I ragazzi d'una volta e i ragazzi d'adesso

By marchesa Colombi

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Title: I ragazzi d'una volta e i ragazzi d'adesso

Author: marchesa Colombi

Release date: March 3, 2024 [eBook #73094]

Language: Italian

Original publication: Milano: Galli, 1888

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I RAGAZZI D'UNA VOLTA E I RAGAZZI D'ADESSO ***


                          LA MARCHESA COLOMBI


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                          RAGAZZI D’UNA VOLTA
                                  E I
                            RAGAZZI D’ADESSO



                                 MILANO
                        GIUSEPPE GALLI, EDITORE
                 _Galleria Vittorio Emanuele, 17 e 80_
                                   —
                                 1888.




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

         Milano. — Tip. Filippo Poncelletti, Via Broletto, 43.




DUE PAROLE D’ESORDIO


A misura che considero l’esistenza dei ragazzi che mi circondano, mi
convinco sempre più, che questo è un tempo estremamente fortunato e
bello per la fanciullezza. I bambini sono i despoti delle famiglie, i
padroni del mondo, anche nelle case dove una giusta e voluta severità,
non permette alle piccole testoline capricciose di avvedersi troppo di
questa loro fortuna.

Si vedono intere famiglie della borghesia trasportarsi, nell’estate,
in riva al mare, o sui monti, o a qualche sorgente di acque minerali, —
anche a costo di gravi sacrifici di borsa, — per rinforzare un bambino
gracile, per ridare un po’ di roseo alle guancie impallidite di una
bambina. A’ miei tempi i bambini delicati e poveri morivano, ed i
genitori piangevano amaramente. Ma le bagnature e le cure climatiche
erano riservate esclusivamente alla gente ricca.

Ora invece, se non si può movere la famiglia, si cerca, e si trova una
pensione, economica relativamente, ma sempre gravosa per le piccole
rendite e per la gente che vive del proprio lavoro; ma il ragazzo non è
mai privato della cura che si richiede per la sua salute.

Pei figlioli dei poveri vi sono delle beneficenze che provvedono alle
cure climatiche ed ai bagni di mare.

Negli istituti, nelle famiglie, si usa far visitare tratto tratto da
un dentista i denti dei giovinetti, per preservarli da quell’orribile
carie, che altre volte rovinava i denti tanto presto, senza altro
rimedio, nella maggioranza, che quelli a cui si ricorreva quando
gli spasimi lo richiedevano imperiosamente, e che, bene spesso,
distruggevano il dente insieme col male. I nostri vecchi, dente
più dente meno, non se ne curavano troppo, e dicevano che queste
sottigliezze erano buone pei figlioli dei gran signori.

E le scuole dove noi s’andava a gelare l’inverno, ed a soffocare
l’estate, sono ora riscaldate ed aerate bene, a seconda della stagione.
Ed invece di passarvi una quantità di ore immobili, come si faceva
altre volte, ora vi si alternano gli studi colla ginnastica, colle
lunghe passeggiate; si misura il tempo, si studia soltanto in date
stagioni; tutto per riguardo alla salute ed al benessere dei ragazzi.

Conosco degli istituti dove le giovinette, che non si debbono esporre
al freddo della strada per andare a far colazione alle loro case, si
portano una costoletta preparata in un piattino, ed un piccolo fornello
a spirito, e nell’ora della ricreazione si cuociono quel manicaretto
sostanzioso. Ne conosco altri, dove l’istituto stesso fornisce, dietro
richiesta dei genitori, le colazioni calde alle alunne, come se fossero
in una piccola locanda.

Ai nostri tempi la colazione che si portava alla scuola era composta di
pane e frutta. Non altro. Le bottigliette del vino, che ora si portano
generalmente, ci avrebbero inspirata una grande stupefazione.

I castighi, i veri castighi che tutti noi ricordiamo, — lunghe
genuflessioni, lunghe reclusioni in un camerino, privazioni di frutta,
e persino il regime a pane e minestra per vari giorni, tutto questo è
passato allo stato di leggenda.

Non so se i fortunati bambini, curati, accarezzati col dolce sistema
moderno, che approvo, riescano moralmente migliori di quelli d’altre
volte, avvezzi dai primi anni a sopportare delle piccole contrarietà.
Non so neppure se il loro fisico si rinforzi realmente nelle agiatezze;
ad ogni modo, l’infiacchimento che può provenire dalle soverchie
delicatezze, dev’essere corretto dalle cure igieniche.

Ma quello che mi parrebbe naturale, è che i bambini d’adesso
fossero più felici dei loro piccoli predecessori, trattati tanto
più rozzamente, e tenuti in soggezione. Ed invece non mi pare di
riscontrare nelle piccole brigate e sui volti giovinetti dei bimbi
del ceto civile, l’allegria schietta, spensierata che una volta era
generale nei fanciulli.

Vedo sovente dei visini giovani improntati d’una gravità prematura, ed
alle volte d’un’ombra di malinconia che m’impensierisce.

Oh bambini; o gioventù noncurante! Se sapeste a che amore s’inspirano
quelle cure che vi circondano e che spesso vi danno noia; se sapeste
che lavoro assiduo, che privazioni, e che pensieri, e che cumulo di
fastidi costano ai vostri parenti, ne avreste un vantaggio infinito,
perchè, se non altro, ne risentireste la gioia suprema di sapervi amati
fino al sacrificio; e le gioie di questa specie fanno bene allo spirito
ed al cuore, quanto l’igiene fa bene al corpo.

I nuovi sistemi, che rendono tanto dispendiosa l’educazione dei figli,
non permettono più, o permettono di rado ai parenti di accumulare, anno
per anno, dei piccoli risparmi, e di crearsi un modesto patrimonio, pel
riposo e per l’agiatezza della loro vecchiaia.

Eppure vi sono parenti che, pel benessere dei loro figli, accettano
anche questa prospettiva orrenda, della povertà nella età avanzata,
dopo una lunga vita di lavoro.

Si rassegnano a campare come potranno, magari della riconoscenza dei
figli che hanno allevati, a vivere in una relativa dipendenza, nell’età
venerabile che avrebbe diritto a tutte le indipendenze, a tutte
le supremazie, quando si gloria del ricordo d’un passato onesto ed
operoso.

Questo è il colmo, è la sublimità dell’abnegazione; è l’eroismo della
paternità.

È perchè i miei piccoli lettori possano apprezzare al loro alto valore
le cure, i sacrifici che si fanno per loro, perchè si fermino qualche
volta a considerare quanto tesoro di benevolezza rappresentano una
costoletta, un paio di guanti, un mantellino imbottito, un’inezia, che
per lo più lasciano passare inosservata, che ho scritti, dal gennaio al
dicembre del 1886, questi racconti, e che ora li raccolgo in un volume.

Sono una serie di episodi veri, dell’infanzia, e della gioventù di
persone, che ora sono mature o vecchie, e specialmente del mio nonno,
che è morto da vent’anni.

