The Project Gutenberg EBook of Lucifero, by Mario Rapisardi This eBook is for the use of anyone anywhere at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this eBook or online at www.gutenberg.org Title: Lucifero Author: Mario Rapisardi Release Date: September 16, 2007 [EBook #22641] Language: Italian *** START OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LUCIFERO *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at DP-Europe, http://dp.rastko.net. (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano) LUCIFERO POEMA DI MARIO RAPISARDI. MILANO, LIBRERIA EDITRICE G. BRIGOLA. Corso Vittorio Emanuele, 26. 1877. PROPRIETÀ LETTERARIA. _Coi tipi di G. Bernardoni._ I ARGOMENTO. Silenzio di Dio.--I suoi ministri imprecano.--Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.--Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.--Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.--S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa, ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.--L'Eroe si dispone al racconto. Dio tacea da gran tempo. Ai consueti Balli moveano in ciel gli astri, e con dura Infallibile norma albe ed occasi Il monotono Sol dava a la terra. Reddían le nevi a biancheggiar le spalle Del tremante dicembre; april venia Col suo manto di fiori; arida e stanca Movea la bionda està giù da' falciati Campi a cercar le vive onde marine; E, coronato il crin d'edra e di poma, Scendea l'autunno a ruzzar vispo e snello Fra l'accolte alpigiane, e pigiar l'uve Nei colmi fianchi dei capaci tini. Tutto seguía così l'alte, immutate Leggi de la Natura, e nullo in terra Creato obietto, o in ciel, l'arduo sentiva Strano silenzio del mai visto Iddio. Abbandonati e solitarî intanto Giacean per le infrequenti aule divine I marmorei Celesti; e per le fredde Vòlte il sacerdotal canto e la prece Qual vano si perdea grido, che inalza Da la rupe solinga il cacciatore, Se mira dileguar giù ne la valle Tra 'l sonante canneto il salvo augello. Da fiero gel, da sacro orror comprese Fur l'alme vostre allor, pallidi e negri Zelatori de l'are; e quando ai vani Scrigni balzar vedeste arido e magro L'obolo di san Pietro, e oziose e tristi Tornar dal mondo, qual gregge digiuno, Le scornate Indulgenze, orridamente Su le madide tempie alto rizzârsi, Come ad istrice, i crini, ed agitato Tre volte e quattro tentennò il tricorno Su la sacra tonsura. Un grido, un urlo Cupo s'alzò dai congiurati petti: --La fede muore! O Dio, fulmina e sperdi Gl'increduli mortali!-- Alcun non arse A la prece crudel fulmine in terra; E i mortali rideano. Udì quel riso Lucifero, e balzò. Sedeangli intorno Il silenzio e la morte; oscure e fredde Strisciavan su la sua fronte immortale Strane larve di sfingi e di chimere, Ed ei, solo com'era, in mezzo a tanta Morte la luce e l'armonia sentiva. --Qui in eterno starò? Favola indegna Senz'opra e senz'amore, io, che del cielo Per istinto d'amor spregiai la vita? No, si torni a la terra! Un nuovo io sento Spirto d'amor, che mi discorre il petto: Santo auspicio è l'amor. L'ultima prova Tentiam; l'ora è propizia: assai già sono Su la terra i miei fidi; uom fatto anch'io Amerò, soffrirò; correrò il breve Travaglioso cammin d'un uom mortale, E, redento da l'opre e da l'amore, Recherò a l'uom salute e morte a Dio.-- Così l'Eroe parlava, e i circostanti Baratri tenebrosi si agitavano, Come per improvviso urto di vento Il sen cupo del mar. L'ali di gufo, Il piè forcuto e la bovina fronte Mutò d'un tratto il favoloso iddio; E dai lombi gagliardi e da le spalle Le fuliggini tèrse e la stillante Cispa dagli occhi affumigati ed orbi, Tutt'uomo apparve, e radïò dal volto La superba beltà d'un dio mortale. Tramutato così, dal piceo trono Balzò d'un tratto; il guardo mosse in giro. Ed esclamò:--L'infernal regno è sciolto; Il mio regno è la terra!-- Ecco il subietto Del canto mio. Classico o no, ne affido L'occulto senso a voi, vergin consesso D'oculati Aristarchi. A voi diè Giove La diva Arte in governo e i mal concessi Talami de le Muse; e se agl'incerti Occhi vostri si niega il delicato De le Grazie sorriso e la suave De le sacre fanciulle ispiratrici Candida voluttà, dolce vi sia Star su la soglia a noverar gli ardenti Amplessi e i baci insazïati, ond'hanno Suon di celesti melodie le chiuse. Odorate cortine, ed immortale Vita in terra gli eletti: in simil guisa Sta su la porta dei gelosi arèmi La fida turba dei scemati servi, Mentre il figlio d'Osmàn deliba il fiore De le belle Circasse. Alto e solenne Officio è il vostro, e non indarno io chiamo Il vostro nume auspice a me: voi soli Le riposte misure e voi sapete Le leggi e il rito, onde s'ottien l'impero De l'occulte bellezze, e qual più giova Tener modo e governo in sul tentato Mare de l'Arte, e quando ed in qual guisa Toccar si dee la tuba o la chitarra, E metter l'ali al dorso e dar di sproni Al Pegaso spumante, o nel tenace Fren moderarne a tempo i perigliosi Impeti giovanili, ed a che segno E con che industria è depredar concesso Del Meonio le carte, o del Tebano. Pèra colui, che al necessario giogo Prova sottrar la temeraria nuca, E va a ruzzar licenzïoso, come Selvatico puledro, per li campi De la sfrenata fantasia! L'immensa Ira vostra ei subisca, e tutto a un punto Perda il pazzo sudor, per cui tenea Seder primo in Parnasso. Armati ed irti D'alfabetiche cifre, unitamente Sorgete, e contro a lui, contro a lui solo Tutti dal sapïente arco scoccate I rettorici strali; onde il meschino, Travagliato da l'onta e dal rimorso, Egro ed insano a riparar s'affretti Fra le mura d'un chiostro. O, se più degno Sia di spregio che d'ira, alta, pesante Sul suo capo ostinato onda si aggrevi Di silenzio e d'oblio. Gelide e mute Gli sfileran dinanzi ad una ad una Le sdegnose gazzette; indifferenti Si chiuderan su la sua faccia smorta D'Acadèmo le sale; e allor che, stanco D'urlar strambotti contro al secol ladro, Povero e solo abbraccerà la morte, Non fia che le supreme ore gli allegri L'aureo rabesco d'un qual sia diploma. Saldo così su cardini d'acciaro Il tron vostro si gira, e vita e nome Dal cieco umano folleggiar traete. Tal ne l'algide stalle, in fra le zampe D'ardimentoso corridor, ritrova Cibo e sollazzo il piceo scarabèo; E, quando fra le storte ànche ghermisce Il picciol globo del dorato fimo, L'ali spiega da terra, e s'alza a sghembo A emular de l'audace aquila il volo. S'incarnò adunque il mio Demonio. In terra Sorrideva l'aprile; entro al suo petto Sorrideva l'amor. Sopra la cima Del Caucaso famoso, onde s'appella La giapetica stirpe, egli fu visto Venir come in un sogno, e star d'incontro A l'aurora nascente. Un invisibile Spirto, qual di canora aura, fremea Per le fibre del mondo, e più lucenti Dava al ciel gli astri ed a la terra i fiori: Gli dan nome d'amor l'anime accese Dei parlanti mortali; ed ei su tutte Anime impera, e solo e senza legge Il mar penetra e i monti e la selvaggia Cute degli olmi e il petto aspro del tigre, Chè spirto è desso, e qual raggio di sole Splende e s'agita in tutto, e l'alme e il tutto Con secreta armonia mesce e ritempra. Era per l'aria un fluttüar d'ardenti Atomi mobilissimi di luce, Una confusa, fluvïal fragranza Di sconosciuti balsami, e suave Musica di parole e di concenti Misterïosi. Un'irrequieta e nuova Delizïosa voluttà di sensi Vaganti per immenso ètera, come Rondini in cerca di lontani lidi, Una dolcezza non provata mai Di lagrime e di sogni, al primo arrivo, Sentì l'Eroe nel petto; e lo stupito. Sguardo volgendo per la vasta luce, Muto restò, di giovinetto a modo, Che raggiante di vita alfin ritrova La sognata beltà dei suoi vent'anni. Ma, poi che in lui l'alto stupor primiero Al fier proposto e a la ragion diè loco, L'incredul'occhio ai firmamenti spinse, --E, dove sei, sclamò, tu che presumi Regnar l'anime eterno? Alzati, e pugna! L'uman genio ti sfidai-- Il pugno strinse Superbamente, eresse il fronte, e stette Il fulmine aspettando, o la risposta. Tacito intanto dal soggetto mare S'apre l'indifferente occhio del sole Su le cose create, e si ridesta Giù per le valli intorno e la pianura Il lieto suon de le fatiche umane. --Sorgi, la terra è tua, proruppe allora L'inclito Pellegrin, sorgi, o gagliarda Possa de l'uomo! Assai d'ombre e di sogni Preda al mondo tu fosti; e dal terreno Pugno di fango, onde t'han detto uscito, Non ti redense ancor la tua cotanta Vita de l'alma audace e la sventura Tua perpetua compagna. E che ti valse Al par di te, trar da la creta i Numi, Se al cospetto dei freddi simulacri Dechinasti il ginocchio, e la superba Libertà del pensier serva fu fatta Di codarde paure? Or sorgi ed osa: Il tron del mondo è tuo; numi e fantasmi Son fuor de la Natura, e non ha vita Tutto che il vol de la ragion trascende. A che tra larve ìnesorate e vane Cercare un che t'aggioghi e ti spauri, Se muta al cenno tuo trema e si prostra La possente Natura? Ama e combatti! L'opra de l'uomo è amor, vita è la guerra, Tuo regno è il mondo, e il solo iddio tu sei!-- Tacque, e a l'ardito favellar commosse Tremâr l'aure d'intorno, e agitò i fianchi La titanica rupe. Era nel monte Negra, profonda, solitaria, intatta Da umane orme e dagli astri una spelonca Di bronchi irta e di sassi. Orrido intorno Le fan murmure i venti, e tra' selvaggi Fianchi, qual di commosse ali e di strida, Cupamente rintrona. Irati al verno Vi piomban da l'opposta erta i torrenti Scatenati dai ghiacci, e a balzi, a salti Mugulando spumeggiano; ma quando Giungono al vallo de l'orrenda uscita, Perde l'onda il nativo impeto, e pigra, Torba, pollente s'impaluda, e manda Pestiferi mïasmi a chi la spira. Quivi, al fin del suo dir, contenne i passi L'umanato Demonio, e con feroce Piglio di scherno a contemplar si stava L'orrido sito e il ciel. Da le profonde Viscere allor del cieco antro una voce Querula, lunga, dolorosa emerse Come suon di sospir. Porse l'orecchio, E s'appressò l'Eroe, quanto il permise L'angusto varco e la stagnante gora, Ed ascoltò: --Di che perigli in cerca, Misero! vai? Che stolta opra e che vano Talento è il tuo di proseguir l'impresa, Ch'io già per tempo incominciai, spregiando La tutta ira del ciel? Stolto! che tardi Son fatto accorto, e di Prometeo il nome Mal mi dieron le genti! E che non feci, Che non diss'io per questa al pianto nata Cara stirpe de l'uom? Cieca ed ignuda Giacea nel lezzo de l'error, sì come Belva cibando la caonia ghianda, E altra legge nel mondo, altro governo Non sapea che l'istinto: ad altri ignota E a sè stessa giacea, scherno e vergogna De le cose create, e le create Cose, ignara di tutto, iva mescendo Con fallace giudicio. Ahi! qual dei numi Qual mai n'ebbe pietà, se non ch'io solo Io sol più che a me stesso? E non cotanto Mi punse il cor la fulminata fronte Dei fratelli Titani, e non di sdegno Arsi così per l'usurpate sedi Del fuggiasco Saturno e pe' negletti Consigli miei, quanto d'affetto e d'ira Destommi in cor la tribolata sorte Degli umani infelici. Ardito e solo Contro a' Numi io mi stetti, e alzai la voce Contr'esso Giove, allor che ad uno ad uno Sprecava i doni al vegetale e al bruto, E a l'uom, misero tanto, altro conforto Non largía che il morir. Tutto ebbe allora L'uomo infelice il mio favor: sol io Gli svegliai l'intelletto; io di sapienti Arti e d'opre gentili e di gagliardi Ardimenti lo instrussi; io sotto al trono Gli aggiogai la Natura, e dio lo resi Non minor d'alcun altro. Ahi! qual mi venne Premio da ciò? Non che n'aver mercede, L'invida rabbia arsi di Giove, e degno Tenuto fui d'ogni più cruda ammenda Quasi reo di delitto. Or quinci ai nembi, Come vedi, io mi fiacco, e a le voraci Cagne del ciel fatto son cibo, e scherno E favola del mondo. E nè querela Movo di ciò; chè il querelar non giova A chi esente è di morte; e inesorata L'ira è dei Numi, e inesorato al pari L'orgoglio mio. Ma qual benigno frutto Colser giammai di mie fatiche tante, Del mio tanto soffrir le sconsolate Proli del mondo? Ahimè, che sórte appena Da la tenebra antica, a l'infinita Luce del Ver schiusero gli occhi, e poco Poco a lor parve ogni più grande acquisto; Tal che, tolte dal sonno, ai sogni in preda Diedersi tutte, e del saver la sete Arse in loro così l'alma e la vita, Che a precoce vecchiezza e ad immatura Morte fûr sacre e a maledir condutte L'alto mio dono e il sagrificio mio!-- --Figlio di Temi, a lui rispose irato L'inclito Pellegrino, e che perigli Fantasticando vai? Nè vil fanciullo, Credi, io mi son, che si rivolta in fuga A la prima minaccia, o nauta imbelle, Che trema al più leggier spirto di vento, E si chiude nel porto. In questa eterna Rupe confitto, in verità, tu ignori Gli alti fati de l'uomo; e qual tu sei Carco di mal, di falsi mali agli altri Indovino ti fai! Lascia, deh! lascia Questi vani compianti, e oltre misura Non ti strugger di noi, se pur non t'hanno Tolto il senno davver le tue sciagure. Però sappi, e t'acqueta: opra gagliarda Tu cominciasti, ed io, se il ver discerno, La compirò. Non già il saver, t'accerta, Reso l'uomo ha quaggiù misero tanto, Ma la nemica a ogni saver, la cieca Credulità. Di false ombre e d'inganni Essa vive nel mondo, e si fa gioco De l'umana ragion; ma quest'azzurro Cielo e quest'aure e questi monti io giuro, Ch'ella è presso a morire, e arbitra in terra La ragion sederà; largo e securo Spiegherà il vol su' mal temuti errori Il redento intelletto; e allor che tutto Ciò che vuol, ciò che può senta e conosca, Questo ignaro di sè dio de la terra Pago fia di sè stesso, ed oltre il vero A cercar non andrà larve e paure!-- Disse, e partía; ma lo rattenne un detto Del pazïente Prometèo: --S'hai grande E pari, ei disse, agli alti accenti il core, Deh! non partir così, quando m'hai dèsto Tale un desío, che a lo sperar somiglia. Molto io soffersi e soffro, e assai maggiore Del mio soffrir fu la speranza, il tempo, Che co' fulmini suoi Giove sedea Sovra il trono d'Olimpo, e sul mio capo Rovesciava ogni mal. Crescea cogli anni E col disprezzo mio la sua paura E la sua crudeltà, però che immite Più chi regna divien quanto più trema, E dei fiacchi è virtù l'esser crudele. Solo di tutti io l'avvenir vedea Securamente, e de la sua caduta Presapeva il destin. Godi dei tuoi Vani, äerei rimbombi, io gli dicea, O spensierato usurpator del cielo; Tal da l'Inachia stirpe uno stupendo Mostro verrà, che spezzerà il tuo scettro Come fil non ritorto, e me da questi Ceppi redimerà; nè ti varranno, Credi, i fulmini allor, chè assai più salda Sarà del fulmin tuo la sua possanza. Forse Giove non cadde? Ahi! ma il secondo Dei vaticinii miei sperdeano i venti! Qui fra' ceppi io rimasi: ad un tiranno Tiranno altro successe, e meco avvinto Restò in preda agli affanni ogni uom mortale. Or che parli tu mai? Cadde a buon dritto E dopo assai di mali esperimento L'alta speranza mia; nè agevol cosa È il ridestarla, ed utile per certo Non mi saría, quando più tetro e fiero Sembra il dolor cui la speranza illuse. Pur, se grave non t'è l'esser pietoso A chi tanto per l'uom male sostenne, Al mio partito interrogar rispondi: Uom mortale sei tu? Qual t'assecura O responso, o destino, onde presumi Condurre a fin tant'onorata impresa? Non t'illude il voler, che dei più saggi Tal tiranno si fa, che par destino? Fidi in altri, o in te stesso? E se in te fidi, Tal possa hai tu, che al grande ardir s'adegue? E se fondi in altrui le tue speranze, Tanta han virtude ed armonia le genti, Che, fatto un brando sol d'un sol consiglio, Al trïonfo del ver movan secure? Qual che tu sii, svelati a me: qui sconto L'immortal vita inutilmente, e assai Tempo a soffrire e ad ascoltar m'avanza.-- --Ben m'è lieve appagar, l'Eroe rispose, La discreta domanda. Uom saggio, in vero, Io non terrò chi lusingato e spinto Da una rosea speranza ad ardua impresa, Pria non libra sè stesso, e con sottile, Freddo giudicio non prevede, e scerne I possibili eventi; anzi dà mano Subita a l'opra, e ciecamente ai casi Gitta sè stesso e de l'impresa il fine. Or, perchè a tal tu non mi assembri, io tutte Ti dirò le mie cose e l'esser mio, Quando a colui che tanti uomini e tempi Vide, e al fato durò con alma invitta, Grato è ridir ciò che di gloria è degno.-- Disse, e in cima a la rupe erma e selvaggia Pensieroso si assise. Alto a l'intorno Spazïava il silenzio, e in larghi giri Un'aquila le azzurre aure fendea. CANTO SECONDO. ARGOMENTO. Incomincia la narrazione.--La Natura e il Pensiero.--Stato primitivo degli uomini; primi e difficili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.--La gran Lite.--La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.--Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.--Un istinto di amore lo chiama sulla terra.--L'albero della scienza.--La tentazione.--Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.--Non mai contento de l'esser suo ritorna sulla terra.--Cristo predica l'amore.--Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.--Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato. Non da l'Inachia stirpe, o d'alcun mai Ceppo mortal, così l'Eroe riprese, Ma da natura, immortal germe, io nacqui Una a le cose, e da la luce ho il nome. Dir giusti sensi, o tacer dee chi dritto Co'l pensier mira; e, chiaramente espresso, Torna più grato, e pregio doppio ha il vero. Però di studïose ombre e d'enimmi Non cingerò il mio dir, chè nè maestro Di misteri son io, nè a disdegnosa Anima, che a sdegnosa alma favelli, Dubbio o coverto il ragionar si addice. Nuovi non già, ma da la turba illusa Negletti veri io parlerò. Due sono Le virtù, che le cose hanno in governo: La Natura e il Pensier; l'una, ch'eterna Genitrice visibile è di tutto, La pesante materia ordina e muta Per suo proprio valor; l'altro la informa Di spirital possanza, e la solleva Ad ardui voli e a magisteri egregi. Ferrea, immota in sue leggi, una procede Lenta così, che par che giaccia: inalza Su le rovine, onde si allieta, il trono, E da l'arida morte una perenne Fonte di vita e di beltà deriva; Ma l'occulto Pensier, ch'agita e accende Tutte cose universe, in varia guisa, Con poter vario e con legge diversa Ogni via tenta, ogni regione esplora Mobilissimo sempre, e tutto aborre De la tarda materia il peso e il freno; E quando avvien, che di misteri e d'ombre L'altra s'avvolge, e, per geloso istinto, La ragion de le cose occulta e serba, Ei libero discorre, e si ribella Ad imposte paure; apre e dischiava Terre, cieli ed abissi; argini atterra, Crea, muta, strugge, e a le domate forme Nuovi dà impulsi, e nuove leggi imprime. Tal, benchè l'un viva ne l'altra, e vita Abbian comune e necessaria, avversi Son per intimo ingegno; onde tu vedi, Che or l'un l'altra soverchia, or questo a quella Soccomber mostra; eppur son ambo invitti, Sono eterni ambidue, però che morte Da tal guerra non sgorga, anzi han le cose Da cotanto agitare ordine e vita. Sparsi per gli antri, e fieramente soli Vivean gli uomini primi, e nulla amica Possa lor sorridea, tranne il Pensiero. Ispide pelli eran lor vesti, e rudi Selci lor armi e sol conquisto il foco. Da l'alte culle del fecondo Irano, Procedendo, spandeansi a mala pena Sui giapetici piani, e gl'inclementi Ghiacci vincendo, che inghiottían le belve, A nuove lotte s'accingean. Muggía Dai britannici fiumi alto l'immane Caval de l'acque, a cui, pari a vorago, S'apre orrenda la bocca, e al cui sospiro L'onda gorgoglia e al ciel salta in ruscelli; Devastando correan l'irte spelèe, D'umane carni esploratrici, e fuori Dai frondosi dirupi a l'onde in riva Calavasi il deforme orso e il velloso Primigenio mammuto: oscura e pigra Mole di membra, a cui nemico è il sole; E tu, sovrano troglodita, astretto Dal fecondo bisogno, a miglior prova Sempre volgendo il multiforme ingegno, Armi e industrie trovasti; onde più lieve Ti fu il domar co'l lavorato renne Le nemiche falangi. Apron le nubi L'inesauste sorgenti, e senza freno Fiumi ed oceani giù dal ciel dirompono; Entro al diluvïal baratro immenso Spariscono le specie, in quel che, armato Di novella virtù, l'uom passa i mari Su la prima piròga, e, di recisi Boschi infrangendo il pian glauco dei laghi, Fermo vi elegge e men selvaggio asilo. Ivi, fanciulla ancor, l'Arte s'assise Pargoleggiando; e, a far men lungo il giorno D'un che l'alma struggea dentro a l'amore, Tal gli spirò nel cor dolce un sorriso, Ch'ei fatto a un punto più gentil, leggiadre Forme e il pensier nel duro selce espresse. Però, quand'ei con lungo studio al rito Del caro amor la sua fanciulla indusse, Docil vide obbedire ai suoi talenti Il tenace basalto; a l'agil fianco Brunite armi precinse, e il flessüoso Collo di lei, che gli gemea su'l petto, Incoronò d'inteste ambre e di baci. Or deggio dir, che, di regnar mal paga Sovra i campi natii, la curïosa Mente de l'uom s'insinüò nei cupi Visceri de la terra, e ai fiammeggianti Gnomi, che custodían l'ampie miniere, Rapì il bronzo, indi il ferro, a cui funeste Armi non sol, ma civiltà l'uom debbe? Io benedico a voi, fiumi e torrenti, Che giù dai fianchi dei materni Uràli L'auree sabbie lucenti al pian recaste; Ma più a la paziente opra, che il lieve Stagno confuse e il risonante rame, Non che a l'assiduo ardir, per cui, dal duro Abbracciamento mineral divelti, S'arresero i metalli a l'uom tenace. O pensiero immortal de l'uom che muore, Te da prima io conobbi, e quinci unito S'intrecciò a' fati umani il mio destino. Bruco, che il corpo infermo, a mala pena, Per intima virtù svolge dal primo Involucro, e, a la dolce aere credendo, Crisalide novella, il picciol volo, Co' fior de' campi il suo color confonde, Tal de l'uomo è il pensier: s'apre a fatica Fra tutti ingombri e lunghi affanni il varco, E cammina, cammina, e a nullo iddio Dee la vita, il principio, il mezzo e il fine. Ultimo forse e più perfetto anello De la catena universale, ei tutto Chiude in sè stesso il suo destin, chè umana Mutabil cosa e de la terra è il vero. Ahi! che un morbo fatal l'alma gl'invase Fin da' giorni suoi primi, ed ombre e morte Gli gittò sovra il capo, in cor, d'intorno! Tremò a l'aspetto de l'eterno, immenso, Fluttuar de' creati esseri il mesto Figlio de l'uom, che riprodotta e viva Non pur vedea nei circostanti oggetti Tanta lite incompresa e tanto affanno, Ma dentro al cor, dentro a le vene, in tutta L'esistenza sua poca iva ammirando Un perpetuo agitar d'odio e d'amore. Di fantastici mostri e di chimere Popolò quinci il mar, l'aria, la terra, Ogni spazio, ogni vuoto; e dove un'ombra Vide e un mistero, o una maggior possanza, Là piegò la cervice e pose un Dio. Dio nacque allor, Dio, creatura a un tempo E tiranno de l'uom, da cui soltanto Ebbe nomi ed aspetti e regno e altari. Chè or sopra ai soverchianti astri ei fu visto Spazïar l'insegnato etere, or chiuso Tra' fulmini precipitar su l'ale Dei rotanti uragani, or sovra al dorso Dei cavalli del mar correre i flutti E sfrenar l'onde a battagliar coi venti; O ver come immortal fremito immenso Penetrar l'aria, serpeggiar nel grembo Degli avari terreni, e al vigilato Solco apparir fra le compiute ariste. Però quel che Dio fu, quale ancor vive, E quanto ebbe e mantiene a l'uom soltanto Il deve, a l'uom, che d'ogni suo destino, O prospero, o maligno, arbitro è solo. Chi a tiranno cotal, che, dal pensiero Nato de l'uom, l'uomo asservir presunse E le cose universe, il fronte oppose Con indomito orgoglio, e una selvaggia Voce di libertà gittògli incontro, Sì che il ciel ne tremò? Chi la temuta Prepossanza di Dio tenne equilibre Con perenne agitar? Fu la feconda Lite, che il mar de l'essere commove Con assiduo flagello, e dai cozzanti Corpi la luce e l'armonia deriva. Essa al pigro e ferrato Ordine, occulto Padre di servitù, per fiero istinto, Rubellossi da prima; essa al feroce Andropòfago Iddio scosse la reggia Vigilata dai fulmini; e dal fiero Cozzo con lui tanta favilla emerse, Che, mutata dagli anni in fiamma viva, Tutto divorerà dei numi il regno. O d'ogni libertà fonte primeva, Madre d'inclite pugne, io ti saluto! Tu co'l moto la vita, e co'l solenne Fra le cose de l'alma egregio attrito Luce dèsti e saper negli intelletti E co'l saper la libertà, sublime Pianta, che sol dov'è coltura alligna. Te da la terra solitaria i saggi Primamente avvisâr; te, spiratrice Di terrigeni mostri a Dio rubelli, Raffiguraro e coltivâr le genti, E or fosti Isi nomata, or Bahavàni, Or Arìmane or Loke, or acqua, or foco, Or discordia infinita, e, se paura Ebber dei moti tuoi l'anime imbelli, O fur da sacerdoti empî travolte, Nome avesti d'errore e di menzogna Tu, che ad onor del vero e de la luce I misteri del cielo agiti e sperdi. Ma qual tu fosti e sei, più che i mortali Lo sanno in prova, e da più tempo, i Numi. Sedea Giove orgoglioso in su' tranquilli Troni d'Olimpo, il nèttare libando D'ogni più lieta voluttà, nè alcuna, Fra le dapi fumanti e le vezzose Fanciulle che tesseangli inni e carole, Cura de l'uom gli penetrava il petto. Sorsero allor dal cupo èrebo, tratti Dal comando di lei, che Lite ha nome, Quanti mai da la terra erano usciti Terribili Titani, a cui la forza Granava il corpo, e il cor crescea l'ardire; E avventando ciascun li suoi cinquanta Capi feroci e le altrettante braccia Contro ai regni di Giove, orribilmente Tracollaron dai fondi imi l'Olimpo. Arse d'ira il tiranno, e forza a forza Oppose, e vinse. Da le attinte altezze Precipitâr gl'intrepidi gagliardi Un dopo l'altro fulminati, e monti Ed isole parean, che in un selvaggio Moto la terra, o il mar vorace inghiotte. Ma a che fremi e sospiri al fier ricordo Di cotanta caduta, o sopra a tutti Sventurato Titano? Eran pur folli D'Ùrano i figli, ove tenean, che segga Maggior virtù, dove più grande e saldo Torreggi il corpo, e il vigor cieco e bruto A pugnar contro a tutti e a vincer basti. Tal nel mondo è virtù, cui nè possanza Di giganti trïonfa, o adamantina Spada conquide, e solo a la modesta Continua punta del pensier soggiace. Rupe, cui dal gagliardo imo non svelse Furor d'atre procelle, a poco a poco, Morsa dal flutto che le geme intorno, Scemar vedi e crollar: son rupe i Numi, E il flutto assiduo del pensier li rode. Così Giove fu vinto, e in simil guisa Vinto sarà chi gli successe. Or odi Quel ch'io feci e farò. Da una malnata Bordaglia rea, che da natura in dono Ebbe al corpo la lebbra e al cor la fede, Ièova ne venne, un implacato iddio, A cui fulmine è il guardo e tuon la voce. Solitario e funesto egli incombea Dal recesso del ciel plumbeo su'l petto Dei tremanti mortali, e gran sepolcro Di mal vivi era il mondo, a cui su'l capo, Pria de l'ora, il fatal sasso si aggrevi. Io nel cielo era ancor, bello di tutti Radïamenti. Era sorriso e luce, Fragranze ed armonie del ciel la vita, E, cullati in un mar d'ozii e di fiori, Si tenean tutti e si dicean beati. Sol'io, spirito inquieto, indifferente A quell'aprile, a quel banchetto eterno, Sentía dentro a l'altera anima un vôto Misterïoso, un mar senza confine, Come una solitudine infinita D'intorno a me, dentro di me: se avessi Conosciuto l'amor, forse in cor mio Ravvisato l'avrei sin da quel giorno. Poco mi parve il ciel, misera vita L'eternità. Di strane opre, di voli, Di turbini, d'ebbrezze, di battaglie Tal m'invase un desío, che sfere ed astri Corsi, cercai, sempre irrequieto, in traccia D'un fantasma incompreso, o fosse un'ombra Del mio stesso pensiere, o una diversa Immagine con me nata, e divisa Fatalmente da me. Dove mai, dove, Sospiroso io dicea, trovar ti posso, O disïata e necessaria parte De l'esser mio? Per entro a l'immortale Anima mia tutto il mortal sentiva. Infelice mi tenni. A Dio nel fronte Gli occhi un dì fissi, e interrogarlo osai: Chi m'ha fatto così? D'ira e di lampi Ei fiammeggiò, nè mi rispose. Il vero, Io replicai, l'eterno vero; io voglio Tutto saper; se il Ver tu sei, ti svela! Ei fulminò; tremâr gli angioli; io caddi, Nè pugnai già: sentía ch'era più grande De lo sdegno di Dio la mia caduta. Quale allor degli antichi astri mi accolse? Nessun fuor che la terra, e de la terra Gli oscuri antri più cupi: ivi prescritta Fu la mia reggia a un tempo e il carcer mio. Bollía sotto ai miei passi un fragoroso Mar di liquide fiamme; in gran tenzone Mugghiando si rompeano onde contr'onde; Ma più cocenti assai dentro al mio petto Combattendo bollían dubbî e speranze; Salde e ferree correan sovra il mio capo Di granito le vòlte, e assai più saldo Era il cor mio: sempre a me innanzi, ovunque, Un fantasma d'amor, sempre in cor mio Una voce incompresa: ama e cammina! Ruppi il carcere mio; l'aria, la luce De la terra cercai; chi avria potuto Porre un freno al mio spirto? Ièova m'avea Fulminato, non vinto. È là, un occulto Pensier diceami, è là sovra la terra Il tuo destin, là di tue prove il campo, Là fra tanto agitar d'odî è l'amore, Là fra tanto morir la vita alberga! Mi trasformai la prima volta: ignoto Corsi la terra, e al caro sole in vista L'uom, la natura e l'esser mio compresi. L'uom compresi, e l'amai. Ma allor che prono A piè dei suoi creati idoli il vidi Vaneggiar paventoso, e legar tutta L'anima ardita a un inconcusso altare M'arse il cor d'ira e di pietà. Sembiante A vasta e fruttüosa arbore, in mezzo De la terra sorgea l'egregia pianta D'ogni umana Scïenza; e Dio, nemico Del veggente saper, che i tenebrosi Spirti rischiara, le ruggía d'intorno Con feroce divieto; onde alcun mai Coglier non osi ed assaggiarne il frutto. Fu allor che con sottile arte la mente Degli uomini tentai: simile a Dio Sarà, dicea, chi ciberà quel frutto; E quel frutto fu colto. Un'orgogliosa Brama, un'ardente, inestinguibil sete Di saver, d'indagar l'ombre, che folte Gli addensava d'intorno il Dio nemico, Morse gli uomini tutti; e qual più viva Sentì in cor la mia voce e il poter mio, E per vie non segnate oltre si spinse Al confin de la pavida ignoranza, E interrogò con l'intelletto audace Le piante e gli animai, la terra e gli astri, Quei di mago ebbe nome e di ribelle. Piombò quinci su'l capo ai maledetti Figli di Cam la collera di Dio, E assai d'essi perîr, non la pugnace Virtù, che a l'uom pria la Natura infuse, Ed io, sin da quel dì, sveglio e raccendo. D'orgogliose speranze io mi pascea Secretamente, ed oltre un mar d'affanni Prevedea su la terra il mio trïonfo; Ma fulminato dal geloso Iddio Nuovamente io piombai nei tenebrosi Baratri de la terra, ove il superbo Sdegno del petto e il mio dolor nascosi. Ivi scendea talor qualche gagliardo Intelletto di sofo o di poeta, A cui fu colpa il propagar le nuove Apocalissi del pensier mortale. Rïardea la speranza entro al mio petto Co'l suo venir, però che per ciascuna Stella, che al fronte di Sofia s'accende, De la Fede su'l crin spegnesi un sole. Così durai gran tempo, e non già pago De l'esser mio: sempre a me innanzi, ovunque Un fantasma d'amor, sempre in cor mio Una voce incompresa: ama e cammina! Ritornai su la terra. Un mansüeto, Che de l'iroso Iddio credeasi il figlio, Predicava l'amor. Debole e solo Egli parea, ma tutta era con esso L'umanità. Stetti pensoso e muto Ad ascoltarlo, e mi obliai. Senz'armi Egli pugnò; vinse morendo: cadde Giove dal ciel, Roma dal mondo, e il mondo E il ciel fu suo. Sperai, dubbiai; ma il giorno Che tutte dopo a lui volgersi al cielo, Per cercarlo, vid'io l'anime umane, E su la terra derelitta e mesta, Come in carcere vil, gemer la vita; No, vittoria non è, gridai da l'imo Petto, e furente mi scagliai per quanta Terra il ciel vede, e il mar sonante abbraccia; No, vittoria non è questa, che il tempo, L'opra, il pensier, l'uomo e la vita uccide; Amor questo non è, ch'entro a una fatua Luce di ciel nuota ozïando, e il tergo Cheto soppone a qual che sia flagello! Braccio e pensier, moto e conflitto è amore; Campo d'opre comuni e di travagli, Non èremo la terra; uom, che nel pianto Vive, e da Dio gioie o tormenti aspetta, Schiavo non pur, ma inutil cosa il chiamo! Tremâr le infeminite anime al grido Del mio potere; e Dio, fatto più forte De l'umano terror, me per la mano Del suo fido Michel di ceppi avvinse, E percosso e ferito indi nei cupi Baratri m'inchiodò; stolto! e si tenne Securamente vincitor. Dai ceppi, Dagli abissi io balzai, giovine eterno, E mutando me stesso in mille guise Ebbi regno nel mondo. Una venale Turba di sacerdoti a cui nel nome Abusato del Cristo, agevol cosa Era il far degli altari empio mercato, Me d'ogni colpa allor, me d'ogni affanno Degli uomini imputò; strani sembianti Mi foggiâr le nemiche anime, e avverso D'ogni umana salute e d'ogni amore Il mio nome suonò; ma in faccia a questo Dolor tuo sacro e in faccia al mondo io giuro: Mi fu iniqua la fama! Orrido, immoto Su l'umane coscienze s'assidea L'infallibile Domma: un paventoso Mostro senz'occhi e tutto plumbeo il corpo, Che il mortale Pensier di ferri avvinto Squarcia con le feroci unghie, e sen ciba. Suo regno è l'ombra, sua virtù gl'inganni; L'ignoranza dei popoli il suo scudo, Ed armi sue l'anátema e la scure. Contro ad esso io pugnai: sinistra e maga Cosa per lui la sitibonda brama D'ogni saper; frutto vietato il vero, Colpa il voler, la libertà delitto, E allora, oh! allor, superbamente il dico, Menzogna, error, colpa e delitto io fui!-- CANTO TERZO. ARGOMENTO. Lucifero, continuando il racconto, accenna alla venuta dei barbari; ad Ario, che si ribella, fra' primi, all'autorità ecclesiastica, da cui viene scomunicato nel concilio di Nicea; a Telesio, che scote il giogo scolastico; alla stampa che propaga il pensiero nuovo.--La rivoluzione, filosofica in Italia, diventa religiosa in Germania.--Leone X e Lutero.--Il pensiero e la coscienza armano il braccio dei popoli, e la rivoluzione prende l'aspetto politico.--Tirannide monarchica e republicana: la libertà sta nel centro.--Rivoluzioni d'Inghilterra, d'America, di Francia.--Il canto della guigliottina.--Fecondità delle rovine.--Rassegna delle principali invenzioni del pensiero umano; dalle quali confortato l'Eroe, predice il suo vicino trionfo.--Finita così la narrazione, si parte, mentre una voce misteriosa annunzia agli uomini la sua venuta. Sopra la terra imperversava intanto Un uragan di popoli. Sul vecchio Tronco latin spirò l'aura del norte, E il rinverdì; fra le disfatte genti S'insinuò un gagliardo alito, un fremito Di selvatica possa. A quella forma Che al ritorno d'april, sotto al fecondo Bacio del Sol, freme la terra, e il cieco Germe, che in grembo custodì dal fiero Morso de' ghiacci, a l'aurea luce esprime; Tal serpea de l'uman genere in petto Una nuova virtù, che a la secreta Aura del mio pensiere apríasi il varco. Ed Ario sorse, e tutte avea d'intorno Le germaniche stirpi.--Oh! splenda un lume Di verità su queste genti; un riso Di libertà su le coscenze umane; Sia concesso il pensier!--Questo ai pastori Del buon Cristo ei chiedea, là, su la soglia Del Niceno consesso, ove a congiura Tratti il cenno li avea d'un parricida. Siccome folla di mendici, a cui Cadan rotte le vesti e manchi il pane, Tali sul freddo limitar premeansi Mute, ansïose del giudizio, ai fianchi D'Ario le genti. Alzâr le braccia i sacri Del Cristo alunni, e su la fronte ardita Del Cirenèo fulminâr tutta a un'ora L'umanità. Sfida fu questa, a cui Ostinata e mortal guerra successe. Quinci la Fede della plebe: un'orba Maga, che l'ignoranti anime impera, E d'error vive ed a le stragi istíga; Quindi colei, che luminosa incede Fra tutti affanni, e di Scïenza ha nome: Di severi intelletti arbitra e diva, Sperimentando, essa li guida in loco Dove scevro di nubi il Ver fiammeggia; Gli eterni de le cose atomi indaga, L'essenze esplora, e a la cagion lontana La varia prole degli effetti annoda. Chi potría tutti annoverar di questa Universa battaglia i campi e l'armi, Gli eroi, gli studî, i vincitori, i vinti? Sol taluno dirò. Di precursori Italia è madre, e tre corone ha in fronte: Regnò co'l brando e con le leggi in pria; Poi, vinta i polsi e strazïata il petto, Co'l pensiero regnò. Gemean le menti Sotto al flagel d'una loquace, astuta Sfinge bifronte, che, di Cristo a un tempo E d'un Saggio, che patria ebbe Stagira, Usurpando il poter doppio e gli aspetti, Mutava con sottile arte in oscura Fede il saper, la cattedra in altare. Povera fra le genti iva e digiuna D'ogni culto Sofía, nè pria fu lieta Di fermo ospizio e d'onorate offerte, Che s'avvenne in Telesio. Il venerando Vecchio sedea pensosamente a l'ombra De le selve native; e, pari al raggio Novo del Sol, che tra le fronde e i rami Scendea sereno a ricercargli il fronte, Un arduo gli splendea dentro al pensiero Giovanissimo spirto. A l'aura, al guardo Riconobbe la santa esule, e incontro, Sorridendo e tremando e con aperte Braccia le córse. Una parola ardita Quinci udiron le serve itale menti; Impallidì l'orrida Sfinge; il duro Giogo fu scosso; e da quell'aureo giorno La casetta del sofo ara divenne. Qual da le dilicate ántere aperte Manda l'amante fiore al fior lontano Il pòlline fecondo, e messaggero Del casto bacio è il zeffiro d'aprile: Tale il novo pensier, creduto a un novo Magistero di cifre, inclite imprese Maturò fra le ardenti anime; e il vanto Fu tuo per vero, o egregia arte, per cui Da metallici tipi impresso, e in mille Guise prodotto, agil discorre e vola Il mortale pensier, visibil fatto. Possa tu sei, che ogni confine, opposto Fra gente e gente, indomita conquidi; Fulmine sei, che la funesta e scura Tirannia de l'error sfolgori e sperdi; Luce sei tu, per che dovunque e in tutte L'alme il sorriso d'ogni ver si svela, Tu, nel commercio de l'idee, le sparse Genti accomuni; in facile amistanza Leghi i vivi agli estinti, e in guisa annodi L'uno a l'altro pensier, l'ieri al domani, Che la specie de l'uom, devota a morte, Un sol gigante ed immortal diviene. Ma qual de l'onda avvien, che d'uno in altro Vase versata, altra figura assume, Così, da la contesa alpe ad estranei Climi varcando il pensier novo, in nova Forma e in campo diverso e con altr'armi Contro a un cieco poter sorse, e proruppe. Trafficata, qual vil merce, passava Da un giogo a l'altro la saturnia terra; E i suoi figli rideano. Un rubicondo Pastore e re, che di Leone il nome, Ma l'alma avea d'un animal di Circe, Banchettava su l'are, e il ciel vendea. Venne un giorno d'oltralpe un battagliero Frate sul Tebro. Gli bollía nel petto Il sassonico sangue, e calda al pari Del suo sangue la fede.--Oh! ch'io nel vivo Fonte, dicea, de l'evangel di Cristo Quest'anima disseti!--Io, ch'era presso, Per man lo presi, e lo condussi in loco Ove il sir de l'umane alme gioíva Fra una ciurma di servi, a cui sul crine Sedea per celia un ramoscel d'alloro, Una burla su'l labbro, e sol ne l'epa La libertà. Del buon Leone intorno Tripudïando oscenamente ignude Ivan muse e madonne; ed ei, nuotante Come in un mar di placida quïete, Sonnecchiava e ridea, mentre, seduta Sui suoi ginocchi, con la man lasciva Stazzonando il venía lubricamente Del Bibbiena una putta, ed esso il Cristo, In abito or di scalco, or di poeta, Compartía, strambottando in buon latino, Cibi a le pance e a l'anime indulgenze. Su la spalla battei de lo stupíto Solitario, e gli dissi: Ecco il vangelo! Arse in cor d'ira e di vergogna in volto Il generoso, e a le natíe contrade Disdegnando volò. Folti a' suo' fianchi Si stringeano i fedeli al suo ritorno, Dimandando di lui, che il ciel dispensa; Ed ei tuonò:--Colui, che il ciel dispensa, L'are insozza, il ciel vende, e Dio svergogna!-- Disse, e dal petto fremebondo il sacro Abito svelse, e si lanciò nel mondo Come guerrier contro a nemico armato. Ululâr contro a lui, contro al pensiero, Contro a la vita, contro al ciel, gl'ingordi Lupi di Trento; sibilâr gli obliqui Rettili del Loiola, e dentro ai petti S'insinüando, avvinghiâr l'alme; un freddo Lento velen vi sparsero, sperando Che sepolta nel sonno, o nel terrore, L'umana volontà tutta si spenga. Fu un sepolcro la terra. Un'ara e un trono Soli sovr'esso; e tutto occhi e sospetti Sovra entrambi il Loiola: Iddio discese Umilmente dal cielo; e, perchè alcuna De le pecore sue non si smarrisse, Al comando di lui prese il coltello, E con celestïal garbo l'immerse Ne la gola di mille. Un mar di sangue Coprì la terra; il divo manigoldo Tornò al ciel, carezzò l'insanguinata Barba, e pago dal suo trono sorrise Come al settimo giorno. Io nel fumante Sangue mi astersi, e fulminai la voce. Pugnâr vivi ed estinti, e nuova intorno Pullulò da la strage onda di vita. Gemina possa, è libertà: risveglia Le menti in pria, poi discatena i polsi. Uom, che servo ha il pensier, la destra ha inerme; Spada non ha chi i suoi diritti ignora. Ricca d'affanni e d'ogni mal contesta Egli è certo la vita; e pur qual turpe Cosa è nel mondo, che al servir s'agguagli? E qual di tutte è servitù più infesta Che servir, non volente, al ferreo cenno D'assoluto signor? Popol che geme Fra' ceppi, e sente del suo mal vergogna, Per metà è schiavo, e qual gode e s'oblía Schiavo è due volte, e d'ogni ingiuria è degno. Dinanzi a re, che il suo piacer fa legge, E a nessun mai de l'opre sue risponde, Leggi non son, nè cittadini: ai sommi Gradi i pessimi esalta; il buon deprime; L'altrui sostanze impunemente invade; Grandi e piccoli offende; il sangue sparge; L'onor calpesta: è tutto insomma ei solo. Nè giustizia miglior, nè più felice Stato è, per me, dove la plebe impera. Idra ingorda è la plebe, e per ciascuna Testa ha due bocche: a divorar la prima, A morder l'altra e a maledir dischiusa. Vile in servire, in comandar superba, Cieca in ambo gli stati, iniqua sempre. Miglior però d'ogni governo io tengo Quel che al centro risiede, e da ogni estremo Con eguale poter si tien diviso. Quinci l'empia Licenza, a cui gradito Cibo è la strage cittadina, e quindi La Tirannide astuta; ed esso in mezzo Sta, come ròcca, e per vegliante cura Campa a un'ora dal male e al ben provvede. Da l'estrano temuto, e riverito Al par da' suoi, de la sua gente i dritti Custodisce e difende, e, pur lasciando A l'oprare d'ognun libero il campo, Argine solo il dritto altrui gli oppone. Così liberi tutti e tutti a un tempo Servi sono a la Legge; e per diversa Via, con varia fortuna e vario ingegno Egual fine ha ciascuno: il ben di tutti. Questo però, qual ch'abbia forma e nome, Libero stato io sovra gli altri estimo. Nè pensar già che il buon desío m'accechi, Se dir m'udrai, che a tanto inclito obietto Ogni gente del mondo ormai si appressi. Al novo grido del pensier ribelle Tremâr con l'are i troni, e giù dai troni Precipitâr scettri purpurei e teste Coronate di re. Surse su'l nudo Scoglio Albïone, e su'l riverso giogo, Il suo tiranno a giudicar, piantosse. E giudicò. Splendea nitida e bella, Qual s'addice ad un re, sovra il tuo collo, O Stüardo, la scure; e fredda, muta Come il pensìer del rigido Cronvello, Cadde, e libò con voluttà plebea Il regio sangue di tue regie vene. Rotolò ne la polve il tuo parlante Capo, e le voci balbettate a pena Da le labbra morenti entrâr nel petto D'ogni re de la terra, a cui mutato Sembrò il regno in abisso, in palco il trono. Surse anch'ella e ruggì d'oltre l'Atlante L'americana Libertà, che troppo Sentì al collo pesar l'anglico giogo; E tu primo ne udisti il grido orrendo, Redentor Vasintóno, a cui la spada Sfolgoratrice d'assoluti imperi Essa prima affidò. Scornata e vinta L'altera Anglia soggiacque; e non le valse Fulminar Franchi orgogli e antenne Ibere, Nè gli oceani domar, nè invitta e ferma Durar su la contesa arce di Calpe, Quando te non domò, te di nemici Vincitore non pur, ma di te stesso. Libertà allor sul grande istmo si assise Vittorïosa, e ne le immense braccia Ad un patto d'amor le genti accolse. Sedea fra tanto una cortese e imbelle Sovra il trono di Francia ombra di re. Quinci un cortèo di pallide e lascive Fantasme, e inciprïate ombre e superbi Scheletri incappellati e rugginose Armi vuote, che si tenean diritte, Come fosser guerrieri; e quindi un vasto Tumultüoso brulicar di vivi. Il Re dicea: Stiam fermi, io son lo Stato! Ed il popolo: Avanti, eguali tutti! Diceva il Re: Pieghiam la fronte a Cristo; E la plebe: Nè re, nè dio vogliamo: Cristo è il passato, e l'avvenir siam noi! E il magnifico Re, non per paura, Ma perchè ardea d'amor pe' suoi soggetti, Titubò, tentennò, si rassettò Co'l mignolo sottil certi indiscreti Ricci, che gli sfuggían da la parrucca, E gridando: sto fermo, un gradin scese. Fe' un sogghigno la plebe, e disse: È poco. Ed il Re scese ancora. Ancor non basta! Gridò la plebe; e il Re: M'abbasso troppo; Allor pari sarem!--Meglio per tutti; Se non ami con noi viver nel fango Un palco t'alzerem d'oro e di gemme; Vieni, scendi e vedrai!