a trarsi in su, quando
quella stessa ombra le si avvicinò.

— Appoggiatevi a me — le disse con voce sorda.

— A voi sì, chiunque siate — rispose Alma che in breve disparve nel
fondo buio della lettiga.

L’ombra chiuse lo sportello e poi gridò:

— Avanti.

La lettiga si mosse. Ma in questo Riccardo che aveva vinto lo stupore
dal quale era stato sopraffatto, acceso d’ira per quell’audacia, si
slanciò sull’ombra che aveva chiuso lo sportello e che si era arrogata
il diritto di dar quell’ordine; e, afferratala per la gola, gridò:

— Ma, per Dio, chi sei tu, chi sei?

— Capitan Riccardo. — rispose quell’ombra senza far nessuno sforzo
per liberarsi dalla stretta, — avete troppo gli occhi abbagliati per
riconoscermi nelle tenebre.

— Quale voce, quale voce è questa? — gridò il giovane retrocedendo.

L’ombra colse quel momento per disparire. Riccardo rimase perplesso,
smarrito, in un tumulto di pensieri. Gli era parso di riconoscerla
quella voce, ma al certo era stata un’illusione la sua, dovuta
all’orgasmo del suo sangue e del suo spirito.

E perchè era sparita? E come rintracciarla in quelle tenebre? Ma doveva
più oltre indugiare, poichè già la lettiga erasi allontanata, a dar
gli ordini ai suoi antichi compagni? Era d’uopo rimandare le ricerche
per spiegare un tal mistero; bisognava seguir la lettiga mettendosi
a capo di coloro che eran venuti per iscortarla. S’impose di esser
calmo, che ben comprendeva quale e quanta fosse la responsabilità sua
in quell’impresa così rischiosa. Soffocò in sè l’ira, l’apprensione,
il rancore contro se stesso per la villania commessa, che era stata una
grande villania l’aver dimenticato che Alma aspettava in disparte.

— Che ognuno si disponga secondo il convenuto — disse volgendosi al
gruppo delle ombre — Pietro il Toro dia gli ordini stabiliti.

— È già fatto — rispose Pietro il Toro.

La lettiga che si era fermata fu presto raggiunta. Riccardo montò a
cavallo.

— Avanti! — gridò, come poc’anzi aveva gridato l’ombra misteriosa.

Il corteo si mosse nelle tenebre fiocamente diradate intorno alla
lettiga dalle due lanterne.

Ora il giovane poteva bene abbandonarsi ai suoi pensieri, ai suoi
rammarichi. L’aver mancato di cortesia alla giovinetta che aveva
tanto amato, e che era forse l’unico suo vero amore, gli aveva messo
nell’anima un cruccio ineffabile. Era stato un istante di sopraffazione
quello in cui, vinto dal fascino di quella donna, si era in esso
obliato e se ne faceva una colpa, e se ne sentiva avvilito, chè bene
aveva compreso le disdegnose parole di Alma nel rifiutare il suo
appoggio.

E chi era stato degli uomini della scorta che respingendolo aveva
riparato alla sua villania? Chi mai di quegli uomini rozzi e villani
era capace di una intuizione così sottile e delicata, che se era un
oltraggio per lui, era un’ammenda ben meritata al suo fallo? Chi era
quell’ombra della quale con sì fiere parole Alma aveva accettato il
braccio respingendo quello di lui?

Mentre era in tali pensieri che lo tenevano come sconvolto, cavalcava
dietro la lettiga in cui la Regina ed Alma si tenevano silenziose. Non
era stato mai così turbato, così scontento di sè, e per un fenomeno
strano, pur avendo allora subìto il fascino della regale bellezza, si
sentiva tutto pervaso dal suo amore per Alma.




VI.


Avevano percorso un buon tratto di strada e già al raggio della nuova
luna che in parte diradava le tenebre appariva il mare lontano alla
cui riva erano accampati i Calabresi. Le stelle incominciavano ad
impallidire, a diffondersi verso oriente del chiarore annunciarne
l’alba.

Un fischio che veniva dal fondo della strada riscosse Riccardo dai suoi
pensieri. Quel fischio non gli era nuovo: lo riconosceva per averlo
sentito tante volte nei boschi: era il fischio col quale le vedette o
gli esploratori avvertivano di un imminente pericolo. La lettiga si era
fermata.

— Pietro il Toro ha intravisto qualcosa di grave — mormorò il giovane.
— Bisogna che io sappia.

Spronò il cavallo e passò senza fermarsi al lato della lettiga che era
stata circondata da alcuni della scorta.

— Che è stato, Pietro, che è stato? — chiese appena giunto presso il
suo vecchio amico.

Pietro il Toro non rispose in sulle prime: fissava un punto della
collina al cui piede si svolgeva la strada. Di un tratto si rivolse a
Riccardo dicendogli:

— Hai sentito?

Il giovane aveva anche lui volto lo sguardo alla collina folta di
alberi.

— No — rispose — non ho sentito nulla.

— Pure non è possibile che io m’inganni; l’occhio è ancora buono e
l’orecchio più buono ancora. Scommetterei il capo contro un pizzico di
tabacco che fra quegli alberi ci sono dei soldati.

Intanto il cielo era divenuto di un azzurro cupo, mentre sul mare
lontano ancora si addensavano le tenebre.

In questo Pietro e Riccardo furono scossi da un’altra voce: era quella
di uno dei due uomini che Pietro il Toro aveva mandato innanzi come
avanguardia.

— Degli uomini vestiti di rosso, là, su quel rialzo — disse quell’uomo
accennando col braccio al punto opposto a quello che aveva destato i
sospetti di Pietro.

— Diavolo, diavolo, siamo circondati — disse il vecchio scorridore. —
Nessun dubbio ora che siano soldati quelli che ho intravisto fra gli
alberi. Camminano parallelamente a noi.

Riccardo perplesso volgeva lo sguardo ora al colle ora al rialzo. Non
poteva dubitare dell’istinto dei suoi antichi compagni che presentivano
il pericolo, quantunque per quanto guardasse gli sfuggissero gli
indizi.

— Ma — disse poi — ci avrebbero assaliti...

— O non ci han visto ancora — rispose Pietro — o ci aspettano in fondo
alla vallata, sicuri di prenderci in mezzo.

— Al certo qualcuno ci ha traditi — mormorò il giovane.

— Eccoli, eccoli — esclamò Pietro il Toro stendendo il braccio verso la
collina.

L’aria si era rischiarata ed anche Riccardo fra i tronchi e i rami
degli alberi intravide alcunchè di rosso che si muoveva lentamente.

Non vi era più dubbio: erano gl’Inglesi divisi in due squadre, certo
con intenzioni ostili.

— Non posso decider nulla senza prendere gli ordini dalla Regina, ma
intanto bisogna che i nostri compagni siano avvisati.

Era ridivenuto il capobanda dalle rapide risoluzioni, a cui l’imminenza
del pericolo rendeva vieppiù pronto lo spirito e saldo il cuore.

— Che uno di voi — disse rivolto ai due uomini — vada ad avvisare gli
amici onde non siano colti alla sprovveduta. Si sappia che io e Pietro
il Toro, siamo in pericolo e che abbiamo bisogno del loro soccorso.

Colui che aveva scoperto gl’Inglesi del rialzo partì correndo.

— Il Volpino ha le gambe leste; fra mezz’ora i nostri saranno avvisati
— disse Pietro. — Ma intanto noi che facciamo?

— Bisogna che chiegga il parere della Regina — rispose Riccardo. — Tu
intanto non perder d’occhio quei signori.

Spronò il cavallo e in breve giunse presso la lettiga al cui
sportello la Regina era affacciata, non sapendo spiegarsi il perchè di
quell’attesa.

— Che cosa decide Vostra Maestà — chiese Riccardo dopo averle narrato
quel che avveniva.

— Di non indietreggiare — rispose Carolina d’Austria, che mal
dissimulava l’ira, il dispetto per gl’inciampi che sorgevano ad ogni
suo passo.

Egli aveva un aspetto rispettoso, ma severo, chè troppo gli rimordeva
il ricordo dell’abbandono al fascino di quella donna! Da una parte,
quantunque non vedesse Alma che si teneva in fondo alla lettiga,
comprendeva che ella esser doveva sdegnata con lui, dall’altra il suo
dovere gl’imponeva d’essere calmo e padrone di sè.

— Fo osservare a Vostra Maestà — rispose — che una prudente ritirata
torna ad onore di un valente capitano. Se gl’Inglesi ci assalgono,
poichè sono in gran numero, vana sarebbe ogni nostra resistenza, anche
eroica.

— Non sono io la Regina di Napoli e di Sicilia? — proruppe lei. — Che
osino, che osino di contendermi apertamente il passo...

— Non l’oseranno, ne son sicuro, ma Vostra Maestà non potrà presentarsi
ai Calabresi qui venuti per liberarla scortata da una compagnia di
soldati inglesi!

Riccardo aveva detto queste parole con voce ferma e sicura. La Regina,
per quanto a malincuore, si convinse che il giovane aveva ragione.

— Ordinate dunque — disse con accento d’irosa sommissione e di
angosciosa ironia — ordinate. Foste voi a volere che io imprendessi un
tal viaggio, che mi esponessi a un tal pericolo!

Il giovane fu colpito al cuore da tali parole: l’anima sua fiera e
generosa si ribellò.

— Fo osservare umilmente alla Maestà Vostra — rispose con voce calma
e lenta — che se Ella rischia di essere umiliata, io rischio di essere
fucilato e con me tutti quei poveri diavoli che son venuti qui dietro
il mio invito.

Non aveva finito di dir ciò che ne fu pentito: la Regina si era fatta
pallida in viso, si mordeva le labbra per frenare il dolore, mentre
gli occhi le si gonfiavano di lacrime. Egli comprese d’essere stato
crudele, di essere stato se non ingiusto, ingeneroso.

— Perdono Maestà — le disse — perdono! Il pericolo che lei corre mi
esaspera, ma io darei tutto il mio sangue per risparmiarle una lacrima
sola.

— Ah! — esclamò Carolina d’Austria — mi rimproverano di essere stata
crudele, di essere stata feroce; ma quale, quale creatura di Dio ha mai
sofferto quel che io soffro?...

In questo un Calabrese veniva correndo.

— Gl’Inglesi scendono dalle due colline con l’evidente intenzione di
accerchiarci — gridò appena giunto presso la lettiga. — Pietro il Toro
chiede che far bisogna.

La Regina a queste parole aveva aperto lo sportello ed era balzata a
terra.

— Bisogna combattere — esclamò — per aprirci il passo. Se a voi trema
il cuore, non trema a me. Sono io la vostra Regina, io padrona e
signora di questo Regno, io padrona ed arbitra della vostra vita.

Gli occhi le sfavillavano, una fiera risoluzione le si leggeva nel viso
bellissimo che raggiava di sovrana maestà. Gli uomini della scorta
affascinati, esaltati da quelle parole e dall’aspetto regale, le si
erano stretti intorno.

— Viva la Regina! — esclamarono.

— Posso dunque contar su voi? — chiese lei volgendo gli occhi
fieramente sul gruppo di quei suoi fedeli.

— Fino alla morte — risposero ad una voce.

— Ebbene si continui il cammino. Se gl’Inglesi oseranno attaccarci si
risponda al fuoco col fuoco, alla violenza con la violenza. Si tronchi
ogni indugio, ogni dissimulazione, ogni esitanza.

Già si era chiarito il giorno e potevan vedersi rosseggiar sulle alture
i soldati inglesi che convergevano verso la vallata. Riccardo che
era disceso da cavallo, si teneva immobile, con le braccia conserte,
pallido in viso, chè ben comprendeva quanto imprudente fosse quella
inconsulta temerità della Regina che comprometteva la riuscita
dell’impresa. Ella evitava di guardarlo, sdegnata con lui e fors’anco
con se stessa non essendo riuscita a dominarsi, vinta dall’impetuosità
della sua natura.

— Maestà — disse lui, infine — poichè Ella vuole che io muoia col
rimorso di averla condotta al mal passo, e col rammarico di non aver
saputo impedire una catastrofe, son pronto ad affrontare gl’Inglesi,
checchè possa accadere. Io ho votato la mia vita a Vostra Maestà, e
che prima o poi gliela getti ai piedi non importa perchè essa non vale
un sol corruccio, sia pure un lieve capriccio della mia Regina. Ma
non per un corruccio, non per un capriccio. Ella deve rinunciare alla
impresa cui ci ha votati; Ella, sia pure per un giusto orgoglio, non
deve esporre la sua vita e gli alti destini a cui è chiamata. Pensi a
quel che direbbero i suoi nemici e quale trionfo non sarebbe per essi
il poterla accusare di ribellione contro le leggi del Regno che ha il
dovere di custodire...

Ella che ascoltava col capo chino, mordicchiandosi le labbra, in
una visibile lotta tra la ragione e l’orgoglio, fece un gesto per
interrompere il giovane, il quale proseguì con voce calma che riusciva
ben più efficace nell’animo di lei:

— Uno scontro, anche vittorioso, sarebbe la rovina dei suoi disegni.
Finora gl’Inglesi sono suoi alleati e protettori; sol quando Sua Maestà
il Re avrà ripreso le redini del Governo, solo allora sarà suo diritto
di trattare come usurpatori e di combattere cotesti Inglesi arroganti
ed ingordi.

La Regina ansava, come chi invano si divincolasse nei ceppi che lo
stringono, tanto le parole del giovane ne avevano costretto l’orgoglio
a piegarsi.

— Mi consigliate dunque di fuggire? — disse irosamente fissando
Riccardo con occhi sfolgoranti.

— No: di tornare alla villa sul mio cavallo.

— E voi? — chiese lei.

— Io? — rispose il giovane con accento risoluto — io continuerò il
cammino scortando la lettiga. Se mai gl’Inglesi ci assaliranno, l’ho
detto a Vostra Maestà, gittar prima o poi la vita ai suoi piedi a
me non importa. Non è per me che io vi consiglio di piegarvi alla
necessità, non è per me, o Regina!

Ella stette un istante muta e pensosa, con la fronte corrugata, col
viso sconvolto dalla tempesta che le ruggeva dentro; poi vinta, ma pur
sempre accesa da una sorda ira:

— Avete ragione — disse. — Mi vendicherò, mi vendicherò un giorno di
quel che mi han fatto soffrire.

Alma in tutto quel tempo se n’era stata immobile ed impassibile allo
sportello. Evitava di guardare il giovane di cui però approvava le
assennate parole.

— Su, presto, in sella — disse Riccardo. — Vostra Maestà sa bene la via
e in un’ora sarà tornata nei suoi appartamenti mettendo al galoppo il
cavallo. Tornando indietro con la lettiga al passo così lento dei muli
correremmo il rischio di esser raggiunti.

— Ed Alma? — chiese la Regina tuttora esitante.

— La signora duchessa verrà con noi onde gli Inglesi non possano
sospettare quel che è avvenuto se c’intimassero di fermarci. Perocchè
non ricorrerò alle armi che in caso estremo.

A queste parole la Regina impallidì vieppiù: si sarebbe detto che
in lei più che il pericolo potesse la gelosia. Lasciar che Riccardo
accompagnasse Alma era un sacrifizio superiore al suo orgoglio, non
le essendo sfuggito lo sdegno della giovinetta che per tutta la via
se n’era stata raccolta e silenziosa. A qualunque costo dunque voleva
evitare una spiegazione tra i due giovani, onde disse con accento di
risolutezza incrollabile:

— Io non debbo, io non voglio tornar sola; preferisco quindi di
risalire in lettiga.

In questo un altro messo sopraggiunse mandato da Pietro.

— Gl’Inglesi sono a trecento passi da qui; fra poco ci avranno posto in
mezzo. Che fare dunque, che fare?

Ma queste parole non valsero a trarre dalla perplessità nè la Regina nè
il giovane. Non era più il pericolo che li teneva incerti; gli è che
Riccardo ben leggeva nell’anima della Regina, la quale forse credeva
egli volesse allontanarsi per restar solo con Alma. Nè questa era
meno ferita da quella scena di cui non le era sfuggito il significato
oltraggioso per lei. Dunque la Regina vedeva in lei una rivale? Dunque
egli la credeva così incurante della dignità sua da non aver potuto
soffocare in sè, anche se fosse sorto, l’amore per chi in sua presenza
non nascondeva d’esser legato a un’altra donna?

Umiliata, confusa, s’era ritratta in fondo alla lettiga per nascondere
le lacrime di sdegno e di dolore che le sgorgavano dagli occhi. Pure
in quell’orgasmo si chiedeva che volesse da lei uno degli uomini della
scorta che, chiuso in un mantello, col viso nascosto, tenendosi dietro
a Riccardo e sul ciglio della strada, la contemplava con uno sguardo
strano del quale non sapeva intendere l’espressione.

Tutto ciò era accaduto rapidamente, quando una voce s’intese: colui che
fin allora si era tenuto in disparte sul ciglio della strada, lasciò
cadere il mantello e si avanzò verso il giovane e la Regina.

— Prendo l’impegno — disse con accento vibrato — di ricondurre
io la duchessa alla villa. Si stacchino i muli dalla lettiga...
Vostra Maestà monti a cavallo, monti capitan Riccardo su uno dei
muli per accompagnarla. Poco dopo, ne impegno la mia parola, noi vi
raggiungeremo.

Capitan Riccardo era retrocesso con un grido di stupore.

— Vittoria, Vittoria! — esclamò quasi smarrito.

— Chi è quest’uomo? — chiese la Regina.

Ma intanto Vittoria si era data a sciogliere i muli della lettiga, con
mano esperta e vigorosa.

— Tu qui, tu qui! — diceva Riccardo con voce che esprimeva tutti i
diversi sentimenti fluttuanti nell’animo.

— Direte poi a... a Sua Maestà chi io sia. Salite in groppa, intanto,
salite in groppa.

La Regina rassicurata che Riccardo l’avrebbe seguita era già a cavallo.
Però non ristava dal guardar Vittoria nella quale aveva riconosciuto
la donna di quella notte al castello; ma non volle interromperla
nell’opera a cui attendeva, poichè essendo ora sicura che Riccardo non
sarebbe rimasto solo con Alma, se il pericolo che le incombeva non la
spaventava, aveva compreso alfine che tutti i suoi disegni sarebbero
stati compromessi se si fosse lasciata cogliere dagl’Inglesi.

Intanto Vittoria aveva staccato i muli.

— Salite — disse a Riccardo che se ne stava silenzioso, ancora fuor
di sè per quell’incontro, sentendo il bisogno ma pur non osando, di
mostrar tutta la sua gioia a quella donna che per lui al certo era
sbarcata in Sicilia, non osando ricordarle l’intervento di lei, perchè
al certo era lei, nella notte innanzi per far posto ad Alma nella
lettiga.

Ed era, anche, in collera con se stesso, perchè posto fra quelle
tre donne aveva sentito venir meno tutta la sua energia, umiliato
altresì dalla intromissione di Vittoria, nella quale vedeva più che un
rimprovero pel suo contegno. Egli leggeva, ben leggeva nell’animo di
quelle tre donne così diverse per indole, per educazione e per stato
sociale, ma accomunate non solo dal pericolo, ma anche da uno stesso
sentimento.

Il giovane macchinalmente era salito in groppa al mulo quando dal fondo
della strada rimbombò un colpo di fucile.

— Presto, presto, partite! — disse Vittoria che pareva avesse preso la
direzione di quella ritirata.

In così dire sferzò il cavallo della Regina che partì di galoppo.

— Io resto — disse Riccardo frenando la cavalcatura che al rimbombo
aveva dato un balzo.

Ma Alma che era saltata a terra, stendendo il braccio verso la strada
fino allora percorsa:

— Il vostro dovere è là — disse — là. Bisogna anzitutto che la nostra
Regina sia salva, intendete? e che giunga alla sua villa seguita almeno
da un servo.

— Ma voi, ma voi? — esclamò lui, ferito al cuore da quelle parole.

— Io mi affido a quel generoso che anche stanotte mi fu spontaneamente
cortese.

Era lei: lei che lo scacciava, lei che gli ricordava la sua villania,
lei che gli ricordava il suo dovere!

— Vi ubbidisco per punirmi — disse lui — ma voi siete ben crudele con
me, ben crudele!

Ciò detto spronò il mulo per raggiungere la Regina, la quale, giunta
sul colle in cui la strada saliva, si era fermata per attenderlo.

Gli uomini della scorta intanto al rimbombo del colpo di fucile si
erano sbandati su per le alture che fiancheggiavano la strada, correndo
verso il punto in cui sapevano che li aspettava Pietro il Toro.

— Bisogna al più presto allontanarsi da questo luogo per raggiungere
la Regina. Salite, chè io sono usata al cammino e saprei anche andar di
pari passo con un cavallo.

— Ma chi siete Voi, chi siete? — disse Alma che aveva riconosciuto in
quel suo compagno una donna.

Però solo il viso la tradiva: la persona agile e svelta nelle vesti
maschili non avrebbe fatto supporre che fosse quella di una donna.

— Sono un vostro amico o una vostra amica, come vi piace meglio. Ma
non perdiamoci in chiacchiere. Sentite? I soldati inseguono a colpi
di fucile i miei compagni che al certo si sono sparpagliati per la
campagna. Dobbiamo allontanarci al più presto, al più presto per
raggiungere, se è possibile, la Regina.

In ciò dire si guardava intorno, chè le grida e gli spari l’avevano
messa in gran sospetto.

Alma, quantunque preoccupata, quantunque in orgasmo per trovarsi sola
in balìa di quella donna sconosciuta, i cui abiti maschili non la
rassicuravano punto, pure si sentiva ad essa attratta da un fascino
inesplicabile, anche pel ricordo dell’intervento della scorsa notte,
che era indizio d’un’anima capace di delicatezze. E quantunque le
ricordasse quell’incidente di cui sentiva ancor tutta l’amarezza, pur
nel pericolo ond’era minacciata, non esitava di affidarsi a lei.

— Salite sulla mula, salite: siete troppo delicata e soffrireste troppo
se imprendeste a piedi il cammino. Cotesta bellezza si sciuperebbe...

L’aiutò a sedere sulla mula a cui diede una spalmata per incitarla al
trotto. Ella non intendeva che raggiungere la Regina, la quale al certo
era fuori ogni pericolo; e già erano giunti a piè della collina per la
quale saliva la strada, quando Vittoria gridò, arrestando la mula:

— Scendete, scendete: ci è una pattuglia di soldati lassù.

E in così dire stendeva il braccio verso l’alto del colle ove infatti
era apparso alcun che di rosso fra gli alberi.

Alma era balzata a terra; pallida per l’emozione, la stanchezza, il
caso stranissimo del trovarsi sola in una campagna con quella donna
della quale, e il ricordo le era sopravvenuto di un tratto, aveva udito
narrare ben terribili cose; per esser esposta a cadere in mano degli
Inglesi che già trattavano quali loro nemici i compagni di quella donna
travestita, e che, come chiaro appariva dai colpi di fucile rimbombanti
qua e là per la campagna, inseguivano senza dare ad essi quartiere.

— Dio mio, Dio mio! — mormorò la giovinetta — che sarà di me, che sarà
di me?

Inoltre aveva notato che quella donna, la quale fin allora le si era
mostrata così premurosa, aveva avuto una inflessione di amara ironia
nell’accennare alla bellezza di lei, e le aveva rivolto uno sguardo
truce che l’aveva fatta rabbrividire.

— Animo, animo! — rispose Vittoria quasi bruscamente — sono uscita
da ben altri guai, io, da ben altri pericoli! Ma già voi siete una
duchessa! Sapete però, sapete che anch’io sono una gentildonna, anche
io?

Aveva detto ciò con un accento iroso che vieppiù accrebbe lo spavento
di Alma, alla quale quelle inopportune parole riescivano inesplicabili.

Ella se ne avvide e le si rivolse con viso rabbonito e con accento più
dolce:

— Bisogna lasciar qui il mulo e avventurarsi pel bosco ove ci terremo
nascoste finchè i soldati saranno andati via. Non abbiate paura, fidate
in me: quantunque nuova di questi luoghi, vedrete che saprò trovare la
via che conduce alla vostra villa.

Ciò detto la prese per la mano e circospetta, guardandosi intorno
lasciò la strada maestra e si immise nel bosco. Alma la seguiva quasi
smemorata, in quel suo intontimento non avendo volontà, non chiedendosi
nemmeno dove ella la conducesse. Salivano fra i roveti che si
allacciavano ai fusti degli alberi che lor laceravano le vesti, dovendo
talvolta strisciar carponi per allontanarsi sempre più dalla strada in
cui il pericolo le minacciava da ogni parte.

Vittoria, usata ai boschi, procedeva dritta a spedita, soffermandosi
di tanto in tanto per ascoltare. I colpi di fucile eran divenuti meno
frequenti e più lontani, nè voce alcuna giungeva fino ad esse. Il
silenzio profondo del bosco le rassicurava, onde impietosita dallo
stato in cui era ridotta la giovinetta, che ansava non ne potendo
più dal cammino e dall’angoscia, giunte presso un folto roveto che si
apriva ad arco sicchè offriva un asilo quasi sicuro, disse:

— Non ne potete più; riposate, via, io intanto salirò fino in cima per
esplorare i dintorni.

Alma si lasciò cadere sull’erba mentre Vittoria si allontanava.

Quando si vide sola si guardò intorno come se si fosse allora destata
da un lungo sonno. Lei, lei in quel bosco, lei lontano dalla villa
ove, per quanto il fasto regale fosse attenuato dalla quasi prigionia
della Regina, nulla mancava di ciò che occorre a chi è usato a tutte
le delicatezze della vita: lei in balìa di una avventuriera, famigerata
per le sue ferocie!

E se suo padre avesse saputo a quale pericolo l’aveva esposta
l’avventatezza della Regina, non avrebbe avuto ragione di rimproverarle
il rifiuto di lasciar quella donna che non sdegnava di correr la
ventura per le strade in compagnia di gente di mal affare pel ricupero
di un regno che si era lasciato togliere a causa appunto della sua
indole fatta di contrasti, di poche eccelse virtù e di molti vizi
volgari?

E perchè non si era rifiutata di seguirla, lei che avrebbe ben potuto
prevedere a quali pericoli sarebbe andata incontro, e quale onta gliene
sarebbe venuta: perchè?

La risposta ad un tal perchè, risposta che si era data anche prima,
l’aveva immersa in un’angoscia profonda. A che dissimulare lo stato
del suo cuore? Ella amava colui che non più un misero avventuriero, ma
era per lei più che un suo pari, più che un suo intimo congiunto: era
un uomo innanzi al quale se non lei, il padre di lei doveva chinar la
fronte ed arrossire.

Era stata dunque la gelosia che l’aveva indotta a quel passo di cui
ora subiva le conseguenze, la gelosia cieca, irriflessiva che le aveva
fatto affrontare con amara voluttà lo spettacolo del fascino che la
Regina esercitava su Riccardo, fascino del quale ella intuiva la causa,
chè non era tanto inesperta della vita da non comprenderne ciò che
per una fanciulla esser deve un mistero. Ed era rimasta profondamente
colpita al cuore per lo sgarbato obblìo di Riccardo che, pur sapendola
a lui vicino, incurante di lei si era abbandonato alle carezze
dell’amante, e lo sguardo ebbro di desiderio del giovane aveva vieppiù
scavato l’abisso che da lei lo separava.

Tutto il suo avvenire era compromesso, chè ella si sentiva incapace di
darsi ad un altro amore, pur sentendo vergogna di quello che forse da
gran tempo aveva custodito nel cuore e che di un tratto era scoppiato
così veemente!

Ed ecco che per effetto di quell’amore che si rimproverava come
una colpa, come una vergogna, ora si trovava in un bosco, presa
nell’ingranaggio di quell’intrigo, travolta senza volerlo in
un’avventura che avrebbe avuto conseguenze ben fatali per lei e per suo
padre che ella aveva sempre amato, quantunque ne intuisse l’ambizione,
ad appagar la quale lo reputava di tutto capace.

E mentre tremava di sgomento in quella solitudine, col pericolo
imminente di esser sorpresa dai rozzi e brutali soldati inglesi che
l’avrebbero considerata come un’avventuriera, pensava a Riccardo ed
alla Regina che erano già al sicuro o immemori o incuranti di lei nella
gioia dello scampato pericolo...

Ma qui si arrestava per respingere una visione che la faceva fremere
di sdegno e di dolore. La gelosia le aveva rivelato della vita quel che
la severa educazione aveva coperto di un velo. Ella sentiva vergogna di
quella persistente visione, se ne faceva tuta colpa, pur non riuscendo
a scacciarla, quantunque invano, invano chiudesse gli occhi per non
vederla. Soli, liberi, lieti dello scampato pericolo forse in quell’ora
istessa abbandonavansi alle dolcezze del loro amore, mentre essa in
quel bosco smarrita, non sapendo che sarebbe di lei avvenuto, era
in preda non solo allo sgomento ma anche ad un’ira sorda che pur si
rimproverava come una colpa.

Ma, ed era questo un fenomeno strano, un effetto della sua educazione,
non contro la Regina sentiva le punture di quell’acre sentimento
che le era sorto nel cuore: la Regina anche coi suoi vizî, anche
con le sue sregolatezze era sempre per lei la Regina, inviolabile ed
intangibile, per la quale era debito d’ogni suddito di dar la vita,
come lei l’avrebbe data; e nell’equità dell’anima sua neanche Riccardo
era colpevole. Da quando aveva inteso per lui quel che ora le pungeva
il cuore? Non lo aveva per tanti anni tenuto in conto di un vil servo
del quale avrebbe sdegnato l’omaggio più devoto? Che cosa aveva fatto
lei per meritar che egli le sacrificasse sia pure il capriccio ond’era
stata presa per lui la Regina? E se ci era un colpevole non era suo
padre la cui ambizione aveva fatto tacere in lui l’affetto fraterno?
Era seco stessa dunque che doveva rammaricarsi, contro se stessa doveva
volgere la sua ira, e se quella era gelosia, se era amore il sentimento
che le pungeva il cuore, era lei la colpevole, lei che si era lasciata
vincere, venendo meno al suo orgoglio, alla sua alterezza!

Era in questi pensieri quando fu riscossa dalla voce di Vittoria.

— Venite, venite — le disse questa comparendole innanzi — ho trovato
un rifugio su una rupe nel fondo di un bosco ove potremo aspettare
al sicuro che la strada sia sgombra. Vi ho trovato alcuni amici che
poterono salvarsi dall’inseguimento. In pochi potremmo resistere a
tutto un reggimento.

— Voglio andar via, voglio andar via! — gridò la giovanetta sgomenta,
cui pareva orribile esser costretta a vivere in comune con quella gente
chi sa per quanti giorni.

— Voi dovete seguirmi, intendete? — rispose Vittoria con accento aspro
e reciso. — Io non posso, non debbo esporvi ad un incontro con quei
maledetti, scostumati e brutali forse più che i Francesi. Sono io che
rispondo di voi, io che ho dato la mia parola, e sia pure contro voi
stessa, debbo mantenerla.

Alma comprese che era inutile insistere; piegò il capo e si lasciò
prendere per la mano.

— Io non so se vi amo o se vi odio, nol so e nol voglio sapere — disse
Vittoria con accento lento e solenne — ma so che darei tutto il mio
sangue perchè non vi sia torto un capello. Anch’io ero una gentildonna
come voi, ma non fossi altro che Vittoria, Vittoria la feroce, Vittoria
la crudele, ho la mia superbia anch’io, e per questa superbia, non
dubitate, vi proteggerò per ridarvi a lui fino all’ultima goccia del
mio sangue. Venite dunque, venite.

Alma aveva compreso ben poco di quelle parole, ma sentendosi dominata
dall’aspetto e dall’accento di quella donna si lasciò condurre verso
il folto del bosco. D’altra parte, era così convulsa, così smarrita da
non aver più la forza di resistere. Solo chiedevasi perchè quella donna
avesse detto che l’avrebbe ridata a lui.

— Sa dunque che io l’amo, sa dunque che io l’amo? — domandavasi con un
segreto terrore del quale non avrebbe saputo ridire la causa.

E intanto saliva il colle boscoso dietro quella donna che pareva avesse
dei diritti su lei.

— Ecco, siamo giunti — disse infine Vittoria.

Un edificio dalle mura qua rotte, là screpolate si ergeva sulla cima
del colle i cui fianchi dal punto in cui finiva il bosco si elevavano
brulli e scoscesi. Una angusta stradiciuola incavata nel masso saliva
fino ad un piccolo vano dell’edificio di cui un tempo era stato forse
la porta. Invero pochi uomini risoluti a vender cara la vita avrebbero
potuto da quelle mura tener fronte al nemico per quanto numeroso, non
potendo essere assaliti che solo per quell’angusto sentiero.

La giovanetta affannava salendo il dirupato viottolo. Chi mai avrebbe
in lei riconosciuta la superba figlia del duca di Fagnano, l’amica
della Regina usata a vedersi d’intorno una corte di maggiordomi e di
valletti? Con le vesti lacere, la bionda capellatura scomposta, il viso
scolorito dal disagio e dallo sgomento, si trascinava a stenti dietro
quella donna in abito da uomo che di tanto in tanto le si volgeva per
incuorarla, guardandola con occhi che esprimevano ora la pietà, ora un
sentimento indefinibile da far trasalire la povera fanciulla.

Giunsero così sulla spianata innanzi ai ruderi del vecchio castello,
ove trovarono alcuni uomini di quelli della scorta che vi si erano
ricoverati.

Al vedere Vittoria le si fecero incontro.

— La fortuna ci ha aiutati — disse Volpino — assai più che non
meritassimo. Ho visitato l’interno di queste rovine: vi sono alcune
stanze rimaste intatte ove si può dormire al sicuro dalla pioggia. Mi
ci acconcerei per benino e per tutta la vita se avessi del buon vino,
del pane, del companatico ed anche una di queste siciliane per cantarle
delle _romanze_. Che occhi, San Francesco benedetto, che occhi, che...

— Taci vecchio rimbambito! — gridò Vittoria temendo per riguardo ad
Alma il parlare sboccato del rozzo scorridore.

— Quando si tratta di aver buone orecchie e buon naso non sono un
rimbambito — rispose il Volpino. — Dunque possiamo bene attendere qui
che le strade siano libere.

— Andiamo, andiamo, che questa povera signorina ha bisogno di riposo.
Conducine nella stanza meno rovinata e voi altri — disse poi Vittoria
voltasi ai compagni — restate in vedetta per evitare che ci si
sorprenda.

Aveva la voce e l’accento di chi sia usato al comando.

— State pure tranquilla, caporale — risposero quegli uomini. — Fosse
anche una volpe che tentasse di arrampicarsi quassù, non sfuggirebbe
alla nostra vista.

— E vi prevengo che se ci scoprono e se saremo assaliti non intendo
fuggire. Or che abbiamo trovato un tal ricovero vi staremo finchè non
ci sarà dato di raggiungere con sicurezza i nostri.

— Fuggire? E dove? In questo maledetto paese non ci è da raccapezzarsi
— rispose il Volpino. — Non siamo fuggiti negli scontri coi Francesi,
ciascun dei quali ne valeva dieci di queste aragoste, come i siciliani
chiamano gl’Inglesi.

— Però, però — disse il Magaro che era fra gli sfuggiti — come faremo
per empirci lo stomaco? Per la sete, ho visto scorrere là in fondo un
ruscello; ma l’acqua non può far da pane, e neanche da vino!

— Ci penseremo dopo che avrò trovato un cantuccio ove possa riposare
questa poveretta.

Alma ascoltava come intontita. Le pareva un sogno l’esser là in
mezzo a quella gente, in un bosco, fra quei ruderi. Pure un pensiero
doloroso le pungeva il cuore: lui, lui l’aveva abbandonata in balìa
di quella donna! È vero che ella stessa glielo aveva imposto, ma
perchè non era tornato, perchè vedendo che il tempo trascorreva
senza che ella giungesse alla villa non le era mosso incontro? Ma un
altro pensiero la faceva trasalire: se per aver nuove di lei fosse
capitato tra gl’Inglesi? Se, mentre lei era in quel bosco tra quei
rozzi avventurieri, egli fosse trascinato prigione dal soldati? Se
uno di quei colpi che aveva udito rimbombare per la campagna l’avesse
ucciso? E se, mentre con tanto spasimo pensava a lui, egli dimentico,
nell’esultanza di veder salva la Regina, si abbandonasse al fascino
ammaliatore di quella donna?

Così ondeggiava nei pensieri più angosciosi, quando un grido di gioia
di tutti gli astanti le fece sollevare il capo essendole balenata
nell’anima una speranza.

— Pietro il Toro! È proprio Pietro il Toro che si trae dietro una mula
ben carica.

— Sono io, sì, sono io — gridò dal basso del viottolo il vecchio
scorridore.

— Evviva Pietro il Toro, evviva!

— Di che diavolo sarà carica quella mula?

— Anche di solo pane, sarebbe pur sempre una provvidenza.

Ed attesero trepidanti che il vecchio li raggiungesse. Anche Vittoria
si era fermata, mentre Alma delusa aveva tratto un sospiro.

— Temevo che questa volta ci fossi capitato! — disse il Magaro
sinceramente lieto nel veder sano e salvo l’amico.

— Non sono pruni pe’ miei occhi quelli lì — disse Pietro il Toro
scrollando le spalle. — I Francesi tiravano meglio, ma io tiro meglio
dei Francesi. Nello inseguirci avevan lasciato in un canto del bosco
alcune mule cariche di tutto il ben di Dio, come ho potuto accertarmi
in un istante di sosta ed erano custodite da alcuni paesani che ho
posto in fuga con due o tre bestemmie delle mie. Ho riversato in
un fosso il carico delle altre e ho portato meco questo, sicuro che
sarebbe giunto opportuno.

— Ma come comprendesti che eravamo qui?

— Dalle vostre pedate, figli miei. Credete voi che abbia dimenticato
l’antico mestiere? Un tempo bastava una pietra smossa, un ramoscello
spezzato per indovinare quale e quanta gente fosse passata pel bosco.
Le impronte che si dirigevano verso il centro del colle erano di gente
che fuggiva e che portava le uose: erano dunque le vostre.

— Il castello è ora approvigionato, le armi non mancano, possiamo
dunque sostenere un assedio in piena regola.

— A prescindere dal fosso in cui ho riversato l’altra roba. Non speravo
punto di trovare anche qui con gli altri, caporal Vittoria...

Ma s’interruppe con un grido di stupore avendo visto Alma che, stanca,
oppressa, smarrita, si era lasciata cadere a piè d’un albero il cui
tronco l’aveva nascosta finallora agli occhi di Pietro.

— La duchessina qui, la duchessina qui! — esclamò il vecchio volgendo
attorno lo sguardo per chiedere spiegazione.

— Per non cadere in mano ai soldati che sopraggiunsero — rispose
Vittoria. — quando già la Regina si era posta in salvo e noi muovevamo
per seguirla. Del resto, se ci siam noi, ci può bene star lei!

Due opposti sentimenti combattevano nel cuore di Vittoria il cui
linguaggio ne subiva l’influenza: ora la pietà ed un istintivo
interessamento davano alla sua voce una inflessione di dolcezza; ora
l’odio che pur tentava di soffocare la facevano irrompere in aspre
parole.

Alma, offesa dalla risposta di Vittoria, non seppe più contenersi:
intese divampare tutto l’orgoglio della razza, e alzatasi le volse
dicendo alteramente pur fra le lagrime:

— Voglio andar via. Gl’Inglesi rispetteranno in me la figlia del duca
di Fagnano!

— Gl’Inglesi vi costringerebbero a dire come voi, figlia del duca di
Fagnano, vi siete trovata sola in un bosco mentre essi davano a noi la
caccia. Compromettereste così la nostra Regina, per la quale noi siamo
disposti a dar la vita — rispose Vittoria con accento severo.

Poi raddolcendo la voce, quasi pentita della sua asprezza, in che però
aveva una lieve inflessione d’ironia.

— E saremo disposti anche a darla per voi se non disdegnate la nostra
compagnia — aggiunse.

Alma, non rispose; chinò il capo con un sospiro e sedette, come
rassegnata alla sua sorte.

Pietro il Toro, che aveva ascoltato scrollando il capo quasi
rispondesse ad un segreto pensiero, si avvicinò alla giovinetta e le
disse con accento rispettoso e insieme paterno:

— Quella lì — e con la mano accennava a Vittoria — è meno cattiva di
quello che si creda. Voi qui siete, per così dire, la sua ospite, e
una tigre non difenderebbe tanto ferocemente i suoi figli come ella
difenderebbe voi. Abbiate dunque pazienza e vi prometto che appena la
strada sarà sicura io stesso vi condurrò da Sua Maestà. Andate, andate
ora fra quei ruderi ove vi si acconcerà un buon tettuccio coi mantelli
che ho trovato sulla mula tolta agl’Inglesi. E riposate tranquilla
chè noi veglieremo; riposate tranquilla meglio che una regina nel suo
palazzo.

— Grazie! — rispose lei sollevando i begli occhi gonfi di lacrime.

La Regina intanto, che era passata per la strada fiancheggiante
il colle prima che gl’Inglesi scendessero per prendere in mezzo la
lettiga con coloro che l’accompagnavano, al certo per l’avviso che
avevano ricevuto da qualche loro spia, era giunta alla villa seguita
da Riccardo, che però si volgeva ad ogni istante per vedere se
Alma e Vittoria li seguissero. Sentiva l’anima oppressa da sinistre
apprensioni; per quanto la gratitudine che doveva a Vittoria fosse
ben grande, pur sapendone l’indole torbida e violenta acuita vieppiù
dalla passione insoddisfatta, non era punto tranquillo. La improvvisa
ed imprevista apparizione di quella donna che al certo era passata in
Sicilia solo per lui, se da una parte gli era giunta grata, dall’altra
lo impensieriva non poco, complicando vieppiù l’incertezza nella quale
viveva pel fascino che subiva della regal donna di cui era l’amante, e
per quel sentimento profondo che nutriva in cuore per Alma.

Perocchè egli invano si chiedeva qual fosse la sua meta, quale
esser potesse il suo domani. Non gl’importava di lasciar la vita
in quell’impresa, ma posto tra quelle due donne, se mai la Regina
trionfasse, se ritornasse libera e potente, avrebbe dovuto pur
decidersi, sia facendo riconoscere i suoi diritti al nome ed al titolo
di suo padre, sia rinunciando al suo amore per Alma, o ai suoi intimi
rapporti con la Regina. Ma in tal caso come affrontarne l’ira e l’odio
che si sarebbero riversati su quella povera giovinetta? E questa, anche
se lo amasse, si sarebbe piegata a quell’amore, pur sapendo la natura
dei legami che lo avvincevano alla Regina? Il suo amor proprio ferito,
la sua gelosia messa a tante dure prove non si sarebbero ribellati?
Non avrebbe lei ricordato la involontaria recente villania di lui che
innanzi alla regale fascinatrice si era mostrato del tutto dimentico
della giovinetta che veramente ed unicamente amava?

Ed ora un’altra donna, violenta nell’odio come nella passione, si
frammetteva nella sua vita, una altra donna a cui era legato da tanta
gratitudine!

Non era sfuggita alla Regina la preoccupazione del giovane che quanto
più si allontanava dal luogo in cui aveva lasciato Alma tanto più
appariva agitato: ma poichè il pericolo non era del tutto scomparso,
ella spronava vieppiù il cavallo, quantunque punta da un certo rimorso
per aver dovuto distaccarsi dalla sua giovane amica, e dal dispetto di
dover sottrarsi con la fuga a coloro che pure erano venuti in Sicilia
per proteggerla e per difenderla.

Giunta innanzi la porta della villa, Maria Carolina balzò dal cavallo,
ne gittò le redini al negro che era accorso e si fermò sulla porta per
aspettare Riccardo che poco dopo la raggiunse.

Il giovane era scuro in viso come chi sia oppresso da un pensiero
angoscioso.

— Che Vostra Maestà mi perdoni — disse — ma temo che sia incorso
qualche sinistro a... alla sua giovane amica. Dall’alto del colle per
quanto è lunga la strada che si volge in fondo alla vallata non ho
visto alcuno, eppure avrebbe dovuto....

— Salite — disse lei imperiosamente.

E gli volse le spalle come sicura che avrebbe ubbidito al suo
ordine. L’ira, il dispetto ed un altro sentimento ben più logorante
le si leggevano nel viso, mentre passava tra i valletti schierati
sopraggiunti al suo arrivo.

Il giovane esitò per un istante, ma non osò protestare, e si diede a
salir la scala dietro la Sovrana, che non si era neanche rivolta per
vedere se la seguisse.

Quando furono in una stanzetta alle cui pareti erano i ritratti di
alcuni degl’imperatori e delle imperatrici di Austria, ella si lasciò
cadere su un largo divano, mentre il giovane, arrestandosi sull’uscio,
si teneva nell’atteggiamento di chi frema impaziente ed abbia altrove
volto il pensiero.

— Sedete — ordinò la Regina che affettava un contegno calmo e sicuro.

— Ho avuto l’onore di dire a Vostra Maestà che sono in gran pensiero
per...

— Sedete! — ripetè lei fissando il giovane con uno sguardo sfavillante
d’ira.

Dominato da quella voce e da quello sguardo, quantunque evidente fosse
in lui la lotta che si combatteva nel suo spirito, sedette frenando a
stento la sorda ribellione che era per prorompere.

— Nel colloquio che avemmo nella torretta — disse la Regina con le
labbra tremanti per l’ira compressa, quantunque si sforzasse di apparir
calma — mi narraste quali pericoli doveste affrontare per raggiungermi,
per attenere la fede a me giurata. Io vi ascoltavo col cuore palpitante
di una gioia che non avevo mai provata, perchè credetti che finalmente
l’uomo del quale per tanti anni ero andata in cerca l’avessi trovato
in voi, l’uomo che va dritto come una spada verso la meta che si è
prefissa, l’uomo che dandosi a una donna e ad una missione è pronto
a liberarsi d’ogni altro affetto ed a considerarsi come l’istrumento
scelto dalla Provvidenza per menare a termine un gran disegno!