Egli era fanciullo nell’ultimo quarto del secolo passato, quando
a pochi, a pochissimi eletti, figli di grandi famiglie patrizie,
erano concesse certe raffinatezze, delle quali ora si circonda anche
un bambino di condizione modestissima. Allora i figli dei piccoli
possidenti, dei commercianti, dei professionisti, erano allevati un po’
alla guardia di Dio, e dovevano cominciar presto a lavorar di gomiti
per farsi largo nella vita.

Sono episodi semplici, buffi fors’anche. Ma quando ne avrete riso,
bambini, ripensateci un poco; e vedrete come per voi si sono spianate
tante difficoltà, come si sono banditi tanti rigori, come la vostra
esistenza è più facile ed agiata. E, se siete buoni, ne sarete
commossi, e sentirete un’immensa gratitudine pei vostri maggiori che si
consumano la vita a lavorare per voi.




_Come il nonno imparò a nuotare_


Il nonno, che quando era bimbo, come è ben naturale, non era punto
nonno, e si chiamava Andrea, abitava in un piccolo villaggio del
basso Novarese. Suo padre era farmacista, il che, a quei tempi, non
significava, come ora, preparare e vendere medicinali e, per giunta,
tenere una raccolta di specialità più o meno ciarlatanesche in boccette
e scatoline eleganti, e ciarlar di politica col medico condotto e con
le altre autorità e notabilità del paese.

Il farmacista di Cerano, allora, vendeva e fabbricava una serie di
cose, anche estranee affatto alla farmacopea; come per esempio il
carbone, la polvere di riso, la cioccolata, la mostarda.

Era dunque un uomo straordinariamente affaccendato, ed aveva ben poco
tempo, per non dire che non ne aveva punto, per occuparsi a vezzeggiare
i suoi figli.

Sua moglie era in farmacia fin dalla mattina, e faceva le veci del
marito tutto il tempo che egli doveva passare alle carbonaie. E quando
lui prendeva il suo posto dietro il banco, lei badava alla cucina, al
bucato, a tenere in ordine i vestiti dei figlioli, all’allevamento dei
bachi nei mesi di maggio e giugno, ai polli, alle oche, ad un’infinità
di cose, per le quali le ventiquattr’ore della giornata le bastavano
appena, grazie alla sua grande attività; ma, a rigore, sarebbero state
insufficienti.

I figli, che erano tre, venivano svegliati ogni mattina dalla mamma,
che, di buonissima ora, bussava forte all’uscio dello stanzone, dove
dormivano su tre lettucci, composti di due cavalletti, d’un saccone di
foglie e d’una materassa.

A cinque anni cominciavano già a lavarsi e vestirsi da sè alla meglio.
Prima dei cinque anni, era Andrea, il fratello maggiore, che aiutava
i più piccini. Gli era capitata addosso a sei anni quella prima
responsabilità; ma non gli era mai riuscita gravosa.

È vero che qualche volta i piccini, assonnati, capricciosi, gli
menavano qualche pugno; ma lui lo rendeva equamente; se gridavano,
gridava più forte di loro, e, bene o male, finivano sempre per esser
vestiti tutti ogni mattina, e per scendere in cucina.

Era là che la mamma li aspettava per le preghiere; così, senza
perder tempo, recitava forte un _pater_, un’_ave_, un _credo_, mentre
scodellava la polenta, e versava in ogni scodella di polenta calda, una
buona mestola di latte fresco pei figlioli.

Dette le orazioni e mangiata la polenta, i tre ometti andavano alla
scuola, muniti del sillabario, della dottrina cristiana, dell’abbaco,
del quaderno per lo scritto, e d’un panierino col pane ed una mela
per la colazione del mezzogiorno. Il pane era abbondante, la mela era
sempre una sola; e quando non era la mela erano quattro noci, o una
pera. Mai nulla di più appetitoso. La costoletta, la bistecca, o le ova
sbattute delle nostre scolarine moderne, non erano mai balenate alla
mente di quei ragazzi, neppure in sogno. Se avessero udito di qualcuno
che si fosse portato il vino per la colazione a scuola, come ora si fa
da molti, avrebbero creduto che si trattasse del principe Camaralzaman
o della principessa Badour, delle _Mille ed una notte_, e l’avrebbero
considerata come una delle tante stravaganze di quei personaggi
meravigliosi.

Al ritorno dalla scuola, babbo e mamma, facevano trovare ai figli
il desinare, il focolare acceso nell’inverno, il letto per dormire,
gli abiti per mutarsi. Confetti, trastulli, passeggiate, giochi,
vezzeggiamenti, erano cose ignote.

E questo, non perchè il babbo del nonno fosse veramente povero. Aveva
qualche fondo, la farmacia, e guadagnava benino, ed in un piccolo paese
come Cerano, dove la vita costava meno che in città, ed a quei tempi,
si poteva dire un uomo agiato.

Ma prendeva la vita molto sul serio. Aveva dei principii austeri. Guai
a fare un debito! A’ suoi occhi era una vergogna. Guai a ritardare
d’un giorno un pagamento; era mancare ad un dovere. Guai a spendere
quattrini in una cosa inutile, in una superfluità, in un divertimento,
mentre con quel denaro si poteva fare qualche cosa di seriamente
giovevole all’avvenire dei figli, o soccorrere della gente in miseria!
E quell’austerità l’applicava a sè stesso prima che agli altri. Vestiva
quasi come i contadini del paese, mangiava nel modo più frugale, non
aveva mai portato guanti in vita sua, non andava mai neppur fino a
Novara, se non per necessità del suo commercio o della famiglia, non
entrava mai nell’unico caffè del paese, e tanto meno nell’osteria.

Nessuno dunque poteva biasimarlo se non comperava dei giocattoli ai
suoi figli, per quanto loro li desiderassero.

Del resto i ragazzi si trastullavano egualmente. Ma lo facevano per
iniziativa propria e come potevano. Uscivano soli pel paese, andavano
in cerca di nidi, coglievano le more sulle siepi, pescavano nella
Morra, vi facevano i bagni; ed era un arrampicarsi, un saltare, un
correre, un dimenarsi in tutti i modi, che non aveva nulla da invidiare
alla ginnastica sistematica delle nostre scuole.

La mamma se ne accorgeva dagli strappi che trovava nei vestiti, ognuno
dei quali era salutato da una sgridata o da uno scappellotto. Ma la
mamma non ci metteva fiele, ed i ragazzi non se ne avevano a male.

Nei calori ardenti dell’estate, tutti gli altri spassi erano
trascurati, ed i giovinetti del paese passavano nell’acqua tutte le ore
che la scuola e le occupazioni di casa lasciavano loro di libertà.

Quasi tutti sapevano nuotare. Eppure nessuno aveva mai presa una
lezione di nuoto, nè era mai stato accompagnato in acqua da un
marinaio, nè s’era legate sulla schiena due zucche come le ali d’un
amorino, nè s’era aggrappato disperatamente ad un salvagente. I parenti
d’allora non si davano tante brighe. Trovavano che il nuoto non era una
necessità, e dicevano: «Se non potete imparare da voi, fatene a meno».