--Scese; e la plebe Urlò un plauso di gioia, e, sì com'era Nana, minuta, sbrindellata e scarna, Diessi a ballonzolar bizzarramente Tutta in giro al buon re. --Balliam, balliamo: La nostra gioia, il viver nostro è un'ora: L'uccel venne a la rete, il pesce a l'amo. Da l'una a l'altr'aurora, Balliam, balliam, balliamo. Balla con noi, buon re: noi non siam prenci, Non vestiamo, gli è ver, porpora ed ostro, Ma fatto è il manto tuo coi nostri cenci, E tinto te l'abbiam co'l sangue nostro. Balla con noi, buon re: vigile ognora Tu pensavi al tuo popolo diletto: E il popol tuo vegliava e veglia ancora Per comporti a sue spese un cataletto. Balla con noi, buon re; balliam, balliamo; Facciam cambio di doni, oggi ch'è festa: Noi la vita e l'onor dato t'abbiamo, E tu, buono qual sei, dànne la testa!-- Era questo il baccar di quel tremendo Popolo di pigmei. L'un l'altro, a un segno, S'aggruppâro, si unîr, si fuser tutti Come liquido bronzo, e una trifronte Furia formâr così gagliarda e fiera, Che immoto stette a contemplarla il mondo. Ella si scosse, e dietro a lei sparirono I secoli; diè un grido, e tremâr quanti Popoli e re. Tutto sia nuovo, disse, E fulminò: tempi, memorie, cose, Troni ed altari, uomini e dii. La terra Corse in tre passi; e a le rovine in cima, Fra un oceano di sangue eretto un trono, Lieta, guardando a l'avvenir, si assise. Come allor, che dai campi aridi e brulli Piomba co'l verno una tempesta, orrendo Romba il tuon, fischia il vento, a larghe falde Piove olimpo; i torrenti alzansi in fiumi, I fiumi in mar; crollan capanne e case, E ti par tutto, ove che il guardo giri, Un sepolcro di torbe acque la terra; Tal passò quell'Erìne; e, a quella forma Che, a le fiamme del Sol, bevendo i campi L'abbondevole umor, pullula intorno Fuor del morbido limo ogni diversa Vegetal vita, e variopinto e bello D'erbe intesto e di fior spiega il suo manto; Così da le rovine alte e dal sangue Germinâr cose e idee, ch'arbori or fatte, Dan riparo a le genti e frutti al mondo. Questi, ch'io noto con parlar fugace, Inclito Prometèo, son, tra' maggiori Fatti, per cui l'uman genere avanza, I maggiori e più illustri; e d'essi al raggio La speme del mio cor s'accende e cresce. Me più volte cacciò nei tenebrosi Baratri il Dio, che al suo fatale è presso, Ma invitto sempre ad altre prove io sorsi, E a l'estrema mi accingo, or che cotanto Spazia nel Ver de l'uman genio il volo. Però ti piaccia udir, come appuntando L'uomo industre e tenace il vario ingegno Or d'Iside nel grembo, or di sè stesso, Utili veri a la sua vita invenne. Qual dirò prima o poi? Correa su' ciechi Flutti il nocchiero, e nulla al dubbio corso Guida costante gli reggea la prora, Fuor che l'Orsa malfida e il vario sole. Mal securo ei fuggía gli alti, e la riva Con vigile tenendo occhio, il nemico Nembo tremava, che rapìagli il cielo. Ma poi che la virtù primo conobbe Del commisto magnete, il qual, sospinto Da un istinto d'amor, volgesi al polo, Un sottil, ben temprato ago ne trasse; Mobilmente il librò sovra a un diritto Fil d'intrepido ottone; entro una cava Ciotola il custodì tutta di puro Rame, e, co'l guardo al ben costrutto ordigno, Diede a l'agile prua certo il governo. Così per mari inesplorati, in traccia D'un pensier, che parea sogno e deliro, T'affidavi, o Colombo; e intenta e certa, Più de la punta del sottil congegno, Ch'oltre ai nembi scorgea l'artiche nevi, Lungi, lungi, oltre ai mari, oltre al confine, Dove il cielo si univa al mar crudele, Tutto un mondo vedea la tua pupilla. Esplorata così questa rotante Sfera, che intorno al Sol l'anno misura Più vasto al genio umano aere s'apría. Crescean genti e città; crescean con elle, Madri d'opere eccelse e d'aurea prole, Le varie stirpi de' bisogni industri, E d'un vol più veloce e più securo Ogni gente, ogni cor l'uopo sentiva. Qual parría del vapor più debil cosa? Atro figlio de l'acqua e del selvaggio Foco, di tutto genitor, si leva Turbinando per l'aria, e l'aria offende Di fosco, umido vel, sin che del tutto Si discioglie e si sperde. Eppur, se in cupo Spazio tu ardisci imprigionarlo, e al cielo, Ch'ei desía, non gli assenti adito alcuno, Cozzar tosto l'udrai contro ai pareti In terribile guisa, e sì con fiero Talento e con tal vivo urto li assale, Che, fosse anche d'acciar la sua prigione, Indomito la spezza; i perigliosi Frantumi in alto, in cento versi avventa, E con tuono improvviso all'aria esplode. Di tal fiero poter con mente audace L'uman genio si valse; accortamente Il compose, il costrinse in ben attati Cilindri, che dischiuso abbiano un varco; Diè modo e verso al repentino istinto, Che a dilatarsi e cercar l'aria il porta, E di guisa il domò, che or dentro a immoti Dedaleï congegni urge, ed immani Suste ad un cenno e ferrei magli elèva, Ruote stridule aggira, e, a tutto intorno Propagando con vario ordine il moto, Porge all'uom mille braccia, a l'arti il volo; Or, d'un agile pino occulto in grembo, Via lo spinge su' flutti, al nembo, a' venti, Senza remi, nè vela; ond'esso, in forma D'agile carro, sui voraci abissi Rapidissimo scorre, e lidi e genti In utili amistanze obliga e aduna. Nè il mar vince soltanto; anche la terra Con nuovo magistero a lui soggiace. Varcar vedi per lui, quanto è distesa Da l'igneo Sâra al gelido Trïone, Tal fulmineo congegno, che animato Mostro il diresti: un ferreo ed infernale Pègaso dai fiammanti occhi, che orrendo Fuma, fischia, ansa, sbuffa, alita, e crassi Fiati or da l'alto or giù dal ventre avventa; Ed ecco, or per campagne umili e valli Correr mugghiante e serpeggiar lo miri, O lungo i fianchi d'un aëreo monte Divincolando trascinar l'immane Corpo; or sui fiumi sorvolar, traendo Fuor dai pensili ponti alto fragore; O la riva del mar tremulo al giorno Radere, o dentro a tetri anditi a un tratto Cacciarsi, e poi, lontan che il vedi appena, Sbucar, lieto fischiando, a l'aure amiche. Di tante meraviglie a l'uom stromento È il domato vapore. Or quelle ascolta, Ch'opra il vigor del fulminante elettro. O che chiuso ei si assieda, o che trascorra, Tutto egli abita e muove: il ciel sublime Turba e schiara a sua posta, or con sovrana Possa adunando, or dispergendo i nembi; La terra investe, agita i petti, e i germi Scalda e svolge ne l'una, e dentro agli altri L'estro del ricco immaginar produce. Le piante, gli animai, l'ambre, i cristalli, L'irto pel, l'aurea seta, il fil sottile, Tutto, qual serpeggiante anima, invade, Per ogni cosa si conduce, e, come Odio avesse ed amor, le simiglianti Cose respinge, e le diverse attira; Altre muta, altre scambia, altre dissolve. Di questa forza onnipossente, occulta Entro al sen de le cose e di sè stesso, L'uom si avvisò meravigliando; e poi Che al vulgare stupor, che inerte ammira, L'acuto esame operator successe, L'ignea virtù, la doppia indole, i fatti Ne investigò, ne misurò; gli azzurri Dardi, per via di ben composti ingegni, Costringendo, ne accrebbe, e di tal guisa Al suo nume obbligò l'etereo foco, Che il fulmine del ciel, già paventosa Arma di Dio, terror de l'uomo e morte, De l'umano pensier schiavo s'è fatto. Affascinato da la tenue punta D'un magnetico stil, che su dai colmi Aërei tetti a vertice s'inalza, Giù da le nubi rovinar tu il mira Con fragore innocente, e sotto al cenno Del tranquillo mortal cercar gli abissi. Qui di doppio metal sorger tu vedi Piccioletta colonna, a cui di pila Dà nome il mondo. Di frequenti, alterne Piastrelle, altre d'argento, altre di zinco, Fra cui, molle di salsa onda, si spiega L'indocile a l'elettro olida lana, Con modesto artificio essa è costrutta. Dentro ai vari elementi, in questa forma Sovrapposti e congiunti, in un momento Per innata virtù svolgesi e guizza L'elettrica corrente; ai poli avversi S'urta inqueta, s'aduna, e quindi e quinci Svanirebbe per l'aria inutilmente, Se ai due lati non fosse un magistero Di metallici stami, in cui bentosto La fulgurea scintilla entra, e propagasi Precipite, e, fidata al tenue filo Che ronzante a l'immenso aere si stende, E i lidi estremi ed ogni gente unisce, Fende il ciel, passa i campi, il mar penètra Qual dèmone; e non pur segni e parole, Fidi messaggi del pensier, produce, Ma, stupendo a veder, le desïate Di chi lungi è da noi care sembianze Fedelmente ritratte a noi presenta. Ma a che produrre il favellar? Che detto Sarà che il vol de l'uman genio adegue? Dirò, com'ei, con piccioletto ordigno Le alate ore del dì segna e divide? E l'elastica e grave aria, che preme Su le suddite cose, e il caldo e il gielo Con ingegno sottil pesi e misuri? O come, armato la pupilla inferma Di veggenti cristalli, al ciel li appunta Con alto ardir, gli astri gelosi esplora, E, penetrando un oceán di fiamme, Strappa ai templi del Sol gli ardui misteri? La terra, il mar, l'aria sonante, il cielo, Tutto ha l'orma di lui, tutto gli cede Riverente il governo. Un sol, sol uno Maligno error nei regni suoi si ostina, E quell'uno cadrà. Più forte io sento Favellarmi l'amor; già di mortali Forme il fantasma del cor mio si veste; Ecco, il sento; ecco, il vedo. Oh! se a cotanto Volo, per tanta via, per tanti affanni L'uomo mortal contro a l'error si eresse, Credi, non pur possibile e secura, Ma vicina, imminente, agevol cosa È la morte del Nume e il mio trïonfo!-- Disse, e giù per la china aspra e romita Concitato avvïossi. Alto un saluto Suonò l'antro profondo, e a lui d'intorno Strana e gagliarda un'armonia si desta: Ei viene, egli s'avanza; Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi; Non firmamenti, o báratri, Ma le tende de l'uom son la sua stanza. Sorgete a lui d'intorno, O sepolti ne l'ira; e voi, che fate Traffico di terreni odî, dal vostro Usurpato soggiorno Levatevi! Tremate Da la cortina dei venduti altari, Voi, che potenti di menzogne, il foco Del dissidio apprendete; e al reo costume De le plebi insensate Esca porgete, ed affilate acciari. Raggio non ha di lume La mente vostra, e non ha tetto o loco Per voi la terra, abbenchè vasta. O fieri Mastri d'insidie, o neri Viventi covi di serpenti, o mostri D'error pasciuti e d'uman sangue ingordi, Ministri d'ira, apostoli d'errore, A terra alfin; costui che viene è Amore! Ei viene, egli s'avanza; Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi; Non firmamenti, o báratri, Ma le tende de l'uom son la sua stanza! O derelitti e miseri Figli devoti a povertà, reietti Da splendidi banchetti, Servi cenciosi a la spezzata gleba, Che fertile e ridente, Il molle ozio nutrìca Di fastosa Ignoranza; A voi dura e nemica Madrigna, invidiosa Pur d'un vil tozzo bruno Che pugna duramente Con l'affilato dente Pria che sfami il plebeo fianco digiuno; Schiavi, in piè, tutti in piè; quanti pur siete Da le arene di Libia a la restía Cuba, asilo di schiavi, e qual pur sia Sotto al flagello de l'assiduo sole, Crudo signore anch'esso, Il color vostro e il crin. Schiavi, in piè tutti! Parla cotal parola Costui che vien, per cui, De l'opre e degli affanni Santificati a la feconda scola, L'alma e la destra amica Di provvida fatica, Porger potranno tutti De la finor vietata arbore ai frutti! Ei viene, egli si avanza; Ha in cor la luce, l'avvenir sugli occhi! Non firmamenti, o báratri Ma le tende de l'uom son la sua stanza. Voi, che in abietto e vile Ozio distesi, il turpe viver molle Annoverate dal fuggir de l'ore, Schiavi imbelli del core Vostro e d'altrui, larve patrizie, all'opra! Tal giudice v'è sopra, Che a nulla mai quanto a l'oprar perdona. Nè del ceruleo sangue Vi gioverà l'inclita stilla, o il caro Peso di scrigno avaro, Solo a capricci di lussuria aperto; Nè, meno ignobil merto, Le illustri opre dei padri: egro ed imbelle Nipote da gagliardi avi discende, Qual da la salma d'un illustre antico Discende il vil lombrìco. Industre ed ingegnosa Gente, ai travagli del pensiero avvezza Come ad opra di man, combatte ed osa Assidua ed animosa, Ed a mezzo il cammin mai non assonna. Da le vulgari ed ime Sedi s'inalza a mal contesa altezza, E, rampogna sublime Cui l'ozio ingombra e l'ignoranza opprime, Sa ciò che vale, e di sè stessa è donna! Tal suonava d'intorno al Pellegrino Meravigliosa un'armonia, fra tanto Che, incoronato di superba luce, Sul superbo suo capo il Sol splendea. CANTO QUARTO. ARGOMENTO. Lasciato il Caucaso, l'Eroe si dirige verso la Grecia; trascura molti luoghi favolosi, ma ricordasi di Ero, ed apostrofa all'amore e alla morte.--Descrizione di Tempe.--Le bagnanti sorprese.--Il palazzo incantato e la fanciulla misteriosa.--Lucifero arriva; ascolta il canto di Ebe, e le domanda ospitalità.--Accenna in brevi tratti all'esser suo e a quello di Dio, e la commuove di paura e di affetto. Concitato così le spalle tòrse A la scitica rupe, e dentro al petto, Siccome vena di sboccanti lave, Giovane e forte gli bollía la vita. Solo e pensoso ei va, come solinga Per gli spazî del ciel tacita nube, Nè gli cal se la bianca alba gli rida, Nè se il Sol lo saetti, o lo ravvolga L'ombra notturna, o lo flagelli il nembo; Perocchè diva è la sua tempra, e nulla Di mortale ei non ha fuor che l'aspetto. Solo e pensoso ei va: monti e dirupi E foreste e deserti indifferente Lasciasi a tergo, e par nave, che muta Solchi le tenebrose onde sospinta Da prosperi aquiloni. Il flutto varca De lo spumante, ingiurïoso Arasse; Il suol trascorre, ov'ebber regno e fama Le Amazzoni omicide; le spelonche Orride mira e le ferrate valli Dei Cálibi feroci; e dei cotanti Popolati di fiabe incliti lochi O si scorda, o non cura, o ver sorride. Ma di te si sovvenne, in su la sponda Del propontide stretto, Ero infelice; E il mar querulo ancor di tanto lutto Ricercando con gli occhi e le nascenti Per l'azzurro del ciel candide stelle: --Ecco il talamo vostro, ecco le faci Del vostro imene, o giovanetti, ei disse: Ecco l'amore, ecco la morte! Eterno Mormora, o mar, l'inno di nozze; eterno Mormora, o mar, l'inno di morte! Il mondo Due tesori ha nel sen, l'alma ha due voli, Due fior la vita, ed ogni cor due stelle! Mormora eterno, o mar, l'inno di nozze; Mormora, o mar, l'inno di morte! Un bacio Ed un sospiro; un talamo e una fossa; Un sogno e un sonno; un inno ed un addio! Oh! l'amore, oh! la morte!-- In tali avvolto Meste e leggiadre fantasie d'amore Giunt'era al lido; e i ricercati, ardenti Per tanto flutto verginali amplessi E la pronuba face e il fato estremo Invidïando al garzoncel d'Abido, Sentì quasi pietà d'esser sì solo. Mentre ei vaga così di terra in terra, E amor solo il comanda, ad altre piagge Volano i canti miei: su le ridenti Piagge di Tempe, asil di giovanette, Ninfe, amanti di rose e di garzoni. Come canestro di ben culti fiori, Nel tessalo giardin Tempe verdeggia, Tempe, amena contrada, a cui diêr grido, Quando Grecia fioría, Numi e poeti. Coronata di selva, entro ad opaca Valle per ben chiomati olmi canori E per canto d'augelli e suon di rivi, Tra Larissa e l'Egèo molle dechina, E, quai Titani, a lei stanno d'intorno Ossa, Pelia ed Olimpo: immani e illustri Gioghi di monti, da le cui pendici, Qual vïolento iddio, sgorga e prorompe Fragoroso il Penèo. Fama è, che quivi, Quando più torve lo mordean l'Erinni, Pervenne Èrcole un giorno. Opposte e chiuse S'addossavano ancor rocce su rocce Senza varco di uscita; e brulla e mesta Era la terra. Arse di rabbia il fero Nume a tal vista, e giù co'l capo e il petto Fe' cozzo ai monti. Traballâr divelti Gl'iperborei macigni; inorriditi Si arretrâr, si fermâro, e il passo aprîro Al furente Almeníde. Amena e bella Sorrise indi la valle, e sgorgò il fiume In memoria del dio. Fra sempre verdi Gramigne e giunchi flessuösi e fiori Esso ha il lubrico letto, ed or si volve Querulo come rivo, or mugolante Dirocciasi da l'alto, or queto e bruno Tra foltissimi vepri al Sol s'invola, Or limpido e sonante al ciel risplende Come lama d'argento, ed ai lavacri Il polveroso mandrïan conforta. Pingue così di spume e di tributi Scende superbo a fecondar la valle, E al Cuärio, al Pomíso, a l'Apidáno E a l'Orcon si accompagna, Orcon, che scarsa, Ma nitida su tutti e dolce ha l'onda E sdegnosa altresì; però che un tratto Su l'ampio dorso del Penèo galleggia Lieve e cheto com'olio, indi si parte Solissimo fra' giunchi, e vien per via Mordendo argini e siepi ed involando Iridati lapilli e tenui fiori, Finchè a l'amplesso de l'Egèo deduce Con allegro susurro il giovin flutto. Cercan la sua romita onda al merigge Sitibonde le capre, e tarde e stanche Giù da l'erta si calano le vacche Al tinnío de le pensili campane, Mentre a l'ombra d'un pioppo o d'un cipresso Il rubesto caprar zufola al vento. Venían furtive un dì sopra la riva Le danzanti fanciulle, e avean di ninfe Le ritonde sembianze, e su l'eburnee Spalle le chiome. Ardean sotto la ferza Degli estivi solstizî, e mezzo ignude Entravano nel flutto, e Amor, fors'egli, Più che il Sol, le cocea. Trepidi e muti Palpitavan, celati entro ai cespugli, L'insidïosi giovanetti, e nulla Prendean cura di greggi, o di ritorno, O di cacce, o di cibo; e s'un più ardito Fuor mai si spinse, e disïoso e folle Corse a la riva, e giù balzò ne l'onda, Clamorose echeggiar sentivi intorno Femminee strida, ed agitate e rotte Suonar l'acque. Qua e là, scevre di velo, Fuggon le donzellette, e vesti e pepli Scambian confuse, e tremanti avviluppansi Ne le riverse tuniche, e pe'l lido Corron, s'urtan, s'addossan, si disperdono Pei fiorenti sentieri; e qual minaccia, Qual si attrista, qual ride; e nastri e veli Volan per l'aria; al Sol splendono e involansi Rosee forme fuggenti, e scappan dardi Di voluttà. Riedon delusi intanto I giovincelli, e s'affollan sul piano Clamorosi, anelanti, ed un si loda Del proprio ardire, e ride e si fa gioco Del ritroso compagno; un leva a cielo La beltà de l'amica; altri fa mostra D'un fior carpito, altri d'un velo; un vanta Sorrisi e baci e occulte intelligenze Di vicini ritrovi; e va del caso Superbo ognun qual d'un primier trïonfo. Così a le danze ed ai trastulli amica Tempe fioriva un dì, quando nei bruni Letti del mar dormía cieco ed ignoto Il fiero astro d'Osmàn. Muta e deserta Come vedova or siede; e s'anco aprile Va per uso a recar le sue ghirlande Su quell'orbe contrade, e van le stelle A specchiar l'auree fronti entro a quel fiume, Ben puoi dire, che senso han tutte cose Di ricordi gentili, e son fedeli, Più che gloria ed amor, le stelle e i fiori. Sparsa pe' monti in giro, in fra le chiuse Ispide macchie al croceo Sol biancheggia Qualche muta capanna, ove, costretto Di scarse lane il macerato fianco, Numera i penitenti anni nel duolo Il romito calòcero, che nulla Ha delizia del mondo, e, quel che al mondo Forse dar più non puote, offre al Signore. Sola, fra questi incolti èremi, in vetta D'un'aërea collina, a cui sorride Primo dagli orti il giovinetto sole, Una strana magion sorger tu miri Tutta cinta di bosco. Ampia e lucente Fuor d'un mare di fronde alzasi, ed ora Qual purpureo piròpo al ciel fiammeggia, Or circonfusa d'un'argentea luce A dolce meditar l'anime invita. Danza d'intorno a lei con grazïoso Florivolo tripudio il fresco Aprile, Che le penne del dorso e il facil volo Ivi gran tratto e volentieri oblía, Fin che non giunga a discacciarlo il verno. Sentono il suo fecondo alito i fiori, E su su da le intatte erbe, che tremolano Riscintillanti al candido mattino, Schiudon l'auree corolle, innamorate D'agili silfi; ed ei, per la diffusa Luce che lo circonda e le volanti Fragranze, ebbro d'amor, le danze intreccia, E le farfalle, i fior, gli augelli, i rivi, L'aure, la luce, il ciel, tutto ch'è in giro, A un concento d'amor tempra e concorda. Mira a la lunge il credulo romito, Come spera di Sol, fulger l'ostello, E suonar l'aure insolite armonie Stupefatto ode, ed incantevol mostro Di spiriti lo crede, asil di fate Suäditrici di lascivi amplessi. Pende un tratto con doppio animo, e quando Nel travolto pensier dèmoni e ninfe Ruzzar vede su l'erbe, o tutti ignudi Saltar nei fonti ed intrecciar gli amori, Trepidante di là togliesi, e il foco Del vorace desio, che il cor gli afferra, Nel pensiero di Dio spegner presume. --Piombi il foco del ciel su l'empie mura, Quinci a notte passando, esclama il vecchio Merciaiolo di Sira; al maledetto Spirito che vi ha stanza aprasi il nero Regno di Belzebù!--Sporge le braccia Imprecando in tal guisa; e, borbottando Per l'erma notte altre più ree parole, Riattizza la pipa: in fosche e spesse Nugole fuor da le sonanti labbra Sbuca il putido fumo, e con sinistro Gorgoglío geme la tartarea canna. Ma di lui men feroce, in su la china De le valli fiorite, allor che intera Guarda l'estiva luna entro lo specchio De le chete fontane, e a le tranquille Brezze dei monti flettono la cima L'arsicce mèssi e i moribondi fiori, Men feroce di lui fermasi e guata Il giovinetto pastorel, che vide Un dì ne la pensosa ora dei vespri Vaga passar di sotto ai pergolati De l'aërea magione una bellissima Immagin di fanciulla, e non sa forse Il semplicetto mandrïan, se cosa Fosse di sogno, o di mortal figura Non fallace apparenza. Entro al pensiero Quella leggiadra visïon tuttora Vagolando gli nuota, a quella forma Che vediam ne la verde onda d'un lago D'un astro ignoto tremolar l'aspetto, E ne par forse innamorato e mesto Spirto, dannato ad abitar quell'acque. Sui disfatti scaglioni il giovinetto Appo il fonte si asside, e la stanchezza Dei lunghi giorni e la stagion cocente Trova scusa a l'indugio. Aura, che spiri Fra le vergini rose e le modeste Edere de le siepi, or tu gli reca Le suavi armonie, ch'usa in quest'ora Derivar da la dolce arpa l'ignota Di quell'aureo palagio abitatrice, Ebe, il misterïoso astro di Tempe, Ebe, l'arcana visïon d'amore. Ella è colà: nei taciti giardini Pari a le stelle uscì; candida e sola, Qual sonnambula cosa, ecco, s'aggira Pei fioriti vïali, ecco, domanda Non sa qual fiore al suol, qual astro al cielo, Qual ricordo al suo cor. Sotto al gran mirto Ne la pensile rete ella distende Le bianchissime forme, e a l'aura, a l'aura Abbandonatamente a l'aura ondeggia. Spinge tra fronda e fronda il curïoso Raggio la luna, ed al tremar dei rami Pispigliano gli augelli entro ai lor nidi. Bacia quel fronte, o luna; e voi ghirlanda Fate di danze, innamorati augelli: Bacio d'amor su quella fronte intatta Finor non si posò; pronube danze Ella non vide ancora; e a l'aura, a l'aura, Abbandonatamente a l'aura ondeggia. Che sogna ella in quest'ora? Al Sol si gira L'elitropio da l'ombra; erba, che chiusa Resti dai ghiacci, il ghiaccio sforza, e un varco S'apre a fatica a la materna luce; Onda, che parta il marinar co'l remo, Mormorando s'aduna, e corre al lido; Forse a questo ella sogna; e a l'aura, a l'aura Abbandonatamente a l'aura ondeggia. Or vedete, ella sorge; a la vocale Arpa dà piglio; sul foglioso, oscuro Sedil, tessuto di costanti bossi, Mollemente si adagia, e al fuggitivo Tremulo raggio de l'occidue stelle La mesta del suo cor voce confida: --Date a la terra i fiori, Date i coralli al mar; Ad ogni cor gli amori, Ad ogni dio l'altar. Abbia ogni nembo un'ìride, Ogni astro i suoi splendori; Date a la terra i fiori, Date i coralli al mar. Ma, rieda il verno o il maggio, Mesta e soletta io son; Muto è del cielo il raggio, Triste è de l'arpa il suon; Qual vana ala di zeffiro Passo nel mio vïaggio, E, rieda il verno o il maggio, Mesta e soletta io son. O immagini lucenti Di più felici dì, Sogni de l'arte ardenti, Il vostro april sfiorì; Invan chiedo le olimpiche Forme a le nuove genti, O immagini lucenti Di più felici dì. La giovinezza, il riso, Le grazie ed il piacer Fuggon tremanti al viso De l'inamabil Ver; Fuggon su l'ali rosee Del vago error conquiso La giovinezza, il riso, Le grazie ed il piacer.-- Ella così cantò. Sul limitare Appresentossi un pellegrin. Dai muti Sottoposti sentieri, a stilla a stilla Bevuta avea la voluttà secreta Di quel suon, di quel canto, a par di fiore, Che le brine del cielo avido beve Ne le tiepide sere; e a forza tratto Ivi venía, per quel secreto istinto Che l'altera rivolge aquila al sole. --La Ragion sia con voi, grave e solenne Esclamò su la soglia; un pellegrino Chiede ospitalità.-- Lo sguardo eresse A lo strano saluto Ebe, e tremante, Attonita mirò quella bizzarra Sembianza d'uomo. Ambe sul petto ha chiuse Le braccia, al ciel volta la fronte; e fiero Gioco gli fan così su la persona Le acute ombre notturne e l'auree faci, Ch'uom no'l diresti già, ma fuggitiva Apparenza di spirto, ivi per voce D'incantesimi tratto. --O pellegrino, Così a dir prese con trepida voce L'inclita giovinetta; ove di cibo Mestieri abbi e di tetto, invero, a ingrata Gente ed a case inospitali e dure Tu non volgesti il piè: nunzii del cielo Gli ospiti sono, ed esso Iddio sovente Viene in tal guisa a visitar la terra. Però siedi e t'allegra; e mentre intorno Movan le ancelle ad imbandir le cene, E a sprimacciare e ricovrir di schiette Coltri le piume al tuo riposo amiche, Dir ti piaccia il tuo nome e le native Piagge ed i casi tuoi, però che al volto, A le fogge straniere e al portamento Uom venturoso e non vulgar ti estimo.-- Egli sorrise e s'adagiò. Siccome Tenera foglia al susurrar del vento Trema tutta in su'l ramo, e par che a l'aura Goda cullarsi e presentir l'onore Dei colmi bocci e del nettareo frutto, O che, del nembo aütunnal presaga, L'ora estrema paventi, Ebe in tal guisa Trepidava ne l'alma al novo aspetto De l'orgoglioso Pellegrino, e muta Pendea da lui, qual candido corimbo Che dal solingo muricciòl de l'orto, Quando zeffiro tace, immobil pende. Di ciò s'accorse, e in cor gioì l'altero Ospite, e come può, cerca con gli occhi Disïosi tradir tutta in un punto La dolcezza improvvisa, onde si strugge Fatalmente ne l'alma; e intento, assòrto Nei grandi occhi di lei, con lenta voce Diè principio al suo dire: --Ospite, ov'io Dar potessi la fede ai tanti miti, Di che memore è il loco, io di mortali Questo l'asil non crederei, ma antica Stanza di numi; ma nel cielo i numi Si dormono la grossa, e l'uomo è il solo Regnator de la terra; ond'io con esso Primamente mi allegro, e son superbo D'esser con te. Pur molte fiate e molte Tornería l'alba, ov'io tutta dovessi Raccontar la mia storia, e tu non senza Terror l'udresti, perocchè diverso Molto son io di quel che sembro, e fama E possanza ed impero ho anch'io nel mondo Non minor d'alcun dio. Ma se ti piace Saper tanto di me, che altera cosa Il silenzio non sembri e folle il vanto, Brevemente dirò. Su l'immortale Cardine del Pensiero, inclito padre Di stupendi artificî, erto il mio trono S'alza come alpe, e nulla a me di fronte Nel creato universo altra si estolle Nemica forza emulatrice, tranne La gran larva di Dio. Fiero e superbo Starmi incontro ei si attenta; e non pur l'alta Region dei cieli e la miglior presume Frenar sotto il suo scettro, e il radïante Popol degli astri e il dolce aere e la luce Al mio regno involar, ma questa bruna Picciola sfera, ove si affanna e preme Tanta stirpe di mesti, e le gagliarde Alme al Vero devote e al culto mio Lungamente impugnommi, a me, ch'eterno Vivo, ed a lui, che dal terrore è nato, Darò, nè guari, e di mia man la morte!-- --Tu bestemmî, stranier! raccapricciando Ebe esclamò; tremar mi fai!-- Su'l labbro Pose ei l'indice in croce, e altero in atto Silenzio indisse, e proseguì: --Pugnammo Con diverse armi sempre, e spirò incerta L'aura de la vittoria. Entro al più chiuso Firmamento del ciel, rigido, immoto L'emulo Dio s'asconde; e, quasi ei poco Fosse a la colpa del mestier divino, Sotto triplice larva il ciel governa. Ma qual governo io dico mai? Pe'l vuoto Fan la ridda i pianeti, ed ei nè un solo Arrestarne potría; come insanita Tiade balza la terra a l'aër cieco, E l'etere si spande, e il mare ondeggia, E la fiamma al ciel tende, ed esso intanto Lo spensierato iddio pasce le nari Del bruciaticcio di venali incensi, E a soffiar vuote bolle di sapone, Che a la luce del Sol gli sembran stelle, Sciupa l'eternità. Ferrei governi E immote norme ed assoluti imperi A l'incontro io dispregio, e avverso al fato E a la Natura sto; m'agito e vivo Fra le cose create, e son de l'alma La libertà. Stupido e fiero ei regna Immobilmente, ed or di püerili Giochi si piace, or d'uman sangue; io vivo Solo del Ver. Di sacerdoti iniqui E d'anfibî ministri e d'evirate Menti ei si cinge, ed ha vita e possanza Di misteri e d'enigmi; io, se mai regno Ebbi nel mondo, ed uno anco men resta, Di libere e gagliarde alme il difendo Liberamente. O amore, o affanno, o colpa Di scïenza e di luce, o istinto e vita Di verità, di libertà, se merto Altro non hai che la tortura e il rogo, Se altro nome non hai fuor che delitto, Ecco, a la terra io fermamente il grido: Altare è il rogo, ed il delitto è dio!-- Tacque, e d'orgoglio radïante, i magni Omeri scosse, e sollevò la faccia Con fantastico ardir. Pavida, incerta Con gli occhi Ebe il seguía, mentre un'ignota Purpurea fiamma le scendea nel petto Agitandole il cor. Sorse a la fine Tacita; con gentile atto la destra Cortesemente al forestier profferse, E al cheto asil dei suoi verginei sogni Conturbata si volse. Ei con l'acceso Sguardo la cinse; com'etereo foco Lambíala intorno co'l pensiero, e, tutto D'eterno amor le fibre intime ardente, Gridò in cor suo: L'ora è venuta; è dessa! CANTO QUINTO. ARGOMENTO. Il fantasma di amore, che ha eternamente agitato l'Eroe, veste forme sensibili.--Ebe e Lucifero si amano: l'amore accerta l'Eroe del trionfo.--Si allontanano da Tempe, e giungono nell'Attica.--L'Acropoli di Atene.--Voluttà d'amore fra le rovine.--L'Ombre di Socrate, di Focione, di Codro.--Un bruttissimo e strano mostro appare in sogno all'Eroe, e lo beffeggia.--Onde questi, abbandonando la fanciulla nel sonno, si caccia impaziente ove il destino lo chiama. Ma qual riposo mai, qual mai quïete Quinci innanzi, o infelice Ebe, a te resta, Se Amor, che ai passi tuoi tende la rete, Sì fiero caso a la tua vita appresta? Come fil di corallo entro a le chete Onde germoglia Amor ne l'alma mesta; Amor sen vien furtivo e taciturno, Sen viene al cor qual ladroncel notturno. Su le deserte, angoscïose piume Ella inquieta si volge, ella sospira; E, qual lieve farfalla intorno al lume, Amor non visto intorno a lei si aggira; Gira per l'aria, e com'è suo costume, Nel foco, ch'ei destò, ventila e spira; E de lo strano Eroe le reca innante Le fogge, il riguardar, gli atti, il sembiante. Ella il vede, ella il sente: ad una ad una Fan le audaci parole a lei ritorno, Qual nel tiepido ottobre a l'ora bruna Tornan le pecchie argute al lor soggiorno; Ed or le parla de la sua fortuna, Muto or la guarda, or le si asside intorno; Ed ella, a par di bianca aërea face, Trema a quei detti, e d'ascoltar le piace. Sorse alfine; e de l'ombre impazïente Gli opposti vetri a le fresche aure aperse. Taceva anco la notte, e rade e lente Fuggían contro al mattin le stelle avverse; Un zeffiro gentil da l'orïente Le vaghe ali movea di brine asperse, E ad ogni fior de le ben culte aiuole Dolci olezzi traea, dolci parole. Diceva a l'aura il fiore:--Aura pietosa, Che mi porti le brine alme e vivaci, Deh! per poco su me l'ali riposa L'ali dolci così, così fugaci; Tu in sen mi svegli ogni virtù nascosa; Son mia vita ed amor solo i tuoi baci; Deh! se posar non puoi rompi il mio stelo; Che teco io venga a spazïar pe'l cielo!-- --Sorgi, dicea con lamentevol grido Presso a la rosa il tenero usignolo; Quanto bella sei tu, tanto io son fido, Quanto lieta sei tu, tanto io son solo. Già il candido mattin sorge dal lido, E tu sorgi così dal tuo bocciòlo; Tu il vago olezzo, il vago inno io t'invio; Tu sei l'amore, e l'armonia son io.-- Questo udía pe'l giardin la vereconda Ebe, e un mar l'avvolgea d'ombre e di larve, Quando un fruscío sentì tra fronda e fronda, E un'Ombra vide, o di veder le parve; Stette, il respir contenne, e a la gioconda Luce de l'alba il Pellegrin le apparve; Mise ella un grido, e pallida divenne; Se non fuggì, fu Amor che la rattenne. --Ferma, sclamò l'Eroe con mesto accento, M'odi, pietà del mio destin ti tocchi: Io, che ai Numi recai guerra e spavento, Ecco, supplice io cado ai tuoi ginocchi! Ogni raggio d'onor fia per me spento, Se non mi danno un raggio i tuoi begli occhi: In quel raggio d'amor, poi ch'io l'ho visto, La vita, il trono, la vittoria acquisto. Ti sognai, ti cercai: ne l'infinita Luce del ciel, nei cupi abissi orrendi Sempre in traccia di te corsa ho la vita, O eterna Idea, che umana forma or prendi; Vista t'ho innanzi a me, t'ho in cor sentita, Sempre acceso m'hai tu come or m'accendi; Or che t'aggiungo, e intero alfin son io, Son colmi i fati, ed il trionfo è mio. Sì, vincerò. L'amor, ch'io sento e chiamo, Sprona l'alme ad imprese inclite e chiare: T'amai nel sogno, entro la vita or t'amo, E immenso è l'amor mio siccome il mare: Ei dà a la foglia il fior, la foglia al ramo, La beltà agli occhi, a la beltà un altare, Sola virtù di questa fragil salma, Luce de la pupilla, aria de l'alma!-- Così dicendo, a l'odorato lembo De le vesti di lei dolce si appiglia; Ella pavida in atto, al vergin grembo Restringe i veli, e al suol figge le ciglia; E qual fussia gentil, che dopo il nembo Scote la pioggia, e al Sol più s'invermiglia, Stillante di pudor la faccia bella, Senza il fronte levar, così favella: --Stranier, qual che tu sii, dolce e cortese, Benchè nuovo ed ardito, èmmi il tuo detto; Deh! chi mai la possente arte ti apprese Del suäve parlar, ch'apre ogni petto? Ben questi alberi muti e le scoscese Rupi verrían commossi a tanto affetto, E amor risponderían, d'amore istrutti, Le dure querce e gl'infecondi flutti. Ma qual amor vuoi tu, ch'apra e rallegri Il fior di questa mia povera vita, Se le gioie del mondo e i giorni allegri Par ch'abbian del mio cor la via smarrita? Qui passan gli anni miei romiti e negri, E m'è la speme del morir gradita; Chè sol di là di quest'oscuro esiglio Vede l'anima un pòrto e un astro il ciglio.-- Tal parla, e in verginale atto la faccia Volge, e il respinge, e move gli occhi in giro, E minacciar vorría, ma la minaccia Le muore su le labbra in un sospiro. Ebbro, anelante, con aperte braccia, --Ah! no, risponde il Pellegrin delíro, Tu, che sì bella e sì pietosa sei, Senza luce d'amor viver non dèi. No, non fia ver, che senz'amore al mondo Volga tua vita abbandonata e sola, Qual pèrsa gemma ai neri flutti in fondo, Qual bianco giglio in solitaria aiuola: Quant'alto è il cielo, e quanto il mar profondo, La forte ala d'amor penetra e vola, Nè tu vorrai, leggiadra e debil tanto, Chiuderle il petto, e dar la vita al pianto. Mira intorno, o fanciulla: ombra ed albore, Raggio di sole e manto irto di neve, Vol di farfalla e profumo di fiore, Tutto passa così rapido e lieve; Tutto è breve quaggiù, fuor che il dolore, E l'istante d'amor forse è il più breve; Oh! la vita e l'amor, cara fanciulla, Il tutto è un'ora, oltre quell'ora è nulla. Amiam, fanciulla, amiam; sia piano o monte, Sia valle o mar, vivrem l'un l'altro appresso; Non v'è serto miglior d'un bacio in fronte, Non v'è laccio miglior d'un primo amplesso; Ci specchierem dentro a la stessa fonte, Sognar potrem sovra il guanciale istesso; Come ad olmo consorte edera o vite L'alme unirem sovra a le bocche unite!-- Disse, e acceso negli occhi e in atto strano Chiuse le aperte braccia, e i labbri pòrse; E un'armonia suonò per l'aër vano, Ch'armonia parve, e baci erano forse. Sorto era il sole intanto, e dal sovrano Balzo a schiarar quelle due fronti accórse; E negli occhi de l'un, qual fior nel lago, Specchiar l'altra mirò la propria immago. V'è una pianta gentil, ch'alma e giuliva Di bei fiori non è, non è di foglie, Ma al tocco sol, come se fosse viva, Tutta in sè si restringe, e si raccoglie; Nome il volgo le dà di sensitiva, E senso di pudor certo essa accoglie, Chè tutto, che del Sol si scalda al raggio, Ha virtude d'amor, senso e linguaggio. Tal divien la fanciulla; e il ciel sereno Erra co'l guardo, e incerta pende, e geme; Ed agli urti del cor le ondeggia il seno, E il cor le fugge a la risposta insieme: --Stranier, caro stranier, per questa almeno Secreta ambascia, che m'affanna e preme, Deh! per questa ti prego alma soletta, L'onore, il pianto, i sogni miei rispetta. Deh! se fido è il tuo dir, se l'alma è fida, Se a l'audace voler tua possa è uguale, Fa' che scorra da' regni aurei de l'Ida, Nuova di giovinezza onda immortale; Fa' che amico a le Muse il Ver sorrida; Che men funesto a noi vibri il suo strale; Che a questa vecchia gente infastidita Riedan le Grazie a rifiorir la vita! E se tanto non puoi, dammi che a questa Terra, che non m'intende, alfin m'invole; Ch'io mi scevri da tanta orda molesta, Che sepolta nel ver l'anima vuole. Oh! ch'io torni dei miei sogni a la festa, Ch'io mi confonda in un raggio di sole, Ch'io naufraghi coi miei poveri numi In un mare di luce e di profumi!-- --Oh! no, vieni, amor mio, vieni, ei rispose, Co'l Sol nascente e i rugiadosi fiori, E alle fole, che il mito aureo compose, I nostri involïam superbi cori: Il trono de l'amor son queste rose; Tutti son ne la vita i suoi splendori; È qui sovra la terra il ciel che agogni, Qui ne le braccia mie tutti i tuoi sogni! Vivi a la terra e a me: vivi al governo Di questo amor, che fiamma è del pensiero, Di questo universal giovane eterno, Ch'è lume sol fra l'intelletto e il vero; Egli ombra e luce, ei paradiso e inferno, Tempo ed eternità, verbo e mistero, Principio e fine del mortal cammino, Fede, legge, virtù, vita, destino. Vieni con me; per l'infinita via L'Ozio non poltre, e non sbadiglia Imene; L'opra e l'amor son la ricchezza mia, Mio cibo il ver, la libertà il mio bene: Aquila altera per l'aria natía Al Sol va incontro, e schiva è di catene; I nembi sfida, i turbini sovrasta, Libera muor; la libertà le basta. Noi liberi così, per vario corso, Correrem, cimbe audaci, il mar crudele, E il dio, che non indarno ha l'ali al dorso, De l'ali sue ne rifarà le vele. A lui, che sdegna, e sia pur d'oro il mòrso, Piega, o dolce fanciulla, il cor fedele; Chè, finchè l'occhio ha un guardo e l'alma un riso, Ei solo è il Dio, la terra è il paradiso!-- Favellando così, giuso a la valle Avean, senza saper, già vòlti i passi, E incerti si seguían, qual due farfalle, Ch'erran lente sui fior, su l'erbe e i sassi; Ma quando s'avvisâr del vario calle De l'assòrta fanciulla i guardi lassi, Tremò, gelò, rieder volea, ma vinta Da l'angoscia al suol cadde, e parve estinta. Cadd'ella sì, ma non di fiori e d'erbe Guancial trovò sul molle suol proteso, Nè le miti verbene e le superbe Rose andâr liete del vergineo peso: Ben ei l'amante Pellegrin le acerbe Forme accoglie su'l petto ansio ed acceso, E gli spiriti erranti in su le chete Labbra le avviva, e geme, e le ripete: --Amiam, fanciulla, amiam: sia piano o monte, Sia valle o mar, vivrem l'un l'altro appresso; Non v'è serto miglior d'un bacio in fronte, Non v'è laccio miglior d'un primo amplesso; Ci specchierem dentro a la stessa fonte, Sognar potrem sovra il guanciale istesso; Come ad olmo consorte edera o vite L'alme unirem sovra a le bocche unite.-- Ed Ebe amò. Fatto più forte e puro Gioì l'Eroe, che ben conobbe il segno; Lampeggiò tutto al suo sguardo il futuro; Splender mirò de la Ragione il regno; Vacillò de l'Error l'idolo impuro; Svelto il Nume dal sonno arse di sdegno, E, vôlto il ciglio a quella parte e a questa, Empio ognun trova, e a fulminar si appresta. Sconosciuta fra tanto a la ventura L'innamorata coppia oltre cammina, E or d'un côlto villaggio entran le mura, Or cercano la valle, or la collina; Posan or su la sponda, or ne l'oscura Selva, e pronubi han gli astri e il ciel cortina: La vita, il mondo, il ciel tutto è un accento Per essi: amor; l'eternità un momento. Ma poi che sovra a lor dieci albe e sei Le nitide versâr perle dal crine, Fra il Saronico golfo e i flutti Egei Il sacro Attico suol videro alfine; E, i Bëozii varcati e i monti Onéi, Le Cecropie toccâr mura divine, Che avean, benchè or le copra oblio profondo, Sfidato il cielo ed abbracciato il mondo. Siede Atene nel mezzo, e a lei nel grembo L'urne riversa il vigile Cefiso, Ove, caro a le Dee, su 'l doppio lembo Crescea corone un dì l'aureo narciso. Qui al Sol torreggia acuta, e sfida il nembo La pelasgica rupe appo l'Illiso, Or rupe incolta, ma d'illustre prove Già campo a la fatal figlia di Giove. Di pentelici marmi, in su la cima, L'inconcusso delúbro alto sorgea, E d'opre egregie e sagrificî opima Ivi ebbe l'ara la terribil dea: Fra l'argive falangi inclita e prima Sovente essa l'invitta asta scotea; E al lampo sol del venerando aspetto Venía prode ogni vil, rupe ogni petto. Ma, se scevra de l'armi, ond'era onusta, Temprate in Lemno a le celesti incudi, E libera de l'irto elmo l'augusta Fronte splendea fuor dei funesti ludi, Ne l'alta d'Erettèo sede vetusta Spirava il riso di men ferrei studi; E a l'ombra del vocal delfico alloro Venían le Muse, e s'assidea fra loro. Tra i ruderi famosi e le dirute Moli anch'ei venne un giorno il mio Titano; Pensieroso guardò l'are cadute E i fòri e del deserto ágora il piano E il monte del tremato Are e le mute Stoe d'Academo e l'Erettèo sovrano; E d'un dio su la testa infranta e nera Umor versò, che nettare non era. Sorge la notte; ei là, presso al Pecile, S'asside; Ebe è con lui. Sparuta e scema Pende la luna, e sovra a la gentile Bionda testa di lei sorride e trema. Pensoso egli è più de l'usato stile; È in lei mestizia, oltre ogni dir, suprema; E nuotando le vanno incerte e scure Cento memorie in cor, cento paure. Sovra i ginocchi ei se l'asside, e cuna Del sen le fa con le protese braccia; E ad ogni aura ei la bacia, e per ognuna De le stelle del cielo essa l'abbraccia. Velò la fronte ipocrita la luna, Chè tanta voluttà par che le spiaccia, Come vecchia pinzochera far suole Al caro suon di lubriche parole. Disse alfin la fanciulla:--Oh! se sapessi Che paure ho nel core! Ai giorni miei Ricchezza altra io non ho che i nostri amplessi, E amore e vita ed avvenir mi sei. Se un giorno abbandonar tu mi dovessi, Come rondin deserta io mi morrei, Io mi morrei così!--Tacque, e gli avvolse Le braccia al collo, e il freno al pianto sciolse. Poi riprendea piangendo:--Era fatale Quest'amor, più di te, più di me forte; Pria mi ridiede e poi mi bruciò l'ale, E infranse e ribadì le mie ritorte. Sento che tu non sei cosa mortale, Ma ne le braccia tue sento la morte; Nel foco dei tuoi baci il cor si strugge, L'alma s'eterna, e il viver mio sen fugge.-- Non risponde colui: torbido, immoto Per le tenebre lunghe il guardo intende; Chè un agitar di strane Ombre e un ignoto Di larve brulicar l'aria comprende: Rizzansi i sassi, i marmi, e van pe 'l vuoto, E incerta su di lor la luna splende; E a lui d'intorno in apparenze strane Prendon fogge e sembianze e voci umane. Parla un'Ombra così:--Socrate fui, E tra' mortali un'altra volta io vegno, Chè contro a questi nebulosi e bui, Che mal di saggi han nome, arde il mio sdegno. Solo del vero io parlerò, di lui, Ch'unico iddio su la natura ha regno; E, perchè al fronte suo l'ombra sia tolta, Beverò la cicuta un'altra volta!-- Sorge un'altr'Ombra, e dice:--Al vulgo iniquo, Che tanto omai del suo poter presume, Tal esempio darò, che da l'obliquo Calle il ritragga d'ogni rio costume; Chè ove manca a virtù l'ossequio antiquo, Splender non può di Libertade il lume; E ognun, che insorga al patrio onor rubello, Sappia ch'io vivo, e Focïon m'appello.-- Sparve, e un'altra a dir prese:--O voi ch'eletti Foste in terra a portar le regie some, Al patrio ben primi volgete i petti, E le stranie falangi allor fien dóme. Codro son io; dei popoli soggetti Fui padre, e l'aureo serto ebbi a le chiome; Ma a salvar Grecia, inesorato e forte, Gittai quel serto, ed abbracciai la morte.-- S'avanzarono altr'Ombre. A la fanciulla Su le stanche pupille il sonno scese, E sovr'esso a la terra arida e brulla Le strenue membra il Pellegrin distese. Gli aleggiò intorno un sopor dolce, e nulla Per lo pian solitario o vide o intese; Ma al dileguar de le notturne larve Novo prodigio in su 'l mattin gli apparve. Mostro ei mirò, che lungo e macilento Viengli incontro per tòrto aspro sentiere: Come punta di falce adunco ha il mento, D'asin le orecchie e il naso ha di sparviere; Tien l'ali a tergo, e le svolazza al vento, Intrecciate di scope ispide e nere; Gambe ha di ragno e membra irsute e viete, E su la testa un gran cappel da prete. Qual trampolier, che da la ripa a un tratto Dentro al placido rio salta e gavazza, Così intorno al dormente agile in atto Balla quel mostro, e per l'aria svolazza; Gracchia qual corvo, miagola qual gatto, Sbuffa, ride, saltella urla, schiamazza; Or tentenna, or sgambetta, or gira e aleggia, E così lo deride e lo sbeffeggia: --Questo dunque è l'ardir, questa la possa, Di cui tremar dovean l'alme e le stelle? Così la fede dei mortali hai scossa? Così fatta hai la terra al ciel rubelle? Oh! lotte, oh! pugne, onde ogni zolla è rossa! Oh! il gran trofeo d'una fanciulla imbelle! O eroe de la Ragione, o Re dei forti, Torna meglio a regnar fra l'ombre e i morti!-- Si destò, balzò in piedi, al dir beffardo, Lucifero, arse d'ira, i pugni strinse, Minaccioso rotò d'intorno il guardo, Vide Ebe, e di pallor muto si tinse. Poi chinò il mento al petto, e mesto e tardo Mosse, e il destin più che il suo cor lo spinse, Mentre avvolta nei suoi sogni fallaci Nuovi amplessi ella sogna e nuovi baci. CANTO SESTO. ARGOMENTO. L'Eroe s'imbarca per la Francia.