Riccardo a poco a poco aveva alzato fieramente la testa sentendosi
punto al cuore dalla parola fredda e calma della Regina, le cui
inflessioni ironiche lo esasperavano. Pure non osava d’interromperla
e si teneva immobile, quantunque il suo pensiero lottasse tra la
ribellione che in lui suscitavano le parole ironiche di lei e la
preoccupazione per la sorte toccata ad Alma: ond’egli pur prestando
ascolto alla Sovrana, trasaliva ad ogni rumore che potesse essere
indizio del ritorno della giovinetta.

— Quando in quella notte fatale a Napoli foste ferito — continuò
la Regina — io non ubbidii soltanto ad un capriccio di donna col
compiacermi di voi, nè alla gratitudine, chè il premio concessovi
sarebbe stato troppo anche pel servigio che mi avevate reso: ma gli
è che una voce interna mi diceva che voi sareste stato il braccio a
me necessario, voi l’uomo che nella rovina di tutto un regno, avreste
giganteggiato con me per opporci alla immane catastrofe. Io volli far
di voi uno di quei predestinati che s’incontrano talvolta lungo le
vie dell’umanità; volli infondervi la mia energia, parte della mia
anima, del mio spirito, dei miei odi, delle mie aspirazioni, poichè voi
avevate già il valore, la giovinezza e l’anima fatta per comprendere
i grandi ideali. Ebbene, mio caro, debbo con rammarico confessare a me
stessa che m’ingannai.

Egli si era alzato a queste parole, acceso in volto per l’orgasmo, ma
risoluto a respingere quell’oltraggio. Pure contenendosi a stento, come
chi retroceda prima di avventarsi, avendo inteso rifluir nell’anima
tutto lo sdegno della sua natura impulsiva, disse con voce calma nella
quale pur ruggiva tutta la tempesta dell’anima sua:

— Oso chiedere alla Maestà Vostra perchè ora afferma di essersi
ingannata!

— Perchè — rispose prorompendo la Regina — perchè ti sei lasciato
distrarre, ti sei lasciato vincere dalle moine di una scioccherella
che da gran tempo avrei dovuto rimandare a suo padre; perchè quando
lei è presente tu appari impacciato, confuso, incerto, come se temessi,
mostrando per me quella devozione che mi è dovuta anche se fossi per te
niente altro che la tua Regina, come se temessi di arrecarle dolore.
Ed ora, dì, ora non sei tu convulso, preoccupato sol perchè non sai
quel che sia avvenuto di lei, quasi a te stesse a cuore più la sua che
la mia salvezza? Parla, rispondi, che da gran tempo io l’aspetto una
tua parola che mi faccia leggere addentro nel tuo cuore. Sei tu per me
qui? per me affrontasti i pericoli della fuga, per me spezzasti le tue
catene dì schiavo, per me rinunciasti a ciò che tuo padre ti offriva,
o per lei, per lei che tu amavi sin da quando eri un misero bastardo
sudicio di fango e meritevole per tanto ardire delle scudisciate dei
servi di quella donna alla quale si volgevano gli occhi tuoi?

La Regina si era andata vieppiù accendendo come se le parole stesse
ne acuissero l’ira, pareva fuor di sè per l’orgasmo, irritata vieppiù
dal contegno freddo e severo del giovane che con le braccia conserte,
ritto a lei dinanzi, livido in viso, si teneva immobile, quantunque gli
costasse uno sforzo sovrumano quel contegno apparentemente impassibile.

Ma alle ultime parole della Regina, che erano un estremo oltraggio
per lui, egli trasalì, gli occhi balenarono di una luce sanguigna,
le labbra gli tremarono; pure, poichè ella ne aspettava la risposta,
sperando in cuor suo che fosse umile e dimessa egli disse con voce
lenta, ben marcando le parole:

— Vostra Maestà dunque ebbe torto ad aprir le braccia a chi,
insudiciato di fango, in quella notte in cui versò buona parte del suo
sangue, avrebbe meritato non le regali lusinghe, ma le scudisciate dei
suoi valletti, se... vi fosse stato uomo al mondo tanto ardito da osare
di fargli oltraggio!

Ella non si aspettava quella fiera risposta. Il suo orgoglio regale,
la violenza della sua indole, la sorda ira accesa dalla gelosia
combattevano in lei contro il suo amore, senza sopraffarlo ma anco
senza esserne vinta. Gli è che pur essendo l’amante di quel giovane
voleva anche esserne la Sovrana; gli è che la sua alterezza non le
permetteva di confessare di essere gelosa, lei, la figlia dei superbi
imperatori, di una povera giovinetta, della cui beltà tenera, dolce,
soave, così diversa dalla sua, ella ora soltanto si era accorta, ora
che a quell’unica amica che le era rimasta invidiava la giovinezza
e la verginale leggiadria. In quell’istante aveva posto in oblio
tutto il gran disegno; la congiura contro gl’Inglesi, il ricupero del
potere, l’esiglio, la dignità regale vilipesa. Nulla le sventure, nulla
l’avvilimento in cui era caduta avevano influito sul suo carattere che
ondeggiar la faceva tra le piccole e le grandi cose, tra le eroiche
virtù di Sovrana e i vizi e le passioni di un’anima di donnicciuola.

Le parole di Riccardo la ferirono non solo nel suo orgoglio, ma nella
illusione che ella potesse sull’animo di lui fino a vederlo umile e
contrito anche negli oltraggi. Scorse nella risposta del giovane la
confessione quasi del suo amore per Alma con qualcosa di più atroce: il
disdegno dell’uomo per la donna che gli si era data senza amore e per
capriccio. Allora comprese in quale abisso fosse canuta: nell’impotenza
di punire quell’uomo che aveva risposto con l’oltraggio all’oltraggio;
misurò la rovina, la miseria del suo stato dalla quale nulla sarebbe
valso a trarla. L’ira, lo sdegno, il dolore le agganciarono così il
cuore che ella per poco non seppe dir parola. Poi per le livide guance,
mentre gli occhi parevan come impietriti, scorsero le lagrime, ognuna
delle quali in altri tempi sarebbe costata la vita ad un uomo.

Egli vide quelle lagrime, comprese tutta l’angoscia del cuore di
quella donna, di quella Regina, e ne ebbe pietà, pure nella pietà
non obbliando che forse in quello stesso istante Alma era esposta
per la sua devozione alla Regina al pericolo di cader prigioniera
degl’Inglesi, pericolo che per l’incertezza si dipingeva orrendamente
alla sua fantasia. Ma come lasciar la Regina in quello stato per
correre a difendere la giovinetta? E che ne avrebbe detto lei di lui
che riaveva abbandonata?

Non mai il suo cuore era stato così in tumulto, non mai aveva
sopportato tanto strazio! Come uscir da quel bivio, a quale partito
appigliarsi, posto fra quelle due donne alle quali sentiva avvinta
tutta la sua vita?

— Vostra Maestà — disse infine con voce soffocata dall’angoscia —
ha voluto punirmi acerbamente di una premura che era inspirata dal
rimorso, dell’avere io consigliato di avventurarsi in aperta campagna.
Avrei avuto una tale premura anche se quella giovinetta non fosse
la figlia del fratello di mio padre. Perchè Vostra Maestà ha voluto
punirmi di tale mia doverosa premura col ricordarmi la mia misera
giovinezza, mentre sa che nelle mie vene scorre sangue di principi
e di duchi? E non comprende che il mio orgasmo, il mio dolore per
l’incertezza in cui versiamo sulla sorte toccata alla sua amica son
prodotti anche dal pericolo che corrono i disegni di Vostra Maestà
se mai quella delicata creatura, che non reggerebbe ai maltrattamenti
degl’Inglesi, cadesse nelle loro mani?

— Solo per questo? — disse la Regina che a poco a poco alle parole
del giovane si era andata rasserenando, quantunque il suo volto e
i suoi occhi serbassero ancora le tracce delle angosce sofferte.
— Posso io crederti, posso io crederti? Bada di non ingannarmi ti
dico. Abbandonata da tutti, sola contro tutti, mentre tutto rovina a
me dintorno, coi figli che mi odiano, col marito incurante, spiata
dai miei stessi familiari, costretta a vivere come una prigioniera
dell’elemosina de’ miei nemici, in te che sei giovane, in te che sei
bello, in te che sei forte ho cercato non solo il braccio, l’energia,
il valore onde io trionfi come Regina, ma tutte le illusioni, tutte
le gioie, tutte le ebbrezze a cui anela ogni cuore di donna. Lo so
che gli anni e le sventure hanno sfiorato le mie guance, han tolto il
fulgore ai miei occhi, hanno sformato la mia persona, ma non perchè
rovinato è il vulcano dalle fiamme che ha eruttato, son meno ardenti
le sue vampe, è meno stridente il fuoco che vi arde dentro! Io mi sono
appigliata a te perchè giurasti di seguirmi dovunque sulla cima eccelsa
o nell’abisso profondo.

— Ed io vi seguirò — rispose lui. — Non son venuto mai meno ai miei
giuramenti.

— Mi seguirai anche se.. se ti arride l’amore di una giovane donna che
tu forse vagheggiasti fin dalla infanzia? Mi seguirai anche se...

— Anche se dovessi strapparmi il cuore dal petto, o Regina. Un abisso,
intendete? un abisso mi separa ormai da colei alla quale un tempo i
miei occhi si rivolsero, come quelli di una lucciola si rivolgono ad
una stella.

— Ah, confessi dunque che l’hai amata, confessi che l’ami? — gridò la
Regina.

— Confesso — rispose lui che non potè trattenere un sospiro d’angoscia
per quella rinuncia ad ogni sua illusione, risoluto com’era a soffocare
il suo amore per Alma, ma non certo il suo interessamento come per una
sorella — che ho consacrato tutta la mia vita a vostra Maestà: confesso
d’aver sognato fino a quando in una notte, mentre giacevo ferito in un
luogo sconosciuto, una Regina mi apparve che mi legò indissolubilmente
al suo destino. Lasciai il sogno e mi avvinsi ad una tale realtà, alla
quale come ho dato la mia vita ho sacrificato il mio sogno!

Benchè la Regina fosse mediocremente soddisfatta di questa confessione
del giovane, pure ne comprese tutta la sincerità e la schiettezza.
Ormai dunque poteva viver sicura che quel giovane di cui sapeva a
prova la lealtà, non l’avrebbe ingannata. Pur la sua natura, estrema in
tutto, tornò serena e quasi lieta, onde gli stese la mano sulla quale
egli impresse un lungo bacio.

— Ora — disse Riccardo rialzandosi — interpretando il desiderio della
Regina, è mio dovere correre in soccorso dell’amica di Vostra Maestà
che spero di ricondurre qui al più presto.

— Io vi aspetto! — disse la Regina che fissò il giovane con occhi
infiammati nei quali egli vide balenare il torrido desiderio di cui
unicamente forse era fatto quell’amore.

Quando il giovane uscì, la Regina rimase per un pezzo come affissata in
un pensiero.

Poi scrollò le spalle mormorando:

— Anche se le fosse capitata qualche disgrazia... furono scambiati
molti colpi di fucile e lei si trovava proprio in mezzo del cerchio
formato dagl’Inglesi... anche se le fosse capitata qualche disgrazia,
non sarebbe la prima morta pel suo Re e per la sua Regina! Non
giurarono gli Ungheresi di sacrificarsi tutti per mia madre, e non
diedero ad essa il loro sangue e la loro vita?




VII.


Ferdinando IV, che quella mattina era di malumore, perchè appena aveva
potuto veder cadere sotto i colpi del suo fucile tre pernici e poche
quaglie, se ne era tornato dalla caccia, e aspettando che la colazione
fosse servita, passeggiava soletto su e giù pel viale del parco che
cingeva la sua villa della Ficuzza.

Discosti da lui, due gentiluomini assunti da poco al suo servizio, il
conte di Castelrotto e il marchese di Rovello, discorrevano sottovoce,
non perdendo d’occhio il regale padrone.

— Nuvole in aria — disse il conte di Castelrotto accennando con
lo sguardo al Re che si era fermato presso una aiuola dalla quale
strappava nervosamente i fiori. — La caccia stamane è stata poco
fortunata!

— Non è per la caccia — rispose l’altro — gli è che da quando fu qui la
Regina, il pover uomo non ha più pace.

— Gli avrà fatta forse qualcuna delle solite scene di gelosia... Ne è
ben capace!

Il conte scrollò le spalle.

— Importa assai a lei!

— Credete che non sia punto gelosa di... quell’altra?

— Neanche per sogno. Del resto, se ne rifà ad usura.

— Con chi adesso?

— Corrono delle voci vaghe. Da qualche giorno si vede gironzare per i
dintorni di Castelvetrano un certo bel giovane che si vuol sia stato
un famoso capobanda, e qualcuno anche l’ha visto entrare di notte nella
villa ove dimora la Regina!

— Ma non parmi sì grave la cosa... Uno più, uno meno! In fine è ancora
una bella donna, pare impossibile, a quell’età; ma giuro per Santa
Rosalia che nell’ultimo ballo a Corte, la sua bellezza matura, anzi
più che matura, attirava gli sguardi e i desideri assai più delle tante
bellezze giovanili che splendevano alla luce dei candelabri. In quanto
poi al famoso capobanda, che dite giovane e bello, non mi meraviglio
della scelta; mi meraviglierei se avesse scelto ad amante uno di
cotesti nostri giovanotti cachettici e sfiaccolati!...

— Non si tratta di questo... Gli è che van sussurrando di un certo
sbarco di Calabresi, di una congiura contro lord Bentink che è il
vero Re di Sicilia, congiura della quale l’ispiratrice, l’ordinatrice
sarebbe appunto quel demone di donna.

— Uhm! — rispose l’altro quasi distratto, come chi voglia dire meno di
quel che potrebbe — che può far lei senza il consenso di quello lì?

E in così dire accennava al Re che si era seduto su una panca e pareva
tutto intento a leggere un giornale.

— È vero: ma non venne qui lei una notte, sperando di non esser vista
e di poter ripartire all’insaputa di tutti? Chi sa non sia venuta
per accaparrarsi l’acquiescenza del marito?! Voi stesso avete detto
che da quella sera è turbato come chi abbia pel capo un pensiero
molesto. Sapete, io vi parlo così per un comune interesse. Non fummo
raccomandati da lord Bentinck allorchè furono allontanati tutti i
gentiluomini che avevano formato per lo innanzi la Corte del Re? E se
la congiura scoppiasse e trionfasse, noi...

L’altro che aveva ascoltato col viso di chi non dà molta importanza a
quel che gli si dice, sorrise con aria d’uomo che la sa lunga.

— Caro conte — rispose scrollando il capo — a lord Bentinck nulla
sfugge, e a tutto provvede. Per ora posso dirvi solo questo, che fra
tre giorni sbarcheranno a Palermo altri cinquemila soldati inglesi,
capaci di domare i grilli del capo di una vecchia intrigante, parlando
col rispetto dovuto alla sua corona di regina.

— Dunque possiamo star sicuri?

— Sicurissimi.

— In verità, caro marchese, non che io tenga a questo affido che già,
sia detto fra noi, non è punto onorifico come parrebbe; ma gli è che,
è inutile, nasconderlo, ho subìto tanti rovesci che l’offerta di lord
Bentinck fu per me una vera provvidenza, quantunque il mio orgoglio ne
soffra perchè il Re non mostra di avermi in quella considerazione che
meriterei.

— Lasciate correre, caro conte; voi non siete qui pel Re, ma... per voi
stesso.

— E... per lord Bentinck!

— Sia pure; il quale lord Bentinck quando è ben servito sa essere
riconoscente. Nessuno della nostra casta può lagnarsi di lui, meno
s’intende, alcuni capi scarichi sedotti dalle nuove idee che non
intendono. Non dobbiamo alla generosità inglese quel che occorre per
sostenere degnamente il nostro grado? Ma il popolo soffre, il popolo
è oppresso, il popolo è dissanguato! Ma se è nato per questo! Di chi è
la colpa? degl’Inglesi? È di Domineddio che l’ha fatto nascere popolo,
come ha fatto nascer noi conti, duchi o marchesi. Non è così?

— Proprio così. Sapete che le vostre parole mi han tolto un grave peso?
In verità, sono stanco di tanti rivolgimenti e vorrei che tutto il
mondo vivesse in pace ora che ho ottenuto anch’io questo cantuccio.

Il Re intanto era immerso in foschi pensieri: dalla notte in cui,
in un istante d’ira, non sapendo resistere alla imposizione della
moglie, aveva firmato il proclama col quale manifestava l’intenzione
di ripigliare il potere, non aveva avuto più pace. In qualche modo si
era acconciato a quella vita che conveniva alla sua indole pigra e ai
suoi istinti grossolani; infine il potere non gli aveva dato che delle
noie, e se avesse avuto ancora il vigor giovanile e a lui vicino il
parco di Caserta o di Capodimonte, o la vasta tenuta degli Astroni, non
avrebbe chiesto di meglio dell’essere sgravato dei fastidii del potere.
Eppoi si sentiva già vecchio, e se negli anni più verdi si era lasciato
travolgere dal torrente che lo aveva strappato dal trono di Napoli,
non aveva nessuna voglia di resistere ora, dopo aver sofferto tante
traversìe.

E come, come si era lasciato indurre dalla moglie che lo aveva messo
sempre in gran brutti impicci? Dacchè ne era separato aveva vissuto
così sereno e tranquillo in quel suo ritiro della Ficuzza da essere in
fondo ben grato agl’Inglesi che a tanto l’avevano costretto, poichè
a vero dire, egli non sarebbe stato capace di osar tanto. Valeva
bene la perdita del potere l’acquistata serenità per la separazione
dalla moglie, istancabile orditrice d’intrighi e di congiure, la
quale non nascondeva punto il disprezzo in cui lo teneva e non gli
risparmiava i rimproveri, gli amari motteggi, ritenendolo responsabile
dell’avvilimento in cui erano caduti.

Come dunque si era lasciato indurre a firmare quel proclama che al
certo gli avrebbe procurato di grandi impicci? Per poco, a prevenire
e a render vani gl’intrighi della moglie, gli era venuto in mente di
denunciarla agl’Inglesi; ma riflettendoci meglio aveva compreso che
per evitare un fastidio sarebbe andato incontro ad un altro, avendo
egli paura di quella donna che sapeva di tutto capace. Non l’avevano
accusata di aver tentato di avvelenare il principe ereditario, suo
figlio, Vicario del Regno di Sicilia? Egli non aveva mostrato di dar
credito a tal voce, ma in fondo alla sua coscienza si era fatto strada
il dubbio, anzi possiamo dire la certezza che non la si accusasse a
torto.

Che uso dunque avrebbe ella fatto di quel proclama che gli aveva
estorto in un istante d’ira? Quando sarebbe scoppiata la bufera alla
quale egli, senza volerlo aveva prestato il nome? Sentiva sospesa
sul suo capo quella minaccia e la mattina nello svegliarsi chiedeva a
se stesso se sarebbe trascorsa in pace quella giornata, non potendo
trattenersi dall’imprecare in cuor suo alla moglie, che non certo
nell’interesse di lui s’era data ad ordir congiure, ma per appagare la
sua sete di dominio e di vendetta.

Questa perenne preoccupazione, quest’attesa angosciosa lo faceva vivere
in un continuo orgasmo che pur cercava di celare ai pochi cortigiani,
con l’assenso di lord Bentinck rimasti al suo servizio. E vieppiù
l’impensieriva il non aver nuove della moglie da quella notte, segno
che tutta data alle sue cabale, ai suoi intrighi, non pensava più a
lui, ben paga di averne ottenuto con la demoniaca influenza che su lui
esercitava, l’assenso al torbido disegno.

Ah, se gl’Inglesi l’avessero del tutto e per sempre liberato da quella
donna, costringendola non solo a star divisa da lui, ma a tornarsene
dal fratello suo! Nella sua gratitudine ci era un certo dispetto contro
il Governo d’Inghilterra che aveva fatto le cose a mezzo e non aveva
mandato via dalla Sicilia quella donna che rappresentava pur sempre un
pericolo!

Questo avrebbe fatto lui se l’avesse potuto e l’avesse osato! Ma gli
è che la temevano tutti quella donna, come lui la temeva, come sempre
l’aveva temuta, pur non osando mai di ribellarsi al predominio che su
lui esercitava.

Era in questi pensieri quando sentì di là dal parco che confinava con
la via maestra, lo schioccar d’una frusta e il rotear d’una carrozza.

— La duchessa! — disse con un sospiro di sollievo. — Per lo meno avrò
con chi annoiarmi!

E fatto un segno ai due gentiluomini che gli tennero dietro, entrò
nella palazzina.

La carrozza della duchessa di Floridia si era arrestata a venti passi
dall’entrata principale della villa. Un uomo ne era disceso, alto,
membruto, coi favoriti rossicci e il viso improntato a una grande
energia. Rimase ritto innanzi allo sportello per aiutare a discendere
la duchessa che toccò appena la mano che l’Inglese le porgeva e balzò a
terra.

Era una bella creatura dagli occhi neri e ardenti, dalla folta chioma
corvina che le scendeva ricciuta sugli omeri, bruna di volto, con le
labbra rosse e polpute: un tipo di quella bellezza siciliana dalle
torride passioni che bruciano il cuore e le viscere.

— Il Re mi ha visto — disse lei appoggiandosi al braccio che l’Inglese
le porgeva — e s’impazienterà se mi fo a lungo aspettare.

— Ci si guadagna sempre a farsi aspettare — rispose l’Inglese
inoltrandosi per un viale di platani che spandeva una fresca ombra,
mentre tutta la silenziosa campagna era inondata di sole.

— Anche coi re? — chiese lei ridendo.

— Innanzi alla bellezza i re non sono che dei sudditi come tutti gli
altri uomini.

— Sicchè voi, milord, innanzi a me?...

— Non sono che un vostro amico — rispose l’Inglese con un fine sorriso
sulle labbra sottili — un amico a cui sta molto a cuore la vostra
fortuna!

L’Inglese e la duchessa tacquero, chè ognuno di essi seguiva un suo
pensiero nel quale forse sapevano d’incontrarsi. Infine la duchessa
alzò la testa e disse:

— Gli dovrò dire che mi avete accompagnato?

— Sì... nel caso che egli tentennasse... Gli direte anzi che non ho
voluto chiedergli un’udienza per non sottrarlo all’incanto della vostra
compagnia... Ma... che avete, duchessa? Mi parete assai preoccupata...

Invero la bella creatura aveva chinato la testa e sembrava assorta in
un pensiero.

— Ho — rispose dopo un istante di silenzio — che mi avete suggerito un
consiglio da dare al Re assai pericoloso.

— Perchè pericoloso?

— Il ritorno di... della Regina vorrebbe dire un divieto a me di porre
il piede nella villa reale.

— Sì, per pochi giorni — rispose l’inglese.

Ella lo fissava per comprenderne bene l’ascoso pensiero.

— In compenso — continuò l’Inglese spiccando bene le parole e tenendo
gli occhi fissi in quelli della duchessa — potrà divenir forse la
vostra stabile dimora.

— Lottar con quella donna — mormorò la bella creatura — con quella
donna che non bada ai mezzi, che è capace di ogni insidia e che
esercita una tanto sinistra influenza sull’animo del Re il quale la
teme per quanto l’odia...

— E perciò noi dobbiamo combatterla con le stesse sue armi. Fu un
male, un gran male averla relegata a Castelvetrano; qui la nostra
sorveglianza avrebbe potuto essere più assidua e più oculata. Ora a
noi fa bisogno di uno scandalo, di uno scandalo pubblico per quanto più
sia possibile. Bisogna indurre il Re ad assentire. In fondo è quel che
desidera: giustificare l’esilio di quella donna fuori dalla Sicilia per
impedire che l’Austria possa far rimostranze e imponga di richiamarla.
Avremo così assicurato la pace di questo Regno, la felicità del Re e...
e, mia cara duchessa, la vostra fortuna.

— Ma cotesto capobanda così famoso... dicono che sia un gran bel
giovane, è vero?

— Son cose che non mi riguardano. La bellezza di un uomo non può esser
misurata che dall’occhio di una donna. È però di un coraggio a tutta
prova, e contro i Francesi ha fatto prodigi. Si dice anche che sia
di nobile stirpe, benchè bastardo. È di un’audacia senza pari: appena
sbarcato uccise un soldato inglese, ne ferì due; inseguito, riescì a
nascondersi in una vecchia torre abitata dalla Regina.

— Ma perchè non l’avete fatto arrestare?

— Perchè — rispose l’Inglese con un sorriso che scoprì i denti lunghi
ed aguzzi — perchè occorre a me, a voi, alla pace di questo Regno ch’ei
sia libero, finchè entrambi, lui e la sua regale amasia, non cadano
nella trappola!

— Che io dovrò tendere!

— Sì... per la vostra fortuna.

— E perchè l’Inghilterra si liberi di una ben temibile nemica!

— L’Inghilterra — rispose l’altro in tono solenne — non teme che solo
Dio. Essa va dritta per la sua strada stritolando sotto il suo carro
gli audaci che tentano arrestarla.

— E che combatte con ogni mezzo...

— Con ogni mezzo! — assentì milord. — E che può fare di una duchessa di
Floridia... una regina.

La bella creatura ebbe come un fremito; gli occhi lampeggiarono di
orgoglio, ciò che non sfuggì a milord, al quale non sfuggiva nulla
dell’anima gonfia di ambizione della duchessa.

— Ed ora addio — disse l’Inglese — vi rimanderò stasera la carrozza,
se — continuò sorridendo — Sua Maestà non vorrà trattenervi per la
sua... partita a scacchi anche stanotte. So che si lagna di me perchè
ho allontanato i suoi vecchi amici, ma in compenso gli ho data la più
bella creatura che il sole di Sicilia abbia mai irraggiato!

Ella sorrise rispondendo all’Inglese con uno sguardo assai più
eloquente delle parole. Giunti presso la carrozza fece segno ad una
vecchia cameriera che l’aveva attesa seduta nel fondo dell’ampio
cocchio. La cameriera discese mentre milord si apprestava a salire.

— Ma sapete che è un’imprudenza l’avventurarvi così senza scorta, voi
che siete il vero Re di Sicilia? — disse la duchessa.

Per tutta risposta lord Bentinck volse intorno lo sguardo. Ella lo
imitò.

— Ah! — disse — delle pattuglie di soldati in ogni parte!

In vero qua e là pei colli che fiancheggiavano la strada vi eran gruppi
di soldati, le cui rosse divise spiccavano tra il verde degli alberi.

— Osservo però — ella soggiunse — che cotesti vostri soldati son troppo
visibili: è facile quindi deluderne la sorveglianza.

— Ne ho altri del tutto invisibili che mi servono per tener d’occhio
coloro che meco lavorano per un intento comune. Ecco, per esempio,
ier sera, in sulla mezzanotte, uscì dal vostro palazzo un signore che
stamattina ho fatto arrestare.

— Il conte di Bucenta! — gridò lei impallidendo.

— Brava! Il conte di Bucenta che macchinava contro di noi e che
sperava d’indurvi a cospirare per la libertà e per l’indipendenza della
Sicilia.

Ciò detto salutò con un inchino e montò nel cocchio di cui chiuse lo
sportello.

La duchessa era rimasta immobile, colpita da stupore a quella notizia
che lord Bentinck si era serbato di darle in ultimo, quasi come
un ammonimento. La carrozza aveva già svoltato l’angolo del parco,
quando infine si risolse di muovere verso la villa reale in cui il Re
l’aspettava con impazienza.

— Ho fatto bene, ho fatto bene — mormorava la giovane donna — a
respingere le proposte del conte che mi è parso assai diffidente
della Regina. Sarei caduta in disgrazia di coloro che servono ai miei
progetti, come io servo ai loro, e che sono i più forti. E tanto più
debbo fidare in milord in quanto è l’unico che non mi faccia gli occhi
dolci. Ma gli affari son gli affari, come ei ripete spesso.

Intanto, seguita dalla vecchia cameriera era giunta innanzi la porta
grande della villa, guardata da un vecchio veterano che si appoggiava
con aria stanca ed annoiata al fucile, e che al vedere la giovane
donna che ei sapeva in intimi rapporti col Re, si raddrizzò per farle
il saluto militare, mentre il portinaio gallonato e impennacchiato si
teneva immobile sulla soglia.

Ella passò dritta e fiera come se si sapesse in casa sua. Al principio
dell’ampia scala incontrò il maggiordomo che dopo essersi inchinato
profondamente le disse:

— Sua Maestà il Re, che vide dal parco la carrozza di Vostra
Eccellenza, era in gran pensiero e ha dato ordine di rimandare alla di
lei venuta la colezione.

La duchessa non rispose e si diede a salire la scala. La vecchia
cameriera la lasciò andar sola, poi si rivolse al maggiordomo che era
al certo una vecchia conoscenza.

— Cavaliere mio, non ne posso più. Mi raccomando, ho bisogno di
ristorarmi.

— La duchessa resterà qui stasera? — le chiese sottovoce il maggiordomo.

— Che ne so? In caso, continueremo la partita interrotta l’altra sera.

— Mentre la duchessa giuocherà la sua!

— Credo che finirà per dare scacco matto.

— Certo, se arriverà a togliergli la regina.

— Giuoca bene di gambitto la duchessa, ed ha al suo giuoco un
cavallo... inglese che...

I due si guardarono ammiccando.

— Il Re ha perduto gli alfieri e le torri; non ha che poche pedine
oramai...

Discorrendo così sottovoce i due entrarono in una delle stanze a
pianterreno ove erano gli alloggi degli ufficiali della Corte.

Il Re non sapeva a che attribuire l’indugio della duchessa, che
giungeva opportuna. Aveva deciso di confidarle tutte le sue pene,
le sue paure, le sue preoccupazioni per averne consiglio, chè molto
fidava sul senno e sull’accorgimento di quella giovane donna, dalla
quale si credeva sinceramente e disinteressatamente amato, e che sapeva
prenderlo pel suo verso calmandone le ire e divertendone gli ozî.
Aveva trovato in lei un carattere pieghevole, rimessivo per un calcolo
di accorta furberia femminile, carattere in contrasto con quello
imperioso, irriflessivo della Regina, onde l’affetto che sentiva per
l’amante era come una conseguenza dell’avversione per la moglie. Ella
lo aveva ben compreso e si studiava di trarne il maggior vantaggio,
ponendo cura di far risaltare sempre più la differenza dei gusti,
dell’indole, dei sentimenti con la Regina, differenza che, a parte la
venustà della duchessa, risultava anche dal genere della loro bellezza
che ne faceva due tipi affatto opposti.

Se la dignità regale, alla quale però egli aveva fatto tanti strappi
in quell’esilio ove viveva come un ricco borghese, glielo avesse
consentito, il Re sarebbe disceso per muovere incontro alla duchessa,
per sapere almeno perchè tardasse a comparirgli dinanzi.

Bisogna anche aggiungere che da un pezzo era trascorsa l’ora della
colazione, e lo stomaco regale, che non aveva punto perduto della sua
vigoria nè per l’età, nè per le sventure, aveva fame quanto, se non
più, lo stomaco di uno di quei lazzaroni ai quali il Re, nei tempi in
cui non aveva altra cura che di divertirsi secondo i suoi gusti, aveva
servito i fumanti maccheroni tolti dalla caldaia, il fuoco della quale
era alimentato da Sua Maestà la Regina in persona!

Ah, erano bei tempi quelli in cui se i popoli non eran liberi, e non
eran liberi neanche sotto coloro che dicevano di avere invaso il Regno
per redimerli dalla schiavitù, godevano almeno lo spettacolo del loro
Re tavernaio e della loro Regina pescivendola!

— Ma chi diavolo l’ha trattenuta? — borbottava il Re, andando giù e su
per la stanza. — Che mi sia sbagliato? No, no, era proprio la carrozza,
eran proprio i cavalli che le regalai il giorno della sua festa!

In questo sentì di là dall’uscio un fruscìo di vesti, quindi il
valletto che si teneva dritto presso la porta annunziò:

— Sua Signoria Illustrissima la Duchessa di Floridia.

— Finalmente, finalmente! — gridò il Re muovendo incontro alla
bellissima creatura.

Ma non volendo più oltre indugiare, si rivolse al valletto:

— Dite al maggiordomo che faccia servire la colezione.

Ella intanto si era arrestata sulla soglia, invece di correre al Re
come di consueto per porgergli a baciare la fronte. Le si leggeva il
dispetto nel bel viso fiorente che era come illuminato dai grandi occhi
neri.

— Ebbene, che c’è? che avete? — le chiese il Re che non osando di
abbracciarla innanzi al valletto, il quale dopo aver trasmesso l’ordine
regale era tornato a starsene ritto sull’uscio, ne aveva preso le mani
tra le sue.

Ella fece un atto di bimbo in collera e rispose stizzita:

— Vostra Maestà dimentica. Vostra Maestà non pensa punto alla sua
piccola duchessa che espone al disprezzo dei suoi camerieri.

— Ma che ti salta in testa! — rispose il Re stupito passando dal voi
al tu per acquetarla, quantunque non sapesse di che fosse colpevole.
— Io ti espongo?... Via, via, piccina: vuoi così forse evitare i miei
rimproveri per il tuo inesplicabile indugio? Parla, via: perchè tanto
cruccio in codesto bel visetto?

Fece intanto un cenno al valletto che andò via; poi tornando a volgersi
a lei e cingendole del braccio il collo bruno e grassoccio l’attirò a
sè e baciandola in fronte le disse con voce carezzevole:

— Sentiamo: che cosa ho dimenticato? In che cosa ho potuto dispiacere
la mia piccola duchessa?

— No, no, poichè Vostra Maestà dimentica le promesse che avrebbe dovuto
mantenere non per me, non per me che io infine ho quanto soverchierebbe
l’orgoglio della donna più eccelsa, ma per la dignità stessa del mio
Re... Ma poichè il mio Re non mi crede degna, io chino la fronte e...
non gliene parlerò più, mai più!

— Insomma, spiegati; ti giuro che non arrivo a comprendere. Ma voglio,
intendi? voglio vederti lieta e serena. Se sapessi come fui triste
finora, come la noia mi ha oppresso! Quando vidi la tua carrozza sperai
che finalmente un raggio di sole brillasse nell’anima mia, il raggio
dei tuoi begli occhi! e non voglio no, che sia velato da nubi. Or
ora saremo chiamati a colazione: faremo colazione insieme, soli, chè
tutta questa gente che mi sta dintorno mi secca maledettamente. Ma per
quanto abbia un po’ d’appetito... ier sera, vedi, andai a letto senza
toccar cibo... per quanto dunque abbia un po’ d’appetito, il piacere di
soddisfarlo mi verrebbe turbato dal vederti così triste. Parla dunque:
a quale promessa ho mancato?

Ella piegò la bella testa sul petto del Re e disse sottovoce, ma
spiccando bene le parole:

— Non ha sentito Vostra Maestà che il valletto ha anunziato Sua
Signoria Illustrissima, invece di Sua Altezza la Duchessa di Floridia?

— Ah, diavolo, ah, diavolo! — esclamò il Re che finalmente ricordò la
promessa di concederle un tal titolo.

Veramente, gliel’aveva fatta in un momento di senile abbandono e di
tenerezza senile. Poi a mente calma, riflettendo allo scandalo che
avrebbe destato e al dispetto della moglie, ma più a questo che a
quello, e non volendo fastidi, aveva dimenticato, sperando che anche la
duchessa dimenticasse.

In questo il maggiordomo comparve sull’uscio ad avvisare che la
colazione era servita.

— Dite ai gentiluomini che li dispenso dal servizio. Andiamo, duchessa
— disse poi offrendole il braccio.

Ella tuttora in collera seguì il Re che aveva il viso di chi sia
molestato da un pensiero. Attraversarono in silenzio le stanze e il
corridoio che metteva nella sala da pranzo ove trovarono servita la
colezione. Il Re sedette ed accennò alla duchessa di sedergli vicino.

— Andate via — disse poi ai camerieri che si tenevano dritti dietro le
sedie. — Ci serviremo da noi. Verrete quando vi chiamerò.

Indugiava a rivolgerle la parola sperando che ella rompesse il
silenzio, e così potesse aver tempo di riflettere su ciò che doveva
dirle in riguardo alla promessa. Intanto la veniva servendo dei cibi
che lo scalco aveva disposto sulla mensa e che ella svogliatamente
mangiucchiava come se il suo pensiero fosse altrove.

— Dio mio — disse infine il Re lasciando cadere coltello e forchetta
sul piatto, punto dal contegno affettatamente riservato di lei, — son
dunque condannato a veder sempre a me dinanzi degli scontenti? Andiamo,
via, sorridi!

— Ma — rispose lei con mia graziosa smorfietta — Vostra Maestà è in
collera con me per averle io ricordato una sua promessa...

— No, no, non sono in collera. Gli è che anche ad un Re, per fare certe
cose che... che potrebbero destare invidie, gelosie e quindi fastidi...
occorre del tempo, occorre trovare un pretesto...

— Ah intendo: la gelosia, non dico l’invidia, si desterebbe nella...
nella Regina, e Vostra Maestà tenne di esser messa in castigo!...

— Che vuoi mia cara — rispose il Re che non raccolse l’ironia — quella
donna mi fa paura, quella donna esercita su me una strana influenza. I
dolorosi avvenimenti che si son succeduti e pei quali fummo ridotti...
a quel che ora siamo, hanno acuito le asperità del suo carattere fino
al punto che fu necessaria una separazione.

— Pure Vostra Maestà non ne gode i vantaggi.

Il Re la guardò ed era per aprir bocca; ma lei che aveva ben letto
nell’anima di lui proseguì:

— Vostra Maestà vuol dire che se io sono qui, è già questo un
vantaggio...

— Se ella mi lasciasse in pace — disse il Re sospirando — mi
basterebbe. Ma quella lì non cesserà mai dal crearmi fastidi, da
impigliarmi ne’ suoi intrighi; ed io che quando la so lontana sento in
me la forza di resistere alle sue arti, quando mi è vicino e mi parla
e mi confonde con quei suoi argomenti, ai quali non so rispondere, io
finisco col far la volontà sua..

— Anche quando la volontà sua riesce dannosa a chi ha consacrato tutta
se stessa alla Maestà Vostra, la sua giovinezza, la sua beltà, l’onore
del suo nome! — rispose lei con accento di profonda amarezza, vera o
finta, nella voce.

— No, no, tu vai troppo oltre, troppo oltre. Ella sa bene che non
potrebbe nulla sull’animo mio in questo: che colei che ha sacrificato
alla felicità del suo Re la giovinezza, la leggiadria, i pregiudizi
sarà sempre la più adorata delle donne.

In ciò dire ne aveva preso le mani che ella gli abbandonò e sulle
quali impresse un lungo bacio, mentre la guardava con occhi accesi di
desiderio.

— Ma intanto Vostra Maestà per timore di lei rifiuta firmare un decreto
che a tal donna, adorata quanto nessun’altra donna, riconosca il titolo
di Altezza!

— No, non rifiuto... Ma discorriamo d’altro, via, discorriamo d’altro.

Ella senza badargli proseguì:

— Lei invece non ha paura di dispiacere a Vostra Maestà; lei nella sua
villa di Castelvetrano, oltre di impigliarsi in tanti indegni intrighi
con avventurieri della peggiore specie, ladri, assassini, sanguinarî
che han sulla coscienza i più orrendi delitti, mostra una deplorevole
predilezione per qualcuno che fu tra i più famigerati scorridori, anzi
i più volgari predoni, i quali fingendo di combattere pel trono e per
l’altare soddisfacevano alle più turpi passioni...

Il Re era divenuto pallido e ascoltava con un’espressione fra lo sdegno
e il fastidio. Pure rispose come se soltanto per un riguardo a se
stesso volesse scusare le colpe della moglie.

— Sono gl’Inglesi che dicono ciò... gl’Inglesi che l’odiano. Ella non
può fino a questo punto aver dimenticato la regia dignità, il nome
augusto degli avi... Con i suoi anni poi, con i suoi anni...

Comprese però che non gli conveniva d’insistere su tale argomento.
Non era lui alla sua età l’amante di una donna giovane e bella? A
ben altri amori, a ben altri capricci della moglie aveva egli chiuso
gli occhi! E come perdonava a se stesso avrebbe perdonato anche a lei
l’erotico capriccio. Lo spaventavano invece gl’intrighi nei quali s’era
impigliata e con la firma in quel proclama aveva impigliato lui. Con
quel proclama egli si schierava non solo contro gl’Inglesi ma contro
suo figlio che aveva nominato Vicario Generale, contro la nobiltà
del Regno della quale negava i secolari privilegi: li avrebbe avuti
tutti contro, tutti, ciò che forse avrebbe compromesso anche quel poco
che gli era rimasto della regia potestà, quel cantuccio povero sì ma
tranquillo in cui viveva nella noia, ma almeno nella pace. Or lui che
ne aveva passate tante delle traversie, si sgomentava al pensiero delle
molestie che avrebbe dovuto sopportare se la Regina si fosse servita di
quel maledetto proclama.

— Gl’Inglesi non l’odiano; tanto è vero — rispose lentamente la
duchessa fissando gli occhi in quelli del Re — che ad essi non è ignoto
ciò che va tramando colei cui dovrebbe stare a cuore almeno la pace
della Maestà Vostra e che mescola il regio nome in tutti i complotti
che mirano alla rovina di questa povera Sicilia!

— Come, come? — balbettò il Re spaventato — vi mescola il mio nome?
E che ne so io, che ne so? Io non ho mai saputo nulla: quella lì
ha sempre agito di testa sua: fu lei a rivoltare le Calabrie, lei a
soffiar nel fuoco di una guerra così feroce! Che ci entro io, che ci
entro?

— È vero, Vostra Maestà non c’entra; ma pure ha firmato un proclama che
se comparisse...

— Come lo sai tu, come lo sai? — gridò il Re divenuto livido.

— Sa la Maestà Vostra perchè indugiai a presentarmi a lei, perchè fui
costretta a commettere un tal delitto di quasi lesa Maestà?

— No: perchè?

— Perchè nella mia carrozza era un uomo col quale mi intrattenni per
circa mezz’ora nella strada che fiancheggia il parco.

— Chi era quest’uomo?

— Lord Bentinck.

Il Re rimase per un pezzo a guardare con la bocca aperta e lo stupore
nel viso la giovane donna che scrollava il capo come chi comprenda bene
e giustifichi la meraviglia che ha destato con le sue parole.

— Lord Bentinck! — disse infine il Re — lord Bentinck!

— Sì. Venne stamane in casa mia e da lui seppi tutto ciò che la Regina
va ordendo e con mia profonda meraviglia e dolore seppi pure che Vostra
Maestà, non sapendo resistere alle male arti di Carolina d’Austria,
ha firmato un proclama rivoluzionario in cui si parla di diritti del
popolo, di sovranità popolare e di altri simili orrori che un nepote
di San Luigi e di Luigi il Grande, un cugino del re Martire decapitato
dai rivoluzionarî avrebbe dovuto respingere anche a costo di finir sul
patibolo. Con quel proclama si vuol sollevare il popolo contro quei
generosi alleati i quali mentre Vostra Maestà era abbandonata da tutti
vennero qui per proteggerla e per difenderla, e che se furono indotti
a consigliare il Vicario di Vostra Maestà l’erede di questo Regno,
a sgravarla del peso della podestà regia e ad allontanare da questa
dimora Sua Maestà la Regina, s’ispirarono al bene dei popoli, alla pace
di questa isola turbata troppo di sovente dall’indole irriflessiva, dal
carattere volubile e leggiero di colei che avrebbe pur dovuto imporsi
maggiori riguardi, maggior dignità di sovrana, in omaggio se non a se
stessa, ai figli ed al consorte!

— Capperi! — esclamò il Re che aveva atteso un pezzo dopo che ella finì
il suo dire e che aveva ascoltato con sempre più crescente stupore —
parli come un libro stampato!

Invero, era quella la prima volta che la bellissima donna, tutta vezzi
e moine, aveva tenuto al Re un discorso di politica, e che aveva
recitato tutto di un tratto come se l’avesse già da un pezzo nella
memoria. Il Re, forse senza volerlo, aveva dovuto colpire al segno,
perchè la duchessa arrossì e parve un po’ confusa.

Però si riebbe e disse con mal celata stizza:

— Parlo per quell’interesse che m’ispira la Maestà Vostra e pel quale
sarei pronta a dare la vita. Se non vuole prestarmi ascolto, se non
vuol far calcolo alcuno dei consigli di coloro che vorrebbero evitarle
nuove sventure, vuol dire che io non sono l’amica qui, io non sono la
confidente del cuore del Re, io non sono che... l’amante.

— Non, dispiacerti, via, non dispiacerti — disse il Re, infastidito
in fondo per la brutta piega che aveva preso il discorso, tanto da
turbargli le uniche ore di piacere, che erano per lui quelle della
mensa. — Se tu sei l’amante...

— Io non arrossirei di un tal titolo — ella continuò, interrompendo il
Re — lo porterei fieramente anzi, se mi desse il diritto di vegliare
alla tranquillità del mio Re, di additargli i pericoli, di svelargli
le male arti di... di certa gente a cui le sventure non han nulla
insegnato...

Il Re vedendo che non sarebbe riescito a portare il discorso su un
soggetto più allegro, e preoccupato anche dalle parole della duchessa
che aveva accennato ai pericoli che egli correva, si risolse al
affrontare la tempesta.