Molti, molti anni dopo, quando il piccolo Andrea era diventato il
nonno, noi s’andava qualche rara volta in campagna per alcuni giorni
sul lago d’Orta. Là c’erano delle nostre compagne, che avevano una casa
in riva al lago, una darsena, un canotto, un marinaio, o piuttosto un
barcaiolo, marinaio d’acqua dolce.

Noialtri pure avremmo voluto nuotare, ma non sapevamo. S’entrava
nell’acqua a uno a uno col barcaiolo che ci teneva le mani, e ci faceva
fare l’esercizio, ripetendo all’infinito, come fanno i caporali coi
coscritti: «Uno, due, tre, quattro». Noi ci si metteva un’attenzione
intensissima che ci irrigidiva tutti, e si aveva una paura smisurata,
e non si riesciva mai a mettere d’accordo le braccia con le gambe, e
s’andava regolarmente sotto, appena il barcaiolo ci lasciava.

Il nonno, alto, forte, tutto bruciato dal sole, stava ritto sulla
spiaggia come una grande statua di bronzo, e, ridendo dei nostri
sforzi, diceva:

«Io non ho mai imparato quell’esercizio, eppure sono stato un nuotatore
famoso. Ma ai miei tempi queste cose non entravano nel numero di quelle
che si debbono imparare. Era un gusto come un altro, e, chi lo voleva,
se lo procurava come poteva».

«A Cerano, poco fuori dal paese, c’era un ponte sulla Morra, alto come
un secondo piano, ed anche più. Si chiamava: _Il ponte del diavolo_.
Vi sono molti ponti che si chiamano così, sebbene non abbiano nulla
di tremendo, di diabolicamente pauroso e bello, come il _Ponte del
diavolo_ che i viaggiatori vanno ad ammirare sulla via del Gottardo.

«Vedevo i miei compagni che spiccavano il salto da quel ponte,
affondavano un istante, poi diguazzavano scotendo l’acqua e
spruzzandone da tutte le parti, e col capo fuori dall’acqua tiravano
via a nuotare allegramente.

«Li invidiavo. Mi struggevo di fare altrettanto. Ma ero ancora molto
piccino. Avevo, credo, sette anni. Non sapevo nuotare, e dovevo
accontentarmi di bagnarmi alla riva, correndo nella sabbia, coll’acqua
fino alle spalle.

«Una volta domandai a mio padre:

— Come si fa per imparare a nuotare?

«E lui mi rispose:

— Ma! Si prova. Io ho nuotato finchè sono stato giovane, senza che
nessuno mi abbia mai insegnato.

«Poi, crollando le spalle, soggiunse:

— Del resto, non c’è nessun bisogno d’imparare a nuotare, quando non si
deve fare il marinaio.

«Io non ne parlai più. Ma ne avevo una gran voglia. Un giorno stavo sul
_Ponte del diavolo_ guardando alcuni compagni che nuotavano di sotto, e
dissi a due altri che si preparavano a fare il salto:

— Come mi piacerebbe di saper nuotare anch’io!

«Non avevo terminato di dirlo che mi sentii sollevare da terra
e precipitare nel vuoto, mentre i compagni che mi buttavano giù,
gridavano agli altri che erano già nel torrente:

— Attenti! attenti! Badate che vien giù Andrea!

«Affondai nell’acqua, provai un gran freddo, una gran soffocazione, poi
respirai a stento. Avevo la testa fuori dell’acqua e due nuotatori me
la reggevano, tirandomi innanzi.

«Non so come avvenisse, ma bastò quella lezione.

«Il giorno dopo spiccai il salto da me, ed ebbi appena bisogno
dell’aiuto dei compagni per tornare a _galla_.

«La terza volta non ebbi bisogno di nessun aiuto. Sapevo nuotare.

«La mamma, quando le dissi quel fatto si mise di malumore; forse aveva
paura per me; ma non me lo disse.

«Mio padre borbottò tutto accigliato: — che ero una testa matta, che
avevo arrischiato di rompermi il collo per imparare una cosa inutile,
un perditempo...

«Io mi arrischiai a dire:

— Ma ha detto l’altro giorno che anche lei ha nuotato finchè è stato
giovane, babbo...

— È vero. Ma non ho cominciato dal salto. E poi, se io ho perduto del
tempo inutilmente, non è quello che ho fatto di meglio, e non devi
imitarmi. Se hai delle ore di troppo vieni alle carbonaie, che troverai
da occuparti meglio.

«Fu tutta la gloria o l’ammirazione che mi fruttò quel mio rapido
progresso nella nautica.

«Tenetelo a mente, signorini, che mi fate spendere i quattrini della
lezione, e credete di aver fatto molto, e quasi quasi pretendete ch’io
vi lodi e vi ringrazi, quando ne avete profittato un pochino.




_Santa Lucia_


Richiamo un ricordo molto, molto lontano. Forse il più lontano; forse
la prima delle storie del nonno, che io abbia capita, e che mi sia
rimasta in mente.

Era un inverno rigido.

Sento ancora l’impressione assiderante che provavo uscendo di casa
il mattino alle otto per andare alla scuola; sento il soffio d’aria
diaccia che mi entrava nel collo, e mi faceva l’effetto di una doccia.

Nella mia piccola città di provincia, a Novara, non c’erano, come nelle
grandi città, gli omnibus che abbreviassero le strade. Bisognava andar
sempre a piedi, a meno d’esser signori da carrozza; e questo non era il
caso mio.

Mia sorella era in collegio; c’era entrata appunto quell’anno.

Mio fratello frequentava, come me, le scuole elementari municipali; ma
le sue, le maschili; erano da un’altra parte.

Andavo dunque alla scuola sola, accompagnata dalla cuoca, che era la
nostra unica persona di servizio; una vecchia taciturna.

Tutta la strada, non avendo con chi distrarmi a parlare, a fare il
chiasso, pensavo al freddo; e sebbene avessi il mantellino, mi pareva
di gelare.

C’erano due sorelle, figlie d’una famiglia della borghesia ricca, che
venivano alla scuola con un gran goletto di pelo d’ermellino. Lo si
vedeva biancheggiare da lontano, e formava l’ammirazione di tutta la
scolaresca, dalla prima alla quarta elementare.

Io lo invidiavo appassionatamente.

E, non so perchè, a forza di pensarci, mi ero persuasa di poter aver in
dono una meraviglia simile, per la festa di Santa Lucia.

Perchè nel Novarese, ed a quei tempi, non era a Natale, ma il giorno
di Santa Lucia, il 13 dicembre, che si ricevevano le strenne, nel
panierino, messo appositamente fuori dalla finestra la sera prima. A
Natale si davano le mancia ai giovani dei negozi, _le buone feste_,
i negozianti di commestibili mandavano le _buone feste_ con un dono,
alle loro pratiche. Ma la strenna dei bimbi nel panierino, la strenna
misteriosa, che si doveva fingere di non sapere da dove venisse, la
strenna soprannaturale, la portava Santa Lucia. Però i bambini furbi
ripetevano una vecchia quartina informe:

    Santa Lucia
    Mamma mia
    Colla borsa del papà
    Santa Lucia la vegnirà.