--Rivolge superbe parole alla Natura.--Aurora boreale.--Sermone di frate Iginaldo.--Tempesta e naufragio.--Isolina si raccomanda all'Eroe, che cerca invano salvarla.--Morte di frate Iginaldo.--Lucifero co'l cadavere della fanciulla si avvicina a forza di nuoto alla riva.--Iddio, che vuoi perderlo ad ogni costo, inveisce contro gli oziosi abitatori del cielo; armasi in fretta, ed è sul punto di scendere in terra per combattere il nemico, quando l'arcangelo Michele lo calma, e scende in sua vece alla pugna.--Sdegnose parole di Lucifero al nemico, la cui spada non riesce a ferirlo.--L'eroe afferra finalmente la riva, e dà sepolcro alla giovinetta. Fra le chete e fiorenti isole o ninfe, Cui bacia il flutto de l'icario mare, Passa il Genio de l'uom sovra gli abissi Tenebrosi de l'acque. Erto su l'ardua Prora egli sta: spazia fra l'onde e il cielo L'ala del suo pensiero; e per le ardenti Regïoni dei suoi sogni, vestita Di crescenti speranze e di fulgori Non toccati giammai, vede una sponda, Che, libera e temuta in fra le genti, L'ampia de la Ragione arbore edùca. Gallia ebbe nome un dì; Francia l'appella L'abietta lingua popolar, ma schiva Com'è d'umili cose, ella a buon dritto Titol di capo assume e di cervello. Ivi la tenda ei pianterà: superba Patria di sogni ella a sè chiama e attira, Qual per forza d'istinto, il venturoso Arcangelo umanato, a cui nel petto Con eterno bollor balzano i sogni. Sotto al suo piè monotona fra tanto Brontola la rotante èlica; fischiano Gli euri a l'antenne; mormoran confuse Voci di meraviglia e di vendetta Le solcate, saltanti acque; al governo Veglia il nocchier silenzioso, e avvolta Nel suo madido manto alzasi al cielo Coronata di muti astri la notte. Mira il Dèmone il ciel vasto e le vaste Onde, su cui passa leggera e certa Con le fiamme nel sen quella nuotante Fra tanta immensità piccola prora, E ai solenni ardimenti inorgoglito Dei suoi cari mortali, osa con questa Baldanzosa jattanza alzar la voce: --Piega al cenno de l'uom, piega la testa, O superba di nomi Iside antica, E leggi e ceppi a sopportar t'appresta! V'è tale abitator su questa aprica, Ultima sfera, che al tuo passo intorno Volge ignorata, e tu scemi a fatica, V'è tal, che dal raggiante aureo soggiorno, Ove chiusa nei tuoi pepli ti assidi, Ti scaccerà, sì come ancella, un giorno. L'idra orrenda del male erra quei lidi, Siede immoto l'affanno, e ferrea incombe Prematura e fatal morte a quei nidi; Ma dal sen degli affanni e de le tombe Giovin sorge il Pensiero, e s'alza tanto Quanto più giù la vil creta procombe; E l'uom col serto del martirio e il santo Peso del suo dolor, nauta immortale, L'onde si accinge a navigar del pianto; E, rompendo co'l petto il mar fatale, Pur morendo, procede, e su l'impure Salme a nuovi ardimenti agita l'ale. E tu invan, fiera Dea, tu invan d'oscure Sfingi hai custodia intorno; invan di tuono Armi il tuo grido, e veste hai di paure. Questo verme immortale ebbe tal dono, Per cui scrolla are, ombre dirada, e altero Su le rovine tue piánta il suo trono. Tu di fulmini t'armi, e in tuo mistero Minacciosa sorridi; egli al tuo sguardo Il fulmin strappa, ed arma il suo pensiero. Tu di flutti e d'abissi il tuo codardo Regno precidi, o ver di lidi avari Inciampo opponi periglioso e tardo; Ed ei co 'l foco dei tuoi falsi altari, Con l'onda tua nei suoi congegni occulta, Fa mari i monti, e fa montagne i mari. Che stai? Schiava a le tue leggi, sepulta Ne l'ira tua tu cadi; al tuo governo Egli si asside, e ai tuoi disdegni insulta Libero, invitto, onnipossente, eterno!-- Udì il vanto oltraggioso e la superba Sfida la Dea, che tutte cose impera, E da le sedi adamantine, eccelse, Ove, occulta al creato, erge il suo trono, Chinò lo sguardo, e il rilevò, siccome Commiserando a questa ultima sfera, Bruna ed ultima tanto e tanto audace. Prendea l'aure in quel punto ad ampie vele L'ignifera carena, e fra' tranquilli Miraggi de le fate argenteo il dorso Scopríano a la notturna aere i delfini, Pazzamente esultando; e già non lungi Nereggiava agl'incerti occhi la sponda, Che udì del tapinello Aci il lamento, Quando il fiero Ciclope eragli sopra Con geloso consiglio; e già tra' cupi Firmamenti d'azzurro, erti ed immani Spiccava agli astri, qual fumante altare, Gli affocati cratèri Etna superbo, Quando, gli alti corrucci e il lampeggiante Sguardo sentendo de la Dea sdegnosa, Di sulfureo vapor l'aria si tinse, Mugghiò il mar dagli abissi intimi, e tutti Scoppiâro a un tempo e con tutt'ira i venti. Balzò dagli antri de la terra un vasto Sanguinoso fantasma; in tortuöse Rapide spire si elevò, diffuse Per li nordici campi orrido il crine, Sparse il cielo di sangue, e in fiammeggianti Cerchi gl'impaüriti astri costrinse. Guardò l'Eroe senza sgomento al petto La boreäl meteora, e a le stupìte Genti, che su la tolda erano accórse A mirar tanto caso, e di paura Avean gelido il core e verde il viso, Insegnò, come seppe, in dir cortese Il magnetico evento; allor che sorto Da le funi riposte, ove grand'ora Scialbo e sparuto era rimasto assiso Certo frate Iginaldo, in modo strano Trampolando sui piè, sciolse la lingua Ai soliti sermoni. Era costui Un fil d'omo, sottil, magro, ricurvo, Pallido come cece, istrice al fronte, Falco a lo sguardo: un subbio benedetto, A cui tutta ravvolta era la trama, Che ordita avea con fine arte il Loiola. Corsa gran parte avea d'Asia; pescato Con la rete di Pietro alme e moneta Per la sposa di Cristo, e al Franco lido Quinci movea per sovvenir le afflitte Dai novelli cimenti anime pie. Di Lucifero il detto e il paventoso Mormorar de la ciurma, a quella strana Apparenza di cielo, ei tosto accolse Ne le vigili orecchie, e, tolto il destro Di fulminar con la parola audace L'alme corrotte e l'empietà dei tempi, Gittossi a' piedi il brevïario, strinse Ne la tremula destra il crocifisso, Che tenea, qual pugnale, a la cintura, E in questa guisa a favellar proruppe: --Prostratevi, tremate; ululi e pianti Alzate, o genti de la terra; il crine Di polvere spargete! Ecco, si appressa L'ora del gran giudizio; ecco, il Signore Sbuca fuor da le sue stanze, e discende Come nembo d'autunno. Ardono i cieli A l'irata presenza, e piovon fiamme Su le terre di Sòdoma; qual cera Squaglian monti e palagi; orridi e neri Bollon com'olio i flutti; apron le gole I mille abissi de la terra, e inghiottono Le falangi del tristo. Empî! di falsi Idoli e di scïenze occulte e maghe Mal vi fate voi schermo! Avete il tempio Profanato del Cristo; il santo avete Patrimonio di Pier fra voi diviso; Gozzovigliato fra le stragi; aperto Con mille punte di tortura il grembo De la madre di tutti; i figli spinti Contro al sen de la madre; e il latte e il sangue, Con vile e frodolente arte spremuto, Tracannando qual vino, ebbri e feroci, Incoronati d'empietà, vi siete Sopra l'ossa dei santi eretto il trono! Ma tra' fulmini avvolto ecco, passeggia Il Signor degli eserciti, e l'immondo Trono di Belzebù, come vil coccio Infrangerà! Questo che in ciel vedete È il giudizio di Dio!-- --Questo è il rossore Di Dio, che sul tuo labbro ode il suo nome!--Una voce gridò. --Questo è l'inferno, Riprese il frate, che divora e strugge Le falangi degli empî!-- --O forse il sangue, Che han versato ogni tempo i manigoldi Di Vaticano!-- --Odo fra noi la voce De l'eresía; Satana è qui; perduti Tutti siam noi: ci sarà tomba il mare!-- Dicea, quando dal mar torbido e negro Mugulando una sconcia onda levosse, Contro al legno proruppe, e lieve in guisa L'alzò, che spinta noi vediam dal turbo Una povera foglia. Orridamente Cigolaron le antenne; urlâr concordi I venti e i passaggier, le ciurme e il mare, E, dal fiero sospinto urto improvviso, Balenò, traballò, rovescion cadde Il loquace profeta, e destò il riso Ai mal fermi su' piè trepidi astanti, Qual da la ferrea gabbia, ove a diporto Con muta gravità saltando aggirasi La rugosa bertuccia, o ver, seduta Ad un raggio di Sol, prova l'aguzzo Dente a spellar secco virgulto, e il guardo Volge furtivo ai curïosi intorno, Se avvien ch'altri l'aìzzi, essa d'un salto Balza a l'opposto lato, i bianchi denti Digrigna, batte le palpebre, e torna Con guardinga incuranza al giro usato; Così in piè balzò il frate, il sospettoso Occhio intorno girò, forbì le sozze Palme, scosse la tunica, e, l'adunca Faccia a la tenebrosa aria levando, Umile e grave accovacciossi; aprì L'unto breviario, e mormorò latine Forse bestemmie, che parean preghiere. Giù dagli astri in quel punto, a par di scura Aquila, che a l'ovil piombi improvviso, Precipitava una procella, e il core Discioglieva ai più fermi. Orride e gravi Come monti di piombo, ingombran tutta Del ciel la faccia le sulfuree nubi; Mugghian lividi i flutti, e d'ogni banda Saltan sul mare ad azzuffarsi i venti. Quinci aquilon prorompe, e quindi irato Si scatena il ponente, e in un sol groppo Pugnan, come Titani: un le pesanti Nuvole afferra, e contro al mar le scaglia Con immenso fragor; l'altro dai fondi Gorghi del mar l'onde travolve, e al cielo Furibondo le avventa, e sfida Iddio. Qual da robusto giocator, compulso Dal dentato bracciale, a l'altro avverso Il ben gonfio pallon balza e resulta, Tal de l'onde in balía, dei venti in preda, Di qua spinto e di là, s'agita e batte Il rotante naviglio; ed or su 'l dorso Del fiotto immane al ciel levasi, or piomba Ruïnoso tra' flutti, e s'inabissa Come cosa perduta. A l'aër nero Fra lo schianto dei tuoni odi un confuso Suon di strida e di preci, un disperato Urtar d'opre e di cose, un fiero, orrendo Battagliar con la morte, e inconsüeta Fratellanza di pianti e di paure. Tu sol, fra tanto perdimento, il petto Non apristi a la tema, inclito amico Degli arditi mortali; e l'alma e il braccio Adoprando al governo, e da ogni parte Con diva ressa esercitando il grido Su le pavide ciurme, il cigolante Pino a le voratrici acque contendi. E là, dove nel mar libico schiude La selvaggia di Sardo isola il seno, Ben ridotto l'avresti, ove già fermo Di tutti la madrigna Isi in quel giorno Non avesse nel cor l'esizio estremo. Suscitò co 'l suo fiato un vorticoso Turbine, spalancò l'onde, in un mucchio Avviluppò fiaccate arbori e sarte, E fin dentro ai secreti antri, ove occulto L'impellente vapor mugola e ferve, Vïolento introdusse il flutto avverso. Scoppian, travolti nei dedalei fianchi, Gl'ingegnosi lebèti; in duo partito Salta al cielo ad un punto, e s'inabissa Il perduto naviglio; e orrenda, immensa Fra le rovine e il mare urla la Morte. Era fra tanti derelitti, a cui Piomba certo su 'l capo il danno estremo, La leggiadra Isolina; a le ginocchia Del nostro Eroe si attenne, e fredda, bianca, Scompigliata negli atti e negli accenti Fra' singhiozzi pregò:--Deh! mi salvate, Deh! salvatemi voi! Ch'io lo riveda, Ch'io muoia almen fra le sue braccia!--Un'onda In questo dir si sollevò; travolse La giovinetta, e de l'Eroe lontano, Come fiore divelto, in mar la spinse. Diè Lucifero un grido, e d'Ebe a un'ora Si risovvenne: aprì le braccia, e fermo Di rapir la gentil preda a la morte, Qual tempestoso augello, in mar lanciosse. Trabalzati dal turbo erran gl'infranti Pini su' flutti, e con sinistri e neri Serpeggiamenti ingombrano gli abissi Tenebrosi del mar: sembran natanti Dèmoni, che al ghignar cupo de l'onde Ballin pazza una ridda a far più triste De' disperati naufraghi la morte. Rompe i flutti Lucifero, e fra tanta Desolata pietà sol di lei cerca, Sol si affanna per lei, che tutte in core Le sopite d'amor fiamme gli avviva. Biancheggiar vede alfin come un'incerta Forma, cullata abbandonatamente Da men torbidi flutti, e sembra cosa Di visïon, che tremoli a lo sguardo D'oblique stelle, e tu non sai, se chiusa Entro a un vel di canore acque e di spume, Sia l'amor che tu sogni, o ver la morte. Stranamente l'Eroe spinse la voce, Pari ad artigliatrice aquila, quando Disertar vede il nido, e da le nubi Piomba, e co 'l grido il cacciator sgomenta; E a quella volta ambo le braccia e il petto Affaticò. La cara supplicante Ben riconobbe, e in cor gioì: di peso L'alza, l'impone al grande òmero, e forte Serrandola co 'l braccio a mezza vita, Con ambo i piè squarcia di forza il flutto. Ella respira ancor; la fuggitiva Pupilla per le vaste ombre dilata, E un caro astro ricerca, il derelitto Astro de l'amor suo.--Cessate, o venti, T'accheta, o mar; risplendi, o Sol; venite, Lontane terre, al cenno mio; ch'io possa Serbar quest'infelice alma a l'amore!-- Girò in tal dir lo sguardo, e a lui da presso Con le braccia convulse a una raminga Botte aggrappato disperatamente Scòrse il misero frate: un moribondo Topo ei parea, che, a la grommata riva D'un impuro padùle a ber venuto, Vi trabocchi per caso: il miserello Stride pietosamente, i neri e furbi Occhi spalanca; or d'uno or d'altro verso Si travaglia d'intorno a un galleggiante Sughero, che da' piè sempre gli sfugge, E, invan le gambe picciolette a un tempo Dimenando e la coda, alza a fior d'onda Tenero il muso, i grigi orecchi appunta, Finchè, domato da la sorte acerba, Riman su l'acqua tumido e supino. L'Eroe lo vide, e contro a lui di punta Si disserrò, qual su l'ingorda sula Piomba il labbo animoso: a la codarda Voratrice la vasta ala non giova; Gracchia a l'aure fuggendo, e il mal digesto Cibo a l'audace assalitor concede. Tal sul frate l'Eroe piombò, nel punto, Che a cavalcion su le cerchiate doghe Con gran pena ei salía: per la pelata Nuca agguantollo; al soverchiante flutto L'abbandonò; su la girevol cimba Pontò forte la destra, e su d'un salto Vi si assise, e gridò:--Frate, il tuo regno De la terra non è, non è del mare: Io t'insegno il vangel!--Guaiva il frate, Tapinandosi indarno, e rotte e fioche Voci mettea:--Non vo' morir, non devo Così presto morir! Come San Pietro Tu solchi il mar; salvami tu!-- --Profeta Non son, nè figlio di profeta, eppure Veggio che in gran peccato esser tu devi: Troppo temi il morir!-- --Sono in peccato, Hai detto il vero, in gran peccato io sono: Vo' confessarmi a te!-- --Volgiti ai santi; Il demonio son io.-- --Sàtana, o Cristo, T'adorerò, pur che mi salvi!-- --Assai Facile è in ver la fede tua: rinneghi Dunque la legge cui finor servisti?-- --Pur che sia salvo, io la rinnego!-- --In molle Rèstati adunque, e non aver paura De le fiamme d'inferno!-- Il moribondo Sparì tra' flutti; al cor l'altro costrinse La giovinetta; su la fredda e bianca Fronte baciolla; le spirò su' labbri Una dolce parola: ella era muta Come la morte. Egli proruppe:--È bello, Bello, o frate, è il morir: vedi? su questa Bocca è la morte, ed io la bacio e l'amo!-- Era già piano il mar, taciti i venti, Terso di nubi il ciel; roridi e bianchi Tremolavan per l'aere i fuggitivi Astri, e a specchiar la fronte aurea nei flutti Con le perle su 'l crin venía l'aurora. Correa spinta dall'aure a fior di spume La cimba portentosa, e verso ai cari Lidi movea; quando al tenace amplesso D'un terribile sogno Iddio si tolse Scapigliato ed ansante: --Ove, ove siete, Miei campioni, gridò? Qui a me d'intorno Gli arcangeli non veggo e il formidato Fulmin de l'ira mia! Tacciono i cieli L'inno de la mia gloria; alzano il riso Gl'increduli mortali, e l'inconcusso Trono de la mia luce, ecco, diventa Tenebroso sepolcro ai passi miei. Rompete il laccio dei melliflui sonni, Troppo ingenui Celesti! Orrido io sento Sibilar per le vive aure lo strido De l'umano Pensier; sorge di nuovo Lucifero da l'ombre, e sotto ai chiari Sguardi del cielo, in faccia al Sol, vestito D'umane carni e d'ardimenti invitti, Contro al nostro poter pugna co 'l riso. Dormite pur, beate alme, sognate L'albe eterne dei cieli e la ghirlanda Mai consunta degli astri e le piovute Manne del paradiso; e tu, dai regni Contrastati del mondo, oltre il confine De la fallibil creta alza l'imbelle Tuo desiderio, e bamboleggia e trema, Reo vegliardo di Roma! Io, benchè agli occhi Nereggiar miri un crudo fato, e senta Mormorar fra' consorti astri una voce Di superba minaccia, io quel nemico Spirto di libertà, ch'agita i petti, Soffocherò!-- Disse, e l'usbergo usato, Che tutto era di nebbie e di paure, Stupenda opra, vestì; l'orrida assunse Ègida, che le avverse anime impietra; Strinse nel pugno la fulminea spada, E d'immenso clamore il ciel confuse. Balzâr dal sonno esterrefatti i Troni, Gli Arcangeli balzar, tutte fûr deste Le falangi de' cieli, e a frotte, a stormi Alïando venían, simili a incerti Pigolanti piccioni, ove tra' sonni Del temuto falcon sentan lo strido. Videli appena il Dio, che da le soglie Polverose de' cieli il dubitante Per lunghi ozî ed età passo togliea, Con fier cipiglio borbottando; e, in petto Mal frenando la gialla ira, tre volte Rotò sovra la testa il brando ignudo, --E, via di qua, sclamò, via dal mio sguardo, Plebe del cielo infeminita! Ai molli Suoni de l'infingarde arpe voi date L'anima tutta, e le divine essenze Seppellite nel sonno. Onta a voi tutti! Mentre l'uomo laggiù s'agita, e invade Ogni cosa crëata, e dio diventa, Voi, d'ogni cosa e di voi stessi ignari, Con pacifico studio divorate I banchetti celesti, e con le belle Figlie de l'uom gli ozii spartite e il letto!-- Girò, in tal dire, anco una volta il brando, E partito saría, se da la folta Dei trepidanti arcangeli non fosse Sorto innanzi Michel, l'adamantina Spada del cielo. A le incostanti aduso Bizze del Padre, ei gli si pianta innanzi Con ischietto sorriso, e,--Qual talento, Gli dice, è il vostro di pugnar? S'addice La pugna a voi? Lucifero ha vestite Spoglie umane, ed a noi l'alme ribella; Ma rotto è forse il brando mio? Su lui Disagevole è tanto il mio trïonfo? Ben altre volte io gliel provai. Smettete L'armi dunque e lo sdegno; io, s'ancor sono Il guerrier vostro, io pugnar deggio: a voi Il comandar, a me il servir si aspetta.-- Così parlava, ed il canuto mento Gli careggiava, e il rabbonía. Di forza Volea prima da lui svolgersi il nume, Poi fiero in vista e mal frenando un riso, Ritrasse il piè dal limitar: le indotte Armi svestì; senza mirarlo in fronte Al diletto campion la pugna indisse, E, calcando ai superbi astri la faccia, Su l'aureo trono in maestà si assise. Gemea l'Eroe fra tanto, e su la bocca De la bella sua morta iva mescendo Dal profondo del cor lagrime e baci. Mestamente fendea l'onde, e nel raggio Dei purpurei crepuscoli diffuso Vagolava il suo spirto oltre la vita. Saltò da l'etra in quell'istante il forte Messaggero di Dio, tutto ne l'armi Coruscanti precluso, e parea stella Portatrice di stragi. A sommo il flutto Contro al gagliardo nuotator piantosse, Precidendogli il lido, e con superbe Voci il tentò: --Riedi, insensato, ai neri Baratri tuoi; quest'aure e questa luce Non son per te. Del tuo Signor dispregi Il divieto così? Ben del suo sdegno T'è noto il peso e del mio brando. Lascia Quest'aure adunque, se non vuoi di nuovo Provar l'ira del Padre e il braccio mio!-- Guardollo in fronte, e con sorriso amaro Gli rispose l'Eroe: --Superbo e vôto È il tuo parlar, qual si conviene a servo D'assoluto signor. Gonfio de l'aura D'un fatuo nume, opre millanti e cose, Che son, più che vittorie, onte e dispregi. Ma inver semplici or siete, ove co 'l suono D'una futil minaccia il pensier mio Svïar provate da l'ardita impresa, Per cui tutta cadrà da' vostri petti La superba jattanza. Ebbri del fumo Dei vaporati sagrificî, il guardo Voi non drizzate oltre l'istante, e lunghi Anni di gloria e non caduco impero V'impromettete. Al par di voi, securo Si tenea ne le ròcche ardue d'Olimpo Il fatal Saturnìde; e pure ei cadde, E favola e ludibrio oggi è il suo nome Ai più vili del mondo. E voi, voi pure, E non guari, cadrete; e su le vostre Fiere cervici striderà la punta Dei sarcasmi plebei. Stolti! che al volo De l'umana ragion, che tutto arriva, Presumeste por ceppi, e chiuder l'alma Dentro al sepolcro degl'imposti errori; Ma trono eretto su l'error non dura; Al tuo cieco signor la terra il grida!-- Strinse al petto, in tal dir, la giovinetta, E verso al lido si spingea. Tremendo Fulminò l'aïzzato angelo il grido, Raggiò d'ira e di lampi, e la funesta Spada calò. Su la sua cara estinta Piegò il nemico il petto, e nulla oppose A la spada fatal destrezza o scudo. Balena il mar sinistramente; a l'aure Fischia l'acciar, ma, come ghiaccio in fiamma, Tocco appena l'Eroe, sciogliesi e strugge. Vide il portento, e scompigliossi in core Il guerriero di Dio; nè però a mezzo Lascia la pugna: smisurate, immense Spiega l'ali gagliarde, e si disserra Contro al ribelle nuotator. Qual suole Orgoglioso tacchino, ove al guardato Beccatoio appressar veda un digiuno Ramingante mastin, smetter l'usata Ruota d'un tratto, scolorir l'eretta Caruncula, e assalir tremendo in vista Il mal sofferto esplorator; s'aggira Questo, e no 'l bada; e mentre quei su' fianchi L'ale gli sbatte, e sbuffa, e stronfia, e grida, E il bèzzica a la coda e lo flagella, Tacito e imperturbato ei mette il muso Ne l'accolto becchime, e fiuta e passa; Tale il divo campion con le robuste Penne il superbo Pellegrin combatte Rotëandogli intorno. Ai cari lidi Questi si affretta, e con parole acerbe Lo stanco assalitor punge e motteggia: --Torna ai cieli, o fanciullo; e le lucenti Soglie giammai de la magion paterna Non lasciar quind'innanzi. È dura impresa, Credi, il fermar sopra le vie del fato Il pensiero de l'uom: pari a torrente Ch'argini rompe, alberi svelle, ei corre Per sentiero infinito, e, non che un solo, Mille Dii non potrían romperne il corso!-- In così dir, prese la riva; irato L'Angiol guardollo, e dileguossi al vento, Come vapor di nebbia vespertina, Che s'innalzi dal mar: vela un istante I purpurei del Sol placidi occasi, Poi si scioglie a la brezza. Il Pellegrino Diede un forte sospir; la cara estinta Su l'arena depose; e poi che l'ebbe Tersa, come potea, del flutto amaro, La guardò lungamente; una leggera Zolla le impose, e muto e senza pianto, Pari a fantasma, in riva al mar si assise. CANTO SETTIMO. ARGOMENTO. Storia d'Isolina.--Amore.--Sogno di felicità.--La lettera della madre.--Ultimo commiato.--Lontananza.--La giovinetta abbandona la famiglia e la patria; muove in traccia dell'amor suo, e perisce miseramente tra' flutti.--Sorge dal sepolcro, ed apparisce a Lucifero; il quale, non potendo ridarle la vita, languisce nell'oblío di sè stesso.--Una voce interiore lo richiama all'attività, e lo avverte della gran lotta preparata fra la Prussia e la Francia.--Egli ascende sulle Ardenne, e mira i formidabili eserciti che si avanzano.--Alla vista delle aquile imperiali alza inutilmente la voce contro l'ingiustizia di quella guerra. Nè tu, dolce amor mio, saprai gli affanni De la bella Isolina? Io, quando i cari Giorni ripenso, che l'amor ne diede Tutti sparsi di luce, e la promessa, Che a l'incerto avvenir m'obbliga il petto; E il ciel rigido miro, e con le cento Ali del mio desir navigo il mare, Calar veggio dal ciel, sorger dai flutti Tanti negri fantasmi; un'infinita Pena, un'angoscia indefinita e nova S'apre ne l'ondeggiante anima, e a' mesti Casi pensando de la pia fanciulla, Tremo nel cor, chiamo il tuo nome, e piango. Giovinetta infelice! Un cheto e lieve Raggio di fuggitivo astro parea Nei passi suoi; fior di dolcezza ell'era Negli sguardi e nell'alma; ala odorata Di vespertino venticello estivo Somigliavan sue voci, e chiaro e santo Era l'amor, che le accendea la vita. Un giovinetto da la lunga chioma, Esile e mesto e tutto alma negli occhi, Era il dolce amor suo: povero ed egro Vaneggiator, che le natíe contrade E la terra dei suoi padri e le sante Braccia materne abbandonava; e il nero Vuoto d'amor, che gli s'apría nel petto, Empía d'inclite forme illuminate Da la fiamma de l'Arte. Un giorno, ei vide La beltà d'Isolina. Era straniera Agli occhi suoi quella beltà; straniera Quella terra a' suoi passi; a ogni vivente Cosa straniero il suo pensier; ma in core Da gran tempo sedeagli, ospite ignota, Quella forma leggiadra; e sentì allora, Ch'ivi, da canto a lei, sotto quel caro Sguardo di ciel, che le vivea negli occhi, Era la patria sua, l'aurea contrada Dei sogni suoi; non là, dove la morte Sedea su le dilette ossa paterne, Non là, dove, nei suoi lutti racchiusa, Piangea la madre sua vedova e stanca. Da quel giorno si amâr. Livide e torte Lingueggiâr fra le care alme le sozze Ironie de la plebe; ai giovanili Passi, intèsta di fior, tese la rete L'insidïosa ipocrisia; ma grande Crebbe amor dai perigli, e fûr più saldi Battezzati nel pianto i primi amplessi. Scorrazzavano un dì, come fanciulli, Per le aiuole fiorite. Entro a un sereno Mar di tiepidi raggi e di fragranze Nuotavano le cose, e tutto fiori Salìa sui monti il giovinetto aprile. Dolcemente anelando ella si assise Sotto il bruno laureto; e lieta in core Di tanto Sol, di tanti fior, di tanta Giovinezza d'amor, con puerile Malizïoso rampognar severo Provocava l'amico.--A nulla buono, Dicea, sei tu; girato ho in un istante Tutto quanto il viale, e tutti ho colti I suoi fiori più bei: guarda;--e su l'erbe Sciorinava il suo bianco grembiuletto Tutto colmo di fiori. Egli porgea, Sorridendo, la bocca, e, a nulla buono, Dicea, son io fuor che a rubarti i baci. Furtivamente fra le foglie e i rami S'insinua il sole, e di minute e lievi Agitate da l'aure ombre ricama Quelle giovani fronti e le diffuse Vesti di lei, che in mezzo ai fior si asside. --Quanto io devo a l'amore, egli diceva, Quanto a la tua pietosa anima io deggio, O mia buona Isolina! Agli occhi miei Cangiato è il mondo; di mai visti fiori Mi sorride la terra; una lucente Indefinita regïon di sogni Mi si schiude ne l'alma, e la più bella De le speranze mie m'albeggia in core. Altr'uom son fatto. Ombre funeste e gravi Tedî, e incessante fluttuär d'ignoti Dubbi e fallace illusïon di sensi Mi sembrava la vita: inutil gioco Di crudeli potenze, agli occhi occulte, Ma paventate qual visibil cosa Da la paura onniveggente. In mano D'un fiero iddio balzar vidi la terra Come inutil crepunda; ai sanguinosi Ludi, a le prede con ferin costume Correr le schiatte dei mortali; eterno Gravar su le ribelli anime il piede La matrigna Natura; e tra le spire Di velenosi abbracciamenti, oppressa Da ignoti e strazianti incubi, indarno Tender la moribonda Arte a le stelle. Rider dovea, ma forse piansi. Al bieco Occhio de l'uomo m'involai; coi morti Vissi, e vaghezza d'ogni morta cosa Ebbi così, che i miei giorni infelici Sol ne la speme de la morte amai. Qual or mi sia, nè il so; stupito io guardo D'intorno a me, dentro al mio cor, nè trovo Me stesso in me: caro portento è questo Ch'io sol devo a l'amor!-- Ne le tremanti Mani, in tal dir, chiudea quella leggiadra Picciola testa d'angeletta, e lunghe Lunghe carezze le facea coi baci. Dei còlti fiori ella scegliea fra tanto I più freschi, e i più belli; e mormorando Un'allegra canzon de le sue valli, Li girava in ghirlanda, e col securo Volo de la ridente anima il giorno De le sue nozze precorrea. --Di freschi Fiori odorosi, io vo' la mia corona In quel giorno beato: a par di questa Tesserla io vo' di zàgare fragranti, Che a me son tanto care, e simbol sono Del nostro amor: te ne rammenti? il primo Foglio che mi scrivesti un conteneva Di quei teneri fiorì. Oh! come allora Sarem felici! Andran confusi e tristi I cattivi del mondo, e i nostri amplessi Saran da Dio santificati. È amara Cosa, me 'l credi, il mormorar del mondo Fra due cori che s'amano: somiglia Sibilo di serpente in mezzo al canto Melodïoso di felici augelli; Grido somiglia di sinistro augello, Che rompa a sera l'armonia d'un primo Giuramento d'amor. No, no; non voglio, Che bieca, oscura intorno a noi si aggiri La maledica turba, e ne sia d'uopo Velar di mal sofferte ombre il sorriso De l'amor nostro immensurato: io voglio, Che testimòni a la letizia nostra Sieno gli uomini e Dio; ch'arda di amore Tutto il creato insieme a noi. Deh! affretta, Giorgio, affretta quel dì! Non mi rincresce Lasciar per te queste mie valli; il caro Mio letticciòl, dove ho sognato e pianto Tante volte fanciulla; i gelsomini, Ch'ombran la mia finestra, e la gaggía, Sai? la gaggía de l'orticel materno, Ch'or principia a fiorir; non mi dà pena, Che dir? non penso pur, che lasciar deggio La mia povera mamma: io son cattiva, Non è ver? ma per te!-- Gonfî di pianto Gli occhi altrove volgea; sfogliava i fiori Con inqueta mestizia, e riprendea Poi con tremula voce: --Io, sai? non voglio Viver lontan da la tua mamma: un solo Tetto ne accoglierà; seder mi è caro A la mensa dei tuoi; guardar le stelle Da le finestre de la tua stanzetta; L'aure spirar che tu spirasti; assisa Presso l'immagin del tuo caro estinto Di te parlar con la tua mamma; seco Portar la croce, e consolar d'alcuna Speme di gioia il suo lungo dolore. Questo è il mio sogno, questo sol; m'illude Forse l'amor? Tanto sperar mi è dato?-- Giunse un foglio in quel punto: --Unico mio, Dal mio letto di spine, ov'egra e stanca Di più lungo soffrir trascino i giorni De la mia vedovanza, io ti sospiro, Io ti cerco dovunque, e le deserte Braccia protendo, e non ti trovo, e piango. Dove sei, dove sei, che più non torni A questo petto abbandonato, a queste Case del padre tuo, che, di te prive, Orbe son d'ogni luce, e fredde e mute Sembran solo aspettar la morte mia? Dove sei, figlio mio, che più non odo La voce tua; che più non torni a sera A sedermi da canto, a dirmi i cari Sogni del tuo pensiero e i tenebrosi Dubbi e l'ambasce d'un sorgente affetto? Tutto, figlio, così, tutto oblïasti L'affetto mio? Del genitor non serbi Memoria alcuna? Ah! così poca e breve Ala di tempo, e così nova terra Covre quei suoi diletti occhi, che calde Son le ceneri ancora, e, se tu il chiami, Risponderà. Deh! così mesta e sola Soffrir puoi tu, che da te lungi io cada? Così dunque morire, anzi ch'io muoia, Deve la mia speranza ultima, e al piede Mirar deggio spezzato in un sol punto L'estremo idolo mio? Già non fûr queste Le tue promesse; e non cotal conforto Da tanto amor m'impromettea! Lontano Dai piangenti occhi miei, fatto straniero Al materno cordoglio, il fior tu libi De le gioie del mondo; io bacio i cari Abiti tuoi; sfoglio i tuoi libri; il tuo Letto, come solea, sprimaccio a sera Con materno costume; al picciol desco La tua seggiola appongo; al consueto Uscio origliando, a tarda ora, il tuo passo Scricchiar da lungi inutilmente aspetto; E forse allor che tu beato in braccio Dei tuoi rosei fantasmi erri i sognati Campi de l'Arte, ed a l'amor sorridi D'ogni umano conforto abbandonata La madre tua ti benedice, e muore!-- Pallide e mute si guardâr negli occhi Quelle due fulminate anime. Ei sorse Freddo, anelante, scompigliato; al petto Strinse l'amica: la baciò su 'l fronte Mal frenando i singhiozzi, e una parola Mormorò fra le labbra; ella il comprese; E, gittandogli al collo ambe le braccia, In lagrime proruppe, e cor non ebbe Di contendere il figlio a una morente. Ei partì con la notte. A la finestra Ella balzò; tenne il respir; fra l'ombre Perdersi udì i suoi passi; a l'aure tese L'anima tutta; aspettò ancor; le parve, Che pentito ei tornasse; a una lontana Voce tremò, chiamollo a nome; e quando Stendersi agli occhi suoi squallido e freddo Vide il bianco viale, a la notturna Brezza ondeggiar con murmure indistinto Le due file d'acacie, e a la sinistra Luna uggiolar sentì a la lunga i cani, Sul freddo letticciòl, come perduta Cosa, piombò; ne le deserte coltri Si serrò paürosa, e pianse e pianse. Toccò Giorgio il natío lido; anelando Le vie percorse; a le paterne case Volò; ma fredda era la soglia; al vento Sbattean le imposte abbandonate, e nera Regina per li vuoti anditi, avvolta Ne le vesti materne, iva la Morte. Ei l'abbracciò; dei cari abiti ignude Mostrò le scricchiolanti ossa del petto Quella fatal. Dov'è mia madre? ei disse, Balzando indietro inorridito. Immota Ella il mirò; da le profonde occhiaie Balenò un fatuo lume; armò le vôte Mandibole d'un fiero urlo, e rispose: --La madre tua, tu l'uccidesti! Assisa Ne la bianca sua fossa ella ti aspetta!-- Grido non diè, non diè gemito o pianto Lo sventurato, e ne le grandi e fredde Braccia gittossi di colei, che sola Di sue vedove case avea l'impero. Gravi fra tanto, angoscïosi, eterni D'Isolina sul cor passano i giorni; Passan sovra al suo cor gl'inganni alati Del suo tempo felice, e più s'infosca Co'l cader d'ogni dì la sua speranza. Dov'ei n'andò? Perchè non torna ai dolci Nidi de l'amor suo? Ne le materne Braccia obliò le sue promesse? In preda D'improvviso dolor s'agita, o il freddo Calcolo sul gentile animo scende, E a men umile preda il cor gli adesca? Ella dubbia così: facil maestra La lontananza è di sospetti, e fabro Di torture il silenzio. Ai consüeti Lochi si adduce; il solito viale Percorre; ne la memore stanzetta, Presso il camin, di fronte al caro specchio Spïator di lor baci, a l'ora usata, Tutti i giorni si asside; e poi che inganna Lungamente così l'ore infelici, E tutta sola, abbandonata, incerta Ne l'oscuro avvenir l'anima affisa, Co'l cor serrato indi si toglie, e al primo Detto, che a consolarla alcun le porga, Rompe in lagrime amare, e altrui s'invola. Sinistramente al suo pallido volto Irridevan le amiche; e la ben mesta Anima cruccïando ivan co'l vezzo Di maligni sussurri. --Un venturiero Era al certo colui!-- --Povera stolta! Già toccar le parea gli astri co'l dito!-- --Altro! Prostrate e pallide al suo piede Bice e Laura vedea!-- --Cinta d'alloro, Come le anguille, in groppa al suo poeta Credea varcar l'eternità!-- --Ma il remo Dice a l'onda che passa: io ti saluto! E l'ape dice al fior: verrò tra poco!-- --E l'ingenua sposina aspetta ancora L'asin che voli, e l'amor suo che torni!-- Tanto dolor la povera Isolina Onta cotal più non sostenne: ai cari Tetti involossi; abbandonò nel pianto La materna dolcezza; e, le notturne Ombre spregiando e le natíe paure, La dolente sua vita al mar commise. O il mar pietoso, il crudo mar! Dei suoi Freddi baci l'avvinse; addormentolla Nei letti suoi, pria che donarla al novo Ferreo dolor, che l'attendea sul lido. Su la fossa di lei, presso a la sponda Or Lucifero siede. Alta d'intorno Spazia la notte; silenziosa e poca Tremula su le grigie acque la luna; Ei grandeggia fra l'ombre; occulte voci Mormora il labbro suo: rupe il diresti, Che, di fosco chiaror lambita ai fianchi, Spinga ai venti la cresta, e di confuso Scroscio risuoni al dirocciar d'un rio. Scuro e immoto così pende l'Eroe Su la zolla pietosa. Amor, che preda Fa di giovani vite, e ne la cara Lucida vita de le cose alberga, D'ansie superbe e di grandi ale instrutto, Dominar l'ombre ama talor; vïaggia Oltre la vita; e, di regnar mal pago Quanto al raggio del Sol vegeta o pensa, Scende ne l'urne a interrogar la morte. Tremò allor su le care ossa la luce D'un'azzurra fiammella: incerta e lieve Lambisce il suol, palpita a l'aura, ondeggia, Color muta e sembianza, e ambisce al cielo. Come al sole d'april, da le materne Lucide foglie in vago giro inteste, La candida magnolia alza il bocciòlo, Così dal grembo de la fatua luce Una bianca si svolge aërea forma, A cui brune e diffuse erran le chiome, E diffusi per l'aure i rosei veli Dïafani a la luce. Il Pellegrino Ravvisò la sua morta. --Oh! così lievi Son dunque i sonni tuoi, bella Isolina, Docil così, buona così è la morte, Ch'anco una volta agli occhi miei ti assente? Bianco e freddo amor mio, parla: ti muove La prece mia? pietà ti tragge a questa, Che lasciasti anzi tempo, aere vitale?-- Tremava ella, e tacea; languide intorno Volgea le luci pe'l deserto lido, Come chi chieda ai circostanti oggetti Una persona lungamente attesa, E tutta in quel disío l'anima intenda. --Oh! che chiedi a le mute ombre, che chiedi Ai sordi astri, o fanciulla? Aprica e morta È questa piaggia, e non ha fronda o fiore; Crudo e vorace è il mar: vecchio omicida Ei s'accovaccia ne la calma; infiora D'albe spume gli abissi; ignudi e belli Manda intorno a danzar silfi e sirene, Che funesta han la voce; alita un cheto Sopor sovra le sue vittime; e quando Più sicure esse van sognando il lido, Sbuca fuor dagli agguati orrido, e caccia Su le rotte acque a gavazzar la morte. Oh! che chiedi a la terra, al mar che chiedi, Sconsolata fanciulla? Ha stelle e fiori, Stelle e fiori ha il cor mio! Se amor tu chiedi, Vieni, il cor mio ti dò; vieni, e saranno Pe'l tuo morbido crin tutti i miei fiori, Pe'l tuo picciolo cor tutte le stelle!-- Tremava ella, e tacea. Pallida e mesta Cadea la luna; impallidía la bella Sospirosa al partir; tendea le braccia Egli, e gemea: --Deh! non fuggir, t'arresta! Son de l'amor, son tue l'albe dei cieli; Tue son le perle del mattin; tue sono L'armonie di quest'aure; è tua la vita! Vieni, vieni con me, vivi, e trïonfa Dentro un raggio di Sol, dentro i diffusi Regni del mio pensier! Da le voraci Onde non io le tue candide membra, Non io la tua beltà tolsi agli abissi, Perchè deserta, in peregrina stanza, Ospite de le fredde ombre ti aggiri; Nè alfin la morte al voto mio t'arrese, Perchè al tornar de la dïurna luce La negra terra ad abitar tu scenda. No, non fuggir! Nè il suol, nè il mar, nè il cielo, Nè la morte ti avrà: l'amor ti spira Vita più bella, ed a l'amor vivrai!-- Dicea, come piangesse, e facea forza Di caldi amplessi e di sospiri al fato. S'alza fra tanto il sole; ed ei su'l petto L'aure fugaci e il suo dolore abbraccia. --Sorgi dal tuo dolor; cingi la veste Degli ardimenti tuoi; di cose e d'opre Non di futili sogni amor si pasce. Opra incessante è Amor: vita a l'inerte Polve non spira ei già, ma su l'inerte Polve l'onor d'illustri fatti accende. Non vedi tu qual turbine di guerra Del provocato Reno agita i lidi, E, al suon de le fatali armi di Brenno, Tutte d'Europa impallidir le genti? Mai viste imprese il Sol vedrà. Dai campi Fulminati di Mario, ombre feroci, Sorgon Teutoni e Cimbri, e infiamman l'ire Dei nepoti d'Arminio. A gran tenzone Due glorïosi popoli prorompono Come oceàni. Mugola dai fondi Tenebrosi la Senna; e da l'inulto Elba i carri fulminei a le vegliate Mura di Faramondo Arminio avventa. Sorgi; uom folle è colui che l'alma e il braccio Spreca in vôta fatica: a lui sembianti Fûr di Dànao le figlie; uom saggio e forte L'opra non gitta ad impossibil cosa!-- Sentì la voce del suo spirto, e il core De l'Eroe fiammeggiò come un'ardente Voluttà di battaglie. Il sommo attinse De l'ondìsone Ardenne, e quinci e quindi Le due genti mirò. Pari a procella, Che su'l mar piombi, le Borussie querce Lascian le congiurate aquile al cenno Del germanico Giove: immenso, orrendo Mandan lo strido al ciel; scoton gli allori Trïonfati in Sadòva; e un'omicida Smania di pugne in tutti i cor si desta. Quanti dal borëale urto sospinti Sovra il campo del mar rotano i flutti, Tanti e alteri così levansi i figli De la rigida Odèra; e quei vi sono, Che fermezza di membra e d'alma han pari A l'Ercinia materna alpe, e l'audace Sassone, che nel freddo Albi s'infianca, E il fedele ai suoi re Bavaro, onore Dei Vindelici piani; e quanta forza Di strenua gioventù fra la superba Vistola e il serpeggiante Emo si accampa. Da l'onor di sì forte oste precinta, Splendida come Sol, move la possa Di Brandeburgo. Rigida e severa L'augusta diva del pensier vien seco: Prestantissima dea, che da le fredde Mute vigilie, onde le cose indaga, Vien de l'opre al fragor, però che vano Senza l'opre è il pensiero; i radïosi Regni abbandona e il puro ètere, dove Son l'ignude sostanze, e a le nebbiose Noriche selve, ov'ha più fidi altari, Accorre, auspice dea; popoli e prenci Duci ispira e guerrieri; inconsuëte Armi rivela, ordigni nuovi appresta, Terre esplora e nemici, e grande e prima Sfida la morte, e del trïonfo è certa. Udì il suon di tant'armi, e tremò in core L'avoltoio d'Asburgo: il sanguinoso Occhio, ove l'onta ardea di due sconfitte, Rotò; scosse le cionche ali; ma rotto Mirando al piè l'antico scettro e il brando, A satollar l'ira e la fame, il rostro Nel cor de l'adescato Ungaro infisse. L'udì la borëal Dania, feconda Genitrice di popoli, e ne l'armi Tutta si strinse, e balenò. Nel fermo Petto una tempestosa ira le rugge Contro al superbo assalitor di genti, Che, di numero prode e di cor vile, La sconfisse nel sangue; i palpitanti Visceri le cercò; chiamò la belva Dormitante su l'Istro; e su le offese Sedi di Sondemburgo, orridi in vista, Piombare entrambi, e s'imbandîr la dape. Ma nel cor non tremò, non trasse il brando A far più salda la ragion dei forti, La glorïosa Itala donna. Assisa Su la sponda regal d'Arno, secura Ne la fortezza sua, le genti e l'opre E la fugace ora propizia e il fato Sagacemente interroga; compone Le impronte ire dei figli; obliga al giogo Del suo voler le avverse anime; affrena L'empia licenza popolar; flagella L'ambigua turba, che nel dubbio annida; Spregia il frollo garrir dei suoi tribuni, Cui legge è l'ira e sola patria il ventre; E, men d'acciar che di giustizia armata, Sul petto al vil Giudeo pianta il suo trono. Dentro la cerchia de le mura antiche Non si contenne il valor Franco. Al grido Del vandalico orgoglio, ai provocati Campi volò, primo volò, nè volle Misurar l'armi e interrogar la sorte. Aquila, che dal curvo etere mira Disertar su la negra alpe i suoi nidi, Gli accorti agguati e le fulminee canne Del cacciator non sa: piomba da l'alto Con terribile strido, e pugna, e muore. --Dove corri, o fatale aquila, al lampo Del glorïoso tricolor vessillo Lucifero gridò; figli de l'armi, Dove correte voi? Grido di oppressi Non vi chiamò, non amor patrio accese Tanto vampo di guerra: inclita e grande Sovra il trono del mondo alto si asside La patria vostra, e sol co'l nome impera. Chi snudò prima il brando? Il fier consiglio Da che labbro partì? Chi le secure Aure turbò di tanta pace, e immerse In un mar di perigli il luminoso Trono di Lui, ch'à di saggezza il vanto? Fu la malnata Idra del vulgo, il destro Livor dei vili. Abito assunse e volto Di libertà; con tumida parola Provocò le dormenti ire; commosse Con sonante lusinga il cor dei forti; Piaggiò con prostituta arte l'oscena Turba armata di lingua e di cor nuda; Ma dentro a la bugiarda alma un'obliqua Ambizïon fea nido, e sotto al manto Involava a mortal guardo il venduto Stilo di Ravagliacco e il cor di Giuda. Così strisciando tortuösamente A l'aureo cocchio arrampicossi, dove Sedea, temuto Automedonte, il senno Del fatal Bonaparte. Ei nei dorati Mòrsi reggea l'intempestiva foga Dei volanti cavalli, e parea Febo Portatore del giorno. A lui, da canto Quella furia si assise; un sopor lieve Gli suäse ne l'alma; oscurò il lume Dei veggenti consigli; ond'ei le forti Redini rallentò su le spumanti Briglie dei corridori. Un urlo mise L'empia gorgòne; in piè balzò; disperse Co'l freddo soffio le veglianti cure, Che custodían con cento occhi al governo, E da l'altezza dei lucenti alberghi Per la lubrica china i fieri alipedi Abbandonò. T'arresta, empia e mentita Furia! E tu, se alcun raggio anco ti avanza De l'antica virtù, se t'arde ancora L'onor di Francia e la tua gloria i polsi, Sorgi, e tuona il tuo nume, o sir dei pronti Accorgimenti e de le pronte spade! Sorgi; a la furibonda idra le cento Creste conculca; e a quella rea, che il freno Con falsi nomi a l'oprar tuo contende, La man caccia su'l volto, e la sbugiarda! Ahi! che al vento io favello! Armi, armi, grida Dal mar britanno a la regal Pirene Ogni gente, ogni petto; orrido io sento Il fragor de la pugna; e quando a mille Divora i prodi la fulminea morte Su le ripe contese, una linguarda Turba su le fraterne ossa s'impanca, E al vinto insulta, e al vincitor si arrende!-- CANTO OTTAVO. ARGOMENTO. La catastrofe di Sédan.--L'ombra di Turenna e la resa.--Lucifero entra in Parigi.--La babilonia delle gazzette.--L'assedio.--Gloria ed obbrobrio a chi spetta.--Un generale francese, trasformato in asino, è condotto al macello.--I Prussiani entrano nella città.--L'allocuzione del proletario.--La colonna Vendôme.--L'ombra di Federigo.--La petroliera.