— Dimmi un po’ — disse gettando il tovagliolo sulla mensa ed
accostandosi alla giovane donna — è lord Bentinck che parla per bocca
tua?

— Lord Bentinck è un mio amico devoto ed è un devoto servo di Vostra
Maestà. È vero, da lui ho saputo le brutte cose che mi hanno indotto a
tenerle un linguaggio sì franco, a costo anche di riuscirle molesta.
Ebbene, sappia che se si pubblica il proclama che la Regina le ha
estorto, perchè si sa che gliel’ha estorto, si sa tutto...

— Ma come — esclamò il Re — se eravamo soli! Dunque da per ogni dove
son circondato da spie invisibili, anche nella mia camera da letto?

— E bisogna esser grati a queste spie che hanno svelato una tale e
tanta imprudenza a cui Vostra Maestà si è prestata a malincuore. Anche
lor Bentinck lo sa e perciò si è creduto in obbligo di suggerirle
che a qualunque costo vi si apporti riparo. Se quel proclama si
pubblicasse, se i facinorosi e tutti coloro che si fanno un mestiere
della rivoluzione si facessero una bandiera del nome di Vostra Maestà,
tanto la loro vittoria come la loro disfatta sarebbe una nuova
sciagura per la Maestà Vostra. Una disfatta degl’Inglesi sarebbe
immediatamente seguita da uno sbarco dei Francesi che di là dallo
stretto tengono pronti navi ed armati; una vittoria... Sa che vorrebbe
dire una vittoria? L’annessione della Sicilia al Regno Unito della Gran
Bretagna!

— Che si arresti dunque, che si arresti — gridò il Re spaventato — chi
mi ha messo in tale imbroglio. E se il mio Vicario Generale non vuol
darne l’ordine, firmerò io il decreto, io che sono il Re!

Le parole della duchessa erano state un commento alle preoccupazioni
che avevan tenuto oppresso il Re sin da quella notte in cui era stato
indotto a firmare quel proclama. Le deduzioni della duchessa erano
state di un effetto immediato appunto perchè il Re più volte aveva
detto a se stesso che in entrambi i casi, della vittoria e della
disfatta degl’Inglesi, le conseguenze sarebbero cadute su lui: una
invasione o una annessione; e lui, a cui i re non avrebbero perdonato
i principî rivoluzionarî espressi nel proclama, avrebbe dovuto andar
ramingo, ramingo alla sua età, in odio a tutti, senza neanche quel po’
di appannaggio reale che gli era rimasto!

— Questo — continuò — questo dovrebbero fare per impedire che quella
vipera, a cui si deve in gran parte la rovina del Regno, mi faccia
apparire di fronte a tutta Europa indegno della corona che Dio ha posto
sul mio capo!

Ella trionfava: pure dissimulando la gioia, scrollava la testa alle
parole del Re, afflitta in viso come se appieno comprendesse le pene di
lui.

— No, no — disse infine — lord Bentinck che, come ho detto, è assai
devoto a Vostra Maestà, non ha voluto ricorrere a un tal mezzo, ben
pericoloso. E se lei si difendesse col far pubblicare il proclama,
chi non crederebbe Vostra Maestà suo complice? L’Austria offesa in
lei, abbandonata da Vostra Maestà potrebbe ricorre a chi sa quali
rappresaglie; ed oggi più che mai coloro cui Dio ha affidato la
missione di reggere i popoli debbono tenersi saldi e concordi.

— È vero, è vero! — disse il Re sedendo vicino alla duchessa. — Ma in
tal caso...

— In tal caso bisogna ricorrere all’astuzia... combattere l’intrigo con
l’intrigo...

— Non t’intendo.

— Vostra Maestà mi concede di parlare senza riguardi, unicamente pel
bene e per la tranquillità di lei?

— Ma sì, ma sì. Mi pare che non ti abbia mai impedito di dirmi tutto.

— Però deve rispondere francamente a una mia domanda: vuole davvero che
la Regina vada via dalla Sicilia?

— Sì, ed al più presto.

— Ebbene havvi un sol mezzo per costringerla ad andar via senza che
l’Austria possa farne una colpa a Vostra Maestà.

— Ma a che tanti indugi? Dillo, via un tal mezzo.

— La Regina ha un amante.

— Sarà un confidente, un amico — disse il Re scuotendo il capo, non
volendo ammettere per un sentimento di orgoglio e di dignità maritale
un tal fatto — un complice delle sue cabale, ma un amante poi!...

— La Regina ha un amante, ripeto. Bisogna dunque coglierla in flagrante
e scacciarla dalla Sicilia sotto l’accusa di adulterio.

— Oh, oh! — fece il Re che non si aspettava una tale proposta.

Ella comprese che non doveva lasciarlo nella sua perplessità, che
sul carattere tentennante del Re avrebbe potuto influire contro il
vagheggiato disegno, e continuò:

— Per quanto il mezzo possa parerle sconveniente e lesivo alla regale
dignità, pure è il solo, opportuno per risparmiare a questa povera
isola la catastrofe di un’annessione all’Inghilterra o di una invasione
dei Francesi con le tristi conseguenze a danno della Maestà Vostra che
è inutile io le ripeta.

— Sì, ma gli è che io non credo, non posso e non debbo credere a ciò
che i tanti nemici di quella donna dicono...

— In tal caso il nostro disegno non potrà effettuarsi, e Vostra Maestà
avrà acquistato la prova che ha per moglie una... Penelope.

Il Re avrebbe dovuto sdegnarsi di tali irriverenti parole che erano un
sarcasmo; ma attribuendole a un impeto di gelosia della sua amante ne
fu quasi lusingato.

— Ma, sentiamo: qual’è questo disegno?

— Vostra Maestà inviterebbe la Regina con una scusa qualsiasi,
una festa, una caccia, a venir qui per qualche giorno. Ella non si
rifiuterebbe perchè torna ai suoi disegni di star vicino a Vostra
Maestà, ben sapendo quale sia il suo potere e quanta sia la... la...

— La mia debolezza!

— No, la bontà della Maestà Vostra: verrebbe al certo col suo...
scudiere, perchè ad onestare la domestichezza con quel giovane, l’ha
nominato suo scudiere...

— Ma — esclamò il Re tra scandalizzato e sorpreso — è dunque un nobile,
almeno di tre quarti! Non avrebbe commesso una enormezza simile se
fosse, come dici, un rozzo capobanda, un villano. Posso ammettere
financo che alla sua età... certe debolezze poi sono perdonabili:
chi è senza peccato, come dice il Vangelo... Ma nominar scudiere un
plebeo? Di questo, no no, non è capace, perchè ricorda fin troppo che è
un’Arciduchessa d’Austria e Regina di Napoli e di Sicilia!

— Insomma, è certo che l’ha nominato suo scudiere.

— Le chiederò conto di questo, le chiederò conto!

— Vostra Maestà non dovrebbe per tal cosa di secondaria importanza
compromettere la riuscita del nostro disegno. Venendo dunque ella qui
si troverà il mezzo di coglierli in flagrante, in modo che lo scandalo
sia pubblico, e così la Maestà Vostra potrà dormire sonni tranquilli.

— Sì, ma — osservò il Re pensoso, perplesso, che intravedeva i fastidi
che gli avrebbe arrecato l’attuazione di quel disegno — è pur sempre
una insidia, un tradimento!

— E lei non premedita un tradimento, lei non premedita una insidia
contro coloro che vennero qui per difenderla e per proteggerla? — gridò
la duchessa stizzita nel vedere che il Re non si piegava, come ella
aveva sperato, facilmente ai suoi voleri.

— Ma io non voglio noie, non voglio molestie, non voglio pensieri
fastidiosi — esclamò il Re, svelando così la causa vera della sua
ripugnanza. — Perciò ho ceduto parte dell’autorità regia a mio
figlio; perciò mi sono ritirato in questo eremo, perciò non ho neanche
protestato quando mi tolsero il povero d’Ascoli, quando mi limitarono i
miei privilegi...

— Ma Vostra Maestà non dovrà darsi pensiero di nulla, di nulla. Saranno
i suoi amici che vigileranno, che disporranno le cose perchè tutto
riesca pel trionfo della verità e della giustizia.

— Ah, così va bene! Io dunque non dovrò intervenire?

— Sì, ma senza alcun fastidio.

— Piccina mia — disse il Re scrollando il capo — se vi lusingate
di trarre in inganno quella lì, di sorprenderla, come voi dite, in
flagrante, di lottare con lei in intrighi e in accorgimenti, avete
sbagliato i vostri conti. Voi non la conoscete come io la conosco.
È uno spirito infernale il suo, capace di ogni eroismo come di ogni
bassezza, di volar come un’aquila e di strisciar come un serpe. Con uno
sguardo legge nei cuori... È vero però che talvolta si lascia trarre in
inganno dal più sciocco dei suoi cortigiani. Ma non vi lusingate di una
facile vittoria e badate che se per poco sospetta di un tranello, non
sono calcolabili gli estremi cui si può spingere. In tal caso io...

— Non mi difendereste voi in tal caso contro la sua ira? — disse lei
gettando le braccia affusolate al collo del Re e stringendosi a lui
che, rasserenato in viso perchè in ogni caso gli si sarebbero evitato
le molestie, ciò che unicamente gl’importava, si diede a carezzare
mollemente la giovane donna che gli si era distesa sulle ginocchia.

— Ma — disse dopo un istante, sollevandola perchè si mettesse a sedere
— tu ed io abbiamo appena mangiucchiato qualche cosa. Su, quantunque
questo arrosto di pernici sia ben freddo oramai, pure merita di fargli
onore.

— E mi amerete sempre così, non è vero, sempre così? — mormorò
baciandolo negli occhi e carezzandogli i grigi capelli.

Il Re non rispose ma sorrise guardandola con gli occhi lampeggianti,
mentre staccava un’ala di pernice.

— Ah Ferdinando, Ferdinando, quale vita dolce e serena vi avrei fatto
vivere io, come avrei saputo comprendere i vostri gusti e il vostro
cuore!

— Chi sa! — rispose Ferdinando acceso in volto pel cibo e per le
carezze della bellissima duchessa — non sono poi tanto vecchio!




VIII.


I Calabresi erano stati dispersi da un reggimento d’Inglesi mandato da
Palermo: male armati, mal vestiti, senza cibo nè ricovero, abbandonati
a loro stessi, non avevano neanche cercato di opporre resistenza e si
erano sbandati per le campagne, tenendosi però sempre vicini al mare,
sperando in qualche barca che li avesse ricondotti in Calabria.

Grande era stata l’imprevidenza della Regina nell’invitare quei
poveri diavoli a lasciare i loro monti, e mal riposta la fiducia
negli emissarî che dei denari avuti avevano speso ben poco. Inoltre
l’aiuto chiesto dalla Regina ai suoi amici delle provincie napolitane
aveva suscitato le gelosie dei congiurati di Sicilia che non volevano
estranei tra le loro fila, sicchè anche le popolazioni erano ostili a
quei poveri delusi, che ignari dei luoghi vagabondavano senza meta,
vivacchiando alla meglio coi ladronecci quando non trovavano di che
sfamarsi nelle campagne lontane dell’abitato.

Ma il reggimento era stato in fretta e in furia richiamato a Palermo
per l’apertura del Parlamento che avrebbe dovuto votare una nuova
imposta sui grani, onde si temeva che il popolo si sollevasse,
sobillato dai fratelli dell’Arciconfraternita di San Paolo.
Correvano delle voci assai gravie e lord Bentinck non voleva trovarsi
impreparato. Solo una compagnia rimase accampata sulla marina di
Segeste, dalla quale avevano scacciato i Calabresi che oramai non erano
più da temersi. Però delle pattuglie di soldati percorrevano i dintorni
per dar la caccia a coloro che non erano riusciti ad allontanarsi, e
non ci era giorno in cui non accadesse qualche scontro tra le pattuglie
inglesi e gli sbandati, alcuni dei quali si erano rifugiati nei boschi
fiancheggianti la via maestra che i soldati sorvegliavano restringendo
sempre più il cerchio per affamarli e così costringerli ad arrendersi.

Per questo coloro che con Alma e Vittoria si erano rifugiati nel
vecchio smantellato edificio nel centro del bosco non erano stati
assaliti. Al certo gl’Inglesi ignorando quel loro ricovero, credevano
che gli sfuggiti vagassero per le macchie ove non era possibile
durassero a lungo, perchè il bosco nulla poteva ad essi offrire per
sfamarli. A che dunque rischiar la vita dei soldati quando da un
istante all’altro quei miseri avrebbero dovuto arrendersi? E ci era
un’altra ragione per la quale lord Bentinck aveva raccomandato di non
ricorrere alle armi che nei casi estremi: nessuna prova legale si
aveva delle intenzioni ostili di quella gente: un’energica azione,
non giustificata, contro di essi, avrebbe compromesso la Regina, e
gl’Inglesi per altre vie volevano raggiungere l’intento di allontanarla
dalla Sicilia.

Era nella loro politica di evitare che le Corti estere potessero
dubitare che ai Borboni di Sicilia riuscisse odioso l’intervento
dell’Inghilterra negli affari dell’isola, per non destare diffidenze e
gelosie. Se negli scontri con gli sbandati qualcuno era caduto ucciso,
la cosa si giustificava da sè: erano dei predoni che avevano opposto
resistenza; pure, secondo le istruzioni del ministro inglese, tali
fatti avrebbero dovuto evitarsi finchè fosse stato possibile, tanto
più che già le prepotenze e le angherie perpetrate in Sicilia dalle
soldatesche di S. M. Britannica avevano suscitato delle rimostranze, e
non si voleva che esse si rinnovassero e si acuissero.

Eran dunque quattro giorni che Alma aveva trascorso fra i ruderi
di quel vecchio edificio in compagnia di quella gente che le faceva
ribrezzo, pure avendo per lei tutte le premure più ossequiose. In un
angolo riparato dai venti e dalle pioggie le avevan fatto un lettuccio
di mantelli che per buona fortuna si erano trovati sulle mule da Pietro
il Toro sottratte agl’Inglesi.

La stessa notte egli in compagnia del Ghiro e del Magnaro si erano
avventurati pel bosco fino al fosso in cui Pietro aveva riversato il
carico delle altre mule, e camminando a passo di lupo, con la prudenza
e gli accorgimenti che per la lunga vita brigantesca erano divenuti
in loro una seconda natura, avevano potuto senza destar l’attenzione
delle pattuglie che sorvegliavano il limite del bosco, portare nel
loro castello, come chiamavano il diruto edificio, buona quantità di
provvigioni, bastevole per alquanti giorni ai bisogni dello stomaco,
anzi avevano di che scialarla allegramente, chè quei muli portavano le
provvigioni per gli ufficiali e si sa a quale larghezza di trattamento
siano usati gli ufficiali inglesi.

La gioia di quegli uomini costretti a vivere giorno per giorno e a
godere oggi senza preoccupazioni pel domani era stata immensa nel
veder trarre fuori da colmi cofani, carni, salami, formaggi, gallette
e, ciò che li aveva fatti delirare addirittura, delle bottiglie del
collo dorato che al certo contener dovevano dei vini e dei liquori
degni di una mensa regale. Tutto quel ben di Dio, dopo tanti giorni di
privazioni, in cui avevan dovuto sfamarsi con l’erba e con le frutta
raccolte pei campi, era tale per essi una fortuna che li rendeva grati
agl’Inglesi che gliel’avevano procurata.

— Io mo’ che vorrei? — diceva il Ghiro guardando con occhi cupidi
i cofani trasportati durante la notte ed ammucchiati in un canto —
Esser lasciato in pace qui. Non vorrei più saperne di re, di regine,
d’Inglesi e di Francesi! L’aria è buona, l’ombra è fresca, il sole è
magnifico, quei cofani son pieni di ogni delizia. Perchè dunque non
dobbiamo vivere in pace e in amicizia con tutto il mondo?

Pietro il Toro aveva severamente sorvegliato perchè nulla fosse
sottratto a ciò che lui aveva sottratto; e in verità, quantunque fosse
rotta ogni disciplina, imponeva troppo rispetto misto a paura perchè si
osasse di disubbidire. Egli aveva raccolto i dieci o dodici fuggiaschi
che si erano ricoverati in quell’edficio dintorno al mucchio delle
provvigioni come dintorno ad un’ara e aveva rivolto ad essi questo
discorso:

— Compagni miei, non dobbiamo sgomentarci di trovarci qui in pochi,
perchè ciascun di noi ha visto di peggio nella sua vita. Io non vi
parlo soltanto in mio nome, ma anche in nome del nostro vero capo,
di caporal Vittoria, degna veramente per le sue gesta gloriose di
comandare a noi tutti, ed io sono il primo a riconoscere i suoi diritti
sulla nostra obbedienza. Non siete del mio avviso?

— Sì, sì — gridarono a coro.

— È una femmina è vero, ma i più famosi capi delle nostre bande si
sentivano onorati di combattere sotto i suoi ordini, e chi l’ha vista
col coltello in una mano e con la pistola nell’altra precipitarsi sui
nemici come io l’ho vista più volte...

— Anche noi, anche noi! — esclamarono gli altri.

— Come noi dunque più volte l’abbiamo vista! Ora essa attende a
confortare quella povera creatura che mentre veniva con la Regina,
nostra unica padrona e signora, a visitarci nella marina dove eravamo
accampati, per non cadere in mano di quei maledetti inglesi dovette al
par di noi rifugiarsi in questo bosco. Noi dunque dobbiamo difenderla
e proteggerla come difenderemmo la Regina che ella in mezzo a noi
rappresenta. Se ci sarà dato di ricondurla al palazzo reale, ove la
Regina al certo si strugge in lacrime non sapendo che cosa di lei sia
divenuto, e noi lo faremo; se poi saremo assaliti, anzichè a lei sia
torto un capello, io pel primo giuro di farmi fare a pezzi. Chi, chi
di noi non è contento di dar la vita che abbiamo arrischiato per un
capriccio talvolta, in difesa di quell’angelo così bianco e così biondo
come l’angelo custode che adorammo quando si era fanciulletti, a cui
dicevamo le orazioni che la nonna e la mamma ci avevano insegnato,
l’Ave Maria, il Salve Regina... quando non sapevamo nulla ancora di
tante brutte cose e ci addormentavamo accanto al focolare col capo
sulle ginocchia della vecchia nonna balbettando le preghiere all’angelo
custode?

Il vecchio Pietro era commosso e commossi erano pure coloro che
l’ascoltavano. Nei cuori più efferati resta sempre un cantuccio in
cui gl’infantili teneri sentimenti per lungo tempo addormentati, si
risvegliano talvolta, rifacendo fanciulli gli uomini più induriti nel
male e nei vizî!

— Or bene — continuò Pietro vincendo la commozione — quella povera
creatura, diletta compagna della nostra Regina, che ha vissuto sempre
nell’oro e nel velluto; che non si è mai chinata per allacciare le
scarpe e che fin dalla culla fu servita da cinque o sei cameriere come
una santa nel suo altare; che fu nutrita di cibi che noi non sapremo
mai che gusto abbiano; che dorme in palazzi di marmo alle cui porte fan
la guardia i soldati, in certi letti con lenzuola di seta e con coperte
a ricami d’oro e di argento, ora si trova qui in mezzo a noi, in un
bosco, fra le mura cadenti di un edificio in cui han fatto il nido i
corvi e le civette, e ci si trova per noi, perchè era venuta con la sua
amica la Regina per salutar noi, per portarci dei denari! E dunque noi
dobbiamo difenderla, dobbiamo proteggerla con le nostre braccia, coi
nostri petti, come difenderemmo, come proteggeremmo il nostro angelo
custode se mai avesse bisogno di noi. Non dico bene?

— Sì, sì, dici bene.

— Vedete, anche Vittoria che, diciamolo, sapendo quel che vale,
non si piega facilmente, l’assiste, la conforta, cerca in ogni modo
di renderle meno penoso il triste caso che le è capitato. Dunque,
compagni miei, noi non sappiamo fin quando dovremo stare qui come volpi
nella tana, perciò bisogna saper contenerci e non far sperpero delle
provvigioni, che io custodirò, e guai guai a colui che volesse farmi
qualche brutto tiro! Sapete che quando dico «guai» si può star sicuri
che ci saranno guai!

— Ma dovremmo anche pensare a trarci fuori da questa trappola —
disse il Magaro. — Potremo durarla tre, quattro, cinque giorni, ma se
gl’Inglesi ci tengon qui assediati per farci morir di fame...

— Noi resteremo qui finchè potremo sostenerci, poi decideremo il da
farsi, tanto più che io ho una speranza...

— E perchè non ce la dici?

— Ebbene, ve la dico: io son sicuro che capitan Riccardo verrà al più
presto in nostro soccorso...

— Ma sa lui il luogo del nostro ricovero?

— Non mi ci fate pensare, non mi ci fate pensare, chè il cuore mi si
spezza se mi raffiguro il dolore di quel povero giovane. Se sapeste
quel che so io! Perciò son certo, che se non gli è capitata sventura,
verrà al nostro soccorso.

— Ma se non sa dove trovarci?

— È vero, è vero. Pure ci sarebbe un mezzo per avvisarlo che siamo qui.
Ma io non saprei chi scegliere di voialtri. Anche se ei deludesse la
vigilanza delle pattuglie inglesi che si aggirano pei limiti del bosco
e se capitasse in quelle che perlustrano la via maestra, non sarebbe
riconosciuto all’accento per calabrese? E pure chi riuscisse a giungere
fino alla villa della Regina, ove senza dubbio troverebbe capitan
Riccardo, potrebbe contare su una ricompensa da valer bene il rischio
al quale si espone! Vediamo, si tratta della vita di tutti noi e della
salvezza di quella povera creatura. Ci è qualcuno tra voi che voglia
tentar l’impresa?

Gli astanti s’interrogavano, discutendo, cercando di convincersi a
vicenda che l’impresa non era poi tanto difficile. La speranza della
ricompensa li tentava. Pietro il Toro se ne accorse e ripigliò:

— E credete voi che la figlia del duca di Fagnano non avrebbe di che
pagare il gran servigio che le verrebbe reso? Basterebbe un solo anello
di quelli che ha al dito per arricchire colui che lo meritasse.

— Vado io — disse un giovanotto che finallora si era tenuto in disparte.

Tutti lo guardarono meravigliati perchè aveva detto quelle parole con
accento schiettamente siciliano.

— Vado io perchè, come avete inteso, posso farmi credere siciliano.
Ho lavorato alle solfatare prima di far parte della banda di caporal
Vittoria e parlo il siciliano come se fossi nato a Messina o a Palermo.

— Ecco, ecco una prova — esclamò Pietro il Toro — che la Madonna del
Carmine non abbandona i suoi devoti. Se l’avessi saputo ti avrei fatto
partire fin dal primo giorno, perchè immagino, immagino come debba
rodersi dal dolore, povero capitan Riccardo!

— In quanto poi — disse il giovane che si era offerto — a quel che avrò
meritato...

— Te ne sono garante io, io Pietro il Toro, te lo giuro sulla Madonna
del Carmine!

Intanto che questo avveniva tra i fuggiaschi che Pietro il Toro aveva
radunati intorno a sè, nel fondo del diruto edificio, in una stanza
rimasta pressochè intatta, Vittoria sedeva presso un mucchio di
mantelli su cui Alma giaceva addormentata. Col capo fra le palme, i
gomiti sui ginocchi, contemplava la giovinetta che nel viso bellissimo
aveva le impronte dei disagi, del dolore di quei giorni, al certo i più
angosciosi della sua vita.

Nello sguardo di Vittoria passavano i diversi pensieri che le si
avvicendavano nell’anima. Pareva in colloquio con sè stessa, anche lei
triste in viso, tristezza che spandeva come un velo di dolcezza sulla
sua fiera e maschia beltà, onde nessuno avrebbe creduto che proprio
lei fosse la donna il cui nome era ripetuto con orrore come quello di
un mostro di ferocia. Il contatto con la delicata e nobile creatura ne
aveva ammorbidito il cuore che lottava tra i nuovi sentimenti i quali
a sua insaputa erano andati germogliando, come fra un roveto irto di
spine germogliano i fiorellini silvestri sottilmente olezzanti. In
sulle prime ella aveva lottato, cercando di far prevalere nell’anima
sua l’odio per quella giovinetta che le ricordava gli anni in cui anche
lei era stata bella, quantunque di una bellezza assai diversa, buona
nella verginale bellezza dell’anima e del corpo; ma poi la soavità
che era come il profumo della leggiadria d’Alma ne aveva ammorbidito
il cuore, e l’odio si era dissolto dando luogo ad un sentimento
indefinibile d’ammirazione affettuosa!

E aveva finito per vincerne l’odio e la gelosia quel vederla sola,
abbandonata, ella usata al fasto della reggia, ella a cui s’inchinavano
i più cospicui e superbi signori del Regno, in quel diruto edificio fra
gente che al certo le faceva ribrezzo, esposta al pericolo di trovarsi
da un istante all’altro fra gli orrori di un assalto! E aveva finito di
guadagnarsi l’anima torbida di Vittoria la fiducia con la quale Alma ne
aveva accolto le premure, la gratitudine che le aveva letto negli occhi
lagrimosi allorchè Vittoria, imponendo al suo carattere aspro, ai suoi
modi bruschi, pentita e quasi umiliata del non aver saputo in principio
usar con lei un po’ di dolcezza nel linguaggio, ne aveva fatto ammenda
col mostrarsele buona, quasi umile, col darle coraggio, con l’aver per
lei delicatezze e premure, pur tenendosi nei limiti della dimestichezza
che non dimentica i riguardi dovuti al grado sociale.

Ma non la pietà forse, non la generosità dell’animo ne avevano così
di un tratto modificato il carattere, ma il sospetto che l’amore o il
capriccio della Regina per Riccardo fosse riuscito ad entrambe nefasto.
Forse quel cuore di fanciulla aveva sofferto quanto il suo, forse
Riccardo, come aveva respinto l’amore di lei, aveva dovuto soffocare in
cuore l’amore per colei nelle cui vene scorreva l’istesso suo sangue!

Quell’amore o quel capriccio della Regina come aveva sottratto Riccardo
all’ardente passione di lei che si era esposta ad ogni pericolo
per salvargli la vita e per ridargli la libertà, l’aveva sottratto
all’amore per la figlia di suo zio. Ci era dunque qualcosa che le
accomunava; e poichè ben comprendeva che i rapporti ormai palesi di
Riccardo con la Regina sarebbero stati un ostacolo insormontabile
per l’unione dei due giovani, taceva in lei la gelosia, e in suo
luogo aveva inteso nascere nel cuore un sentimento di pietà, che
l’esser divenuta lei l’unica protettrice di quella nobile e leggiadra
fanciulla, aveva mutato in affetto.

E la guardava pressochè intenerita dormire di un sonno stanco ma calmo,
col viso bianco e delicato tra l’oro delle chiome sparse pel rozzo
giaciglio.

Quando Alma aperse gli occhi e vide a sè vicino quella donna che
aveva mantenuta la promessa di non muoversi dal suo canto finchè ella
dormisse, mormorò, sollevandosi a sedere mentre raccoglieva la gran
massa dei capelli per gettarli indietro:

— Grazie, signora.

— Ah — rispose Vittoria sorridendo con amarezza — fui una signora, ma
adesso, oh, adesso non sono che caporal Vittoria, della quale avete
sentito certo discorrere come di una orrenda femmina!

— Io so che siete con me assai buona, assai buona in questo orribile
mio stato. E... nulla di nuovo?

— Nulla, figliuola mia. Le pattuglie degl’Inglesi van percorrendo i
limiti del bosco, ma non osano avventurarsi fin qui.

— E nessuno... nessuno è venuto da parte di Sua Maestà per cercare di
me, per soccorrermi, per trarmi da questo luogo?

— Nessuno. Ma non bisogna fargliene una colpa, chè ella non sa dove
io vi abbia condotto. Se poi non ne potete più, se, come pur troppo
comprendo, non vi sentite in grado di più oltre sopportare i disagi
di questo stato, così orrendo per voi, non vi resta che uscir fuori
da questo bosco e affidarvi alle pattuglie inglesi che di certo
incontrereste per esser ricondotta alla villa reale.

— E non dovrei dire il perchè mi trovai qui? E non comprometterei
Sua Maestà? No, no: lei innanzi tutto, lei per la quale tanti han
sacrificato la vita, lei a cui tutti noi abbiamo giurato fedeltà...

— L’amate molto dunque? — disse Vittoria fissandola per leggerle la
verità negli occhi, se mai le parole cercassero di dissimularla.

Ella trasalì lievemente e il volto le si velò di rossore.

— Io amo in lei — rispose dopo un istante di esitazione — quei principî
pei quali i miei padri versarono il loro sangue; io amo in lei la
regalità che fa sacra ogni fronte su cui Dio ha messo una corona, per
la quale darei la mia vita, sicura di compiere un dovere!

— E sacrifichereste la vostra felicità, il vostro avvenire per colei
che...?

— Sì: la mia felicità, il mio avvenire, se un tal sacrificio fosse
necessario a salvarla.

Vittoria continuava a fissarla, immobile. Poi disse lentamente:

— Ma non avete risposto alla mia domanda; non mi avete detto se l’amate!

— Ella è la mia Regina, ella è la mia padrona e signora per diritto
divino. Questo solo so.

Stettero un pezzo in silenzio. La giovinetta aveva chinato il capo come
se non potesse sostenere lo sguardo fisso, indagatore di Vittoria, ben
comprendendo che col rivolgerle tale domanda aveva inteso di leggerle
nel cuore. Certo quella donna sapeva ben più di quel che non volesse
dire.

D’improvviso le si suscitò un ricordo. Non era stata lei l’amica di
Riccardo? Non avevano insieme difeso il castello? Ah, dunque sapeva
lei, sapeva che Riccardo l’aveva amata, ma sapeva anche quali fossero i
rapporti di lui con la Regina!

A tal pensiero arrossì come se il suo pudore fosse offeso e rimase
interdetta, confusa, sotto lo sguardo fiso di quella donna, nel quale
leggeva anche un’affettuosa pietà.

— Vostro cugino il duca di Fagnano sarà in gran pensiero per voi! —
disse ad un tratto Vittoria rompendo il silenzio.

La giovinetta sussultò e impallidendo:

— Voi sapete, voi sapete? — mormorò stupita.

— Sì, anzi ero presente quando suo padre sul letto di morte lo
riconobbe per figlio legittimo.

— Legittimo! — esclamò Alma sollevando la testa.

— Ah, capisco: corre voce ch’ei sia bastardo perchè si crede distrutto
il documento che attesta il matrimonio tra il duca di Fagnano e la
figliuola del barone di Pietrasanta. Ma io, io vi ripeto, ero presente
allorchè suo padre morendo lo riconobbe, io che avevo rischiato di
cadere in mano dei Francesi per farlo evadere dalle carceri; io che
lo seguii travestita da monaco fino al letto di morte di suo padre; io
che poi, riconosciuta, saltai da una finestra, col rischio di rompermi
l’osso del collo!

— Voi, voi avete fatto questo per lui! — esclamò la giovinetta fissando
alla sua volta gli occhi su Vittoria che ne sosteneva lo sguardo senza
scomporsi.

— Io infine, che non avendone più nuove, venni qui sperando di
rivederlo!

— Voi dunque l’amate! — esclamò Alma.

— Si, sì... al par di voi!

Ella divenne livida, tanto queste parole le sconvolsero il cuore. Come,
come aveva indovinato quel suo segreto così gelosamente custodito?
Come in quei pochi giorni ella aveva potuto leggerle nell’anima, mentre
prima di allora nessuna parola avevano scambiato che l’avesse indotta a
quel sospetto?

— Che ne sapete voi, che ne sapete? — balbettò comprimendosi il cuore
che le batteva da scoppiare.

— Che ne so? Ah giovinetta mia, tutto vede, tutto intende, tutto
indovina chi...

S’interruppe come vinta da un ritegno: poi ubbidendo ad una subita
decisione, ad un impulso prepotente, quasi volesse sgravarsi di un peso
insopportabile, per quel bisogno di espansione dei cuori che amano e
dei cuori che soffrono:

— A voi sì, a voi voglio dir tutto, tutto! — esclamò. — A te, anzi, chè
io sento di poterti parlare così come ad una sorella. Non appartengo
anch’io alla casta cui tu appartieni? Sulla porta di casa mia non
vi è uno stemma che attesta della nobiltà del mio sangue? I miei non
portarono e non portano fieramente un titolo, se non pomposo come il
tuo, degno al par del tuo? Puoi offenderti tu della mia dimestichezza,
dì, puoi offenderti?

— Voi vi siete mostrata così buona con me, così premurosa...

— Mi date del voi, mi date del voi! Ed è giusto! Che sono io ora, che
sono? Una femmina famigerata pei suoi delitti, per la sua e fors’anco
per le sue turpitudini! E non è vero, non è vero: feroce sì, crudele
sì, perchè l’ho nel sangue il veleno che talvolta mi persuade alla
strage; ma mantenni pura l’anima mia come puro il mio corpo dacchè mi
divisi dal mostro che fece di me una tigre assetata di sangue!

Era balzata in piedi, arrossata in volto come per un subito
sconvolgimento. Si fece alla soglia della porta e respirò ansante
l’aria fresca della notte che era già discesa.

Il bosco si distendeva nereggiante dal colle in giù: certo i rifugiati
in quell’edificio si erano ritratti in un angolo perchè profondo era il
silenzio.

L’aria fresca le fece bene: tornò indietro e per rimettersi in calma
si diede a battere l’acciarino per accendere una delle candele trovate
nei cofani sottratti agl’Inglesi. La luce della candela rischiarò
fiocamente la stanza disegnando sulla parete la nera ombra di Vittoria,
mentre Alma la seguiva con lo sguardo, non spaventata ma commossa anche
lei da un senso di pietà per quella donna, della quale incominciava a
intraveder l’anima tormentata, ed aspettando con ansia ineffabile il
seguito della confessione che le era uscita dalle labbra prorompente
come un grido di dolore!

Ah, dunque la fatalità della passione aveva potuto anche su lei, su
quella donna che pur nella sua vita avventurosa se ne era lasciata
sopraffare? Ma era possibile, era possibile che egli avesse resistito
alla passione di quella donna che aveva vissuto con lui nella libertà
dei boschi e che libera di sè, usata alla violenza ed alla prepotenza
non aveva remora alcuna nei pregiudizî, nelle convenienze sociali,
nella dignità femminile? E lei, lei amava quell’uomo che dalle braccia
di una Regina passava a quelle di un’avventuriera, famigerata per
delitti e per ferocia? Amava quell’uomo, la cui beltà, il cui valore si
accoppiavano a tali istinti perversi?

E arrossiva pensando che quell’uomo l’aveva amata fin dalla sua prima
giovinezza, che aveva osato alzar gli occhi fino a lei anche quando
non era che un miserabile servo della gleba, quell’uomo che poi si
abbandonava agli amori di un’avventuriera!

Se i rapporti ormai palesi con la Regina avevano scavato fra lei e lui
un abisso insormontabile, era giunta a scusarlo di essersi lasciato
attrarre dal fascino regale, e giungeva financo a dire a se stessa
che egli al certo aveva dovuto subire quei rapporti, pur custodendo
gelosamente nell’anima sua come una religione l’amore per lei; ma la
rivelazione di Vittoria l’aveva sconvolta come una turpitudine che le
aveva messo un indicibile ribrezzo nell’anima.

E quell’uomo pretendeva di essere il vero e unico duca di Fagnano!

Nonpertanto, era punta da un desiderio ansioso di sentire il seguito
di quella confessione, così ansioso, che aveva dimenticato il luogo
in cui era, la gente con la quale era costretta a vivere chi sa fino
a quando, il pericolo che la minacciava, il caso ben terribile in cui
era incorsa; e impaziente, ma pur non osando di volgerle la parola,
seguiva Vittoria che infine, avendo infisso le candele in un mucchio di
rottami, tornò a sedere presso il giaciglio.

— Perdonatemi — le disse — perdonatemi, ma pur troppo è una ben triste
natura la mia, e il sangue talvolta mi pulsa così nel cranio al ricordo
degli orrendi casi della mia vita che mi par d’impazzire! Pure sento
un bisogno prepotente di dirvi tutto l’animo mio in quest’ora solenne,
nella quale un presentimento mi opprime che non ho mai provato,
quantunque tutta la mia vita sia trascorsa di audacia in audacia e
quasi sempre con la morte sospesa sul capo!

— Parlate — rispose Alma che pur non voleva mostrarsi ansiosa. — Potrò
forse lenire le vostre pene o compiangervi almeno!

— Compiangermi! Ah, per dieci anni ho vissuto dimentica del jeri,
incurante del dimani ed ho ispirato sempre terrore, non mai pietà! —
esclamò Vittoria. — Ma adesso, sì, è vero, merito di esser compianta.
L’amore! Che demone infernale! Dicono che blandisca i cuori, che li
nobiliti, che li santifichi! Menzogne, menzogne. Io so che non uccisi
mai con tanta voluttà del sangue e della strage; io so che mai tanto
odio imperversò nel mio cuore come quando vi accolsi l’immagine di un
uomo del quale era diventata schiava, io che non mi ero piegata neanche
dinanzi a Dio!

— Siete stata così buona, siete stata così pietosa con me! — disse
Alma per calmare quella donna che pareva sconvolta dai ricordi e
dall’ambascia.

— Ah sì — rispose lei — perchè voi avete sofferto, voi soffrite al par
di me, perchè compresi essere anche voi una vittima della fatalità che
passa come un turbine pei cuori!

— Se vi ha tradita, se vi ha ingannata — mormorò Alma commossa e in uno
spaventata dell’orgasmo di quella donna — forse non fu sua la colpa...

— Tradita, ingannata?! — gridò Vittoria con gli occhi balenanti di
ferocia. — E non gli avrei strappato il cuore dal petto per veder dove,
dove, in quali fibre si annidassero il tradimento e l’inganno?

— Ma dunque, ma dunque — disse Alma sorpresa e confusa, non riuscendo a
comprendere l’anima di quella donna. — Quale è dunque la colpa di...?

— La sua colpa? — rispose Vittoria che era rimasta come accasciata dopo
quelle aspre e prorompenti parole. — La sua colpa è di esser bello, di
esser valoroso come una spada, generoso come un leone, di esser nato
per sovrastare a tutti, di esser lui il padrone, lui il signore di ogni
cuore, da quello di una regina a quello di una scorridrice dei boschi
quali io sono!

E si era accesa nel dir ciò: gli occhi le splendevano fissati a sè
dinanzi come se contemplasse l’imagine di lui.

— No — proseguì con una straziante angoscia nella voce — egli non mi
ama, egli non mi ha mai amata!

Alma sussultò sentendosi invasa da tale gioia che altra simile non
l’aveva mai così inebbriata in sua vita. Dunque a torto l’aveva
accusato, a torto? Dunque sì generosi, sì magnanimi erano il carattere,
il cuore, l’anima dell’uomo da lei amato che anche nel dolore e nello
strazio quella donna l’esaltava?

E poichè era rimasta immobile dissimulando la sua esultanza, ma con gli
occhi fissi su Vittoria esprimenti la meraviglia:

— Comprendo il vostro stupore — continuò Vittoria. — No, egli non mi
ama e non mi ha mai amata e pur son sicura che darebbe la vita per
salvare la mia. Ma è gratitudine, è pietà la sua, non è amore. Io, io
al primo vederlo intesi che non mi appartenevo più, che sarei stata la
schiava di quell’uomo sol che avesse voluto; io intesi scorrere come
un balsamo per le mie vene, per tutto il mio essere saturo di questo
amore che aveva preso il luogo delle malnate passioni mie. Io compresi
di essere ancor vergine di cuore se non di corpo, così nuova mi parve
quella vampa che egli aveva acceso!

Alma ascoltava come perduta in un sogno. Alle ardenti parole di quella
donna sentiva diradarsi il velo che aveva fino allora coperto l’amor
suo, lo sentiva svellersi dal fondo del cuore in cui l’aveva relegato e
spandersi per tutto l’essere; ascoltava commossa, trepidante come se le
parole che sentiva fossero le sue, fossero il grido delle sue visceri.

— E per un anno — continuò Vittoria — per un anno io che pur vivevo
la misera e orrenda vita dei boschi, io che avevo respinto lungi
da me il demone dell’esistenza mia, colui pel quale l’inferno non
avrà abbastanza tormenti per me, pel quale mi resi indegna della
misericordia di Dio per quanto immensa, portai nell’anima l’immagine
di quell’uomo, innanzi alla quale, mentre i compagni dormivano gonfi di
vino e di cibo e stanchi di delitti e di turpitudini, pregavo come non
mai avevo pregato Dio. Poi dopo un anno m’incontrai con lui, e me gli
offersi, io, io che ho visto strisciare ai miei piedi i più potenti, io
che per esser libera, padrona di me e non aver altra volontà che la mia
avevo dimenticato e aveva disonorato il nome dei miei padri, affrontato
il ludibrio degli uomini e per i miei delitti l’ira del cielo, io me
gli offersi ond’egli facesse di me la sua schiava, lieta, superba,
felice se mi avesse confinato in una casuccia a filar la lana come
la più umile delle donnicciuole, ed egli mi respinse, intendete? mi
respinse perchè... perchè ne amava un’altra!...

Alma trasalì a queste parole. Di chi intendeva parlare quella donna,
di lei o della Regina? Certo della Regina, con la quale i rapporti
di Riccardo non potevano sfuggire ad un occhio geloso! Il cuore le si
strinse, ma trattenne la domanda che era per prorompere dalle labbra.

— Ne amava un’altra, ma ebbe per me soavità fraterne, ma ebbe per
me premure pietose, onde quest’anima mia tormentata non potè neanche
abbandonarsi all’odio, non potè neanche disfogar con la vendetta le sue
angoscie, non potè neanche inveire contro la rivale che...

Alma disse gravemente:

— Colei che vi toglieva all’amore di quell’uomo è sacra ed inviolabile,
perchè Dio le conferì parte del suo potere...

— La Regina — gridò Vittoria con un amaro sorriso — la Regina, dite
voi! No no, egli non amava, egli non ama la Regina, ma un’altra,
una altra donna che non sarà mai sua, che non potrà essere mai sua,
perchè, ben lo comprendo, ora, ben lo comprendo, potrà dar la vita per
chi porta sul capo una corona regale, ma non si piegherà mai, mai a
divenire la sposa dell’amante di Sua Maestà! Non è vero, rispondete,
non è vero?

— È vero! — rispose Alma impallidendo.

— E per questo, per questo io ho avuto pietà di voi come di me stessa.
Per questo mi sono intesa accomunata a voi nella fatalità istessa.
Per questo io che ero gelosa di voi, di voi solo quando seppi che egli
vi amava fin dalla infanzia, io sento in voi ora le mie angosce e gli
odî miei! Compresi in quella notte in cui vi vidi trascurata, quanto
fatale fosse il fascino che avvincea lui a quella donna, quanto fatale
fosse per l’animo vostro, e mi faceste pietà, la pietà che sento per me
stessa!

— Quella donna è la Regina — mormorò lei — quella donna è sacra per
ogni suddito fedele. Dio le ha posto sul capo una corona: non tocca a
noi di giudicarla; tocca a noi, se occorre, di dare la vita per lei!

Stettero un pezzo mute e raccolte, pur non osando abbandonarsi al
sentimento che le spingeva una nelle braccia dell’altra. Troppa era la
distanza morale che le aveva separate fin allora per poter essere di un
tratto posta in obblio, quantunque il dolore le avesse accomunate.

Alma intanto, distratta sino a quel momento dalle parole di Vittoria,
era ripiombata nell’angoscia e nella trepidanza. Sentiva una grande
amarezza nel cuore al pensiero che forse tanto lui che la Regina
l’avevano dimenticata! Invano diceva a se stessa che essi ignoravano
al certo il luogo in cui si era rifugiato; lui, lui così ardito, lui
così incurante dei pericoli, lui famoso per le temerarie imprese, lui
usato agli stratagemmi di quella guerra d’imboscate, lui che era stato
il capobanda più temuto per l’occhio sicuro e la intuizione pronta,
sarebbe riuscito a rintracciarla, a toglierla da quel bosco se il suo
amore per lei glielo avesse imposto!

E una visione le stringeva il cuore, accendendola di sdegno: lui tutto
dato al piacere fra le braccia della Regina, dimentico e noncurante!

— Dormite — le disse Vittoria. — Io andrò fuori per assicurarmi se i
compagni stan vigili.

Si era alzata, quando udì un grido, al quale seguì lo scoppio di una
fucilata.

— Siamo assaliti, siamo assaliti! — esclamò Vittoria.

E ridivenendo la donna che era stata, a cui il pericolo, l’imminenza
della lotta infondevano una selvaggia energia, si slanciò sulle armi
che aveva posato in un canto.

— Non vi muovete checchè accada, non vi muovete! Saprò, se occorre,
morire per difendervi.

E si slanciò all’aperto, mentre alle prime fucilate altre ne seguivano
dal basso del colle e dall’alto dell’edificio, segno che la lotta si
era impegnata.

Alma era come intontita, dopo il primo spavento che l’aveva fatta
raccogliere in un angolo. Vedeva lampeggiare nelle tenebre le fucilate,
udiva qua e là delle grida, pur nel suo terrore comprendendo che
gl’Inglesi non avevano punto guadagnato terreno.

E per lei, forse, unicamente per lei quella gente si batteva, chè
facile al certo le sarebbe stato di fuggire, si batteva mentre la sua
Regina, e mentre lui l’avevano dimenticata!

E stava con gli occhi alla porta, aspettando con angoscia ineffabile
che vi comparisse qualcuno. E se gl’Inglesi brutali e crudeli
irrompessero in quel luogo, che ne sarebbe di lei, che ne sarebbe? Come
fuggire intanto, e dove fuggire?