Non so perchè mi tenessi quasi sicura di quella strenna sfarzosa.

Era l’intensità del desiderio, che m’aveva suscitata nel cuore la
temeraria speranza.

Del resto, avevo tanto parlato in casa del bel goletto delle mie
compagne di scuola, che la mamma non poteva ignorare quale fosse il
dono più gradito da suggerire a Santa Lucia per la mia strenna.

La domenica, quando andai a trovare mia sorella in collegio, le
comunicai la mia grande speranza. E lei si mise subito a calcolare
quale cosa magnifica potrebbe portare Santa Lucia a lei, perchè potesse
stare a confronto di quel goletto che doveva costare tanto caro, e che
lei non poteva avere perchè portava la divisa del collegio.

La mattina del giorno 13, appena svegliata, e mi svegliai prestissimo,
saltai giù dal letto, ed in pura camicia da notte, coi piedi nudi,
corsi a spalancare la finestra della mia cameretta, per ritirare il
prezioso panierino.

Con mio grande stupore non lo trovai ricolmo come gli altri anni.

Non se ne vedevano rigurgitare le carte frastagliate delle caramelle;
non si vedeva sporgere tra un arruffio di carte d’ogni colore, e di
chicche senza carta, il capino biondo di una bambola.

Eppure, la bambola, le chicche, ed un’orribile figurina di pasta, con
un’inverniciatura di zucchero a colori, rappresentante Santa Lucia
cieca con in mano i suoi occhi sopra un vassoio, erano il complemento
inevitabile d’ogni strenna.

Come mai non c’erano? Doveva essere stata una dimenticanza.

Ma, certo il goletto, non poteva mancare; e, per me, era il più
importante. Al resto si penserebbe poi.

Infatti, il goletto c’era, in fondo al paniere, avvolto in un bel
foglio di carta color di rosa.

Ma non era d’ermellino; era grigio.

Seppi più tardi che era un pelo fine, e che si chiamava _petit-gris_.

Ma a me parve brutto, con la sua tinta neutra e scura, e dopo che avevo
vagheggiato il bianco latteo dell’ermellino, messo in risalto dalle
belle virgole nerissime e lucenti.

Gettai, stizzita, il goletto grigio ai piedi del letto. Tornai a
rannicchiarmi fra le lenzuola, e mi misi a piangere disperatamente.

Dopo circa mezz’ora, quando la mamma entrò nella mia cameretta,
singhiozzavo tanto, che mi sarebbe stato impossibile dire una parola.

Alle sue domande, potei soltanto rispondere accennando colle mani il
goletto e piangendo più forte.

La mamma rimase un po’ male. Si aspettava una dimostrazione di gioia, e
mi trovava invece nella desolazione.

Tuttavia, cercò di persuadermi che quel goletto era bello quanto quello
delle mie compagne.

Mi disse che il _petit-gris_ era un pelo di pregio, e che le era
costato tanto, che lei aveva dovuto rimetterci anche i quattrini
destinati a completare la strenna coi chicchi e colla bambola.

Ma io ero inconsolabile, e continuavo a ripetere fra i singhiozzi:

— Lo volevo d’ermellino! Le ragazze a scuola non lo sanno che questo
pelo grigio costa caro! Non lo crederanno!

La mamma fece il volto serio, e disse:

— Perchè ti preme tanto che sappiano che costa caro? È una vanità
volgare e stupida. Io ti ho scelto apposta il goletto di questo colore
modesto, appunto perchè non dia nell’occhio come un oggetto di lusso.
Noi non siamo ricchi, e dobbiamo vestire secondo il nostro stato. Non
ti ricordi della storia della rana che si gonfiava per rassomigliare al
bue? Vorresti fare la stessa figura?

Ma questi discorsi non valevano a persuadermi.

Tutto il giorno fui imbronciata, e borbottai «che, per non avere il
goletto come volevo io, non metteva conto d’esser privata della bambola
e dei confetti». E leticai con mio fratello, perchè volevo prendergli
le sue chicche ed i suoi soldatini di legno dipinto.

Il nonno, quando udì quelle lagnanze, mi rimproverò severamente.

— Sei un’ingrata. La tua mamma ha fatta una spesa per regalarti
quel goletto, ed ha cercato di accontentarti, nella misura che era
conciliabile colla modestia con cui debbono vestire le ragazze che non
sono ricche. E tu la compensi molto male della sua generosa bontà.

Disse questo con un piglio fermo ed austero, che rendeva sempre
inesorabili le sue parole, e ce le imprimeva nella mente.

Poi stette zitto un tratto, e finalmente, riprendendo il suo fare mite
e cordiale, incominciò a parlare dei tempi remoti della sua infanzia.

Era una sua abitudine di raccontare episodi e storielle di quel lontano
passato.

Ce li dava come esempi, come lezioni di vita austera, per correggerci
di certe nostre tendenze al lusso ed alle agiatezze; due cose che
egli diceva «molto dannose alla gioventù, la quale deve temprarsi per
affrontare gli attriti e le lotte della vita.»

Quel giorno disse:

«Io, da ragazzo, non ebbi mai il gusto di trovarmi sul balcone, la
mattina di Santa Lucia, un paniere rigurgitante di dolci e giocattoli e
cose belle, come lo trovate voi ogni anno.

«La strenna, quel giorno, l’avevo anch’io. Ma mio padre voleva che
fosse sempre un dono serio come lui. Un oggetto di prima necessità, che
doveva comperarmi inevitabilmente, e che il più delle volte, per poter
rappresentare, a suo tempo, la strenna di Santa Lucia, mi giungeva
molto in ritardo, e, per conseguenza m’imponeva prima una privazione.

«Serbo ancora memoria d’un inverno crudele, durante il quale mi
toccò di andare alla scuola, dal quattro novembre fino al dodici
dicembre, poco meno d’un mese e mezzo, colle mani orribilmente gonfie
e screpolate dai geloni, che mi dolevano come bruciature quando le
esponevo all’aria gelida del mattino; e tutto quel tempo sospiravo la
benedizione d’un paio di guanti di lana.

«Se ne parlava continuamente, in casa, di quei famosi guanti. Mi si
facevano balenare agli occhi della fantasia come un miraggio. Si diceva
che con dei guanti di lana non avrei sentito più nessun dolore, che
i geloni mi sarebbero guariti immediatamente; che erano anzi il solo
rimedio efficace.... Tutto questo per farmeli apprezzare in tutto il
loro valore.

«Ma però continuavo ad uscire ogni mattina con un freddo di parecchi
gradi sotto zero, e colle mie povere mani nude, che parevano due
informi cuscinetti paonazzi.

«Fu soltanto la mattina di Santa Lucia, che andando a ritirare la
mia scarpa sul ballatoio che dava in corte, vi trovai i guanti tanto
vagheggiati, fatti da mia madre a calza.

«Ah! come avrei preferito restare senza strenna, non mettere neppure
fuori la scarpa, ma avere i guanti un mese prima!

«Ve l’ho detto, mi pare, che a Cerano, come in tutte le nostre campagne
si mette una scarpa sul balcone per ricevere la strenna, invece del
paniere che mettete voi!