--Allo spettacolo di tanti eccidî Lucifero si parte, non senza dubitare un istante del suo trionfo. Io l'ho visto cader, morir l'ho visto L'aquila dei trïonfi, il fior dei forti; Tutto sbucar di Teuta il popol misto Da l'empie selve e dominar le sorti; Correr, non pago, oltre il fatal conquisto, Straziar le genti e gavazzar sui morti; Piegar la fronte a l'ultime sconfitte L'inclito Sir de le falangi invitte! O sventura, e fia ver? Caduto in fondo Di rea fortuna, che non tien mai fede, Il gran popol vedrem, che, a niun secondo, Di Quirino parea l'unico erede? Colui vedrem, che impallidir fe' il mondo, L'armi chinar d'un vincitore al piede? Al piè d'un vincitor, deposte in guerra, L'armi, che già dettâr leggi a la terra? Ahi! così non solean rieder dal campo Sotto duce miglior di Francia i figli! L'afro Leon lo sa, cui nullo scampo Fûr l'arse arene, e poca arma li artigli; L'Istro lo sa, che, di lor pugne al vampo, Abbondò al mare i flutti suoi vermigli; Lo san le valicate alpi, lo sanno L'ispido Scita e il mercator Britanno; E il sai tu pur, che là su' fumiganti Campi di Iena fulminato e fiâcco L'orgoglio tuo vedesti, e lordi e infranti Di Torgravia gli allori e di Rosbacco. Ov'è, Francia, quel brando? Ove quei tanti Prodi? È fatto ogni cor molle e vigliacco? Sol di lingua son prodi i figli tuoi? Vincer non san, morir non san gli eroi? Morir volean, tutti morir! Dai colli Cari a la Mosa, ove Turenna nacque, Ruïnavano a morte, e facean molli Di strage i campi, e rosse e gonfie l'acque. Pallido, in suo dolor chiuso, mirolli Il Sir de l'armi, ed aspettando tacque; Vide la morte, e con terribil gioia Spronò il destriero, ed esclamò: Si muoia! E s'avventò. Da le sonanti Ardenne Lucifero lo vide. Allora a un punto Di Turenna balzò l'Ombra, e il rattenne, Gridando: Il dì fatal non è ancor giunto! Si volse il duce, il fier caval contenne, D'ira non men che di stupor compunto, --E, tu chi sei? sclamò: sotto ai miei sguardi Cadono i prodi, e non vuo' giunger tardi. Lasciami, sgombra: a la battaglia il loco, La speme al petto, al dir l'ora già manca; Mi assegna il fato un breve istante, e poco Forse è a morir, ch'anco la morte è stanca. Mira; in un cerchio di strage e di foco Ne serra il vincitor da destra a manca; Pria che cedere a lui questa mia spada, Lascia ch'io pugni, ed imperando io cada!-- --Non è ancor tempo di morir, riprese L'Ombra, e negli occhi balenò; gagliarda Alma non ha chi de l'avverse imprese Non sostien l'ira, e ad avvenir non guarda. Uom, che a ferma virtù tutt'opre intese, Spregia il fulgor d'una virtù bugiarda; Cede, non fugge; e innanzi ad empia sorte Viltà è la fuga, ed è fuga la morte. Non io, che la superba alma fiaccai Ne le mobili Dune al fermo Ibero, Non io, quel dì che il mio destin mirai Di Marindàl sui piani avverso e nero, Piansi perduto il mio nome, o spronai Negli abissi di morte il mio destriero; Ma tenni fronte al fato reo; mi accinsi Ad imprese più belle, e venni e vinsi. Cedi così. Nè libero, nè solo, Come al comando, oggi al morir tu sei: Di generosi petti inclito stuolo Pugna ai tuoi fianchi, e tu salvar lo dèi. Freme la patria tua, che mira al suolo I figli suoi; questi almen serba a lei; S'ella ha piagato il cor, la fronte ha rossa, Abbia almen chi per lei combatter possa! Tu piega e va: la via del trono è chiusa; Sorge ne l'ira il popol tuo rubello; Gente vedrai, che lo tuo scettro accusa, Far tue vendette con l'oprar suo fello: Gente, che, al regno e a servitù mal usa, Predica in piazza, e traffica in bordello; Sovrani, che saran servi al più destro, Frolli eroi da polenta, o da capestro!-- Disse, e ridendo un cotal riso altero, Sporse le labbra, e ottenebrossi in volto, E ratto s'involò come il pensiero Dove il nembo di morte era più folto. Stette il Duce, ondeggiò, tacito e fiero Girò lo sguardo, in mar di dubbî avvolto, Quando tra l'armi e il fumo e i morti e l'ira Nuova vision, nuovo portento ei mira. Cheta pe'l mar d'Atlante irto di scogli L'isola illustre al suo sguardo apparío, Splendida del fulgor di mille sogli, Riverita sì come ara d'un dio: Ivi, fiaccati a' Re l'ire e gli orgogli, La fortuna posò del suo gran Zio, Simile al Sol, che da l'eteree tende In grembo a l'oceàn placido scende. --Salve, allora esclamò l'alma dubbiosa, E consolata al ciel la fronte eresse; Han pur luce i tramonti, e glorïosa Voce di fama han le catene istesse!-- Tal disse, e a la guaína disdegnosa Il fiero acciar con man lenta concesse. Un'orribile voce allor fu udita: Reso è l'Imperator, Francia è tradita! --Chi di resa parlò? L'empia parola Chi proferì? Parola infame è questa! Finchè una spada è in pugno, un grido in gola, E guarda una pupilla, e un'alma è desta, Finchè un palpito al cor, finchè una sola Stilla di sangue ed un respir ne resta, Vil, chi deporre il brando ai prodi indìce, Traditor chi il suäde, empio chi il dice!-- Così fremeano i prodi. Immenso, orrendo Ne la vittoria sua Teuta procede, E i vinti eroi, che maledían morendo, Strazia co'l ferro, e calpesta co'l piede. Piega intanto il vessil franco, e tremendo Piega, e fiammeggia, e n'ha stupor chi il vede; Piega, si avvolge, al suol lento declina Qual cometa, che volga a la marina. Al fero, indegno, inusitato aspetto Urlano i vinti; e qual leva le braccia, Qual rompe il brando, e dal ferito petto Strappa le bende, e fra' morti si caccia; Chi tra gli estinti, su' gomiti eretto, Leva in fiero e sdegnoso atto la faccia; Chi schernisce al suo duce, e con amara Voce gli grida: A morir, vile, impara! Mandò allor la francese aquila un grido Alto così che ne rimbomba il cielo; L'ale staccò da lo stendardo infido, Le scosse a l'aria, e ne fe' agli occhi un velo. L'udì il Borusso, e il trïonfato lido Guardò geloso, e sentì al petto un gelo; Da l'ardua rupe, ove sdegnoso stassi, Lucifero discende, e volge i passi Pensieroso colà, dove l'irata Aquila artigliatrice il vol protende; Ov'ebbra di vendette e di peccata La fortuna di Francia alza le tende. Mille de la fatal Senna a l'entrata Trova l'Eroe strane chimere orrende, Sfingi fallaci e sozze furie immani, Mostri di cento bocche e cento mani. Vede la Ciarla in pria, gonfia e linguarda Furia fra quante mai vivono al sole, Che l'Assurdo brïaco e la bugiarda Fola al mondo lanciâr, turgida prole. Molta a lei diè l'Error stirpe bastarda D'anfibî mostri e tumide figliuole, Che, nutrite di fango e di vendette, Nome portan di gazze e di gazzette. Ruzzan torbide intorno, e son cotante, Sì varie son di fogge e di favelle, Di color, di costume e di sembiante, Che tante voci non udì Babelle: Quante locuste ebbe l'Egitto, o quante Zanzare ha il luglio assai son men di quelle; E ciascuna di lor tanto un dì gracchia, Quanto un anno non fa corvo o cornacchia. Gracchiano tutto dì folte, importune, Voci e aspetti mutando e usanze e vie, E al latrar de le vaste epe digiune Aguzzan gli estri, e ruttan profezie: Apostoli da piazze e da tribune, Ch'àn di coniglio il cor, l'unghie d'arpie; Bolle, che, di livor gonfie e di ciance, Pensan coi labbri, e senton con le pance. Or lisce e chete, or bieche, ispide, incolte Non pur turban le vie, ma i sensi e i cori: Inquiete, ansanti, curïose, folte Corron, s'urtan le turbe a' lor clamori. Sorgono a mille intorno a lor le stolte Menzogne alate e i pallidi Timori E il cieco Ardir, che ne l'error gavazza, E il Dubbio inerte, e la Discordia pazza. Libertà v'è; su l'abborrita reggia Alza il suo trono, ed al caduto impreca: Trono di nubi, in cui siede e galleggia, E in tumide promesse il tempo spreca; Nebbiosa Dea, che, non che senta o veggia, Sorda alla legge, ed ai perigli è cieca; Tremenda Dea, che a l'armi a lei funeste Scudo oppone di frasi e di proteste. Turba sta intorno a lei, che in lei si sfoga, E d'idropiche ciarle impregna i venti, E onor, giustizia e fin sè stessa affoga In un mar d'aforismi e d'argomenti: Aërostati eroi, rabule in toga, Frontespizî di libri e cavadenti, Tutti saltati a l'imperar supremo Qual dal fòro mendace e qual dal remo. Vince intanto il nemico; e l'armi e l'arte Usa egualmente, e desta ire e litigi; Fra' trïonfi procede, e d'ogni parte Versasi, e irrompe a circondar Parigi. Pugnano ancor, benchè deluse e sparte, Le franche genti, e son tanti i prodigi, Che dir non puoi, se sia de' due maggiore, Chi pugna e vince, o chi pugnando muore. Ahi! miracoli vani! E che mai giova Disperato valor, cui manchi il forte Senno, che le falangi ordina, e a prova Le guida e regge a dominar la sorte? Già il vincitor superbo di Sadòva De la reggia di Francia urge a le porte, E l'accerchia, e la serra, e con orrenda Fame di strage intorno a lei si attenda. Etna così, quando dai fianchi immensi L'infocata trabocca onda vorace, E di sabbie infiammate e zolfi accensi I campi opprime, e l'aria accende e inface, Al povero pastore, in men che il pensi, Cinge di fiamme il campicel ferace, E, fatta isola intorno a lui che fugge, Lento e crudel tutto divora e strugge. Muta e sdegnosa a quell'ardir nefando Stette Europa e guatò; stetter gl'infidi Regi, e nullo è di lor che snudi il brando, E pace imponga, e il dritto invochi, o gridi. Nè però il cor perdono i Franchi; e quando Men lungi è il male, ognun par che più fidi: Generosa fidanza, eroico inganno, Che l'alme abbaglia, e fa più grave il danno. Ferve il popol ne l'opre, e mai non resta Per mutar d'ore o per mancar di giorno, Ed armi e ordegni e vettovaglie appresta, E boschi incide, e spiana campi intorno; Di su, di giù, da quella parte a questa, Gente industre che va, che fa ritorno, E s'ingegna, e s'adopra a far sicuri Le contrade, le vie, le case, i muri. Fra cotanto agitar d'opre e di cose, Cui segue il canto e mai non giunge al vero, Ad accender vieppiù l'alme vogliose Il popolar rimbomba inno guerriero: Vecchi, infermi, fanciulli e madri e spose, Forti ne l'ira, ardenti in un pensiero, Mescon l'opre e l'ardir, l'anime e i carmi, E incuorano alla pugna, e veston l'armi. E rompendo talor, pari a torrenti, Fuor da le mura, a tanto ardor già strette, Gittansi in mezzo a l'avversarie genti, E scompiglian lor piani e lor vendette. Ben dei mille che uscîr non tornan venti, E rimangon le madri orbe e solette: Paghi son tutti, ove la patria possa Un riparo innalzar di scheltri e d'ossa. Quinci fulmina l'oste, e impiaga e uccide, E fiamme ai tempî, a le magioni avventa; Quindi fra le macerie alto si asside L'orrida Fame, e gli ancor vivi addenta; Quel che l'uno non può, l'altra conquide; L'un vince i corpi, e l'altra i cor sgomenta; Vola intorno la Morte, e in doppia guerra Le mura oppugna, e i difensori atterra. Pur, tra' morti e le fiamme, e dagli amati Ruderi, e dai men noti ermi recessi, Balzan novelli eroi, pugnan coi fati, E sembran dal valore i fati oppressi: O che pulluli il suolo armi ed armati, O fecondin la vita i morti istessi; O a difender la patria, integri e forti, Per miracol d'amor, tornino i morti. --Salve, o popol di prodi! A sorger primi, Primi a pugnar, soli a morir voi siete; Se fia che lo straniero oggi vi adimi, Egli avrà l'onta, e voi la palma avrete; Vestiti di valor, di gloria opimi A le più tarde età splendidi andrete, Sprone ed esempio ai generosi petti, Rampogna ai vili, obbrobrio ai duci inetti. Obbrobrio a voi, che con vostr'arte obliqua L'ire svegliaste del natal paese, E d'armi impari, in vana guerra iniqua, Lo abbandonaste a le nemiche offese; Obbrobrio a voi, che la temuta, antiqua Gloria offuscaste de l'onor francese, Pur che rotta la spada, e infranto e nero Giaccia il vessil de l'abborrito impero! Matricidi! A la patria, ai figli suoi, Qual frutto mai de le vostr'opre avanza? Duci, guerrier, francesi, uomini voi? Voi del suolo natio gloria e speranza? Capi senza cervel, scimmie d'eroi, Spugne gravi d'invidia e d'arroganza, Vernici di valor gonfie di vento, Molluschi in campo e tigri in parlamento! Oh! viva il nome tuo, viva il gagliardo Tuo braccio e l'alma a tutte prove invitta, Primo, solo, raggiante astro Nizzardo Fra tant'ombre d'obbrobrio e di sconfitta! Dove che fra le genti io giri il guardo, Ne la lor libertà tua gloria è scritta, Gloria miglior del buon sangue latino, Cui sollevo il pensiero e il fronte inchino! Oh! viva, unico eroe! Di': quest'altera, Cui voti il braccio e il vasto animo e i figli, Colei non è, che a la sorgente e fiera Lupa de la Tarpèa ruppe li artigli? Colei che fulminò la tua bandiera, E fe' i campi del tuo sangue vermigli? Colei non è, che la tua patria inulta Co'l piè calpesta, e a la tua spada insulta? No'l chiede ei già: d'un gran popolo oppresso Balenan l'armi e il grido al ciel rimbomba; E dal guardato suo scoglio inaccesso Tremendo irrompe, e il brando snuda, e piomba; E, vincendo del par gli altri e sè stesso, Al superbo oppressor schiude la tomba; Dal trono de l'error balza i potenti; Dà spada al dritto e libertà a le genti!-- Così dicea l'Eroe, quando una strana Vista mirò. Tratto al macel venía Uno zoppo asinel, che in voce umana Tapinavasi invan lungo la via. Folta era intorno a lui la disumana Turba, che il morso del digiun sentía; E qual dicea ch'alto miracol fosse, Chi d'insulti il pungea, chi di percosse. Sordo da tanto urlar, da' picchi infranto, E più dal senso del supplizio atroce, Il poverel movea simile a un santo, Che tra fieri Giudei porti la croce. Con l'orecchie dimesse, in suon di pianto A intenerir la turba alza la voce, E ragli emette ora profondi or fini, Ch'àn l'armonia dei versi alessandrini. L'Eroe gli si fe' presso, e de la doppia Sua bizzarra natura interrogollo; Quei leva il muso, allunga gli occhi, addoppia I sospiri, e fa il greppo, e scote il collo; E poi che ragli e pianti e voci accoppia, E di tanto preludio ha il cor satollo, Digrigna i denti al ciel, gli occhi al ciel fisa, Batte la coda, e parla in questa guisa: --Uomo già fui, nè de la plebe: amici Pria m'ebbi i fati; ai marziali ardori Fei campo il petto, ed ai ben posti uffici Non fûr tardo compenso i dolci allori. Francia è la patria mia; contro ai nemici Guidai gli altri e me stesso ai primi onori, Fino a quel dì che prigionier si rese Nei campi di Sedàn l'Augel francese. Mi resi anch'io; ma con arguto ingegno Ruppi la fede, e il Prusso irto delusi: Fuggo, i campi divoro, e qui ne vegno Per la patria a pugnar; chi vuol mi accusi. Già s'appressa il nemico, e d'aspro, indegno Feroce assedio i nostri muri ha chiusi; Io vittoria prometto, e, oh! poco accorto, Ritornar giuro o vincitore o morto. Fuor proruppi, e pugnai; ma, com'è vero Ch'asino or sono, io fui sconfitto e vinto; Morir tosto pensai, ma in tal pensiero Tremai, gelai, fui per cadere estinto; Quando rinvenni dal terror primiero, Qui mi trovai d'una vil turba cinto, Che gridava, insultando al mio dolore: Ritornar giuro o morto o vincitore! Allor, gelo in pensarlo, io non so come, Tutte raccapricciar le membra sento; S'alzan lunghe l'orecchie in su le chiome, E allungasi la testa, e cresce il mento; Stendesi su pe'l dorso e per l'addome, Questo cuoio abborrito in un momento; Pendono a terra ambo le mani, e ognuna In un zoccolo vil si chiude e aduna. Credo sognar, cerco fuggir, me stesso Fuggir che ognun, segno d'obbrobrio, addita; Ma batter sento in suon quadruplo e spesso Sul percorso terren l'ugna abborrita. Sorge il sole, e dinanzi, a fianco, appresso, L'ombra fatal veggio al mio corpo unita; Rizzar mi vo', ma star dritto non vaglio; Vo' domandar soccorso, e metto un raglio.-- Tacque, e poi che più fiera al fiero caso L'affamata canaglia urla e s'avventa, Da superbo furor l'animo invaso: --Vil turba, esclama, or le mie carni addenta!-- Nè briciolo di lui saría rimaso, Se l'opra del Demonio era più lenta; Ei la turba contiene, e la captiva Bestia discioglie, e vuol che soffra e viva. --Viva, egli dice; e dal suo tristo esempio Quindi a far senno ogni francese impari; Oh! se ognun dei suoi duci, o inetto od empio, Forma assumer dovesse a costui pari, De la patria non più traffico e scempio Farían, come finor, volpi e somari; Che tosto ognun conoscería le vecchie Golpi a la coda e gli asini a l'orecchie.-- Sorse un grido in quel punto. Il popol forte, Da l'armi oppresso e da la fame infranto, Schiude al superbo vincitor le porte, Che a quest'orrido aspira ultimo vanto. Egli entra, ei passa: è suo trofeo la morte, Suo cibo il sangue, sua letizia il pianto; Piega il ginocchio, e, crudelmente pio, Chiama a le stragi sue complice Iddio. Fan monti i morti; a rivi, a fiumi ondeggia Per le rigide vie torbido il sangue; Qui crolla un tempio, una magion fiammeggia, Là un incendio che sorge, uno che langue; Là un ebbro vil, che a lo straniero inneggia, Qui un eroe che ancor pugna, e cade esangue; Ed armi infrante e sparse membra ed adri Globi di fumo ed ulular di madri. Ahi sventura, ahi dolor! Stupido e folle La polve degli eroi Teuta calpesta: E sul terreno ancor fumante e molle La fiera Idra plebea scote la testa; Drizzasi e fischia, e le non mai satolle Fauci spalanca, e l'aria intorno infesta; E su la fossa dei fratelli inulta La civile Discordia orrida esulta. Sorge il vil proletario, e l'empia ed adra Ambizïon la tôrta alma gli addenta; Libertà invoca, e la man ferrea e ladra Ne le sostanze altrui superbo avventa. Fa tribune le piazze, ed orna e squadra Fiere dottrine, e novo dritto inventa; E scapigliato, in truce atto di sfida, Snuda il pugnal, chiama le plebi, e grida: --Lasciate le servili opre; le glebe Abbandonate; il profetato giorno Giunto è per noi, che come abiette zebe Digiuni erriamo a le ricchezze intorno! Vendette abbia e trïonfi anche la plebe, Nè di sua servitù vada altri adorno; Non più sparga sudor, sangue ed affanni A crescer l'onta e ad educar tiranni! No, non sparga, per dio! L'antiche some Gittiamo alfin, leviamo al cielo il volto! Le terre, il tetto, il pan, l'onore, il nome, Tutto i vili patrizi hanno a noi tolto! Ci hanno emunte le vene; infrante e dome Le virtù, stôrto il senno, il cor sepolto, Fatto de le nostre ossa argine e scudo Al petto vil d'ogni giustizia ignudo! Ov'è la patria nostra? I nostri figli Ove son mai? Ce l'han tutti rapiti; L'han trascinati fra' nemici artigli, Carchi l'han di vergogna, e l'han traditi! Geme un popol fra' ceppi e fra' perigli; Essi spandon sui morti onte e conviti; E le nostre deserte, orbe contrade L'orgoglioso stranier devasta e invade! Oh! sia fine a l'obbrobrio! Alta vendetta, Anzi onor di giustizia il tempo chiede; Tale un'opra da noi la patria aspetta, Che le dia ferma in avvenir la sede. Cada il patrizio altèr; cada interdetta L'aurea fortuna, ond'ei si tien l'erede; E, partiti ugualmente i censi avari, Con noi soffra o s'allieti, e a noi sia pari! --Pari sian tutti a noi! Con legge uguale Il benefico Sol dispensa a tutti Il vivifico suo raggio, ed uguale Splende, sì come il Sol, l'anima in tutti. Tal sia la legge e la giustizia! Uguale A tutti ognuno, e uguale a ognun sian tutti; Tutti un nome, un pensier, tutti un'insegna: Il popol Dio, che a Dio somiglia, e regna!-- Tal parla; e come al boreäl flagello Mugghian negre le nubi, e il mar si sfrena, A l'audaci promesse, al parlar fello Freme la turba, ed urla, e si scatena; Dà piglio a l'armi; al vero, al giusto, al bello Guerra incomincia inesorata e piena: Quel che a l'ira fuggì de l'armi infeste, Cieca nel suo furor, travolge e investe. Com'è colui, che, d'improvviso ossesso Da bieca furia de la mente insana, La man, vana in altrui, volge in sè stesso, E le proprie sue carni adugna e sbrana; Il superbo così popolo oppresso, Poi che su l'oppressor l'ira fu vana, Ebbro d'odio feroce e di dispetto, L'armi ritorce de la patria al petto; E così ne la strage infuria, e immerge Nel delitto così l'anima prava, Che le macchie del sangue il sangue asterge, E l'uno error l'altro disperde e lava: Tutto vorría quanto risplende e s'erge Spegnere ed adeguar la turba ignava;. E d'ogni mal, d'ogni miseria in fondo La patria seppellir, la Francia, il mondo. O dal tempo e da l'armi invïolate Moli, d'invidie oggetto e di stupori, Ove accolser le industri Arti onorate Tante illustri memorie e tanti allori, O tempî de l'uman genio, crollate, Date campo di stragi ai vincitori; Già su voi la fraterna ira si sferra: Titani, eroi, numi de l'arte, a terra, A terra tutti! A la possente e nova Aura di libertà, che altera incede, Tremi dal trono suo Fidia e Canova, E s'umilî del gran popolo al piede! Al gran popol la molle arte non giova; All'oro, al sangue, e non all'arte ei crede; Degna luce per lui, ch'ai numi è pari, Gl'incendî son, son le rovine altari! Tu, colonna fatal, ch'ergi l'altera Testa agli astri e co'l piè Francia calpesti, E di rampogna tacita e severa Le loquaci dei vivi alme funesti, Crolla tu pur, bronzea colonna, e fiera Su le rovine tue Francia si desti, Si desti alfin; scoperchi i freddi avelli, Schiaffeggi i padri, e il nome lor cancelli! Ecco gli eroi. D'intorno a quel gigante Trofeo di gloria, per lo piano immenso, Vario di cor, di lingua e di sembiante, Corre, brulica, ondeggia il popol denso. Già s'alza a l'aura il vessil trïonfante Tinto nel sangue e negl'incendî accenso; E a tal segno di strage e di vendetta S'allieta il volgo, e il fatal crollo aspetta. Sta superba frattanto e indifferente La colonna regal, pur come suole, E del purpureo suo raggio occidente Tranquillamente la saluta il sole. Tranquillo a par sorge il Guerrier possente, Che l'altera sovrasta inclita mole; E di ghirlande glorïose onuste Spandon l'ale tuttor l'aquile auguste. S'ode un bisbiglio; al fiero assalto muovono Gli ardui congegni; al ciel stridono; imbianca Ogni volto; tentenna in su l'aërea Reggia il Guerrier, piega da destra a manca; Piega, balena; con fragor terribile, Che il cielo assorda, ed ogni cor disfranca, Cade, non già, ma su la rea canaglia, Stanco di più soffrir, scende e si scaglia. Trema la turba, e come avesse al dorso De l'incalzante eroe l'ira e la spada, Urla fuggendo, e l'ali impenna al corso, E l'uno, avvien, che a l'altro inciampi e cada. Frenate, o prodi, a la paura il mòrso; Volgi la faccia, o terribil masnada; O Erostrati, o tribuni, o genti indôme, Non è un uom, che v'insegue, è solo un nome! L'uom dei fati è colà: disteso, avvolto Di negra polve, nel deserto piano Poco ingombra di terra, e gli occhi e il volto Vinti ha nel bronzo, e inerte è la sua mano. T'accosta a lui; vittorïoso e folto Corri a l'insulto, o gran popol sovrano; E dir possa ciascun, se tanto egli osi: Su'l fronte a Bonaparte il piede io posi! Soli a l'oltraggio non sarete! Esulta Dai vigilati balüardi il fiero Nemico, e applaude a l'opra vostra, e insulta A la caduta del fatal Guerriero. Da la polve di Iena, or non più inulta, Balza un popol di scheltri orrido e nero; E su l'immago de l'eroe nemico Poggia l'Ombra regal di Federico. Sorge orgogliosa, e il ciel torbida e grande Prende co'l capo, e al negro aere torreggia, E le rotte al suo piè bronzee ghirlande Conculca, e dai profondi occhi fiammeggia. --Ch'io vi cancelli, esclama, orme esecrande De la vergogna mia; ch'io più non veggia Vôlti in trofei, cangiati in monumenti Questi bronzi rapiti a le mie genti!-- Dicea, quando pe'l ciel rigido e scuro Un sinistro baglior sorge e risplende, E un piceo fumo, un odor crasso e impuro Gli occhi travaglia, ed il respiro offende. Ahi! qual cagion, qual destino empio e duro Di nuova rabbia i franchi petti accende? Tra le fiamme sepolta e la rovina De la Senna cadrà l'alma regina? Torna il dì. Sola sola, incerta, oscura, D'un rosso nastro il crin sozzo costretto, Le vie trascorre una strana figura, Guardinga agli atti, agli sguardi, a l'aspetto; Muta, veloce rasenta le mura; La destra invola furtiva nel petto; Sogghigna, ammicca la strada romita, Fermasi, brontola, fugge, è sparita. Ma dietro ai suoi passi, trascorsa appena, Un suono scoppia di grida e di pianto; Fra dense nubi l'incendio balena, Stride, si spande da questo a quel canto; Essa a la danza gli stinchi dimena, Cionca co'l lurido suo drudo intanto, Con pazzo volto, con gioia feroce, Salta, e lingueggia con stridula voce. Vide le fiamme e l'ultimo periglio Lucifero e l'orrende ire e il gran lutto, E, lo sdegno nel petto e il pianto al ciglio, Fuor dei lidi infelici erasi addutto. Qual uom che muova a volontario esiglio Di fieri casi e di giust'ira istrutto, Tal ei si parte, e la diletta e grama Terra saluta, e dolorando esclama: --Dove ti cercherò, se qui non sei, O intemerata e splendida Reggia dei sogni miei? Luminosa Ragion ch'ardi e ravvivi Ogni terrena cosa, Se qui non regni, in qual region tu vivi? Pur io da l'abborrite ombre ho veduta La maestà dei tuoi passi e la luce, Che dai vigili, acuti occhi tu spandi Sovra il mar dei destini; io l'amorosa Voce ascoltai, che l'anime riduce Agli amplessi del Vero, io la solenne Voce di libertà, che a voli arditi Del pensiero de l'uom sferra le penne. Di tenebrosi troni e di ferrati Gioghi e di fronti umilïate e vili Lieta non vai, bella non vai di fiori, Che di pallidi servi il pianto edùca; Nè tuo serto è il terrore. Inclita e ferma Tu ne l'alme ti assidi, e l'alme e i fati Previdente governi. Ardon nei tuoi Limpidissimi sguardi Quante spemi ha il futuro, e quanti ha raggi L'onnipossente libertà, ch'è dono Tuo primo e non caduca Gloria di umani e tua miglior parola. Tu di sensi gagliardi Le umane alme alimenti, E sè stesse a sè stesse insegni e sveli, Perchè libere alfin corran le genti A la vittoria di più fidi cieli. È sogno il mio? M'illude, Vôto fantasma, il desiderio, e fingo Larve di spirto ignude? Dai ciechi abissi invano A combatter con Dio l'ultima pugna Sorse il mio spirto? Ombra incompresa, ignota Correrò questi lidi, infin ch'io piombi, Fulminato Titano, A divorar ne l'ombre il mio dolore? Ne l'ombre io tornerò? Quest'infinita Luce, che il mio pensier valica e pasce, Questo perpetuo fluttuär di cose, Quest' impeto di vita Non son mio regno e vita mia? Non sono Consorti mie le mobili Genti, cui la vital morte rinnova, Come opportuna piova, Ch'apre la terra, e svolge La ritrosa virtù del germe inerte? E tu, tu che le incerte Nubi diradi, ed ogni ben mi sveli, Santa Ragion, tu indarno Entro al petto de l'uom levi il tuo trono? O forse ai regni tuoi, Diva maggior, presiede La tiranna Natura, O, sconsigliato e inutile Poter, che ne le ignare anime hai sede, Fuor che altere lusinghe, altro non puoi? Che dissi? Il dubbio indegno Sperdano i venti, e il mar vorace inghiotta! Qui sei, qui regni: io sento, Unica dea, la tua presenza in questa Splendida reggia degli umani affanni. La terra è tua; su' simulacri infranti Di sbugiardati iddii sorge la possa Dei regni tuoi: da fiere alme son còlte Le tue leggi inconcusse, e fermi e santi Di perenni olocausti ardon gli altari, Che cementan co'l sangue i figli tuoi! O generosi, o cari Apostoli, o gagliarde ostie ed eroi, Voi non cadeste indarno! Ecco, su queste Ingombrate di stragi inclite rive La nova alba diffondesi D'una sorgente età; spiran le meste Genti educate dal dolor le vive Aure di libertà; vigili e pronte, Di fieri casi esperte, Al sorriso del Vero ergon la fronte; E dal sangue fraterno, onde coverte Son queste piagge illustri, Coronata di lauri e di baleni Tu balzi, o dea; chiami la Pace, e vieni!-- CANTO NONO. ARGOMENTO. Curiosità dei Celesti e pietosa supposizione dei santi inquisitori alla vista dell'incendio di Parigi.--Pettegolezzi divini.--Profonda risposta di Dio; e confidenze che egli fa a santa Teresa; che perde improvvisamente la ragione.---Lucifero, che ha lasciata la Francia, veleggia per l'America.--Apostrofa alla Spagna.--Arriva nel nuovo mondo.--Saluto alla libertà, madre di civili istituzioni.--S'interna in una foresta, di cui si fa la descrizione, e conversa con una scimmia, che pretende esser sorella del genere umano. Con quest'alte speranze e queste cure Si partiva l'Eroe, mentre più vasto Per la rigida notte infurïava, Turbinando, l'incendio. Arder parea La terra intorno, e correr sangue i fiumi, E, ad ingoiar tant'ira e tanti affanni, Come abisso di morte, aprirsi il cielo. Sentîr le fiamme inaspettate e il lezzo Dei feroci olocausti, e balzâr tutti Fuor del sonno i Celesti, a quella guisa Che sbucan da le pingui arnie ronzando Le pecchie industri, allor che il dispettoso Villan, che con obliquo animo guarda Al prospero vicin, l'aride ammucchia Secce del campo, e presso agli alveari Gitta la fiamma e, pago il cor, s'invola. Sorser così l'alme beate, e primo Al veroni del ciel, trepido, ansante Di recidiva voluttà, la via S'aprì quel di Gusmano, un tra' più forti Zelatori del Cristo, e:--Li han bruciati, Li han bruciati? dicea; son tutti rei, Tutti eretici son; di roghi ha d'uopo, Sol di roghi la terra!-- --Ah! ch'io li veggia, Gridava dietro a lui, feroce in vista Il terror di Toledo; e con aperte Nari spirava quella crassa, impura Mefite, che a le fiamme orride mista Gli astri avvolve di fumo e ammorba il cielo; Ch'io li veggia morir; ch'io l'odor beva De le ree carni abbrustolate, ascolti Il rantolo supremo, e sperda a' venti Con questa man la polvere esecrata!-- Sporge in tal dir la gialla testa, in cui Pochi, duri quai chiodi alzansi i crini; Schizza sangue dai tondi occhi; le adunche Scarne man vibra come artigli, e, tutto Tremito i polsi, la sanguinea bocca, D'un lungo, giallo e mobil dente armata, Fra la bava spalanca, e rauchi e fieri Urli interrotti da le fauci avventa. A l'aspetto feroce inorriditi Portan gl'innocui serafini al volto Le miti ali e le palme; e solo allora Che sentîro il clamor de le sorgenti Dive, si diêro a sogguardar furtivi Fra le dita e le penne. In simiglianza Di pingui anatre, allor che da l'erbosa Riva, ov'ebber più tempo ombre e pastura, Al subito apparir d'un orgoglioso Cigno, di laghi imperator, si danno Clamorose a fuggir; sbatton le brevi Ali pe'l lido, e tra le canne e i giunchi Del padule vicin tuffansi in frotta; Folte così, così confuse e punte D'improvviso timor sorser le dive Da le tiepide piume; e, tutta a un'ora La rigida modestia e il curïoso Sguardo dei circostanti angeli e il loco Dimenticando, fuor dai nivei pepli Libere consentían le rosee forme, Che, fresche, acerbe e roride sì come Pesche soavi che l'aurora imperla, Inducean le celesti anime a un senso D'indefinita voluttà. Le vide Da l'antico suo seggio il profetante Re di Sïonne, e abbandonata al piede Caddegli la vocale arpa; nel petto Fiammeggiò tutto; e già fuor dagli avari Occhi e fuor da le labbra avide il senno Senz'altro gli fuggía, se non che a tempo Sopravvenne il divin Padre, e d'un cenno Le impronte ansie ammorzò. Pensoso e stanco, Di sotto il braccio egli venía soffolto Da la diva Teresa: una vegliarda D'Àvila, ossessa da Gesù, che al vano Piacer, che le vulgari anime adesca, L'involò tempestivo; ond'ella, esperta Del futil gioco de la rea fortuna, Al suo divo amator l'alma concesse. Or fra gli astri ha dimora, e sacro in terra È il nome suo. Ringiovanita e bella, In pregio de le sacre estasi, al Nume Dilettissima vive, e a lui sorregge, Antigone pietosa, il passo infermo. A l'appressar del Dio, taciti arretransi I minori Celesti, e in duo partita S'apre la folla riverente. Un aureo, Morbido seggio ivi s'ergea: stupenda Opera di ricamo, in cui la diva Lucia, maestra d'ingegnosi uncini, Esercitata avea tutta ad un tempo L'ammirabil perizia. A lei ministre Furon le vigilanti ore, e compagna La rigida pazienza; e non di perle, O di rari smeraldi e di rubini La cara opra abbellì, ma, tutti presi I riposti, ozïosi astri dal fondo Dei forzieri di Dio, gl'infilzò a un refe Adamantino, e al divin seggio intorno Con sottile d'acciaro ago l'infisse. Ivi il Nume si asside; il formidabile Sopracciglio fatal tre volte inchina, Scote tre volte l'ambrosia canizie, Serra il valido pugno; e al cenno usato Svegliasi da le sante arpe il concento Dei melodici salmi. Apresi il varco Tra' folti angeli allor la previdente Brigida, e tutta rigorosa, in vista Di profetessa, al vecchio Iddio d'innanzi Piantasi; e il fren già già scioglie al facondo Favellar, che Gesù destale in core, Quando il buon Dio con subita rampogna; --Brigida, figlia mia, le dice, smetti Per carità l'antifona noiosa: La san perfino i paperi: i soldati, Che legaron Gesù, fûr centocinque; Gli sputi, ch'ebbe su la santa faccia, Novantadue; le prezïose stille Del sangue, che sul Golgota egli sparse. Due milïoni; centomila gocce Di sudor; cinque piaghe, oltre la sesta Rivelata al dottor di Chiaravalle... Ma, per pietà, finiscila una volta Quest'insulsa scilòma!-- Indispettissi A tal parlar la vergine Maria, E con umile sguardo e cor severo: --Padre, figlio, esclamò, suocero, sposo, In verità questo parlar non parmi Degno di voi! Che! non vi par ben fatto, Che si onori mio figlio? --E figlio nostro! Battendo l'ali e pipilando, aggiunse Il Colombo divin; Brigida a dritto Lo ricorda ai beati!-- --Aüf! rispose, Sorgendo a un tratto il bilïoso Iddio; Io non ne posso più di questo eterno Bisticciar fra di noi! Non son padrone D'aprir la bocca e darle fiato! Questa Divinità, che non è tre nè uno, Mi comincia a dar noia: un giorno o l'altro Me ne sbarazzo! I dii stan bene in caffo, E tre son troppi!-- Ammutoliron tutti A l'acerba parola. Allor lo sguardo Gittò il Dio su la terra; e poi che, a schermo Del raggio dei vicini astri, la mano Tremula pose tra la fronte e il ciglio, E affisò lungamente, un sospir trasse Dal cor profondo, e, in tuon grave e solenne: --Quello, disse, è un incendio!-- Al suon temuto De la voce di Dio restâro immoti Gl'immoti astri, ondeggiâr l'aure ondeggianti, E, pago il cor del rivelato enimma, Tornò ciascuno a le celesti alcove. Non però torna il re dei Numi, o al sonno Crede le membra, abbenchè lasse: in parte La più remota ei si ritragge, e seco Vien la scorta sua fida. In sui ginocchi Questa gli s'adagiò; tutto gli prese Fra le morbide mani il capo augusto, E il baciucchiò teneramente. Assòrto In un triste pensier nulla ei sentía La dolcezza dei baci; ond'ella in fronte Li astuti gli figgendo occhi d'amore: --Caro babbo, dicea, s'è ver ch'io leggo Nel tuo pensier, mesto sei tu. Pensoso E tacito così, mai non mi fosti Da parecchia stagion. Ti vien vaghezza Di sparger di novelli astri la faccia Dei firmamenti? Ebben, parla: al tuo detto Sorgeran soli e mondi. Arde i tuoi sdegni La superbia de l'uom? Fulmina: è tua L'eternità!-- Sorrise amaramente, Scrollando il capo, il divin Padre, e,--Acerbi Fatti, rispose, al mio pensier tu chiami, E quasi punta di crudel sarcasmo Tu ferisci il mio cor. Di sogni in sogni, Credula come sei, porta la fede La semplicetta anima tua; veleggi I cari regni de l'amor, nè sai Quanto abisso di morte e di dolore Sotto a questi vegghianti astri si celi!-- Punse tal favellar l'orgogliosetta Alma di lei, che tutti aperti e chiari I misteri del ciel correr presume, E, di vivo rossor la guancia accesa: --E che dunque, esclamò, questa mi vale Presenza tua, se al guardo mio si asconde Parte alcuna del ver? Veggente e diva Sol di nome son io, quando sostieni, Che, di tenace error l'anima avvinta, Qui in ciel, quasi mortal femmina, io viva!-- E a lei con dolce, carezzevol piglio, Palpando il collo flessuöso e il crine Rispondeva il buon Dio:--Già da gran tempo Io'l so, ch'ésca tu sei! Docile e buona Finchè si va a' tuoi versi, e ti si corre Dietro senza neppur farti uno zitto; S'apre bocca? si fiata? Ecco, senz'altro Tu mi prendi una bizza! Ah! ma la colpa È tutta mia! T'ho ridonato il riso Di giovinezza; il cor t'ho schiuso a' facili Vaneggiamenti d'un celeste affetto, Tutti inutili doni! Altro or tu chiedi Del mio paterno amor non dubbio segno? Legger vuoi nel destino? Ebben, mi ascolta!-- Smesse il labbrino, e radïò d'un riso La bellissima santa, e, poste al seno Con garbo puëril le braccia in croce, Si guardò, s'assettò, scosse la bruna Testa, a svïar dal fronte piccioletto La crespa ed odorata onda del crine, E tutta ne l'udir l'anima accolse. --Non sorrider così, cominciò il Nume Con sospirosa voce; occulta, orrenda Cosa io dirò, tal che nessun finora Ascoltò dei Celesti. Ah! s'altri fosse Di tal secreto e dei miei casi a parte, Rubellarsi vedresti al regno mio Le angeliche sostanze, e qual notturno Spirto d'inutil sogno irne in dileguo La mia superba autorità. Se dunque Di tanta confidenza oggi t'eleggo Secretaria e custode, e tu ten mostra Degna co'l seppellirla entro al tuo petto.-- Co'l tenue capo d'assentir fe' cenno La santa giovinetta, e portò al core La man picciola e bianca. Il guardo in giro Mosse il canuto Iddio; piegò la bocca Su l'orecchio di lei; la man distesa Fra la bocca e l'infida aria interpose, E mormorò:--Nulla son io, non sono Che un forte e secolare incubo, imposto Da la paura al sonnecchioso Adamo! Guai se si sveglia, guai!-- Balzò a tal detto, Come da subitano estro compunta, La dea, che bruno e inanellato ha il crine, E pallida, stupita, senza voce, Senza moto restò, tal che scolpita Immagine parea. Sciolse ad un tratto Al pianto insieme e a la parola il freno, E, battendosi il petto:--Ah! disse, è vero, Che Dio mi parla? E non è sogno il mio? Iddio tu sei? Desta e in me stessa io sono? O tremenda parola, ahi! s'è pur vero, Che udita io t'ho, che nel mio cor t'accolgo, Tosto in fiamma ti cangia, e questa mia Vuota sostanza incenerisci e annienta!-- Poi riprendea:--Tu non sei Dio? Non sono Opera di tua man questi diffusi Mari di luce e questo ciel?-- Tal suona La fama, è ver; ma in verità, te'l dico: Assai prima ch'io fossi erano i cieli.-- --Ma la terra, ma l'uom?-- --Tu accenni al loco Del nascer mio: l'uom, già mio servo, è fatto Di Lucifero alunno!-- --E a che dormenti Lasci i fulmini tuoi? Già nel terrore Terra e cielo avvolgeano.-- --Ha tal d'acciaro Il pensiero de l'uom scudo ed usbergo, Che le saette mie sfida e dispregia! Ahimè! vicino ai regni miei già miro Torbidi sovrastar gli ultimi soli! Già tapina esular di terra in terra Veggio tra le fugate ombre la Fede; Con flagello di foco insta, ed incalza Lucifero; lo scherno odo e il sogghigno De l'incredule genti; e s'io qui resto D'ozî vulgari e di silenzio avvolto, Qui tra poco vedrem superbo e forte Sorger sovra il mio trono il mio rivale! Tal parla Iddio, mentre a la pia fanciulla, Fra il disinganno incerta e la paura L'anima balza, e si scompiglia il senno. Tutta a un punto scomposta il volto e 'l crine Rompe in subite risa; il lembo estremo De le candide vesti in su la bella Testa rivolge, e così a mezzo ignuda, Una strana canzon canterellando, Per la reggia del ciel sgambetta, e ride. Molte fiate tornò limpido e lieto Su la terra il mattin; molti su' fiori Versò brine dal grembo e rai dal crine La bellissima Aurora; e chiuso intanto Entro al mondo de' suoi splendidi sogni L'alto oceán Lucifero trapassa. Poi ch'a la rea città volse le spalle, Non d'Albïon la tetra aere, o le cupe Arti cercò, per cui rigida e avvinta Nei suoi ferrei statuti il mar governa; Ma a voi, genti d'Iberia, a voi, gagliarde Stirpi, a l'onor di libertà ridéste, Dal magnanimo cor volse un saluto. --Voi felici, esclamò, quando su'l dorso D'un ignifero pin credeasi ai flutti, Voi più volte felici, ove, le impronte Ire dimesse e le civili erinni, Tutte verrete a far corona e scudo Al sabaudo monarca! Ai suoi governi Arti oblique e malfide armi, riparo Di trepidi tiranni e d'alme imbelli, Ei non invoca, anzi dispregia. Illustre Germe di prodi, e prode anch'ei, la spada Sovra il capo degli empî alza, e al consiglio Di sola Libertà l'anima assente; E, in bionda età senno canuto, alteri Ai sovrani del mondo esempi insegna. Oh! a lui, prodi, accorrete! A lui, se tanto Dagl'iberici petti anco si cura Libertà con giustizia, a lui d'intorno Serratevi, e del cor, più che del braccio, Custodite il suo trono! Ira di avverse Parti, d'invidia alimentate e d'oro, Romperà allor contro al suo piè, qual foga Di torbidi torrenti ad ardua rupe; Da le rive del Tebro, auspice amica, Sorriderà l'itala donna al raggio Del fraterno vessillo; e su la sponda De l'orgoglioso Manzanàr la diva Libertà, le robuste ali raccolte, Gioirà l'ombra dei sabaudi allori!-- Così mescendo vaticinî e voti, Varca i mari d'Atlante, ospiti al gregge Degli ondivaghi mostri e a l'improvviso Da l'uom domato imperversar dei nembi; E tu, assiso a la prora, in simiglianza Di grandissima fiamma eri, o Colombo. Fuggon sconfitte al tuo cenno le ruote Dei fiammanti uragani; urlano al vento I segati cicloni, e nei profondi Baratri incatenate, a l'uom che passa Le procelle del mar piegano il dorso. Salvete, inclite rive; e tu, gagliarda Libertà, salve! O sia, che de l'aeree Ande selvose ami la vetta, asilo Del superbo condoro; o che ti piaccia Spazïar le insegnate acque, o fra l'ombre Di vergini foreste errar su'l dorso Del corrente giaguaro, il cui ruggito Quando sorge o tramonta, il Sol saluta; Grande ognor, se dal doppio istmo le schive Genti nei socïali ordini aduni; Grande, se per deserti orridi il grido Al perpetuo ulular mesci dei venti, O più t'aggrada perigliarti al balzo Di sonanti cascate, e dar concento Di selvagge parole ai boschi e al cielo. Tu nei golfi insüeti il pino ibero Primamente accoglievi, e le ritrose Stirpi, di vesti e d'ogni culto ignude, Con lungo studio riducevi al rito De' giapetici imperi. Onde fu visto Spezzar lo strale e abbandonar le selve Il fierissimo Pampa; e giù dai monti De l'indomo Uraguai scender l'imberbe Nomade che il color d'ambra ha nel volto; E, al corpulento Patagòn commisto, Dal profondo Orenòco erger l'ignude Membra pasciute di schifose argille Lo stupido Ottomàco, e sentir l'uopo, Tua mercè sola, del civil convegno. Per le vaste città, fra' popolosi Commerci, a respirar l'aure vitali Di quei giovani climi, al mondo ignoto, Lucifero s'avvolse, ed aureo raggio D'alte speranze e virtù nuova attinse. Un dì per le sonore ombre movea D'un'intatta foresta. Invïolate Da umana scure, indocili al veggente Raggio del Sol, gelosamente intesti Tendon le secolari arbori i rami, Ove di tutte sue virtù ad un tempo Le sconosciute pompe Iside spiega. Come in tempio infinito, ivi si aggira La divina matrigna, e tutta appella Sotto agli sguardi suoi dai varî climi La numerosa vegetal famiglia, La qual, superba de la dea presente, Rigogliosa e gigante occupa il cielo. Giovinetta immortal, sotto a' suoi passi Balza la bella Primavera, e, stretta Con insolito amplesso al fresco Autunno, Tempra l'aure vitali; e quando i rami Di mai veduti fior l'una inghirlanda, L'altro, furtivo sorridendo ai fiori, Con selvatica man gli arbori impoma. Con temperie diversa al loco istesso L'arborea felce ivi tu ammiri accanto Al rigido lichene; a' molli orezzi Dei vitali palmîzi, a l'odorate Del profetico cedro ombre ospitali Svolgon le foglie flessuöse e snelle Le giganti gramigne, e sempre verdi Spiega l'artico musco i suoi tappeti. Qui l'indico banano apre le braccia Provvide indarno di nettaree frutta; Qui, impervio ancora al trafficante avaro D'ingrati climi e da ogni ferro intatto, Serba il purpureo sandalo odorato Le rosee tinte e la gentil fragranza; Qui, stupendo a saper, quella s'innalza Pianta ingrata e vulgar, se tu la miri Da le rocce infeconde erger la scarsa Chioma e scovrir le povere radici Fuor del sasso natío, mentre co' rami D'ogni ombra avari si trastulla il vento; Ma egregia pianta e prezïosa, allora Che al nascente mattin, fuor dagli aperti Libri deriva, e versa intorno un'onda Di balsamico latte. A lei, se tanto Gli è propizio il suo dio, ch'indi la scopra, Corre il nomade adusto, e leva un grido D'insolita letizia; trafelanti I figliuoletti accorrono, e, d'attorno Tripudïando al caro arbore, il labbro Danno al buon cibo, e a tutta gioia il core. E ove te lascio, o provvido e pietoso Abitator di torride contrade Stupendo arbor del cocco? Al ciel tu sorgi Dirittamente come palma, e vinci Pur la palma in virtù, ben che a lei pari Sovra l'ispido tronco, a mo' di piume D'orgoglioso pavon, spieghi le foglie. Tu al dipinto Indïan, che nulla ha cura Di curvi aratri e di lanosi armenti, Non pure offri spontaneo asilo e cibo, Ma, docil fatto ad ogni suo bisogno, Di schietta acqua e di pan candido e dolce E di liquido latte e di vin puro E di vesti e di case e d'ogni adatto Utensile il provvedi; ond'ei, null'altro Studio avendo e ricchezza, a l'ombra amena Dei rami tuoi beato i dì produce. Ma chi tutta diría la pompa e i mostri Di quei vergini climi? Ivi l'irsuto Cacto grandeggia, come cereo immane; Ivi a quella di Pesto emula ignota L'odorato e gentil calice innostra Di Belvèria la rosa; ivi quanti hanno Onoranza e virtù di prezïosi Medici succhi, o nominanza orrenda Di fulminei veleni, indifferente, O sien radici o fiori, Iside spiega. Passa l'Eroe solo e pensoso. Ingombri D'intrecciate vainiglie e di lïane Lunghissime a le chete aure pendenti Sovr'esso al capo suo chiudonsi i rami, E or di cupole in guisa, or di cortine, Or di fioriti padiglioni e d'archi, Lussureggian di aspetti e di colori Al queto occhio di lui. Di strane voci E di strilli e di fischi e di pispigli Suonan l'aure d'intorno; odi a la lunga Romoreggiar di vaste acque, e tra' rami Frusciar d'ale infinito; e, a far più viva Quella solenne immensità, vaganti Stormi, non sai se d'animate gemme, O di fiori volanti, o ver di augelli, Tra le foglie s'inseguono, o procaci S'arrampican sui tronchi, e rauco e chioccio Stupidamente al ciel mandano il grido. Sente il superbo Vïator quell'ampia Solitudin di cose; e al tanto aspetto De l'eterna rival l'animo esalta, Come rubusto ed animoso atleta, Che pronto e fiero in sul diviso aringo L'avversario mirando a lui di fronte Qual fondato edificio alzar le membra Valide e salde e provocar l'assalto, Ne l'impavido cor crescer più sente L'anima avvezza; agli allenati fianchi Batte le palme; le nodose braccia Brandisce, e, ardente di slanciarsi il primo, Vibra a l'aure sonanti il pugno e il grido. Precorreva l'Eroe gli anni; ed al volo Di splendide speranze il cor donando Nuovi trïonfi del Pensier vedea Su l'immensa natura; e:--Verrà giorno, Madre altera, dicea, che queste occulte Tue sedi, onde ti piaci, e la selvaggia Verginità di questi boschi al rito Dei nostri aratri ubbidiran. Da queste Sconosciute vallèe, mutati in lievi A lo spiro dei venti ampii navili, Quest'ardui tronchi correran su' flutti; E rigogliose e riverite, assai Più di queste a te sacre are romite, Genti e città qui fioriranno al raggio Di benefiche leggi. Altero e cinto Di tutto ardir qui nel tuo grembo, aperto Da l'industre fatiche, e monti e abissi Sorvolerà l'uman genio; e tu, rasa Di ciechi orgogli, ov'or superba e ignota Spieghi ne l'ombre il tuo possente impero, Sotto auspicio miglior sorger vedrai L'opre e i commerci de l'Arìane genti.