Si era alzata quando le parve che la mischia si avvicinasse vieppiù,
avendo al certo gl’Inglesi dato l’assalto: si era alzata pur senza aver
coscienza dei suoi atti e si aggirava come smarrita per la stanzuccia
che la candela illuminava fiocamente, atterrita da alcune voci di
dolore che gemevano nelle tenebre e dal colpo secco di qualche palla
perduta che scalcinava le mura.

— Mio Dio, che muoia almeno, che muoia! — balbettava tornendosi le mani.

In questo un’ombra apparve sull’uscio; si fermò prima di entrare,
appoggiandosi al muro, poi varcò la soglia. Era Vittoria, con le vesti
a brandelli, livida in viso, che a stenti si reggeva in piedi.

— Saremo sopraffatti — disse affannosamente — saremo sopraffatti. Son
molti, son molti!.. Io... ho fatto quel che avevo promesso... ma non mi
avranno viva... non mi avranno...

Delle grida che venivano da uno dei lati dell’edificio la fecero
trasalire. Tese le orecchie, e usata a riconoscere la natura dei rumori
di una mischia, gridò trasfigurata in viso:

— Ci è giunto un soccorso... un soccorso. Gli Inglesi son presi alle
spalle... Non può essere che lui, lui, capitan Riccardo... Credo di
riconoscere il suo grido...

Parve che avesse acquistato nuovo vigore e si slanciò fra le tenebre.

— È ferita! — mormorò Alma. — Non si reggeva in piedi! Ah sì, certo il
suo grido le ha ridato le forze! È lui dunque, è lui, venuto per me,
venuto per...

Non ebbe il tempo di completare la frase: capitan Riccardo, Pietro il
Toro e Vittoria irruppero nella stanza.

— Non un istante da perdere! — gridò capitan Riccardo.

Pietro il Toro aveva preso in braccio la giovinetta e si era
precipitato sull’uscio, ma sostò nel veder che Vittoria, sostenuta da
Riccardo, si piegava non reggendosi sulle ginocchia.

— Ah — disse con un urlo di rabbia e di dolore — gl’Inglesi l’hanno
uccisa, l’hanno uccisa!

E senza lasciar la giovinetta tornò indietro, raccolse con l’altra
mano Vittoria sorretta da Riccardo, e con entrambe in braccio, come
se fossero state due bimbe, si precipitò fra le tenebre, seguito dal
giovane.

Tutto questo era avvenuto in un lampo.

La mischia fuori continuava, ma chiaro appariva che una delle parti
cedeva inseguita dall’altra, perchè i combattenti si erano sparpagliati
e i colpi scoppiettavano qua e là intorno all’edificio.

I fuggitivi eran giunti in un angolo che era tutto un cumulo di rovine,
sorpassate le quali avrebbero potuto dirsi in salvo.

— Lasciami — gridò Vittoria tentando di svincolarsi — lasciami, non
sono una femminuccia, io!

— Zitto — mormorò Riccardo — attireremmo il nemico.

Aveva appena ciò detto quando due o tre fucilate rimbombarono. Erano
stati scoperti, ma le tenebre avevano impedito che gl’Inglesi mirassero
giusto.

— A terra, Pietro, a terra! — disse Riccardo.

Pietro si lasciò cadere pur sostenendo fra le braccia Alma svenuta; ma
Vittoria si sciolse dalle braccia di lui.

— Ah! — urlò con una orrenda bestemmia. — Che muoia almeno come ho
vissuto uccidendo!

E si slanciò col coltellaccio in pugno verso il luogo donde erano
venuti i colpi ed ove al certo alcuni Inglesi erano appiattati.

— Va, Pietro — gridò Riccardo — va, io non debbo lasciarla sola. Va,
salva lei, salva lei, e aspetta mezz’ora al limite del bosco ove è una
croce, nel punto in cui ci fermammo con la lettiga.

A venti passi da lui la mischia si era ingaggiata tra Vittoria e i tre
o quattro soldati inglesi che di un tratto se l’erano intesa piombare
addosso. Ella colpiva sicura, mentre i soldati credendo di aver che
fare con parecchi combattenti non riconoscendosi nelle tenebre si
ferivano tra loro.

— Eccomi, eccomi, Vittoria, eccomi! — gridò Riccardo slanciandosi in
aiuto dell’amica. — Parla, dove sei, dove sei?

— Qui, qui, e grazie fratello, grazie!

La mischia continuò nel buio con grida soffocate, con bestemmie, con
imprecazioni; mischia feroce illuminata talvolta dal lampo di una
pistolettata, dopo il quale continuava nel buio più fitta. Infine
gl’Inglesi, o morti o feriti in parte dai loro stessi colpi, furono
sopraffatti: alcuni di essi fuggirono, mentre gli altri gemevano
sommessamente.

— Vittoria, Vittoria, dove sei? — gridava Riccardo che aveva colpito
rimanendo incolume.

— Muoio! — rispose la voce di Vittoria — muoio, ma son felice, felice
di morire!

Egli, guidato dalla voce, giunse dove la giovane donna era caduta e la
prese fra le braccia, folle di dolore.

— Salvati, salvati — mormorò lei. — Essi torneranno. I nostri son morti
o fuggiti. Essi torneranno e son molti... son molti...

— Con te! — rispose lui con accento di profondo dolore e di tenerezza
profonda. — Con te, sorella mia!

La prese in braccio, attingendo la forza dal suo dolore e si diede a
correre nelle tenebre verso il punto del bosco che aveva additato a
Pietro il Toro.

Intanto gl’Inglesi avevano acceso delle torce che spandevano una luce
rossastra e fumosa sul sommo della collina ove più micidiale era stata
la zuffa; e alcuni gridando e agitando le torce si dirigevano verso il
luogo in cui Riccardo e Vittoria avevano combattuto. Certo gl’Inglesi
accorrenti, avvisati dai compagni superstiti credevano d’aver che fare
con un gran numero di nemici.

— Sàlvati — diceva lei. — Io t’impedisco di sottrarti ad essi...
Sàlvati, ho pochi istanti di vita... lo sento...

— No, no — ruggiva lui sordamente, continuando a inoltrarsi nel buio,
attraverso gli alberi folti.

— Ti raggiungeranno... salvati... Io son felice... non voglio niente
più da te... son felice... Così sognavo di morire... così!

Continuavano a rimbombare le fucilate il cui lampo squarciava le
tenebre e per poco rischiarava il bosco. Egli sostenendo fra le
braccia l’amica sua che sentiva venir meno, passava attraverso fratte
e roveti, mentre dietro a lui strideva il fogliame sotto i passi
degl’inseguitori, indicati dalla fumosa luce delle torce. Capiva pur
troppo di non dover uscire dal bosco ove avrebbe potuto nascondersi,
mentre nell’aperta campagna sarebbe stato visto e raggiunto; capiva
pur troppo che gl’Inglesi ardevano di vendicare i compagni caduti,
ed egli sostenuto dalla speranza che non fossero mortali le ferite di
Vittoria, a costo della vita avrebbe voluto portarla in luogo sicuro
per prestarle le cure di cui aveva bisogno, e un tal luogo esser doveva
la villa reale ove gl’Inglesi non avrebbero osato di spingere le loro
ricerche.

Ma gli sarebbe stato possibile? Era risoluto, risoluto a lasciarsi
uccidere sul corpo della sua amica, sentendosi sopraffatto da una
tenerezza infinita per lei: non era amore, era qualcosa di più: un
sentimento fatto di gratitudine, di pietà, di ammirazione anche. Quella
donna il cui nome si proferiva con orrore, che aveva lasciato dietro
a sè una lunga striscia di sangue, gli si era rivelata in tutta la
magnanimità della sua abnegazione: aveva intravisto in lei delle virtù
forti e rudi di cuore e di carattere ed egli non voleva esser da meno
di lei.

— Soffri? — le chiedeva di tanto in tanto stringendola al petto
fraternamente.

— Sì, ma per te, per te che ti perdi.. Io, sono felice, così... fra le
tue braccia...

— Ti salverò, ti salverò — mormorava lui proseguendo ad inoltrarsi
verso il punto che aveva indicato a Pietro il Toro.

Continuava a sentirsi inseguito, ma per buona fortuna gl’Inglesi, che
esser dovevano in pochi, andavano or qua, or là, onde egli, quantunque
impedito a procedere speditamente pel peso di Vittoria, aveva un
vantaggio sopra essi.

— Siamo già presso alla croce — mormorò affannosamente — ma poi, ma poi?

Infatti aveva visto attraverso i rami degli alberi apparire in fondo
la lontana curva del cielo stellato, segno che era vicino alla libera
campagna.

Ma, e poi? Gl’Inglesi non l’avrebbero sopraggiunto, e la luna nuova che
era per sorgere non glielo avrebbe svelato? Ma non sarebbe caduto vivo
nelle loro mani; or che Alma era in salvo, egli aveva un sol dovere:
morire per quella donna che altra volta aveva rischiato per lui di
morire.

Era già presso il limite del bosco, a un cinquanta passi dagli
inseguitori di cui sentiva le voci irose che erano al certo delle
bestemmie, quando nel silenzio e nelle tenebre sentì una voce che lo
fece sussultare.

— Per di qui, capitan Riccardo, per di qui!

Riconobbe la voce di Pietro il Toro che era in fondo ad un fossato.

— Ed Alma? — gridò lui.

— Al sicuro, al sicuro! Ma scendete, presto! Ah, come foste bene
ispirato ad indicarmi questo luogo!

Intanto era sorta la luna nuova nella curva estrema del cielo e un velo
fioco di luce aveva alquanto diradato le tenebre.

— Ah — gridò Pietro il Toro allorchè vide che Riccardo sosteneva fra le
braccia un corpo che esser doveva al certo quello di Vittoria — morta
forse, morta!

— No, ferita... Ma zitto!... Gl’Inglesi m’inseguono... sono a cinquanta
passi da qui.

— Venite, venite... Ah, perdio, non son pruni pei nostri occhi essi!

Riccardo, usato a tutti gli stratagemmi degli scorridori comprese
in un lampo il disegno di Pietro. La strada maestra era attraversata
pel largo da un condotto per le acque piovane che di là da quel punto
scendevano giù per la rupe fino al torrente.

— Entrate, entrate, presto! — disse Pietro.

— Ma — osservò Riccardo colpito da un pensiero — gl’Inglesi vedranno
anch’essi la bocca di questo condotto e comprenderanno.

— E perciò io ne chiuderò la porta — rispose Pietro sghignazzando.

Un gran masso giaceva in mezzo al fossato. Pietro l’abbrancò e
rinculando lo trasse a sè con uno sforzo disperato.

— Ed ora — disse quando vide che il masso chiudeva l’entrata — ora
possiamo star qui al sicuro come se fossimo cinquanta palmi sotto
terra.

— E Alma... Alma? — chiese Riccardo.

— È là in fondo, povera creatura, là in fondo! Seguimi; ci è un po’ di
terra molle ove adagiare anche la povera Vittoria.

— L’ho detto sempre, Pietro — mormorò Vittoria — che tu eri nato per
fare la guerra!

— Pensa a star bene, pensa a guarire — rispose Pietro. — Ce la
prenderemo insieme la rivincita contro cotesti fantocci rossi. Zitto...
eccoli... Li senti sul nostro capo? Si son fermati... Sono scesi nel
fosso!... State sicuri, non basterebbero venti di essi a smuovere
quella pietra, anche se sorgesse a loro un sospetto!

Dal fondo del condotto penetrava un incerto raggio di luna. Riccardo
vide un’ombra giacente sul suolo: comprese che era Alma. Senza dir
parola depose Vittoria vicino alla giovinetta.

— Non una parola — disse Pietro con voce soffocata. — Sento che
gl’Inglesi sono ancora sulla via, proprio sul nostro capo... Certo
cercano di spiegarsi la nostra sparizione.

Si era accorta Alma di Riccardo e di Vittoria? Il suo smarrimento,
anzi il suo intontimento era tale dall’istante in cui Riccardo era
sopraggiunto per portarla via, che aveva perduto ogni percezione del
tempo. Si era abbandonata agli avvenimenti, rassegnata a tutto, come se
la fatalità della quale era vittima fosse un caso ordinario della sua
vita. Non si fermava neanche a considerare l’orrendo contrasto tra la
sua condizione sociale e quell’avventura che l’avrebbe ferita nel suo
onore di fanciulla, nella sua dignità di donna se non fosse rimasta
occulta.

È vero però che ella aveva obbedito a colei che Dio aveva fatto sua
signora e padrona, alla Regina, alla quale aveva l’obbligo ineluttabile
di sacrificarsi: nello smarrimento era questo il pensiero che ritrovava
nel ripiegarsi su sè stessa.

Ma un altro, un altro pensiero le aveva attraversato la mente e di
tratto in tratto tornava a stringerle il cuore. Per lei o per Vittoria
Riccardo era accorso? E perchè egli era rimasto ad affrontare i
pericoli della mischia mentre lei era portata via da Pietro?

Intanto il chiarore dell’alba era penetrato per l’angusto sbocco del
breve acquedotto. Quando il viso livido di Vittoria che giaceva supina
con gli occhi chiusi, le labbra scolorite fu appieno rischiarato,
Riccardo che finallora si era tenuto in un canto silenzioso, si alzò
spaventato.

— Vittoria — gridò — Vittoria... parla, che hai?

Al suo grido Alma si era sollevata a sedere e fu colta da un brivido
nel vedere sordide di sangue le vesti della giovane donna. Le tenebre
finallora avevano celato le ferite di quel corpo, il lividore di quel
volto.

Riccardo la contemplava ammutolito, mentre Pietro le si era
inginnocchiato vicino, mormorando con voce soffocata dai singhiozzi,
bestemmiando e gemendo insieme:

— Ah, maledetti, ah maledetti! Vittoria, apri gli occhi, Vittoria! Ed
io che mi ero lusingato nel sentirmi lodare! Ferita al petto!... Lo
conosco, lo conosco cotesto rantolo!

Invero ella aveva aperto gli occhi ma il respiro le gorgogliava
nella gola: i grumi del sangue ostruendo la ferita avevano ritardato
l’agonia. Aprì gli occhi che si fissarono su Riccardo con una
ineffabile espressione di riconoscenza e di passione; poi sorrise a
Pietro il cui viso rozzo e massiccio aveva una solenne espressione di
dolore. Stentatamente stese la mano per cercare quella di Alma che le
si era fatta vicino e la guardava sconvolta.

— Avrei voluto... morire così... — disse con voce affannosa, rotta
dai rantoli. — È stata tutta un turbine la mia vita... un turbine di
sangue... di delitti... Io mi credevo nata per la strage... nata per
l’infamia... Non era vero, non era vero!.... Quando ti vidi, Riccardo,
intesi come se ad un tratto... balzasse fuori un’altra donna... che io
non conoscevo... Sarei morta dannata... non avrei chiesto perdono al
buon Dio... dei miei delitti... dei miei orrendi delitti... Se... se tu
Riccardo non fossi venuto...

Tacque chè il rantolo le soffocava le parole. Chini su lei, quei due
uomini da lungo tempo familiarizzati con la morte, quella giovinetta
la cui vita era stata tutta una festa, si sentivano accomunati dalla
solennità dell’ora.

Per un sentimento di suprema delicatezza tanto Alma che Riccardo
evitavano di guardarsi e di rivolgersi la parola. Alma si era
avvicinata vieppiù alla morente, ed avendole messo il braccio sotto
la testa la teneva stretta a sè, contemplandola con gli occhi gonfi di
lagrime.

Nel riaprire gli occhi la morente comprese l’atto affettuoso: ebbe
negli occhi che già la morte velava, un lampo di gioia profonda.

— Grazie — mormorò con un sorriso. — Vuol dire che Dio mi ha
perdonato... Ma ho una colpa... una grave colpa da confessare a voi...
a te, Riccardo, ed anche a te, Pietro... Frugate nella tasca della mia
giacca... vi troverete una carta... Datemela.

Pietro il Toro che lagrimava silenziosamente, ubbidì alle parole di
Vittoria: ma quando dalla tasca interna della giacca di lei trasse
una carta ingiallita e logora dal tempo, macchiata qua e là di sangue,
trasalì come se l’avesse riconosciuta.

— Ah diavolo, diavolo! — non potè trattenersi dal mormorare.

— Te l’ho rubata io... un giorno... — disse lei con un vago sorriso —
quando tu mi parlasti del... del matrimonio del duca di Fagnano.

Riccardo che ascoltava tutto immerso nel suo dolore, credendo che
quelle parole fossero un effetto del delirio, alzò il capo al nome del
padre suo.

— Non vi affaticate — mormorò Alma, anche lei credendo che la moribonda
fosse in preda al delirio, mentre l’attirava vieppiù a sè ond’ella
potesse riposare con più agio.

— No, no, non mi affatico... anzi mi fa bene... Morirò più tranquilla...

— Non morirete; la vostra fibra robusta vincerà...

Ella, che aveva chiuso gli occhi, li riaprì, e scuotendo il capo:

— No, no: ne ho viste delle ferite simili... eppoi Pietro che se
ne intende ha creduto inutile financo di fasciarmi... Dunque, prima
che io muoia... do a voi, buona creatura, questa carta che è l’atto
matrimoniale del duca di Fagnano... lo do a voi perchè... la diate a
lui... per esser riconosciuto.

In ciò dire porse ad Alma la carta che Pietro le aveva tolto dall’abito.

— Voi — continuò la moribonda con voce che sempre più si affievoliva —
voi potrete esser felici se perdonate a lui come perdonate a me... Ha
subito il destino, ma io ho letto bene nell’anima sua... e so, so...
che egli vi ama... Bisogna però che quella donna vada via... quella
donna per la quale tanti son morti laggiù! Ah, avrei voluto morire
laggiù, fra i miei boschi... i miei morti... ma vicino a voi, così!...

Il rantolo diveniva vieppiù insistente; già le forze erano per
esaurirsi. Ella volgeva i tardi occhi ora a Riccardo, ora ad Alma con
una espressione ineffabile. Poi, come assalita da un subito pensiero,
si rivolse alla giovinetta e le disse con un filo di voce:

— Se la sapete l’Ave Maria, dite l’Ave Maria... Son dieci anni che non
ho pregato e non ho sentito pregare!

La giovinetta le si appressò vieppiù e si diede a mormorare l’orazione.
Il viso della moribonda parve che al suono di quelle dolci parole
si abbuiasse atterrito; ma dopo un istante aprì gli occhi e, come se
fissassero una visione, a poco a poco gli occhi sorrisero, le labbra
sorrisero, un’aria di pace, di serenità le si diffuse pel volto.

— Madre mia... madre mia!... — mormorò.

La voce finì in un sospiro e il capo le ricadde sul braccio di Alma.

— Morta! — gemette Riccardo che le teneva fissi gli occhi negli occhi e
ne aveva prese le mani fra le sue.

— Uccisa dagl’Inglesi, dagl’Inglesi! Ah, maledizione all’anima mia! —
gridò Pietro il Toro sconvolto.

La giovinetta, che si era levata in ginocchio, disse con voce solenne:

— Preghiamo per la salvezza di questa povera anima che è volata a Dio
pentita e fidente nella sua misericordia!

I dire uomini, in ginocchio anch’essi, piegarono la testa e pregarono
sommessamente.

Un’ora dopo, essendo già alto il sole, Riccardo ruppe pel primo il
silenzio e disse rivoltosi a Pietro il Toro:

— Ieri nel ricevere il messo che m’indicò dove avrei potuto trovarvi,
ordinai che una carrozza si tenesse pronta presso il fondaco che è a
mezz’ora da qui. Bisogna che uno di noi vada ad avvisare il cocchiere
perchè qui la conduca.

— Vado io — disse Pietro il Toro.

Alma intanto si era tolto il mantello e ne veniva coprendo il cadavere
di Vittoria. Alla risposta di Pietro alzò gli occhi in viso a Riccardo
che era rimasto perplesso. Comprese che aspettava il suo assenso per
lasciar partire Pietro, temendo che a lei dispiacesse di restar sola
con lui.

— Grazie, cugino — gli disse — di aver provveduto e quanto mi è pur
necessario, chè davvero non mi reggo. Andate, Pietro, ed è inutile vi
raccomandi di usar prudenza.

— Prudenza, prudenza! — borbottò il vecchio scorridore. — Glielo vorrò
far scontare, se li incontro, il sangue di quella povera donna!

Volse gli occhi lagrimosi al cadavere di Vittoria, poi dopo aver
rimosso l’enorme pietra scese sul greto del torrentello, guardò da ogni
parte la sovrastante via maestra e vide che era deserta.

— Povera Vittoria! — disse incamminandosi per un sentieruolo che saliva
sulla strada. — Forse la sua morte ha fatto un gran bene a capitan
Riccardo. Lei, dunque, lei aveva preso quella carta per trent’anni da
me custodita con tanta cura? Ed io che aveva mandato tante bestemmie
e tante imprecazioni al ladro! Va a non credere a quel che dicono i
nostri vecchi, che le bestemmie e le imprecazioni colgono, colgono
quando ci si mette dentro la mala intenzione! Ah se l’avessi saputo,
non avrei imprecato così, povera Vittoria!

Riccardo nel sentirsi chiamare cugino da Alma, quantunque profondamente
afflitto per la morte di quella povera donna, aveva inteso nel cuore
come un’ondata di gioia. Non era soltanto il riconoscimento del suo
diritto, era per lui qualcosa di più, il riconoscimento del legame che
li avvinceva.

È vero che una fatalità inesorabile pesava su entrambi: i suoi rapporti
con la Regina; ma se tali rapporti impedivano che il suo amore, il
suo unico e vero amore fosse coronato da un lieto fine; se non si
sentiva il coraggio di spezzarli per non abbandonare colei che era
stata da tutti abbandonata, oramai poteva dirsi sicuro che Alma lo
amava, quantunque non osasse confessarlo. Lo amava, e forse comprendeva
pur troppo che egli per aver ceduto al fascino di un istante si
trovava impigliato in quei rapporti che la ferivano nel suo pudore di
fanciulla, e pure essendone gelosa senza averne il diritto, le facevano
sentir vergogna di tale gelosia!

Essi si tenevano immobili senza scambiar parola, ciascuno nel luogo
ove prima stava. Tra lui e lei vi era quel cadavere, ond’ella sentiva
custodita il suo pudore ben più che se si trovasse in mezzo ai valletti
ed alle cameriere della Corte. Volgeva di tanto in tanto lo sguardo
alla morta con una pietà profonda, sentendo come acuito il suo amore
per Riccardo.

Quanto l’aveva amato quella poveretta, tanta benefica influenza aveva
su lei esercitato quell’amore a cui attribuiva la gentile soavità degli
ultimi istanti di colei che era stata sì crudele e sì feroce, a cui
attribuiva anche il pentimento che nell’ultima ora aveva dato al viso
di lei un’impronta di rassegnata dolcezza! Dunque ben degno dell’amor
suo esser doveva quell’uomo, pel quale una regina era scesa dal suo
trono e un’avventuriera era morta beata del di lui compianto!

Forse anche influiva la prova irrefutabile che egli era il legittimo
figlio del duca di Fagnano, il vero signore e padrone dei domini che
il padre suo aveva usurpato, a farle sentire con più violenza, con più
deliberato proposito quell’amore che fino a quel giorno era stato un
sentimento vago, fluttuante nel suo cuore di giovinetta. Per la prima
volta ne subiva tutto il fascino, per la prima volta si sentiva pervasa
da un turbamento del tutto nuovo in lei. E rievocava le impressioni di
un tempo, quando si era accorta con superbo disdegno che egli, misero
trovatello allora, la contemplava con occhi estasiati, e si spiegava
adesso perchè, anche in quel superbo disdegno, ella in fondo sentisse
come una vaga compiacenza di essere contemplata così. Ci era dunque
qualcosa in lui che la interessava incoscientemente, che vinceva il
pregiudizio, che giungeva fino a lei pure attraverso l’immane distanza
che separava la figliuola del duca di Fagnano dal miserabile e meschino
contadinello!

E l’una e l’altro erano in questi pensieri che si incontravano per
confondersi di sopra al cadavere freddo, stecchito della povera
Vittoria.

Fu lei la prima a rompere il silenzio. Prese la carta che Vittoria le
aveva dato e porgendola al giovane disse:

— Questo documento conferma inappellabilmente il vostro diritto, signor
duca di Fagnano.

Egli fece un gesto come per respingerla.

— Custoditelo voi, cugina — disse con un sospiro. — Il mio diritto non
può venirmi che da voi, ma so bene che voi non varcherete mai l’abisso
che ci separa per una fatalità alla quale nessuno di noi può sottrarsi,
oramai! Il giorno in cui mi occorresse, ve lo chiederei.

— Nè io nè mio padre vorremo d’oggi innanzi portare un titolo che non
ci spetta! — rispose lei.

— Voi lo porterete perchè siete del mio sangue, lo porterete per
evitare che i Francesi considerandolo come un’eredità giacente ne
investano qualcuno indegno di portarlo. Voi non fate solo a me cosa
grata, a me che un giorno o l’altro finirò come è finita quella
poveretta, ma ai nostri padri che ci fan l’obbligo di non lasciare
spegnere il loro nome!

Ella arrossì a tali parole. Pure vincendo se stessa alzò il capo e
figgendo gli occhi negli occhi del giovine:

— Io mi chiuderò in un convento! — disse con tale espressione di
risolutezza e di convinzione nello sguardo che egli ne comprese tutto
l’amaro significato. Era per prorompere quando Pietro il Toro apparve.

— Presto — disse — presto. La carrozza vi aspetta.

Ella si alzò, ma Riccardo ancora perplesso per le parole di lei non
aveva risposto a Pietro.

— Capitan Riccardo — disse questi — ora la strada è deserta e la
carrozza potrà percorrerla sicura di non fare cattivi incontri, ma non
garantisco se più oltre s’indugia....

Riccardo fece un segno di assenso; poi s’inginocchiò presso il cadavere
di Vittoria, sollevò il panno che ne copriva il volto e stette un
istante a contemplarla. Gli occhi velati dalla morte avevano come una
vaga dolcezza, il viso era improntato ad una tristezza serena.

— Eri nata per la fede, eri nata per l’amore, povera creatura! — disse
Riccardo con voce di pietà e di dolore. — Dio ti avrà perdonato perchè
avrà ben letto in fondo all’anima tua!

Si chinò per baciarle la fronte gelida e bianca: nel risollevarsi vide
che Alma aveva colto alcuni fiori silvestri dal roveto che era presso
allo sbocco dell’acquedotto.

— Voi siete fatta di bontà e di dolcezza — disse lui commosso,
comprendendo il perchè di quei fiori.

Ella depose i fiori sul seno della morta. Poi, dopo avere alquanto
esitato, si chinò di nuovo, prese uno di quei fiori e lo porse a
Riccardo.

— Grazie! — esclamò lui, baciando la mano che glielo porgeva. — Sì, sì,
sia il perdono... se non è la speranza!

Mentre erano per uscire, vedendo che Pietro, il quale si appoggiava ad
un badile, non li seguiva, Riccardo gli disse:

— E tu, Pietro, non vieni?

— Io resto qui per seppellirla! — rispose Pietro con le lagrime nella
voce.




IX.


Era parso a tutti cosa assai strana, anzi un capriccio inesplicabile
quello del vecchio Re d’invitare a un ricevimento nel parco della
Ficuzza la nobiltà palermitana e gli ufficiali inglesi con le loro
famiglie, e la meraviglia era stata maggiore quando si seppe che anche
la Regina sarebbe intervenuta per dimorare poi due o tre giorni nel
reale eremitaggio, come veramente avrebbe potuto dirsi la villa della
Ficuzza.

Alla Regina quell’invito era parso ben singolare, ma il Re le aveva
scritto con tanta premura e le aveva fatto intravedere tale un mistero
in quel suo invito che ella si era decisa ad andare, tanto più che
tutte le sue macchinazioni volgevano alla peggio.

I Calabresi erano stati dispersi; alcuni che si erano lasciati prendere
non avevano negato di aver ceduto agli adescamenti di un emissario
di lei; la congiura dell’Arciconfraternita di San Paolo era stata
sventata, e la sommossa della plebe palermitana per l’aumento della
tassa sui grani sedata dagl’Inglesi che avevano avuto un rinforzo
di due reggimenti. Bisognava dunque aspettare il risultato delle sue
offerte all’imperatore Napoleone, che occupato nei preparativi per la
spedizione di Russia, non aveva ancora risposto.

La fatalità aveva preseduto a tutta la sua vita, ma ella non rinunciava
a continuar nella lotta; anzi vieppiù gli ostacoli, i rovesci, le
delusioni la intestardivano nei suoi disegni. Comprese che si diffidava
di lei, che essa era un pruno negli occhi non solo degl’Inglesi, ma del
marito e dei figli, che se avessero avuto una sola inconfutabile prova
dei suoi raggiri, delle sue macchinazioni, l’avrebbero obbligata a
lasciare la Sicilia!

Mordeva dunque il freno, dissimulando però innanzi ai familiari le sue
ire che la facevano vivere in un continuo orgasmo. Solo Alma e Riccardo
bene leggevano nella torbida anima di lei che passava le giornate in
una irrequietezza senza posa che talvolta l’abbatteva, tal’altra la
faceva prorompere in lamenti e in sospiri, per ridivenir muta, tremante
in tutta la persona mentre si mordicchiava il labbro fino a farlo
sanguinare.

Alma, dopo la dolorosa avventura toccatale, era stata accolta da
lei con una espansione per dir così sospettosa, come se a stento
dissimulasse un cruccioso pensiero. Quantunque il vederla in salvo
fosse stato per lei un gran sollievo, che se ad Alma fosse capitato
qualche sinistro non avrebbe saputo come giustificarsi non solo col
duca di Fagnano ma anche con la nobiltà tutta che l’aveva seguita in
Sicilia, pure le era di gran tormento che ella dovesse a Riccardo la
salvezza, ricordando le premure del giovane e sentendo vieppiù acuire
il sospetto ch’egli l’amasse. Ma non osava apertamente rimproverarla
comprendendo quanto odiosa sarebbe stata la sua ingratitudine poichè
per lei Alma si era esposta a tanti gravi pericoli; per lei aveva
vissuto per sei giorni in un bosco in compagnia di rozzi avventurieri;
per lei una delle più nobili fanciulle del Regno aveva rischiato di
cader preda di brutali soldati. Quale dunque esser non doveva la sua
gratitudine?

Ma la gratitudine era come soffocata dalla gelosia, ma la gelosia le
mordeva il cuore come un rimorso! Ma la fatalità che faceva abortire
ogni suo disegno non era stanca di perseguitarla! Ah, come si sentiva
sola, contro tutti, sola contro il destino, sola contro l’amore,
quell’ultimo amore della sua vita, al quale invano ella chiedeva un
conforto; invano, perchè aveva incominciato a leggere nel cuore di
Riccardo ed a comprendere che solo la pietà lo teneva ancora avvinto a
lei!

La pietà! Ella, la figlia di un’imperatrice, la nipote di quegli
imperatori che avevano ereditato da Dio il diritto al dominio, che
erano i continuatori dei Cesari; ella, la Regina di due Regni, vilipesa
come regina, umiliata come donna, sempre più, sempre più sprofondando
nell’abisso di ogni miseria!

Alma, dacchè era tornata, attendeva al suo servizio freddamente e quasi
austeramente tranquilla, evitando d’intrattenersi troppo nelle camere
della Regina, la quale non le rivolgeva che ben di rado la parola,
grata alla giovinetta di quel riserbo che metteva un distacco nei loro
cuori.

Ma ciò che le riusciva amaro, ciò che la umiliava vieppiù era il
contegno ossequioso di Riccardo che, quantunque ella lo avesse fatto
riconoscere come suo scudiere, non compariva nella villa reale che solo
nelle ore in cui servi e valletti ne popolavano le sale. Pure ella non
poteva nulla rimproverargli; d’altra parte era così ferita nel suo amor
proprio di donna che della sua freddezza non voleva dolersi, quantunque
più volte fosse stata lì lì per prorompere!

È vero però che talvolta si faceva delle illusioni, che il rispetto e
la prudenza gl’imponessero una tale riserva, anche perchè se con lei
si teneva nel contegno di un gentiluomo i cui rapporti con la Sovrana
non fossero più intimi di quanto il comportasse l’ufficio che aveva
in Corte, non meno severo era il contegno che serbava con Alma; e per
quanto invigilasse con occhi gelosi non aveva potuto sorprendere nè un
gesto, nè una parola, nè un sorriso che avessero potuto confermarla nei
suoi angosciosi sospetti.

Pure sentiva che Riccardo non era più quello di un tempo; sentiva che
Alma era crucciata da un occulto pensiero. Che cosa era avvenuto tra
quei due mentre egli la riconduceva nella villa reale? Che gli aveva
detto lei dopo essere stata messa in salvo? Quale influenza aveva avuto
sul cuore della giovinetta l’intervento di Riccardo, che sol per lei
aveva sfidato il pericolo di cadere in mano degl’Inglesi?

E il pensiero le ondeggiava tra la rovina di tutti i suoi disegni e
i pericoli vaghi, indefiniti del suo amore per Riccardo. Il silenzio
dell’Imperatore non le riusciva più esasperante del contegno che
serbavano quei due giovani! Forse se Riccardo non le avesse ingenerato
dubbi e paure, meno angosciosi sarebbero trascorsi quei giorni in cui
più immane aveva inteso il pondo della fatalità, di quella fatalità che
da dieci anni pesava su lei!

Bisognava dunque che ella sapesse; bisognava dunque che ella
costringesse Riccardo a svelarle tutta l’anima sua; bisognava che ella
riafferrasse l’amante che le sfuggiva!

Era l’ultimo suo amante: e l’ultimo amante si ama con una furia di
possesso: l’ultimo amore è fatto di tutti i ricordi, di tutte le
fiamme, di tutti i dolori e di tutte le gioie degli amori che lo
precedettero in un cuore di donna. Ella era in quell’età in cui la
donna o non ama più o ama col delirio di tutto l’esser suo: ella era in
quell’età in cui la donna si afferra all’ultimo amante come il naufrago
allo scoglio, anche se vi debba morire per gli urti della tempesta. Di
tutta la sua vita avventurosa di donna e di regina era quello l’ultimo
avanzo, ed ella vi si afferrava disperatamente come all’unico sostegno
del cuore trambasciato!

Oramai non aveva che una realtà e una illusione: l’amore di Riccardo,
come donna; l’intervento dell’imperatore Napoleone negli affari di
Sicilia come regina.

Risoluta ad assicurarsi di non aver nulla perduto nel cuore di
Riccardo, sperando che il suo riserbato e severo contegno fosse dovuto
unicamente alla presenza di Alma che dormiva nella camera attigua alla
sua, aveva fatto dire al nuovo scudiere di andar da lei che aveva gran
bisogno di parlargli. Lo aveva ricevuto nel gabinetto ove spesso si
ritirava, e facendolo sedere a lei vicino gli aveva detto:

— Parla, ora che nessuno ci ascolta: fa che io legga nell’anima tua.
Perchè tu eviti di restar solo con me? Perchè mi hai costretta ad
imporre che nessuno entri qui onde tu possa libero parlarmi? Perchè
non hai compreso che io, ogni notte, ti aspetto invano invano, e quasi
perchè non possa fissarti il luogo e l’ora tu ricorri alle astuzie, ti
fingi inconsapevole di quel che mi logora il cuore?

Egli aveva ascoltato impassibile, non venendo meno all’austerità del
contegno. Pure rispose con accento di un’ossequiosa fermezza:

— Io ho dedicato la mia vita a Vostra Maestà, anche se essa debba
trascorrere, come trascorre, nell’ozio vergognoso... Vergognoso, sì,
che non sa a che cosa possa oramai servire il mio braccio, il mio
cuore, il mio coraggio se non a marcire in una inazione che mi umilia!
A capo della mia banda, io ero un soldato di Vostra Maestà; qui che
cosa sono io se non.. quel che leggo nel perfido sorriso dei familiari?

— Ah — disse lei prorompendo — allorchè si hanno di questi scrupoli non
si ama più, non si ama più!

In questo fu picchiato alla porta ed una voce disse:

— Un corriere di Sua Maestà il Re.

Ella si alzò di botto.

— Un corriere del Re, un corriere del Re? Che cosa è accaduto dunque? —
esclamò impallidendo.

— Che Vostra Maestà non indugi a riceverlo — disse Riccardo che si era
avvicinato alla porta per aprirla. — Pare anche a me che debba essere
apportatore di qualche grave notizia.

— Aprite ed introducetelo — rispose lei tornando a sedere, imponendosi
ma invano di rasserenarsi.

— Il Re nostro signore — disse il corriere avanzandosi e porgendo alla
Regina una larga lettera dai suggelli rossi in un vassoio d’argento
— mi ha ordinato di dire a voce a Vostra Maestà che non metta alcuno
indugio a recarsi alla Ficuzza ove l’aspetta impaziente.

La Regina intanto aveva aperto la lettera e leggeva con espressione
di stupore come se non giungesse a darsi spiegazione del contenuto di
essa.

— Va bene, andate — disse poi al corriere, gittando la lettera sullo
scrittoio.

— Se Vostra Maestà vuol restar sola... — disse Riccardo.

— No, no, restate voi, restate.

Il corriere uscì.

— Sapete che contiene quella lettera? — disse la Regina. — L’invito
ad una festa che il Re dà alla Ficuzza, alla nobiltà palermitana:
un invito fatto in tali termini che mi obbliga per prudenza ad
accoglierlo.

— Vostra Maestà fa bene: impedirà così le malignazioni dei suoi nemici.

— Ah — gridò lei fulminandolo dello sguardo — tu ne godi quasi, tu ne
godi perchè non sarai costretto più ad infingerti meco, perchè tu non
potrai seguirmi e sarai quindi libero di te stesso, libero nei tuoi
amori con...

Egli impallidì, ma il suo sdegno fu vinto dalla pietà per quella donna
che appariva convulsa. Fece un gesto come per respingere quell’accusa;
ma ella non gli diede il tempo di scolparsi e continuò accesa in volto,
con le labbra tremanti e la voce roca per la collera:

— Non è, non è la dignità tua, umiliata per l’inazione, non è il
perfido sorriso dei miei familiari che ti fa così perplesso a me
dinanzi, che ti tiene da me lontano, che ti fa evitare di restar solo
con me, onde tu non debba negarti ad un mio invito. È ben altro, ben
altro! A che mentire, a che cotesta tua ipocrisia, a che? Credi tu
che io non ti legga nel cuore, che non penetri nel segreto dell’anima
tua e... e di colei, di colei che è la mia più fiera nemica ora? Tu
resterai qui, con lei, e mentre io sarò lontano.. No, no per Iddio, no!

— Io sarò — rispose lui — dove Vostra Maestà vuole che sia.

— Verrai con me alla Ficuzza? — chiese lei con voce incerta, la
remissività di lui incominciando a calmarla.

— Se Vostra Maestà me l’ordina... Rifletta bene però che la mia
presenza potrebbe esser interpretata malignamente. Il mio grado di
scudiere se è riconosciuto qui non sarebbe riconosciuto altrove...

— È vero. Ma dunque solo per questo tu non vuoi venire? Senti — disse
poi facendo uno sforzo per dominare sè stessa — non chiedermi qual
sia il sentimento che a te mi lega... Io non lo so, non lo so bene
e se anche il sapessi, risparmia una confessione a me, misera donna,
misera in proporzione di quanto esser dovrei glorificata, umile per
quanto dovrei esser superba! Avrò peccato in vita mia, ma l’espiazione
è crudele, crudele quanto tu non immagini! Veggo crollar tutto a me
d’intorno, tutte le mie speranze, tutte le mie illusioni. In questa
guerra impegnata da me sola contro tutti credevo di avere almeno Dio
pel mio diritto, Dio per vendicarmi, Dio nel quale riponeva tutta la
mia forza. Ebbene, io fidavo in te, in te che mi sfuggi, in te che
solo il dovere forse, solo forse un sentimento di generosità, di pietà
tiene ancora qui. E sono io, io la tua Regina che così ti parla, che
così t’implora, colei che fece cader cento teste superbe, e che osò
combattere sola contro il genio di Napoleone Bonaparte!

E nel dir ciò gli occhi di quella donna erano bagnati di lagrime,
lagrime spremute dalla tempesta che le infuriava nel cuore, onde egli
ne fu commosso pur non sentendosi di nulla colpevole.

Comprendeva bene ciò che ella avrebbe voluto: lo avrebbe voluto più
premuroso, fors’anco più avventato nel cercar di penetrare fino a lei,
anche a costo di affrontare uno scandalo. Più che l’amore il dispetto
la rendeva così convulsa, bene ella comprendendo che la presenza di
Alma lo aveva reso così prudente, se era prudenza la sua, e non ritegno
di continuare negli antichi rapporti quasi sotto gli occhi di quella
giovinetta che era l’unico suo amore!

Sperando di volgere il discorso su un soggetto meno doloroso e meno
imbarazzante per lui le disse:

— Vostra Maestà dunque andrà dal Re?

— Sì — rispose lei — è necessario: il tono della lettera mi fa
comprendere che vi sia qualcosa in aria. Una tale festa asconde un
mistero che debbo penetrare...

Poi divenendo dolce e carezzevole, gli si avvicinò, gli mise una mano
sulla spalla e gli disse sommessamente:

— Colà sarò più libera di qui, forse. So l’appartamento che mi
riserva... Una porta della mia camera dà in un giardino... Hai
compreso?

Si stringeva a lui in dire ciò con gli occhi accesi e le labbra
tremanti: ei sentiva in sè le vibrazioni di quel corpo bello e caldo di
passione:

— Sì — le rispose, mentre ella lo attirava a sè.

— Ti terrai nelle vicinanze — continuava a dire con le labbra sulle
labbra di lui — e verrai verso la mezzanotte. Io ti aspetterò come...
come ti ho aspettato invano qui tante notti, tante notti..

Egli l’aveva presa fra le braccia sentendo come un rimorso. Era
quella la Regina, la formidabile sovrana che dieci anni innanzi aveva
insanguinato Napoli, la donna feroce che non aveva avuto mai sensi di
pietà? Era proprio lei così supplichevole, così umile, così trepidante?
Ne sentiva quasi rimorso: per lui era divenuta così vile, così
ondeggiante, così immemore di sè?

— Verrai, dunque, non è vero, verrai?...

— Sì, sì, verrò — rispose lui pervaso come le tante altre volte dal
fascino fisico di quella donna e dalla pietà insieme.

— Me lo giuri?

— Lo giuro, verrò.

— Staremo soli, sta sicuro: qui, lo comprendo, siamo troppo spiati...
Quella ragazza... quell’Alma infine, dormirà lontano da me...
lontano... Perchè ti turbi, perchè?...

— No, no. Gli è che temo, non per me, non per me!

— Chi teme non ama, ed io di nulla temo, io. Perchè temi tu, dunque?
Il Re!... Ah, il Re non verrà certo nella mia camera... Io sarò sola:
intendi tu? sola!...

Quando Riccardo andò via ella diede in un sospiro di sollievo. Lo aveva
riconquistato dunque? Per sempre, per sempre?

Era questo il dubbio che ancora la pungeva, dal quale ancora sentiva
attenagliata l’anima! Che doveva fare di più per impedire che le
sfuggisse, per evitare il pericolo onde era minacciata?

Il pericolo era Alma. Alma nel cui cuore aveva ben letto la passione.
Bisognava dunque allontanarla quantunque fosse la sola amica
rimastale fedele. Ma sarebbe bastato? No, no, se egli la amasse fino
a dimenticare i suoi giuramenti, le sue promesse! Quale ostacolo si
sarebbe frapposto tra lui e lei or che egli era il vero, l’unico erede
del titolo e del feudo dei duchi di Fagnano?

Un pensiero, un terribile pensiero le attraversò la mente.

— No, no — proruppe come per respingere violentemente un tal terribile
pensiero. — Egli non mi perdonerebbe, non mi perdonerebbe!

Partire e costringerlo a seguirla, partire per andare altrove a
rannodare le fila del disegno pel ricupero del trono e del potere
regale, partire con lui! Questo, questo era l’unico mezzo per
scongiurare il pericolo: partire per ritornare poi trionfatrice, per
ritornar poi la sovrana assoluta.

La promessa di Riccardo aveva fatto risorgere in lei le speranze,
aveva dato nuovo vigore al suo spirito. Il disegno che le era balenato
di lasciar la Sicilia per andare altrove a sostenere i suoi diritti
era bastato ad infonderle nuovo vigore. Ma esser poteva sicura della
riacquistata serenità che un nonnulla bastava a turbare, così le tante
disavventure resa l’avevano incerta e trepidante?

Intanto ella aveva dato gli ordini, e dopo un’ora la Regina ed Alma
erano in viaggio per la Ficuzza.

Sua Maestà la Regina era stata ricevuta con tutti gli onori che le
si dovevano: Ferdinando IV l’aveva stretta al cuore con insolita
espansione e l’aveva accompagnata nell’appartamento destinatole
ove ella, stanca del viaggio, aveva voluto restar sola. Era proprio
l’appartamento che aveva indicato a Riccardo, alcune delle cui porte si
aprivano su un giardino lussureggiante di fiori.

Era stato quello il suo primo pensiero, appena rimasta sola, e con una
profonda gioia nel cuore aveva visto che ben facile sarebbe stato a
Riccardo lo scalare il cancello che si apriva in un sentiero del parco.
Ella avrebbe lasciato aperta l’imposta allorchè il silenzio profondo
fosse stato indizio che tutti dormivano nella dimora regale.

Intanto giungevano i convitati al gran pranzo, coloro cioè che
avrebbero dovuto pernottare nella villa per prender parte alla
caccia del mattino la quale doveva precedere la festa campestre. Fra
gl’invitati erano anche lord Bentinck e alcuni dei più ragguardevoli
ufficiali inglesi. Grande era l’affaccendarsi dei servi e dei
cerimonieri che dovevano provvedere agli alloggi di tanta gente, sicchè
un insolito movimento regnava nella regale dimora, di consueto così
tranquilla e silenziosa.