«Del resto, quei giorni che precedevano il Natale, erano un periodo
molto laborioso nella nostra annata, e non lasciavano molto tempo per
fantasticare sulle strenne di Santa Lucia.

«A Natale, mio padre mandava un dono a tutte le famiglie agiate del
paese, per conservare le pratiche alla sua farmacia. E quei doni
toccava a me prepararli, e portarli a destinazione.

«In principio di dicembre, si faceva venire da Novara un cioccolattaio,
colla larga pietra scanaliate ed il grosso cilindro di marmo per
macinare il cacao.

«Quell’uomo lavorava a giornata in cucina, macinando e rimacinando la
pasta profumata e lucida, che faceva una gola da non dire a me ed ai
miei fratellini.

«E dopo la scuola, che finiva alle tre, io dovevo preparare i fogli
bianchi e quadrati, ed avvolgervi le tavolette di cioccolata, che il
cioccolattaio aveva preparato lungo il giorno.

«Poi c’erano delle larghe torte, dei metri quadrati di cotognata, fatta
da mio padre nell’autunno, che aspettavano me, per essere tagliate a
quadri, a dischi, a stelle, a cuori.

«Poi dovevo fare dei sacchetti ingommati per mettervi della cipria e
dell’amido, dello zucchero e del caffè.

«Tutte queste cose erano destinate alle strenne degli avventori, e
dovevano essere pronte almeno tre giorni prima di Natale.

«Avevo dunque molto da fare in quella prima metà del dicembre.

«I miei fratelli, che erano troppo piccini per aiutarmi in quei lavori,
facevano da sguatteri alla mamma, che, come tutte le buone massaie
del Novarese, in quel giorno aveva l’abitudine di _preparare_ le oche:
riporre le carni in sale pel resto dell’inverno, fare lo strutto col
grasso, friggere la pelle. Si rendevano utili anche loro, poverini.

«E questi erano i nostri teatri, i nostri _bals-d’enfants_, i nostri
alberi di Natale, i nostri divertimenti.

«Di divertimenti, nell’inverno, ne avevamo due: Giocare a tombola la
Domenica in casa del medico, e scivolare sul ghiaccio nell’andare alla
scuola e nel ritornare.

«Ma questo secondo divertimento, siccome sciupava molto le scarpe, ci
era proibito. Il che non vuol dire però che noi ce ne privassimo; io
specialmente, che andavo a scuola solo, perchè de’ miei fratelli, uno
solo andava ad una scuoletta infantile da una donna del vicinato, e
l’altro stava ancora in casa.

«Parlo di quando avevo sette anni.

«Uscivo solo; il babbo non mi vedeva; com’era possibile che camminassi
serio serio, su quel piano levigato che pareva fatto apposta perchè
i bambini si divertissero a scivolare un poco? Quale sarebbe stata
l’utilità d’avere il ghiaccio?

«Ed erano delle volate lunghe parecchi metri, delle risate senza fine,
che andavano in tanto sangue.

«E quando era la settimana di Natale, ed avevo vacanza, e mio padre ne
profittava per mandarmi in giro con un gran paniere di pacchi turchini,
a distribuire alle sue pratiche le strenne lungamente preparate, si può
dire che facevo tutta la strada scivolando, ed almeno venti volte al
giorno ruzzolavo sul ghiaccio col paniere e tutto, spandendo tutti i
pacchi sul ghiaccio.

«Quell’anno appunto, quando io ne avevo sette, si cambiò il medico
condotto, ed il nuovo venuto non c’invitò più la sera della Domenica a
giocare a tombola.

«Allora noi ragazzi, desolati, pregammo tanto e tanto, che il babbo ci
promise di farci giocare nella retrobottega della farmacia... quando
una qualche fortuna impreveduta, ci facesse avere le cartelle, i
numeri, tutto l’occorrente pel gioco.

«Io capii subito che quella fortuna impreveduta doveva essere la Santa
Lucia, e che la tombola sarebbe la mia strenna.

«Quel discorso si era fatto una sera a cena.

«La mattina dopo, appena potei svignarmela colla cartella dei libri
per andare alla scuola, corsi difilato fuori del paese, in un punto
dove il ghiaccio era più sodo, e dov’ero sicuro di trovare i miei amici
più cari, ed entrando in mezzo con una gran scivolata che finì in un
capitombolo, annunciai, prima ancora d’essermi rimesso in piedi, che,
cominciando dalla prima domenica dopo Santa Lucia, si giocherebbe a
tombola in casa nostra.

«Si pagavano due centesimi per cartella, ed era permesso soltanto ai
grandi di prenderne due. Per cui il guadagno massimo, la tombola, non
superava mai i trenta centesimi.

«Ma noi ci si divertiva egualmente.

«La buona novella fu accolta con una salva d’applausi e di grida;
e, per festeggiarla, si combinò pel ritorno dalla scuola una grande
scivolata.

«Noi non si diceva ancora _pattinare_, e non so se quell’uso straniero
fosse allora importato in Italia. Perchè vi parlo dei primissimi anni
di questo secolo, figlioli, io sono nato alla fine di quell’altro.

«Comunque fosse, a Cerano nessuno aveva idea del pattinaggio; neppure i
Marchesi De Landi, i più ricchi proprietari dei dintorni, che abitavano
un gran casamento in fondo al paese, e che quando c’era il ghiaccio
uscivano colle soprascarpe di corda per paura di sdrucciolare.

«Si può figurarsi se io presi parte alla festa del pomeriggio!

«Ne presi tanta, che tornai dalla scuola quasi all’ora di cena,
e le tavolette di cioccolata ne patirono, perchè non ebbi tempo
d’incartarle, ed anch’io ne patii, perchè mi buscai due scappellotti da
mio padre, ed una buona sgridata dalla mamma.

«I giorni seguenti badai a dividere il mio tempo tra il ghiaccio e
le occupazioni di casa, e rubando una mezz’ora ogni giorno al ritorno
dalla scuola, mi tenni sicuro di poter scivolare senza farmi scorgere.

«Intanto venne la vigilia di Santa Lucia.

«La sera il babbo mi lasciò uscire pel paese, a vedere i banchi di
dolci, illuminati con due candele circondate da uno scartoccio di carta
bianca, e carichi di paste dolci, di torrone nella carta d’oro, di
arancio, di zuccherini, e di Sante Lucie di pasta e di zucchero, cogli
occhi sul bacile.

«Lungo la strada, ad ogni amico che incontravo, rinnovavo l’invito per
la prossima domenica a giocare a tombola.

«Tornato a casa poi, prima d’andare a letto, misi una delle mie scarpe
sul ballatoio verso corte.

«Aveva la suola bucata quella povera scarpa; ed anche il tomaio era
tutto spellato in punta e logoro; ed il tacco era scalcagnato che era
una vera pietà.

«Ma come fare? La sua compagna era anche in peggior stato, ed io mi
consolai pensando che di notte il babbo non se ne sarebbe accorto.