-- Così dicea, gli anni veggendo, allora Che tra' folti cespugli, in capo al verde Tortuöso sentiero un gli si offerse Pensieroso pitèco. A un'indïana Canna appoggiato, a lenti passi e gravi Egli si avanza, a guisa d'uom che al peso D'un ingrato pensier l'animo inchina. Al rigido cipiglio, a la rugosa Faccia, ov'ispida e grigia al muso intorno Fa due siepi la barba, un lo diresti Anacoreta pio: tal forse apparve Il santo onor de l'arenosa Coma, Quando, schivo del mondo, a' più deserti Lochi a far guerra co'l dimòn si addusse, Visto appena l'Eroe, forte uno strillo Mise, e incontro balzògli, a quella forma Che al petto del fratel corre il fratello, Poi ch'oltre i monti e i mari errò lunghi anni Fuor del tetto paterno. Si ritrasse Lucifero, e al bizzarro ospite a mezzo Con la riversa man lo slancio ardito Troncò. Di subita ira egli s'accese, La lunga coda saettò, battè Rapidamente le palpebre bianche E i labbri sottilissimi, e in acute Voci proruppe: --O to', non siam fratelli? Non siam da un padre sol tutti discesi? O che crede davver, che sia piovuto Dal paradiso, e che il signore iddio, Tolto il mestiere di burattinaio, Sia sceso in terra a prendersi la bega Di plasmarlo a su' immago? Ih! levi l'unto! Le manca proprio il sale! E che cipiglio! Che fumi! Si diría ch'ha il sole in tasca. Guardi un poco il su' cranio e questo mio, E poi mi sappia dir!-- --Molto sapiente E molto ameno in ver tu sei, rispose Lucifero, e fior fior del labbro arguto Un sottil sorridea riso tagliente; Or sì che possiam dir, che in ogni dove Penetra il raggio di Sofia! Ma nulla Meraviglia ho di ciò: molti a te pari Han dottrina fra noi!-- --Nè meraviglia Certo esser dee. Che! Forse a voi soltanto È concesso il sapere? Oh! guarda un poco, Che la madre natura abbia a lor soli, In grazia de la lor vertebra ritta, Nascosto fra la zazzera e gli orecchi D'ogni cosa il bernoccolo! Ma smetta; Le son borie, non più. Qui fra quest'ampie Solitudini nostre anche sorride De la Scïenza avvivatrice il raggio; E fratelli siam noi! Da la materna Asia, ad ambe le specie inclita culla, Venne a catechizzar le nostre genti Un vecchio, dotto e reverendo urango, Dal cui labbro eloquente a noi fu tutto, Dopo lunga ignoranza, il ver palese. Bocca d'oro ei fu detto e adamantino Senno. Ma poi che ad esplorar qui venne Non so qual'orda di dottor tedeschi, L'abbindolaron sì, ch'ei svelò tutta E distillò nei lor cervelli adusti La peregrina sua scïenza; ond'essi, Gazze vestite de le penne altrui, Or di tanto saper fan mostra al mondo. Sì; fratelli noi siamo! Ei ce l'ha detto Le mille volte, ed io te lo ricanto Per tuo dispetto su la faccia: O figlio Di scimmia, addio!-- --Per un par tuo, ragioni A meraviglia. Una catena immensa Iside ha in mano, e non avvien che mai Nel crear s'interrompa: ogni vivente Specie è un anello, ed un anel noi siamo De l'immensa catena, il più perfetto Finor, l'ultimo no. Ciò non vuol dire, Con buona pace del dottor gorilla, Che l'uom da voi discende, o ver ch'entrambi Han comuni le doti e il nascimento.-- --Sissignor, vuol dir questo, appunto questo; La non m'esca dal rotto de la cuffia: Noi siam fratelli, siamo uguali, e uguali Dritti abbiam su la terra. O sta' a vedere, Che l'universo sia creato apposta Per far comodo a loro! Un giorno o l'altro Lei vedrà, mio signor gonfio di vento, Se noi libere scimmie incivilite Verrem fra loro a reclamar tal dritto!-- --Provatevi! Ci son gabbie e catene, Fra cui strette per ben, sarete esposte A dar di voi spettacolo ai fanciulli!-- --Lei non sa che si dica! Io le perdono, Perchè sono evangelico! O che crede, Che noi libere scimmie incivilite Non siam buone a far nulla? Che mi ciancia! Noi siam da più di loro! E le par poco Saltar pei rami, saccheggiar foreste, Gioir la voluttà per fin da soli Senz'aiuto d'amica? Oh! s'è pur vero Che il ver somiglia a l'olio e viene a galla, Nostro sarà il trïonfo. Io pure, io stesso Predicherò l'origine comune, L'eguaglianza dei dritti in fra le specie E la comune libertà! Dovessi Suggellar co'l mio sangue il parlar mio, Vuo' diventare apostolo; e, infilati Giubba e guanti ancor io, salir su l'alta Cattedra di Darvino a dar responsi!-- CANTO DECIMO. ARGOMENTO. Sorge la notte, e l'Eroe resta smarrito nella foresta, dove prova le sofferenze dell'umana natura.--Lotta con un giaguaro, di cui rimasto vincitore, abbandonasi al sonno.--Rivede Ebe nei sogni, e torna per poco ai dolci vaneggiamenti d'amore.--La giovinetta silenziosa si tramuta a un tratto in un orribile fantasma.--Iddio, vedendo così travagliato il suo avversario, crede agevole impresa il domarlo.--Lascia il letto, cavalca l'asino di Betlem, e scende in terra.--Trova Lucifero, e cerca da prima con superbe parole, poi con astute promesse venire a patti; ma questi tien fermo, e lo caccia da sè acerbamente.--Liberatosi indi a poco dalla foresta è ospitato dalla povera Sara.--La schiava nera e lo schiavo bianco. Sorge fra tanto oltre ai terreni alberghi Co' crepuscoli al piè la notte amica; E di mille colori ornati e cinti Le si sveglian sul capo astri e pianeti. Malinconica e muta ella riguarda Ai rei travagli de la terra, e spira Le brezze ai fiori, ed ai mortali il sonno. Salve, o splendida notte, inclita madre Di dolcissima quiete, o che ti piaccia Covrir d'ombre pietose amor furtivo, O svelar tutta a uman guardo l'audace Visïone degli astri e l'universa Armonia, che ne fura invido il sole. Da le cupe foreste, ove si aggira Il signor de' miei canti, io chiamo indarno La bellezza dei tuoi Soli e le gemme Dei tuo' cento diademi: a Lui non uno Splende dei raggi tuoi; sol dentro al petto Gli arde la luce de le sue speranze. In compagnia de' suoi fantasmi, a pena Ei de l'ombre s'accorse; e, vòlto il passo Fuor del dritto sentiero, a una deserta Arida balza d'ogni vita priva Era intanto venuto. Irte d'intorno, Come a guardia del loco orrido e scuro, Rupi e monti s'ergean squallidi a guisa Di biancicanti scheletri; fuggía L'ingrato aspetto e s'ascondea la luna Fra le nubi correnti, e imprigionato, Come chiuso leon che tenti un varco, Tra l'aspre rocce ruggía rauco il vento. Ivi l'Eroe si assise. Un'insüeta Punta di fame gli mordea le parche Viscere, e dentro al seno arido e stanco Una brama di vive acque e d'aperto Aere e di luce gli serpea. Sgomento Non però n'ebbe al cor; ma con superbo Animo accolse la terribil prova, Poichè gli è grato comportar travagli Pari a ogni altro vivente, a cui l'amica Forza del pane il mortal corpo allena. Vago di nuovi casi, occhio ei non piega Ad alïar di lusinghevol sonno Da la tacita e grave aere cadente; Ma nel caro pensier volge le prove Dei suoi buoni mortali, e traforate Alpi vagheggia e aperti istmi e volgenti Per lo seno del mar parlanti elettri. Su per l'aride rocce ode in quel punto Come un confuso affaccendarsi e rotto Fruscío di penne e sibilar, che agguaglia Suon che mandi uman labbro e noto segno Di cacciator, quando tra' folti grani, Di cui mareggia interminato il campo, Modula il fischio a ravvïar l'amico. Ma voci eran d'augelli, a cui concessa È una strana virtù: fischiano al vento Siccome uomini veri, e illudon l'alma Di qualche afflitto pellegrin, che, pèrso Ogni spirto di lena e abbandonato D'ogni raggio di speme e di salute, Su l'inospite landa il corpo gitta. Ben al grido fallace a mala pena Sul digiun ventre ei talor sorge; a l'aura Tutta la fuggitiva anima intende, E forse in quel momento al cor gli torna Il dolce aere natío, l'abbandonata Casa paterna e de la madre il pianto. Sorge, aspetta, ricade, si strascina Delirando fra' sassi; a un grido estremo Schiude l'aride labbra, un rauco suono Gli geme entro la gola; adugna e morde L'avara terra; e il ciel rigido intanto Sovra il capo di lui splende e sorride. Così a le disperate anime insulta La beffarda natura! Al suon fallace Sorse l'Eroe, nè stette in forse.--Or tutto Convien, diss'ei, che il mio vigor s'adopri; Arida e morta è questa valle, e segno Di salute non ha; vadasi.--E preso L'aspro sentier, non pria l'orme contenne, Che un ampio fiume e la foresta attinse. Chiare e sonanti dirompeano l'acque Fra due tra loro opposti e coronati Di negra selva smisurati monti, Al cui piè si stendea facile e molle D'erbe infinite ed odorose il piano. Piomba il fiume da l'alto, e se tu il miri Biancheggiar da la lunge al cheto sguardo Dei radïanti plenilunî, un'ampia Vela il dirai, che il marinar su' negri Aprici scogli a rasciugar distese; Ma se più ti fai presso, un fragor cupo D'immense acque tu senti; al ciel, conversa In polve minutissima, tu vedi Balzar la ripercossa onda, e in un velo Confonder gli astri ed annebbiar la valle. Quivi l'Eroe non si appressò; ma in parte, Ove men cupe si schiudean le sponde, E avean meno di bosco ombre e paure, La fresca linfa disïando, scese Per la lubrica china; insinuössi Fra' canniferi greti, e ne le cave Palme attingendo i prezïosi umori Ricrëò l'arso petto; ambe ne l'onda Con giocondo piacer le braccia infuse, E battendo le pure acque, più volte Ne spruzzò, ristorando, il volto e il crine. Ma non pria lasciò l'onda, e si rïebbe Del cammin tanto e de l'ingrata arsura, Che un vicino il percosse ululo e un lungo Scoppio di strida e di commosse voci Varie, acute, incessanti. Ad improvvisi Urti crollavan bruscamente i rami De la selva vicina, e quindi e quinci Confusamente saltavan strillando Le aggredite bertucce. Il piè ritrasse Dal margo sdrucciolevole, e a la sponda Lucifero balzò; lo sguardo in giro Mosse esplorando: tenebroso intorno L'aere gemea, mentre due roggi, acuti Punti fendean, come infocati dardi, Sinistramente de la notte il seno. Muti muti pe'l negro aere procedono Or cheti e lenti, or saltellanti e rapidi; Or tra cespugli del sentier s'involano, Or più vicini e più funesti appaiono. Sta Lucifero intento; e, certo omai Che insidiosamente a lui si appressa Il terribil giaguaro (un'omicida Belva, che, a par del tigre agile e grande, Salta agli alberi in cima e a l'onde in seno, E boschi e fiumi d'ogni strage infesta) Tenea l'anima accorta in due sospesa: O che indietro si tragga e si nasconda Nel contiguo canneto; o su l'aperto Sentier l'orrida belva aspetti al passo. Senno miglior questo gli parve; e, tutta Con alato pensier l'alma percorsa E con subito sguardo il loco intorno, A la lotta si accinse. Era in quel punto Tra' fitti rami penetrato un fioco Raggio di luna. Un aspro, arduo macigno, Ivi a caso giacea: dai circostanti Gioghi a valle caduto, una regale Possa parea, cui da' superbi troni Una vendetta popolar sconfisse. A lui corse l'Eroe; con ambe mani L'afferrò, lo levò: le ferree braccia Sovra il capo distese; un dietro a l'altro Pontò i validi piedi, e tal si tenne L'irto mostro aspettando. Orrido un grido Manda la belva, e caccia fuor dagli occhi Sanguinosi baleni: a terra il bianco Ventre ingordo distende; i fulvi arruffa Peli del dorso, e di serpente a guisa Strisciando si divincola. Qual suole Paziente pescador, che, intento a l'amo, Entro a le trasparenti acque del lago Vede a un tratto guizzar cefalo o trota, Quanto più può su' nereggianti sassi Fermo, senza respir tiensi; l'avvezza Destra, che regge la pieghevol canna, Serra validamente, e, vista appena Pullular l'onda e tendersi la lenza, Fuor, con subita stratta, a l'aere avversa Trae, guizzante ne l'amo, argenteo il pesce; Così tutt'occhi e senza voce o moto L'astuto Eroe l'orrenda belva aspetta, Che con feroce voluttade allungasi Su l'erboso sentier, vibra l'accorto Sguardo, e sbuffa così che par che rida. Ma quand'ei stanco d'aspettar l'assalto Tentò un passo impaziente, e scagliar finse L'elevato macigno, urlò, ritrassesi, Il corpo agglomerò, sul ventre osceno Strisciò a ritroso il mostro irto, e qual dardo Si vibrò. Mugulare odi a l'intorno La valle ampia e tremare arbori e rupi, Non però il petto de l'Eroe: di tutto Polso ei sostien l'ampio macigno; al fiero Assalitor fermo l'oppone, e al petto Gliel dà così che lo travolge, A terra Piomba la belva, e non sì tosto il suolo Sfiora co'l dorso, che di pria più fiera Salta, e si avventa a più mortale assalto. Sangue ha negli occhi, e sanguinosa bava Vomita e sbuffa, e rugghia, e d'ogni verso Pazzamente si vibra, e senza posa L'Eroe tempesta, e gitta a l'aria i morsi. Scaglia alfin questi il sasso, e tanta è l'ira Smisurata del cor, che giù d'un crollo Rovina anch'ei su la percossa belva. Or più fiera è la lotta: in un sol groppo, Corpo a corpo avvinghiati e braccia e branche, Si avviluppan fra l'ombre; echeggia il cielo Di rauche voci e di ruggiti; a rivi Sgorga il sangue su l'erbe; ed essi avvinti Ferocemente in amplesso di morte Balzan, piomban, s'avvoltan, si precipitano Fra le spine, fra' sassi e le nemiche Tenebre. A l'orlo d'un burron vicino Vengon così. Pende sul negro abisso Una fitta boscaglia, a cui la foga Dei sonori torrenti ignude lassa Le nodose radici. Ivi, protette Dai folti rami, e dal burron difese, Godean sede tranquilla e secol d'oro Una tribù d'amene scimmie. Il fiero Caso le tolse agevolmente ai sonni, E la lotta avvisando, a salti, a strilli Facean pazza baldoria; e, qual con mano Qual con la coda attorcigliata a un ramo, Quale a un piè, quale ai fianchi a la vicina, L'une a l'altre atteneansi, e fean pendente Catena sui pugnanti ospiti, a cui Or tiravan sul capo una selvaggia Noce, e svelte fuggíano, or fin sul dorso Di lor scendeano a provocar le due Alme feroci a morsi, a sgraffi, a strilli. Non però si ristanno, o svolgon l'ira Color che in fiero abbracciamento avvinghiansi Presso al burron. Preme l'Eroe co'l dorso Il ciglion de la balza; a lui su'l petto Insta la belva: con la bronzea destra Ei l'abbranca a la gola; al perigliante Corpo con l'altra fa puntello, e attiensi A le dense radici. E già su'l volto Qual d'aperta fornace il vampo ei sente De le putide fauci; a caldi sprazzi Piovegli sui schizzanti occhi e l'acceca Una bava sanguigna; un rugghiar cupo L'assorda; e già de l'arrotate zanne Contro a le tempie sue crocchian le punte, Quando tutta con fiero urlo chiamando La rabbia al cor, la forza ai polsi, un lancio Dà su'l dorso così, che sorge a un punto Libero in piè, mentre da lui travolta Precipita la belva, e giù nel fondo Burron piomba rugghiando, e l'aere introna. Lacero e stanco il vincitor si asside Su le fresche erbe, appo la sponda. A rivi Giù per lo collo gli discorre ai fianchi Misto al sangue il sudor; corto e sonante Dal suo petto affannoso esce il respiro; Un cozzar di confuse opre e di cose Gli turbina sugli occhi e il cor gl'ingombra; Finchè a balzi, a sussulti, e tutto cinto Di bizzarre faville e ceffi strani Sopra gli piomba, e al suol l'avvince il sonno. Come nei procellosi artici mari, Quando aquilon più li flagella, a stormo L'irte dïomedèe saltan su' flutti; Gavazzano fra' nembi, e al mugghio orrendo Del travolto oceàn mescono il grido: Vede il nocchier fra le stridenti antenne Svolazzar le sinistre ali, e maligni Spirti le crede, e si raggriccia e agghiada; In simil guisa de l'Eroe dormente, Nel turbato pensiero orride e scure Venían fantasme, e gli scoteano i sonni. Ma come avvien ne l'incostante ottobre, Mentre un subito nembo apresi e versa Sopra a l'umile vigna acqua e gragnuola, Fuor da le plaghe occidental si desta Una provvida brezza; un chiaro e bello Occhio d'azzurro si dischiude in cima De la bruna montagna; a par di dardo Da l'arruffate nubi esce un diritto Raggio di Sol, che i sommi arbori indora; Brillan le foglie susurrando, e tutti Odoran timo e nepitella i campi; Tal fra' torbidi sogni una tranquilla Visïone d'amor tacitamente Sorgea ne la commossa anima, e al cheto Ventilar de le penne vi spandea Il mesto raggio d'una rosea calma. Come talor nei lucidi cristalli, Che ne stanno di contro, una diletta Forma veggendo, a lei con l'alma in festa Drittamente corriam, nulla avvisando La virtù del riflesso; in simil guisa Entro a un candido sogno avvolta e viva Nel pensier del dormente Ebe splendea. Balzagli il core a tanta vista, e aperte Le braccia:--Oh! vieni, le dicea, deh! vieni Su'l petto mio, dolce alimento e pace Dei travagliosi giorni miei! Sorride, Sol ch'io ti guardi, nel mio cor la vita D'ogni speranza mia; splendon più vivi Gli ardimenti de l'alma, e più vicino Nel mio baldo pensier veggio il trïonfo!-- Co'l perdono negli occhi ella assentía Di sedergli d'accanto. Ei torna ai sogni Del primo amor. --Da pochi giorni il sole Sul mio capo splendea: festa di fiori Era tutta la terra; e tu, regina D'ogni candor, mi sorridesti come Sorridon l'alme, allor che un'amorosa Forza le chiama ad apparir negli occhi. Oh! che giorni d'ebbrezza!-- Ella a quei detti Pensosa e scura divenía. --Ricordi, Ei riprendea con sospirosa voce, Oh! ricordi quei dì? Facil conquista Mi parve il ciel, poi che t'amai. Mi svelsi Crudelmente da te; deserta e chiusa Nei dïafani sonni ti lasciai, Ma un trono eressi a l'amor tuo, che in petto Portar vogl'io fin che no'l ponga in cielo!-- Ella piangea. Qual trepida fiammella, Che s'assottigli a l'apparir del giorno, Tal poco a poco si facea più bianca La pietosa fanciulla, e a poco a poco Il dolce aspetto e i rosei pepli e gli atti Trasfigurando, un'orrida assumea Mostruösa sembianza: ispide e negre Di sozza barba ambe le gote; attorti Di tizzi ardenti e di serpenti i crini, E fra' serpenti, in mezzo al fronte, un vasto Occhio, senza palpèbre immoto e tutto Fiammeggiante a l'intorno. A questa guisa Sorgea dal suol nera, diritta, immensa, E un gemer lungo al sorger suo si udía E scricchiar d'ossa e maledir. Non ode L'irto fantasma, e ognor sorge e si spande, E l'aria ingombra e il cielo ultimo attinge. Tocca il cielo co'l capo, e con la negra Pelosa man, che immensa apresi, afferra L'etereo sole, e lo palleggia. Un denso Nembo di notte si rovescia allora Su la terra infelice; ingordi e vasti Mille sepolcri si spalancan; passa Sibilando la Morte; e s'ode un fiero Gracchiar di corvi e sghignazzar di Numi. Così il lungo digiuno e la fatica D'una ad un'altra visïon trabalza Il pensier de l'Eroe, quando, in lui fiso, Il Signor dei celesti:--Ora è stagione, Disse in cor suo, che il mio rival conquida!-- Gli aurei letti lasciò, senz'altro aiuto Che il veloce desio; s'avvolse un manto Ampio, turchino come ciel d'autunno; A la fredda canizie un vasto impose Tricuspide lucente, e, sotto al braccio Un aureo accomodando orbe stellato, Simbol de l'universo, al più vicino Dei presèpi del ciel cheto avvïossi. Ivi, poichè di Giosuè la verga Del sole il cocchio a mezzo il ciel sostenne, E impietriti restâr di sotto al giogo I fulminei cavalli, una falange D'umili sì ma intelligenti onàgri Pasce in greppie d'argento orzi ed avene Di tal virtù, che nel lor sangue infonde Gaio tripudio e giovinezza eterna. Non appena sentîr sovra la soglia La presenza del Dio, tutti in un punto Drizzâro i colli ed affilâr le orecchie Lievemente anelando; e, a lui rivolti Con dolci e riverenti occhi, la voce Del comando attendean. Videli il Nume Lucidi e belli, e ne gioì; ma il cenno, Che tutto può, volse a te solo, o illustre Asin di Betelèmme, a cui su'l dorso (Premio dell'opra, onde immortal tu vivi) Crescon due luminose ali, per cui, Pregio da tutti invidïato, e solo Da Dio concesso a le beate essenze, Varchi il cielo senz'orme e l'aer fendi. Tu presentisti il divin cenno, ed ambe Le ginocchia piegando appo a la ferma Con chiovi adamantini aurea predella, Offeristi umilmente il dorso alato. Fe' forza il Nume, e vi montò; si attenne Con ambe mani a le pietose orecchie Del diletto onigrífo; ai ben pasciuti Fianchi gli strinse le ginocchia inferme, Gli occhi serrò, diede la voce, e via Lascia il ciel, passa l'aere, e giunge in terra. L'Eroe trovò, che scosso il sonno, e, fermo Più nel pensier che ne le membra affrante, Ritentava il cammin. Presso a un cespuglio Lasciò il volante corridor; si eresse, Quanto potè, su'l curvo dorso; un grave Cipiglio assunse, e a misurati passi Movendogli d'incontro, in tuon solenne: --Lucifero, gli dice, ov'io con l'ira Dar fin volessi a l'ira tua, me stesso, Che Dio di tutto e re del ciel pur sono, Qui non vedresti al tuo cospetto: avvinto Dal cenno mio sotto al mio piè, potría Scatenarsi al mio cenno il saettante Fulmin, che a par d'ogni superba altezza, Le sdegnose e proterve anime adima. Ma l'ira mia tu la conosci; or sappi La mia pietà. Stanco non già, ma schivo Di pugne io son: di nostre pugne assai Travaglio ebbe la terra; assai di umane Vite olocausto ebbe il mio sdegno. Io miro Con paterno dolor quest'infelice Schiatta de l'uom, che, lusingata e vinta Dai tuoi falsi giudicî, erra perduta Fuor de la via d'ogni salvezza, e il frutto Di tue promesse e la vittoria aspetta. Ma, stolta! indarno aspetterà! Smarrito Fra queste ombre tu stesso, ecco ti aggiri Tu, che da le fallaci ombre presumi Redimer l'alme dei mortali, a cui, Ira e invidia non già, ma provvidente Consiglio mio gli ultimi veri asconde. Sgombra adunque la terra; abbian riposo Le genti alfin; torna ai tuoi regni, e intero Scenderà su'l tuo capo il mio perdono.-- --Di perdon parli e di pietà, proruppe Disdegnoso l'Eroe, tu che di tutte Le sciagure de l'uom colpevol vivi? Ma stolta è l'ira: ombra tu sei di nume, Sol vivente in parole; ond'è, che irato Non ti temo, e pietoso io ti dispregio. Lasciami adunque a le mie cure: avranno Pace le genti, e non da te; nè pace Neghittosa e servil; di guerra stanco L'uom non sarà pria di saper che vuota Larva sei tu senza subbietto, e quale Or t'addimostri al guardo mio. Potessi Questi sordi, confitti arbori intorno In uomini cangiar! Vedrían qual vana Risibil cosa e imbelle ombra tu sei!-- Tacque, e torse le spalle. Un vampo d'ira Salì al volto del Nume; e la bollente Rabbia del cor tutta in un punto avría Fuor versata nei detti, ove non fosse Sopravvenuta al suo pensier la luce D'un prudente consiglio. A mala pena Ei si contenne, e gl'iracondi sguardi Figgendo al suol, morse le labbra, e disse: --Sei forte, il so; ma de la tua fortezza La superbia è maggior, minore il senno. Odimi; sai, che da nemico petto Sorge talora util consiglio, e saggio Io non dirò chi lo rifiuta. Ha un segno Anche l'ira dei forti, e chi si ostina A produrla oltre inutilmente, indegne Sciagure ad altri, e a sè perigli ordisce. Or credi a me: son paventose e fiacche L'anime umane, e han di servir mestieri. Ad uom cresciuto in servitù mal giova Spirar liberi sensi: a sua rovina Va tosto incontro; perocchè di tutti Malnato istinto è il dominar; nè vale Esser libero d'altri, ove ad un tempo Di sè stesso è ciascun servo e tiranno. Però, se il ben cerchi de l'uom, nè stolta Ambizïon move i tuoi sensi, al mio Giogo abbandona i servi miei: la forza, Qual ch'ella sia, legge è del mondo; il resto Altro non è che nome vuoto e nulla!-- Sorrideva Lucifero, e un sol detto Non gli fuggía. Con subito consiglio Pone allora il buon Dio l'aureo emisfero, Dal manto ampio si svolge, e, simulando Fra labbro e labbro un giovïal sorriso, Per man prende il nemico, obliquo il guarda Con gioconda malizia, e:--Inver, gli dice, Vecchia golpe tu sei! Che tu mi cianci Con codesti tuoi fumi? A par di me Tu gli uomini conosci, e di sonanti Nomi li gonfî, sol che a Dio ribelli Spingan la fronte, e tu su lor ti assida! Giù dal volto la larva! Hai di me al pari Desio di regno; e, di regnar mal pago Sovra il trono de l'ombre, una più bella Sede nel mondo e maggior gloria ambisci. Or ben: regnar vuoi su la terra? Affido La terra a te. Vuoi che tremanti e prone Pendan le genti dal tuo labbro? il fronte Pieghin popoli e re sopra la polve Del tuo santo calzàre? Abiti e modi Cangia. V'è tal sovra la terra, a cui Nullo agguaglia in poter: brando che uccide È la parola sua, fulmine il guardo; A lui d'umani sagrificî intorno Vaporano gli altari; incatenato Ai carri suoi geme il Pensier. L'aspetto Di lui tu prendi, e nome e gloria e regno Di pontefice avrai!-- Commiserando Scotea l'Eroe la testa, e in cotal guisa Con voci amare rispondea: --Nemico Che scenda a patti è mezzo vinto; e a patti Non sol tu scendi, e vinto sei, ma involto In una cieca illusïon mi desti Ira insieme e pietà. Quella gagliarda Possa d'uom, che tu vanti, io già la vidi Regnar nel mondo: le facean sgabello Le cervici dei re, luce la fiamma D'umane ostie brucianti; or su la terra La cerco invan. So che una turpe e vôta Larva, inutile ingombro, occupa i templi Di Vatican: stupida larva, il cui Frollo capo cadente invan protegge Co'l sozzo manto il precettor Loiola; Ma in lei, me'l credi, è da gran tempo estinto Il pontefice e il re!-- --V'è tal, che avviva Anche la morte, Iddio gridò: tu puoi Resuscitarlo. Torneranno i tempi Di Gregorio e di Sisto!-- --Ai tuoi soggetti, Se alcun pur n'hai, serba tal gloria: io sono La libertà. Se udir non vuoi la voce Del mio dispregio, a me parla siccome Si conviene ad un Dio: fulmina!-- Un grido Mise il Nume a tal dir; ne l'ampio manto Fremebondo si chiuse, e, le beate Groppe al divino corridor premendo, Per li campi de l'aria alzossi e sparve. Torna intanto il mattino, e un'aurea luce Con lo sparir del Dio penetra in mezzo A la densa foresta. Il luminoso Auspicio accolse e giubilonne in core Lucifero; tra' folti alberi un varco Esplorò disïando, e il passo stanco A un villaggio contenne: un mucchio informe Di povere capanne, una su l'altra Addossate su'l fianco a una montagna, Che di bosco e di nubi il capo ombreggia, E giù giù fino al mar scende e digrada. L'abita e còle una diversa gente, Varia d'usi e di lingua, a cui, nel nome De la croce di Cristo, una pietosa Missïone d'apostoli e di santi Giogo impone di ferro e il pan contende. Di doppia mèsse a lor biondeggia intorno L'usurpata campagna; s'inghirlanda Di gemina vendemmia il poggio e il clivo Lussureggiante, e terre e mandre a gara Recan primizie a le lor mense. Al solco Durissimo fra tanto, a l'aere impura Suda il magro colòno; e, se la verga Del discreto signor non gli distende Le bronzee terga e lo flagella a morte, Ben felice esser dee, che possa un giorno, Dai travagli consunto e dal digiuno, Cader sovra l'aratro, e con le ignude Ossa impinguar del pio padron la gleba. Stanza ospitale il vïator non chiese A signor ben pasciuto, e non sofferse D'aver mensa comune ad orgoglioso Trafficator. Fra poveri pastori Breve asilo ei cercò; si assise al desco De la miseria; e a te, povera Sara, Assentì l'alto aspetto e la sdegnosa Anima e il dir che umani petti infiamma. Schiava infelice! Era remota e angusta Presso al torbido rio la sua capanna; Era nero il suo volto e nero il crine, Ma aperto e grande era il suo core, e tersa Come raggio di Sol l'anima avea. Fra le miserie di sua vita un giorno Le sorrise l'amor. Furon men leste L'opere di sua mano; impazïente, Immemore divenne; e, sì com'era Schiava due volte, osò levar la fronte E agli augelli invidiar libero il volo! Fischiò sopra a le sue carni la sferza De l'acerbo signor; percosso e vinto Dal feroce digiuno a lei da lato, Sotto agli occhi di lei, vittima cadde Il giovinetto del suo cor. Qual belva Ella ruggì; morse ruggendo i ceppi; Avventossi d'intorno; e allor che in mesta Calma si assise, e volse il guardo in giro, S'avvide ognun, che a quella derelitta Era insieme a l'amor mancato il senno. Le consentîr la libertà: più tempo Errò, libera pazza; un dì si accorse, Che scevra era di giogo; e se di nuovo Co'l pianger lungo a lei fece ritorno, Qual fido augello, la ragion smarrita, Tosto sentì che nel suo cor deserto Vigile e santa una memoria ardea. Visse d'allor limosinando, e, aperta Agl'infelici più di lei, sorrise Come pòrto d'amor la sua capanna. Quando giunse Lucifero, sedea Sovra un poco di strame, appo la sponda D'un povero lettuccio. Un fanciulletto Pallido, emunto e con la morte in core, Disteso, ansante ivi giacea. Poggiata A la scura parete eravi un'arpa Lurida tutta e con più corde infrante; A piè del letto un lacero fardello, Un nero tozzo, e rovesciata a terra Una piccola brocca. Il moribondo Mosse il languido e dolce occhio d'intorno, E, qual chi una pietosa alma indovina, Affisò lo stranier tacito, e il biondo Capo crollando, le sparute e bianche Mani al petto portò; baciò più volte Un abitin che gli pendea dal collo, E:--Vedete, signor, disse, vedete Com'han ridotto un misero fanciullo!-- E a mala pena sollevando un lembo De la grezza camicia, insanguinato Da recente flagel mostrava il petto, E singhiozzando ripetea: vedete! Mandò un grido l'Eroe; ferocemente Rotò il guardo la schiava: il poverino Mormorava piangendo: --Eran pur belli I monti e il cielo de la mia Cosenza! Ero tanto bambin, povero tanto, E mi parea d'esser felice! Un giorno Mi diedero quell'arpa: io canticchiava Con gli augelli del ciel. Quando lasciai Il mio tugurio, luccicar su'l desco Vidi alquante monete: era sì allegra La mamma mia, ch'io le nascosi il pianto, Nè le volsi un saluto. Uno straniero, Ch'altri fanciulli al suo comando avea, Con sè mi prese: eravam tanti! In giro Strimpellando le nostre arpe si andava Per le città, scalzi, soletti, stanchi, Senza letto, nè pane, al sole, al vento Alle piogge, alle nevi ed alla sferza Del rio padron, cui parea scarso il frutto Di quel nostro accattar cotidïano. L'altrier, consunto dal continuo stento, Un fanciullo moriva: e tanti e tanti N'eran morti così! Ci amavam come Due fratelli infelici: eravam sempre L'uno accanto de l'altro. Un dì un allegro Ritornello io cantava; ei con le scarne Dita seguía su l'arpa a gran fatica La mia pazza canzon. Tacquero a un tratto Le monotone corde: il poverino Cadde, nè più si rïalzò. Non ebbi Più memoria di me: fuggii la vista De l'odiato signor. Mi trovò il crudo Presso al cantuccio d'una via romita, Che l'amico piangea; mi picchiò tanto, Che mi parve morir. Questa pietosa Da la via mi raccolse.-- Ed additando Quell'infelice, che gli stava a lato, Fra' singhiozzi tacea. Tacea pur essa La sventurata, e si stringea sul petto L'affannato fanciullo. In su la soglia Splende un raggio di Sol; saltella e canta Un'amorosa cingallegra. Al seno Le tenui braccia il fanciullin compone, Guarda in alto, e sorride. --Oh! non lasciarmi, Così fra' baci gli dicea la schiava, Non partire sì presto! Abbandonata, Vedi? son io; son poveretta e mesta; Io t'amerò come una madre!-- Un balzo Diè a tal nome il fanciullo; il moribondo Sguardo avvivò d'un ultimo baleno, E fieramente mormorò;--Mia madre? M'ha venduto mia madre!-- A questa voce Fuggì il vispo augellino, e a l'aere immenso De l'oppresso bambin l'alma il seguía. Tacita, con selvaggio atto, a la sponda Del letticciòl si accovacciò la schiava; E tutto ira e pietà fuori a l'aperto Precipitossi il Pellegrin. Gli ferve Sotto ai passi la terra; al mar si affida Subitamente, e ne l'acceso petto Le remote sospira itale sponde. CANTO UNDECIMO. ARGOMENTO. Canto all'Italia: le tre civiltà; l'Alighieri; l'ultima guerra d'indipendenza; l'ossario di Solferino; il traforo del Cenisio.--Lucifero arriva; apostrofa al Po; scende in Toscana; è ricevuto nella casa d'Egeria, dove si adunano i più famosi genî dell'Arte moderna.--Le donne emancipate; il filologo Macrino; un poeta demagogo; un commentatore di Dante; Delio, gazzettiere; un camaleonte onniscibile.--Il poeta Olimpio e la sua dama.--Lucifero, creduto spiritista, finge evocar l'ombra del divino Poeta; il quale fulmina sdegnosamente poeti svenevoli e atrabilari, drammaturghi da scuola e da piazza, musici intronatori ed istrioni bastardi.--Olimpio, che si offende, sfida l'Eroe a un duello; ma questi si rifiuta con parole di superbo disprezzo. Da le nevate cime Di quest'alpe famosa io ti saluto, Di gloria e di dolor magion sublime! Ti veggio alfin! Qual suole Nocchier che lungamente erra perduto Per l'irata del mare onda funesta, Se da lontan vede la terra e il sole, Crede a speranza il petto, Tale al tuo primo aspetto Dice il mio cor: la nostra patria è questa! Non io, perchè più terso S'apra il ciel su' tuoi campi e il Sol sorrida, D'egregie lodi accenderò il mio verso. Fra gl'iperborei geli Avvien talor che rigorosa e fida Splenda virtù, quando per liete rive, Ch'àn fragranza di piante e amor di cieli, Superbe e infeminite Volgon le umane vite D'ogni ardito operar pavide e schive. Chiede animosi petti L'Eroe ch'io canto ed operosi ingegni, A cui pari in virtù fervan gli affetti. E tu che il doppio mare, Coronata sovrana, inclita regni, E fra il riso de l'arte e i fior t'assidi, L'opre gentili e le gagliarde hai care Così, che altera e grande Per quadruple ghirlande, Sorgi su le rovine, e il tempo sfidi. Te di sottili e forti Studi educâr gli Etruschi padri, il cui Pronto ingegno temprâr gli Egizii accorti. Splendea fra le temute Armi e gli altari minacciosi e bui L'aureo foco di Vesta, e fean leggiadre L'ardue cure del ciel le Muse argute; Fin che del Tebro al lito Un fiero ululo udito, Volâro in grembo a la Cecròpea madre. Calò dal cielo estremo L'augel fulvo di Giove, e le saette A l'audace apprestò lupa di Remo. Sorge Quirino; al lampo Del suo brando forier d'aspre vendette Crollano i troni; da la terra a l'etra A le vittorie sue piccolo è il campo; Mentre fra'l suon de l'armi Echeggian d'Ennio i carmi, Di Plauto il riso e di Maron la cetra. Chi siete voi, che a guisa Di affamati leoni or prorompete Da le nordiche selve, e, a la conquisa Madre squarciando il petto, Sì fier costume d'ogni strage avete? Ma qual non apre ad avvenir lo sguardo, E de l'istante ha sol tema o diletto, Impallidisca e gridi Al suon dei matricidi Brandi, e vesta di lutto il cor codardo. Cantor, che a la palestra De la vita allenò l'alma e l'ingegno, I casi ad indagar la mente ha destra; Spregia il parer fallace, Che fa pago ed esalta il vulgo indegno; Sol nume ha il Vero; ombre non teme; sfida Del presente favor l'aura fugace, E, profeta a le genti Di ragionati eventi, Guarda il passato e a l'avvenir le guida. Ecco, fuggir dal truce Cozzo vegg'io dei sanguinosi acciari Faville che da poi diêr fiamma e luce: Arde una forte e nova Anima i petti; a non segnati mari Gonfia immenso un desio le vele industri; Fervon le menti e le fatiche a prova; A chetar l'ire orrende La libertà discende D'armi gagliarda e di commerci illustri. Sorge a la Diva accanto Disdegnoso uno Spirto, a cui nell'ira Divien foco il pensier, fulmine il canto. Superba aquila al nembo Fida il volo, e combatte; e allor che mira L'etereo Sol, che d'amoroso dardo Punge e ravviva al vasto essere il grembo, Per l'aere ardente e pura Spaziar gode secura, E nel fuoco del cielo appunta il guardo. Egli così le inferne Sfere lasciando e le pugnaci erini, Che mortali accendean l'ire fraterne, E d'ombre orride e d'ossa Tarda e incerta facean l'orma ai destini, Errò, divo mendico; al ciel co' carmi Surse, e attinta del Ver l'aura e la possa, A inaspettati eventi Chiamò l'itale genti, Lor diè vita e parola e patria ed armi. Dai maledetti avelli Balzan gli eroi; splendono al Sol gli acciari; Quei che avversi morîr, sorgon fratelli: Arde la pugna; stride L'Arpía de l'Istro; dai venali altari L'irto Levita invan s'adopra e freme... Viva il Sabaudo allòr; vivan le fide Schiere dei nostri eroi, Viva tu pur, che a noi Desti i tuoi prodi, e a noi vincesti insieme! Dove sei tu? Non odi L'aura del generoso inno, che, schivo Di tanti ingrati, osa innalzar tue lodi? Leva dal tuo recente Sepolcro il capo, e guarda ove ancor vivo. Più del ricordo, è dei tuoi prodi il sangue. Qui pugnâr, qui morîr, qui di fulgente Serto ornò Italia il crine, Qui le genti latine Si unîr d'un patto in su'l nemico esangue. Mira! Un sol tempio accoglie L'ossa delle due genti, e a lor confuse Del domato stranier dormon le spoglie. Dormite! Una parola Fremono i vostri sonni; e da le chiuse Ombre di morte una gran luce emerge: Vivono al raggio d'una fiamma sola Le umane anime; ed una Morte le gente aduna, E ne l'onda del Ver tutte le terge. Dormite! Al santo amplesso, Che in una morte e in un amor vi serra, Tragge Italia gli auspicî. Il brando ha cesso A la guaína, e cinta Sol di virtù suoi baluardi atterra. Regna Amor l'alme, Amor varca gli abissi, Penetra il mar: cade al suo soffio estinta L'ira dai petti; e, al pari Che nei confusi mari Vedi gl'istmi cader squarciati e scissi, Cedono al nume il passo Le domate montagne; a lui da lato Scende l'italo genio. Odo il fracasso De le divelte rupi; Rugghia per li rotti antri il vento irato; Al martellar degl'inventati ordigni Tuonan l'opre pe' negri anditi cupi: Ecco, ne l'ardua gola Fischia il vapor che vola; Echeggian gli antri; gli ultimi macigni Crollan; concordi e pronte Gridan le ciurme; il Sol s'affaccia, e cinge Due raggi a un tempo a due Gagliardi in fronte. Oh! viva! In armi avvolto Altri pugni e trïonfi: Amor costringe In gara industre il genio italo e'l franco! Ma qual fragor d'orridi bronzi ascolto? Ne la sanguinea gora Brenno gavazza ancora? Di stragi ancor non è satollo o stanco? Cessa! Di fatuo nome Tal che ti aggira a l'oprar suo fa scudo, Pur che la man ti cacci entro le chiome, E al giogo ti strascini D'onor, di libertà, di posse ignudo. Speglio Italia ti sia, che la severa Alma composta a' liberi destini, Già spada, or cuore e mente De la latina gente, L'alpe dischiude, e ne la pace impera! Mentre io canto così, fuor dal recente Varco de l'Alpi glorïando passa L'alto Amico de l'uomo, a cui ridonda Di lampeggianti entusïasmi il petto. Al meriggiar de le populee rive, Da secreta virtù vinto, si asside Là dove con selvaggio impeto corrono Gli eridànei cavalli, e sveglian tanta Pei settemplici campi eco di guerra. Passan su le solenni onde, equitanti Guerriere ombre di re; svolgesi al cielo L'allobrogo vessillo, e, tutte chiuse Ne l'acciar de l'altera indole invitta, Brillan di pugna le sabaude schiere. --Volgi, o padre Eridàn, volgi i tuoi flutti! A piè de la famosa alpe, che pàrte Le due genti latine, argentea e pura La tua gemina fonte al Sol risplende, E di origin comune e d'amistanze Ne fa sacra la terra. Ivi il fuggiasco Tra il fraterno furor Genio latino Auspicando si addusse, e custodía Bella e secura una speranza in core. L'ombre cercò, di cheto obblio si avvolse, Ma non così che al balenar del guardo No'l ravvisasse una gagliarda e fida Prole di Berengario, a cui fu grato Di saggio culto e di pietose offerte L'alma allegrar de l'esule divino. Santo allor fu il suo scettro; ara divenne L'alpe ospitale, e sovra il picciol trono D'Ausonia il core e l'avvenir si assise. Volgi, o padre Eridàn, volgi i tuoi flutti! Ben che d'eccelsa e non ignobil fonte A te accorrono i fiumi; a te dan vasto Tributo di sonanti acque; a te, padre Di feconde pianure, ove nei cheti Argini la natía possa governi; Padre d'alte rovine, allor che in ira Terribilmente imperversando abbondi Fuor degli ardui ripari, e fosco, immenso Possiedi i campi, e sugli abissi imperi. Pari a te da la doppia alpe ne venne Di Libertà l'almo sorriso: al grido, Che le pedemontane aure percosse, Tutti echeggiâr gl'itali petti, e ad una Sorsero a sgominar le schiere ostili. Pari ai tuoi flutti è Libertà: feconda D'anime educatrice, ove al governo Sieda la Legge, e ne rattempri il corso; Torbida madre di rovine, quando Oltre ai segni prorompe, e gl'inconcussi Campi del Dritto pazzamente invade.-- Così dicendo il Pellegrin, la terra Bellicosa lasciava; e, la commossa Alma schiudendo a la serena luce, Che da l'italo ciel l'Arte diffonde, S'avvïava colà dove tra' fiori Gareggian di beltà le Grazie etrusche. Ben avverso alle Grazie e al Bello in ira Vive, Italia, colui che, su l'ingorde Arche seduto, in tuon lugubre intuona L'epicedio de l'Arte! Ignaro, al certo, Fra la plebe ei si aggira, e mai non pose L'orma su queste etrusche inclite rive, Dove tanto su l'Arno arde e sfavilla Glorïoso splendor, qual mai non ebbe Ne le trascorse età. Quante su l'orlo D'un angusto, ritondo orcio, che abbonda Al sol d'agosto il liquefatto miele, Con smemorato ardir giran le mosche; E altre ronzan d'intorno impazïenti Del ghiotto cibo, altre sparute e gravi Strascinan le inveschiate ali pe'l vase; Tanti, e con simil ressa, a l'Arno in giro Stanno gl'itali genî; e qual più vivo Del toscano Ippocrene il fonte attinge, Quel sentirà qual siero entro ogni vena Scorrere il sangue, e tramutata in latte Dolce fluïr del fegato la bile. O arëopago de la patria, o illustri Apostoli de l'Arte, io vi saluto; E tu accogli il mio culto e il canto mio, Città sacra del fior! Chè se ancor vive Entro a l'itale carte un qualche suono De la celeste melodia, che corre Spontanea al labbro de le tue fanciulle; E s'han grido finor le vereconde Muse d'Italia, a te dobbiamo il vanto, A te il pregio, a te il nome. Aspre e robuste Proli, de l'opre e de le pugne avvezze, S'abbian Adige e Po; s'abbiano industri Colòni e pingui campi ed auree mèssi Le contumaci al culto arduo del bello Sicule piagge, ed a l'ignobil remo Sudi il Ligure audace: a voi, d'Etruria Morbidissimi figli, unico vanto Sia la storia dei padri, e pregio intatto La lingua! A noi diseredati ed orbi, A cui nascendo non ombrò le fasce La gran torre di Giotto, a noi, se prude Alcun genio villano entro al cervello, Altra via non rimane, altra salute, Che mendicar dietro al vostr'uscio il tozzo De le vostre merende e qualche cencio De la vostra di frange auree guernita Ducal librèa. Qual poverame abietto, Che per entro a l'altrui vigna, tremante Dopo il ricolto a raspollar sen viene, Noi veniamo tra voi, nudi e digiuni, Cui l'avara fortuna ibrida e grezza Assentì a mala pena la parola, Duro e barbaro gergo, atto a fatica A dir del male ed a non esser muti. Ma qual prima dirò, qual dirò poi Dei luminari, ond'ha corona e luce Il sacro italo ciel? Seduti in giro Nel tempio accolti d'una Grazia etrusca, Come in magico specchio, ecco, me l'offre La mia povera Musa, a cui vien dato Varcar la soglia del gentil recinto. E qual solerte domator, che spieghi De le belve guardate entro a' serragli La specie varia e 'l soggiogato istinto E i costumi e le patrie: a bocca aperta Stan gli attoniti astanti; in simil guisa Dirò dei genî, ivi in gran folla accolti, Le fogge, il favellar, gli atti, la fama. Splende fra le notturne ombre l'augusta Magion sacra a le muse; e avviluppata Negli ampî giri de le sue pellicce Siede l'inclita Egeria, ella, a cui dànno Equivoca canizie e senno arguto Le gazzette e la cipria. Ebbe un dì care Le colombe di Pafo, e la furtiva Ombra dei mirti e il sacro Erice tenne, Finchè piacque a Dïona; or de le austere Opre di Palla si compiace, e amica Spira gli auspicî ai non vulgari ingegni. Tien cospicuo al suo fianco il loco primo L'Eroe ch'io canto. A mortal petto ignoti Erano i casi suoi; bizzarre e strane Favole il rivestían: dicean, che avesse Con sotterranei spirti intelligenza, E che al suon de la sua voce non fosse Ombra antica di sofo o di poeta, Che dal ciel non escisse o dagli elisi A picchiar le vocali assi e l'arcane Magiche tavolette, e dar responsi Chiari e veraci agli ammirati astanti. Pavide e curïose a lui d'intorno S'affollano le dame; e tu superba De l'altera parola anche ne andasti, Pallida Elëonora, a cui non uno Dei gelosi misteri Iside asconde; E voi pur del gentil sesso custodi, Antigone e Sofia, che, a le tiranne Velleità d'un ispido marito Rubellando la fronte, al dispregiato Talamo nuzïal non inchinaste L'altero grembo al solo Ver dischiuso. --E che? l'ultima grida; a noi sul volto Si chiuderanno ancor l'aule di Temi? Sul nostro crin splender non dee giammai L'inclita bacca dottoral? Giù alfine, Giù alfin la benda obbrobrïosa e nera, Cui di pudor mal diede pregio e nome L'astuta crudeltà del sesso ostile. Nostra è l'età, nostra la terra, è nostro L'avvenire dei fati! Al cesto, al corso, A la lotta alleniam le membra ignude: Solo è libero il forte. Altra il sen porga A l'esoso lattante, e il tergo inchini Al feroce baston del suo tiranno: Madre sarà di servi. A noi, del mondo Parte migliore, opra miglior si addice: Femmina è la virtù, femmine sono A par de la beltà l'arti e le muse!