Alma appena scesa di carrozza aveva scorto tra un gruppo di
gentiluomini suo padre, che le fece un lieve cenno di saluto, non
permettendo l’etichetta di più; ma quando la Regina l’accomiatò per
restar sola, ella chiese ad una delle cameriste che l’accompagnasse
all’alloggio del duca di Fagnano.

Il quale, attendendo alla sua toeletta pel pranzo, aspettava sua
figlia. Appena ne ebbe l’annuncio le corse incontro tutto festoso.

— Ah figlia mia, figlia mia, bisogna pure che te lo dica: io non posso
più oltre vivere da te lontano. Già... fra giorni, se quel che si dice
è vero, tu mi sarai restituita. L’amore pel Re, il dovere per la Regina
sono una bella cosa, ma infine, quando si ha un padre, che fuor di
sua figlia non ha nessuno al mondo... Ma ripeto, ho una speranza, una
speranza che, senza che tu venga meno a quel che tu dici il tuo dovere,
potrò riaverti!

— Io non intendo, padre mio — disse Alma, la quale comprese che il
vecchio duca le occultava qualcosa di grave.

— Non comprendi? Eppure tu devi sapere molte cose tu. Puoi negare —
disse poi con voce sommessa e sedendole vicino — che... che Sua Maestà
ha commesso delle gravi, gravissime imprudenze? Si dà per certo che
sia stata lei a soffiare nel malcontento del popolino palermitano in
occasione delle tasse sui grani; che fu lei a metter su la cosidetta
Arciconfraternita di San Paolo con l’intento di scacciar gl’Inglesi
dalla Sicilia; che fu lei ad ingaggiar tanti straccioni capaci di ogni
delitto, che dopo averne commesso di nefandi poterono sfuggire alla
giustizia dei Francesi. E tu, tu, povera creatura mia, devi vivere con
una tal donna?

— Una tal donna, padre mio, rappresenta un principio, un diritto,
un’idea. Non tocca a noi giudicar delle sue colpe, se ne ha: tocca a
Dio.

— Discorriamo, via — disse il duca prendendo le mani tra le sue —
discorriamo seriamente. Io sarei venuto a Castelvetrano per continuare
il discorso che tu troncasti l’altra volta, con tanto poco riguardo per
me, per tuo padre a cui unicamente sta a cuore la felicità tua. Ma è
meglio che il nostro incontro sia dovuto al caso perchè... ai tempi che
corrono si deve diffidare di tutto e di tutti, e quella donna ha pure
le sue spie... Non che io tema di lei: per quanto intrighi, per quanto
congiuri, non tornerà più, mai più, ad inferocire su questi poveri
popoli!...

— Pure, padre mio, ella espia duramente...

— Ah, tu non la conosci. Si comprende che ella debba soffrire molto;
ma credi tu che sia pentita? Credi tu che abbia rimorso del sangue che
ha fatto spargere? Dio non voglia che ella torni ad essere regina di
fatto: quali orrende vendette basterebbero alla sua ferocia? Ed anche
tuo padre, vedi, ne sarebbe colpito, quantunque ti abbia messo al suo
servizio. Quella lì è un’ingrata, quella lì è una...

— Vi ho detto, padre mio, che a me fa male sentir parlare così da voi
che pur siete uno dei più nobili baroni del Regno...

— Perchè io sono rovinato, intendi? se tu non ti pieghi al mio volere,
se tu non abbandoni quella donna al suo destino...

— Giammai, giammai per volontà mia! Dovevate pensarci prima di
affannarvi tanto per ottenere la mia nomina a lettrice di Sua Maestà;
giammai per il progetto che, come pare, accarezzate ancora!

Il duca si morse le labbra, ben comprendendo che era inutile insistere
più oltre.

— Innanzi a cotesta tua testardaggine — disse dopo un istante di
silenzio — io piego il capo. Del resto — continuò con un sorriso di
uomo che sa più che non voglia dire — ella sarà costretta ad andar
via... E se fosse costretta ad andar via, tu non avresti nessun obbligo
di seguirla, non è vero? E ritorneresti in casa del povero padre tuo,
che dovresti amare più, assai più di quella donna.

— Ma io non l’amo, non l’amo! — proruppe lei per un impulso
irriflessivo. — È il dovere, solo il dovere...

Il duca era tutto raggiante d’esser riuscito a strapparle quella
confessione.

— Ah, lo sapevo bene che tu, tu che sei una tanto nobile creatura
non potevi amare una donna la quale forse senza riguardo alcuno alla
purezza dell’anima tua, ti ha fatto assistere a chi sa quali scandali!
Perchè si sa, si sa tutto, e il rossore che ti copre il viso mi dice
che tu non ignori, nulla ignori di certi suoi obbrobriosi rapporti...
Con chi poi, con chi, almeno a quel che si dice? Con uno di quei feroci
avventurieri che hanno disonorato il nostro nome, la nostra causa. Ah,
tu impallidisci, impallidisci per lo sdegno! Vedi, vedi in quale abisso
di vergogna è caduta! E tu, tu, povero fiore immacolato, tu devi vivere
a contatto di tali orrori! Ma...

Le si avvicinò, e col viso di chi sveli un gran segreto, guardossi
intorno e abbassando vieppiù la voce:

— Non dubitare... saran colti in trappola... le fila sono ben tese...
anzi io credo che una tale festa sia data appunto perchè la cosa
riesca. Per carità, figlia mia, che non ti sfugga una sola parola...
sarei rovinato... gl’Inglesi non me la perdonerebbero, essi che
diffidano di me perchè tu sei ancora al servizio di quella donna, e
avrebbero voluto almeno che per mezzo tuo io sapessi....

— Volevano fare di me una spia! — esclamò lei.

— No, no: perchè adoperi questa parola così aspra? Ma tu dovrai
serbarti neutrale, ecco. Tu hai detto che non ami quella... quella
donna: puoi stimarla? Neanche. È il dovere, il solo dovere che ti lega
a lei... Tu dunque, se accadrà qualcosa che dovrà sottrarti a tale
dovere, non per volontà tua, potrai stare in pace con la coscienza.
Perchè intendo, ora, intendo: la tua non è devozione ad una donna; è il
rispetto ad un principio, e su ciò non ho nulla a ridire, anzi ti lodo,
ti lodo.

Ella ascoltava senza interromperlo, sapendo bene che il padre, per la
sua loquacità irriflessiva le avrebbe tutto detto. Ma di che trappola,
di che tranello si trattava? Un tranello nel quale avrebbe dovuto
cadere anche lui, lui, Riccardo?

— Dunque — continuò il duca sommessamente, sempre con la sua aria di
uomo che la sa lunga — lui e lei cadranno nel tranello che sarà loro
teso questa notte.

— Questa notte?

— Questa notte o un’altra. Noi siamo stati avvisati di tenerci pronti.

— Ma che si vorrà fare, Dio mio? — gridò lei spaventata.

— Nulla, nulla di male. Non ci è poi da impallidire; da tremare così
come tu tremi, povera creatura! Si vorrà provocare uno scandaluccio,
ecco tutto, onde lei sia costretta ad andar via da questa Sicilia,
nella quale, come già fece in Napoli ed in Calabria, avrebbe voluto far
scorrere a fiumi il sangue della povera gente, e, quel che è peggio, ha
compromesso noi che avremmo potuto accettare le offerte dei Francesi.

— Ma di lui, di lui che ne sarà, che gli faranno? — gridò lei smarrita.

— Lui?... Chi sarebbe mo’ cotesto _lui_?

— Del... dell’altra persona?

— Ah, dell’avventuriero! Siccome deve fare i conti con la giustizia
inglese per molti delitti commessi, sarà arrestato, processato e
appiccato. Gli Inglesi vanno per le spiccie. Ma che può importare a te
di lui?

Alma si conteneva a stenti. Svelar tutto a suo padre, svelargli chi
fosse l’uomo del quale parlava con tanta tranquilla indifferenza? Ah,
no, chè il suo affetto filiale non le faceva punto velo agli occhi e
comprendeva pur troppo che sarebbe stato peggio, assai peggio. Svelare
alla Regina il tranello che le si tendeva? Ma le avrebbe prestato fede?
Non avrebbe creduto invece che la gelosia parlasse in lei? Eppoi già
era l’ora del pranzo; come avvicinarsi alla Sovrana senza venir meno
al cerimoniale che era strettamente e pedantescamente osservato in
certi giorni? Avvertir lui? Ma dov’era lui, dov’era? Certo esser ci
doveva un’intesa con la Regina; ricordava che non aveva voluto che lei
dormisse nella camera attigua, facendole intendere che il Re forse ne
sarebbe imbarazzato.

Ah, ora capiva, capiva con un angoscioso stringimento di cuore perchè
la Regina aveva voluto restar sola! E sarebbe stata la sua rovina!
Coglierli in flagrante era questo il tranello, questo!

Intanto il duca aveva finito di abbigliarsi.

— Tu resterai qui? — le chiese.

— Sì; ho pregato Sua Maestà che mi dispensasse dall’intervenire al
pranzo.

— Meglio, meglio così, figlia mia; non muoverti dall’alloggio di tuo
padre. Parrà a tutti cosa naturalissima. Non commettere imprudenze:
aspetta qui gli avvenimenti e vedrai che tutto sarà per il meglio.
Confortati col dire a te stessa che in quello che accadrà tu non hai
colpa alcuna, che fino all’ultimo hai compiuto il tuo dovere.

Le mandò un bacio con la mano ed uscì tirando a sè la porta.

Che fare, che fare? Doveva ella starsene indifferente mentre la Regina
correva un tal pericolo, mentre egli, forse solo colpevole di non saper
resistere alla volontà della donna regale, avrebbe scontato col sangue
ciò che era in lui non amore, ma cavalleresca abnegazione? Doveva col
suo silenzio metter la Regina, con la quale aveva vissuto per cinque
anni in dimestichezza e che era stata sempre affettuosa con lei, meno
dacchè la gelosia aveva incominciato a roderle il cuore, in piena balìa
di quei prepotenti e brutali stranieri?

Pure immersa così nei suoi pensieri, non sentiva in sè l’energia di
prendere una risoluzione, tanto si sentiva stanca nel corpo e nello
spirito per tutte quelle traversie che l’una dopo l’altra l’avevano
travagliata, tanto si sentiva oppressa e combattuta da un cumulo di
sentimenti discordi. Ben comprendeva che le cose precipitavano al
loro fine, e che di quel dramma nel quale aveva avuto tanta parte si
appressava l’ultima scena, dopo la quale non sapeva intendere che cosa
di lei dovesse avvenire!

Ella non si sentiva nata per la via avventurosa e irta di pericoli
che pure aveva vissuto da qualche tempo: natura dolce e contemplativa,
quante volte era tornata col pensiero ai suoi monti verdi, a piè dei
quali biancheggiava il paesello poco lungi dalla casa paterna ove aveva
vissuto nella serenità! A quali casi strani era andata incontro nel
lasciarli! E chi sa se li avrebbe più riveduti, chi sa se sarebbe mai
tornata in quella cameretta del vasto castello ove in tanta pace erano
trascorsi i primi suoi anni!

Un tal pensiero le richiamò alla mente lui, lui che in quell’ora forse
volgeva il passo verso l’abisso. E lei doveva salvarlo, non solo perchè
era inutile nascondere a se stessa che l’anima sua era tutta satura di
passione, ma anche perchè sentiva l’obbligo di riparare al danno che
aveva prodotto l’ambizione del padre suo. Per suo padre, quell’unico
e legittimo erede del duca di Fagnano aveva impreso quella vita così
indegna: pel padre suo il figlio di uno dei primi signori del Regno
era divenuto uno scorridore dei boschi ed ora si trovava impigliato in
quell’avventura che al certo sarebbe finita tragicamente per lui! Non
le aveva detto il padre che appena caduto in mano degl’Inglesi sarebbe
stato processato e quindi tratto all’estremo supplizio?

A un tal pensiero rabbrividiva! Orribile, orribile sarebbe stata la
sua colpa se pur potendo salvarlo, nulla avesse tentato per stornare
dal capo di lui il triste destino verso il quale in quell’istante
volgeva il piede; ella avrebbe continuato l’opera nefasta del padre,
ella gli avrebbe tolto la vita come il padre gli aveva tolto il nome
ed i beni, meno scusabile in questo del padre ella che l’amava, ella
che ne era amata! È vero che quell’amore restar doveva sepolto nel
cuore, che inesorabile sorgeva fra loro due la Regina, inesorabili
sorgevano i ricordi di quei rapporti che avrebbero pur sempre posto
come un’insormontabile barriera fra loro; ma nell’uomo dell’amor suo ci
era pure la vittima dell’ambizione di suo padre; e se ella per tanti
anni aveva portato sì fieramente un titolo che non le apparteneva;
se per tanti anni aveva goduto di un fasto e di una ricchezza che
facevano di lei la giovanetta più cospicua del Regno, non era stata la
sua un’usurpazione, incosciente è vero, ma non meno dannosa al figlio
legittimo del duca di Fagnano che intanto gemeva nella miseria, e per
farsi uno stato era divenuto un avventuriero?

Ed ora che ella poteva fare ammenda al male prodotto da suo padre, ora
che ella poteva scongiurare il mortale pericolo cui andava incontro
quel giovane, doveva starsene indifferente aspettando di sentirlo preso
ed impiccato come un volgare malfattore? E non l’avrebbe maledetta
lui, lui che bene avrebbe potuto credere che ella godesse della sua
morte, la quale l’avrebbe fatta continuare nel fasto e nella ricchezza,
rendendo legittimo il titolo che finallora aveva usurpato?

Parve di un tratto che cedesse ad un prepotente impulso di energia. Si
alzò, dicendo a se stessa:

— Salvarlo, salvarlo a costo della mia vita, a costo del mio onore se
occorre!

Corse alla porta e la trasse a sè per aprirla, ma la porta resistette.

— Chiusa, chiusa a chiave! — gridò smarrita.

Suo padre dunque aveva diffidato di lei!

Guardò intorno per la stanza: nessuna uscita, nessuna! solo in fondo
intravide una finestra a metà nascosta dalle cortine. Si ricordò
che l’appartamento di cui faceva parte quella stanza era quasi a
pianterreno.

— Uscirò, uscirò — disse quasi convulsa correndo alla finestra.

Ma le sue deboli mani non giungevano a rimuovere i chiavistelli. Col
volto acceso, tremante per l’orgasmo in tutte le membra, incurante del
dolore, si diede a forzare le imposte che però restavano salde, come
inchiodate. Dopo inutili sforzi cadde esaurita con le dita sanguinanti.

— Non posso, non posso! — gemeva. — Dunque dovrà morire, dovrà morire,
lui, lui che amo!

Dalle labbra tremanti le era sfuggita quella confessione che era un
grido di tutto l’esser suo. L’amava, sì, l’amava, e se finallora aveva
cercato altre ragioni per indursi ad affrontar tutti i pericoli per
salvarlo, ora vedeva chiaro nell’anima sua: l’amava come lo aveva
sempre amato, l’amava senza speranza, l’amava raccapricciando al
pensiero che da un’altra donna era posseduto, ma l’amava, tanto che se
lui fosse morto ella ne sarebbe morta.

E intanto si guardava intorno, sperando di trovare un mezzo qualsiasi
per uscire da quella prigione; si guardava intorno folle di dolore, con
gli occhi accesi di ansia, mentre volgeva a Dio una tacita preghiera
onde le fosse venuto in soccorso.

— Come fare, come fare? — mormorava tra i singhiozzi. — Sento che lo
salverei, lo salverei se potessi uscir fuori. Ah, padre mio, padre mio,
tu non sai che uccidi tua figlia, tu che forse a quest’ora tripudî!
Come fare Dio mio?

Balzò in piedi avendo inteso rinascere le forze, tornò alla finestra
e si diede di nuovo a trarre a sè le imposte con uno sforzo disperato.
Infine le parve di sentire uno scricchiolio che la fece sussultare di
gioia.

— Dio mio, Dio mio, grazie, grazie!

E riunendo tutte le forze in un supremo conato giunse a trarre a sè
l’imposta. Chi l’avesse vista così convulsa, così vibrante in tutta
la delicata persona non avrebbe creduto che ella fosse la pensosa
giovinetta dagli occhi di sognatrice, che accanto alla turbolenta
Regina era un contrasto vivente!

S’affacciò, ma si ritrasse sbigottita: da quella parte il terreno della
villa affossava, onde la finestra era di parecchi metri alta dal suolo.

— Non importa, non importa! — esclamò Alma a cui nell’orgasmo era
balenato un pensiero. — Saprò come fare, purchè giunga in tempo, mio
Dio!

La confortava il sentir sul suo capo, negli appartamenti in alto, il
vocìo dei convitati. Ancora dunque la Corte non si era ritratta negli
alloggi. Il tranello sarebbe stato teso nell’ora del silenzio, ella
ben lo comprendeva, quantunque il suo pudore di fanciulla si sentisse
offeso da tal pensiero.

Era già da un pezzo trascorsa la mezzanotte quando la Regina,
accompagnata nelle sue stanze dal maggiordomo e dai valletti
che reggevano i grandi candelabri d’argento, avendo con un gesto
accomiatato le cameriste che l’avevano attesa nell’anticamera, si trovò
sola, finalmente.

L’ampia camera con in fondo un’alcova era attigua al parco a cui
si accedeva per una porta mascherata dalla tappezzeria; un’altra
porticina, chiusa anch’essa, comunicava con le numerose stanze
dell’appartamento. La Regina nell’entrare si era lasciata cadere su una
poltrona, ed era stata un pezzo in ascolto. I rumori a poco a poco si
andavano affievolendo: giungeva a lei qualche sbatacchiar d’imposte,
qualche voce soffocata dalla lontananza; poi per la villa reale si
stese il silenzio, un silenzio profondo, indizio certo che tutti erano
andati a letto.

— Verrà — mormorò lei — verrà. Non ha mancato mai alla sua promessa.

Era bellissima nella magnificenza delle vesti: i ricchi gioielli
scintillavano sul seno a metà discoperto, come ghiacciuoli sulla
neve intatta. L’attesa del gaudio dava un molle languore al bel corpo
abbandonato.

— Verrà, verrà! Bisogna riconquistarlo. Egli era per sfuggirmi. Colpa
mia, non sua. L’amore non vuol rivali e le mie tante preoccupazioni mi
avevano discostata da lui.

Trasaliva ad ogni lieve rumore. Infine si alzò. Volse uno sguardo alla
grande specchiera in fondo all’alcova che rifletteva tutta la stupenda
persona e sorrise soddisfatta.

— Gelosa di una scioccarella! — disse con un atto di spregio.

Corse alle imposte che si aprivano sul parco e le trasse a sè lieve
lieve. Stette un pezzo in ascolto.

— Nessun rumore... Meglio così. Sarebbe stata un’imprudenza. Vi è
ancora qualche servo in giro, qualcuno dei signori sveglio! Certo lui
sarà nascosto dietro uno dei grandi alberi...

Lasciò socchiuse le imposte e tornò a sdraiarsi sull’ampia poltrona,
sorridendo alle dolcezze che la fantasia le imprometteva in quella
notte di gaudio.

— Lord Bentinck è stato con me di una grande cortesia — disse tornando
col pensiero alla serata trascorsa. — Certo non ha alcun sospetto,
per quanto si dica che abbia ovunque delle spie! Ah, se Bonaparte si
deciderà, che bel giochetto gli faremo! Chi ci avesse visto stasera
avrebbe creduto che fossimo i più buoni amici di questo mondo!

Nel dir ciò volgeva gli occhi, che già incominciavano ad essere
impazienti, verso le socchiuse imposte della veranda.

— Ora poi — disse con voce irosa — la prudenza è un po’ troppo
prolungata... E se non venisse?

A tal pensiero, che la fece fremere, il viso si rabbuiò, gli occhi
ebbero un lampo di minaccia.

— No, no, ha promesso, e non ha mancato mai alla sua promessa! —
mormorò per confortarsi. — Voglio che mi vegga così. Stasera leggevo
l’ammirazione in tutti gli sguardi, e non erano sguardi adulatori, no.
Anche il Re mi si è mostrato più carezzevole del solito. L’imbecille,
che si è lasciato accalappiare da una sguaiatella! È alla mia età che
si ama... che si sa amare...

Si era alzata, punta dall’ansia, dall’impazienza e anche da una vaga
paura, e si era fatta alle imposte della veranda tenendosi immobile,
tutta raccolta nell’ascoltare. Ma nel silenzio profondo non udiva che i
convulsi battiti del suo cuore.

— Ah — disse infine soffocando un grido di gioia che era per prorompere
— mi par di avere udito un calpestìo... È lui, è lui, la sua ombra...
Che m’importa del resto, che m’importa? Mi resta la sua giovinezza, mi
resta il suo amore!...

Non era più la Regina, ambiziosa, feroce, col cuore gonfio di odio
pel quale tanto sangue aveva fatto spargere; era la donna vibrante di
passione, che per un’ora d’amore avrebbe affrontato l’abisso!

Invero era lui.

— Vieni, vieni, vieni amor mio! — mormorò lei stendendogli ambo le mani
per trarlo a sè.

Egli entrò, scuro in viso, pensoso, senza rispondere al grido di lei
che intanto aveva chiuso le imposte della veranda.

— Che hai, che hai? — diceva lei stringendoglisi al petto. — Non hai
atteso anche tu questa ora? Io, vedi, tutto dimentico, tutto... Non vo’
pensare a nulla adesso, a nulla, solo a te, solo a te dopo tanti lunghi
giorni, dopo tante notti insonni!... Ma che hai?

— Ho paura — rispose lui che pareva incerto e tendeva le orecchie come
per sorprendere il menomo rumore nel silenzio profondo della notte.

— Paura tu, paura tu! Ah, diceva il mio povero Nelson che non sapeva di
che fosse fatta!

— Paura per voi, non per me!

— Per me?

— Silenzio — esclamò lui restando immobile. — Nel parco vi è della
gente...

— Ma no, ma no, son tutti a letto, ora. Eppoi sei con me qui. Chi, chi
oserebbe varcar la soglia di quella porta?

Egli si rassicurò, ma rimase pur sempre pensoso.

— Gli è che non mi ami, non mi ami più! — proruppe lei respingendolo.
— Che sei venuto a far qui, che sei venuto a fare? Per schernirmi?
Schernir me, me che mi sono abbeverata di sangue umano, me che ho fatto
rotolar cento teste dal patibolo! Bada che il mio amore può mutarsi
in odio, odio atroce! Tu mi credi impotente, tu mi credi tigre senza
artigli, vipera senza denti; ma bada, bada...

— Voi siete sempre la Regina — mormorò Riccardo che era ricaduto nelle
preoccupazioni perchè mentre la Regina inveiva, usato a distinguere
gl’impercettibili rumori della notte, gli era parso di sentire nel
parco dei calpestii e delle voci soffocate.

— Qui, a quest’ora, non vi è la Regina: vi è la donna che ti vede
freddo e perplesso a sè dinnanzi — rispose lei guardandolo fieramente.
— Alla donna parla, alla donna spiega il tuo contegno, alla donna svela
tutta l’anima tua...

— Ebbene, sì. Sappiate che da tre giorni mi si pedina... a me non
possono sfuggire certe manovre... mi si pedina da gente venduta
agl’Inglesi. Mi sono alzato di notte e ho visto giù nella via delle
ombre: al mattino quelle stesse ombre erano mendicanti, mulattieri,
merciaiuoli. Non è me che si può ingannare con un travestimento...
Ovunque sono andato in questi giorni ho visto i merciaiuoli, i
mendicanti istessi che pur cercavano di nascondersi. Sono stato
prudente perchè.... perchè avevo promesso di venir qui a qualunque
costo, e son venuto, ma seguìto a distanza da quelle ombre. Che cosa
si trama contro di voi, contro di voi, o Regina, chè io sono ben misera
cosa per destar tanto interesse alle spie degl’Inglesi? Non so, ma non
m’inganno, non m’inganno: un pericolo vi sovrasta.

Ella aveva ascoltato or con un sorriso di dubbio, ora col viso velato
da una nube di preoccupazione. L’accento del giovane era sincero, ma
lei gli faceva una colpa della sua paura, pur comprendendo che aveva
paura per lei.

— Ah, se mi amasse — diceva a se stessa ascoltandolo — non curerebbe il
pericolo anche imminente!

Si sentiva stizzita ed insieme umiliata. Era il devoto, era il suddito
fedele, era un partigiano pronto a dar la vita per lei, ma non era
l’amante. Comprese che bisognava uscire da quella situazione così
penosa per entrambi.

— Io non ho nulla a temere — gli disse, assumendo un’aria austera e
sdegnosa. — Io sono Maria Carolina, arciduchessa d’Austria e Regina di
Napoli e di Sicilia, l’avete dimenticato forse?

Non aveva finito di dir queste parole quando la porticina in fondo
si aprì. Con le vestì scomposte, i capelli disciolti, Alma irruppe,
mentre Riccardo e la Regina davano in un grido di stupore e di spavento
insieme.

— Salvatevi, salvatevi — gridò Alma affannosamente — vi si è teso un
tranello: Salvatevi!

— Un tranello, un tranello a me? — disse la Regina che era stata
colpita da un sinistro pensiero e volgeva lo sguardo, in cui si leggeva
il sospetto e in cui balenava il furore, or su Riccardo, ora sulla
giovinetta.

— Sì, sì, a voi — continuò Alma che vibrava di sgomento e di angoscia
in tutta la persona. — Non vedete le mie vesti lacere, queste mani
sanguinanti? Mi avevano rinchiusa in una stanza... a gran stento
potei aprire la finestra e scender giù facendo una corda di alcune
lenzuola...

— Non m’ingannavo dunque — mormorò Riccardo che aveva negli occhi una
ineffabile tenerezza per quella giovinetta la quale per salvar lui,
lui, lo comprendeva bene, si era esposta a tanto rischio, per salvar
lui che pur sapeva in un colloquio d’amore!

— Badate, potrebbe anche essere un vostro vilissimo stratagemma...
un concertato fra voi due... badate! Mi vendicherei, mi vendicherei
atrocemente!

E la Regina diceva ciò a denti stretti, livida in viso, con le labbra
tremanti e gli occhi accesi di una luce sanguigna.

Ma i due giovani non ebbero il tempo di rispondere: nel silenzio della
notte si elevarono alcune grida sì dall’interno come dal di fuori della
villa.

— Udite? — esclamò la giovinetta fieramente ergendosi in tutto il
suo orgoglio offeso dall’oltraggioso sospetto della Regina, e come se
quelle voci fossero la risposta alle parole di Sua Maestà.

— È vero dunque, è vero! — mormorò Carolina d’Austria fluttuante tra
l’ira ed il terrore, ma ancora incerta, mentre le grida vieppiù si
avvicinavano.

— Zitto — disse Riccardo che innanzi al pericolo aveva riacquistato
tutta la sua energia. — Ascoltiamo.

— Un ladro negli appartamenti di Sua Maestà la Regina — si gridava dal
parco su cui si apriva la veranda.

— Intendete, intendete? — proruppe Alma. — Si finge di inseguire un
ladro per penetrare in questa stanza...

— Ebbene — disse lui con voce tranquilla — che importa se mi si crede
un ladro? Saprò farmi strada fra cento: non è questa la prima volta.

E sguainando il lungo pugnale la cui lama sottile e acuta mandò
bagliori sanguigni, balzò presso le imposte della veranda.

La Regina corse a lui, l’afferrô pel braccio e lo trasse a sè
dicendogli con parole smozzicate dalla rabbia:

— No, no, non cercano un ladro... cercano il mio amante!

Aveva tutto compreso: il tranello e le sue terribili conseguenze. Lo
scandalo l’avrebbe costretta a lasciar la Sicilia, lo scandalo avrebbe
troncato tutti i suoi progetti, reso inattuabili tutti i suoi disegni!

Egli si era arrestato, colpito da quelle parole che gli confermavano
ciò che per lui finallora era stato un sospetto.

— Ditemi che dovrò fare — disse grave e solenne, volgendosi alla
Regina. — Se la mia morte può giovarvi, io son pronto. Direte poi che
mi sono ucciso per espiare la mia audacia.

In questo fu picchiato alla gran porta che si apriva nell’anticamera e
si udì una voce, la voce del maggiordomo, che diceva:

— Maestà, Maestà, un temerario ha osato penetrare qui dentro... Aprite,
Maestà!

Ella intanto irrisoluta volgeva lo sguardo or su Riccardo, or su
Alma che si teneva immobile. L’abnegazione di quei due giovani pur
nell’atroce tempesta dell’anima sua era giunta a commuoverla. Comprese
quanto fosse stata ingiusta e con amarezza profonda quanto il suo amore
per Riccardo fosse sinistro per quelle due giovani vite, così nobili e
così devote ad un dovere e che si sacrificavano per lei.

Intanto bisognava decidersi.

— È la rinunzia a tutti i miei sogni, a tutti i miei progetti — mormorò
la Regina — è l’esilio, è l’infamia, è il disprezzo di tutta la Corte!

— Ed è anche la morte dell’uomo che amate! — disse grave e solenne la
giovinetta.

La Regina sussultò, chè ancora non le era balenata tale altra terribile
verità.

— Che hai tu detto, che hai tu detto?

— Ho detto — continuò Alma — che il figlio del duca di Fagnano sarà
appiccato, non perchè vostro amante, ma perchè ladro ed assassino!

— Io, io! — gridò Riccardo. — Va, fanciulla, va, tu non mi conosci!
Quanti morti, quanti morti dovran pagare la mia vita!

Poi con gli occhi sfavillanti di orgoglio, risollevandosi in tutta la
persona, ridivenendo il capobanda audace e imperioso:

— Ritraetevi in quella stanza — gridò. — Ora io, io qui comando, io che
son giunto al fine della mia vita.

— Noi abbiamo l’obbligo di salvar la Regina! — rispose Alma.

Coloro che avevano picchiato, dopo aver atteso un pezzo si eran dati di
nuovo a battere alla porta.

— Ma come, ma come? — disse lui tuttora sdegnoso.

— Lo sai tu un mezzo? Dillo, dillo — esclamò la Regina che aveva
sentito rinascere la speranza. — Dillo, e la mia riconoscenza sarà
eterna.

— Havvene un solo, un solo, che costerà a me il mio onore, ma che
salverà la vita a lui, ed a Vostra Maestà il decoro.

Ciò detto, mentre Riccardo e la Regina eran rimasti confusi, stupiti,
non sapendo qual disegno volgesse in mente, Alma si diresse verso la
porta e l’aprì.

— Che volete, signori? — chiese ai primi che vide.

L’anticamera era affollata. Le grida avevano destato anche coloro
che non erano a parte di quel che si macchinava; gli altri non erano
andati punto a letto aspettando il grave e per alcuni divertentissimo
avvenimento.

— Un ladro, duchessa, oppure un assassino che premedita un sacrilego
attentato, si è introdotto nella villa reale e per la veranda della
camera di Sua Maestà la Regina è penetrato qui dentro. Fu visto dalle
guardie che ora custodiscono il parco.

— Qui non ci è nessuno che possa giustificare un tal sospetto.

— Eccolo, eccolo — gridarono alcune voci additando Riccardo che tuttora
sconvolto per la risoluzione di Alma si teneva immobile in mezzo alla
stanza.

E la folla, come se il pericolo che correva la Regina la disobbligasse
dal cerimoniale, irruppe nella camera.

Carolina d’Austria si era lasciata cadere sulla poltrona. Ella oramai
subiva la volontà di Alma, non essendo giunta in tempo per impedirle
di mettere in atto il suo disegno, del quale non comprendeva lo scopo.
Ma innanzi alla folla la sua indole imperiosa ed audace prese il
sopravvento.

— Che volete, signori? Parmi che in questa pur regale dimora, il Re e
la Regina abbiano perduto ogni loro prerogativa!

La folla rimase muta e perplessa: qualunque fossero i sentimenti di
ciascuno, il fastigio regale poteva troppo sugli animi perchè non
s’imponesse la riverenza.

Il duca di Fagnano si fece innanzi e nel rialzarsi dopo un profondo
inchino disse:

— Maestà, fummo svegliati dal grido delle guardie che vegliano nella
sicurezza del nostro Re e della nostra Regina, e le guardie non si sono
ingannate, perchè ecco qui un uomo che deve dar conto dell’esser suo.

Intanto che diceva ciò, lieto in cuor suo di mettersi così in vista
e sicuro quindi della riconoscenza di lord Bentinck, si chiedeva come
mai la sua figliuola, che egli aveva chiuso a chiave nella sua stanza,
fosse lì a quell’ora.

Riccardo a tali parole aveva fatto un passo innanzi ed era per
rispondere, quando fu prevenuto da Alma.

— Padre mio — disse la giovinetta — quest’uomo è mio cugino, vostro
nipote, figlio legittimo di vostro fratello primogenito Tommaso, duca
di Fagnano.

Un mormorio di meraviglia si levò dalla folla: il padre di Alma,
livido, sconvolto, guardava sua figlia con una espressione quasi di
terrore, mentre la Regina che si era sollevata con gli occhi pregni di
furore quasi per inveire contro la giovinetta, era ricaduta nella sua
poltrona, come se le forze le fossero venute meno.

Solo Riccardo si teneva immobile; pure nello sguardo che aveva rivolto
alla giovinetta con lo stupore ci era anche una tenerezza ineffabile.

Ma il duca non si diede per vinto: aveva fatto uno sforzo per tornare
sereno e con un sorriso d’ironia, col volto improntato ad ipocrita
bontà come se bene comprendesse il sacrificio della figliuola in
omaggio alla Regina, disse nel silenzio profondo degli astanti tuttora
incerti e sorpresi:

— Io non so, mia cara, io tuo padre, da quale sentimento sei mossa
a dir cosa tanto strana e tanto inverosimile; ma per fare di cotesto
avventuriero un duca di Fagnano non basta... non basta un generoso per
quanto irreflessivo impulso, prodotto, ne convengo e ne esulto anche,
da una nobile devozione. Ma gli altri, questi signori che conoscono
un solo duca di Fagnano vero e legittimo del quale tu sei la buona ma
troppo inesperta figliuola... gli altri crederanno che tu, pur così
leale sempre, tu che hai sempre odiato la menzogna, sei ricorsa alla
menzogna per...

— Non proseguite padre mio — interruppe Alma raffrenando il suo sdegno,
ben comprendendo qual fosse l’intenzione del padre che era rimasto
interdetto.

Poi avanzandosi verso la folla, la giovinetta stese il braccio e disse
con voce sicura e con aspetto severo e solenne:

— Giuro sulla santa e pura memoria di mia madre che questo giovane è
il figlio legittimo di Tommaso duca di Fagnano, fratello primogenito
di mio padre, che lo ha riconosciuto in punto di morte; ed ecco l’atto
matrimoniale, non che la fede di battesimo che attestano quanto ho
detto. A voi, conte di Ferrantino, come notaio della Corona affido
questi documenti per gli effetti che ne dovran derivare.

Si avanzò vieppiù verso la folla e porse ad un gentiluomo che era
innanzi agli altri l’atto matrimoniale che Vittoria le aveva dato.

Il duca di Ferrantino lo dispiegò: intorno a lui, chè la ben
giustificata curiosità vinceva la discretezza, si strinsero i più
vicini, sporgendo la testa per leggere il documento il quale spogliava
dei titoli e degli averi colui che finallora li aveva posseduti.

Ed era stata la figlia, la figlia istessa la rivelatrice di un tal
documento! Si era quasi del tutto obbliato il perchè, infrangendo le
regali prerogative, quella gente avesse invaso la camera della Regina;
tanto l’accaduto era parso singolare!

Il duca pallido, sconvolto, si rivolgeva ai vicini affettando
disinvoltura e mormorando, come se gli altri avessero dovuto
comprendere al par di lui che fosse quella una commedia:

— Mia figlia spinge un po’ troppo oltre la devozione, l’abnegazione!
Infine che riesce a provare con questa commedia? Riesce a distruggere
lo scandalo della presenza di un giovane, chiunque sia, nella camera
della Regina, in un’ora così inoltrata della notte?

— Ma come spiegate quel documento in mano della duchessa? — gli
chiesero alcuni.

Era questa la domanda che il duca volgeva a se stesso mentre non sapeva
trattenersi, pur mostrandosi incurante, di guardare il giovane alla
sfuggita. Questi portava nel volto l’impronta della sua nascita, doveva
bene confessarlo, ma infine era sicuro, affatto sicuro di non aver
nulla a temere, chè presto l’attenzione sarebbe tornata sullo scandalo,
invano dalla figliuola tentato di soffocare.

Durante questa scena la Regina aveva assunto un’aria di sdegnosa
indifferenza, come se la cosa non la riguardasse punto. Però era lieta
che l’attenzione degli astanti si fosse stornata da lei. La curiosità
e l’indole pettegola del nobilume che aveva invaso la sua camera
avrebbero avuto un così largo pascolo in quell’avvenimento da non
cercare di più, ed ella quindi si proponeva d’intervenire a suo tempo
con una di quelle sue frasi fiere ed imperiose che avrebbe troncato il
molesto incidente.

Non meno sdegnosamente indifferente di lei era il contegno di
Riccardo, che però non giungeva a spiegarsi perchè Alma si fosse
indotta a svelare il segreto della di lui nascita, il quale non
avrebbe certamente stornato dal suo capo le accuse che gli muovevano
gl’Inglesi. Pure sentiva l’anima gonfia di tenerezza per quella
giovinetta che aveva proclamato così, innanzi a tutti i di lui diritti
con grave danno di sè e del padre suo.

Ah, ella lo amava, lo amava vieppiù che egli non avesse potuto
immaginare! Ella lo amava, mentre la sua presenza in quell’ora
della notte nella camera della Regina le avrebbe dato il diritto
di mostrarglisi sdegnosa: ella per salvarlo, quantunque ei fosse
colpevole, umiliava sè, umiliava suo padre innanzi ai cortigiani
invidiosi, confessando, col proclamare lui l’erede legittimo del duca
di Fagnano, che essi avevano finallora usurpato titoli e beni!

Lo amava! Ma sarebbe giunta a salvarlo? Avrebbe impedito che gl’Inglesi
lo arrestassero? Non aveva troppo fidato sugli effetti di quella
rivelazione? Se era quello un sotterfugio per salvar la Regina, del
quale per altro non giungeva a spiegarsi lo scopo, come e perchè
avrebbe stornato il pericolo anche dal suo capo? Intanto non gli erano
sfuggiti gli sguardi furtivi di suo zio, pel quale non sentiva alcuna
avversione.

Pure si teneva pronto. Se per poco quella scena volgesse a male per
lui, egli l’avrebbe troncata aprendosi il passo con l’arma in pugno;
anzi sentendosi umiliato dall’intervento di una donna, ferito nel suo
orgoglio se mai un tale intervento gli avesse evitato il pericolo,
si imprometteva di rivelarsi in tutta la sua audacia a quei frolli e
altezzosi cortigiani che susurrando tra loro se lo accennavano con lo
sguardo.

— Ah — diceva seco stesso comprimendo l’ira e mordicchiandosi
nervosamente il labbro, mentre si teneva immobile con le braccia
conserte — ah, se non mi sgombrate il passo, che bella danza faremo tra
poco, cari signori!

Ma ci era qualcuno tra la folla che finallora si era tenuto silenzioso,
impaziente di quell’indugio, onde si avanzò dicendo con voce grave:

— Non, si tratta, o signori, di discutere sui diritti di quello
sconosciuto, nè su chi sia, nè sul luogo donde è qui venuto.

— Lord Bentinck! — mormorarono gli astanti facendosi da parte per dare
il passo al temuto ed onnipotente ministro inglese.

— Si tratta invece di sapere perchè nella camera di Sua Maestà la
Regina, ove a nessun uomo che non sia il Re è dato di porre il piede,
si trovi quel giovane, che, se non erro, deve render conto di gravi
delitti!

Poscia indirizzandosi alla Regina le disse dopo un profondo cerimonioso
inchino:

— Dica Vostra Maestà se quel malfattore si è introdotto qui per rubare
o per recarle oltraggio. Nessuno di noi sospetta che invece di un ladro
sia un...

Nel viso della Regina si leggeva la terribile lotta dell’anima. Come un
ferro rovente fiammeggiava il suo sguardo. Il suo nemico implacabile,
quel lord Bentinck che ella, secondo la sua frase, avrebbe voluto
pestare in un mortaio, aveva vinto: ella ne comprendeva il perfido
sorriso, leggeva in quel contegno ostentatamente ossequioso l’esultanza
del malvagio trionfo. Che rispondere a quella domanda? Accusar lui,
Riccardo, per salvare se stessa? Farlo credere un ladro perchè non lo
si credesse il suo amante?

Si era alzata, e quantunque con uno sforzo disperato si reggesse in
piedi, tremava di rabbia come una tigre in un cerchio di cacciatori.
Gli astanti tacevano, sentendo tutta la solennità dell’istante
terribile. Solo lord Bentinck freddo, tranquillo, sorrideva.

Riccardo non seppe più contenersi. Era quello l’istante, quello. Ormai
bisognava finirla, chè si sentiva sopraffatto da profonda pietà per lo
strazio di quella povera donna.

— Ah, perdio — gridò — che non s’insulti più la nostra Regina da un
malnato straniero. Ebbene o signori, io vi...

Intese una mano che gli si posava sulla spalla, si volse. Alma lo
guardava con una strana espressione nello sguardo.

— Tacete voi, tacete — gli disse. — Tocca a me far sapere il perchè voi
siete qui.

Poi volgendosi agli astanti disse con voce ferma:

— Signori, quest’uomo è qui perchè quest’uomo è il mio amante!

— Non è vero, non è vero, mia figlia mente, non è vero! — gridò il duca
di Fagnano colpito al cuore da quelle parole.

— Non mento, padre mio — rispose lei. — Ripeto che quest’uomo è qui,
quest’uomo, mio cugino, figlio del fratello di mio padre, perchè esso è
il mio amante!

Lo stupore in tutti era grande. La Regina, che non si aspettava una
tanto audace menzogna, era rimasta più degli altri colpita, pur non
osando smentire la giovinetta che guardava con gli occhi sbarrati,
quasi con terrore.

Era lei, lei che aveva vinto su tutti, che aveva scombussolato lord
Bentinck, il quale ad onta della sua flemma inglese non aveva saputo
dissimulare la rabbia nel veder mandati a vuoto i suoi biechi disegni;
lei che, esposta a tutti gli sguardi si teneva fieramente dritta in
piedi, mentre Riccardo era rimasto come fulminato da quella eroica
menzogna.

Ma una voce che si elevò dalla porta ruppe il silenzio che aveva tenuto
dietro alle parole di Alma. Quella voce gridò:

— Sua Maestà il Re.

Ferdinando IV apparve sulla soglia e si fermò un istante a guardare
quella gente come se di tutto fosse ignaro. Poi:

— Ma che cosa c’è? Vi facevo tutti a letto, signori! Per qual motivo vi
veggo così confusi? Che cosa è accaduto dunque?

Prima che alcuno di quei signori rispondesse, Alma si avanzò verso il
Re e gli s’inginocchiò dinanzi.

— Maestà — gli disse — ci è qui un uomo che amo al quale io, mentre
tutti dormivano, ho aperto la porticina della veranda che dà sul parco.
Quell’uomo fu visto e fu creduto un ladro, un malfattore introdottosi
qui con delittuosi intenti. Sua Maestà la Regina, quando si ritrasse
nelle sue stanze, lo sorprese in colloquio con me, ma nella sua
misericordiosa bontà non volle far palese il mio fallo!

— Fallo ben grave, veramente! — disse il Re.

Ma ci era nella sua voce una inflessione di contento più che di
collera. Aveva ben compreso che quella giovinetta si sacrificava al
decoro e all’onore della Regina. Da gran tempo si era pentito della
sua complicità in quel complotto, ma non osava affrontare i rimproveri
della duchessa di Floridia nè il dispetto di lord Bentinck. Non era
rimorso il suo, non era sentimento di affettuosa bontà, di indulgenza
pietosa per le colpe della moglie: era invece, come abbiamo detto più
volte, indolenza da una parte, paura dall’altra che vieppiù fieramente
l’aveva sopraffatto appena in presenza della moglie.

Ma l’inaspettato e impreveduto intervento di Alma, la quale o mentendo
o dicendo il vero stornava lo scandalo e si offriva vittima volontaria
di tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate, evitava al Re le
noie ed alla Regina l’onta che su lui maggiormente si sarebbe riflessa.
Nè gl’Inglesi nè la duchessa potevano fargli una colpa se il tranello
non era riuscito. E perciò, pur affettando una certa aria di severità
e insieme di indulgenza, non era stato mai così felice, mai così
soddisfatto. Continuò a scuotere la testa mormorando:

— Fallo ben grave, e se tanto io quanto la Regina non tenessimo conto
della devozione dei vostri avi e anche della vostra, che ci avete
servito fedelmente e con zelo, puniremmo adeguatamente un tale ardire,
una tale imprudenza come un delitto di lesa maestà! Pure, alzatevi,
via: noi terremo conto della vostra giovinezza e di accordo con la
Regina ripareremo alla macchia che avete fatto al nome della vostra
casa.

Ella si alzò impassibile. E poichè tutti gli sguardi eran fissi su lei,
volse gli occhi in giro senza apparir punto turbata.

— Capperi — mormorarono alcuni che avevan creduto alla sincerità della
confessione — sembra che ci sfidi, come se fosse fiera di aver dato
appuntamento qui a quel giovane, mentre noi...

— Ma che! — susurrarono alcuni — ci credi tu a quel che ha detto? Ci è
un mistero sotto: tutta questa scena è stata preparata da...