«Calcolando che il gioco della tombola, col cartellone, il sacco dei
numeri e tutto, non potrebbe mai stare nè dentro nè sopra una scarpa,
per quanto non fosse quella di Cenerentola, le misi sotto disteso un
bel foglio di carta turchina, dei più larghi che trovai in farmacia;
per ricevere il dono desiderato.

«Poi me ne andai a letto, ansioso di rivedere il giorno, e con esso la
strenna, che doveva procurare a me, ed ai miei compagni, tante sere di
spasso.

«Ed il giorno venne, come tutti i giorni desiderati o no, felici od
infelici.

«Ma quando mi accostai, tutto palpitante, alla vetrata del ballatoio,
vidi il foglio turchino fatto più scuro dall’umidità della notte, e su
quel tappeto azzurro, isolata, e triste come un paracarro sopra una
strada, la mia povera scarpa scalcagnata. Non altro. Nè cartelle, nè
numeri, nè cartellone. Nulla.

«Sebbene mi battesse forte il cuore per lo sgomento, pensai:

— È perchè il gioco non stava nella scarpa. Il babbo me lo darà in mano
or ora, quando scenderò a colazione.

«Però, guardando meglio traverso i vetri rabescati dal ghiaccio, vidi
un pezzettino di foglio bianco, che sporgeva malinconicamente dal
gambale della mia scarpaccia.

«Cosa poteva essere?

«Forse che il babbo non aveva trovata occasione di far comperare la
tombola a Novara, ed aveva messi i quattrini in quel foglio, perchè me
la comperassi io?

«Sicuro; doveva essere così.

«Spalancai in fretta il balcone. Tirai dentro la scarpa, ed apersi il
foglio misterioso.

«Ma no; non c’erano punto quattrini. C’erano soltanto poche parole di
scritto.

  — «Buono di L. 4, per la risuolatura ed altre riparazioni, ad un
  paio di scarpe sciupate scivolando sul ghiaccio.»

                                                        «IL BABBO.»

«Oh, non aveva bisogno di scriverlo che era il babbo! Lo avrei sentito,
lo avrei indovinato. Lo avevo indovinato alla prima, sebbene cercassi
di farmi illusione, che quella scarpa solitaria e quel fogliolino
rappresentavano un guaio!

«Era il prezzo della tombola, che doveva pagare la riparazione delle
scarpe. E la mia strenna di Santa Lucia si riduceva ad un rimprovero e
ad un castigo.»

                             . . . . . . .

Quando il nonno ebbe finito quel racconto, andai a prendere il mio
goletto di pelo grigio, me lo misi sulle spalle, e corsi a ringraziare
la mamma che, fin d’allora, tanti anni fa, mi disse:

— Oh, i figlioli d’adesso sono ben più fortunati di quelli d’una volta!

Ma per voi, piccoli lettori, io rappresento, colla mia storia ed il mio
goletto, degli altri figlioli d’una volta.

E dire che voi avete dei pattini per pattinare sul ghiaccio, un
maestro che vi insegna quel divertimento come se fosse uno studio, e
dei mantelli foderati di pelliccia per coprirvi quando avete finito di
pattinare!

Voi sì che siete veramente in grado di fare il confronto tra i ragazzi
d’una volta e quelli d’adesso; e dovete sentire una gran gioia per
la vostra fortuna, ed una gran riconoscenza pei vostri parenti, pei
maestri, per la società, per la provvidenza, che vi rendono tanto
felici!




_Come il nonno si fece levare un dente_


Un giorno il nonno ricevette una lettera da mio fratello, che era in
collegio a Vercelli, nella quale il povero ragazzo annunziava d’essere
tormentato da un forte dolor di denti.

Il giorno dopo giunse un’altra lettera con una descrizione straziante
degli spasimi del malato. Il direttore aveva fatto chiamare il chirurgo
dentista, e Mario aspettava con ansietà d’essere visitato.

Il terzo giorno venne una terza lettera.

Il dentista aveva dichiarato che la carie era troppo avanzata perchè il
dente si potesse ancora impiombare. Il paziente però non si sentiva il
coraggio di farselo levare, ed aveva domandato che, prima di ricorrere
a quella misura _estrema_ e _barbara_, si tentassero tutti i rimedi
possibili.

Aveva trovato un sollievo momentaneo nel laudano; ma poi era ricaduto
nelle sue atroci sofferenze. Inutile dire che, da otto giorni,
aveva lasciato gli studi e tutto, e stava nell’infermeria gemendo e
piangendo.

Per una settimana ancora continuò a venire ogni giorno un bollettino
sanitario, nel quale il malato stesso riferiva minutamente le cure
tentate, le pillole d’oppio, persino un’iniezione di morfina descritta
pomposamente, come una seria operazione sopportata con coraggio, poi
il creosoto, gli empiastri applicati alla guancia, e gli effetti più o
meno buoni, e più o meno durevoli d’ogni rimedio.

Finalmente venne una lettera del direttore, il quale avvertiva
solennemente il nonno, che la sofferenza di Mario, sebbene non
avesse nessuna gravità, non si potrebbe realmente guarire, se non
coll’estirpazione del dente cariato. Questo annuncio era accompagnato
da una dichiarazione del chirurgo-dentista, il quale faceva ogni
settimana una visita ai denti di tutti gli allievi del collegio, li
puliva, li limava quand’era necessario, li medicava, ed in questa
circostanza speciale di Mario, giudicava inevitabile l’estirpazione del
dente guasto.

Si pregava il nonno di rispondere per telegrafo, perchè il malato era
molto nervoso ed intollerante.

Il nonno non s’era mai crucciato di tutto questo; più volte aveva data
una scrollatina di spalle ricevendo le lettere urgenti di Mario; ed
anche quella mattina sorrideva tra sè mentre scriveva il suo telegramma
di risposta che diceva:

«Si faccia pure grande operazione. Raccomando coraggio piccolo eroe.»

Sgraziatamente, pare che il piccolo eroe non ne avesse di molto, perchè
in giornata venne un altro telegramma del direttore:

«Mario esige essere cloroformizzato. Non oso assumere responsabilità.
Cosa fare?»

Il nonno questa volta fece una vera risata, e rispose, sempre per
telegrafo:

«Differite finchè avrete lettera. Scrivo subito.»

E, spedito il telegramma, temperò una bella penna d’oca, una rarità
che si trovava sempre in casa nostra, perchè il nonno aveva una pessima
opinione delle penne d’acciaio, e scrisse a mio fratello:

      «Caro Mario,

  «Sono sbalordito del chiasso che fai per un dente cariato.

  «Ammetto che ti dolga molto, e ti compiango... fino ad un certo
  punto.

  «È un fatto che noialtri vecchi siamo sempre un po’ in lotta
  coi nuovi sistemi. Ma è certo che ai miei tempi, quando non si
  usavano le visite settimanali del medico (trenta lire all’anno),
  alla dentatura dei ragazzi, e si badava un po’ meno a qualche
  piccola sofferenza, o anche a qualche grave sofferenza purchè
  non presentasse nessun pericolo, e si lasciava un pochino che i
  giovinetti si dibattessero da sè nella gran lotta della vita, si
  era, alla tua età, più coraggiosi e più forti di quanto tu hai
  dimostrato di essere.