-- Tacque, e fêr plauso ai generosi accenti Le dame tutte e i cavalier. Tu solo, Pensieroso Macrin, dal cor profondo Un sospiro traesti, e, la sparuta Faccia e i mïopi volgendo occhi, guerniti Di doppie lènti, a la soffitta avversa Il ciel cercasti, e ti piombò su'l petto Tutta la gran pietà d'esser marito. Degli aurei modi del toscan sermone Gran maestro è Macrin: spruzzato il fronte De le linfe de l'Arno in San Giovanni, Tutti ei conserva ne la ferrea mente Gl'invidiati lepori, e non soltanto L'arguto frizzo e la condita burla, Che scoppietta su'l labbro a la rubesta Ciana camaldolese e l'aureo favo, Che amor porge furtivo a l'improvviso Stornellar degli amanti; anche le viete Venustà di Cavalca e di Guittone Con lungo studio egli pilucca e serba. Tal l'industre formica al sole estivo, Tratti per lungo tramite, ripone Nel ben cavato asil bricioli e miche Con previdente ingegno, paürosa De l'inope vecchiezza; o tal nei sordi Scrigni rammassa il trepidante avaro Non pure ampio tesor d'oro e di gemme, Ma di rotti serrami irrugginiti E di chiovi e di cenci e di ciabatte Nel cupo cassetton gran copia asconde. Di simile ricchezza adorno e pago Va per le vie Macrin, lungo, diritto Qual sciorinata al sole entro la madia Ben tagliata lasagna; ed ai trofei, Che a lui su'l crin l'astuta moglie appende, La gloria aggiunge d'emendati testi, Di compilate moli e di comenti: Filologico mostro, al qual s'inchina Non sol l'ingenuo scolaretto, a cui Imprime nel seder tropi e figure Con la sferza eloquente il pedagogo, Ma quanti son da Susa a Lilibeo De l'italo sermon cultori e amici. Ma chi è colui che truculento e instabile Or da l'un fianco ed or da l'altro volgesi, E scuote il capo ed agita la zazzera, E in cambio di parlar gestisce ed ulula? Demagogo e poeta ei tempra il filo De la republicana ira a la cote De l'appetito, e il giambo archilochèo Spilla al vinifluo doglio, unico olimpo, Da cui la sua spennata aquila avventa I fulmini de l'estro. A lui da lato Nel seggiolon che di sè stesso inzeppa Posa Moron: rubizza e pettoruta Mole, a cui da l'aprico orbe del viso Raggia il fulgor di un cartellon francese. Al picciol fronte, ai cheti atti, al sereno Riso, al voluttuoso occhio natante Tra il vino e il sonno, tra il demonio e Dio, Frate il diresti, e forse il fu. Qual suole Al tronco d'un'altera arbore, o ai fianchi D'un illustre castello arrampicarsi Co' torti rami la paffuta zucca; Fatta superba de l'aggiunta altezza Gl'indiscreti rigogli intorno spande, E, guardando le magre erbe da l'alto, Scorda l'umil radice e al Sol rosseggia; Tal di Dante a la vasta ombra seduto Sua fama impingua il chiosator Morene, E la frase imbroccando e il verbo e il nome Del poema divin, lancia d'intorno Tal furia di cementi e di saliva, Che scrocca il plauso al sonnecchioso astante. Nè te lascia la Musa, o multiforme Delio, a cui da le labbra, ampia e diversa Copia di celie e di saver discorre. Vedilo: come a l'agitar del vaglio Va saltando qua e là l'arido cece, Così da la balzana indole spinto Tra la folla ei s'aggira, e quindi e quinci Motti e sogghigni ed aforismi avventa. Smettete, o voi che sovra illustri carte Vi state a logorar l'ingegno e il tempo, Perchè a l'arte natía decoro alcuno E al viver vostro un qualche onor mai vegna: Così agli astri non vassi! A voi maestro, A voi speglio costui, che la mordace Alma e il saper ne le gazzette attinto Rivende a le gazzette un tanto il braccio. Inchinatevi a lui! Non che a sè stesso, Gloria perenne a chi gli par procaccia: Oracolo solenne, al cui responso La dotta greggia de le vie s'inchina; Ampia ruota che gira, e stride, e schiaccia Le perle a terra, e lancia a l'aria il fango. Ungete, ingegni sconsigliati, ungete Le carrucole a lui: propizio nume Ei sorride a chi l'unge. Opra è da stolti Venir seco a tenzon; più stolta impresa Ai dardi di costui non dar più ascolto, Che dar si soglia a le zanzare estive: Son mortali i suoi dardi! E tu il sapesti, Tu, più ch'altri, il sapesti, o amato capo Di Dall'Ongaro mio! Nè ti fu scusa L'anima intemerata e il pronto ingegno, A cui tutte arridean le grazie amiche, Nè la virtù di peregrini affanni Saldamente sofferti e la tranquilla Custoditrice d'onorati petti Candida poverezza e il crin canuto! Ben di fallace illusïon maestra Ti fu la sconsigliata Arte, se ardía Nei lunghi giorni de l'oscuro esiglio Persüaderti una speranza, e al foco Degl'itali trïonfi accender tanta Giovinezza di carmi entro al tuo petto; Nè ti dicea, che di venali incensi, Non d'ingenue virtù, non d'animosi Spregi usar dee chi vuol propizio il mondo! Però a l'assiduo flagellar di amari Scherni cadevi; e se a l'ingegno invitto L'attico riso concedean le Muse Fino a l'ultimo istante, ingorde arpíe Ir vedesti e redir sul tuo morente Capo, e la gloria insidïarti e il pane Dei cari orfani tuoi! Su la tua fossa La derelitta famigliòla or piange Miseramente, nè le vien conforto Dal tardo onor che al nome tuo si rende. Or tu da quel romito angolo oscuro, Gangetico Assalonne, esci, e la tua Patetica parola ai salutari Sbadigli i labbri e gli occhi al sonno inviti. Dal curïoso sguardo dei profani Un umile pudor forse t'esclude? Virtù di debolette alme è il pudore, E non solito a te. Nè, se arruffata Su le groppe rachitiche ti ondeggia La popolosa zazzera, nemica Di baveri non unti e di severi Pettini; o a mala pena entro al rapato Abito puëril movesi il petto Stento e gli attratti gomiti, indulgente Men ti sarà chi l'alte doti apprezza E de l'oppio e di te. Proprio da sciocchi È il dar fede al parer: tal, che a l'aspetto Sembra leone, asino è all'opre, e tanti, Che l'improvvido volgo aquile estima, Son, se provano il vol, men che tacchini. Qui non regna la plebe; e qual tu sei, Quel che vali e che puoi san tutti a prova. Quanti mai sparge rami a l'aria immensa De l'umano saper l'arbore augusta Tutti hai tu ne la mente: arca infinita, In cui, ridotta in pillole e in pasticche, La densa folla de l'idee si pigia. Terra e gente non è specie o favella, Che arcani abbia per te, cosmopolita Camaleönte, che, di tutti a un tempo Ritenendo, esser puoi tutti e nessuno. Ed ecco, or con meschina ala ti aggiri Carezzevole intorno, or con obliquo Serpeggiamento insinüar ti piaci Entro a' facili cori il tuo veleno; Or con voce melliflua a le tue reti, Erudita civetta, i merli attiri, Or, mutato ad un punto in cinguettiera Gazza, i nomi più vili a l'aura canti. Tu, Catone d'un dì, spregiar sai l'oro Con tragico cipiglio, e tu con furba Docilità di vertebra e d'ingegno L'altrui scale affatichi e l'altrui tasche; Oggi con infantil garbo a l'orecchio D'un'aërea beltà beli il sonetto Sentimental, doman, fatto più saggio, Entro uno scrigno d'òr fabbrichi il nido. Ma chi tutte può dir le peregrine Doti, per cui, Proteo novel, tu cangi Co'l mutar d'ogni dì forme e colori? Chi l'operosa, infaticabil fonte, Per cui, senza invocar madre Lucina, Puërpera ogni dì s'alza la tua Dïabetica Musa? Alcun per fermo Dir non saprà, ben che sia noto a tutti. Sorgi adunque, e t'appressa; e s'alcun mai, Dal serpeggiante tuo venire illuso, Oserà alzar, per calpestarti, il piede, Lascial, dirò volgendo il guardo altrove, Benchè sia serpe al cor, donnola è al dente. Ma son costor le stelle tutte e i Soli, Che ad onor de lo strano Ospite accolse Dentro al suo tempio la gentil Carìte? Così non piaccia al dio, che l'arte e il nome D'Ausonia ha in cura! Fra cotanta luce Non splende Olimpio ancor, colui non splende, Che, la fiera spregiando arte dei padri Che tutta chiusa nel vergineo peplo Rigida custodía l'are di Vesta, Una discinta Maddalena adduce A susurrar detti svogliati e strani Per le tiepide alcove, o a tesser balli Vertiginosi fra le nubi, e un'onda Versar quinci di nenie e di sbadigli Sopra a le folleggianti anime umane. Ecco, ei viene, ei risplende. Altero e bello Ne la modestia sua con misurato Passo s'inoltra; e, benchè svelto e lieve Scivoli sovra i piè, pur non sostenne L'arguto calzolar, ch'ei non proceda Senza un qualche rumor; però ch'ei volle Sotto al tornito stivaletto, a cui Ròdope stessa invidierebbe, un nido Porre di crepitanti e scricchiolanti Genî, che possan dire anco ai lontani: Ecco il nume, adorate! In simil guisa Da l'Olimpo al boscoso Ida venía Il saturnio signor, quando a l'incontro Dolce ridente gli schiudea le braccia La placata consorte, e sotto al passo Gli stridean le selvagge aquile e il fascio Dei serpeggianti folgori. A la soglia Fermasi un tratto; la sottil mazzetta Palleggia, ed il sereno occhio d'intorno Muove in cerca di lei, vergine o sposa, Donna o dea, ch'ai suoi lauri un qualche intrecci Gentil fior di pensiero, e stilli unguenti Sopra le nevi del ben culto crine. Bice è là, che l'attende: ecco, si spicca Dal picciol crocchio de le sue compagne, E gli muove d'incontro e gli confida Nel morbido candor del niveo guanto La voluttà d'una manina ignuda. O felice costei tre volte e quattro, Che con l'aëreo balenar d'un casto Languidissimo sguardo, o co'l profumo D'un sospir ventilato in su la cima Del piumato ventaglio apresi il varco, Non agevole invero, ai luminosi Estri di tanto vate! Oh! lei felice E invidiata a buon dritto! Inutil pompa D'ottuse forme e di bustin ricolmo Ella, è ver, non ostenta: ignobil dote Di vulgare beltà sien le ritonde Polpe e l'adipe osceno, irriguo ai salsi Sudori, e immane, o Dio, carcer de l'alma. Ricchezza unica a lei sia la divina Trasparenza del corpo e i delicati Qual fil di gelsomino arti e il languente Collo e le braccia cascanti. Qual face Chiusa dentro a dïafani alabastri, L'alma in lei splende; e simile a canora Che si pasce di brine aurea cicada, Le vaporose fantasie deliba, Che dal plettro gemmato ad ora ad ora Mollemente deriva il suo poeta, Poeta a un tempo e cavalier. Sui molli Tappeti, ai piedi de la sua regina, Spesso ei numera in pianto i suoi pietosi Nunzî di poesia primi vagiti E i suoi gesti e i suoi cenni, unica scola Ai protervi nepoti. Ella, commossa Da l'ardor dei civili estri, i socchiusi Occhi gli volge; e se ne le divine Estasi le sottili in su la fronte Labbra gli posa, e di cinabro tinto Cader si lascia un indelebil bacio, Dilungate di là, Momi impudenti Dai mordaci sarcasmi, e non osate Dar condito di burle al vulgo iniquo Il mister di quei petti: a completarsi Tendon l'alme per fato; e chi no'l crede Ne dimandi a Platon! Ma oscuro e muto Sui soffici divani a poltrir forse Venne il divo cantor? Tolgalo il casto Senno di lei, che è sol suo studio e vanto! Ai secreti colloquî, ai vaporosi Veleggiamenti dei verginei ingegni Serban le Grazie altr'ore: aman gli opachi Vetri le Grazie e le socchiuse imposte, Da cui, non dispregiato ospite, il solo Profumo entri dei fiori, e a cui dan velo Con fantastici giri i rampicanti Convolvoli azzurrini e l'ampie tende Non indocili a l'aure. Ora è codesta Di saëttar co' glorïosi raggi Gli sparsi in quella sala astri minori; Ora è d'aprir con l'armonia dei versi La rigid'alma del più rio marito. Come soglion d'intorno a un'iridata Bolla, che con sottil fiato da l'alto Del suo balcone il fanciullino espresse, Correre ed affollarsi e spiccar salti Gl'irrequieti monelli; e mentre incerta Pende quella su l'aëre, e al Sol si pinge Di tremuli colori, impazïenti Lanciano i berrettini, e fanno a gara A chi primo l'aggiunga; in simil guisa Corsero tutte, e s'attruppâr d'intorno Al tonante cantor damine e spose. Ecco, egli accenna, ei legge; attenti, udite: --Egli ed ella eran due! Qual fulminato Arcangelo superbo, orribilmente Mugghiava per la torva aere sanguigna Un moribondo temporal. Dai mesti Pertugi de la terra ad uno ad uno, Siccome frati ch'escon salmeggiando Da le pallide celle, uscíano i funghi Annusando l'autunno; e, co'l volubile Mappamondo a le spalle, in simiglianza Di pellegrini piccioletti Atlanti, Le bavose lumache ardían mostrarsi Saettando la corna. Essi eran soli! Eran soli a mirar le rubiconde Agonie d'un tramonto. A passi lenti, Per la morte del Sol vestita a bruno La sonnambula Notte discendea Pe' gradini de l'etra, e mille e mille Angeletti lumaj davan la luce Ai fanali del ciel. Sotto i giganti Rami d'un eucalipto, immenso figlio De l'australiche selve, in su le barbe Dei vellutati muschi e dei licheni La giovinetta si assidea, struggendo Le delicate fibre e gli otricelli Del monocotilèdone embrïone D'una dïoica pandanèa. Le braccia Distese Arrigo, sospirò, fu sua! O poverella ardita, o mendicante Regina, o musa mia, sorgi dai tuoi Papaverici sonni, e dimmi quanta Febbre di voluttà bruciava i petti Di quei lieti accoppiati, e i lampi e i tuoni Dei sorrisi e dei baci e la battaglia Degli eccitati muscoli!-- Un solenne Scoppio di plausi e di femminee voci L'aurea sala echeggiò; dal sonno scosso Moron sorge, ed applaude; altri in disparte Con la bile sul labbro e il guardo a sghembo Dà il galoppo a l'invidia; il naso arriccia, E fa il greppo Macrin; pago e beato L'apollineo sudor terge, e carezza Gli attorti baffi il morbido poeta; E, sprofondato ne la sua poltrona, Scrollando il capo il Pellegrin sorride. Mosso poi da un mordace estro di sdegno, In piè levossi, ed esclamò:--La voce Degli spiriti or s'oda; a me gli usati Alfabetici segni e le canore Assi da cui, se tanto pur siam degni, Del gran padre Alighier gli accenti udremo.-- Disse, e al cenno d'Egeria una ritonda Tavola fu recata, a cui dei quattro Ben atti piedi, che le fan sostegno, Uno ha tanta virtù, che al flusso occulto Dei magnetici spirti agile e destro, Più del pensier degli ammirati astanti, Scerne le note, ed il responso appresta. La mirò, la tastò con le gagliarde Nocche l'Eroe da tutte parti, e quando L'ebbe assettata su le cifre, entrambe Vi sovrappose con mirabil rito Le aperte palme, e simulando un senso Di riverenza e di paura in volto, Vi fisse il guardo, ed invocò. Già scricchiola Il fatidico legno; un dopo a l'altro S'odon tre picchi; come Tiade invasa Da la furia del nume, or quinci or quindi Il sonnambulo piè lanciasi in volta, Nota i segni soggetti, e sbalza e sguiscia Ratto così, ch'occhio o pensier no'l segue. Tace alfine, e s'arresta; attenti, immoti Pendon tutti d'intorno; ecco il responso: --Chi da le sfere luminose, ov'io Libero spirto in grembo al Ver mi eterno, Mi richiama al fatal lido natío? Ben giunse a me nel mio loco superno D'Ausonia il grido e il rimbombar de l'armi, Per cui perfetto il pensier mio discerno. Levai sdegnoso dai funerei marmi L'onorato mio capo, e a le pugnanti Schiere in mezzo piombai co'l brando e i carmi. Oltre l'alpi esulâr monche e tremanti Le teutoniche belve, e il profetato Veltro regnò su' ceppi e i troni infranti. Entro a l'are venali imprigionato Urla fra tanto il traditor Giudeo, Che a' danni nostri ed a l'insidie è nato; Ma a l'onte occulte e al macchinar suo reo Splender più bello e star più saldo io miro Solo un vessil da Susa a Lilibeo. Pur, se a l'itale muse il guardo io giro, Tanta di lor m'assale ira e vergogna, Che in volto avvampo, e dentro al cor sospiro. Qual mendica erra; qual vaneggia e sogna; E qual de l'Istro o de la Senna impura L'onda attinge, e le sue membra svergogna; E mentre una s'insozza e si snatura, L'altra oziando sbadiglia; onde ai lor danni Stride lo scherno, e il freddo oblio congiura. Or leva, o genio mio, leva i tuoi vanni, E tal su'l capo lor fulmina un telo, Che la memoria sua viva negli anni. Mostro vien fuor da l'iperboreo gelo, Che la diva stuprando Arte dei suoni D'orrido strepitío streper fa il cielo; E strepitando in strepitosi tuoni Strepita sì, che a nostre orecchie offese Sembran dolci armonie bombe e cannoni. Già si affaccia, già invade il bel paese: Fuggon le Grazie; e n'han dal ciel spavento L'angelo di Catania e il Pesarese; Ma chi il senso de l'Arte in petto ha spento E ferrea l'alma e assai più ferrei orecchi Catechizza le turbe al gran portento. O tu, se il genio tuo mai non invecchi, Vivo onor di Busseto, a l'empie grida Piegherai l'alma, e fia che in lui ti specchi? Sorgi; a l'antica melodia confida Gli estri, ond'uomini e tempi animi e crèi, E lascia i dotti ragli al nuovo Mida! Nè fia che in voi non vibri i dardi miei, O de l'onnipossente Arte dei carmi Sacerdoti non già, ma Farisei. Sento tra una venal turba chiamarmi Chi d'alma vuoto e d'onestà digiuno Libertà grida, e il vulgo aízza all'armi; E chi in aspetto di plebeo tribuno Giambi saetta avvelenati e cupi, E fuor di sè non trova onesto alcuno: Idrofobo cantor, vate da lupi, Che di fiele brïaco e di lièo, Tien che al mio lato il miglior posto occùpi, E veggio lo svenevol cicisbèo, Che, d'ingegno ventoso e di cor frollo, Gratta la cetra in suon di piagnistèo; E, incipriato le chiome e torto il collo, Co'l ciglio imbambolato e il guardo losco, Va a confettar gli stronzoli d'Apollo. E tu chi sei, che chiudi il viso fosco Ne la larva di Plauto, e stenti e sudi A condir vuote ciance in sermon tosco? Ben altri stenti omai, ben altri studi Chiede Talía, che infarcir motti e scede Scevri di senso e di pudore ignudi. Più d'una gazza razzola al tuo piede, E manda il nome tuo da Battro a Tule, Te proclamando di Goldon l'erede: Gracchiano al vento come immonde sule, Che di grida scomposte il ciel fan sordo, Se han pinzo il ventre e molle il gorgozzule; E tu di lauri e di nastrini ingordo, Qual verme che si pasce in suo pattume, Tanto sei fatto omai cieco e balordo, Che ancor bianca la voce e il mento implume, Piantando il pedagogo a mezza via, T'alzi a maestro di civil costume. Torna, o stolto fanciullo, al _quare_ e al _quia_, E, se granel di sale anco ti resta, Pulisci il socco, e rendilo a Talía. V'è chi avendo di liti un guazzo in testa, E faría meglio a strombazzar pe' trivi, Calza il coturno, e le ribalte infesta. Strillan le maghe; corre il sangue a rivi; Surgon spettri e vampiri; urlano i morti; Vivi i fantasmi son, fantasmi i vivi. Pugne, stragi, rapine, incendî, aborti, Suon di catene, parricidî, incesti, Orgie d'alme e di carni e fusi torti, I reconditi intingoli son questi, Per cui Melpomenèa briaca e pazza Fa che gli spettator rimangan desti. O di zebe e di buoi stupida razza, Se pur fra tante teste avvi un cervello, Quel beccaio urlator cacciate in piazza! Chè s'ei dona al suo genio altro rovello, Per far la scena a voi stessi più viva, Al collo vostro appunterà il coltello! E tu d'irti istrïoni orda cattiva, Che vendi e insozzi il sofoclèo coturno, E vai d'oro superba e d'onor priva, Smetti il traffico vil, per cui l'eburno Trono de l'Arte e i sacrosanti altari Covo son fatti a fornicar dïurno. Varcan per opra tua montagne e mari Le più turpi di Gallia ibride Muse, Che lor facil beltà dan per danari; E involgendo la colpa in auree scuse, Coronando di fior chimere e mostri, Scroccan l'applauso de le turbe illuse. Stolte! nè san, che da quei sozzi inchiostri Spandesi intòrno sì mortal mefíte, Ch'alma e braccio prostrando ai figli nostri, Li farà indegni de le glorie avite!-- Tal suonava il responso. Impallidîro Donne e poeti, e si guardar negli occhi Irrequieti, silenti. Arse di sdegno L'altera alma d'Egeria; arse pur ella La florivola Bice, a cui la punta De la mal tollerata ira risveglia Le isteriche trambasce e invola i sensi; Arser su tutte inviperite e fiere Antigone e Sofia, coppia gemella D'emancipate amazzoni. Ribolle Ne le lor vene il maschio sangue; in fronte De l'audace Stranier figgon gli sguardi Sinistramente; e certo avrían quel giorno D'un gran fatto illustrato il nome oscuro, Ove Olimpio non era: ei le contenne Subitamente, e con gentile e ardito Piglio di paladino: A me si addice La vendetta, esclamò. Volse lo sguardo, Così dicendo al Pellegrin, che muto Fra cotanto armeggiar d'ire e di accenti Del suo fiero sermon godeasi il frutto. Poi replicò:--Lo spirto e la parola De l'Alighier qui non si udì: mentite Voci dal labbro di costui dettava La rea calunnia ed il livor codardo!-- Balzò a quel dir l'Eroe. Pari a ringhioso Stuol di mastini, che, a un rumor lontano Desti tutti in un punto a la tard'ora, Uggiolando prorompono a la siepe Del custodito pecoril: l'un l'altro S'aízzano co'l grido, e, a lo sbarrato Limitare avventandosi co' morsi, Raspano il suol rabbiosamente; allora Ch'odono del pastor la voce e il passo Si ramansano a un tratto; penzoloni Gittan la coda, spianano le orecchie, E muti, muti acquattansi; in tal guisa Al sorger de l'Eroe tacque l'impronto Bisbigliar degli astanti; e con furtivo Pavido sguardo e con moto conforme I suoi sguardi, i suoi moti ognun seguía. Ei favellò: --Qual che tu sii, nè al certo D'infamia o loda il nome tuo fia degno, Stolte parole or proferisti. Hai vôta Alma e cervel gonfio di fiabe, ed altro Che inutil fiato il labbro tuo non mette. Di mutue lodi, e di vulgari incensi Pago tu vivi, e teco il gregge: ingrato Però il vero a te suona, a te che l'arte E la natura e te stesso mentisci!-- Non si contenne a tal parlar superbo L'offesa alma d'Olimpio, e:--Il nome mio, Gridò, il saprai, ma con la spada in pugno, S'hai fermo il core, e cavalier tu sei!-- Disse, e come a la cheta ora del vespro, Se a' bruni aranci del giardin, da cui Pendon purpurei ed odorati i pomi, Cantarellando una canzon t'appressi, Odi tosto un frusciar d'ali e un pispiglio Di furbi passerelli a fuggir lesti; Così d'Olimpio al favellar si sveglia Sordo intorno un susurro: e chi gli audaci Sensi condanna; chi l'ardir ne loda; Chi la gagliarda valentía n'esalta; E ognun gode in cor suo, che il novo evento Nova materia a favellar gli appresti. Tu sola dal profondo animo gemi, O dïafana Bice, e a lui d'intorno Trepidante ti serri, e invan ti adopri Dal destinato petto a svolger l'ira. In sua tranquilla maestà spartana Ei si parte da te, ma non sì lesto Da non udir queste parole acerbe Che gli gitta l'Eroe: --Gonfia a tua posta Di sonanti minacce il dir tuo folle, O menestrello paladin: non uno, Ch'abbia intera la mente e sano il core, Dirà men vero il mio parlar; t'indossa, Se pur lo vuoi, maglia e lorica, e al filo D'un sordo acciar la tua ragion commetti, Ragion degna di ferro; io, finchè splenda Agli occhi il Sole e a questa mente il Vero, Ragiono e vinco, e i pari tuoi disprezzo!-- CANTO DUODECIMO. ARGOMENTO. Lucifero giunge in Roma.--La breccia di Porta Pia.--La festa del Colossèo; durante la quale ascolta l'Eroe alcune voci misteriose.--Voce di Ebrei.--Voce di Numi.--Voce di Sacerdoti.--Voce di Santi.--Voce di Diavoli.--Voce del Tevere.--Voce della Savoia.--Voce della Corsica.--Voce dell'Istria.--Voce di popoli slavi.--Voce della Germania.--Spavento dei beati alla nuova che Lucifero è in Roma.--Santa Caterina da Siena, rimproverandoli acerbamente, si offre di scendere in terra e di piegare con la sua eloquenza il nemico.--Iddio, benchè dubbioso del buon successo, glielo accorda; e, mentre ella si dispone a partire, Santa Teresa dà scandaloso spettacolo della sua pazzia. Poichè avvolse così d'alti dispregi Le parole d'Olimpio e il reo costume, Che risibil comporta il secol nostro, L'auree sale d'Egeria e le tranquille Sedi d'Etruria abbandonò l'Eroe; E a te si volse, o del suo cor supremo Desiro e dei suoi passi ultimo segno, Tiberina città, che tutta chiudi Del popolo latin l'anima e 'l fato. Date querce ed allori a le recenti Brecce di Porta Pia, date corone Al Sabaudo Monarca, itale genti; E custode di lor l'inno risuone, Che diêr braccia e pensieri E la vita al grand'uopo! Are son fatti Li trafficati e neri Templi dei dieci colli, Cui geme al piè, d'onta e di rabbia tinto, Chi al ciel serva la terra, e a la codarda Fede contenne il Pensier divo avvinto. Saldo negli anni, occulto Ne l'ombra e tutto cinto D'armi e d'insidie, il piè dentro al profondo Petto d'Adamo, il capo agli astri, il grido Ai poli, eterno si tenea l'infido Pescator Galilèo reggere il mondo. Ma come avvien, che, rósa Dai secoli e dal mare, entro il mar crolla A nuovo urto di turbo ispida rupe, Che negra e minacciosa, Riprodotta da l'onda, al navigante Pendea su'l capo, e gli oscurava il core; Tal, pugnato dagli anni e più da questo Eterno flutto del Pensier, che invade Ogni creata cosa, Trema, balena e cade Il doppio soglio a Libertà funesto. Dei primi onori il vanto Miete al certo colui, che primo accoglie Arduo pensier ne l'alma, e chi l'ignudo Pensier ne la feconda opra traduce. Dai domestici affetti e da le braccia D'ogni più cara illusïon si scioglie; E oltre ad uso mortal guardando in faccia Ad inaccessi Veri, Sordo dei figli e de la sposa al pianto, Là sè stesso periglia ove più crudo Ferve il conflitto; e a recar vita e luce Corre colà, colà vince e procombe, Dove più ferrei e neri Pugnan fantasmi, e più la notte incombe. Però, sola e più degna Eternità che al gener nostro assente La fatale Natura, a noi nel petto Vivrete eternamente, Quantunque siete, o eroi De l'umano pensier; sia che mutando La molle cetra in brando, O in viva fiamma di Sofia l'acume, O in fulmine la voce, Nel più chiuso del cor portaste oltraggio A questa vaticana Idra feroce, Cui non giovò dar vostre carni a morte, Quando la fiamma inesorata e il ferro, Che brevemente il corpo vostro offese, Ruppe il suo petto, e le sue membra incese. Ma non senza gran laude a le venture Genti andrà il nome e il grido Di chi l'ultimo crollo a la superba Mole impavido impresse, onde stupite Mirâr le più gagliarde anime, e intorno Tremar parve la terra. O benedetti Voi, che la vita acerba Fidaste, o giovinetti, A l'onor del gran fatto, e benedetta La destinata mente Di Lui, che, custodita entro ai gelosi Carceri Adrïanèi la vita inferma, Inesorabilmente Fulminò a morte indegna L'italico vessillo e i vostri petti! Veglian su l'infrequente Uscio le madri abbandonate, o, accolte L'anima tutta nel pensier di voi, Lascian piangenti a mercenarie mani Le vigilate masserizie, e vanno Dove a lenir l'affanno Una voce di ciel par che le chiami. Ardono i ceri; un'onda D'incensi e timïami Vaporan l'are; una pietosa, incerta Melodia le devote anime inonda; E, dentro a un nimbo avvolto Di profumi, di suoni e di splendori, La sacra ostia consacra, e preci ignote Mormora il sacerdote. Qual improvviso e fiero Tuono per li diffusi archi rimbomba? Come dischiusa tomba Putre e nereggia il sacro tempio; stride Il percosso saltèro; Illividito e nero Guizzi sanguigni avventa Ogni lume, ogni cero; Rosseggia l'elevata ostia, ed infetta D'orrida tabe, al volto De le pie turbe e al cor dardi saëtta Di sdegno e di vendetta; Urla sui tormentati organi eretta La cieca Morte, e invita A fiera tresca il pallido Levita. Ecco, spumeggia di sangue recente Il benedetto calice; volteggia Da feroce disio fatto più lieve L'inebbrïato Prete... Madri, madri, fuggite: il sangue è quello Dei figli vostri; il santo vecchio ha sete; Madri fuggite: il sangue Dei vostri figli ei beve! Ma di sangue che parlo? Ecco, fiammeggia Sui debellati altari Il vessillo d'Italia! Oh! salve, oh! viva Nel tuo triplice raggio, iride santa Di libertà! Da la percossa riva De la tumida Senna ululi avventi La piagata nel cor druda di Brenno, Cui la vittoria altrui par sua sconfitta: Fuor d'ogni modo e senno, Ebbra d'invidia, esulti Prostituta liberta, e d'impudenti Minaccie a te, sacro vessillo, insulti, E al nostro Eroe! Giorno verrà, nè incerti O lontani presagi al carme io fido, Che, ravveduta o stanca Dal sozzo amplesso di plebei Caini, Te chiamerà, come chi piange. Al grido Risonerà l'irta Pirene; e quale Iena sorpresa a l'avvenir del giorno, L'iberico soggiorno e il reo pugnale Lascerà urlando il bieco Masnadier di Castiglia. Allor saprai, Putta de l'Ebro infurïata, a quanta Luce di libertà volgesti il tergo Quel dì, che ai tuoi rissosi Schiavi t'abbandonò l'italo Alunno, E da le regie chiome Strappò sdegnoso il serto, Pur che la fronte altera Erger potesse intemerata al sole, E, monda del tuo sangue, al patrio albergo Recar la spada ed onorato il nome. Venga, oh! tosto, quel dì! Cessi il furente Baccar di questa erine Licenziosa, a cui Vanto di Libertà danno i suoi drudi, E quanti han voglia ardente Del reo suo grembo e dei suoi fianchi ignudi! Ecco, a piccola pugna un'immortale Gloria succede: col pensier trïonfa Roma, e regina del pensier si asside Fra' redenti latini! In alto il guardo, Popoli tutti: il Campidoglio è questo! Roma è Ragione e Libertà; novella Èra incominciai Sugli altari infranti, Da un solo amor costrette, Gridiam, genti latine: Avanti, avanti! Così a l'entrar ne la Città famosa Fremeano i sensi de l'Eroe. Solenne Era quel dì: rinascea Roma. Ornati Di ghirlande d'allori e d'orifiamme Splendean ponti, obelischi, archi e teatri; E dietro a le giganti Ombre dei morti Ivano al Colossèo festosi i vivi. Iva anch'esso l'Eroe. Su le rovine Titaniche di Roma un fiammeggiante Sguardo mandava alto a l'occaso il sole: Un incendio parea, da lo cui grembo Si liberasse una feroce e bella Vergine che diceva: Io son la grande Libertà dei Latini! Immenso e solo Sovra ai neroniani orti grandeggia Il vastissimo Circo, a cui da strani Colori e bizzarre ombre un magistero Di bengalici fochi; ondeggia il folto Popolo, e a' plausi armonizzate e agl'inni Le gagliarde fanfare empiono il cielo. Non udiva l'Eroe; ben altre voci Gli suonavan ne l'alma: echi lontani De le passate età, vaghe armonie De l'avvenir, preci e bestemmie escluse Ad orecchio mortal, ghigni e sorrisi D'idoli nani e d'uomini giganti. VOCE D'EBREI. Dai traffici fecondi, Unico asilo al pertinace ingegno, Da le folte città, dai fremebondi Flutti di gonfî mari, Sempre io sospiro a voi, sempre a voi guardo Con la speranza mia, rive dilette Del Giordano natío, raggianti altari Dei padri miei, terre da Dio promesse. Come al Libano eterno, a cui ghirlanda Sono i cari al Signor cedri vocali, Drizza il fulmineo vol, come a sua meta, L'aquila pellegrina, Tal del disio su l'ali A voi corre il mio core, e in voi s'acqueta. Voi sul monte di Dio spargete al vento, Cedri vocali, i rami annosi, e fermi Sfidate i nembi e i secoli, mentr'io Per terre e per età, ramingo eterno, Il suol dei miei nemici Bagno del mio sudor, del sangue mio; E al flagel de le avverse ire, a lo scherno, Che sibila su me freddo e funesto, Piego le spalle inermi, Spero, e pugno sperando, e mai mi arresto. O cedri incliti, invano, V'intendo, invan voi non mettete eterne Entro al monte di Dio l'alte radici; Però ch'eterna, a par di voi, si asside La speme del trïonfo entro al mio petto. Voi rivedrò! Da queste infauste arene, Che del mio sangue tinse Tito, delizia de l'umane genti, Da ove sorge la notte e il giorno viene, Da tutti e quattro i venti, Quel divino voler, ch'indi mi spinse, Richiamerà, nè fia lontano il giorno, Il vincente Isdraello al suo soggiorno! VOCE DI NUMI. Esuli affaticati, Senza speme di vita e senza regno, Fuggiam, cadiam sotto al flagel dei fati, Del pensiero de l'uom ludibrio indegno. Il serto luminoso Del poter nostro ov'è? Dove il raggiante Trono del sole e i sempre verdi alberghi De l'Ida? Ove il temuto Folgore e le sedotte Figlie de l'uom? Tutto d'intorno è muto A noi; squarciasi il velo, Da l'inganno tessuto, Che lieve sosteneaci a mezzo il cielo; Manca il cielo a nostr'orme: i fior, la luce, L'amor, la giovinezza, il paradiso, Tutto a un punto dissolvesi Al fiero lampo de l'uman sorriso. Esuli affaticati, Senza speme di vita e senza regno, Fuggiam, cadiam, sotto al flagel dei fati, Del pensiero de l'uom ludibrio indegno. O miserando e gramo L'esser nostro di Numi, ove al talento Di mortal plebe abietta, Qual nebbia vana ad agitar di vento, Sorgere a caso e dileguar dobbiamo! Ove andrem noi? Di amici astri deserto È il ciel; d'altari è brulla La terra; inesorabile si avanza La Verità; l'Oblio ne inghiotte e il nulla... Oh! fosse dato almeno A noi mutar sembianza, Gioir l'aere terreno, Scendere in terra e aver con l'uom possanza VOCE DI SACERDOTI. Tramonti pur, tramonti, O fuggevole Iddio, la tua possanza; Noi terrem contro al fato erte le fronti. D'imbelli anime è stanza La terra; e noi teniam su l'alme il piede: A te il ciel manca; a noi la terra avanza. Più che astuti noi siam, cieco è chi crede; Cada Saturno, o Gèova, Mai non cadrà dal petto uman la fede! VOCE DI SANTI. O misera e fugace Vita de l'uom, che speri? Non ha trïonfo e pace Questo agitato vortice Di affanni e di piaceri. Come in silice abietta Prigioniera scintilla, Così l'anima, eletta A miglior sorte, ascondesi Ne la mortale argilla. Dio ve la chiuse; al solo Cenno del suo pensiero Ella discioglie il volo, Mesce il suo raggio a l'iride Del sempiterno Vero. Soffriam: de la romita Alma, che piange e crede, Cibo, lavacro e vita Son la Speranza eterea, La Carità e la Fede. VOCE DI DIAVOLI. Che val pascer di vuote Fuggitive speranze il cor digiuno? Navigar co'l desio regioni ignote Derelitti nocchieri a l'aër bruno? A noi prescrisse un segno La diversa Natura, e mal n'è dato Spinger oltre il poter l'audace ingegno, Cercar ne l'ombre e battagliar co'l fato. Han pur queste fugaci Ore terrene alcun sorriso e fiore, Ha battaglie il pensier, le labbra han baci, Vita la terra, e inferno e ciel l'amore! VOCE DEL TEVERE. Molte sul dorso antico Storie nefaste io porto, Molte nei gorghi miei storie nascondo; Ma, poi che per età son fatto accorto, Freno il flutto iracondo, E al mar mio grande amico Al vecchio mar le vecchie storie dico. Dal mobile soggiorno De l'onde cristalline, Coronate di perle e di coralli Corrono a me le azzurre Ocëanine; E melodia di balli, Per quanto è roseo il giorno, Voluttuöse a me tessono intorno. Ond'io, fatto loquace Da la vista amorosa, Assiso in mezzo a lor canto le strane Vicende de la mia storia famosa; Mentre su l'onde piane Con la sua mesta pace Siede la stanca luna, e l'aura tace. Tutta allor torna viva Nel mio canto fatale De le vetuste età l'aurea leggenda: Quando la Fede a la Giustizia uguale, E deïtà tremenda Era la Legge, e diva Cosa la Patria e chi per lei moriva. Taccio però l'offesa, Che a l'aquile di Giove Recò una turba di feroci imbelli; Taccio il baglior di queste genti nuove; Però che sui ribelli Flutti lasciata illesa La croce di Gesù troppo mi pesa. Ma un dì, se l'onte atroci Non moveranno alcuno Che in me l'affoghi e d'ogni onor la privi, Io parlerò: sentirà allor ciascuno Di questi rei malvivi Tuonar con ferree voci L'eloquenza dei miei flutti feroci. Fuor dai percossi fini Proromperò, indomato Dèmone; stenderò l'onda funesta Sui colli; segnerò l'ultimo fato All'ara, al trono, a questa Degna dei suoi destini Plebea ciurma di Borgia e di Tarquini! VOCE DELLA SAVOIA. Dal trono de la gloria ove tu sei Ricca d'armi, di mente e di fortuna, Madre Italia, ricorda i figli miei, Ora che amor tutti i tuoi figli aduna. Pensa che nel dolor giace colei, Ch'a' guerrieri tuoi re diede la cuna, Da te divisa e serva a lo straniero Lei che fu patria al redentor Guerriero! Ben prudente consiglio esser potea Gittar mie carni al fero augel francese, Quand'anco incerto il tuo destin pendea, E tronche a mezzo eran le patrie imprese. Ei che il sangue per te versato avea, Tarpò il tuo volo, e il sangue mio richiese; Io, ch'ebbi il tuo più che il mio ben diletto, Tacqui, ed offersi al sagrificio il petto. Ma or che forte e secura e di te stessa Donna, per propria via, splendida incedi, Tanta virtù non m'è dal ciel concessa, Ch'io taccia ancor de lo straniero a' piedi; Di lui, che, d'ogni error l'anima ossessa, Contro il suo petto infurïar tu vedi, E dal reo brago, ove ognor più s'ingora, Giudicar osa e minacciar tuttora! VOCE DELLA CORSICA. Già non dirò, che prima Fra l'isole tirrene D'ogni bellezza opima Sono albergo di ninfe e di sirene: Ad altri il debil vanto Di molli aure e di fiori Ed il femmineo canto E i florívoli amori. Cirno son io: de l'onda Che mi flagella i liti, Qual d'armonia gioconda, Serbo nel seno i liberi ruggiti; D'odio, d'amor, di sdegno Facil s'accende il petto; Pronto il braccio e l'ingegno Al par del mio moschetto! O madre Italia, e vuoi Che da te svelta io giaccia? Ch' io non aduni ai tuoi I miei sensi, i miei fati e le mie braccia? Chiedi gemme e tesori? Gemme e tesori ho anch'io: Gemme? I miei patrî allori; Tesori? Il popol mio! VOCE DELL'ISTRIA. O tu, Sir del vetusto Trono d'Asburgo, invano Offri al Sabaudo augusto Pegno d'alta amistà l'ambigua mano. Credi, levar l'artiglio Dal fianco mio, dov'hai la piaga aperta, Saría miglior consiglio E più regale offerta. Tra noi di pace è questo Unico patto e degno; Chè il simular molesto D'astuzia rea, non di fortezza è segno. Placate allor, lo spero, Sorrideranno al tuo regale albergo Le nostre Ombre dal nero Ciglion de lo Spilbergo. VOCE DI POPOLI SLAVI. Qual grido funesto risuona sul monte? Qual gemito cupo si leva d'intorno? È forse la Vila dal lucido fronte, Che cinta di nembi si slancia nel ciel? In cima a la rupe, nel niveo soggiorna Riposa la diva le membra sue snelle; Le danzano in giro le rosee donzelle, La cullano i canti d'un astro fedel. Fra l'ombre solenni, fra l'irte boscaglie Forse urlan le belve pugnanti a la preda? O, attorte agli abeti le rabide scaglie, Di Bàlkan le serpi lingueggiano al Sol? O figli di Serbia, se il cielo vi veda, Balzate dai sonni, lasciate le selve: Più fieri serpenti, più rabide belve A l'aquila nostra tarparono il vol. Ferita a Cossòvo dal turpe Islamita, Perduto il remeggio de' giovani vanni, Dai campi raggianti di gloria e di vita Ne l'ombre di morte, stridendo, piombò. Sbucâro i ladroni giurati ai suoi danni Dai scitici ghiacci, da l'Istro interdetto; La fissero in croce, sbranaronle il petto; Chi men le diè strazio men prode sembrò. Ah! dove in quel giorno, dov'era il tuo brando, O Marco, o di Serbia speranza immortale? Conosci e sostieni lo strazio nefando? O il sonno e la morte ti avvinser così Che nulla più curi? La morte? Il fatale Momento di morte per lui non arriva: Mutate la nenia ne l'oda festiva; Ei dorme, si scuote, risvegliasi al dì! Ei sorge, si appressa: de l'antro fatato Risuona ai suoi passi la volta profonda; Il negro cavallo gli scalpita allato; Gli mette baleni lo sguardo e l'acciar. Già monta in arcioni; la turba il circonda; Il corpo squarciato si unisce e cammina; La schiava spregiata si leva a regina; La tomba dei prodi diventa un altar! VOCE DELLA GERMANIA. O prima reggia del Pensiero, augusta D'idee madre e di genti, Patria del gener nostro Asia vetusta, A te col grido dei perfetti eventi, Vetusta Asia, il saluto La libera Germania alza su' venti. Odi: stridono ancor su'l combattuto Reno i miei plaustri; echeggia Il mio vittorïoso inno temuto; E con securo il vol come in sua reggia Quant'è di cielo intorno Di Brandeburgo l'aquila passeggia. Sorgete, o voi dal feüdal soggiorno, Tremende Ombre, sorgete, Fiere stirpi d'Arminio, al novo giorno; E voi che sul divin Tebro scorrete, Secure Ombre, e la nova Stirpe latina a magne opre accendete, Venite: a la funesta ira non giova Dar l'alma, or ch'ogni gente Guida un solo pensiero a varia prova. Voi condurrò nel mio volo possente Dove com'aureo sole Poggia di Brama la magion lucente; Dov'erge l'Imalai l'intatta mole, Ed a la Ganga in giro Del loto degli Dei splendon le aiuòle. Come giorno che irradia il vasto empiro, Tal da le rive bionde Sorger tranquilla una gran luce io miro; E a la gran luce un'armonia risponde, Da cui senso e pensiero Prendon l'aure, le stelle, i fior, le sponde: --Smetti, o figlio del Lazio, il vanto altero, E tu, d'Arminio figlio, Riponi il brando insanguinato e fiero! Se l'un ne l'altro insanguinò l'artiglio, Roma lo sa; lo sanno De l'Elba i flutti e il Reno ancor vermiglio. Troppo fra voi di servo e di tiranno Voce sonò: gli avelli Son anco aperti, ed ancor vivo è il danno. Ma se i miei sensi al ver non son ribelli, Io qui da questa sponda Secura griderò: Siete fratelli! Là sul vasto altipian radice e fronda Pose l'Arìana antica Pianta, che fu di molto fior feconda; E se il turbo la svelse, e la nemica Sorte ne infranse i molti Rami, i germi educò la terra amica; Onde sott'altro ciel giovani e folti Sorser mutati, e fûro Da inconscia man moltiplicati e còlti. O gente cieca, a cui pur l'oggi è oscuro Voi de l'Arìana pianta Siete due rami, in faccia al Ver lo giuro. L'un s'infrondò su'l Campidoglio, e tanta Arbore al ciel spiegossi, Che cadde alfin dal proprio peso affranta. Tal su l'altro di nembi ira sfrenossi, Che le pigre ombre e 'l gelo Fuggendo e da pugnace indole mossi I suoi fieri cultor sott'altro cielo Ruppero, e fûro al corso Tigri, e demòni al fulminar del telo. Serrate, o stolti, a l'ire orrende il morso; E più dei truci acciari Abbia su'l vostro cor punta il rimorso! Entro al fin dei suoi monti e dei suoi mari Vigili ognuno, e il volo Sfreni al pensier, che fa temuti e chiari. Vedrete allor da l'uno a l'altro polo Sorger le genti, e avranno Per sentiero diverso un pensier solo; E, spento prima ogni desío tiranno Ed ogni error conquiso, Fide a Giustizia e a Libertà staranno!-- Salve, o diva Scïenza; al detto, al viso Che sopra ogni altro estimo, Ai voli rutilanti io ti ravviso! Per te del mio pensier l'ali sublimo; Per te nei sanguinosi Studî de l'armi il popol mio va primo. Tu che, amica de l'opre, i neghittosi Ozî diradi, e vivi Vigil sempre ed eterna e mai non posi, Tu che redimi a libertà i captivi, I restii sproni, e godi Sovra l'ombre versar la luce a rivi, Tu, assidua e paziente il tempo rodi; Tu i diradati stami Dei popoli dispersi ordisci e annodi. Da l'abisso dei morti anni richiami L'ossa eloquenti: ritte Composte in scheltri in sugli altari infami, Gridan così, che a mezzo il cor trafitte Da la parlante luce Precipitan le sacre Ombre sconfitte. Salve, o diva Scïenza; auspicio e duce D'ogni grand'opra; ai santi Regni del Vero e a Libertà ne adduce La voce tua, che grida sempre: Avanti! Poi che al veggente immaginar l'altero Ribellator degli uomini si tolse, E mirò intorno il vasto Circo, un alto Silenzio s'assidea sui tenebrosi Menïali titanici, e fra' rotti Pilastri ed i corintî archi passavano Lunghe file di mute Ombre e la luna, Ei mirava e tacea. Ma tu nei santi Penetrali del ciel già non tacevi, Gran signor dei beati: acre e vorace Ti rodea l'alma una gran cura; e come, Se fra poche pareti arda un occulto Foco, di quante masserizie ha intorno In pria fa preda e cheto si alimenta, Finchè di sua virtù gonfio e superbo Tutto divora il chiuso aere, dirompe L'avverso tetto, e al ciel, mugghiando, esplode; Così del padre dei Celesti a un punto Proruppe la repressa ira, nudrita D'antiche onte e di cure; a mezzo i morbidi Guanciali alti si eresse, e si folcendo Del tentennante cubito, in tal guisa Parlò ai beati ivi a consiglio accolti: --O beati, se pur lecito è ancora Con tal nome chiamarvi, or che le pingui Mense e i tiepidi letti, unica gioia Di voi sereni abitator del cielo, Sparecchiar ne minaccia un rio destino, Beati, a voi di gran stupore obietto, E il vi leggo su'l fronte, è ch'io vi aduni A insoliti consigli, io che finora D'ogni assoluto mio voler fei legge A le vostre cervici, a cui fu somma Virtù il tacere e l'ubbidir. Se or muto Al gagliardo agitar di venti avversi I propositi miei, già non direte, Che sopraffatto o paventoso io pieghi: Fermo son io, siccome il sole; e questa Picciola libertà, ch'oggi vi assento, Vuo' che qual liberal dono s'accolga. Di che perigli il regno mio sia cinto È noto a voi, che spennacchiato e stracco Redir vedeste un giorno ai nostri alberghi L'Arcangelo Michel, lui, già tremendo Fulmin di guerra e condottiero invitto De le nostre legioni. A lizza estrema Col superbo Lucifero si spinse Ardimentoso, e gli ridea negli occhi La securanza del trïonfo: inerme, Rotto dal lungo battagliar co' flutti Gli si opponeva il gran Ribelle, e un ghigno Solo, un sol ghigno a debellar gli valse L'adamantina ira celeste. Io taccio L'altre sconfitte, e la più grande e indegna Per avventura e più recente: io stesso, Io l'eterno Signore, io... ma gagliardo, Onnipossente ed infallibil sono Siccome un dì! Solo provar voll'io... Fu soltanto una prova; e alcun non osi Ricercar con profano occhio gli abissi Del mio pensier! Questo saper vi giovi, Che il mio nemico, il gran ribelle è in Roma!-- Disse, e un sospir traendo, giù di peso S'abbandonò su le soffici piume, A cui di sotto scricchiolar compresse L'agili spire dei cedenti ordigni, Che di acciaro eran tutti, A quella guisa Che fra un popolo avvien, che, scosso un ferreo Giogo di servitù, sfrenasi ai novi Deliramenti e a l'oblïosa ebbrezza De l'acquistata libertà: risuona D'inni ogni via; tuonan le piazze al grido Dei Catoni d'un giorno; ardon le notti D'assidui fochi, a cui tripudia in giro Clamorosa la plebe; ove fra tanto Spensierato tumulto odasi il cupo Reböar del cannone, un improvviso Pallor si sparge in tutti i volti; tacciono Gl'inni, spengonsi i fuochi, in varia fuga Mugghia qual mar l'immensa folla, sperdesi Per le vie, per le piazze; odi a l'intorno Un chiamar sospettoso; un concitato Serrar d'usci, e suonar per la deserta Via dei pochi animosi il passo e il grido; In simil guisa al favellar del Nume D'improvviso terror si ricoperse L'anima e il volto dei Celesti, a cui Solo è dolce allegrar gli ozî immortali Di concenti, di danze e di conviti. Si sgomentâro a la terribil nuova Anco i pochi gagliardi; ed altri in volta Diêrsi precipitosi, altri in querele, Altri in preci. Piangean le vereconde Dive, e al petto ed al crin faceano offesa; Battean le picciolette ali indorate I paffutelli Cherubini, e indarno I bellicosi Arcangeli in piè ritti Fan sdegnosa rampogna ai fuggitivi. Scrollava il capo il divin Padre, e:--Imbelli, Gridava, imbelli; ecco, qual pregio io traggo Da l'aver per sì lunghi anni impinguati I non mai sazî fianchi vostri! Avessi Nudrito oche! Potrei nei delicati Èpati almen delizïare il dente!