— Dalla Regina?

— Nè più ne meno. Quella povera creatura è stata costretta a
sacrificarsi. Vedi che viso da sbalordito ha quel povero duca di
Fagnano! E lord Bentinck come si morde le labbra per la collera, e la
Regina che viso da furia con quel sorriso demoniaco!

— Eccomi Maestà — disse Riccardo avanzando. — Io non son fuggito mai
quando con le armi in pugno ho combattuto i nemici del mio Re e della
mia Regina, e... e non fuggo neanche adesso.

Ciò dicendo guardò fieramente in giro... Il bello e maschio suo aspetto
fece correre un mormorio di ammirazione fra gli astanti, alcuni dei
quali però s’intesero feriti dalle superbe parole del giovane.

— Sembra che l’abbia con noi... che ci sfidi! — dissero alcuni.

— Veramente aveva lo sguardo fisso su lord Bentinck come se a lui
fossero rivolte quelle sdegnose parole.

— Chi siete voi, signore? — chiese il Re dopo averlo contemplato un
istante quasi con compiacenza.

— Poiché — rispose il giovane — mia cugina, depositaria del segreto
della mia nascita, ha voluto svelarlo, io non debbo e non posso
smentirla, chè da un nobile intento al certo, nobile quanto l’anima
sua, a ciò fu mossa. Io sono Riccardo duca di Fagnano, figlio di
Tommaso esule in Francia, e morto fra le mie braccia nel nostro
castello.

— Ah — disse il Re aggrottando le ciglia — un esaltato, un repubblicano
condannato a morte per stregoneria e per delitti contro lo Stato!

— Mio padre fu vittima del pregiudizio, dell’ignoranza e della calunnia
— rispose il giovane. — Egli ha perdonato come io perdono ai suoi
nemici, ma io saprò riabilitarne la memoria, io che per Vostra Maestà
ho sparso il mio sangue, io che col nome di Riccardo feci parte di quei
prodi che capitanati dal grande Cardinale, mentre gli altri signori del
Regno vigliacchi ed inetti sfoggiavano di vesti e di gioielli nei balli
e nei teatri di Palermo, riconquistarono il Regno alla Maestà Vostra!

— Si vede, si vede che ha vissuto sempre nei boschi e nelle vie maestre
— mormorarono i cortigiani scandalizzati! — Che linguaggio è questo?
Ricordare al Re che alcuni straccioni gli riconquistarono il trono?

Il Re, turbato appunto da quei ricordi, non molto lusinghieri per lui,
fece un gesto quasi per interrompere il giovane. Ma questi proseguì:

— Io dunque, anche se mio padre fosse stato colpevole, ciò che nego,
avrei pagato il suo debito. Quante gocce di sangue han versato pel
trono dei Borboni e per l’altare di Dio coloro che mi ascoltano
sbalorditi della mia audacia? Dov’erano essi quando io, io, duca di
Fagnano, scalai le mura del castello di Cotrone, e penetrai per la
breccia fra le mura di Andria, e irruppi con dieci dei miei calabresi
contro i mille difensori del Ponte della Maddalena? Essi ballavano
svenevolmente il minuetto in una festa di Corte, essi che ora mi
fulminano dello sguardo, ma che sarebbero fuggiti come un branco di
pecore se io, come ne avevo l’intenzione, mi fossi precipitato su essi,
armato solo di uno scudiscio!

— Ma c’insulta, c’insulta! — gridarono alcuni conti e alcuni marchesi
che erano fra i più cospicui personaggi invitati dal Re.

— Ebbene sì, c’insulta — risposero altri conti e altri marchesi un
po’ più schietti — ma chi di noi vuol rischiare la sua vita contro un
simile avventuriero?

— Se mio padre ebbe colpe, io, io suo figlio legittimo, ne ho fatto
ammenda difendendo il castello dei miei padri, che aveva l’onore di
ospitare Sua Maestà la Regina, quando i Francesi irruppero sicuri di
farla prigioniera. Non è vero mio caro zio, non è vero? Non vi diedi
tempo di fuggire mentre io uccidevo tra il fumo, le fucilate, la
mitraglia, uccidevo sicuro di cadere ucciso da un istante all’altro?
Non è vero, carissimo zio, che ignoravate come io l’ignoravo, che il
famoso capitan Riccardo, terrore dei Francesi, aveva l’onore di essere
vostro nepote?

— Voi dunque v’incontraste altre volte? — chiese il Re volgendosi a
colui che finallora aveva portato il titolo di duca di Fagnano.

— Sì, è vero — rispose questi che pareva del tutto sconvolto — ma io
ignoravo, ignoravo le sue pretese...

— Il mio diritto — interruppe Riccardo — il mio diritto che mia
cugina ha riconosciuto ed al quale io avrei rinunziato lieto di
vivere nell’oscurità e di spargere il mio sangue pel servizio dei miei
Sovrani...

— Questo sì, che è ben detto! — esclamò il Re.

— Ah, ah, il lupo si va addomesticando — mormorarono i cortigiani.

— Stia qualche giorno a Corte e diverrà cane da pagliaio.

— Fu mia cugina che svelò il segreto — continuò Riccardo — al certo
perchè ripugnava alla sua natura eletta, alla sua anima nobilissima...

— Bene, bene... Dite invece al suo amore per voi — interruppe il Re con
bonomia — al suo amore che le fece commettere un fallo sì enorme con
aprirvi di notte la porta della sua stanza. Ma noi ripareremo e sarà
tutto per il meglio... Quel titolo che il vostro diritto le portava via
le sarà ridato dal matrimonio...

Lord Bentinck che aveva taciuto finallora, tenendosi impassibile in
vista, pure essendo roso in cuor suo dalla rabbia, ruppe il silenzio
per dire al Re:

— Perdoni, Sire, ma a me pare che Sua Maestà la Regina dovrebbe
pur dire qualcosa. Dio mi guardi dal dubitare delle parole di
questa nobile giovinetta, parole troppo gravi perchè fossero dette
inconsideratamente. Ella si è accusata di una colpa così... via,
così... starei per dire... inverosimile, da far supporre quasi che il
suo sia... sia... un sacrifizio eroico; sì, eroico per una fanciulla
così pura... così immacolata...

— Che intendete dire, milord? — esclamò il Re stizzito, ben
comprendendo che l’Inglese cercava d’intorbidare le acque.

— Nulla più di quello che ho detto! — rispose lord Bentinck che intanto
fissava la Regina con un sarcastico sorriso ed uno sguardo minaccioso.

Carolina d’Austria che era rimasta finallora oppressa dalla fatalità,
atterrita dal veder crollare tutte le sue speranze, colpita nei
suoi affetti e nelle sue ambizioni di donna e di Regina, si drizzò
fieramente a quello sguardo e a quel sorriso.

Era quello, quello il nemico, quello il suo demone! Tutto il suo
odio, la sua rabbia, la torrida sete di vendetta, si versarono su
quell’Inglese che ancora la sfidava, che ancora la minacciava come se
non fosse soddisfatto appieno nel vederla così confusa, così avvilita,
così oppressa, egli che pur doveva comprendere tutto l’orrendo strazio
che le lacerava il cuore; egli che pur comprendeva quanto l’eroico
sacrifizio di quella giovinetta le riuscisse atroce, chè se evitava lo
scandalo, sottraeva al suo giogo l’uomo da entrambe amato.

Onde trasse dall’odio quella forza che non le avevan dato la gelosia e
l’amore deluso. Si alzò e quantunque le parole che stava per proferire
fossero per lei irte di spine e le lacerassero la labbra disse:

— Sì, è vero, trovai quel giovane in colloquio amoroso con la mia
lettrice, nella stanza di lei. Quando irruppe qui tutta cotesta gente,
essi confessavano a me la loro colpa...

E sorrise lei, ora, sarcasticamente; balenarono a lei gli occhi
minacciosi mentre diceva ciò fissando l’Inglese che aveva sperato di
confonderla.

— Ma se io l’aveva chiusa a chiave nella mia stanza! — gridò il padre
di Alma che non potè più oltre contenersi.

— È vero, padre mio — rispose la giovinetta — ma io scesi per la
finestra per venir qui ove mio cugino mi aspettava.

— Insomma — disse il Re rassicurato e quindi riprendendo il buon
umore — la cosa è chiara oramai, ed è finita, meglio di quello che era
incominciata. Ora dirò io l’ultima parola e poi tutti andremo a letto,
chè dovremo alzarci per tempo domani.

Poi volgendosi al padre di Alma:

— Sono io, il Re, che vi chieggo la mano della vostra figliuola per il
giovane duca di Fagnano vostro nipote.

— Sire! — balbettò il vecchio inchinandosi.

— Voi — continuò il Re — serberete il titolo di duca; vostro nipote
porterà quello di conte di Rovito che io gli concedo come regalo di
nozze.

In fondo il vecchio duca di Fagnano non era del tutto scontento, onde
s’inchinò al Re senza poter dire parola. Gli è che era stato così
rapido quell’avvenimento, così impreveduto, sconvolgeva a tal segno la
vita che egli non era ben sicuro se fosse un’allucinazione, un giuoco
della fantasia.

— Ed ora andiamo a letto — disse il Re volto agli astanti. — Permetto
a questo giovane di venire ai nostri ricevimenti e curerò io stesso che
fra otto giorni le nozze siano celebrate.

La Regina era rimasta in piedi. Rispose appena con un lieve cenno della
testa al profondo inchino di ciascuno degli astanti, sorrise al Re
che le augurò la buona notte; ma quando vide che lord Bentinck le si
appressava, un’espressione di sovrano orgoglio le si dipinse in volto.
In quel dolore in quello strazio, la vittoria riportata su se stessa
e che era anche vittoria sulla perfidia inglese, le era di supremo
conforto e la risollevava ai suoi occhi.

— Che Vostra Maestà perdoni — disse l’Inglese inchinandosi — se
osai chiedere il suo parere su questo strano incidente, del tutto
impreveduto e... imprevedibile.

Ella che sentiva salir dalle viscere delle ondate di odio si contenne e
rispose, fissando negli occhi dell’Inglese gli occhi fiammeggianti:

— Io sono usata, milord, all’imprevedibile che muta talvolta la
vittoria in disfatta.

L’Inglese per quanto facesse sforzi per tenersi impassibile, pure
impallidì, s’inchinò di nuovo e andò via dietro gli altri signori a
cui tardava di poter raccogliersi in crocchio per commentare lo strano
caso.

La Regina aveva cercato con gli occhi Riccardo, ma Riccardo era sparito.

Alma era rimasta: si teneva immobile, pensosa, stanca delle tante
emozioni e sorpresa quasi di quel che era accaduto in sì breve tempo.
Oramai era la fidanzata, fra pochi giorni sarebbe stata la sposa...
dell’amante della Regina!

È vero che ella l’amava, è vero che egli l’amava, ma pur sempre
un’altra, un’altra aveva dei diritti sull’uomo al quale fra breve
sarebbe stata congiunta. Ah, la sua vita dolce, tranquilla, pensosa era
finita, finita per sempre in un contrasto ben terribile di affetti!

Non si era accorta che la Regina le si era avvicinata. Sol
quando intese la mano di lei sulla spalla alzò il capo e trasalì
nell’incontrarne lo sguardo.

— Tu dunque sapevi del tranello che mi si tendeva? — chiese la Regina.

— Sì, lo compresi da alcune parole.

— E solo per salvarmi, solo per salvarmi ti accusasti di un fallo che
ti disonorava in faccia a tutti?

— Sì — rispose lei sostenendo con fierezza lo sguardo della Sovrana —
solo per salvar la vostra dignità regale.

— E per uccidere il mio cuore!

— Ho pensato alla Regina, non alla donna, alla figlia di una
imperatrice, alla sorella di tanti augusti sovrani, alla vostra corona
regale, sicura che la donna avrebbe saputo vincer se stessa.

— E tu dunque fra otto giorni te ne andrai con lui, felice, esultante,
superba di aver salvato la tua Regina strappandole l’amante per fartene
un marito che ti ridà il titolo e i beni a cui d’ora innanzi non
avresti più diritto!

L’insulto oltraggioso, vieppiù acuito dall’accento onde la Regina
proferì queste parole, fece impallidire la giovinetta. Lo sdegno
sfavillò negli occhi pur così dolci; sussultò in tutta la persona
come al tocco di un ferro rovente, mosse le labbra tremanti per
rispondere nell’impeto della collera, ma giunse con uno sforzo supremo
a dominarsi, e la pietà subentrò di un tratto allo sdegno.

— Voi dite parole indegne di un labbro regale, indegne di un’anima di
donna e di regina — disse lentamente. — Se i vostri nemici vi udissero,
se vi vedessero, avrebbero pietà di voi!...

— Pietà di me, pietà di me! — gridò lei.

— Sì, come ne ho io. Io vi ho salvata non per essere la sposa di lui,
no: egli non entrerà nella camera nuziale. Io lego indissolubilmente
l’anima mia ad un uomo che amo, è vero, ma dal quale mi separerò per
sempre, intendete? per sempre. Voi non perderete il vostro amante, o
signora, chè io sdegnerei i baci umidi ancora dei baci di un’altra
donna, sdegnerei le carezze che un’altra donna inebbriarono. Del
sacrificio dell’onor mio alla vostra salvezza, della mia bontà al
vostro onore, io non chieggo altro compenso che l’obblio.

L’accento dolce ma fermo della giovinetta scosse la Regina. La tensione
di quell’anima travagliata cedette di un tratto per la sua stessa
violenza. Comprese quanto nobile e generosa fosse quella fanciulla che
senza esser nata a piè di un trono aveva virtù regali, e quanto diverso
dal suo fosse l’amore di lei per Riccardo.

Non la rovina dei suoi disegni, non la disfatta intera, completa
riportata nella lotta ingaggiata contro tutti l’avviliva tanto quanto
il dover constatare la sua inferiorità di cuore e di carattere innanzi
a quella giovinetta che pure in lei riveriva la Sovrana, al cui decoro,
al cui prestigio si era sacrificata.

Non era la donna che doveva esser grata, era la Regina che in quella
dolce e buona creatura aveva trovato una virile, eroica difesa, mentre
tutti l’avevano abbandonata; in quella buona e dolce creatura, la
quale rinunciava financo al diritto che le veniva dalla sua nobile ma
disonorante menzogna: all’amore di Riccardo.

E cadde sulla poltrona, mentre due calde lacrime le sgorgavano dagli
occhi.

Alma le vide, e compresa da una profonda tenerezza le s’inginocchiò
dinanzi. Il dolore di quell’anima di donna rendeva vieppiù augusta la
Regina. Le prese le mani e non potendo proferir parola, le baciò.

Carolina d’Austria si chinò dolcemente sulla testa della giovinetta e
le disse:

— Tocca a me ora, tocca a me sacrificarmi per la tua felicità. Come
donna la vita del mio cuore è finita, come Regina con un sacrificio
compenserò il tuo sacrificio. Fra otto giorni lascerò la Sicilia per
andar lontano, lontano a morire come Regina e come donna!

E quelle due creature tanto diverse d’indole, di vita, di costumi l’una
dolce e pura come un raggio di sole, l’altra ardente, come fiamma
di vulcano, feroce nelle vendette, atroce negli odi, s’intensero
accomunate dal dolore e piansero a lungo, strette in un amplesso.




X.


Erano scorsi otto giorni.

Ferdinando IV non aveva mai preso tanto a cuore gli affari del suo
regno quanto le nozze di Alma con Riccardo che il giorno appresso
all’accaduto di quella sera in cui la figliuola del duca di Fagnano
innanzi a tutta la Corte aveva confessato i suoi rapporti col cugino,
era stato nominato conte di Rovito.

Il Re però aveva fatto venire innanzi a lui il vecchio duca, il
quale dopo un colloquio con la figliuola si era mostrato propenso a
riconoscere il nipote ed aveva assentito alle nozze che il Re voleva si
celebrassero al più presto.

Grande era stato lo stupore in tutti per la cedevolezza del duca,
di cui si sapevano le ambizioni e gli occulti maneggi per tenersi in
grazia degl’Inglesi, e si sapeva anche come ei vagheggiasse di dar la
figliuola in moglie ad un parente di lord Bentinck. Riconoscere così
di un tratto per suo nipote un avventuriere in base a un documento che
se anche autentico ben poteva essere attaccato di falso, pareva strano
assai a quella gente, la quale non aveva tanta stima di lui da credere
che ubbidisse alla voce del cuore e del rimorso.

Quale era stato dunque il movente, se bisognava escludere quello
dell’onestà, che aveva indotto il padre di Alma ad accettare per genero
un giovane che finallora aveva qualificato come un intrigante e se mai,
come un bastardo di suo fratello?

Nessuno però sapeva quel che da poco aveva saputo il vecchio furbo:
che il riconoscimento di Riccardo come figlio legittimo del vero duca
di Fagnano era avvenuto in presenza di tutti gli ufficiali francesi
del battaglione che aveva messo stanza nel castello; quindi la loro
testimonianza avrebbe conferito maggior valore all’atto matrimoniale
ed alla fede di battesimo da Alma consegnati al conte di Ferrantino,
notaio della Corona; inoltre, ciò che ancora era da tutti ignorato,
pochi giorni innanzi il Re Murat aveva promulgato un decreto d’amnistia
per tutti gli emigrati napolitani, anche se avessero combattuto contro
i Francesi, anche se avessero fatto parte delle bande brigantesche; e
dava facoltà ad essi di tornare in patria ove avrebbero riavuti i beni
confiscati appena dimostrati i loro diritti e a patto che facessero
adesione al nuovo governo.

Ora il vecchio furbo che aveva visto venir meno tutti i suoi disegni
e deluse tutte le sue ambizioni; che vedeva in pericolo l’ufficio
affidatogli e le magre risorse che gliene venivano; il vecchio furbo
che pensava con una stretta al cuore al suo castello divenuto una
caserma, ai suoi boschi, alle sue terre, a tutte quelle sterminate
ricchezze che facevano dei duchi di Fagnano i più cospicui signori del
Regno, sentiva prepotente la nostalgia dei luoghi in cui era nato, in
cui era vissuto nei piaceri.

Il matrimonio di sua figlia con suo nipote appianava tutti gli
ostacoli, evitava una lite che avrebbe di certo perduto, gli ridava
per dir così la legittimità del possesso; ed ecco che quel fortunato
incidente si risolveva a suo vantaggio pur salvando la Regina da uno
scandalo.

Nè l’eroica abnegazione della figlia nel dirsi rea di un fallo che
macchiava indelebilmente l’onore del nome l’aveva punto turbato. Essa
aveva salvato l’apparenza, ma non la sostanza; aveva impedito che il
perfido tranello teso alla Regina avesse i rovinosi effetti che se
ne ripromettevano i nemici di lei, ma nessuno, proprio nessuno aveva
creduto alla nobile e generosa menzogna della fanciulla, sicchè non
solo l’onore era salvo, ma l’eroismo della figliuola tornava a lode, ad
alta lode del suo nome!

D’altra parte lord Bentinck, deluso e scornato, aveva smesso il
proposito di perseguitar Riccardo. Tornava alla politica inglese il non
metter troppo in mostra le sue violenze. Se il tranello fosse riuscito
e Riccardo fosse stato riconosciuto per un volgare avventuriero
di quelli che la Regina aveva assoldato, l’arrestarlo e quindi il
condannarlo non avrebbe sorpreso; ma si era rivelato per uno dei
primi signori del Regno, ma il Re lo aveva nominato conte di Rovito,
ma le sue nozze avrebbero dovuto riparare all’onore di una delle più
cospicue fanciulle: bene odioso dunque sarebbe riuscito l’intentargli
un processo pel quale mancavano anche i testimoni d’accusa, chè a ver
dire nessuno avrebbe potuto giurare che il calabrese uccisore in rissa,
di due soldati inglesi, che colui il quale era accorso in difesa dei
suoi compaesani rifugiatisi nel bosco di S. Andrea fosse proprio lui,
Riccardo.

Del resto, l’odio di lord Bentinck per la Regina era in parte
soddisfatto: quantunque il tranello fosse stato sventato la Regina
non aveva perduto l’amante? Non era questo il dolore di lei, che era
stato di conforto al ministro inglese? Non l’aveva vista smarrita,
anelante, quasi furente per la generosa menzogna della figlia del
duca di Fagnano? Inoltre, l’intento che si proponeva era raggiunto. Il
giorno appresso era corsa una voce che le spie al servizio del ministro
inglese avevano confermato: tra pochi giorni la Regina sarebbe partita
per Vienna!

Verso il pomeriggio del giorno indetto per le nozze che il Re aveva
voluto si celebrassero nella villa reale, in un appartamentino a
pianterreno Riccardo e il vecchio duca di Fagnano discorrevano da buoni
amici. Era stato il duca che il giorno appresso al riconoscimento aveva
voluto che il giovane lo seguisse a Palermo, donde eran tornati insieme
quella mattina.

— Dunque, siamo d’accordo — diceva il vecchio. — Non si parli più del
passato; tuo padre, requie all’anima sua, ebbe i suoi torti io ebbi i
miei. Certo se avessi saputo che mio nipote, il figlio di mio fratello
languiva nella miseria...

— Non si parli del passato! — interruppe Riccardo con un malinconico
sorriso.

— È vero, è vero. Del resto, tutto per il meglio, caro conte. Intanto
sai la nuova? La Regina partirà domani per Vienna. Sarebbe partita
prima, ma vuole assistere alle nozze. Quella lì è furba, quella lì! Non
vuol far credere che le riescano dolorose.

E rise nel dir ciò guardando maliziosamente il giovane che rimase
impassibile.

— Questa partenza viene a proposito, altrimenti Alma non avrebbe potuto
lasciare il servizio senza esser detta ingrata... Ma tu sei triste, tu
sei preoccupato!... Capisco, capisco... Non si sta tanti anni a Corte
senza divenire esperto del cuore umano. Pure se vuoi confidarmi le tue
pene, troverai in me un buon consigliere.

— Non ho nulla da confidarvi — rispose il giovane con un sospiro. —
Comprenderete però quanto sia incerto l’animo mio...

— Comprendo, comprendo! Il colpo di testa di Alma... perchè fu un vero
colpo di testa... dovette sbalordirti come sbalordì me, come sbalordì
tutti, quantunque nessuno ci abbia creduto; nessuno, neanche il Re che
ha commissionato l’abito, il velo nuziale, con la più candida corona
che mai abbia cinto fronte di fanciulla. E lo so io perchè è lieto il
Re, perchè ostenta tanta premura! Povero vecchio, non gli parve vero,
anzi non gli par vero, tanto più che è giunto anche a liberarsi dalla
moglie che partirà dimani, di esserne uscito senza molti fastidi, e che
sia finito come finiscono tutte le commedie: con un matrimonio, ciò che
pareva dovesse finire come una tragedia!

Il giovane taceva pensoso scrollando il capo talvolta, per rispondere
al certo ad un suo pensiero non lieto!

Invero, delle tante avventure della sua vita, quella che verosimilmente
sarebbe stata l’ultima, era la più grave, la più triste, pur avendo
per una strana e perfida ironia del destino l’apparenza di un fausto
evento.

Il Re non solo aveva riconosciuto i suoi diritti come duca di Fagnano,
ma gli aveva conferito un altro titolo per toglierlo di imbarazzo
innanzi a suo zio; non solo egli non aveva nulla da temere dagl’Inglesi
che a lui e alla Regina avevan teso un tranello rovinoso, ma con la
sua menzogna Alma aveva reso inevitabile un matrimonio che fino a pochi
giorni innanzi pareva financo assurdo il sognarlo.

Da quella sera fatale suo zio l’aveva voluto con sè a Palermo ove
lo avea presentato alla più alta nobiltà di Napoli e di Sicilia. In
quelli otto giorni che aveva vissuto come in un vaneggiamento, avrebbe
giurato che lui fosse un altro uomo; così diverso era il mondo nel
quale viveva, così strani eran per lui quelli avvenimenti; e vedendosi
in abito signorile che, costretto da suo zio, aveva vestito, in mezzo a
gente nuova che lo trattava da pari a pari, sentendosi dare un titolo
al quale non era usato, era tale la stupefazione che doveva guardarsi
nello specchio per chiedere se fosse lui, proprio lui, il conte di
Rovito, il fidanzato di Alma, e se fosse vero, se fosse vero che fra
otto giorni, nella villa reale, innanzi al Re, innanzi alla Corte, al
piè di un altare Alma gli avrebbe dato la mano di sposa!

Sposo di Alma, lui! E la Regina, la Regina della quale rivedeva
l’immagina sconvolta dal dolore, dallo strazio, e di cui gli pareva
d’udire i sordi gemiti; la Regina, vinta, umiliata, delusa anche in
quell’ultimo affetto del suo cuore di donna; la Regina, mal sopportata
dal marito, in odio ai figli, maledetta dalle tante vittime, e cui solo
per atroce ironia restava un titolo regale, una parvenza di sovranità,
la Regina si sarebbe rassegnata a vedersi anche da lui abbandonata, si
sarebbe rassegnata a vederlo e a saperlo felice nella gioia di un amore
che era stato l’unico e vero amore della sua vita?

E Alma, Alma, quantunque l’amasse, avrebbe, lei così fiera, lei così
leale, accettato con tutte le conseguenze quelle nozze a cui era
costretta dalla sua generosa menzogna? Avrebbe aperto le braccia
all’amante della Regina, la quale in quella menzogna avrebbe visto non
un’eroica abnegazione, ma un calcolo perfidamente ipocrita?

Eran questi i pensieri che volgeva nell’anima e che si confondevano in
un torbido vaneggiamento, nel quale egli, per dir così, non sentiva più
se stesso. Uomo di azione, solo in presenza del nemico, nell’imminenza
del pericolo ritrovava la sua energia, ridiveniva l’audace capobanda;
ma in tali contrasti d’affetti e di sentimenti, si smarriva, sentendosi
come in un ginepraio dal quale non sapeva come liberarsi.

E perciò mentre il duca, sicuro di essere ascoltato, discorreva
lasciandosi trasportare dal suo lieto umore, lieto perchè già
vagheggiava un disegno che gli avrebbe ridato definitivamente la pace e
il benessere, il giovane si teneva silenzioso, tutto immerso nel tristi
pensieri che gli riddavano pel capo.

— Io sono stanco — continuava a dire il duca che gli era seduto vicino
— stanco di questa vita così incerta, così faticosa, ed anche così
poco onorevole. I veri padroni qui son gl’Inglesi. Ora stranieri per
stranieri, padroni per padroni, valgono un pò più i Francesi. Non dico
bene? E perciò ho pensato di avvalermi dell’amnistia e di ritrarmi con
voialtri in Calabria.

Il giovane fece un gesto che parer poteva di consenso.

— Non per me oramai che son vecchio, nè per te che devi esser anche
disilluso della vita vissuta finora, ma... ma per coloro che verranno
bisogna riordinare un pò l’azienda di casa nostra. Chi sa che rovina,
chi sa che disastro in quelle nostre terre, in quei nostri boschi, in
quel nostro povero castello! Ma in breve, vedrai, riparerò a tutto,
farò tornare tutto in ordine... Bisogna dire che i Francesi sono
onesti, che re Gioacchino è un gran Sovrano! Ah, se si tornasse a
nascere!

— È certo dunque che la Regina va via? — chiese Riccardo come ridestato
di un tratto.

— E che farebbe più qui? — rispose il duca con una scrollata di spalle.
— Va via, sicuro. Se la povera Sicilia come la Calabria non fu tutta
in fiamme, non fu certo per merito suo. Gli è che qui non poteva
riuscire il piano infernale perchè noi abbiamo fatto senno dopo tanti
e tanti disinganni, e tante sventure. La sai la canzone? _Carulì, è
fernuto quell’anno — Ch’era ognuno gabbato da te — Mo se sape, sì piena
d’inganni_...

— Povera donna! — mormorò il giovane.

— Sì, povera donna! — bofonchiò il duca. — Ma sai tu quel che ha
tentato di fare, lo sai? Suo figlio, il Vicario generale, l’ha
scampata per puro miracolo e i medici furono tutti di accordo nel
ritenerlo avvelenato. Da chi? Dalla madre, comprendi? dalla madre!
Sai tu che lord Bentinck ha le prove che ella era affiliata a
quell’Arciconfraternita di San Paolo che mandava i suoi adepti da un
capo all’altro della Sicilia con l’ordine di uccidere di incendiare, e
sai tu chi designava le vittime al coltello degli assassini, lo sai tu?
La Regina!

— Povera donna! — ripetè Riccardo che pareva non avesse inteso le
parole del duca.

— Ah! — fece il duca offeso — se continui a compassionarla così, mi
costringi ad esclamare: Povera figlia mia!

Tali parole fecero sussultare Riccardo; furono il vento che fuga la
nebbia, il grido della scolta che sveglia il soldato. Si drizzò in
tutta la bella e maschia persona.

— Alma — gridò — Alma! Ma un Dio ebbe mai adoratore più fervido, un
cuore più devoto, un’anima più disposta a morire per ottenerne un
sorriso? Voi dunque non sapete, non sapete che dal fango in cui vissi
finchè la Provvidenza non mi trasse in su, io, come il navigante
perduto nell’Oceano si affissa nella luce di una stella, mi affissai
in lei che avrebbe sdegnato financo di calcarmi col suo piede? Ella lo
sa, lo sa che di lei ho vissuto anche mentre travolto da una fatalità
legai il mio destino a quello di una misera figlia di monarchi, sovrana
anche lei, le cui sventure, le cui angosce han cancellato le colpe, han
purificato l’anima, l’han fatta degna di pietà e di rispetto!

Il duca non sapeva qual contegno tenere. Nelle violente parole del
giovane intravedeva un fiero biasimo per sè e per tutti coloro che
non avendo più nulla a temere dalla Regina, la vilipendevano. Pure non
seppe trattenersi dal dire:

— Nei tuoi panni io... non mostrerei tanto interesse. Si sa, si sa
che... Si sa tutto, insomma. Ammirerei la tua costanza se non fossi il
padre di colei che fra poche ore sarà tua moglie!

— Io non l’abbandonerò — rispose lui con risoluto accento — io che
forse se l’avessi vista sul trono innanzi a voi tutti in ginocchio mi
sarei tenuto in disparte. Non l’abbandonerò finchè ella stessa non mi
manderà via. Vostra figlia è troppo una nobile ed eletta creatura per
non comprendere che il dovere, intendete? il solo dovere mi impone di
non imitare i suoi cortigiani di un tempo. Come ella ha sacrificato
il suo onore di fanciulla, come ella per stornare poi il pericolo che
sovrastava alla Sovrana osò con una eroica menzogna rendere necessario
un matrimonio al quale il mio e il suo cuore anelavano, ma che la
fatalità aveva reso impossibile, così io debbo fare al dovere olocausto
del mio cuore. Io non varcherò la soglia della camera nuziale: farei
oltraggio a me stesso...

— Come? — gridò sbalordito il duca. — Ho compreso bene quel che hai
detto?

— Sì: la vostra meraviglia, il vostro sdegno attestano che l’avete ben
compreso, quantunque vi sembri strano e forsanco... forsanco...

— Cose da pazzi, cose da pazzi! — proruppe il duca — Mia figlia dunque
non avrebbe voluto tali nozze che la sua menzogna ha reso necessarie?
Ma che pasticcio è questo? Moglie senza marito, marito senza moglie,
nozze senza... E tutto ciò per quella donna che ha portato il lutto,
il disordine ovunque ha esercitato la sua infausta influenza!... E mia
figlia, mia figlia...

— Vostra figlia è un angelo, vostra figlia è la più nobile e più eletta
creatura... Voi, duca, non potete intenderne tutta l’angelica e insieme
fiera natura. Io andrò ramingo, io dovrò forse a lungo lottare col mio
destino, io forse morrò, ma l’ultimo mio sospiro sarà per quella santa
creatura, al cui nome adorato raccomanderò l’anima mia.

— Io non ci capisco nulla, non ci capisco nulla! — borbottò il vecchio.

— Voi tornerete in Calabria — continuò il giovane. — I Francesi saranno
ben lieti di accogliervi; il Re Gioacchino ama di rinconciliarsi con
l’antica nobiltà napolitana. Io, anche se il dovere non mel vietasse,
non verrei. Troppo il mio nome di guerra echeggiò per quei boschi,
troppi Francesi caddero per mia mano: solo il tempo potrà attenuare la
memoria delle mie imprese. Voi sarete umano con la povera gente che ha
tanto sofferto, e che delle nostre passioni, delle nostre ambizioni
ha sopportato tutte le orribili conseguenze. Un’altra cosa voglio da
voi: che sulla tomba di famiglia ove fu seppellito il povero padre mio
facciate elevare un ricordo marmoreo, in vostro nome, zio, in vostro
nome!

Il duca apparve visibilmente turbato; il giovane non mostrò
accorgersene e proseguì:

— Vi è un vecchio laggiù, spero non sia morto, Carmine, un brav’uomo
che mi raccolse, che divise con me il suo scarso pane e che... è
legato a me da tanti vincoli. Egli conobbe la madre mia e ne raccolse
l’estremo sospiro; egli confortò l’agonia di mio padre. Se lo troverete
ancor vivo, gli darete alloggio nel castello, non già come servo, no,
come amico, intendete? come amico.

Quantunque dolce e quasi dimesso fosse l’accento del giovane, pure non
pareva che volgesse una preghiera, ma che desse degli ordini. Era una
dolcezza autorevole e recisa la sua, tanto che il vecchio ne subiva
l’influenza.

— Sta bene — rispose — farò quel che vuoi.

— Non quel che voglio, quel che dobbiamo. Inoltre, vi ricordate, è
vero? di una certa Geltrude, una vecchia mugnaia? Anche lei fu buona e
pietosa con me. Lasciatele finchè campa il godimento del molino. È il
meno che si possa fare per lei.

Il vecchio non pareva punto soddisfatto, ma non osava protestare.
Capiva che il nepote gl’imponeva quella espiazione alle sue colpe:
nobile espiazione che lo costringeva a soccorrere coloro che aveva
perseguitato. Ciò riusciva ostico assai alla sua altezzosità, ma si
ricordò in buon punto che non aveva il diritto di ribellarsi più, onde
piegò il capo assentendo.

— E poi ci è un altro, un altro, che al certo vorrà godere
dell’amnistia.

— Un altro?

— Sì, che mi salvò la vita più volte, che più volte rischiò la sua
per me; un vecchio, che conservò per trent’anni l’atto matrimoniale
che fa fede essere io nato da legittime nozze; un vecchio che mi amò
più che figlio, al quale unicamente debbo oltre la vita, il mio stato
attuale... Pietro il Toro.

— Quel brigante? — esclamò il duca che si conteneva a stenti.

— Sì — rispose il giovane il cui sguardo fiammeggiò di sdegno, pur
continuando con accento dolce e tranquillo — sì, quel brigante, più
leale più onesto, più fedele del più cospicuo signore di Napoli e di
Palermo; un galantuomo a petto del quale molti duchi, conti, marchesi,
son dei farabutti. Se egli dunque tornerà nel nostro paesello, voglio,
intendete? voglio che lo si metta a capo dei nostri guardiani, che si
alloggi nel castello, lo si provveda di cibo, di vesti, di fuoco, lo si
tenga in conto di un amico, non di un servo. Mi avete ben compreso, mio
caro zio?

— Sì, sì, ho compreso — rispose il duca stizzito.

Gli è che tentava ma invano di ribellarsi contro il fascino che
esercitava su lui il nipote. Capiva che quel giovane aveva qualcosa in
sè di autorevole, d’imperioso, da soggiogare la volontà di lui come
già l’aveva soggiogata. E cosa strana, in quella natura egoistica,
quasi cinica, sentiva di volergli bene, come non ne aveva mai voluto
a nessuno, fuor che alla figliuola: era la così detta voce del sangue,
quella, o era il rimorso che si manifestava in tenerezza per la vittima
della sua ambizione?

Ma Riccardo si era di nuovo immerso nei suoi pensieri.

Intanto si avanzava la notte, e già per la villa si notava un insolito
movimento. Delle carrozze erano giunte da Palermo e gli appartamenti
eran pieni di signori e di dame attratti dal caso strano. La maggiore
curiosità era destata dallo sposo, intorno al quale correva una
leggenda che lo rendeva interessantissimo. Il Re aveva ordinato che
nulla si risparmiasse perchè le nozze riuscissero sontuose. Un ricco
corredo messo insieme in fretta e in furia era venuto da Palermo: una
vecchia dama di palazzo, la marchesa di Gioncada, era stata pregata dal
Re di far da madrina alla sposa per la quale aveva fatto addobbare un
appartamento in un angolo finallora disabitato dell’ampia villa.

O volesse divertire la sua solitudine e rompere la monotonia della
sua vita quotidiana, o volesse far prendere sul serio la confessione
della giovanetta, o volesse incrudelire con la moglie, ben comprendendo
quanto dolorose dovessero riuscirle quelle nozze che legavano
indissolubilmente a un’altra donna il di lei amante, l’interessamento
del Re era davvero insolito. Però la vera ragione non era sfuggita
alla duchessa di Floridia che aveva ottenuto un invito per le nozze,
e che verso l’imbrunire per una porticina segreta era penetrata
nell’appartamento del Re.

— È stata un’imprudenza, cara duchessa — le disse il Re seccato,
temendo che la presenza dell’amante potesse suscitare qualche
spiacevole incidente. — In verità, speravo che non avreste tenuto conto
alcuno dell’invito...

— Un invito di Vostra Maestà è un ordine per me — rispose lei con aria
sorniona.

— Capisco, ma avrei preferito che disubbidiste questa volta, e ve ne
sarei stato gratissimo, credetelo.

— Ma allora... perchè mi avete fatto comprendere nella lista
degl’invitati?

— Dio mio... perchè avendo invitato tutta lo nobiltà palermitana,
non volevo eccettuar voi... Vi conosco assai bene: non me l’avreste
perdonato... ma mi lusingavo che...

— Che io fossi stata così debole, così vile da non osar affrontare la
presenza di vostra moglie?

— No, ma così generosa, così curante di me, così preveggente da
evitarmi un impiccio, una preoccupazione. Infine quella lì fra due o
tre giorni andrà via...

— In un modo o in un altro abbiamo raggiunto il nostro intento. Solo
di quella povera ragazza mi dispiace... Legarsi per tutta la vita ad un
uomo che non si sottrarrà mai, mai, agli artigli di...

— Io voglio, duchessa, voglio che non parliate così! Non posso
permettere nessuna oltraggiosa allusione a chi Dio fece salire sul
trono dei miei padri!

In ciò dire il Re aveva un aspetto severo che impose alla duchessa, la
quale chinò il capo tra stizzita e confusa.

Ma erano rapidi in Ferdinando IV i risvegli alla dignità regale e
presto dileguavano. Temendo il corruccio della duchessa, la prese pel
mento e l’obbligò a sollevare la bella testa.

Gli occhi di lei erano bagnati di lagrime, vere o false.

— Ma insomma, è destino, è destino che ovunque mi volgo debbo vedere
delle facce tristi? Andiamo, via! Del resto non è poi tanto da
compiangere quella povera ragazza che riceveva l’amante fin negli
appartamenti regali...

— Voi non lo credete, voi non lo credete punto. Quella poveretta
si è sacrificata — gridò la duchessa che, sicura del suo ascendente
sull’animo del Re, voleva punirlo del severo rimprovero che le aveva
mosso.

— Piccina mia — disse il Re impazientito — va, va nella sala con gli
altri invitati. E mi raccomando, anche se devi sopportare qualche...
qualche sgarberia. Pensa che fra due o tre giorni tu sarai l’assoluta
signora e padrona di qui. Hai capito?

Ella, tutt’ora in collera, si era alzata.

— Poichè Vostra Maestà mi manda via... — disse con voce di bimba
piagnucolosa.

— No, no, ma no, non ti mando via; ma io ora debbo attendere alla mia
toeletta... ho già fatto avvisare il cameriere.

— Vostra Maestà mi manda via ed io vado via!

Ed uscì, lasciando il Re stizzito, afflitto, ed un tantino anche
seccato.

— Si equivalgono, si equivalgono; non pensano che a se stesse e sono
ben liete di tormentarci! È una perfidia congenita la loro, anche nelle
più buone!

Questo mormorava il vecchio Re mentre si affidava al cameriere che
doveva curarne la toletta.

Alma da quella sera fatale aveva vissuto come incosciente di ciò che
accadeva d’intorno a lei: affissata in se stessa del tutto estranea
alle disposizioni che il Re aveva dato per affrettare il matrimonio,
le avevano assegnato un appartamentino in fondo alla villa, lontano
e separato da quello che abitava la Regina. La vecchia marchesa di
Gioncada, pregata dal Re aveva assentito non solo a far da madrina
alla sposa, ma anche a restar con lei finchè non si fosse celebrato il
matrimonio.

Alma si chiedeva talvolta se quello fosse un sogno. Nel generoso
impulso non aveva riflettuto alle conseguenze del suo sacrificio,
onde era rimasta presa nell’ingranaggio. Comprendeva confusamente che
coloro i quali avevano teso il tranello sventato da lei, si vendicavano
del suo intervento facendogliene subire gli effetti, e forse avevano
influito sull’animo del Re che dalla sua consueta apatia era uscito
per occuparsi di quelle nozze come se fossero un affare di grande
importanza.

Ella dunque sarebbe stata fra poco la sposa di Riccardo! Nella camera
attigua a quella da lei abitata, la mattina del giorno destinato alle
nozze aveva visto un affaccendarsi di camerieri e di valletti che
agli ordini della marchesa di Gioncada disponevano arazzi e mobili e
tappezzerie. Sarebbe stata quella la camera nuziale, chè il Re voleva
esser l’ospite della giovane coppia. Ella nel suo intontimento intese
come un brivido nel vedere in fondo, fra le tende di seta azzurra,
elevarsi il talamo sormontato da un ricco baldacchino. Non le pareva
vero, non le pareva vero! Pure non protestava, chè non sapeva come
sottrarsi alla fatalità incombente. Aveva visto deporre nella sua
stanza le vesti nuziali, col velo e la corona, ma era giunta quasi
a credere che fossero per un’altra, tanto le pareva impossibile che
proprio lei, fosse la sposa!

E pure talvolta era tutta una esultanza la sua, e le si dispiegava
dinnanzi agli occhi un miraggio soffuso di una luce soavissima.
Non amava ella quel giovane? Non aveva inteso per lui qualcosa
d’ineffabile che non osava credere amore quando egli non era che un
povero avventuriero venuto su pel suo coraggio dagli strati più umili
della vita sociale? Non si era intesa punta da un sentimento che ben
riconosceva adesso per gelosia, allorchè comprese quali fossero i
rapporti fra quel giovane e la Regina?

Ella dunque l’amava, da gran tempo l’aveva amato, ed ora che lo sapeva
suo cugino e per di più vittima delle male arti del padre, quanto più
degno dell’amore suo non era quel giovane?

Le loro nozze avrebbero riparato a tutte le conseguenze dannose di quel
riconoscimento. Sarebbero tornati insieme in quel vecchio castello,
nei boschi secolari, tra la buona gente del paesello e avrebbero a
poco a poco scordati i dolori e le traversie. I loro sogni s’erano
incontrati ed erano divenuti una realtà: che importava se il caso aveva
presieduto alle loro nozze, se la fatalità facendo macchinare l’indegno
tranello ai nemici della Regina, aveva fatto sì che ella con una subita
risoluzione salvasse l’onore della Sovrana e rendesse indispensabili
quelle nozze? Di quel mezzo la Provvidenza si era servita per il suo
altissimo fine, per congiungere i loro cuori, per riconciliare zio e
nipote, per far risorgere una famiglia tra le più cospicue! Ella dunque
poteva abbandonarsi all’esultanza ed affissar tranquilla e fidente
la nuova vita che le si dispiegava dinanzi come un bel sogno d’oro e
d’azzurro!

Ma il miraggio dileguava repente e ad esso subentrava una ben terribile
visione: lui fra le braccia di un’altra donna, lui stretto da vincoli
che nè la pietà, nè il dovere, nè la dignità di uomo gli avrebbero
permesso d’infrangere, ad una donna da tutti abbandonata, in odio a
tutti, che da una eccelsa altezza era precipitata nell’abisso di ogni
miseria!

Alma sentiva che il suo orgoglio di donna si ribellava: lui non le
aveva voluto quelle nozze: lui le subiva perchè salvavano la sua
amante: lui quella sera non aveva osato smentirla perchè avrebbe dovuto
confessare i suoi rapporti con la Regina!

Nel varcar la soglia della camera nuziale l’anima di lui non si sarebbe
volta all’amante che sotto l’istesso tetto, sola, gemente, rosa dalla
gelosia, straziata dal dolore, avrebbe maledetto l’istante in cui,
dimentica della regale dignità, gli aveva aperto le braccia?

                             . . . . . . .

I convitati si tenevano in piedi presso alla sedia che era loro
assegnata, volgendo gli occhi impazienti alla gran porta del salone
donde venir doveva il corteo degli sposi. La presenza della coppia
regale teneva in rispettoso silenzio la folla, solo lord Bentinck
che avrebbe dovuto sedere alla destra del Re, dopo aver profondamente
inchinato la Regina gli si rivolse per dirgli:

— La Maestà Vostra sa del decreto di amnistia, promulgato dal Murat?

— Sì — rispose il Re — e ne son lieto, milord. Anzi credo sia buona
politica incoraggiare molti dei signori che mi han seguito in Sicilia
e che... son costretti per vivere ad attingere a piene mani nella mia
cassetta privata, a tornarsene nei loro feudi, ove forse potrebbero
rendermi più utili servigi.

— Ma debbono riconoscere il nuovo governo e giurare di osservarne le
leggi.