  «In risposta alle molte lettere, bollettini sanitari, dichiarazioni
  mediche e telegrammi, che costituiscano il voluminoso incartamento
  del tuo caso straziante, ti dirò come io, a nove anni, mi feci
  levare un dente.

  «Vivevo, come sai, a Cerano, non lontano dalle risaie, in mezzo
  alle praterie irrigate, paese di nebbia e di vapori malsani. Un
  autunno l’umidità fu tanta, che anche i miei giovani denti se
  ne risentirono. Cominciai dall’avere una flussione alla guancia
  destra, che si gonfiò enormemente tirandomi il naso tutto da un
  lato, e coprendomi un occhio, e finii per rimanere con una fitta
  acuta, dolorosissima, come se m’introducessero un succhiello
  proprio sotto l’occhio destro, poi lo togliessero con uno strappo,
  poi lo introducessero di nuovo girandolo e rigirandolo dentro.

  «Mio padre era occupato intorno ai lambicchi dove distillava le
  vinaccie per far l’acquavite; la mamma aveva al fuoco dalla mattina
  alla sera un’enorme caldaia in cui faceva cuocere, collo zucchero e
  col miele, le frutta per la mostarda.

  «A queste faccende straordinarie dell’autunno, si univano quelle
  ordinarie della famiglia e della casa.

  «Per conseguenza nessuno aveva tempo d’intenerirsi per il mio mal
  di denti.

  «O, forse, s’intenerivano, perchè, sebbene non facessero carezze,
  i miei genitori mi volevano molto bene. Ma non avevano tempo nè
  di compiangermi, nè di chiamare a consulto la _facoltà_ per un
  male del quale non si muore. E quanto ad amministrarmi narcotici
  e corrosivi, il babbo non voleva saperne, dicendo con ragione: «È
  meglio patire un po’ di più, che guastarsi i denti, e magari anche
  la salute, con le medicine.»

  «Io, dunque, non andavo a piagnucolare con loro. Mi sforzavo di
  sopportare il mio male con coraggio, aspettando che finisse.

  «Ma non finiva.

  «Una mattina mio padre mi disse:

  — Dovrei mandare a Novara questa partita d’acquavite che ho venduta
  ad un liquorista, e mi accomoderebbe che tu andassi sul carro per
  tener d’occhio il carrettiere, che non mi avesse a fare qualche
  marachella. Ma con quel male, non potrai?...

  «Pensa, caro il mio infermo, fin dove tu alzeresti le braccia per
  invocare il cielo in testimonio dell’umana barbarie, se in questo
  momento ti proponessero, non dico una strada di sette chilometri
  sopra un carro scoperto in una giornata umida di novembre, ma
  soltanto di scendere dall’infermeria per assistere ad una lezione.

  «Io invece, senza essere per questo un eroe, ero avvezzo a prendere
  la vita sul serio, ed a rendermi utile nella misura delle mie forze
  di nove anni. Dissi ad un mio compagno più grande di me, che aveva
  dei denti infelicissimi:

  — Come dovrei fare per farmi cavare questo maledetto dente nella
  giornata? Vorrei star bene per andare a Novara domattina...

  «L’altro mi rispose:

  — Fa come faccio io ogni volta che ho un dente troppo dolente e
  troppo guasto: vieni dal fabbro.

  «Fui un po’ meravigliato, e dissi:

  — Dal fabbro? Per farmi levare un dente?

  «Ma sì! Vorresti andar dal chirurgo come una donnina?

  «A dire il vero, avrei preferito andare dal chirurgo come una
  donnina. Quel fabbro mi faceva un po’ di paura. Ma il chirurgo
  era burbero; mi vedeva da parecchi giorni girare per la farmacia
  col volto sfigurato, ed invece di guardarmi in bocca per veder
  di guarirmi, mi aveva detto: «Effetto dell’umido; passerà» e non
  ci aveva badato più. Era anche, per principio, contrario alla
  estirpazione dei denti. Mi rassegnai dunque ad andare col mio
  compagno, che mi condusse dal fabbro, in fondo al paese, e gli
  disse:

  — «Lavatelli, c’è un’operazione da fare. Un buon colpo; mi
  raccomando: è un mio amico.

  «Il fabbro, senza neppur guardarmi, andò a prendere uno spago, poi
  venne da me e domandò:

  — «Dov’è questo dente?

  «Io glielo mostrai. Egli mi pose in mano lo spago e mi disse:

  — Legalo; prendi lo spago nel mezzo, per lasciarmi i due capi della
  stessa lunghezza.

  «Da me solo stentavo; ma, coll’aiuto del compagno, si riescì a
  legare il dente cariato collo spago.

  «Allora il fabbro legò i due capi all’incudine tenendoli molto
  corti, tanto che dovevo star chino per non sentirmi tirare il dente
  indolito.

  «Io domandai:

  — Ed ora, come si fa?

  «Il mio compagno, venendomi accanto in modo da non lasciarmi vedere
  nè l’incudine nè il fabbro, mi rispose:

  — «A momenti, quando te ne sentirai il coraggio, darai una stratta
  spingendo il capo indietro...

  In quella un colpo tremendo, formidabile, del martello
  sull’incudine, fece tremare tutta la bottega, echeggiò come lo
  scoppio d’una bomba; e, nel sussulto pauroso che mi fece fare quel
  colpo inaspettato, diedi involontariamente una grande stratta allo
  spago, che rimase attaccato all’incudine col dente malato, mentre
  il mio compagno esclamava:

  — Ecco fatta l’operazione!

  «Infatti, tutto era finito; non soffrivo più, e non mi pareva
  neppure d’aver sofferto nel momento dell’estirpazione, tanto quel
  colpo m’aveva sorpreso e sbalordito.

  «E la mattina seguente potei andare tranquillamente a Novara sul
  carro, per proteggere con la mia presenza l’acquavite del babbo,
  contro gli attentati del carrettiere.

  «Ecco, figliolo mio, _come il nonno si fece levare un dente_. Ora
  quel mezzo primitivo ed un po’ barbaro non si potrebbe usar più, nè
  te lo vorrei consigliare. Ma rifletti a questa storiella della mia
  vita semplice, e fanne l’uso che credi.

                                                        «IL NONNO.»

Si stette due giorni senza nuove di Mario. Poi venne una lettera,
tranquilla e seria, nella quale parlava degli studi, dei prossimi
esami semestrali, di certe provviste che gli occorrevano; e soltanto in
fondo, come cosa secondaria, diceva:

«Sa, nonno? quel dente me lo feci cavare. Ma senza cloroformio. Avevo
la sua lettera che ne faceva le veci.»




_Come il nonno diventò un famoso ballerino_


La nostra povera mamma se n’era andata con Dio. Eravamo soli col povero
vecchio nonno.

Dopo le quattro classi elementari, egli ci mandò, mia sorella ed io, ad
un istituto privato, come esterne, per impararvi il cucito e la lingua
francese, la sola lingua straniera che trovasse grazia ai suoi occhi;
ne aveva compresa la necessità ai tempi di Napoleone I, quando aveva
veduti i francesi in carne ed ossa, sulle strade e nelle campagne del
basso Novarese.