-- Si chetarono alquanto, e vergognosi Stettero. Allor dal radïoso scanno Rizzossi in piè la diva Cate, illustre Italo germe, e dei tuoi monti onore, O belligera Siena, a cui più volte Diè femmineo valor soccorso e grido. Girò il guardo a l'intorno, e, nel capace Petto premendo una gagliarda impresa: --Arrossite, sclamò, voi non già eterni Spiriti, non pur uomini nè donne, Ma ventri e piedi senza sesso! Oh! foste Tutti esclusi dal ciel! Ma già di voi Cura io non ho: d'incliti spirti ancora Forte presidio ha il paradiso, e quando Fosse infranta ogni spada, infranta al certo Non saría la mia lingua! Or tu mi ascolta, Eterno Padre, e voi mi udite, alteri Spiriti: in terra io scenderò soletta, Inerme, come il dì, che a pace astrinsi Di Pier le chiavi e di Fiorenza il giglio; O come allor che a l'interdetta chioma Di Clemente strappai l'aureo triregno, E a schiacciar la fischiante Idra sospinsi Sul carro de la Fede il saggio Urbano. In Roma andrò; starò di fronte al fiero Lucifero; e se ancor serba qualcuna Di sue virtù questo mio labbro, ho fede, O d'indurlo a tornar nel derelitto Regno de l'ombre, o persüaso e vinto Rendergli l'ali e ricondurlo in cielo.-- Tacque; e del suo parlar paga si assise In sua beltà. Fremean d'assenso intorno L'auree sedi del ciel; quando con voce Di tutta tenerezza, e la mirando Con dolcissimo sguardo:--Oh! che tu speri, Che tenti mai? l'esperto Iddio rispose; Lucifero domar? lui che de l'ira Di tutto il cielo e di me pur si ride? Tutta non fosse congiurata ai nostri Danni la terra, agevol cosa invero Il domarlo saría; ma come rupi Stanno le fronti dei mortali erette Contro ai fulmini miei; sfrenato e baldo, Qual cavallo che irrompe a la battaglia, Corre il Pensier, che, divorato il breve Tramite de la terra, al ciel si lancia. Annientarlo io potrei, ma me'l divieta Un'occulta prudenza! Oh! sì ti fosse Dato il frenarlo e ricacciarlo ai neri Báratri, là dove il mio sdegno un tempo Fitto l'avea con ferrei chiodi! Il cielo Non avría stella mai che fosse degna D'incoronarti! Ma timor mi accora, Ch'opra vana tu tenti, e de l'ardito Generoso tuo cor vittima resti!-- --E vittima sia pur, balzando disse La divina Sanese: un dì potevi Ricondurre vincente al patrio albergo Una mortale di Betulia; io diva Imploro a te pari soccorso, e parto!-- --Ma egli è un vecchio barbogio, egli è un fantoccio!-- Gridò in quel punto una stridula voce, Bizzarramente modulando il verso. Si conversero tutti a l'empio grido Inorriditi, e ignuda in su la soglia Videro sghignazzar ballonzolando L'insanita Teresa. Era già il fiore Del paradiso; ora istecchita e nera, Rapata il crin, gli occhi sbarrati e pazzi, Salti facea sugli spolpati stinchi, Come scimmia strillando. Avvinto a un refe, Che a' vizzi fianchi le facea cintura, Giù pendevale un foglio, o fosse un brano Del vangelo di Marco, o un'ispirata Lettera, ch'ella avea nei suoi bei giorni Fra l'isteriche ambasce a Dio già scritta. Tremâr di sdegno a tanto osceno aspetto Gli angioli santi, e gracidâr commosse Le stagionate vergini, che assise Qua e là pe' remoti angoli, a Dio Biasciano tutto dì salmi e preghiere. Drizzâro a stento l'aggobbite schiene, E, sguardando di sopra a' tentennanti Su la punta del naso argentei occhiali, L'infelice avvisâr; brandîr con fiero Piglio i lunghi rosarii e i crocifissi, E già già si avventavano; ma stesa Il buon Dio con pacato atto la destra: --Perdonatele, disse, e a la sua cella Dolcemente traetela. Infelice! Troppo osò co'l pensier farsi vicina A la fiamma del Vero, e in questa guisa Del suo folle ardimento or paga il fio.-- Così dicendo, con paterno affetto Schiuse le braccia, strinse al cor la bionda Testa di Cate, e le concesse in fronte Il caro bacio del commiato. Altera Di cotanto favore ella si avvìa Fra' plaudenti Celesti; inni e saluti Le mandan l'arpe. Ai suoi custodi intanto Sguizza di man la santa pazzarella, E, sovra il naso il pollice appuntando, Ghigna, sgambetta, e saltellando involasi. CANTO TREDICESIMO. ARGOMENTO. Santa Caterina alla vista di Lucifero si perde d'animo, e, invece di convertire lui alla fede, converte sè stessa all'amore, e si abbandona ai voluttuosi abbracciamenti dell'Eroe.--Alcuni Angeli, sedotti dall'esempio, disertano il cielo, e cantano il desiderio della terrena voluttà.--Ultime ore di Pio IX; a cui apparisce l'Ombra di un solitario, che, non valendo a persuaderlo di rinunziare al dominio temporale della terra, lo lascia in preda a spaventose visioni.--Una vittima delle stragi di Perugia.--Due decapitati.--Straziato da queste apparizioni, il vecchio Pontefice muore, domandando inutilmente perdono. Vestitevi di rose, aride arene Del Colossèo! Se a fecondarvi, indarno Scorse a fiumi su voi degli ostinati Martiri primi e de le belve il sangue, Valga a farvi fiorir la dïuturna Prece di Pio: l'augusto veglio è padre D'ogni portento, e tutto può. L'han chiuso, Qual recidivo malfattor, nei templi Transteverini; e, com'è ver, che al cenno Del suo divo pensier struggesi in pianto La sacra effigie di Maria, dai ceppi Egli uscirà vittorïoso e forte, E di vergini gigli incoronato Ascenderà securamente al cielo. Or, mentre aspetta il sacro giorno, e inqueti Giacciongli al piè l'anàtema e la scure, Volga ad altr'opre il non fallibil petto Egli che, fabro di verginee madri, I dolci nati de le madri uccide Con serafico istinto. Un improvviso April fiorisca il Colossèo; discende A battagliar Lucifero l'altera Amazzone di Siena, a cui più spade Volse il facile eloquio e la virile Beltà, che doma ogni poter. Chi vide Entro al sereno immaginar del mito Lieve il piè, cinta il vel, rosea le forme Volger la fuggitiva Ebe fra' Numi, Quei dirà qual fioría grazia e splendore Di giovinezza e di salute in volto De l'ardita Senese, allor che al guardo De l'orgoglioso Apostolo ad un punto Si appalesò. Muto ei sedeva in cima A un dirùto pilastro, e la raggiante Misterïosa immensità del cielo Gli pendeva su'l capo: eran più vaste Più chiare assai le sue speranze, e acuto Più del guardo del Sole oltre a le cupe Reggie d'azzurro il suo pensier vedea. Meditava così: Dentro a l'audace Spirto de l'uom fervida alfin si stampa L'immagin mia; vantino uranghi e numi A lui simile aspetto: il suo pensiero A me rassembra, e il suo destino è il mio. Libero già d'alte paure, scevro D'ogni fallace illusïon di senso Vuole, conosce e può; spezza il segnato Limite del mistero, e dove è luce Ivi il suo campo e il regno suo prescrive. Così parlava dentro al cor; ma in quella Che l'armato pensiero apríasi il varco Ad alate parole, eccogli incontro Sorger la Dea, che de l'eloquio ha il vanto. Stupì l'Eroe di tanta vista, e, tutto Ne la diva fanciulla il viso assorto, L'ardimentosa giovinezza e gli atti Securamente mansuëti e il lume Di sì maschia bellezza iva ammirando Silenzïoso. Anch'essa Dea non senza Stupor mirava il gran Ribelle, e come Una mesta pietà prendeale il core Secretamente. Alfine in questa forma Prese a parlar: --Superbo e sventurato Angiolo, nè so dir se in te più sia La superbia tenace o la sventura, E come puoi di tanto umile stato L'aspetto solo comportar, tu primo, Già primo, or fatto di pietade obietto, Fra le schiere del ciel? Misero! e dove Son l'ali tue? Dove la schietta luce Del tuo fronte immortal? Scemo di tutte Doti del cielo, a un passeggero e reo Figlio d'Adamo io ben ti assembro, e nulla D'eterno hai più, fuor che la tua sventura!-- --E la sventura è la ricchezza mia, Bella figlia del ciel, così a dir prese L'onor di Lui che da la luce ha nome; Tesoro è il pianto, a cui null'altro agguaglia Ne la terra e nel mar. Povero e gramo Cultor l'arido solco apre a fatica, Ed una al seme ed al sudor gli dona Le speranze sue belle. Ispido e bianco Sibila tra l'ignude arbori il verno, Croscian piogge e gragnuole, e giù ridondano In tumulto i torrenti: il poverello Guarda tremando i duri prati, e al magro Desco seduto a la sua donna a lato Pur dolorando il bel tempo predice, Finchè tutt'oro il crine e in man la falce Esce il fervido giugno, i mareggianti Campi sorvola, e generoso adempie Di bionda mèsse i rustici abituri. Così egregia mercede a l'uom prepara L'esperimento del dolor. Dai solchi Seminati d'umane ossa fuor balza, Santa prole de l'opra e de l'affanno, La Libertà, premio ai costanti: umana Diva, ignota ai Celesti, ella inghirlanda Dei raggi suoi l'ardue fatiche, e serba Ad ogni affanno una vittoria. E quale Dono è quaggiù, che non da lei derivi? Per essa han luce ed armonia le genti E veritade ed uguaglianza e vita, Poi che vita non ha, nè veramente Uomo è chi giace in servitù, ma ignaro Bruto, ch'à in sorte il brago e la catena. Vivon sol d'essa i generosi, ed io Son la sua voce, e gli ozïati scanni Del ciel per essa e volentier sdegnai. O solenni cadute, o glorïose Sconfitte, a cui libera vita io deggio, Ricordando, mi esalto! E dovea forse Crogiolarmi fra' sogni aurei del cielo Eternamente, io re degl'irrequeti Spiriti? Assiso ai tiepidi banchetti In silenzio vorar le dispensate Manne, io figlio de l'opra? Erger le palme Supine a Lui, che, del suo nulla esperto, Pur ne l'impero de l'error si ostina? La terra elessi, ed ei cadrà! De l'ali, Ch'ebbi inutili al dorso, armai la mente; De la luce del fronte il petto istrussi; Con l'uom piansi ed amai: scrissi co'l sangue Le sue vittorie; e già n'è presso il giorno, Che Dio dal regno e da la vita escluda!-- Rabbrividía come per febbre al fiero Parlar la diva, e da' superbi accenti Con la candida man schermía l'orecchie Inorridita; nè risposta alcuna Formar può, nè fuggire osa. Ben gli alti Gesti de la sua vita e il dir facondo E l'audace promessa a Dio giurata Vergognando rimembra, e non sa quale Fascino occulto or l'incateni innanzi A l'avversario suo feroce e bello. Dicea fra sè: Molti in virtù prestanti, Molti in bellezza e in favellar maestri Conobbi al mondo animi egregi; ha il cielo Angeli molti, a le cui rosee membra Vestimento è la luce e amplesso eterno La giovinezza; or qual virtù ha costui, Che sì mi svolge ed incatena il senno? Così pensando, a l'anima dubbiosa Fa forza; di rigore arma l'aspetto, Cerca austere parole, e questi invece Le vengono dal core umili accenti: --Angelo, oh! soffri ch'io t'appelli ancora Co'l tuo nome perduto; e che ti giova Per questa ultima sfera ir pellegrino Qui dove segue a la fatica il pianto E ad entrambi la morte? Assai feroci Detti hai parlato or or; ma una parola Melodïosa, o che mi falli il senso, Una dolce parola anche dicesti, Che a perdonarti ogni fallir m'induce: Pianto ed amato hai tu? Radice ha in terra Ne l'empia terra anche ha radice amore? Oh! come il viver coi mortali il senno Pur dei forti travolge! Il paradiso Oblïato hai così? Non sai che vita E stanza e reggia ha solo in ciel l'amore? Vieni, oh! vieni con me! Là, nel tranquillo Regno degli astri al buon Iddio da presso Vivrem vita serena; e in quella pace Troverai la tua patria e l'amor mio!-- Tacque tremando, ed arrossía. Fu lieto Di quei detti l'Eroe, però che vide Su cotanta beltà certo il trïonfo, E l'incalzò con queste voci: --O chiara Sopra a tutte le dive e la più bella D'ogni terrena creätura, eguale Solo a colei ch'è del mio cor regina, E che parli d'amor tu che nel cielo Al banchetto degli angeli ti assidi, Ove straniero e dispregiato è amore? Ben di tutta pietà degna t'estimo, Se amore altro non sai, che la fallace Larva impotente, che il gran nome usurpa, E i parvi e non interi angeli illude! Tutta ossessa di Dio, fiera dei molti Trïonfamenti de la tua parola, Da la terra passasti, e ti fu oscura La vittoria miglior che donna ambisca, La dolce voluttà de l'esser vinta. Oh! cedi a me, cedi e trïonfa! Amore, Terreno iddio, che fa pensier la creta, Ti apprenderà come si vince: ei solo Mi süase a pugnar contro a le cieche Menti del cielo; ei qui mi addusse; ei muta Ogni lagrima in fiore, e a le dubbiose Anime ignare il vero Èden insegna!-- Parla, ed a lei che muta trema, e intorno Päurosa si volge, apre le braccia Supplicando con gli occhi, e in un amplesso D'avidi baci l'anima le serra. Cadea fra tanto il Sol; cheto e deserto Era il loco; salían come invocate Rapide al ciel le grandi ombre notturne, E Amor lesto venía. Cedea la bella Diva; e quando con man trepida e tutto Fiamme e palpiti il cor, la virginale Zona ei le tenta, ed ambi ansano, ignoti Mondi ella vede: arde d'immenso aprile La terra; giù dal ciel scendono in folla Cento e cento lucenti angeli, e, fatta Di sè fra terra e cielo ampia corona, Sciolgono l'arpe al suon, le voci al canto: --Stanchi di tesser danze Di cento arpe al ronzío Ne le lucenti stanze De la magion di Dio, Scender soleano un giorno Gli angeletti scapati Là nel mortal soggiorno De le figlie de l'uomo innamorati. Nei freschi antri, su' fiori Tremolanti a la brina Ponean l'ali e gli albori De la fronte divina; E, colto il bacio primo Sovra le bocche ardenti, Schernían gli astri, e da l'imo Radïavan più belli e più possenti. Lascia or l'eterea sede L'inclito onor di Siena: D'intemerata fede L'alma loquace ha piena; Al gran Ribelle incontro Tumida sorge; e quando Spera, che al primo scontro Vinto egli fugga in volontario bando, Ecco, dal labbro il detto, Come spuntato strale, Cadele; al dolce aspetto Del gran Fattor del male Pallida trema; al laccio D'Amor l'anima assente, Scorda sè stessa, e in braccio Del rivale di Dio bello e possente, Immemore del cielo, Donasi, Oh! vaga, oh! bella! Già del vergineo velo Scevra, com'aurea stella, Splende; da l'ansio viso, Da le membra sincere, Ignoto al paradiso Spira in mille piacer solo un piacere! O amore, amor! Sì forte È il tuo terreno impero? Sfida per te la morte Del fango il figlio altero; E, mentre a la tua rete La voce tua ne incalza, Ei l'ale irrequïete Svolge dal fango, e contro al ciel s'innalza! Scendiam, proviamo! A tutti Zimbello è il Padre eterno, E saggi e farabutti Si ridon de l'inferno. Scendiam, facciam baldoria Tra' fiori e le donzelle; Abbia l'Amor vittoria: Vale un'ora d'amor tutte le stelle!-- Mentre i furbi angeletti in queste voci Disertavano il cielo, e l'umanata Senese, avvinta dal più dolce amplesso, Primamente sentía la vita intera, Su l'antica di Pio ferrea cervice, Come sinistro augel, striscia la Morte. Abbandonato su'l gelido letto Luccicante di frange e di cortine, Rabbiosamente egli vaneggia: --Urlate, Accorrete, soccorso! Il ciel, la terra, L'inferno tutto ai cenni miei! Demòni, Angeli, a voi: la forte anima mia Per un anno di vita! I miei nemici, Gli usurpatori impenitenti al mio Piede un istante, e poi morir!-- Comparve Pallido, immoto, macilente un Frate Sovra la soglia: --A questa Croce atterra L'orgogliosa tua fronte!-- --Chi sei tu? Che vuoi? Chi innanzi mi ti tragge? A l'ira Non mi sforzare!-- --A la pietà ti sforzo, A la pietà, se Dio, per maggior pena, Non ti chiude la via d'esser pietoso.-- --Ma tu chi sei? Di vane ombre io non temo: Son forte ancora!-- --Ombra, demonio, o Dio, Quel che tu temi io sono. Ecco si appressa L'ora; è scoccata: a le tue ferree porte Batte il giudizio del Signor!-- --Che intendi? Che oseresti tu mai?-- --Sgombra dal petto La fallace paura: Iddio corregge Pria di punire; e suo ministro io vengo, Io, che di Dio non già, ma sol dovrei Venir ministro de la mia vendetta! E ancor forte ti vanti? A brani io veggio L'inconsutile veste; ai fuggitivi Tuoi passi il trono, il suol vacilla; e al cielo Non ti rivolgi?-- --Al cielo, al ciel! Tu parli L'eretica parola! Il ciel lo lascio Ai miei nemici; a me la terra!-- --E quale? Schiavo tu sei d'altri e di te! Mal tieni Di Bonifazio e d'Ildebrando: hai l'ira De l'un, de l'altro la superbia: il senno D'ambi ti manca e i tempi. Il destin solo Pari ad entrambi e in uno avrai: l'eterna Città di Pier per te mutasi a un tempo In Salerno ed Anagni: esule vivi, Benchè in Roma; e a la tua guancia canuta Stampano i Re più durature offese Del ferrato manipolo di Sciarra. Deh! rivolgiti al ciel!-- --Frate, pon fine Al tuo sermone, e sgombra. Il cielo è patria Dei deboli; la terra è mia! Già in armi Sorgon Francia ed Iberia: il ceppo illustre Dei Borboni immortali a l'aura nova Mette nove radici, e fronde e rami E fiori e frutta porterà: saranno Frutti i trofei tolti ai nemici e il capo Di quel Sabaudo avventurier tiranno, Che, pur che copra le sue membra oscene, Ruba a Cesare il serto e il manto a Cristo.-- --Vana speme è la tua! Dio, che a la terra Dopo il gel manda i fiori, a l'uom consiglia, Dopo lungo servir, la sacrosanta Libertà del pensiero. E chi potrebbe Co' suoi delitti attraversare il corso De le leggi di Dio? Con l'empia destra Ottenebrar l'indefinita luce, Che da l'insetto a l'uomo equo dispensa Di tutte cose animatore il Sole? Credi tu, che ammucchiando ossa sovr'ossa Tal diga innalzerai, che su la china Si soffermi il torrente, a cui dan forza I destini del mondo? Ah! il credi: amore, Fede non si raccoglie ove non altro Ch'odio e terror si seminò! Non sono, Non sono, e Dio che tutto sa ne attesto, Distruttor de la fede i rubellati Spirti e l'ereticanti alme! Voi primi, Voi soli, occulta d'ogni mal radice, Voi co'l sangue versato alimentaste L'idra de l'Eresia; questo malnato Poter, che cinge Iddio d'ire e di sangue, Ai quattro venti de la terra il grido, Fu la prima eresia!-- --Frate! s'hai caro Il viver tuo, non funestar l'estreme Ore del poter mio. Smetti l'altero Tuo cipiglio d'apostolo: la fame Rende spesso profeti; avrai se 'l brami Copia di tutto; or lasciami.-- --La mia Vita è cosa del ciel; se dono alcuno Vuoi che da te, vecchio feroce, accolga, Dammi il rogo, o la scure. Odi l'estrema Voce di Dio: rassegnati e perdona; Già perdonando incominciasti.-- --Ardisci Rammemorar la mia viltà? la fonte D'ogni sciagura mia? Male incomincia Perdonando chi regna! Al generoso Uopo s'applaude in pria; povero e scarso Indi appare ogni don, però che ingordo È il cor di lui che a nullo bene è avvezzo: Debito par la carità; diritto La pretesa più stolta. Egual si tiene A lascivo signor che la careggi Meretrice proterva, e a lei somiglia L'avida plebe: oggi le dài l'anello, Doman ti chiederà manto e corona; Alza dal fango la servil cervice, Spezza il fren, rompe il cheto ordine, invade L'altrui poter, dritti e doveri ingombra, Tal che, sconvolto il socïal congegno, Divien chi serve re, servo chi regna. No, no: perde chi cede. Uom che securo Tien l'alta riva, io non dirò che il senno Abbia intero, se al torbido torrente Perigliando abbandonasi. Tal fui Un solo istante, e n'ho rabbia e rimorso: Nel reo vulgo ebbi fede; osai l'esempio D'Alessandro imitar!-- --Del pari infido, Ma più debole fosti!-- --E qual mercede N'ebbi dal mondo? Risvegliai l'orrenda Idra dormente al mio piede; potea Schiacciarla, e la svegliai. Stolto! i suoi primi Sibili e i morsi avvelenati io primo Sperimentai: mira qual sono!-- --Accusa L'alma tua poca e infida. Esser potevi, Rege non più (fra le vergogne e il sangue Già da gran tempo era sepolto il trono Su le vergogne e su le colpe eretto), Ben regnar da l'intatte are potevi Pontefice, e lo puoi! -- --Se crolla il trono, Caggia anche l'ara: o tutto, o nulla! -- --E il dito Di Dio non temi? -- --Il Dio che adoro è fatto Ad immagine mia! --Ben veggio: è indarno Ogni mio favellar. Ma se in te morto È il pontefice e il re, l'uomo ancor vive; Odimi dunque, o sciagurato, e trema. L'ara di Dio non crollerà: cadranno Gli astri del ciel, la fede no. La terra Stanca è d'ire e di stragi, e pace e amore Cerca, e l'avrà. Dio tornerà su queste Sedi, da cui tu lo cacciasti in bando; Tornerà Pietro a regnar l'alme: assiso Umilemente a Cesare da lato, Avrà di lui non men possente impero E più vasto d'assai. Tu muori intanto, Implacabile vecchio; impreca, e muori Impenitente; al tuo letto custodi La tua memoria e la Coscienza io lascio! -- Disse, e disparve. Il bieco occhio e la voce Mosse il fiero morente, e una tremenda Vista mirò. Più sol non era: accanto, A piè del letto, al capezzal, d'intorno Un popolo sorgea di brulicanti Scheletri: avean ne le profonde occhiaie Come due fiamme che parean pupille, E un tal verso facean con le dentate Mascelle, che parea voce e sogghigno. Trema, boccheggia il vecchio irto; l'infermo Corpo giù giù tra le diffuse coltri, Scivolando, rannicchia; e freddo, cheto, Senza respir, con muto occhio furtivo Segue dei suoi tremendi ospiti i moti. Uno spettro parlò: --Possa la voce, Che un'altra volta acquisto, Strazïarti così, vecchio feroce, Trafficator del Cristo, Che, incenerito il reo manto e la stola, Di cui nascondi invan l'anima fella, De le vive tue carni ogni parola Un bran vivo divella! D'ossa e di polpe ignuda La negra anima tua sensibil resti; Ch'io l'afferri, e nei miei pugni la chiuda, E co 'l piè la calpesti! Forse canuto a par di te non era Vecchio cadente anch'io? Non era tua quell'itala bandiera, A cui tutto fu sacro il viver mio? Ma tu, Giuda due volte, il bacio vile A Cristo e al popol dato, Tolto di sotto al manto il doppio stile, Li trafiggesti entrambi al manco lato. Sbucaron da li Elvezî antri le ladre Turbe, che a libertà mal dànno il petto, Se, liberate da la man d'un Padre, A prezzo maledetto Concedon l'alme, e li venali artigli Affondano nei fianchi De l'abusate vergini, ed i figli Sotto agli occhi dei padri infermi e bianchi Svenano. O voi, più dei miei pover'occhi Cari lattanti e nuore giovinette, Voi sedevate attorno ai miei ginocchi, Come innocue agnellette, Quel dì, che scatenate Dal cenno di costui che il ciel promette, Per le vie di Perugia insanguinate Correan le sue vendette. Cinti di ferro, e d'oro e sangue ingordi Rupper ne le mie case in un momento Gli sgherri di costui feroci e sordi Come tigri in armento. E i miei due figli, i miei leoni intanto Non erano con noi! Pugnando a l'ombra del vessillo santo, Caduti eran da eroi! Nè mi fu dato, oimè, baciar le care Teste morenti e udir le voci estreme, Comporre i corpi vostri entro le bare, A voi morire insieme! Ben dei pargoli vostri e de le amate Spose lo strazio vidi E il vitupero!... Oh! in me, in me sol vibrate, Empî, i ferri omicidi! Ultimo caddi. Or paradiso, o inferno, Vedi? o vecchio feroce, io non aspetto: Dio qui mi manda; e qui starommi, eterno Fantasma, al tuo cospetto!-- Tacque, e due sovra gli altri orridi in vista Fuor de la calca si avanzaron: muti, Rigidi, ritti ritti, lenti lenti A le due sponde del funereo letto Stettero; e, del lenzuol freddo scoprendo A viva forza del morente il capo, Tentennâro i crocchianti omeri. Come Da l'ultimo edificio, allor che trema Sussultando la terra, e bianchi in viso Fuggono i passegger, cade un divelto Sasso, e paura ai fuggitivi accresce; Così a quel poco tentennar divisi Lor cascano li teschî rilucenti, Che balzando e mettendo orrido un suono Ruzzolan sul marmoreo pavimento, Come vediam dietro ad arancia o mela, Che per trastullo il genitor gli lancia, Correre il fanciullin con passo incerto; Quando più crede che le sia da presso E già già la raggiunga, ad afferrarla Gittasi, e quella, che ad avverso oggetto Battuta è intanto, retrocede o volge Per via diversa, e il seguitor delude, Che il piccioletto cor gonfio di bizza Carpon, carpon la insegue, e non si cheta Pria che in pugno la stringa e la riporti Al genitor, che sorridente incontro Gli apre le braccia, e sopra al sen lo accoglie; Tal dopo ai proprî teschî si lanciarono I mutilati scheletri; da terra Li raccattâr; fra' cricchiolanti carpi Li strinsero, e con fiero atto al morente Li avvicinâr, mostrandoli. Fremea La turba, come avvien, quando improvviso Sguiscia aquilon su l'arido scopeto De la foresta; ma parola o voce, O moto alcuno non mettea l'oppressa Anima del morente: il dubitoso Spirito avea tutto negli occhi; un cupo Rantolo gli stridea per entro ai duri Visceri, perocchè, simile a un ferreo Non unto filo di dentata sega, L'ultime fibre gli rodea la Morte. S'avvivarono a un tratto i mozzi capi, E battendo le labbra e le palpèbre In terribile forma, e sangue e detti Fuori gemean de la divisa strozza. S'appressarono allor quanti d'intorno Eran spettri e fantasmi, ed in quel sangue Tutti tingendo fieramente il dito Segnarono sul fronte il morituro, E gridarono insiem: Sii maledetto! A quel tocco, a quel grido, immantinente Si scosse, si agitò, tutto si storse L'irto veglio, qual suol malaugurosa Nottola da le unghiate ali, qualora Dispietato monel con improvvisa Canna l'abbatte, ed al nemico lume L'appressa sì, ch'ella bestemmî e strida. Ma qual putida ràzza, che, di mano Sguizzando al pescatore, agita al suolo Le acute pinne e la scabrosa coda, Finch'egli irato la riprende, e sbatte Contro un sasso, e l'acqueta ne la morte; Così fuor dal lenzuol frigido a terra, Dibattendo le flosce membra, piomba Il tormentato agonizzante; i gialli Occhi stravolge, e mugola: Perdono! Sparîr gli spettri; su la fredda soglia Lucifero comparve, e disse: È tardi! CANTO QUATTORDICESIMO. ARGOMENTO. Saluto di Lucifero al Sole; tra' raggi del quale rivede l'immagine di Ebe.--Attirato da mirabile fascino d'amore l'Eroe si solleva per l'aria; traversa gli spazî, giunge in Venere, si confonde con l'amor suo, e procede infino al Sole, da dove alza la voce dell'ultimo giudizio.--I morti d'ogni età e di ogni loco risorgono, e s'innalzano dalla terra per assistere al giudizio di Dio.--Rassegna di filosofi; d'istitutori di popoli; di riformatori.--Le vittime domandano vendetta. Così moría l'alma implacata. Al Sole, Che al meriggio splendea limpido e caldo, Lucifero parlò: --Re de la luce, Odimi. O sia che il bruno orbe tu chiuda Entro a un mare di fiamme, onde le negre Cime dei monti tuoi sorgono, e dànno Ombre indistinte al tuo nitido aspetto, O sia che un vel d'opache nubi, amico Di fulgidi riflessi, e una diffusa Sfera di luce e di calor ti avvolga, Te genitor d'ogni terrena vita Io chiamerò, quando da te deriva, O che vegeti immota, o inconscïente Movasi, o pensi ogni creata forza. A te le numerate ore d'intorno Danzano; a te, padre di climi, il fronte Volge amante di luce ogni pianeta; E tu, di vita liberal, dispensi Raggi e sorrisi a qual ti porga il volto, E i più miti a la terra. Umile in vista E ritrosa al tuo sguardo offre ella il grembo Palpitante a la lunge, e non si attenta, A par del fuggitivo Èrmete, appresso Fartisi tanto, che mortal saetta L'amoroso tuo raggio a lei diventi. Tu per propria virtù dal mare insonne Traggi i vapori, e in nubi atre li addensi, Che indi, in pioggia disciolte, al vigilato Solco dan biade e pomi al bosco e nuova Freschezza a la vitale aere, da cui Vigor nuovo di membra a l'uom deriva. Nè i sensibili corpi orni soltanto In visibile guisa, e ti compiaci D'apparente beltà, però che in seno Scendi a tutti i mortali, e, a quella forma Che scaldi e svolgi il fecondato seme, E del tuo sguardo il puro etere allumi, Desti così ne l'ordinata mole De le membra il pensier, ch'è de l'eterna Ben disposta materia agile alunno. Qual da le scarse gelosie d'un chiostro Libera il guardo al ciel la verginella Disïosa d'amor, tal da l'oscura Compagine mortal di nervi e d'ossa Si sprigiona l'amante animo, e, tutto Di te, sovrano genitor, sentendo L'occulto foco e la natía virtude, Per li campi del vasto essere, in cerca D'ignote sfere e di negati oggetti, Lanciasi, e tanto si dilunga e sorge, Che par sostanza spirital, che possa Dagl'involucri suoi viver divisa. Ma chi dirà, che viver possa il modo Senza l'obietto, o ver da lui distinto? Che fuor de la gagliarda arbore viva L'occulta forza vegetal? Si schiude Per valor de la terra il seppellito Seme, germoglia, si divide e s'alza In foglie, in rami; con robusti nodi Stringe ed avvinghia la materna zolla, Respira, ama, s'infiora, infin che un diro Turbo lo schianti, o avversa scure il tocchi. Forse quella virtù, che gli diè vita, Morto lui, fugge altrove, e per sè vive? Suon di melodïosa arpa, che il petto D'indefinita voluttà comprende, Quando i candidi rai piove la luna Su le mute campagne, e i sonnolenti Fiori deliba la fugace orezza, Io già non penserò, che per sè solo Le sonore de l'aria onde commova: Frangi le corde del gentil strumento, Tosto il suon cesserà. Simile in questo È l'uman corpo a l'arpa: Amor risveglia, Divo maestro d'armonie, le nostre Facoltà, che nel cor siedon sopite; E quanto in noi più gentilezza è posta, Maggiore e più gentil n'esce un accordo D'affetti e di pensier, d'opre e di accenti. O Amor, sole de l'alma, ove io ripensi Di che alata virtù doni il pensiere, Scarso e povero assai sembrami il lume, Che avviva ed orna ogni creato oggetto! A te, come a la mite alba la schiera Dei canori volanti, al nuovo aprile La famiglia dei fiori, al Sol che torna Tutte cose universe, alzasi in festa L'umana vita, e al magistero intende D'ogni nobile ufficio. Immota e cieca Mole sarían le nostre membra, e inerte Cosa il pensier senza di te: sembiante A tardo bue, che il travaglioso ordigno Del volubile bindolo raggira Tutto il dì, senza posa, e non sa quanto Sgorghi tesoro da la sua fatica. Ma tu, di libertà padre, fai lieve Ogni gravezza, ogni umiltà sublimi, Ogn'inerzia dilegui, e di noi stessi Conoscenza ne dài piena e sicura. Tu de l'etereo Sol, da cui proviene Quanto è d'uopo a la vita, il più fecondo Raggio in noi custodisci, ed una al chiaro Conoscimento, che da lui si nacque, Un ribelle ne infondi altero istinto, Per cui, divino matricida, a fronte D'essa Natura l'uman genio irrompe Con fiera sfida, e la tenzona a morte. O solenni ardimenti, o generose Pugne e vittorie senza fine, a cui Deve l'uomo mortal meno infelice Vita nel mondo, e sol per cui si eterna! Sovra la fossa, ov'ei tutto discende, La memoria di lui sorge, e qual face Da mille spere riprodotta in giro, Entro ai petti degli uomini risplende Centuplicata, e si perpetua, e in guisa Vive con noi, che, per superbo inganno, Vita verace il ricordar si tiene Ed anima immortal, ch'abiti altrove, La memoria che d'altri in noi risiede. Ma del credulo gregge e dei fallaci Ciurmadori de l'Arte e di Sofia Scevre serbate voi le nuove genti, O Sol, re de la vita, o Amor, sovrano Del pensiero mortal; voi de la vostra Pura luce vital fate lavacro Agli egri petti, e date ala ed acume A qual dentro a l'error cieco si ostina Siccome talpa sotterranea: ei senta Stupefatto ad un'ora il vostro lume, Mentr'io, già presso al mio trïonfo, a voi Tendo le palme, e voi propizî invoco!-- Tal parlava implorando, e il guardo acuto Più che punta di stral figgea nel volto Radïoso del Sol, quando a un sol punto, O che vero ei mirasse, o che a l'ardente Spirto facesse illusione il senso, Visto gli venne un portentoso aspetto, Onde il cor gli balzò. Come ne l'ora D'un purpureo tramonto, ove più ferve A piè de la Scillèa balza il vorace Turbo estuöso del latrante mare, Sorger vede il nocchier vigile un roseo Fantasima di donna, a cui ghirlanda Sono i raggi di cento iridi, e molle Guanciale il fior de le fioccanti spume; L'affisa egli ammirando, e, se in quel tempo Gli sorride ne l'alma un dolce amore, L'oggetto dei suoi voti in lei ravvisa; Così a fior del fiammante orbe del sole Nuotar vede l'Eroe trepido un'ombra, Incerta ombra da pria, che umana forma Man mano assume e leggiadria cotanta, Che la viva in suo core Ebe gli sembra. Esultò giubilando, e in queste alate Voci si effuse: --Oh! ben t'è stanza il sole, Ben t'è regno la luce, aurea bellezza, Che il petto mio, vago di luce, imperi! L'amor mio non sei tu? L'idolo amato D'ogni speranza mia? L'ala e la possa Del mio pensier? Deh! come fausto io deggio Stimar l'auspicio, che da te mi viene In quest'ora solenne! Ecco, già sento Crescer lena al mio spirto; odo la voce De la terra e dei secoli, che chiama Al gran giudizio Iddio! Non altrimenti Che fosco immaginar d'egro intelletto De la rosea salute al giovanile Soffio si sperde, io sperderò le larve, Che ne usurpan dei chiari astri la sede: Tutti i Numi cadranno; al ciel, da cui Una fiera e tenace ira mi escluse, Or mi solleva, e trïonfante, Amore!-- Ciò detto appena, un tal fascino il prese, Che per lo spazio il sollevò: non punto Dissimigliante a fuscellin, che avversa Forza di calamita attira e regge; Se non che, quanto più di contro al sole Lucifero salía, tanto fra' biondi Raggi del ben veggente astro la bella Crëatura d'amor veníagli appresso. L'un lasciavasi a tergo il montuöso Arido aspetto de la varia luna; L'altra il denso Cillenio; e già a la vista Ridea d'entrambi l'acidalia stella, Cara sempre ad Amor, sia che tra' fiori Del candido mattin splenda, e le piaccia Di Lucifero il nome, o che tra' rosei Vespertini crepuscoli biancheggi Dagli amanti invocata, e più le giovi Che il penoso mortale Espro l'appelli. Qui s'incontrâr l'alme felici, e un'onda Di purissima luce e di colori Si diffuse d'intorno, e parte n'ebbe Ciascun pianeta e non minor la terra. Tal, se indagine umana al ver s'adegua, Versa tesor di colorati raggi Sovra i cultori suoi Perseo superbo, Perseo, che a l'alba Galassèa nel grembo, Qual trïonfante eroe, splendido incede, E trono e serto ha di due Soli: un, tutto Fiammeggiante di porpora, vermigli Dardi per l'aria, a par di Sirio, avventa; L'altro in un vel di cupo indaco avvolto Mestissimo risplende, e d'ambi al raggio In cento iri d'amor l'aria si frange. A l'aspetto di lei, luce costante Del suo pensier, verbo non ebbe o voce O sospiro l'Eroe; sol di quantunque Forza d'amplessi a le sue braccia, e al ciglio Splendor di sguardo a lui mai diede Amore, L'abbracciò tutta quanta, e la comprese. Ella parlò: --Me non la luce, o il cielo, Ma la terra natía covre e trasforma Con benigna virtù: polvere io sono, E su le membra, che l'Amor fioría, Or l'argentea rugiada educa fiori, Tra cui l'armonïosa aura susurra. Però non ammirar, se agli occhi tuoi, Siccome un dì, pur tuttavia risplendo Dentro a la luce dei miei giovani anni: Miracolo è d'Amor; palpito e vivo Immortal vita nel tuo petto, e queste Forme fiorite, che l'Amor mi dona, Altro non sono che veder, per cui L'anima tua pietosamente illude.-- Con questi detti eran venuti a l'auree Case del Sol, che tutto vede. Agli occhi De lo stupito Eroe di luce nuova Balenò la fanciulla, e tanta prese Parte di lui, che dentro a lui disparve. Dritto sul fiammeggiante astro egli stette Con eccelso pensier: fra quel deserto Vastissimo di luce, immensurata Granitica parea mole, che sfidi La procella dei sordi anni e del cielo. Dove figge lo sguardo? Al globo estremo, Che i pensanti mortali alberga e nutre, Veglian perpetue le sue cure. Orrende Cose egli vede in quell'istante: oscure Carceri e ferri cigolanti e ruote Stridule sopra a vive ossa e cadenti Sovra al collo de l'uom nitide scuri E torbe fiamme crepitanti ingorde D'umane carni e gorgoglianti abissi, Da cui, fra un vasto popolo di morti, Pochi, indomiti capi alzansi a guisa D'incrollabili rupi e di Titani; E, sopra tutto, galleggiante un'ara Lucida ai roghi, e in cima ad essa un muto Fantasima, che or dorme ed or sorride Villanamente. Fiammeggiò negli occhi Terribile l'uman Dèmone, e, tutto Dal profondo del cor svegliando il grido, Queste fiere avventò voci supreme: --O voi, che ne la fossa Da tanti anni dormite, Vestite i nervi e l'ossa, Fuor de la morte uscite; Da l'una a l'altra riva, O Morti, in piè levatevi: Il gran giudizio arriva! Su la temuta scranna, Giudice inesorato, Non siederà tra' fulmini Siva feroce, o il nato Da vergin grembo: in questo Novo giudizio mio, Morti, voi siete i giudici, Il delinquente è Dio! Porgi al vietato sorso, Tàntalo, il labbro; scuoti, O Encèlado, dal dorso Il cupo Etna; dal fondo Dei fiammeggianti inferni, Tiféo, balza, e t'allegra: L'adamantina Morte Spezza del ciel le porte, E, spazïando libera Pe' vani antri superni, Fischia, e s'apprende a l'egra Canizie degli Eterni. Novello Brïarèo, Bronte novello al grido, La voce alza e la faccia Il Pensier numicido; E, con più fauste prove Che sul campo Flegrèo, Strozza il mutato Giove Con le sue cento braccia.-- Disse, e balzâr su dagli avelli i morti D'ogni età, d'ogni loco. A quella forma Che noi vediam, quando più ferve agosto, Sorgere al ciel degli orizzonti in giro Sparsi mucchi di nubi, a cui dà il vento Strani aspetti di mostri e di giganti, Che arruffando più e più le bianche creste Sfidan mugghiando il sole: impaurito Il parco agricoltor guardali, e trema Non saettin dal grembo in su' compiuti Grappoli il nembo d'una ria gragnuola; Similmente s'ergean su da l'immensa Folta alcune preclare Ombre, per cui Prendea 'l cor dei Celesti alto sgomento. Or tu, qual che tu sii, dèmone amico, Ch'entro al cervello mio semini i forti Carmi, a cui sol, più che ricchezza o nome, Fieri conforti a la mia vita io chieggio, Tu, poi che tanto il ricordar ne giova, Le più illustri rammenta, onde non sia, Chi, nel dì sacro a la ragion del Vero, Degli eroi del Pensier non sappia i nomi. Primi a tutti sorgean quanti fra un cieco Gregge di paventose anime e l'ombra D'insofferenti età la fronte audace Spinser, chiamando a mortal guerra Iddio: Sdegnose alme ribelli, a cui stiêr contro La terra e il ciel, gli uomini e i Numi, e nulla Fede giovò, nè culto altro che il Vero. Duce e signor di questa schiera eletta Empedocle insorgea, nome e decoro De l'antica Agraganto; e a lui d'intorno, Come ad avvalorar la sfida antica, Tu fiammavi tuonando, Etna superbo. Salute al foco genitor, salute, Vecchio vulcano, a te! Fiammeggia e tuona, Come in quest'ora ch'io ti guardo e canto, O sepolcro di sofi e di titani; Tuona, fiammeggia; ed a le sfatte genti, Ch'invide o ignare a noi drizzano il dardo Del meschino epigramma, e ne dàn nome Di selvatiche proli, una favilla Gitta, in pietà, de l'incorrotte fiamme, Che bollon ne le tue viscere, e a noi, Di lingua no, ma d'alma e di man prodi, Superbamente ardono il petto: avranno Forse vergogna di sè stesse allora Che sentiran dentro a le fiacche vene Scorrer men pigro e men putrido il sangue! Secondo al Saggio agrigentin venía L'amabil sofo di Gargetto, a cui Fu scola e Dio la voluttà del bene; E tu gli eri da canto, inclito vate De la Natura, a la cui dotta voce Scese del Tebro bellicoso in riva Venere santa, e una divina infuse Nel tuo petto gagliardo aura di canti. Seppe allora di Marte il fiero alunno De le cose il principio, il mezzo e il fine, E maledisse a la feroce e stolta Religïon, che d'ogni mal feconda, Potea nel sen de la verginea prole Spingere un padre a insanguinar la mano. E già dietro a tal duci impazïente Balza da terra, e contro al ciel si lancia L'audace di Vanini ombra sdegnosa: Scuro e bieco ei s'inalza, e nugol sembra Nunziator di procella. Orridi in vista Gli s'ergean sotto i passi il palco e il rogo, Ed egli co' fiammanti occhi tremende Cose dicea, ma fieramente muto Era il suo labbro: ahi! la faconda lingua, A cui diede Sofia nuovi argomenti, Mozza gli avea chi dai venali altari La luce e il detto di Sofia paventa. Vien seco il Mantovan, che da l'augusto De l'umana Ragion tempio immortale L'anima e Dio securamente escluse; E chi pria rubellando il dotto ingegno A l'idolo inconcusso di Stagira, Più vasto al pensier nuovo aere dischiuse, Cui ratto con gagliarda ala discorse Liberamente il prigionier di Stilo. O voi del Crati fragoroso opache Selve, così vi serbi intatte il nembo, Proteggete almen voi d'ombre cortesi Le sacre, inonorate ossa del vostro Vecchio Telesio! Accanto a lui, che tutto Splendido in suo candor cheto s'inalza, Freme e lampeggia il precursor di Nola, Dal cui fiero intelletto e dal cui rogo Tanta infamia ebbe Roma e luce il mondo. Ma forse il genio mio scorda il tuo nome, Di Malmèsburi onor? La tua bizzarra Fronte, entro a cui d'Albion tutta s'accolse La superba ed acuta indole strana, Certo non io fulminerò, se assisa Sovra il collo ai mortali in ferreo trono Vedesti, autrice universal, la Forza. Forse il Dritto e il Sapere, adamantino Brando e scudo, di cui s'arma e difende Per natura chi umano ebbe il sembiante, Forza eterna non è? Ben essa al volo T'armò in tal guisa il prepossente ingegno, Che, oltre a l'etra sorgendo, al vulgo illuso Quinci gridasti: Un vuoto nome è Iddio! Tal da l'Ande selvose al ciel sublime Lancia la poderosa ala il condòro, E le nubi calpesta, ed orgoglioso Dei voli suoi sfida stridendo i nembi. Ecco, appresso a costoro a cui d'intorno Fa ressa e ondeggia una men chiara folta, Rompe un fiero drappello, a cui son duci Diderotto ed Holbacco, incliti entrambi Risvegliator di popoli; vien terzo Elvezio, e quarto Volney. Qual suole A l'improvviso infurïar d'un nembo Fendersi ai lampi il ciel, tremar la terra, Crollare alberi e tetti, e scatenarsi Dalle ripe con fiero èmpito i fiumi; Così d'intorno a la tremenda schiera Un fremito, un fragore, una ruïna Terribile s'udía, mentre il solingo Ginevrin, precedendo, iva due faci Sanguinose agitando, e come strale Il riso di Voltèro il ciel fendea. Da l'altra parte, in cupa nebbia assorti, Vengon color, che il falso al ver mescendo Con sagace pensier, norme e governi Persuäsero ai popoli, ritrosi Ad ogni culto di civil commercio. Da l'aurifero Gange, in simiglianza Di marmorea colonna, ergeasi al cielo L'antichissimo Brama; ed eran seco, Co'l ben veggente istitutor dei Parsi, Trismegisto e Confucio, e quei che miti Dettò leggi ai Fenicî, inclita gente Domatrice del mar; non che il divino Germe di Clio, trïonfator di traci Belve e de l'Orco, non di voi, gelose Donne de l'Ebro, al cui baccar fu il biondo Mozzo capo concesso e l'aurea cetra Favellatrice di gentili affetti, Non vivo il core a un solo amor devoto. V'era inoltre Pompilio, anima ricca Di scaltriti consigli, e finalmente, Simile in tutto a l'Arabo Misèmi, Il campato da l'acque astuto Ebreo. Videli appena da l'opposta parte Di Malmèsburi il Saggio, e li squadrando Con traverso cipiglio: --O voi di Numi Fabbricatori e mercatanti, disse, Qual maligno talento a noi vi mena In quest'ora di gloria e di vendetta? Stolti! che al sommo socïal potere Sovrapponeste un fiero idolo, al cui Temuto auspicio smisurate e salde Sparse l'Error l'empie radici in terra. Ma stagione or mutò: gli egri intelletti Dal morbo rio, che li torceva al cielo, La Ragione guarì: solo e severo Nume e legge la Forza; e qual volesse Novelli Iddii favoleggiar, d'infame Morte morrà. Mal vi destate adunque Di Lucifero al grido; al vostro Nume, Gloria non già, morte e vergogna ei reca!