— Giurare, giurare! — borbottò il Re. — Il giuramento prestato ai
felloni, agli usurpatori, non ha valore alcuno!

Intanto lord Bentinck guardava la Regina per scrutarne l’espressione
del viso. Profondo osservatore, non gli era sfuggito nulla di ciò che
ella aveva in cuore. Il tranello non era riuscito, ma gli effetti erano
stati disastrosi per la sua nemica, che era costretta ad andar via.
Una battaglia perduta aveva fruttato ben più d’una battaglia vinta. La
Regina, però era giunta ad imporsi un contegno calmo e fiero insieme, e
all’inchino dell’Inglese aveva risposto con un sorriso.

— Ho pestato io il suo cuore in un mortaio! — mormorò l’Inglese che si
teneva impassibile al suo posto.

— Eccoli, eccoli! — si susurrò dalla folla che aveva visto farsi
innanzi il corteo nuziale.

Alma si appoggiava al braccio del padre. Al vederla un mormorio di
ammirazione corse per gli astanti. La soave leggiadria della giovinetta
era di quelle che accarezzano lo sguardo come un blando raggio di
stella. Non aveva punto l’incedere timido e incerto delle giovani
spose, quasi convinta che a tutti fosse noto che quelle nozze fossero
la continuazione della sua generosa menzogna. Pure, allorchè vide
l’altare sfavillante di lumi con monsignor Caccano, cappellano di
Corte, in abiti vescovili, che doveva benedire gli sposi, impallidì, e
il padre intese che il braccio tremava sul suo, mentre la giovinetta si
arrestava quasi sgomenta.

Dietro a lei veniva Riccardo, che aveva vestito la divisa di colonnello
degli usseri, cui gli dava diritto il brevetto firmato dal Re e che gli
era stato dato dal duca nel giorno precedente alla difesa del castello
di Fagnano. Era stato lo zio a volere che indossasse quell’uniforme:
aveva voluto fargli una tale sorpresa facendo cucire a Palermo
l’uniforme, e l’obbligò a vestirla proprio pochi istanti prima che
scoccasse l’ora delle nozze.

— È il tuo diritto — gli aveva detto. — Con quali abiti vorresti
comparire a Corte? Eppoi è un grado che hai ben guadagnato! Ne vedrai
tanti in divisa di generali che han visto solo il fuoco del caminetto!

Egli si persuase. Perchè nascondersi? Non aveva il corpo crivellato di
ferite? Non aveva esposto la sua vita quasi ogni giorno e per lunghi
anni nelle zuffe sanguinose contro i Francesi e in difesa di quel Re e
di quella Regina innanzi ai quali sarebbe comparso?

— Bellissimo, bellissimo! — si mormorava vedendolo passare dando il
braccio alla vecchia marchesa di Gioncada. — Ma chi gli ha conferito il
grado di colonnello?

— Questo sì che è un soldato! Che aria fiera e risoluta!

— È tutto un romanzo la sua vita!

— Un romanzo di armi e di amori!

Le signore guardavano ammirate. La giovinezza, la beltà, il nome,
le avventure che si narravano confusamente, con quanto vi aggiungeva
la fantasia; la passione della Regina per lui, quel che si susurrava
dell’amore di Alma, che con un’ardita menzogna era giunta a sottrarlo
alla rivale, conferivano maggior fascino alla sua bellezza maschia e
fiera.

La Regina lo fissava, forzandosi di dissimulare l’emozione, superba di
lui che vedeva ammirato, ma insieme col cuore stretto da una ineffabile
trepidanza.

Il contegno del giovane non era nè spavaldo nè dimesso: solo quando
giunse innanzi a lord Bentinck che aveva sul labbro un sorriso
sarcastico, lo fissò; ma l’Inglese sì mantenne impassibile.

— Colonnello, colonnello degli usseri! — mormorò sorpreso Ferdinando IV.

Il vecchio duca di Fagnano che l’udì, s’inchinò al Re e rispose:

— Sì, Sire, nominato da Vostra Maestà con uno dei brevetti firmati in
bianco che mi diede per premiare i più meritevoli. Allora non sapevo
che uno dei più, se non il più meritevole, fosse mio nipote, al cui
valore dobbiamo se i sacri giorni di Sua Maestà la Regina e la sua
libertà furono salvi.

— Ah, ora intendo, ora intendo! — fece il Re — scrollando il capo.

Intanto Riccardo si era avvicinato all’altare. Alma nel vederlo trasalì
lievemente: i loro sguardi s’incontrarono; essi intesero tutto il
dolore delle loro anime, tutto il terribile contrasto dei loro cuori.
Quelle nozze che avrebbero compendiato la felicità della loro vita,
quelle nozze alle quali le loro anime anelavano; che erano per lui
l’inaudita, l’immensa fortuna, la quale prima di quel giorno sarebbe
parsa un sogno nel sogno; che erano per lui un cielo poc’anzi nero
di nubi e che di un tratto aveva visto scintillante di stelle; quelle
nozze, per un’ironia atroce del destino, erano per entrambi un abisso
profondo!

La cerimonia incominciò nel silenzio solenne degli astanti.

— Sì! — rispose lui alla domanda del sacerdote.

— Sì! — rispose lei.

Gli anelli furono scambiati. Il sacerdote mormorò alcune parole e poi
li benedisse.

Gli sposi si alzarono.

— Figli, figli miei! — disse il vecchio duca stringendo in un amplesso
la figlia e il nipote.

Ella era livida: pur sorrideva, ma era una piega di dolore quella delle
sue labbra. Lo sguardo immoto, senza luce, era di chi abbia l’anima
altrove.

Lui si teneva immobile, scuro in viso, come perduto in un sogno. Nel
darsi la mano, secondo il rituale, egli aveva inteso gelida la mano di
lei nella sua pur anco gelida.

La Regina guardava con la torbida anima negli occhi: nulla le era
sfuggito del cuore di entrambi. Quando ne udì il «sì» che assentiva
alle nozze, un’ondata di sangue le annebbiò il cervello. Ma era giunta
a dominarsi, era giunta a tenersi calma ed in vista sorridente.

Anch’ella si sentiva scrutata dallo sguardo sarcastico e trionfante di
lord Bentinck, che assaporava la sua vendetta.

Il Re si fece innanzi agli sposi che s’inchinarono profondamente.

— Voi avete ben servito me e Sua Maestà la Regina: noi non scorderemo
mai i vostri servigi. Questo gioiello vi ricordi, contessa, che la
nostra benevolenza non vi verrà mai meno.

Ciò dicendo porse una busta alla giovinetta volgendole uno sguardo che
ne sottolineava le parole.

Alma prese la busta e non rispose.

Il Re si fece da parte: Carolina d’Austria si avanzò e con voce ferma,
quantunque le labbra le tremassero per la commozione:

— Porterò meco scolpito nel mio cuore quel che vi debbo — disse,
evitando di guardare Riccardo, il quale era così chiuso nei suoi
pensieri che parve non si fosse accorto che anche a lui la Regina aveva
rivolto la parola.

Alcune dame si erano fatte intorno alla sposa per complimentarla; il
Re discorreva con lord Bentinck; la Regina con una rapida occhiata
volta in giro vide la gente distratta da lei, onde con atto furtivo si
accostò a Riccardo e gli disse rapidamente a mezza voce:

— Stanotte ti aspetto...

Egli trasalì. Poi si rivolse e quasi bruscamente come se non alla
Regina, ma rispondesse a un suo pensiero:

— Non dubitate — disse — Verrò!

— A cena, signori — fece il Re volgendosi agli astanti, e in ciò dire
offerse il braccio ad Alma.

Era un grande onore che il Re concedeva alla sposa, la quale non
parve punto imbarazzata. Riccardo avrebbe dovuto offrire il suo alla
Regina, ma egli se ne stava immobile, come del tutto estraneo a quel
che avveniva. Il vecchio duca di Fagnano gli passò vicino e senza aver
l’aria di parlargli mormorò:

— Su, presto, offri il braccio alla Regina, che diavolo!

E passò oltre. Il giovane a queste parole tornò in sè, si avanzò verso
la Sovrana e offrendole il braccio le disse con un amaro sorriso:

— Perdono, Maestà: gli è che son del tutto nuovo a certi usi...

Dietro al Re e alla Regina venivano a coppie le signore e i signori
invitati, che potevano finalmente sciogliere la lingua ai commenti:

— Un matrimonio assai strano! — diceva la giovane e bella baronessa di
Feroleto al suo cavaliere. — Lei aveva una cert’aria indefinibile... Mi
è parso di assistere ad una monacazione più che ad uno sponsale!

— Lui pare smemorato! Certo un gran mistero vi è sotto!...

Mancava un’ora alla mezzanotte e la cena era in sul finire. Durante
quel tempo Riccardo aveva scambiato poche parole con coloro a cui era
stato presentato. Aveva evitato che i suoi sguardi s’incontrassero in
quelli di Alma e in quelli della Regina. Il suo pensiero era andato
lontano lontano, ai primi anni della giovinezza, agli strani casi della
sua vita di avventuriere, ben comprendendo che da quella sera un’altra
ne incominciava per lui, forse più triste, più dolorosa della prima.

Eppure sentiva che la felicità era a pochi passi da lui, ne vedeva
l’immagine luminosa, ne vedeva il miraggio fascinatore, ma per una
atroce ironia del destino egli doveva volgere per un’altra via che gli
additava il dovere: egli doveva distaccarsi da quella giovinetta che
era stata la religione di tutta la sua vita.

Se ne doveva distaccare, doveva fuggirla ora che era sua, ora che Dio
gliel’aveva data! Quell’ora suprema in cui due cuori, dopo avere a
lungo sofferto si fondono nel bacio che incatena per l’eternità due
esistenze, esser doveva per lui l’ora della separazione angosciosa! Non
solo la fierezza di lei lo respingeva, ma anche la sua dignità di uomo
si opponeva che egli usasse dei suoi diritti.

Quelle nozze erano una violenza, erano una menzogna, come la menzogna
che le aveva rese necessarie. Se per tutti egli era lo sposo, per la
sua coscienza era l’usurpatore, quasi un intruso, e ciò bastava forse a
spegnere nell’anima di lui ogni sentimento di amore.

Pure egli sentiva che non si apparteneva più, e nonpertanto sentiva
altresì che d’ora innanzi sarebbe stato solo al mondo. Se il suo
dovere, il suo giuramento, la lealtà gl’imponevano di non abbandonare
la regal donna che era da tutti abbandonata, la fede che aveva giurato
ad Alma gli faceva un obbligo di rompere ogni altro rapporto con la
Regina.

Per quelle nozze avrebbe dato la vita allorchè era un misero
avventuriere, avrebbe dato la salvezza dell’anima sua, avrebbe
dato tutto l’universo se fosse stato in suo potere; ora che quelle
nozze erano compiute egli si sentiva più misero, più solo, vieppiù
sprofondato nell’abisso del tempo in cui era un misero trovatello.

Non apparteneva a se stesso perchè legato dal dovere e dal giuramento
alla Regina; non apparteneva a nessuna di quelle due donne, perchè
l’una l’avrebbe respinto all’altra. Era questa la catastrofe, la
terribile catastrofe della sua vita.

Il Re intanto si era alzato, sicchè come prescriveva il cerimoniale,
tutti furono in piedi.

— Io bevo — disse il Re tenendo alto il bicchiere — alla felicità della
giovane coppia, e che i figli abbiano del padre il valore e la lealtà,
della madre le virtù del cuore.

Tutti bevvero in onore degli sposi, i quali rimasero muti, come affatto
estranei a quel che accadeva.

La Regina si era alzata anch’essa e cercava con lo sguardo lo sguardo
del giovane. Una fiera battaglia si combatteva in cuor suo, roso da una
invincibile e atroce gelosia.

Quantunque egli le avesse risposto recisamente che in quella notte
stessa sarebbe andato nella camera di lei, pure nel momento di
lasciarlo, ben sapendo che, dopo, gli sposi, accompagnati dagl’invitati
fin sull’uscio dell’appartamento che il Re aveva fatto addobbare per
essi, sarebbero rimasti soli, un dubbio atroce le attenagliava il
cuore.

Essi si amavano. Poteva mai la voce della lealtà, del dovere,
dell’orgoglio esser più forte della voce dell’amore? Quale notte di
spasimi sarebbe stata la sua se invano lo avesse atteso, quale tragica
notte di angoscia, di avvilimento!

Il Re mosse per andar via; la Regina che discorreva con alcune dame
pur cercando ma invano con lo sguardo quello di Riccardo, comprese
che non conveniva indugiare più oltre. Confusa, incerta, si mosse
verso i valletti che sostenevano i grandi candelabri d’argento e che
aspettavano per accompagnarla, ma nel rispondere con un cenno della
testa al profondo inchino degli astanti si vide fissata con un perfido
sorriso sardonico da lord Bentinck che si era inchinato non meno
profondamente degli altri.

Le occorse uno sforzo sovrumano per non slanciarsi sul suo nemico. La
tigre che era in lei s’accovacciò fremente d’ira sanguigna.

— Via, su — disse il vecchio duca di Fagnano volgendosi a Riccardo — dà
il braccio a tua moglie: è tempo ormai di pensare a voi. Io sono stanco
ed ho bisogno di riposo.

Il giovane, che se ne stava come trasognato, si scosse, si avanzò verso
Alma che dritta in piedi aspettava. Egli le offrì il braccio.

Quando ella gli posò la mano sul braccio, Riccardo intese come un
brivido per la persona. Il duca faceva da cavaliere alla marchesa di
Gioncada, le altre coppie seguivano secondo il grado di ciascuno.

Giunto il corteo dinanzi all’appartamento destinato agli sposi, si
arrestò.

Il duca di Fagnano era veramente commosso. Si avvicinò alla figlia
e senza poter proferir parola se la strinse al petto e la baciò in
fronte.

Ella rimase fredda, altera, impassibile.

— È questo il mio solo amore — disse poi il duca volgendosi a Riccardo
pur non lasciando di tenere stretta a sè la figliuola. — Se ebbi dei
torti con tuo padre, io sono sicuro che egli da questo istante benedice
mia figlia, benedice la Provvidenza che ha affidato a quest’angelo
tanta missione conciliatrice.

E baciò il giovane stringendo entrambi gli sposi al suo petto.

Alma varcò per la prima la soglia della camera: Riccardo la seguì e
chiuse dietro a sè la porta.

Rimasero entrambi muti, immobili, mentre giungevano ad essi le voci dei
convitati, ognuno dei quali si dirigeva verso il suo alloggio. Poi fu
fatto silenzio.

La camera era blandamente illuminata da una lampada in un globo di
alabastro che scendeva dal mezzo del soffitto; in fondo biancheggiava
il talamo nuziale sormontato da un serico baldacchino.

— Ed ora, addio disse lei con voce soffocata ma ferma, additando al
giovane l’uscio che aveva chiuso dietro a sè.

Egli impallidì a quel commiato. Mosse per uscire, poi, ubbidendo ad un
impulso imperioso:

— No — disse — non così deve uscire l’uomo a cui testè avete giurato la
fede di sposa.

— La Regina vi aspetta! — rispose lei con un amaro sorriso — Ho sentito
tutto. Il vostro dovere v’impone di non farla attendere. Andate.

— Ascoltatemi, Alma — fece il giovane, nel cui viso si leggeva lo
strazio dell’anima — ascoltatemi. Lo so che debbo andar via, lo so
che questa atroce commedia che abbiamo recitato doveva aver per fine
la muta, a tutti ignota tragica catastrofe dell’anima mia; lo so che
mai non fummo così divisi, neanche allorchè noi due rappresentavamo
gli estremi della vita sociale: voi tanto in alto, io tanto in basso
che nemmeno con lo sguardo giunger potevo a voi; mai non fummo così
divisi come siamo ora che innanzi a Dio e alla legge voi siete mia.
Pure voi mi amate, lo so; io... non ho avuto dacchè il cuore ebbe
palpiti, l’anima ebbe sospiri, la fantasia ebbe immagini, la mente
ebbe idee, altro amore che per voi: nacque con me, crebbe con me, fu
la mia religione, fu il mio sogno, fu il nutrimento continuo, perenne
dell’anima mia. Lo portai meco nei boschi in cui, povero fanciullo,
vagavo solitario e pensoso; lo portai meco nelle mischie, nelle fughe,
negli agguati: mi sorrideva nei riposi inquieti, nelle notti vegliate
col fucile in pugno e lo spettro della morte innanzi agli occhi:
lo invocai quando, ferito, giacevo sotto un faggio, sicuro di non
giungere al dimani; lo invocai chiedendo a Dio solo una grazia: che
mi facesse morire, se dovevo morire, contemplando la vostra immagine.
Quel po’ di bene che ho fatto mi era premiato dalla visione vostra
radiosa e sorridente: il male che ho dovuto commettere era punito dalla
visione vostra che si velava. E ciò senza alcuna speranza, e ciò come
l’adorazione di una divinità alla quale si sa di non poter giungere,
si sa che non potrà mai incontrarsi, da cui neanche lassù forse ci è
dato di ottenere un sorriso od una parola. Voi passavate bella, felice,
superba, come passa un raggio di sole che illumina tanto il rosaio
quanto il roveto e che trae scintille tanto dal mare quanto dal putrido
padule!

Ella, seduta su una poltrona su cui si era lasciata cadere, ascoltava
immobile, con gli occhi fissi a sè dinanzi, rigido il corpo come
l’anima straziata dalle parole del giovane, ma inflessibile.

— Voi — continuò Riccardo — non eravate una realtà, eravate più che
un sogno, una idea. Le contingenze della vita, anche cattive, non
offuscano il culto che l’anima professa. Quando, dopo una bizzarra
avventura, la mia giovinezza non seppe resistere alle lusinghe di una
realtà che sopravanzava ogni ambizione, non fu infedele l’animo mio a
quel culto che continuò in me come continua l’adorazione per la Madre
di Dio nell’uomo che pur vive o ha vissuto nel delitto. Accettai quella
realtà continuai a vivere in quella illusione. Ora...

Ella disse, calma e fredda:

— Ora anche io sono una realtà. Voi siete troppo leale e io sono troppo
superba perchè nulla di comune vi sia tra di noi. Siamo entrambi due
vittime del destino.

— Ma voi mi amate non è vero? Voi mi amate! — gridò lui — Quale dunque
sarà la nostra vita?

— Voi mi avete parlato del vostro amore io non voglio parlarvi del
mio. Se a voi mi fossi concessa nel segreto di un’alcova sarebbe stata
meno solenne, meno inconfutabile la prova dell’amor mio di quella che
vi ho dato proclamandovi in faccia a tutti il mio amante. Una donna
nel delirio dà i suoi baci, dà le sue carezze all’uomo che ama: io ho
gettato ai vostri piedi il mio pudore di fanciulla alla presenza di
tutta una Corte. Chi ama così muore del suo amore come io ne morrò!

— Alma! — gridò lui che tremava di passione.

Aveva preso le mani della giovinetta che lo respinse dolcemente.

— Continua ad amarmi quale una illusione come per tanti anni mi amasti!
— rispose lei che mal dissimulava lo strazio del cuore. — Che io
sia per te quel che fui finora, quel che per me tu sarai sempre. Le
nostre anime si cercheranno per lo spazio immenso... Colà vivremo del
nostro amore, fuori della vita, fuori della realtà, poichè la realtà
ci impone dei doveri, e noi siamo troppo leali e troppo superbi per
trasgredirli...

— Hai ragione! — rispose lui alzandosi.

Era livido, ma s’impose di non venir meno innanzi all’ineluttabile. Or
che quella giovinetta era sua, per una ironia della fatalità doveva
fuggirla, anche se la Regina lo sciogliesse dal suo giuramento.
Aveva giurato di non appartenersi, aveva abdicato alla sua volontà,
era venuto in Sicilia affrontando rischi e pericoli mortali, per
la promessa che aveva giurato. Ben vile sarebbe stato se si fosse
avvalso dell’accaduto per tradire una donna precipitata nell’abisso.
Comprendeva altresì che tanto più Alma lo avrebbe amato quanto più per
lei fosse stato un fantasma.

Si diresse verso la porta che aprì. Ella lo aveva seguito e si teneva
muta, immobile sulla soglia. I loro sguardi s’incontrarono. Vi son
degli istanti in cui si decide dell’avvenire di un uomo. Era quello
istante supremo della loro vita, del loro amore. In quello sguardo
entrambi lessero la loro angoscia, la passione che li spingeva l’uno
nelle braccia dell’altra. Egli comprese che era per soccombere, ella
comprese che era per venir meno.

Il giovane fece uno sforzo disperato, varcò l’uscio, trasse la porta a
sè e si trovò nelle tenebre dell’anticamera.

Intese che due braccia, due morbide braccia di donna lo prendevano
alla vita, un cuore che batteva sul suo, un respiro affannoso che gli
bruciava il volto ed una voce anelante che gli diceva sommesso.

— Siete entrambi due nobili creature. Vieni, vieni, vedrai che saprò
esser degna dell’immane sacrificio!

Era la Regina che lo costringeva a seguirla attraverso le buie sale.
Egli si lasciava condurre, risoluto a dichiarare tutta l’anima sua. Già
aveva segnato la via da percorrere ineluttabilmente, e l’occasione gli
si offriva per dare il primo passo.

La Regina aprì la porta della sua camera.

— Vieni — gli disse con voce esultante — vieni!

Egli esitò per un istante, poi seguì la Regina che sedette su un divano.

— Nobile cuore! — mormorò, guardando il giovane che si teneva dritto,
immobile a lei dinanzi.

— Vedi — disse dopo un istante di silenzio Carolina d’Austria — vedi
fino a qual punto mi sono umiliata io, io che ho sangue di venti
imperatori nelle vene. Ebbene che importa, che importa la mia rovina
se in fondo all’abisso in cui son caduta ho trovato due cuori come i
vostri? Che importa? Ho assaporato anch’io, finalmente, la gioia, la
pura gioia che dà il bene, che dà la fede, che dan le virtù, io, io,
che non ho mai creduto al bene, che non ho mai creduto alla virtù, che
non ho mai avuto fede, neanche in me stessa!

— Io avevo giurato! — rispose lui grave e solenne.

— Ed io ti sciolgo dal tuo giuramento. Va, se l’amore per colei che
ormai porta il tuo nome, che è tua innanzi a Dio e agli uomini ti
gonfia il cuore e ti fa maledire la fede che devi a me come donna e
come Regina.

Egli sorrise amaramente.

— Che io vegga Vostra Maestà felice, che io la vegga nel fulgore del
trono, formidabile di potenza su quel trono che Dio le ha dato, allora
soltanto m’intenderò sciolto dal giuramento prestato. So bene che molta
parte di me non mi appartiene; che la mia lealtà come m’impone di dar
la vita pel servizio della Maestà Vostra, m’impone di serbar la mia
fede di sposo alla giovinetta che si è data a me sol per confondere
ed abbattere i nemici di Vostra Maestà. So che voi partite, o Regina,
sola, voi la Sovrana di tutto un popolo. Ordinate a che ora bisogna che
mi tenga pronto, perchè io vi seguirò.

— Mi seguirai? — disse lei che aveva ascoltato ora sfavillante di
gioia, ora abbuiandosi in viso.

— Sì, sì, questo è il mio dovere.

— Quale sarebbe dunque il mio? — mormorò la Regina che contemplava
pensosa il giovane fiero e bello, il quale era pur sempre il servo
devoto ma che, ben lo comprendeva, non era più l’amante. Qual dunque
sarebbe il mio dovere? Morire!




EPILOGO.


Erano trascorsi due anni dagli avvenimenti che abbiamo narrato.

Il castello di Fagnano era silenzioso e triste. Chiuse le finestre,
chiusa la gran porta; solo la postierla socchiusa era indizio che
qualcuno lo abitava. Le circostanti campagne erano anch’esse silenziose
in quel bellissimo giorno di maggio. Chi le avesse viste al tempo del
brigantaggio contro i Francesi non le avrebbe riconosciute. I contadini
eran tornati tranquilli ai loro lavori, e il paesello in fondo,
pressochè deserto durante il giorno, spirava un’aria di pace profonda e
di raccoglimento.

Il molino della vecchia Geltrude faceva sentire il suo tic-tac tra il
ronzìo dei mosconi, lo zirlar dei grilli, il grido delle rondini che
volitavano intorno al tetto. La vecchia filava sull’uscio, spiando di
tanto in tanto per vedere se scendesse qualcuno dal sentieruolo che
metteva capo al suo molino, struggendosi dalla voglia di far quattro
chiacchiere.

Era sempre la vecchietta arzilla, dagli occhietti irrequieti, dalla
parlantina perenne che aspettava al varco i mulattieri e i contadini
per chieder loro notizie del paesello e per tagliare i panni addosso
alla gente.

La vecchietta canticchiava con aria contenta, interrompendosi talvolta
per umettare con le labbra il filo troppo arido.

— Toh, toh, chi si vede! — fece di un tratto, e gettando lungi dà sè
fuso e conocchia si alzò e corse fuori, facendo di gran gesti ad un
vecchietto che scendeva a cavallo giù pel sentiero. — Non ti lascerò
andare innanzi, no, no: son due mesi ornai! Ci ho una bottiglia di
vinetto bianco che è una delizia, con certi biscotti che ho fatto io
e che a te un tempo piacevano tanto! Berremo la bottiglia, mangeremo i
biscotti, faremo quattro chiacchiere e poi, poi ti lascerò partire.

— Posso dire di no, posso dire di no ad una vecchia amica come te?
— rispose Carmine che lentamente si era lasciato sdrucciolare dalla
cavalcatura — Ma non più di un’ora, hai capito? non più di un’ora, che
il duca aspetta impaziente i giornali.

— Solo i giornali aspetta? E la duchessa?

— La contessa, vuoi dire.

— Già, la contessa; poichè non vuole che le si dia altro titolo,
chiamiamola pure così... La contessa, dunque, povera creatura... una
santa, una vera santa pel cuore e per la bellezza... com’è afflitta!...
Sfido io, ne ha ben ragione!... E dimmi: Pietro il Toro sta bene? Non è
più quello, non è più quello... Lo vidi un mese fa; sembra più vecchio
di venti anni... E il duca? Quello lì pare contento... Già, bisogna
essere egoisti per vivere felici. Ma insomma, parla, contami tutto.

— Me se non me ne dai il tempo! — rispose Carmine.

— Hai ragione, si, hai ragione! Ma gli è come quando sturo al mattino
il condotto del molino e l’acqua raccoltasi per tutta una notte
prorompe impetuosa. Me ne sto sola qui per giorni interi, sola, senza
poter dire una parola altro che al gatto al quale racconto tutti i miei
guai.

Intanto si erano incamminati verso il molino. Carmine mise il muletto
sotto la tettoia e poi entrò nella stanzuccia.

— I tuoi guai! — disse tra severo e scherzoso — E che ti manca? Non hai
avuti condonati tutti i debitucci dall’amministrazione del duca e non
sei stata affrancata dal censo?

— Dico guai così per dire...

— So, so quel che ti manca... Un marito, vecchia strega...

— E credi tu che se lo volessi... Sarebbe più facile a me di trovare
un marito che a te una moglie, a te che non puoi reggere neanche i
calzoni...

— Andiamo, via, porta codesta bottiglia di vino. E bada veh, che
se vorrai parlar sempre tu, io tacerò lasciandoti struggere dalla
curiosità.

— Ci sono dunque delle notizie? — gridò la vecchia sollevando il capo
con gli occhi balenanti per la gioia.

— Si e no. Ma porta il vino, porta i biscotti. Io andavo in pace per la
mia strada: fosti tu ad invitarmi...

— O che forse in altri tempi non eri tu a venirmi attorno, non eri tu?

I due vecchietti si scambiarono un’occhiata maliziosa e insieme un
melanconico sorriso.

— Siedi, via — disse Carmine che togliendo la bottiglia dalle mani di
Geltrude aveva riempito i bicchieri — siedi e bevi.

— Alla tua salute, Carmine.

— Alla tua Geltrude.

Bevettero entrambi guardandosi negli occhi.

Tutta la storia triste e fortunata di quel popolo che sol da poco era
tornato nella pace, si riassumeva in quei due vecchi che attraverso
tante tragiche vicende per l’ambizione di pochi che aveva fatto
scorrere fiumi di sangue, erano rimasti semplici e buoni.

— Dunque — disse Geltrude posando il bicchiere e forbendosi le labbra
col grembiule — conta, ora. Nessuna nuova di lui?

— Nessuna! — rispose Carmine con un sospiro.

— E quella povera creatura?

— Un angelo, mia cara, un angelo. Sai l’ultima sua opera? In una stanza
a pianterreno del castello ha fatto mettere delle seggiole, dei banchi
con tavolinetti, e ogni giorno le povere mamme che debbono andare in
campagna lasciano colà i loro figliuoli che finora erano costrette ad
abbandonare per le vie; e quei marmocchi sono vigilati da una maestra
che la contessa ha fatto venire da un paese molto lontano, ed hanno la
merenda e il desinare.

— Toh, che cosa bella! — esclamò Geltrude che aveva sgranato gli occhi
dalla meraviglia — Scommetto che nè a te nè a me sarebbe venuta una
tale idea. E il duca, che fa il duca?

— Molto mutato da quello che era un tempo. Ora è tutto inteso al
monumento che deve sorgere sulla tomba del fratello.

— Molto mutato, è vero: l’ho sentito dire anch’io. E poi, basterebbe
quel che ha fatto per me col condonarmi i miei debiti e con affrancarmi
dal censo...

— Nessuno mi caccia dalla testa — fece Carmine — che tu non al duca
devi essere riconoscente, ma a lui, a lui!...

— Ma se fu il duca...

— Che ne sapeva il duca che il molino era gravato da un censo? O che
un gran signore come lui sa queste cose? Pure, appena tornò qui ti
fece chiamare... Quando mai ti aveva conosciuto? A meno che quaranta o
cinquant’anni fa non ti avesse gironzato attorno.

— Cinquant’anni fa non ero ancor nata! — rispose la vecchia con un
certo sussiego.

— Già: forse... forse non era neanche nata tua madre! Insomma, lui non
ti conosceva. E poi un tempo era tanto superbo, tanto severo con la
povera gente! Fu lui dunque che gli parlò di te.

— Hai ragione, hai ragione, fu lui! — esclamò la vecchia giungendo le
mani. — Caro, caro e bravo signore, ricordarsi di me, di me, mentre chi
sà da quali dolori aveva stretto il cuore!

— E non fu lui a ricordarsi di me, non fu lui?

— Conta, conta... Come dunque il duca ti volle al suo servizio il duca
che sapeva che tu sapevi?... Ma intanto bevi! Bada veh, che fintanto la
bottiglia non sarà vuotata tu non andrai via...

E la vecchia riempì i due bicchieri e ne porse uno a Carmine.

— Al ritorno di lui, Geltrude! — disse Carmine nel portare alle labbra
il bicchiere.

— Ed alla pace ed alla salute di lei! — fece la vecchia bevendo.

— Come entrai al servizio del duca? Lui, sempre lui, mia cara. È vero
che quella buon’anima del padre del nostro povero Riccardo... dico
povero perchè chi sa che ne è di lui, chi sa che gli sia capitato in
questi due anni, chi sa che ha sofferto!... Basta... penso che ci è la
madre lassù che prega per lui, la madre...

— Ogni sera anch’io dopo aver detto il rosario lo raccomando alle anime
del Purgatorio... Glielo debbo un tal segno di gratitudine! Essersi
ricordato di me mentre aveva da pensare a ben altro!...

— Dunque — continuò Carmine — il duca, il vero duca mi aveva morendo
raccomandato ai Francesi. In sulle prime tutto andò bene, quantunque
ci soffrissi a trattar con quella gente: poi mi mandarono via con la
scusa che ero troppo vecchio, e me ne tornai nella mia casetta confuso
e scornato...

— Più povero di prima.

— Assai più povero! Ma una speranza mi sorreggeva, perchè io ho sempre
avuto fede nella Provvidenza, la speranza che lui tornasse. Però
passavano i mesi e senza il soccorso degli amici, e specialmente di una
certa Geltrude...

— Che, che! Un po’ di farina, un po’ di formaggio, ecco quel che poteva
offrire quella certa Geltrude. Ah, se non fosse stato per le male
lingue, ti avrei voluto con me qui!

— Le male lingue? Come ci entrano le male lingue?

— Fai lo gnorri tu, fai lo gnorri! Che avrebbero detto le male lingue
se ti avessi accolto in casa mia anche per dormirci? Sai quante se ne
son dette sul conto nostro!...

— Ah, diavolo, ah, diavolo! — esclamò Carmine scoppiando a ridere.
— Per questo tu mi tenevi un certo linguaggio misterioso che io non
intendevo punto?

— Che ci è da ridere? Le male lingue avrebbero detto che tu eri il mio
ganzo... Si è tanto facile qui a sparlare della gente!

— Come vuoi tu, come vuoi tu! Ma le male lingue mi avrebbero troppo
lusingato! Basta, non m’interrompere. Dunque vivacchiavo alla meglio
e avevo tutto venduto. Quasi tutto il villaggio aveva dei diritti sul
mio campicello, e questo sì che mi era di una pena, di una pena che mi
faceva bagnar la notte di lagrime il guanciale!

— E non me ne dicesti mai nulla, scioccone! Perchè io ti sapevo in
bisogno, ma fino a questo punto poi! Se l’avessi saputo, me ne sarei
infischiato delle male lingue...

— Un giorno — continuò Carmine senza badarle — il paesello fu messo
a rumore da una notizia strabiliante: il duca aveva fatto adesione
al governo dei Francesi e sarebbe tornato al suo castello con la
figlia maritata a Riccardo, riconosciuto per erede legittimo del padre
suo, del padre suo che era morto fra le mie braccia. La notizia era
contenuta in una lettera che io sentii leggere da Pasquale, sai bene,
il segretario del Decurionato. Era così strano, così inverosimile, che
in verità me ne tornai nel mio tugurio scuotendo le spalle, e non ci
pensai più come non si pensa ad una fiaba di quelle che si narrano ai
fanciulli.

— Anch’io nei tuoi panni non ci avrei creduto.

— Potevo io crederci se sapevo... quel che sapevo? La Regina avrebbe
permesso che Riccardo sposasse la figlia del duca di Fagnano?

— La Regina?... E che ci entra mo’ la Regina?

— Come, non sai che!...

— Che cosa, che cosa? — gridò la vecchia con gli occhi accesi dalla
curiosità.

— La Regina — disse Carmine con voce sommessa, quasi temesse di essere
udito — era innamorata di Riccardo.

— O che mi dici? Anch’esse dunque, le regine, fanno di queste cose?
Anche i re possono avere un’altra corona, non di oro, ma di?... Del
resto, la Regina era ancor giovane: ho sentito dire che aveva quasi la
mia età...

Carmine la guardò un istante ed era lì lì per prorompere, ma si
contenne e proseguì:

— Non ci pensai più dunque; pure mi struggevo dal desiderio di sapere
che fosse avvenuto di quel giovane che io avevo amato come un mio
figliuolo. Ah, se avessi saputo leggere al certo mi avrebbe scritto,
perchè non era capace di scordarsi di me, quantunque fosse divenuto un
duca. Era stata sempre un’anima grande la sua, anche quando non era che
un misero trovatello.

— Bello poi come un principe.

— Beh, dunque una mattina io ero seduto sulla soglia della mia casetta
quando vidi venire alla mia volta un gruppo di persone che parlavano ad
alta voce: intesi fare il nome del duca di Fagnano, di Riccardo, della
contessa, onde io mi accostai e così seppi che la sera istessa sarebbe
giunto il duca con la figliuola, avendo ottenuto la restituzione dei
beni. La cosa era certa, perchè erano già giunti nel castello alcuni
servi che avevano aperto le porte e le finestre per dare aria alle
stanze da gran tempo chiuse. Per assicurarmene corsi al castello, e
il cuore mi si allargò quando vidi coi miei propri occhi che quei tali
avevano detto il vero.

— Ricordo che quando questa strabiliante notizia giunse alle mie
orecchie io non dormii per tutta la notte.

— Insomma, a farla corta, dopo due giorni il duca tornò con la
figliuola che i servi chiamavano contessa...

— O perchè mo’? Questo non ho potuto capire.

— Perchè il Re per far conservare al duca il suo titolo che sarebbe
spettato a Riccardo, ha nominato questi conte di Rovito. Hai compreso
ora? E la contessa non ha voluto rinunciare al nuovo titolo col quale
oramai suo marito è conosciuto.

— Suo marito! Che la lascia sola, una stella di bellezza come quella
creatura! Ci dev’essere una causa!

— Son cose che noi non possiamo intendere. Chi sa quale mistero in
questa che pare a noi una cosa inesplicabile! La vita dei signori non
scorre semplice come la nostra... Pochi giorni dopo il loro ritorno, io
ricordo proprio come se fosse ora, me ne stavo accanto al fuoco a veder
bollire la pentola con un po’ di minestra, quando venne un servo con la
livrea del duca e mi disse che il suo padrone mi voleva al castello.
Ah, dissi, ci siamo; ha saputo che fui io a raccogliere il figlio di
suo fratello e chi sa, chi sa cosa vorrà da me! Andai però con l’animo
tranquillo, perchè son finiti i tempi in cui ai signori era tutto
permesso. Ora i Francesi han fatto la rivoluzione e siamo tutti uguali,
tutti fratelli; è vero però che chi ha, mangia, e chi non ha muore di
fame, e che chi è nato sparviero vola e chi è nato verme striscia! Ma
infine si sta meglio adesso.

— Sicuro — esclamò Geltrude — specialmente dacchè non pago più il censo.

— Chi può dire quel che intesi — continuò Carmine — allorchè fui
innanzi a quell’uomo di cui sapevo tutte le colpe, tutti i vizî, e che
aveva fatto morire di dolore un angiolo di Dio e costretto il fratello
a fuggire in Francia? Appena mi vide impallidì, come sopraffatto dai
ricordi e dai rimorsi; ma dovette fare uno sforzo perchè mi disse
con troppo ostentata bonomia perchè fosse sincera: So che avete reso
di gran servigi a mio nipote che è ora anche mio genero, il conte di
Rovito, il quale è adesso all’estero per una missione diplomatica; e
perchè ho bisogno di gente onesta e fidata, così per ricompensarvi di
ciò che faceste per lui vi prendo al mio servizio come fattore. Avrete
il vitto, l’alloggio e dieci ducati al mese.

— Dieci ducati al mese? — gridò Geltrude. — Capperi, ma dunque devi
aver da parte molti bei denari!

— Nulla, Geltrude mia, nulla: ho riscattato dai debiti il campicello
questo sì... Ed ecco come entrai al servizio del duca; e, bisogna dire
la verità, mi si tratta proprio come uno di famiglia.

— E la povera contessa?

— Non me ne parlare di quella santa e buona creatura che vive Dio sa in
quale strazio senza che mai si lagni, mai!

— Ma come si spiega che Riccardo... lo chiamo così perchè, sai bene,
l’abitudine... che Riccardo non le scrive neanche?

— Io non me lo spiego, ma la contessa, ma il duca debbono ben saperne
il motivo. Io non me lo spiego, perchè tu pure sai con quale passione
ha amato e son sicuro ama colei che ora gli è moglie. In quei tempi,
quando non aveva nè nome, nè pane, nè vesti, non era soltanto una
follìa, era quasi un delitto, un sacrilegio per lui, un oltraggio per
lei l’osare di guardarla; pure il destino sapeva bene quel che faceva
con ispirargli quell’amore! Poteva mai lui sognare soltanto che un
giorno sarebbe divenuto lo sposo di quell’astro? Sarebbe lo stesso che
io sognassi di divenir papa! Ebbene, l’inverosimile, l’impossibile è
ora un fatto, una realtà. Che avrebbe dovuto far lui? Non dipartirsi un
solo istante, un solo da quella divina creatura... Invece, invece se ne
sta lontano, chissà in quali parti estere, e non si dà la cura neanche
di scrivere una lettera! Che razza di mistero sia questo io non so!

— Neanche una lettera, mai?

— Mai, Geltrude mia. Io due volte la settimana vo’, come andrò fra
poco, all’ufficio postale per prendere le lettere e i giornali del
duca. Quasi sempre al mio ritorno trovo la contessa nello studio del
padre, ed ora incomincio a sospettare che aspetti me, proprio me. E
sai che fa appena mi vede? Figge gli occhi sulle lettere per leggerne
l’indirizzo, le prende, essa per la prima, e la mano le trema e gli
occhi le si inumidiscono. Poi dà le lettere e i giornali al padre e se
ne va lentamente come un’afflitta, come una delusa, nelle sue stanze!

— Ma, dico — osservò Geltrude che era divenuta pensosa — non ci fosse
sotto qualche... tanto, siamo a quattr’occhi, mi spingo a dirlo...
qualche torto di lei, del quale egli si sia accorto?

Carmine non la lasciò proseguire: diede un pugno sul tavolo che fece
cadere la bottiglia, sì che il vino si versò pel pavimento.

— Ah lingua maledica — gridò — lingua infernale, se osi aggiungere
un’altra parola ti caccerò con un pugno i due o tre denti che ti son
rimasti.

— Ma che ho detto, infine? Si vede che la vecchiaia ti ha rimbambito.
Ci sono torti e torti, e io non intendevo parlare di quello a cui
l’anima tua, che pensa sempre al male, forse allude. Del resto, hai
fatto spargere tutto il vino, e questo è sì buon: augurio, perchè
quando si sparge del vino mentre si parla di una persona...

— Basta, basta... Ma ho fatto tardi e debbo andar via...

— No, no, non andrai via se non mi dici qualcosa di Pietro il Toro.
Povero vecchio, così allegro un tempo, così disposto a tutto, a
chiacchierare come a menar le mani...

— Pietro il Toro è il protetto della duchessa, la quale s’intrattiene
spesso con lui, anzi più con lui che con me: però non ne sono punto
geloso. Si vede che la contessa l’ha conosciuto in Sicilia. Non ti
ho detto che lui custodiva l’atto matrimoniale del duca defunto, che
lo custodì per trent’anni dopo averlo strappato al parroco? Ma di
quel che accadde in Sicilia non dice mai nulla e invano ho cercato
di fargli vuotare il sacco. Se avessi visto in che stato era ridotto
quando giunse qui! Aveva attraversato lo stretto di Messina in una
barca di pescatori, poi, povero vecchio, era venuto qui a piedi. Io
lo incontrai e appena appena lo riconobbi; era lacero nelle vesti,
disfatto, e non aveva mangiato da più giorni. Volli che mi seguisse
al castello e fu a caso che ne parlai al duca, mentre la contessa era
presente. Si suol dire che il silenzio è d’oro, ma in certi casi la
parola, la parola è assai più dell’oro. Appena la contessa sentì fare
il nome di Pietro il Toro, essa che quasi sempre è assorta nei suoi
pensieri ed indifferente a tutto, si alzò accesa in volto, come se quel
nome le avesse fatto sussultare il cuore, e mi disse poi: fa che venga
qui, presto, presto, buon Carmine. Anche il duca pareva che conoscesse
Pietro il Toro, ma non era così esultante come la contessa; pure non
mostrava punto dispiacere. Ci volle del bello e del buono per indurre
Pietro a salire le scale del castello; ma quando fu alla presenza della
contessa, questa gli corse incontro e gli stese le mani, che Pietro, il
quale è stato pur sempre rozzo e del tutto ignaro di certe convenienze
baciò più volte commosso come non l’aveva visto mai. E quale non fu
la sorpresa mia quando proprio il duca, lui, il quale al certo doveva
sapere che era stato Pietro il Toro ad estorcere al parroco l’atto
matrimoniale onde Riccardo ha potuto provare la sua legittimità, gli
disse: Ti abbiamo fatto cercare per mare e per terra inutilmente; però
ho sempre sperato che tornassi, perciò ti ho serbato il posto in casa
mia: tu sarai il capo dei guardiani: farò le pratiche col governo e tu
godrai dell’amnistia concessa a tutti. Non ti pare, cara Geltrude, che
il duca avesse ricevuto l’imbeccata da qualcuno? E da chi, se non da
Riccardo? Altrimenti come così di botto metteva Pietro il Toro a capo
dei guardiani?

— Pare anche a me! — rispose Geltrude con una certa aria di
sufficienza. — E che rispose Pietro, che rispose?

— Che rispose? Pareva più di quel mondo che di questo, tanto era
confuso.

— Ma non è più quel di prima!

— Eh, credo che anche lui abbia un qualche dolore nel cuore, del quale
ho creduto d’intravedere qualche cosa. Ricordi tu quella giovane donna
che venne qui con Riccardo travestita da frate questuante? Devi sapere
che quella era famosa, si chiamava Vittoria e uccideva un uomo come
io bevo un bicchiere di vino. Ora io un giorno domandai a Pietro il
Toro che ne fosse avvenuto di Vittoria e sai che mi rispose? Quella
poveretta è volata al cielo! Ed aveva le lagrime agli occhi nel dir
ciò. Ma non disse nulla di più, e poichè mi accorsi che alle mie
domande si faceva sempre più scuro in viso, non volli dispiacergli più
oltre.

Carmine si era alzato per andar via, ma Geltrude sperando di riuscire a
trattenerlo ancora un pezzo, rimase seduta.

— Insomma, scusa il paragone, tu al castello ti trovi come l’asino in
mezzo ai suoni! A me basterebbe poche ore per dipanar coteste matasse.
Tu non sei stato mai troppo furbo; un buon uomo, questo sì, ma nulla
più. E siedi ancora un poco...

— Ma che, ma che! Mi hai fatto chiacchierare per più di un’ora e
non ti basta? Un’altra volta mi fermerò per un pezzo. Debbo andare e
tornare coi giornali che il duca aspetta con grande ansia perchè pare
si maturino di grandi cose a danno dei Francesi e tutti i re sono
congiurati contro l’Imperatore.