-- -- Inclito senno d'Albïon, rispose Tosto l'Eroe, che pur nel nome ha luce, Quale acerba rampogna or t'è fuggita Da la rigida bocca? Impazïente Del trïonfo de l'uom, ch'è mio trïonfo, E sdegnoso di tutti idoli a dritto Epperò degno mio campion tu sei; Ma trasvolar quanta ragion mai possa Proteggere costor d'un'aurea scusa, Lodevol cosa io non dirò, nè giusta. Allor che inconscî d'ogni ver, fra bieche Fraterne ire e sospetti, una brutale Vivean vita gli umani, e la Paura, Despota d'ignoranti anime, orrende Cose spirando, il ciel, la terra, i flutti Popolava di Numi e di Chimere, Chi avría, senza periglio e senza tema Di gittar l'opra inutilmente, esposto Scevro di veli ad uman guardo il Vero? Il Vero è Sol, che i grami occhi abbarbaglia Di chi vive ne l'ombre. Or chi di biasmo Farà segno costor, se al radïante Volto del Ver, perchè men dèsse offesa, Posero un'ombra, a cui diêr nome Iddio? Come in aprica e ben disposta aiuola, Ove il buon giardinier, tutte a lei vòlte Le rigid'opre de la ria stagione, Depose i germi prezïosi, i solchi Serpeggianti vi aprì, per cui non manchi, Quando più punge il Sol l'arida terra, La fresca linfa ch'ogni fior ricrei, Al richiamo d'april vestesi a festa Ogni pianta, ogni stelo, e tutto in giro Ride il suol di colori e di fragranze; Così a la voce di costor, che fûro Primi maestri di civil costume, Fiorîr genti e città, su cui da l'ara, Perch'uopo avean di fede i rozzi ingegni, Stendea la Legge il moderato impero. Se non che, sòrta quella ria masnada, Che, l'umana pietà mercanteggiando, Usurpò i templi de la terra, e il cielo Con chiave d'oro al fornicar dischiuse, Non più di civiltà mezzi e stromenti Ma tiranni de l'uom fûr fatti i Numi. Nacque allor ne le oppresse anime, a cui A tempo il Ver fatto avea chiaro il senno, Fiero un disio di rubellarsi al plumbeo Giogo del ciel; suonò per l'aria il grido De la riscossa, e si pugnò. Non vinse Per certo Iddio; vide fumar d'umano Sangue innocente i mercenarî altari; Ma le vittime han vinto. A poco, a poco Scemò, come al mensil corso la luna, La possanza del Dio, ben che di ferro Tempra vantasse ed immortal. S'ostina Pur tuttavia, quantunque imbelle, e inciampo Ultimo ei resta al trïonfar del Vero. Or, perchè l'uomo in sul fulmineo carro Di Civiltà varchi ogni meta e segno, Sovra il corpo di Dio convien che passi! --Seguían queste parole; ed ecco incontro A l'aureo Sol levarsi altra falange Di pure e maestose Ombre, che a duci Budda e Socrate avean. Per l'opalino Etra sorgeano, e più ch'uomini e forme Parean candidi rai d'alba nascente, O visibili idee: tanto di luce Avean d'intorno e tal purezza in viso. Sorge anch'ei dietro a lor, ma bieco e solo, Sopra cavallo indomito l'ossesso Battaglier de la Mecca, a cui nel pugno Nudo lampeggia e sanguinoso il brando: Nembo ei par di tempesta, in quel ch'a' buffi D'euro si squarcia, e tortuöse e rogge Solfuree fiamme in su la terra avventa. Ma già un nuovo drappel chiama la voce Del canto mio. Come vorace fiamma, Poi che tutte afferrò l'aride secce Del vasto campo, il vicin bosco invade; Terribilmente crepitando esulta Con cento lingue sanguinose a l'etra; Così questi venían dopo a un vessillo Fluttüante a l'avverse aure, su cui Con vivo sangue uman scritto è: Riforma. Qual da l'Eolio mar, quando più cupa Dorme sotto ai veglianti astri la notte, Fra dodici fantasmi ispidi o scogli, Cui morde la rabbiosa onda d'intorno, Sorger tu vedi e lampeggiar, perenne Ara di foco, la Vulcania ròcca; Tal sorgea lampeggiante, in mezzo ai mille Che premeansi a' suoi lati, il procelloso Protestator di Vittemberga. Appresso Muovongli il cheto confessor d'Asburgo E il rigoroso Ginevrin, cui tardo Par l'altrui passo e andar vorrebbe il primo; Non che il prode di mano e d'intelletto Novator di Zurigo, e i due di Praga, Ch'ebber pari il supplizio e l'ardimento, E duce entrambi e ispirator Vicleffo Eversore di dogmi; e quanti osâro A le voraci arpíe di Vaticano Spennacchiar l'ale e rintuzzar li artigli. Destossi anch'ei sul torbido Tamigi Il lascivo Tudorre, e già già mezzo Sorgea da l'acque, e s'apprestava al volo, Quando piombâr su la sua testa, a guisa Di rapaci avvoltoi, le trucidate Sue concubine, e il regal manto e il petto Gli addentaron, sbranandolo. Stridea L'obliqua alma del Re, mentre, ravvolta Nel casto vel, sdegnosamente il tergo Gli volgea l'infeconda Aragonese Commiserando; e tu da la lontana L'incatenavi co'l tranquillo sguardo, O grave ed incorrotta Ombra del Moro. Eran queste le schiere e questi i duci, Ch'oltre al Sole movean, mentre a lor pari Dai quattro venti de la terra un grido Terribile s'ergea, qual se sconvolti Da una pazza procella a un punto solo Mugolassero i mari, o scatenati D'avversi poli s'azzuffasser tutti Con forze uguali ed ugual rabbia i venti. Tuonavan da le selve ime e dagli antri, Già sacri al vorator d'uomini Odino, Quant'ostie mai su'l suo tremendo altare Caddero; urlavan fieramente anch'esse Le vittime di Teuta, a cui, più care Di rugiadosi vischî e di verbene, Bionde teste mietea pei boschi opachì La druïdica falce; un gemer lungo Di greche madri in sugli oblati infanti Prorompea da l'Idee valli, superbe Del vagito di Giove; alto dal Tebro Fremean l'espïatrici ostie ferite A l'ingordo Saturno; e una selvaggia Querela uscía dai seppelliti avanzi De le Puniche ròcche, in quel che in armi Sorgea sdegnoso il redentor d'Imera. Ma chi tutte può dir le voci e i gemiti, Che al ciel salíano a dimandar vendetta Dopo secoli tanti? Opra più lieve Faría colui ch'enumerar volesse Del ciel le stelle e de l'oceano i flutti. Dal braminico aurato Indo, dagli orti Rosiferi d'Irano a le feconde Trinacrie rive del geloso Egitto, Da le terre promesse a una masnada Di lebbrosi omicidi; dal sepolcro Sanguinoso del Cristo a le funeste Valli d'Alby; dai trïonfati fiumi De l'industre Batavia, a cui sul petto Gavazza ancor del fiero Alba il fantasma; Da le Calabre valli a le solinghe Nevi di Valtellina ergeasi un grido Formidabil, concorde, a cui fean eco Da la Senna e da l'Ebro urla più fiere. Udía da l'alto il Nazzareno, e, il biondo Capo scrollando amaramente:--O amore, Dicea, per cui l'innocua vita io diedi, Qual mar di sangue a la mia Croce intorno!-- CANTO QUINDICESIMO. ARGOMENTO. La voce di Lucifero spaventa i beati, che si danno scompostamente alla fuga.--San Luigi Gonzaga si sviene fra le braccia di Santa Teresa.--Gabriele, non potendo persuadere l'Arcangelo Michele alla pugna, ordinate alla meglio alcune schiere, disponesi alla battaglia.--Santa Cecilia ne lo dissuade; ond'egli, lasciato il fiero proposito, s'abbandona voluttuosamente nelle braccia di lei.--Loiola, Domenico di Guzman, Torquemada, Pietro d'Arbues, Sisto e Pio V ordiscono una frode a Lucifero.--San Pietro abbandona le porte del paradiso.--L'Eroe sventa la congiura, e prorompe luminosamente nel cielo.--I congiurati santi tentano la fuga, e periscono miseramente.--Lucifero arriva alla presenza di Dio, cui trova, già fuori di sè, abbandonato da tutti, fuorchè da alcune bestie fedeli.--Tornata vana ogni loro difesa, tramutatosi indarno in diversi aspetti, Iddio muore, mentre l'Eroe ridiscende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa. Appena il grido de l'Eroe percosse Con sinistro rimbombo il ciel vicino, E le prossime schiere e la funesta Voce avvisâr dei minacciosi estinti, Tremâr tutti i Celesti, e verdi il volto Da la paura, si guardâr negli occhi Silenzïosi. Avvertì anch'esso Iddio L'imminente periglio, e sì com'era Sfidato e triste e non del fato ignaro, Sul primo che gli occorse eburneo seggio S'abbandonò. Stupidamente in giro Movea gl'inebetiti occhi, e non tosto Pipilargli a l'orecchio udì il divino Colombo, e sospirar, qual su la Croce, L'incarnato suo figlio, in un dirotto Pianto scoppiò, tutti adempiendo insieme Di stupore i Beati e di sgomento. Qual se dal fondo d'uno stagno, impuro Suscitator di sitibonde febbri, Leva un rospo un loquace inno alla luna, Tutte svegliansi a un tratto, e gli fan coro Le profetiche rane, onde a l'intorno Di chioccio chiacchierio suonano i campi; Tale, al pianger del Dio, per l'azzurrine Vòlte del vacillante Eden destossi Un suon di disperate urla e di pianti. Piangean le poverette alme digiune D'ogni gioia di nozze e d'ogni amore, E tu primo fra loro, o immacolato Fior dei Gonzaga. A un altarino innanzi Tutto adorno di ceri e di ghirlande Ei traducea l'eterne ore in ginocchio Mormorando preghiere a un Crocifisso D'indico dente elefantino. Il novo Gemito udito, in piè balzò, le ceree Mani protese, e, l'argentina voce Spaventato cacciando, a correr diessi Per li stellati corridoi del cielo. Accoccolata a un angolo romito La povera Teresa ivi giacea Stranamente ghignando. In lei si avvenne Il fuggitivo, e, qual fagian, che senta Dietro di sè del cacciator la pésta, Fra l'ovvie macchie il capo aureo nasconde, Tutto ai colpi lasciando il corpo esposto, Tal fra le gonne sbrindellate e conce De la squallida pazza il mal completo Garzon cacciò la paürosa testa, Nè badò per la prima al sesso avverso. N'ebbe gioia la diva, e a quella guisa Che una grave bertuccia a' rai del sole, Tolto fra braccia un piccioletto amico, Tutta a forbirlo e a coccolarlo intende, Così, strillando allegramente, al vizzo Petto ella strinse il trepido fanciullo, E tante gli tessè d'intorno al corpo Con la lubrica man giochi e carezze, Che a la fine ei sentì corrergli il sangue Tale un'ignota voluttà, che a un punto Sussultando fra' brividi si svenne. Sveníansi ancor, ma per cagion diversa, Molte vergini suore, a cui l'intatta Orsola impera. Altre scorrono urlando La reggia; altre stracciandosi le chiome E battendosi il petto van d'intorno Perdutamente; qual con vitreo sguardo Siede come fantasma, e qual, deforme Per isterici spasmi e di spumanti Bave immonda la bocca, a simiglianza Si contorce di frigido ramarro, Cui, smessa a un tratto la pesante zappa, Fiede il villan con infallibil sasso. Fra il gridare, il fuggir, le preci, il pianto Sorse l'invitto Gabrïel ne l'ira, E, volato a Michel, che vergognoso De l'ultime sconfitte i men frequenti Lochi chiedea:--Qual mai desidia è questa Che t'invade, esclamò? Muti ed inerti Aspetterem l'esizio ultimo e il crollo Di questo regno luminoso? È forse Speme alcuna d'impero e di salute, Che nell'armi non sia? Nel contumace Ozio che il cor già impavido ti prostra, Rea viltà, danno certo e infamia io veggio!-- --Di viltà non parlar, con disdegnosa Voce proruppe il pro' guerrier di Dio, Non parlar di viltà, se vuoi che amari Non saëttin dal mio labbro gli accenti. Vil non fui mai: fra le celesti schiere Trono o arcangel non è, ch'ebbe mai vanto Di vedermi ai perigli andar men lesto Di te, che forza del Signor ti appelli. Ma or che giova il valor? L'armi e la pugna Chi incerto ha il fato ed ha speranze elegga: A noi chiaro è il destino. Ombra di Nume S'è fatto Iddio; l'uom tutto vince. Un tempo Aquila io fui, che per l'eteree strade Artigliai le saette; or, che ne falla Con la fede de l'uom del ciel l'impero, Notturna upupa io son, cui non già il sole, Ma il silenzio e la fredda ombra sol giova.-- --Quanto mutato sei! quanto mutati Tutti d'intorno a me qui nel felice Regno de le beate anime, aggiunse Fra disdegno e pietà l'angel superbo; Questo è davvero il ciel? Qui regna Iddio? Tutti d'umani scoramenti invasi Trovo i petti immortali! Oh! non sì tosto Io piegherò: spiri seconda o avversa A la battaglia mia l'aura del fato, Forza a forza opporrò; nè cadrò pria Che l'avversario mio provi il mio brando!-- Spiegò in tal dir le penne, e, la fulminea Spada traendo, alzò de l'armi il segno. Come, uscendo a l'aperta aia dal nido, La mal pennuta chioccia alza la voce: Odono il noto crocidar materno I pelati pulcini, e pipilando Corronle intorno, e per l'accolto strame Con piè inesperto a razzolar si dànno; Così del bellicoso angelo al grido Corsero i pochi, a cui mal noto ancora Del conflitto de l'armi era il periglio. Si sdegnò assai de la non folta schiera L'animoso campion, pur, come seppe La ordinò, l'attelò, la messe in punto; E già, già si movean, pari a loquace Frotta di gru, che la tempesta incalza, Quando l'amor di Gabrïel, la bella Cecilia, udito il suon de l'armi e il grido Del guerriero diletto, a lui sen corse Spaventata, anelante, e:--Dove irrompi, Forsennato, gridò: qual cieco inganno T'ombra il divo intelletto? Ah! non già un uomo, Non un popolo sol, non tutta quanta La terra hai contro e i rubellanti abissi, Ma con seco i destini. È troppo orrenda Cosa la pugna, e quando è vana, è stolta. Cedi al destin; cedi a l'amor; non giova Produrre a prezzo di perigli il regno; Se tempo è di cader, cadasi: io teco Stretta morrò, non già con l'armi in pugno, Ma ne l'amplesso de l'amor sopita.-- Disse, e caddegli a' piè. Fra due sospeso Dubitava il gagliardo Angelo, quando Dal sen colmo di lei, fosse arte o caso, Lieve lieve si scinse il roseo velo; Ed ella in vista lagrimosa e tutta D'amoroso pudor rorida, ai dolci Studî d'amòr gli seducea la mente. Strale fu questo, che andò dritto al core Del divino guerrier: gli sfuggì il brando Da la trepida destra; il vergognoso Sguardo girò confusamente intorno, E, balbettando futili parole, Per man prese la dea, ne le lucenti Stanze sacre ad amor trassela, e lei Mal ripugnante degli ambrosei veli Con mano carezzevole discinta, Al talamo invitò, dove, il gagliardo Proposito e il vicin fato e sè stessi Dimenticando, a delibar si diêro Del giardino d'amor l'ultime rose. Come a l'odor di ramerino o timo, Onor vago dei campi e amor de l'api, Ruzzan gli agili gatti, e senton forse Come un acuto stimolo, che il sangue Fieramente gli assilla, onde su l'erba Stropicciando il supin dorso flessibile Con dolce miagolìo chiaman l'amica; Così, ad esempio del lor duce e al viso De la santa pulzella, arsero i petti Dei celesti guerrieri, e, nulla ancora De l'instante rovina conoscendo, Si sparpagliâr, smesser celate e usberghi, E quinci e quindi a saltar diérsi in traccia D'auree fanciulle e morbidi angeletti. Mentre così, del lor destino ignari, Dansi questi bel tempo, entro a la cupa Anima del Loiola un serpeggiante Pensier guizzò. La macera persona Raddrizzò a un tratto, e con volpina voce Chiamò quanti nel cielo erano in pregio Di sagace accortezza, e a lui ben atti Parvero a l'uopo: il Montaltese, obliquo Mastro di frodolente opere; il santo Conversor di Gusman, la cui parola Scrisse co'l sangue il masnadier Monforte; Non che il fier Torquemada, anima acuta Qual furtivo pugnal, che negli umani Petti s'infisse ad indagar la fede; Il ferino inventor d'ogni tormento Manigoldo Arbuense; il pio Ghislieri Tessitore di stragi, ed altri, a cui Negò voce la fama. Eran costoro, Poichè del fato avverso eransi accorti, Tutti intesi a raccòr per le fulgenti Aule del ciel quanto potean di ricche Gemme e pregiate masserizie; e, fatto Uno sconcio fardello, a quella forma Che travagliansi attorno ad un osceno Non ancor morto scarabèo le inopi Formichette ingegnose, ad esso in giro, Con le mani e co' piè forte spingando, Trafelanti anelavano; e già già S'involavan dal ciel, stolti! che fuori Di quel regno di larve avean pensiero Produrre oltre la vita; e negro intanto Li batteva a le spalle il giorno estremo. Li sorprese in quest'opra il conosciuto Grido e l'aspetto del sagace amico, Ed ascoso il furtivo ònere, a modo D'astute gazze, e fatto al loco intorno Di sè stessi gelosa ombra e tutela, Aspettâr la proposta. --Accorti e saggi Siete inver più di me, disse il Loiola, Se al bisogno del furto e de la fuga Già date il tempestivo animo! Al certo Periglioso è l'istante, e di tenaci Nebbie ravvolto l'avvenir. Del Dio, Che propugnammo, ogni splendor tramonta: Immortale ei non era; e noi già primi Lo sapevam, noi che sol Nume in terra L'utile nostro e il nostro regno avemmo. Scarsa è la schiera e del mio nome indegna Che mi resta laggiù; qui non è alcuno, Che a pugnar pensi, poi chè ottuse e vane Le nostre armi son fatte; arbitro sorge Il mortale Pensier, che in aurei nodi Non a caso io distrinsi; ogni virile Nerbo gli tolsi a poco a poco, e ucciso L'avrei del tutto, ove più fine ingegno Dato avesser le sorti ai miei fedeli. Cederem noi per questo? A l'uom, già vile Schiavo e strumento d'ogni mio disegno, Noi, vili or fatti, piegherem la nostra Già ferrata cervice? Oh! alcun non sia Che in cospetto me'l dica! Uom, che a la prima Faccia del mal muto s'accascia e trema, Pusilla anima è detta; a noi, che tanta Fama abbiam di sagaci, e siam beati, Qual degno nome si addiría? Son troppe Le dolcezze del ciel perchè a la prima Si conceda al nemico! Abbiam rispetto Prima a noi, poscia a Dio, da la cui larva Già difesi imperammo. Inutil sono Le braccia e l'armi? E che però? Ne avanza, Possente arma, l'ingegno. È disperata Cosa la pugna? Usiam l'arte e la frode: Mal, che torni a vantaggio, al ben somiglia.-- Tacque, e le man si stropicciò. --Son d'oro Le tue parole, a lui rispose il senno Del Pastor di Montalto, e assai per fermo Io ne lodo il valor; ma la patente Sconfitta che vicina e certa io sento, E meco ognun, tu non dirai che sia Sorte miglior d'una latente fuga, Pria la vita, indi il regno. Io, sin che filo Di memoria e di spirto il cor mi regga, Non dispero acquistar quanto or si perde; Campar dunque fa d'uopo.-- --Altra io non veggio Via di salute, il pio Ghislieri aggiunse, Che la via del fuggir!-- --Così ne fosse, Gridò allor con schizzanti occhi il grifagno Consiglier di Filippo, oh! sì ne fosse Tosto dato in balía quest'incarnato Sovvertitor di sacrosanti altari! Tal rete intorno gli ordirei, che vano Al districarsi torneríagli il tutto Suo senno astuto e l'infernal possanza!-- --E chi sa?, ravvivando il serpentino Occhio, soggiunse il Biscagliese obliquo, Chi sa, che in nostra man da ver non caggia Quest'audace Lucifero? Fin quando Spirto alcuno d'ingegno oprar n'è dato, Chiuder non dèssi a la speranza il core. Ragno astuto, che vede in un sol punto Disfatto il fine e pazïente ordito, Torna a l'opra ben tosto, e in più sicuro Loco, e con più sottile arte ed ingegno Più certe insidie ai suoi nemici intesse. Spero io così trar ne la rete il nostro Burbanzoso avversario. Ardito e forte Per certo egli è; ma un punto io gli conosco, A cui se drizzi insidïoso un dardo, Larga e secura gli aprirai la piaga. Benchè spirito invitto e del pensiero Apostolo sublime egli si vanti, A la turpe materia il più profano Culto ei professa; ed io più volte il vidi Prostrato al piè d'una beltà terrena Svestir l'orgoglio e gingillar la vita. Udite or dunque un mio proposto. Appena Ei si farà su'l limitar del cielo, Niun lo scontri con l'armi: esperimento Vano saría; vadagli incontro invece Una, di quante sono ornate e belle, Leggiadrissima santa (ed io fra tutte Do la palma in quest'uopo a la divina Prostituta di Màgdalo); gli abbracci Supplicante i ginocchi, e sì lo svolga Per qualche istante da ogni fier concetto, Che a l'amplesso fallace ei si abbandoni In una molle voluttà. Noi, quanti Qui siamo ancor d'armi o d'ingegno instrutti, A lui d'intorno in vigilanti agguati Tutti pronti staremci; e quando il fiero Debellator di Dio da l'iterate Pugne d'amor giacerà stanco e assôrto Nel più codardo e immemore abbandono, Noi piomberemgli in un baleno addosso Come stuol d'avvoltoi; di ferrei nodi L'avvinceremo; e poi che osceno e carco Sarà tutto di ceppi e di ferite, Tal gli darem di tutto polso un crollo, Che i neri abissi e il regno suo riveda!-- Piacque a tutti il consiglio, e alàcri e pronti Diêrsi a l'opera intorno, in simiglianza D'immondo strupo di codarde jene, Che, fatte ardite dal favor de l'ombre, Mute s'affrettan pe'l deserto campo Dietro al sentore di lontan carcame. Contro a le sedi dei Celesti intanto Lucifero irrompea. De l'abusate Porte del ciel stava a custodia il divo Pietro di Galilea, l'inclito alunno Del Nazzaren, pastor d'anime e chiave Del paradiso. Udita avea la voce Del nemico imminente, e, ben che molto Fosse d'uomini esperto e di fortune, Pur sentì scioglier le ginocchia, e a guisa Di fragil canna, che tentenni al vento, Ondeggiava diviso in due consigli: O sguainar l'arrugginita spada, Che pendeagli dal fianco, e alla difesa Rimaner, benchè solo; o, abbandonata La difficil custodia ad altri o al caso, Svignarsela di furto. --Audace impresa, Dicea tra sè, nè a le mie forze uguale, Tener fronte da solo a un tal nemico: Certo ei val più di Malco. E poi, degg'io Perigliarmi per tutti? Alcun non osa Impugnar l'armi, ed io restar qui devo? No, no; vadasi, e tosto: al proprio scampo Volga ognuno il pensier. Se Dio non vale A difender sè stesso, io lo rinnego, In fede mia, canti o non canti il gallo!-- Così pensando, si sottrasse. Come Al furïar di subito uragano Cade svelta dai cardini la porta D'un povero abituro: urla dal fondo La famigliòla spaventata, in quella Che ogni serbata masserizia in giro Sparge, ammucchia, avviluppa il turbo avverso; Spalancossi in tal guisa al primo tocco Di chi porta la luce il vecchio albergo Del paradiso, ovvio lasciando e vasto Al guardo e al passo del Ribelle il varco. Grande e securo e tutto lampi il volto Su la soglia Ei piantossi, e parea sole Di cotanto splendor, che incerte faci Ben dir potevi a petto a lui le stelle. Siccome spada folgorante, in pugno Un raggio acuto gli splendea; tremenda Arma, che squarcia il sen de l'ombre, e quanti Ferrei fantasmi e fiere larve han vita Con sovrana virtù spezza e dilegua. Così l'Eroe proruppe; impazïenti Del solenne giudizio a lui da presso Si versano le schiere, e tutte in giro Prendon l'aurea magione, a simiglianza Di sonanti fiumane, a cui più freno Non dànno argini e dighe, e l'una e l'altra S'accavallando, fragorose e torbide Divorano la valle e i campi affogano. Come allor, che dai cupi antri improvviso Il vecchio Mongibel mugghia e si scuote, Trema intorno la valle; impäuriti Fuggon greggi e pastori, a cui di sotto Balzan globi di fumo atro, e sul capo Piove di ardente e negra sabbia un nembo; Così a la vista de l'Eroe si scosse La gran reggia dei cieli, e quinci e quindi Fuggîr senza consiglio i sacri armenti Vociferando, e qual siede, o s'arresta, Non già vanto ha d'ardire o di piè fermo, Ma invalidi i ginocchi e l'alma infranta. Questo fu il punto, che, disciolta i crini Biondissimi e con piè trepido, in vista Di verginella, al gran Ribelle incontro Mosse la bella Maddalena. Il colmo Petto le ondeggia sovra il cor, sicuro D'un superbo trïonfo; entro ai non folti Docili veli le tondeggian tutte Le rosee membra riluttanti: un nimbo Di reconditi incensi errale intorno A la vaga persona, e di pungenti Stimoli avvampa ai men lascivi il sangue. Tal s'avviene a l'Eroe, mentre raccolti Nei lor taciti agguati ansan parecchi, Qual fidato a l'astuzia e quale al braccio, Congiurati al Loiola. Intento e assôrto Nel suo pensier quei trascorrea, nè punto Abbadava costei, che del sedurre Tutti ben sa gli accorgimenti e l'arte. Ond'ella il passo gli precise, e:--O santo Arcangelo, esclamò, ben si conviene A la luce del tuo sguardo immortale Questo splendido regno! E chi dir puote Che nemico tu sei? che una superba Smania di regno ti conduce al cielo A sovvertir l'adamantina sede, Di Dio? No, che per certo iniqua e indegna Ti precorre la fama, e mal diritto Veggion queste beate anime, a cui Tanto incute il tuo nome alto spavento. Luce ed amor sei tu: simile a novo Raggio d'innamorato astro sorride La tua fronte serena, e a dolci affetti, Pari al mio Nazzaren, l'anime inviti. Oh! ben torni fra noi; qui non mortali Semina rose amor, qui sempre viva Fonte di voluttà schiude il mio seno!-- Udì l'Eroe la subdola proposta, E amaramente le gittò sul volto Queste parole: --O penitente eterna, Nè pentita giammai, qual ti germoglia Ne l'instabile cor postuma brama Di novelle avventure? Un mi son'io, Che al lascivo ozïare, a cui mi tenti, L'aspre battaglie del pensier prepongo!-- Disse, e sdegnando procedea, già sciolto Da l'inciampo di lei; quand'essa, a un punto Tramutando tenor d'arti e d'accenti, Ruppe in alto cachinno:--E ci voleva Proprio questa, esclamò; state a vedere, Ch'oggi che in terra dàn la caccia ai frati, A questa vecchia golpe senza coda Vien pizzicor di farsi anacoreta! Ma fa' il piacer, Lucifero! Son donna, Son figlia d'Eva, e non son senza macchia Come la madre di Gesù: codesta Mascheraccia d'apostolo su'l muso Non ti sta, credi a me: cangiati in serpe Piuttosto; ed io farò, come Dio vuole, Il sagrificio di mangiare il pomo!-- Così dicea, ma seminate al vento Si disperdean le lubriche parole. Visto il colpo fallir, nè di salute Più sperando altra via, fuori ad un tratto Dagli agguati sbucò la tortuösa Anima del Loiola, e si gittando Di traverso a l'Eroe:--Salvami, grida, O glorïoso Arcangelo! Per te, Non già per Dio, sovra la terra io tesi La rete mia!--Volea più dir, ma come Non crudel passeggero, a cui di sotto Venga un turpe scorpion, che velenosi Lascia i morsi ove tocchi, immantinente Alza il piede e lo schiaccia; in simil guisa, Sporgendo il labbro, e torto altrove il viso, Piantò il piede l'Eroe sovr'esso al tergo Del supplice maligno, il qual diè un forte Tonfo, e scoppiò, tutto ammorbando intorno Di putida mefite il ciel sereno. Questo fu il segno de la strage. Appena Del suo duce la fin videro i Santi, Tutti uscîr dagli agguati a la rinfusa, Tal che frotta parean di saltellanti Locuste ingorde, cui la fiamma incalza Più vorace di lor. Più volte indarno Una mano d'audaci angeli e santi Far impeto tentâr contro a le schiere Del luminoso Eroe; ma qual fremente Cavallon che si franga a la ronchiosa Rupe, spezzate contro a lor cadeano L'avverse armi e l'ardire. E come avviene Nel nebbioso novembre, allor che in dense Falde piovon dal ciel l'umide brume, E nereggian le vie, quasi colpite D'occulta lue cadon le mosche esose, Ch'or ti ronzan morenti in su la faccia, Or sui fumidi cibi, onde a l'intorno Sparse e brutte ne van le mense e i letti; Così, al proceder de l'Eroe, da l'alto Fioccan morti i Beati, e tu soltanto Li ferivi co'l tuo sguardo immortale, O trïonfante Verità. Fra tanto, Con ogni forza ed ogni astuzia in salvo Ricondursi volean Sisto e Ghislieri, Torquemada e Gusman. Li precedea, Stranamente strillando e mulinando Sovr'esso il capo la ghierata gruccia, Il feroce Arbuënse, e una mal viva Folta di Santi lor tenea bordone. Li riconobber da l'opposta parte Co'l profondo veggente occhio i campioni Del libero Pensiero, e un minaccioso Mormorio si levò, come di vento Precursor di procella. Ardean di cupo Sdegno le generose anime, in quella Che con flagel di sanguinosi motti Mordea Voltèro ai fuggitivi il dorso. Non però immoti ne le lor falangi Stetter Bruno e Vanini; anzi a quel modo Che una coppia di fulve aquile, altere Dominatrici di profonde altezze, Con pari volo e con funesto strido Piomban sovra a la preda, essi al feroce Fuggitivo drappel di tutta punta S'avventarono incontro, e:--O manigoldi De l'umano pensier, gridò con fiera Voce l'ardito precursor di Nola, Or sì che il fin di vostre colpe è giunto!-- Disse, e ghermendo con la ferrea destra Torquemada a la strozza, in turbinoso Modo il rotò, che spatola parea In man d'esperto battitor. Lanciollo Poi qual sasso di fionda; e non sì tosto Da l'alto ei ripiombò, che in mostrüosa Foggia si franse e si divise, a modo Di crinato utensil d'impura argilla Lanciato a l'aria da fanciul bramoso D'udirne il tonfo e di contarne i cocci. Cadde, e si franse ei sì, ma in braccio a morte Non s'acquetò; chè in quante parti e brani S'eran divise le sue membra, in tanti Si spezzò la sua vita, onde ciascuno, Che guizzando e serpendo invan tendea A congiungersi a l'altro, era dannato A soffrir sempre, e a non morir giammai. Fra mani allora al pensator d'Otranto Fieramente stridean Sisto e Ghislieri. Ambi agguantati egli li avea, qual suole Assiduo scardatore, il qual prendendo Due manciate di canape, fra loro Pria le sbatte più volte, indi le affida Al nemico di lische ispido cardo. Si mordevan per rabbia i duo percossi, E sgraffiavan rignando, e parean due Gatti rivali, a cui bollir fa il sangue Nel rigido gennaio un caldo amore: Sul colmo dei muschiosi embrici, in traccia De l'amica ritrosa, a notte piena Scontransi, e i peli rabbuffando a un tratto, Soffian, sbatton la coda, alzano in arco L'ispido dorso, e duri, intirizziti Muovonsi con guardingo atto d'intorno, L'arida lingua saettando: a bada Si tengono così, fin che il più lesto La granfia avventa e vibrasi a l'assalto. Odi allora echeggiar di strilli acuti La sacra notte, rotolar sul tetto Smosse tegole e sassi, e chi del dolce Sonno si svolge in quell'istante, umani Gemiti e grida ascoltar crede al vento. Così le due sinistre anime, a un punto Fatte da l'ira e dal dolor nemiche, Si sbranavan fra loro, insin che stanco Di quel fiero piacer l'eroe nemico Le scagliò da sè lungi. Urlâro i tristi Da l'alto ciel precipitando, e ancora Precipitan pe'l chiaro aere: li aspetta Fremebonda la terra, ove un'eterna Vita servile e in gran terror vivranno. Scórsi muti e di furto eran fra tanto L'Arbuënse e il Gusmano; e si tenendo Fuor d'ogni attesa e d'ogni sguardo ostile, Speculavan la fuga, o un nuovo inganno. Si sferrò allor da la sua schiera il forte Riformator di Vittemberga, in guisa Di mortifero strale, e una tremenda Voce vibrò. Stetter tremanti e bianchi I fuggitivi, e balenâr perplessi Fra la lotta e la fuga, in simiglianza D'inseguito assassin, che fischiar senta Presso a l'orecchio il mortal piombo. Vinse Il primiero consiglio, e, vòlto il fronte Subitamente, s'avventâro ai fianchi De l'iracondo novator. Qual pura Fiamma tendente al Sole e del Sol figlia, Se a la putida pece arda vicina, A lei tosto s'apprende: a poco a poco Struggesi questa; in negre bolle impure Gorgoglia, e più e più spandesi, fra tanto Che giallo e crasso infesta l'aria il fumo; Tal divenne Lutero, allor che intorno Gli s'avvinghiâro ai poderosi fianchi I due rabidi santi, a cui bentosto Crepitando ei s'appiglia. Un fiero strido Mandan gli audaci, e di balzar fan prova, E staccarsi, e fuggir; ma appiccicati Restano a lui così, che in foggia strana Fan di tre forme un mostrüoso aspetto. Corre pe'l ciel l'inesorabil fiamma, Che li attacca, e li fonde, e meraviglia N'han tutti intorno; ed ora i cornei crini Gli avvampa, or gli erra su le picee terga Con feroce pigrizia, or dentro ai vivi Occhi gli siede, e nei precordii scende, E i visceri gli mangia, e l'ossa ignude Con lenta voluttà rode e consuma. Seguían queste giustizie; ed ecco a fronte De l'egro Nume il gran Ribelle arriva. Solo il trovò nel più recesso loco Del paradiso; e nullo era, di quanti A le mense di lui s'eran nutriti, Che a la difesa or vigilasse: ognuno Che innanzi al passo de l'Eroe non era, Futile inciampo, ancor fugato o vinto, O il vol dava a la fuga, o in un furtivo Ripostiglio del ciel, pallido, ansante Scongiurava il destin. Voi soli in questo Stremissim'uopo non lasciaste il trino Padre deserto, o sovra ogni pietosa Fida essenza del ciel pietosi e fidi Quadrupedanti: a voi, se grazia alcuna Merta ancora la fede, un chiaro grido Non fallirà presso i venturi, a cui L'alto cor vostro e i vostri nomi io canto. V'era di Balaàm l'asino e quello Che riscaldò di Betelèm la greppia Col mirifico fiato; eravi anch'esso L'accorto bue, che, abbandonato il duro Solco e l'aratro, ad adorar sen corse Il già nato Messia: meraviglioso Di fede esempio, onde nei cieli assunto Fu per nume di Dio, che la falcata Fronte gli ornò di due vividi raggi, Come un tempo a Mosè; v'eran del divo Rocco i fidi mastini impazïenti D'avventarsi a l'Eroe; v'era il modesto D'Antonio alunno, che il signor perduto Fra' grugniti piangea: sul nero grifo Gli discorrean le lagrime cocenti, Ed ei, la Dio mercè, fatto maestro D'oprar le zampe come fosser mani, Se le tergea con un candido velo, Di ricami stupendo, opera e dono De la diva Lucia. Ma visto appena L'avverso Eroe, che procedea sembiante A novo Sol, di subito disdegno Arse, fe' biechi i picciolettì e tondi Occhi verdastri, aggrinzò il grugno, a spira Ravvolse ed agitò la scarsa coda, Ed arrotando le spumose zanne Con irto il dorso e con pendule orecchie S'avventò, che parea critico arguto, Che carico di norme e di sofismi Al tallon d'un poeta avventi il morso. Non fûr tardi a seguir l'eroico esemplo L'altre bestie devote; anzi ad un punto Per ogni verso si scagliaron tutte, E, stupendo a ridir! correano a morte Come a danza, o convito. Alti lamenti Mettea dal petto il Nume; e a lui d'intorno Per la reggia del cielo era un tedesco Strano accordo di ragli e di grugniti. Tentennava l'Eroe, commiserando, La testa, e con un rigido sorriso: --Ecco, o Eterno, dicea, qual poco armento Di cotanti fedeli oggi ti resta!-- Toccò in tal dir co'l penetrante raggio, Che nel pugno tenea, la nebbia densa In cui tutto era chiuso il Dio morente, E l'aprì tosto, e dissipolla in guisa Che il ciel limpido apparve e la sparuta Faccia del Nume agonizzante. Ai piedi Morto giaceagli il divo augel, che il grembo Visitò de l'Ebrea Vergine; e, sciolto Dal trino amplesso, a cui lo strinse il mito, Stette innanzi a l'Eroe tranquillamente Gesù. Splendea nel mansuëto aspetto Tutta umana bellezza, e una fragrante Lucid'aura di pace e di dolore Gli alïava d'intorno a la persona Candidissima. Il vide, e il riconobbe Lucifero, e parlò: --Ben la catena Di tua divinità spezzi in quest'ora, Santo eroe de l'amore e del perdono; Ben ritorni qual fosti al luminoso Raggio del Ver, le cui vendette io segno! Vedi le schiere mie? Là, fra quei pochi Spirti di saggi, a cui Socrate è duce, Loco a te caro, a niun secondo, io serbo!-- Disse, e insegnava con la destra. Innanzi Fecesi, a questo dir, l'intemerata Luce d'Atene, e fra le venerande Braccia il pietoso Nazzareno accolse. Or l'estrema ora tua dirà il superbo Genio che m'arde, o mal temuto Iddio. Quando l'Eroe ruppe la nebbia, involto Di nero oblio, fuor d'ogni senso e moto Tu giacevi; ma allor che con lo sguardo Ti penetrò, ratto balzasti, a guisa Di già morto batràce, a cui dà strani Moti il valor del ricorrente elettro. E, come già solea nel greco mito Le sembianze mutar Proteo marino, Quando immerso nel sonno, in mezzo al gregge De le putide foche il sorprendea Con ferree braccia alcun mortale o nume, Tal sotto al ciglio de l'Eroe nemico Cento apparenze e simulacri e larve L'egro tuo corpo in ratta vece assunse. E or di Brama, o di Teuta, or di Saturno Usurpava gli aspetti; or Cristo, or Giove, Ora Osiri appariva ed ora Anubi; Or terribile e scuro e tutto cinto Di tempeste e di morte, or fiammeggiante Sole parea che l'universo avvivi; Or fantasima inerte, or procelloso Eversor di pianeti; e ferrea e cieca Legge d'affanno, ed inesausta fonte Di bontà, di clemenza e di perdono. Fremean per lo profondo etra le schiere Luminose dei Saggi; da l'opaca Terra sorgean, che parean fiamme vive, Le vittime dei Numi, e tutti a un grido La giustizia chiedean. Pende dal labbro Di Lucifero il Fato; a lui dintorno Stanno i secoli. Al Dio, che si trasforma Tranquillamente egli favella: --È antica L'arte, per cui forme tu cangi e nomi: Rinnovarla or non giova! Assai sembianze Sostenemmo di Numi, a cui la cieca Fede de l'uom diè lunga vita e impero. A l'un error l'altro successe; a un vôto Fantasma altro fantasma; or tocca il fine Questa vicenda rea: l'ultimo Iddio Tu sei; con te, non pur la forma e il nome, Ma il pensiero di Dio ne l'uom s'estingue!-- Così dicendo (ed additava il sole, Che sotto ai passi gli sorgea), toccollo De l'acuto suo raggio, e parte a parte Lo trapassò. Stridea, come rovente Ferro immerso ne l'onda, il simulacro Fuggitivo del Nume; e, a quella forma Che crepitando si scompone e scioglie Fumigante la calce a l'improvviso Tasto de l'acqua o del mordente aceto, Tale al raggio del Ver struggeasi il vano Fantasima; e in vapore indi converso, Tremolando si sciolse, e all'aria sparve. Così moría l'Eterno. Ai consuëti Balli movean gli antichi astri; dal cielo Luminose partían come in trionfo Le Magne Ombre dei Sofi, e a tutti innanzi Lucifero. Arrivò co'l Sol novello Sul Caucaso nevato, ove al soffrente D'adamantino cor figlio di Temi: --Lèvati, disse, il gran tiranno è spento!-- FINE. INDICE. CANTO PRIMO Pag. 3 Silenzio di Dio.--I suoi ministri imprecano.--Gli uomini ridono. Lucifero s'incarna.--Proposizione del poema, ed apostrofe ai critici.--Avvenimento dell'Eroe sul Caucaso, da dove eccita gli uomini alle finali battaglie del pensiero.--S'incontra in Prometeo, che cerca da prima dissuaderlo dall'impresa ch'egli crede inutile e disperata; commosso indi dalle ardite parole di lui, lo prega a volergli narrare la sua storia.--L'Eroe si dispone al racconto. CANTO SECONDO Pag. 21 Incomincia la narrazione.--La Natura e il Pensiero.--Stato primitivo degli uomini; primi e diffIcili avanzamenti, a cui si oppongono i Numi, creati dall'anima inferma degli uomini.--La gran Lite.--La guerra dei Titani: il pensiero e non la forza trionfa dei Numi.--Lucifero non si contenta del cielo; Dio lo fulmina; l'inferno lo accoglie.--Un istinto di amore lo chiama sulla terra.--L'albero della scienza.--La tentazione.--Percosso nuovamente da Dio, ripiomba nell'inferno.--Non mai contento dell'esser suo ritorna sulla terra.--Cristo predica l'amore.--Gli uomini desiderosi del cielo dimenticano la terra.--Lucifero ve li richiama, ed è malamente calunniato. CANTO TERZO Pag. 41 Lucifero, continuando il racconto, accenna alla venuta dei barbari; ad Ario, che si ribella, fra' primi, all'autorità ecclesiastica, da cui viene scomunicato nel concilio di Nicea; a Telesio, che scote il giogo scolastico; alla stampa che propaga il pensiero nuovo.--La rivoluzione, filosofica in Italia, diventa religiosa in Germania.--Leone X e Lutero.--Il pensiero e la coscienza armano il braccio dei popoli, e la rivoluzione prende l'aspetto politico.--Tirannide monarchica e republicana: la libertà sta nel centro.--Rivoluzioni d'Inghilterra, d'America, di Francia.--Il canto della guigliottina.--Fecondità delle rovine.--Rassegna delle principali invenzioni del pensiero umano; dalle quali confortato l'Eroe, predice il suo vicino trionfo.--Finita così la narrazione, si parte, mentre una voce misteriosa annunzia agli uomini la sua venuta. CANTO QUARTO Pag. 67 Lasciato il Caucaso, l'Eroe si dirige verso la Grecia; trascura molti luoghi favolosi, ma ricordasi di Ero, ed apostrofa all'amore e alla morte.--Descrizione di Tempe.--Le bagnanti sorprese.--Il palazzo incantato e la fanciulla misteriosa.--Lucifero arriva; ascolta il canto di Ebe, e le domanda ospitalità.--Accenna in brevi tratti all'esser suo e a quello di Dio, e la commuove di paura e di affetto. CANTO QUINTO Pag. 87 Il fantasma di amore, che ha eternamente agitato l'Eroe, veste forme sensibili.--Ebe e Lucifero si amano: l'amore accerta l'Eroe del trionfo.--Si allontanano da Tempe, e giungono nell'Attica.--L'Acropoli di Atene.--Voluttà d'amore fra le rovine.--L'Ombre di Socrate, di Focione, di Codro.--Un bruttissimo e strano mostro appare in sogno all'Eroe, e lo beffeggia.--Onde questi, abbandonando la fanciulla nel sonno, si caccia impaziente ove il destino lo chiama. CANTO SESTO Pag. 107 L'Eroe s'imbarca per la Francia.--Rivolge superbe parole alla Natura.--Aurora boreale.--Sermone di frate Iginaldo.--Tempesta e naufragio.--Isolina si raccomanda all'Eroe, che cerca invano salvarla.--Morte di frate Iginaldo.--Lucifero co'l cadavere della fanciulla si avvicina a forza di nuoto alla riva.--Iddio, che vuol perderlo ad ogni costo, inveisce contro gli oziosi abitatori del cielo; armasi in fretta, ed è sul punto di scendere in terra per combattere il nemico, quando l'arcangelo Michele lo calma, e scende in sua vece alla pugna.--Sdegnose parole di Lucifero al nemico, la cui spada non riesce a ferirlo.--L'eroe afferra finalmente la riva, e dà sepolcro alla giovinetta. CANTO SETTIMO Pag. 131 Storia d'Isolina.--Amore.--Sogno di felicità.--La lettera della madre.--Ultimo commiato.--Lontananza.--La giovinetta abbandona la famiglia e la patria; muove in traccia dell'amor suo, e perisce miseramente tra' flutti.--Sorge dal sepolcro, ed apparisce a Lucifero; il quale, non potendo ridarle la vita, languisce nell'oblìo di sè stesso.--Una voce interiore lo richiama all'attività, e lo avverte della gran lotta preparata fra la Prussia e la Francia.--Egli ascende sulle Ardenne, e mira i formidabili eserciti che si avanzano.--Alla vista delle aquile imperiali alza inutilmente la voce contro l'ingiustizia di quella guerra. CANTO OTTAVO Pag. 155 La catastrofe di Sédan.--L'ombra di Turenna e la resa.--Lucifero entra in Parigi.--La babilonia delle gazzette.--L'assedio.--Gloria ed obbrobrio a chi spetta.--Un generale francese, trasformato in asino, è condotto al macello.--I Prussiani entrano nella città.--L'allocuzione del proletario.--La colonna Vendôme.--L'ombra di Federigo.--La petroliera.--Allo spettacolo di tanti eccidî Lucifero si parte, non senza dubitare un istante del suo trionfo. CANTO NONO Pag. 187 Curiosità dei Celesti e pietosa supposizione dei santi inquisitori alla vista dell'incendio di Parigi.--Pettegolezzi divini.--Profonda risposta di Dio; e confidenze che egli fa a santa Teresa; che perde improvvisamente la ragione.--Lucifero, che ha lasciata la Francia, veleggia per l'America.--Apostrofa alla Spagna.--Arriva nel nuovo mondo.--Saluto alla libertà, madre di civili istituzioni.--S'interna in una foresta, di cui si fa la descrizione, e conversa con una scimmia, che pretende esser sorella del genere umano. CANTO DECIMO Pag. 213 Sorge la notte, e l'Eroe resta smarrito nella foresta, dove prova le sofferenze dell'umana natura.--Lotta con un giaguaro, di cui rimasto vincitore, abbandonasi al sonno.--Rivede Ebe nei sogni, e torna per poco ai dolci vaneggiamenti d'amore.--La giovinetta silenziosa si tramuta a un tratto in un orribile fantasma.--Iddio, vedendo così travagliato il suo avversario, crede agevole impresa il domarlo.--Lascia il letto, cavalca l'asino di Betlem, e scende in terra.--Trova Lucifero, e cerca da prima con superbe parole, poi con astute promesse venire a patti; ma questi tien fermo, e lo caccia da sè acerbamente.--Liberatosi indi a poco dalla foresta è ospitato dalla povera Sara.--La schiava nera e lo schiavo bianco. CANTO UNDECIMO Pag. 241 Canto all'Italia; le tre civiltà; l'Alighieri; l'ultima guerra d'indipendenza; l'ossario di Solferino; il traforo del Cenisio.--Lucifero arriva; apostrofa al Po; scende in Toscana; è ricevuto nella casa d'Egeria, dove si adunano i più famosi geni dell'Arte moderna.--Le donne emancipate; il filologo Macrino; un poeta demagogo; un commentatore di Dante; Delio gazzettiere; un camaleonte onniscibile.--Il poeta Olimpio e la sua dama.--Lucifero, creduto spiritista, finge evocar l'ombra del divino poeta; il quale fulmina sdegnosamente poeti svenevoli e atrabilari, drammaturghi da scuola e da piazza, musici intronatori ed istrioni bastardi.--Olimpio, che si offende, sfida l'Eroe a un duello; ma questi si rifiuta con parole di superbo disprezzo. CANTO DUODECIMO Pag. 281 Lucifero giunge in Roma.--La breccia di Porta Pia.--La festa del Colossèo; durante la quale ascolta l'Eroe alcune voci misteriose.--Voce di Ebrei.--Voce di Numi.--Voce di Sacerdoti.--Voce di Santi.--Voce di Diavoli.--Voce del Tevere.--Voce della Savoia.--Voce della Corsica.--Voce dell'Istria.--Voce di popoli slavi.--Voce della Germania.--Spavento dei beati alla nuova che Lucifero è in Roma.--Santa Caterina da Siena, rimproverandoli acerbamente, si offre di scendere in terra e di piegare con la sua eloquenza il nemico.--Iddio, benchè dubbioso del buon successo, glielo accorda; e, mentre ella si dispone a partire, Santa Teresa dà scandaloso spettacolo della sua pazzia. CANTO TREDICESIMO Pag. 315 Santa Caterina alla vista di Lucifero si perde di animo, e, invece di convertire lui alla fede, converte sè stessa all'amore, e si abbandona ai voluttuosi abbracciamenti dell'Eroe.--Alcuni Angeli, sedotti dall'esempio, disertano il cielo, e cantano il desiderio della terrena voluttà.--Ultime ore di Pio IX; a cui apparisce l'Ombra di un solitario, che, non valendo a persuaderlo di rinunziare al dominio temporale della terra, lo lascia in preda a spaventose visioni.--Una vittima delle stragi di Perugia.--Due decapitati.--Straziato da queste apparizioni, il vecchio Pontefice muore, domandando inutilmente perdono. CANTO QUATTORDICESIMO Pag. 341 Saluto di Lucifero al Sole; tra' raggi del quale rivede l'immagine di Ebe.--Attirato da mirabile fascino d'amore l'Eroe si solleva per l'aria; traversa gli spazi; giunge in Venere; si confonde con l'amor suo, e procede infino al Sole, da dove alza la voce dell'ultimo giudizio.--I morti di ogni età e di ogni loco risorgono, e s'innalzano dalla terra per assistere al giudizio di Dio.--Rassegna di filosofi; d'istitutori di popoli; di riformatori.--Le vittime domandano vendetta. CANTO QUINDICESIMO Pag. 367 La voce di Lucifero spaventa i beati, che si danno scompostamente alla fuga.--San Luigi Gonzaga si sviene fra le braccia di Santa Teresa.--Gabriele, non potendo persuadere l'Arcangelo Michele alla pugna, ordinate alla meglio alcune schiere, disponesi alla battaglia.--Santa Cecilia ne lo dissuade; ond'egli, lasciato il fiero proposito, s'abbandona voluttuosamente nelle braccia di lei.--Loiola, Domenico di Guzman, Torquemada, Pietro d'Arbues, Sisto e Pio V, ordiscono una frode a Lucifero.--San Pietro abbandona le porte del paradiso.--L'Eroe sventa la congiura, e prorompe luminosamente nel cielo.--I congiurati santi tentano la fuga, e periscono miseramente.--Lucifero arriva alla presenza di Dio, cui trova, già fuori di sè, abbandonato da tutti, fuorchè da alcune bestie fedeli.--Tornata vana ogni loro difesa, tramutatosi indarno in diversi aspetti, Iddio muore, mentre l'Eroe ridiscende sul Caucaso, ed annunzia a Prometeo la fine dell'impresa. End of the Project Gutenberg EBook of Lucifero, by Mario Rapisardi *** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK LUCIFERO *** ***** This file should be named 22641-8.txt or 22641-8.zip ***** This and all associated files of various formats will be found in: http://www.gutenberg.org/2/2/6/4/22641/ Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at DP-Europe, http://dp.rastko.net. (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano) Updated editions will replace the previous one--the old editions will be renamed. Creating the works from public domain print editions means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. 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