— Va, va; verrò a farti io una visita al castello. Giusto domani è
domenica, chiuderò il molino e... vorrò vedere. Mi basterà un’occhiata
per capire tutto. Non ti nascondo che son capace di non dormire
stanotte. Perchè ci è un mistero, un mistero ci è...

Carmine alzò le spalle ed uscì accompagnato da Geltrude.

Aveva inforcato la cavalcatura e si era già allontanato allorchè la
vecchia gli gridò:

— Aspettami, sai, domani!

Egli si rivolse e le fece un segnò di assentimento.

Quando Carmine tornò al castello con le lettere e i giornali pel duca,
trovò nella stanza da studio, come di consueto, colei che oramai da
tutti era chiamata la contessa. Un velo di malinconia era diffuso pel
volto delicato della giovinetta e ne rendeva più vaga la leggiadria. I
grandi occhi pensosi raggiavano di una luce più blanda e la piega di
dolore delle labbra era indizio dei segreti affanni di quel giovane
cuore.

Gli occhi le si accesero allorchè vide entrar Carmine e fissarono il
mucchio delle lettere e dei giornali che egli le porse come faceva
sempre, quantunque il duca fosse seduto lì innanzi allo scrittoio.
Ella ne lesse gl’indirizzi, e infine con un sospiro invano, trattenuto,
diede al padre lettere e giornali.

— Povera figliuola! — mormorò il duca restando per un pezzo a fissarla.

Ella muoveva per andar via, visibilmente delusa, come ogni volta,
nella sua vaga speranza. La posta non giungeva che soli due giorni la
settimana, il mercoledì e il sabato, ed erano i giorni in cui ella or
per una scusa or per un’altra si faceva trovare da Carmine nello studio
di suo padre.

Fin dalla mattina ella appariva irrequieta, stizzosa, svogliata. Le due
cameriere siciliane che l’avevano seguita oramai sapevano che la loro
padrona in quei giorni mutava di umore per poi tornare come al consueto
buona, indulgente e come affatto estranea a tutto.

Le due cameriere ne avevano ben compreso la causa e la commiseravano
nei loro discorsi; ma usate al riserbo e alla discretezza non
lasciavamo intravedere nulla a lei che appena tornato Carmine rientrava
nelle sue stanze, ove per ore ed ore se ne stava assorta in pensieri
assai tristi, a giudicar dallo aspetto di lei, e talvolta anche era
stata sorpresa con gli occhi gonfi di lagrime.

Il duca aveva tentato di trarla da quello stato di angoscia muta e
raccolta, ed era giunto financo a proporle di fare un viaggio per
l’Italia; ma lei, senza rispondere, gli aveva rivolto uno sguardo così
sdegnoso che il vecchio, timido e dimesso innanzi a sua figlia, non
aveva osato d’insistere.

— Povera figliuola! — aveva detto mentre ella usciva dalla stanza.

Era tornata nella sua cameretta, l’istessa in cui aveva trascorso tanti
anni della prima giovinezza, e si era lasciata cadere sul lettuccio.
La mano le corse ad una collana d’oro e di gemme che in quei due anni
aveva portata sempre al collo, la staccò e si diede a baciarla mentre
calde lagrime le scorrevano giù per le gote.

Era la collana d’oro che quando ancora era una fanciulletta aveva
perduto e le era stata restituita da un misero contadinello.

Quel misero contadinello era suo cugino; quel misero contadinello
divenir doveva lo sposo dell’anima sua!

Tristi, tristi nozze erano state quelle! Che cosa non avrebbe dato lei,
che cosa non avrebbe dato lui perchè il loro amore fosse santificato
da Dio, fosse legittimato dagli uomini? E ciò il destino aveva loro
concesso facendo del loro connubio un’opera di salvezza; l’aveva
concesso per dividerli, li aveva uniti onde una morisse per l’altro,
inesorabilmente.

Erano due anni, due lunghi anni che nessuna nuova di Riccardo era
giunta a lei. Pure essa sentiva che Riccardo viveva, sentiva che egli
era col pensiero a lei, come lei era col pensiero a lui. Sentiva che
sarebbe tornato, ma intanto scorrevano i giorni, scorrevano le torride
ed insonni notti, ed invano, invano ella vagava col pensiero in cerca
di lui. Dove, dove fissarsi con l’anima anelante? In quale plaga,
sotto qual cielo, e donde, donde veniva l’anima di lui che ella sentiva
perenne intorno a sè?

Talvolta era turbata da un’idea; non era stata troppo severa lei nel
volere la separazione dopo le nozze? Non era stata troppo severa nel
fargli una colpa dei rapporti con la Regina contratti in tempi in cui
se ella era amata, non aveva di un solo sorriso incoraggiato Riccardo
in quell’amore? Col sacrificare il suo pudore di donna alla salvezza
della Sovrana, non aveva lei rotto quei rapporti, divenuti incresciosi
a colui che era adesso suo marito? Perchè aveva voluto spingere
l’eroismo a tal segno, deludendo forse la volontà del destino?

In quei due anni aveva acquistato maggior coscienza della vita e aveva
compreso che la sua severità non era in fondo che gelosia, gelosia
della quale aveva incominciato a sentire confusamente un tal quale
rimorso.

Gl’impeti del sangue giovanile nulla toglievano all’amore che come una
religione Riccardo custodiva per lei. Varcando la soglia della camera
nuziale, se sgombra di ogni altro sentimento egli avesse avuto l’anima
amante, se integra fosse stata la dedizione a lei, il suo bacio di
vergine gli avrebbe ridato una verginità. Rotto ogni rapporto, con la
Regina, nessuna traccia ne sarebbe rimasta in lui e la felicità sarebbe
stata profonda e sconfinata come il loro amore.

Ma un tal pensiero era combattuto da un sentimento che non riesciva a
dominare, da una visione che la faceva rabbrividire: lui fra le braccia
di quella donna!

Meglio, meglio quel dolore sordo, continuo, che una felicità interrotta
da tale orrida visione! Poteva così amarlo, poteva così abbandonarsi
all’immagine sua con la sola dedizione dell’anima; potevano i loro
spiriti congiungersi per lo spazio immenso, puri da ogni terrena
passione!

Così ondeggiava, così aveva per due anni ondeggiato in tali pensieri
pur sempre dolorosi! La sua vita era scorsa solitaria, chè ogni svago,
ogni distrazione si rifiutava: solo la lettura le era alquanto di
sollievo e le opere pietose a cui attendeva. Non usciva dal castello
che per andare a messa la domenica nella chiesetta del villaggio, e di
tanto in tanto alla benedizione della sera per pregare sulla tomba in
cui dormivano il sonno eterno il padre e la madre di Riccardo.

E proprio la sera di quel giorno aveva inteso un gran bisogno di
pregare. Nell’Avemaria di ciascun sabato convenivano nella chiesetta a
dire il rosario tutte le contadine, ed ella amava d’inginocchiarsi fra
quelle poverette e sposare le sue preghiere alle preghiere di coloro
che forse ne invidiavano le ricchezze e che di gran lunga erano al
certo meno miseri di lei!

Avrebbe preferito di andar sola, ma il duca non aveva voluto non solo
perchè sarebbe stato disdicevole per una dama in quei tempi non farsi
accompagnare dai guardiani, ma anche pericoloso. Benchè il brigantaggio
fosse del tutto spento, pure ci era sempre da temere in un risveglio;
onde Pietro il Toro era stato incaricato di disporre, ogni qual volta
la contessa gli faceva dire che sarebbe andata in chiesa, che alcuni
dei guardiani le fossero di scorta.

Il vecchio scorridore non cedeva a nessuno un tale onore. Fra lui ed
Alma ci erano dei rapporti ben più affettuosi di quelli che intercedano
fra padroni e servi. Pietro però non ne abusava. Nessuno più di
lui poteva intendere il dolore della giovinetta, nessuno più di lui
poteva più sinceramente compiangerla, ma si limitava a scrollar la
testa allorchè la vedeva così afflitta; e se per caso i loro occhi
s’incontravano, Pietro per non acuire i dolori di lei cercava di darsi
un contegno tranquillo ed indifferente.

Ma anche lui, il vecchio scorridore, aveva una spina nel cuore.
Talvolta lo sentivano borbottare in disparte, ma lo si sapeva di
modi troppo spicci e maneschi perchè si osasse di chiedergli che cosa
sovente gli facesse scrollare il capo, mentre un sospiro di dolore gli
usciva dal petto.

Pure una volta fu udito che diceva:

— Quando tornerà lui, perchè tornerà, lo sento, bisogna che quella
poveretta sia seppellita in terra di cristiani, che cristianamente morì
quella poveretta!

E se ne facevano molti commenti senza che s’indovinasse il significato
di quelle misteriose parole.

La sera dunque di quel sabato Pietro fu avvisato da una delle cameriere
che la signora contessa sarebbe andata alla benedizione nella chiesetta
del villaggio.

Quando la contessa verso l’imbrunire uscì dal castello trovò presso la
postierla il vecchio Pietro armato, a capo di quattro guardiani armati
anche essi, che da un pezzo aspettavano tenendosi dritti e immobili
alla militare.

Ella sorrise a Pietro, rispose con un cenno della testa al saluto dei
guardiani e si diresse verso la chiesetta. Vestita di nero, con un
nero velo sulla gran massa aurata dei capelli: il sole del tramonto
l’avvolgeva come in un nimbo di rosa, ed ella passava raccolta in sè,
con l’incedere stanco di chi vive nella tristezza.

I guardiani la seguivano con l’aria severa di chi sente in sè riflesso
il prestigio della casa a cui appartiene. I contadini che tornavano dal
lavoro dei campi si fermavano per togliersi il cappello e per seguire
con gli occhi la giovinetta, le cui opere pietose avevano conferito
come un’aureola alla sua delicata e soave leggiadria.

In quel punto dal campanile della chiesetta squillarono i rintocchi che
chiamavano i poveri villici alla preghiera della sera. Uscivano dai
tuguri le contadine che avevano deposte le ceste, le fascine portate
dalla campagna. Il giorno appresso era festa, quindi potevano indugiare
quella sera ad andare a letto, potevano raccogliersi in comune nella
preghiera.

Esse erano ben liete e quasi orgogliose di avere a compagna la figlia
del loro signore che era stata l’amica della Regina. Era un conforto
per esse, povere creature che non avevano mai conosciuto la felicità,
il vedere, il sentire che quella giovane donna, che portava un gran
nome, che possedeva una grande ricchezza, che era bella come un angelo
del buon Dio, pregava come un’afflitta a piè dell’altare la Madre degli
afflitti. Ci erano dunque dei dolori profondi oltre a quelli che esse
soffrivano per la loro miseria?

Ed erano indotte da quella comunione di tristezza alla rassegnazione.
Tutti dunque soffrono quaggiù, anche coloro cui la fortuna fu prodiga
di ogni suo dono? In ginocchio, col capo sul petto, nella penombra di
quella povera chiesa con un semplice e disadorno altare in fondo, con
un crocifisso in alto, sopra una immagine della Madonna, innanzi alla
quale ardevano due candele, esse dimenticavano la distanza del grado e
della nascita, e si sentivano accomunate con quella figlia di uno dei
più cospicui signori del Regno nella muta preghiera che si elevava a
Dio dalle loro anime addolorate.

La chiesetta era già affollata quando Alma entrò. Tutti si fecero
da parte per darle il passo. Attraversando la navata, andò ad
inginocchiarsi innanzi alla lapide che chiudeva la tomba dei duchi di
Fagnano, ove avevano sepolto anche la madre sua, e si diede a pregare
fervidamente, mentre si elevavano tristi e solenni le voci dei fedeli
che cantavano le litanie.

I guardiani si erano arrestati nel fondo. Solo Pietro aveva seguito
la giovinetta ed appoggiato a uno dei pilastri si teneva immobile.
Portava, è vero, sul petto l’immagine della Madonna del Carmine, ma
reputava bastevole il baciarla devotamente allorchè la sera metteva
il capo sul guanciale. Tutte le altre pratiche convenivano bensì alle
donne ma non agli uomini; perciò se ne stava pressochè indifferente,
non perdendo di vista, come un buon cane di guardia, la sua padrona.

Veramente, come tutte le anime rozze ed incolte sentiva profondamente
la fede in un essere superiore che considerava come il padrone di
tutti, anche dei suoi padroni. Ma la lunga vita passata nei boschi
l’avevano disavvezzo dalle pratiche religiose che non avevano molta
importanza per lui.

Certo non si divertiva, anzi era così seccato talvolta della monotona
cantilena delle contadine che volontieri le avrebbe spazzate via. Ma
era troppo compreso del suo dovere per osar di mostrare la noia che gli
faceva metter sovente la mano alla bocca per nascondere gli sbadigli.

Fu appunto in uno di questi momenti che volgendo in giro gli occhi
vide l’ombra di un uomo al par di lui appoggiato ad un pilastro e
che al par di lui si teneva immobile. Per quel che poteva intravedere
confusamente, non era punto un contadino. Chi era dunque? Lui conosceva
tutti del paesello e non aveva bisogno di vederli in viso. Il viso di
quell’ombra gli era nascosto, ma a giudicare dall’atteggiamento pareva
che tenesse gli occhi addosso ad Alma da cui era discosto solo di pochi
passi.

— Chi diavolo può essere? — borbottò Pietro che da antica abitudine
era indotto a diffidare di ciò che non appariva chiaro al suo grosso
cervello.

Lo sconosciuto si era posto, quasi temesse quel po’ di luce che
irradiava dall’altare, nel buio dietro il pilastro e volgeva le spalle
a Pietro.

— Bisogna che sappia chi è. È vero che adesso i tempi son mutati, non
so se in peggio o in meglio, ma si suol dire che il diavolo non ha
pecore eppure vende lana!

Diceva ciò sforzandosi di vedere in viso lo sconosciuto che continuava
a tenersi immobile.

Intanto la funzione era finita; le contadine si alzarono per andar via.
Si alzò anche Alma e mosse per uscire.

Pietro il Toro stette un momento incerto, ma la curiosità fu più forte
del dovere; lasciò passare la contessa, poi rapidamente si accostò allo
sconosciuto.

Nello scalpitio della folla che usciva dalla chiesa echeggiò un grido.

Alma aveva trovato i guardiani innanzi lo spiazzo della chiesa; ma
dov’era Pietro il Toro che la seguiva sempre come la sua ombra?

Si guardò intorno e poi si rivolse ai guardiani:

— Pietro — disse — non è uscito con voi?

— No, Eccellenza — le rispose uno di essi — È ancora in chiesa.

Si mise in via senza chiedere più oltre. Era forse una delle solite
bizzarrie di quel vecchio a cui ella oramai era usata.

Avevano fatto pochi passi quando uno dei guardiani disse:

— Eccolo che esce. Ma che ha Pietro il Toro? Non mi pare che abbia
l’aspetto ordinario.

Ella si fermò a tali parole, ma già Pietro il Toro le era dinnanzi.

Anch’ella rimase sorpresa quasi spaventata. Pietro il Toro aveva una
strana fisionomia, un viso quasi sconvolto come chi abbia il cuore
gonfio e a stenti trattenga le parole. Quando fu vicino alla sua
padrona mosse le labbra per parlare ma ne uscì un mugolio come se la
voce lì lì per prorompere gorgogliasse nella gola.

— Che avete, Pietro? — gli chiese Alma che incominciava a sbigottirsi.

— Che ho? Nulla! — rispose il vecchio dopo un pezzo — Che posso avere?
Ho che se Vostra Eccellenza mi dicesse: Pietro, tu devi volare, a me
pare che stasera mi siano spuntate le ali, e volerei! Ah, che brutto
uccellaccio, non è vero? Ma volerei, ve lo giuro!

Ella continuò a guardarlo sorpresa, perplessa. Se non l’avesse visto
nell’andare in chiesa così calmo, così severo, col viso come di
consueto rabbuiato, avrebbe creduto che Pietro il Toro, pur di solito
così sobrio, avesse alzato il gomito.

— Pietro ha bevuto — mormorò uno dei guardiani agli altri — Nel venire
non ce ne accorgemmo; ma il vino ha lavorato alla chetichella ed ora
ecco gli effetti.

— Ma perchè non andiamo al castello? — continuava a dire Pietro il Toro
— Che facciamo qui fermati? Ammenochè Vostra Eccellenza non mi ordini
di ballare. Un tempo ero famoso. Lo domandi al vecchio Carmine. È vero
però che mi chiamavano l’orso.

Ma era ubbriaco, era ubbriaco, o incominciava a dar di volta?

Questo si chiedevano i guardiani seguendo Alma e discorrendo sottovoce
perchè Pietro non sentisse. Egli intanto andava innanzi e indietro
festante come un cane che abbia ritrovato il padrone. Però era troppo
furbo per non accorgersi della sorpresa destata nei suoi compagni ed
anche nella contessa.

— Ah, voi mi tagliate i panni addosso perchè mi vedete così allegro! E
che! Non son padrone di essere allegro? Finora fui, come suol dirsi da
noi, col morto davanti, e voi non eravate contenti. Pietro, che hai?
Vecchio, perchè quell’aria funebre? Noi vogliamo sapere quel che ti
passa pel capo. Ed ora che sono allegro, ora vi chiedete se son pazzo
o se sono ubbriaco! Non sono nè l’uno nè l’altro. O meglio, sono pazzo
sì, fino al punto che stasera pagherò da bere a tutti. Proprio, quando
il servizio sarà finito e i padroni andranno a letto... ma qualcheduno
non dormirà, ve lo assicuro io... noi faremo un pò di baldoria, e
domani, domani nessuno vi troverà a ridire, anzi si troverà che non
ne avremo fatta abbastanza. E inviteremo anche Carmine. Perdio, lui
per il primo! Povero Carmine, se gli dicessi una parola, una sola...
Ah, imbecille che sono! E che dovrei dirgli? Nulla, nulla, solo che
vogliamo stare allegri perchè, via, ne era tempo ormai.

Immersa ne’ suoi pensieri, Alma non l’ascoltava punto, quantunque ben
sorpresa della parlantina del vecchio, di consueto così taciturno. Ella
aveva intuito il perchè della profonda tristezza del vecchio: era il
ricordo della povera Vittoria, era l’assenza di lui: glielo leggeva
negli occhi, nel sorriso nei momenti in cui s’incontravano nei corridoi
del castello; ma nessuno di essi ne aveva parlato mai, egli per
riverenza, ella per ritrosia.

Giunti alla postierla Alma si rivolse come faceva ogni volta per
rispondere al saluto dei guardiani, dai quali si sentiva molto amata,
e già era per salire le scale che mettevano nelle sue stanze allorchè
vide il vecchio Pietro che si era tolto il cappellaccio e mostrava nel
viso sorridente il desiderio di parlarle. Onde si arrestò e non potè
trattenersi dal dirgli.

— Ma insomma, Pietro, che hai?

— Ho contessina, ho che... ho fatto un voto.

— Un voto tu, e a chi?

— Alla Madonna del Carmine alla quale debbo se dopo tante peripezie
sono ancor vivo.

— E in che consiste un tal voto?

— Glielo dirò, Eccellenza, glielo dirò. Vede, Eccellenza, quella
porticina che serba ancora le traccie del fuoco e del fumo? Fu proprio
in quella che lui... il conte suo marito... capitan Riccardo che io ho
amato come un figlio... cioè, bestia che sono! che amo come un figlio
quantunque sia un gran signore... Io lo sapevo, ma lo tenevo celato a
lui, perchè... perchè... è inutile dirlo il perchè. Fu dunque da quella
porticina che lui tra il fumo, le fiamme, le schioppettate si precipitò
come un leone sui Francesi. Ah, l’avesse visto! Un vero paladino di
Francia... Altro che Rizzieri!... Altro che Fioravante!... E così diede
il tempo a lei, alla Regina, al duca di porsi in salvo!

Ella ascoltava commossa, con la visione di lui negli occhi, di lui
bello e prode, di lui così temuto e così amato. Ma perchè Pietro, che
per non acuire i dolori di lei, con istintiva delicatezza non aveva
mai evocato tali ricordi, perchè quella sera, tutto pervaso di una
sì strana allegria, l’aveva financo trattenuta, ciò che per un altro
sarebbe stato una grave mancanza di rispetto?

— In che dunque consiste un tal voto? — tornò a chiedergli.

— In una bizzarria, un capriccio da vecchio. Eccellenza, che non
le sarà poi di gran fastidio, perchè lei, anche senza il mio voto,
va sempre tardi a letto, e quando veggo i vetri della sua stanza
illuminati dico fra me: La mia padrona piange, e avrei dato il mio
sangue, i pochi anni che mi restano di vita perchè la mia padrona non
piangesse più e... ridesse come io ora rido!...

— Lo so Pietro, lo so che mi vuoi bene, ed anche lui ti voleva bene.

— Ti voleva? che cos’è questo _voleva_? Mi vuole, ha capito Eccellenza?
mi _vuole_ bene!...

Alma trasse un sospiro e mosse per salire la scala.

— Non le ho detto il mio voto! — s’affrettò a dir Pietro — Mi faccia
la grazia di trattenersi ancora un poco... Ecco qui... lei dovrebbe
star sveglia fino a mezzanotte nella sua stanza... come fa sovente del
resto.

— Che sono queste pazzie, Pietro? — esclamò lei che incominciava a
credere davvero il vecchio avesse dato di volta.

— Pazzie? Le chiama pazzie! Io sono dunque un pazzo? Sì, sì, me lo dirà
poi, saprà poi perchè e di che son pazzo! Son pazzo perchè sono savio,
e non sono mai stato tanto savio quanto stasera in cui son pazzo!

Ella, un po’ infastidita, gli disse, tanto perchè non la importunasse
più oltre:

— Non vo’ mai a letto prima di mezzanotte; potevi anche risparmiarti di
dirmi il tuo voto.

Pietro la seguì con lo sguardo finchè ella disparve.

— L’ho fatta andare in collera! E veramente, poichè non sa, non posso
darle torto. Ah, se sapesse, sarebbe pazza più di me, lei, povera
creatura! Ora bisogna che vegga Carmine. Non dirò niente neanche a
lui: io ho potuto resistere perchè son pur sempre Pietro il Toro;
ma lui povero diavolo non reggerebbe alla gioia. Se io, al primo
istante, intesi come se il cuore mi scoppiasse! Sfido... una sorpresa
simile... vedermelo dinnanzi così di botto! Ed io che lo piangevo per
morto! Non ne dicevo nulla per pietà di quella povera anima di Dio
che si struggeva dal dolore! Ma ora non andrà più via; ora dopo tante
traversie, dopo tante sciagure, dopo tante vicende sanguinose bisogna
godersela la vita in pace e in gioia. O che forse non ne abbiamo
diritto?

Di un tratto il viso del vecchio si abbuiò.

— Ah, se fosse qui con noi quella poveretta che giace, laggiù sotto
quattro zolle di terra! È vero che... si era posta in capo una certa
idea... Povera donna! La dicevano crudele, feroce, sanguinaria, ed era
in fondo una buona creatura. Ma dovrà tornare qui... Lui lo vorrà, lo
vorrà, onde quella sventurata sia vicino a coloro che amò tanto e pei
quali morì!

Stette un istante pensoso.

— Orsù — disse poi, ridivenendo lieto — bando per stasera alle idee
tristi. Ho promesso di pagar da bere a tutti... Dimani ne sapranno
il perchè... Ah, dimani questo vecchio castello che ora mi sembra una
sepoltura, sarà tutto una festa e...

Un pensiero gli troncò a mezzo le parole.

— E se lei si ostinasse?

Poi scoppiò a ridere come per darsi la baia.

— Che sciocco! Ma se lei si strugge, si strugge, povera figliuola, e ne
sarebbe morta se lui avesse ancora tardato! Al vecchio Carmine, adesso.
Che tiro gli vorrò fare, che tiro!

E prese la via delle stanze a pianterreno ove Carmine ogni sera a
quell’ora faceva i conti con i lavoratori.

— Oh Pietro — disse Carmine al vederlo, interrompendosi per poco — ho
da darti una nuova che ti farà piacere.

— Una nuova a me, tu? — gridò Pietro restando a bocca aperta per lo
stupore.

— Sì, sì: aspetta che abbia finito... Delle nostre antiche conoscenze
che son tornate... Le ho viste oggi... Poi, poi ti dirò:

E si rimise a discorrere coi contadini.

Pietro non si era riavuto dalla sorpresa. Quale nuova Carmine doveva
dare a lui che ne custodiva una veramente sbalorditiva? E lui che
era venuto col proposito di prendersi giuoco del suo vecchio amico,
tenendolo sospeso con mezze parole! Si sentiva bene imbrogliato perchè
stentava a credere che Carmine sapesse ciò che lui sapeva. Avrebbe
continuato così tranquillamente a fare i suoi conti? Non avrebbe fatto
echeggiare il castello dalle sue grida di gioia, come avrebbe fatto lui
se non avesse promesso di tacere?

— Sbrigati, via sbrigati — disse a Carmine, non ne potendo più.

— Ho per massima di non rimandar mai le cose dell’oggi al domani.

— Sì, ma io intanto... Mi hai messo in tale incertezza...

— Ma che? Sei divenuto una donnicciuola? Non ti sapevo così curioso!...
Aspetta, aspetta, che ora sarò con te...

E senza badargli più oltre continuò a far di conti.

Pietro si grattava la testa con un gesto a lui abituale quando
era imbarazzato, e si rassegnò ad aspettare, rodendosi le unghie
dall’impazienza.

— Ah, finalmente! — gridò quando vide che Carmine, essendo andati via i
contadini, si accostava lui — Che ci è dunque, che ci è? Chi è tornato?

E stette perplesso ad aspettare la risposta. Ah, la gioia gli sarebbe
stata assai avvelenata se Carmine avesse saputo ciò che lui sapeva!

— Il Ghiro ed il Magaro... ti ricordi? furono tuoi vecchi compagni
d’armi... li ho incontrati luridi, laceri, affamati da far pietà, e li
ho invitati a venir qui stasera.

Pietro il Toro s’intese come corbellato. In un altro momento
avrebbe accolto con piacere quella nuova, chè era stato sinceramente
affezionato ai suoi vecchi camerati; ma mentre egli ne aveva una di
grande importanza sbalorditiva non poteva quasi perdonare neanche al
vecchio Carmine il diritto di avere anche lui delle notizie.

— Bah — disse infine — mi fa piacere, sì, mi fa piacere; ma che cos’è
questo in confronto di quello che so io?

— E che sai tu, che sai? — chiese Carmine.

— Che so? Nulla... Penso che il destino talvolta è ben curioso!...
Dunque il Magaro e il Ghiro son tornati? Ne ho piacere, davvero, ne ho
piacere. Ci siamo tutti i vecchi amici, i compagni di un tempo!

— Tutti no — rispose Carmine con un sospiro — manca il capo, manca
l’aquila: son tornati solo gli sparvieri!

— Tutti, ti dico! — gridò Pietro.

Ma rimase confuso, imbarazzato, per quelle parole che non aveva potuto
frenare.

Carmine lo guardò sorpreso; poi scrollò il capo, come se non avesse ben
capito.

— Manca lui, manca capitan Riccardo! — mormorò con un sospiro.

— Sai, stasera ho invitato a bere i guardiani, festeggeremo il ritorno
di... del Magaro e del Ghiro. Ti vogliamo con noi, hai inteso? Un po’
di allegria è necessaria di tanto in tanto. Se la cosa fosse durata più
a lungo ne sarei morto.

— Quale cosa?

— La cosa... Dico così per dire. Ma tu hai avuto sempre il brutto vezzo
di far delle domande che imbarazzano. Vo’ via perchè mi faresti andare
in collera. Dunque ti aspetto nella mia stanza; faremo una partita e si
starà allegri, hai inteso?

Detto ciò prese la via del cortile, lasciando Carmine alquanto incerto.

— Ha sempre avuto di queste bizzarie — mormorò il vecchio — Ma chi non
ha difetti? E chi ha poi il cuore di Pietro?

Alma era salita nel suo appartamento in un angolo del castello. Presso
la porta della sua camera incontrò una delle cameriere che le disse:

— Il signor duca ha chiesto di lei. Vuole che lo avvisi appena tornata.

Non aveva finito di dir queste parole che il duca comparve sull’uscio.
Aveva in mano un giornale che leggeva attentamente. Nell’alzar gli
occhi vide la figliuola.

— Ho una triste nuova da darti... dico triste perchè anche se nol
meriti ci si affeziona con chi vivemmo per tanti anni in comunanza. La
regina Maria Carolina è morta.

— Morta! — esclamò lei impallidendo.

— Un mese fa: l’ho letto ora in questo giornale che mi è pervenuto
con un po’ di ritardo. Povera donna, il cielo, l’abbia nella sua
misericordia. Però la cosa non sembra molto chiara: il giornale, un po’
liberalesco, lascia intendere tante cose a ben leggere tra le linee!
Pare che avesse infastidito un po’ i sovrani che si erano riuniti a
congresso. Bisogna convenire che è morta sulla breccia!

— Padre mio, sono stanca — disse Alma che mal si reggeva in piedi.

— Vai, vai, anche io andrò a letto. Questa notizia mi ha fatto male.
E... e ho pensato subito a lui: ora è sciolto da ogni impegno... Perchè
neanche ora si è fatto vivo? Avrebbe potuto scrivere! Infine, volere o
non volere, sei pur sempre sua moglie!

Ella era rientrata nella sua camera col cervello sconvolto, col cuore
in tumulto. Non avrebbe saputo ben ridire quel che aveva inteso alla
notizia che tutto ad un tratto le aveva dato suo padre. Ci era del
dolore, ma ci era anche una vaga gioia, una vaga speranza; certo
l’ostacolo maggiore al ritorno di lui era tolto!

Ella però aveva inteso rimorso di un tal pensiero, rimorso di aver
pensato a lui prima che alla povera morta; ma indarno si rimproverava
ciò che a lei pareva durezza di cuore: non sapeva far tacere l’intima
voce che le parlava di sperare!

Come abbiamo detto, Alma in quei due anni aveva inteso quasi un sordo
pentimento della sua severità verso l’uomo al quale il destino l’aveva
unita con un nodo indissolubile. Accusava se stessa di aver sacrificato
alla sua superbia la felicità sua e dell’uomo che l’amava.

A quale vita si era condannata e a quale vita aveva condannato colui al
quale aveva giurato innanzi a Dio di appartenere con tutto il suo corpo
e con tutta l’anima sua! Ella aveva impedito che prendesse possesso di
ciò che gli spettava per legittimo diritto! Quel castello era suo, ed
ella ne godeva, ella che lo aveva scacciato dalla camera nuziale! Ella
continuava l’opera nefasta di suo padre a danno del figlio di colui che
suo padre aveva costretto ad andar ramingo!

Quanto più nobile, più generoso era stato lui che era andato via
rinunciando a tutti i suoi diritti! E se non le aveva dato in quei
due anni notizia di sè, era segno che voleva umiliarla con la sua
alterezza, che sdegnava di aver rapporti anche amichevoli con la donna
che lo aveva scacciato!

Si era seduta sulla _dormeuse_ a piè del suo letticciuolo e vi si era
abbandonata come stanca.

— Vostra Eccellenza ha suonato? — chiese una delle cameriere entrando.

Ella, scossa da quella voce, alzò il capo.

— No — disse — anzi poichè è già tardi, potete andare a letto.

La cameriera salutò ed uscì.

Alma guardò l’orologio. Mancava mezz’ora alla mezzanotte.

Ebbe come un sussulto, una strana, stranissima idea le passò pel capo.
Perchè Pietro si era fatto promettere che ella non sarebbe andata
a letto prima della mezzanotte, perchè? Un voto? Ma che stupido e
inconcludente voto era quello! Pietro, è vero, era di carattere e
di umore bizzarri, ma non si sarebbe permesso con lei una burla così
sciocca! E quella strana, prorompente allegria doveva pure avere una
causa!

E rievocava i particolari di quell’ora trascorsa in chiesa. Nell’andare
Pietro aveva il contegno consueto: era taciturno, pensoso, come per due
anni lo aveva quasi sempre visto. Poi lei era uscita e lui era rimasto
in chiesa mentre di solito la precedeva. Quella breve dimora era
bastata per trasformarlo, per pervaderlo di gioia, per farlo divenir
quasi folle. Che cosa era accaduto in chiesa in quei pochi istanti? Che
aveva inteso? Chi aveva visto?

Chi aveva visto? Il cuore le diede un balzo per un sospetto, un
sospetto così vago, così strano che era una follia. Una follia? E il
duca non le aveva detto che la Regina era morta, da più di un mese?
Dunque _lui_ era libero, e chissà non avesse inteso il bisogno di
tornare a lei!

Ella, è vero, era stata inesorabile, gli aveva detto che sarebbe
stata inesorabile: ma in quei due anni di raccoglimento in cui la
vita le era apparsa nella sua realtà, in cui aveva compreso che se la
donna è responsabile di tutto il suo passato per i fini supremi della
natura e dell’amore; se l’integrità del cuore non può scompagnarsi
dall’integrità verginale nella donna che si dona all’amore di un uomo,
ben folle e bene assurda è nella amante e nella sposa la gelosia fisica
del passato. Le labbra di un uomo infrangono il bicchiere nel quale
bevve la voluttà voluta dal sangue e non dal cuore; ma nessuna traccia
ne resta alle sue labbra: il vino che assaporò non ha nome per lui, o
se mai ne ebbe, è presto cancellato; dove l’anima non lascia parte di
sè, ivi non resta la stigma dell’amore; e l’uomo anche se visse una
lunga vita di vizi e di dissolutezze alle quali non partecipò l’anima,
può, redento da un amore, l’unico, il vero, l’assoluto dell’esistenza
sua, darsi puro alla donna che infine incontrò dopo averla cercata per
lunghi anni, puro come la vergine che muove all’altare.

Ma aveva compreso lui che l’inesorabilità di lei sarebbe stata vinta
non solo dalla maggiore maturanza del suo intelletto e del suo cuore,
ma anche dalla passione che vince talvolta anche la gelosia? Se ancora
l’amava come l’aveva sempre amata, non avrebbe inteso il bisogno di
tornare sia pure per andar via per sempre se ella ancora si fosse
ostinata in tanto assurda e disumana ripulsa?

E che avrebbe fatto lei se quel vago sospetto, quel vaneggiamento si
fosse avverato?

La risposta era nei brividi che a tal pensiero le corsero per tutta
la persona, nel subito divampare del sangue, nei battiti convulsi del
cuore, in tutta l’anima sua fremente di passione.

Non era più la giovinetta il cui amore era stato un fluttuare di
pensieri or tristi or lieti, ma vaghi e confusi sempre: era la donna
che amava, che voleva con tutta la sua compagine, come se l’anima
ardente di amore si fosse sparsa per tutte le sue fibre, e tutto il
corpo e tutte le visceri ne fossero pervasi.

Alzò gli occhi. L’orologio a pendolo segnava mezzanotte meno pochi
minuti.

Fra pochi minuti dunque sarebbe giunta al bivio fatale della sua
vita, fra pochi minuti si sarebbe compiuto il suo destino: o l’amore
con tutte le gioie che in quei due anni aveva intravisto nei sogni,
tormentatrici ed allettatrici insieme, o lo sconforto, la desolazione,
il buio dell’anima, le torture logoranti dei desideri roventi e
insoddisfatti.

Il suo sospetto era divenuto certezza. Per un misterioso fenomeno ella
sentiva che Riccardo le era vicino; ella si sentiva nella visione di
lui, sentiva il flusso del suo pensiero che tutta l’avvolgeva. L’indice
dell’orologio lentamente si avvicinava all’ora fatale: ella aveva lo
sguardo fisso sulla porta, l’orecchio teso, il cuore in tumulto.

E se s’ingannasse?

Nonpertanto aveva paura, paura di vederlo comparire là sulla soglia
della porta, uscente dalle tenebre come un fantasma; paura di non
vederlo pur sentendo che egli era in quelle tenebre!

Mezzanotte era per suonare!

Sussultò in tutta la persona: aveva sentito un lieve rumore nelle
tenebre del corridoio.

— Dio mio — mormorò — Dio mio!

Il rumore di un lento calpestio, impercettibile per ogni altro
orecchio, si faceva sempre più distinto e vicino.

Ella diede un grido, un grido che era di gioia e di spavento insieme,
ma non ebbe la forza di alzarsi e si abbandonò sulla _dormeuse_ con gli
occhi sbarrati e fissi alla porta.

Aveva visto un’ombra che si andava sempre delineando. Allorchè fu in
piena luce ella riconobbe in quell’ombra colui che aspettava: Riccardo.

Si era fermato sulla soglia come in quella sera delle nozze. Era
pallido, ma aveva negli occhi uno sguardo d’ineffabile tenerezza.

— Alma — disse Riccardo con voce dolce e triste — anche adesso non
varcherò questa soglia senza il tuo invito.

L’aria ne era grave, l’aspetto severo. Nulla era più in lui dell’audace
avventuriere nelle vesti signorili, nel signorile portamento.

— Dite una sola, una sola parola — continuò — ed io andrò via per
immergermi di nuovo nel silenzio e nelle tenebre donde sono uscito.

Ella non aveva la forza nè di parlare nè di muoversi: tutta la sua
passione come tutta l’anima sua erano nello sguardo. Infine si alzò
a sedere, mandò indietro con un atto del capo la bionda capellatura
che le si era disciolta, mosse le labbra per parlare; poi vinta da una
profonda commozione scoppiò in un dirotto pianto.

Egli rimase lì a guardarla, con le braccia conserte, dominando
l’angoscia, dominando l’impulso di tutto l’essere suo per non varcare
quella soglia.

Infine anche ella si calmò e con voce rotta dai singhiozzi gli disse:

— Voi siete l’unico signore e padrone qui: voi siete l’atteso da due
anni, nelle lacrime e nella solitudine!

Non aveva ancora finito di dire queste parole che già Riccardo era alle
sue ginocchia, con gli occhi sfavillanti, col volto trasfigurato da una
gioia sovrumana. Aveva preso tra le sue le mani di lei che baciava e
ribaciava, tenendo pur sempre fissi gli occhi sulla leggiadra creatura
che non si era ancora riavuta dall’orgasmo in cui l’aveva immersa
quell’attesa, quella invocata apparizione.

— Ti dirò tutto — proruppe lui quando infine la parola che salendo
dalle viscere moriva sulle labbra potè venir fuori — ti dirò tutto
della mia vita di questi due anni.

— Tu sei qui, sei qui! — mormorò lei piegandosi su lui. — Che m’importa
del resto?

— No, devi saper tutto: devi ripigliarmi come se tu meco avessi vissuto
questi due anni, devi sapermi tuo, sentirmi tuo come fui sempre anche
quando osavo alzar gli occhi per adorarti come il lurido bruco adora
il sole che lo riscalda. Sai tu che quella povera donna che era nata
come un astro si è spenta come un tizzo fra le ceneri, spenta forse
dal veleno propinatole da coloro che ne temevano l’indomita energia, lo
spirito impetuoso ed audace, la volontà inflessibile, spenta così di un
tratto mentre i monarchi di Europa, caduto il gran soldato che li aveva
divelti dai troni, discutevano del nuovo assetto da dare agli Stati ed
ella difendeva il suo, tentando di rivendicare i propri diritti? Sola
contro tutti fino agli ultimi istanti, sola contro tutti anche morendo,
affermando anche morendo la vastità e la profondità di un genio reso
infecondo dalle debolezze muliebri! In quei due anni ella fu la sovrana
per me, unicamente la sovrana. Da quella notte in cui la mia vita fu
legata alla tua innanzi a Dio e innanzi agli uomini, ella che non aveva
potuto vincere gli altri, vinse se stessa e trovò l’oblio dei suoi
disinganni di donna nella sua missione di regina e di madre che difende
per sè e per i suoi figli i diritti che Dio le aveva concesso.

Alma, che a poco a poco si era ridestata alla realtà che pur le pareva
un sogno, trasalì a queste parole: dal profondo del cuore le salì
sulle labbra un sospiro di gioia ineffabile. Le sue mani strinsero
convulsamente quelle del giovane nel mentre lo fissava con le pupille
ebbre di felicità attraverso il velo delle lagrime.

No, non mentiva, ne era sicura: egli era stato suo sempre col cuore,
suo sempre col pensiero fin da quando, fanciullo ancora, ella era per
lui un’irraggiungibile deità, e in quei due anni era stato suo in tutto
se stesso! No, non mentiva per pietà di lei, non mentiva perchè gli si
abbandonasse. Sarebbe bastato un cenno della mano perchè egli andasse
via per non tornare mai più!

Di quanta gioia profonda le sfolgorava il viso, di che gioia profonda
le balenavano le pupille!

— Parla, parla — gli susurrò piegando il capo sull’omero di lui —
parla, amor mio!

Egli diede un grido: prese fra le braccia quel corpo morbido e caldo:
con un gemito di amore convulso, quasi folle, cercò con la bocca la
bocca di lei.

— No — gli disse lei piano, pure abbandonandosi — parla, dimmi tutto...
Già tutto mi hai detto col dirmi che fosti sempre mio. Parla: è una
musica celeste la tua parola. Poi ti dirò quanto ho sofferto, come
ti ho atteso, come ti ho invocato. Parla: io sento con la tua voce
penetrare nella mia l’anima tua. Che dolce e buona cosa è la vita! Non
è questo l’istesso mondo, non è vero? tanto triste, tanto triste in cui
ho vissuto finora! È un’altra terra, un altro cielo... Come è dolce il
vivere così, come è dolce!

— E dunque — rispose lui facendo uno sforzo per dominarsi, ma essendo
sicuro ora, sicuro che ella era sua, che ella gli si dava, che ogni
fibra di quel corpo che stringeva fra le braccia era vibrante di
passione — e dunque perchè parlare più oltre di quel mondo nel quale
soffrimmo, soffrimmo per meritar questa ora di cui ciascuno istante
è una gioia sovrumana? Basti il dirti che io fui il messaggero della
Regina, che vedevo soltanto nei giorni di udienza. Ella mi affidava
i più delicati incarichi, le più arrischiate imprese. Viaggiai molto,
conobbi molta gente, ma l’anima mia era qui, dove tu mi aspettavi.

— Non una parola di te, di te per due anni, non una parola, ed io
morivo lentamente cercando invano l’anima tua!

— Tu mi avevi scacciato — rispose Riccardo con voce teneramente
soave — ed io avevo giurato di lasciarti libera, di non tornare a te
che dopo lunghi anni solo per vederti anche una volta prima che io
morissi. Pure alla Regina moribonda promisi che prima di partire, come
avevo risoluto, per le lontane Americhe, sarei venuto qui perchè ogni
dubbio dileguasse dall’anima mia. Ella prima che la crudele agonia le
togliesse la parola mi aveva detto, come se al suo spirito in quell’ora
solenne fosse balenato il vero: Va, che ella ti ama; va, che ella
ti aspetta; ed io son venuto, disposto a partire per sempre se tu
mi avessi imposto di andar via, perchè non ti si incolpasse, perchè
nessuno si arrogasse il diritto di aver pietà di me e di censurarti.
Solo a Pietro mi svelai nella chiesa ove ero andato per pregare sulla
tomba di mio padre e di mia madre. E ecco perchè con la cooperazione di
Pietro sono io ora qui, in quest’ora della notte, come un amante o...
come un malfattore. Dì ora una parola, una sola parola ed io andrò via
per sprofondar lontano nelle tenebre e nel silenzio.

In ciò dire si era alzato e si teneva immobile a lei dinanzi.

Ella si alzò alla sua volta, si strinse a lui e lo trasse con dolce
violenza verso l’uscio. Ivi giunta si fermò e voltasi a Riccardo che
era rimasto sul limitare gli disse con voce lenta e solenne:

— Tu sei il mio signore e padrone tu sei il mio sposo, tu sei il mio
amante. Questo castello è tuo, queste terre son tue, questa povera
donna che ti ha atteso per due anni è tua. Sono io che t’imploro perchè
non mi punisca della crudeltà mia come sarebbe tuo diritto. Scacciami
come una sera io ti scacciai, ma aprimi le braccia se credi che due
anni di dolori, di rimorsi, di tormenti mi abbiano punito abbastanza!

Egli che era rimasto da prima sorpreso ne capì di un tratto tutto il
pensiero delicato. La prese fra le braccia, la raccolse fra le braccia
per sentirla in sè fremente di passione.

Ed ella gli si diede tutta, come in un sogno!

Il castello dormiva, dormivano le campagne sotto al blando raggio
lunare. Pel cielo sereno ammiccavano scintillando le stelle. Un fremito
di amore, di baci e di parole mormorate nei baci saliva da quella
cameretta spandendosi su su pel cielo senza nubi.

E per la serenità del firmamento ammiccavano le stelle scintillando più
vive.

Era già sorto il sole quando di un tratto echeggiarono voci festose
e scoppi di fucilate, come è in uso per le feste. Tutte le finestre
del castello si spalancarono, tutte le porte si aprirono. Innanzi al
piazzale la folla dei contadini urlava ebbra di gioia. Il Magaro, il
Ghiro, Carmine, Geltrude parevano invasati: Pietro il Toro piangeva
come un fanciullo pur cercando di darsi un’aria grave.

La gran veranda del castello sulla quale eran fissi tutti gli sguardi
si aprì. Alma e Riccardo apparvero sorridenti, e dietro a loro il duca
ancora intontito per la lieta sorpresa.

La folla emise un sol grido che si ripercosse per la vallata, un grido
di delirante esultanza.

Il sole in tutta la maestà, in tutto il fulgore avvolgeva nella sua
porpora i giovani sposi stretti l’uno all’altra e che avevano nel cuore
un sole assai più sfolgorante: quello dell’amore!


  FINE.




NOTE:


[1] Lettera questa autentica.





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK SOLA CONTRO TUTTI! ***


    

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