Verso la fine di novembre la direttrice dell’istituto venne in classe
ad annunziare che aveva fissato un buon maestro di ballo, per quelle
allieve che volessero prender lezioni durante tutto il carnevale, e
parte della quaresima; sessanta lezioni in tutto.

La spesa sarebbe minima, venendo suddivisa, com’era da supporre, fra
tutte le scolare, o almeno fra la massima parte di esse.

Si può figurarsi in che stato di eccitamento ci ponesse quell’annunzio.
Avevamo veduto una volta un ballo al teatro, e ci pareva già di far le
piroette col vestito corto, con una gamba stesa, come quelle ballerine
color di rosa, che ci erano sembrate delle enormi e leggerissime
farfalle.

Trovammo modo di parlarne il resto del tempo di scuola, e durante
la strada del ritorno, animatissime, cogli occhi lucenti, le guance
accese, gesticolando esageratamente, sebbene, a ripensarci ora,
non mi riesca d’immaginare che cosa potessimo dire così a lungo su
quell’argomento, tanto più che nessuna di noi pensava a sollevare il
menomo dubbio su quelle lezioni tanto desiderate.

Però, quando ci trovammo in faccia al nonno, provammo un senso di
sgomento, una peritanza inesplicabile. Quel vecchio alto, color di
bronzo, con le mani dure, con la parrucca messa alla peggio senza
la menoma pretesa d’ingannar nessuno, aveva qualche cosa di troppo
positivo, di troppo pratico, di troppo contrario all’idea elegante e
pittoresca che noi ci facevamo del ballo, per incoraggiarci.

Si stette un po’ impacciate, ripetendo: «Buona sera, nonno; buona sera»
e non osando aggiunger altro.

Fu lui che, sedendo a tavola, domandò, come del resto domandava ogni
giorno:

— Che cosa c’è stato di nuovo a scuola?

Allora noi ci guardammo, molto confuse, e mia sorella scrollava il capo
come per dire:

— Io non parlo; non se ne fa nulla.

Ma io, che di solito mi eccitavo di più e riflettevo meno, mi feci un
gran coraggio, e dissi:

— C’è stata una famosa novità. La direttrice ha preso un maestro di
ballo.

Il nonno alzò le spalle in atto di sprezzo, e sospendendo un minuto di
soffiare nella minestra, disse:

— Che idea! Poi ricomincio a soffiare.

La Giuseppina mi diede una pedata sotto la tavola, ed io mi sentii
batter forte forte il cuore.

Per un momento la confusione c’impedì di parlare. Ma a misura che il
desinare s’avvicinava alla fine, la mia impazienza cresceva e sentivo
il bisogno di uscire da quella incertezza. Cercai di parlare con voce
calma, e domandai:

— Non le pare che sia una buona idea, nonno, quella del maestro di
ballo?

— Mi pare inutile. Cosa ne vuol fare, la direttrice, di questo maestro?

Io risposi:

— Far insegnare il ballo... a quelle che vogliono impararlo.

Il nonno mi guardò, poi guardò la Giuseppina attentamente. Aveva
capito; ma non lo disse, ed invece riprese:

— Io ho ballato tutta la mia gioventù, e non ho mai pensato a prender
lezioni di ballo.

La Giuseppina, che non aveva ancora parlato, vedendo che le cose
prendevano una brutta piega, venne in mio soccorso, insinuando
timidamente:

— Avrà ballato male...

Ed io, con un’energia provocante, confermai:

— Sicuro! Avrà ballato male.

Il nonno sorrise, come ad un’immagine lontana che vedesse lui solo, ma
non rispose.

Poco dopo s’udi una scampanellata secca, nervosa, e subito entrò la
signora Giovannina.

Era una cugina del nonno, una zitellona, alta e sottile come una
guglia, con una testina piccola, un naso diritto, come quello delle
statue greche, le tempia depresse, e le labbra sottili sulle gengive
sdentate. Pareva più una zitellona da romanzo, che una vera zitellona
viva di provincia.

Quella personcina così priva di carne, che a vederla pareva di sentire
scricchiolare le sue piccole ossa sporgenti, era tutta nervi; vibrava
come un apparecchio elettrico. Specialmente quando era irritata si
scrollava tutta energicamente, e pareva un pioppo scosso dal vento.
Il nonno aveva la facoltà di farla vibrare a quel modo parecchie volte
ogni sera; perchè, o per distrazione o per il gusto di farla stizzire,
la chiamava sempre a testimonio quando narrava le sue gesta giovanili;
e la signora Giovannina rifiutava ostinatamente di rammentarsi di
quelle date remote.

Quel giorno, appena fu entrata, il nonno le disse:

— Dite un po’, Giovannina, vi pare che noi si ballasse male, quando
s’andava ai veglioni del ventuno...

La signora Giovannina si diede una lieve scossa che fece svolazzare
tutti i nastri che aveva addosso. Poi, voltandosi per deporre il
cappellino, rispose:

— Siete matto! Come volete che mi ricordi del ventuno? Ero una
bambina...

— Sì, una bambina di ventiquattro anni... Siete dell’altro secolo,
Giovannina; non rinnegate vostro padre...

E dopo aver lasciato che la signora Giovannina si scrollasse,
scattasse, si facesse svolazzare tutti i vestiti intorno per un tratto,
quando la vide un po’ più quieta, riprese:

— Via, dite un po’ a queste grulline come si ballava noi, e come si era
imparato a ballare.

Si guardarono un momento ridendo, poi la signora Giovannina disse:

— Le prime prove si fecero laggiù a Cerano, davanti alla farmacia
di vostro padre... Ma dite voi, Andrea, ci avete più gusto di me a
raccontare.

Infatti il nonno ci aveva gusto, e cominciò a raccontare col volto
ridente:

«Il babbo di quel vecchio Lavatelli che viene ogni anno a potare le
nostre viti, abitava, a Ceràno, in faccia a noi; e la domenica e tutte
le feste comandate, passava il pomeriggio seduto fuori della porta di
casa, sonando certe zampogne primitive che si fabbricava da sè, con la
scorza dei pioppi.

«Ora dico così, perchè ho veduto di meglio, ma allora avevo
un’ammirazione infinita per le zampogne del vecchio Lavatelli, ed
andavo in sollucchero quando lo sentivo sonare.

La nostra Giovannina che allora era piccina, e portava quei vestiti
lunghi colla vita corta, come quelle donnine in miniatura che vi
fanno ridere quando le vedete nelle incisioni di quei tempi in cui non
usavano ancora i calzoncini, veniva sempre a passare qualche settimana
nell’estate con noi.

Una sera, poteva avere allora nove o dieci anni, era nel...

— Lasciate stare! interruppe con una grande scrollata di testa la
signora Giovannina. — Voi avete la manìa delle date...

Il nonno rise un pochino in silenzio, poi continuò:

«Una sera senza data, dunque, la Giovannina era appena arrivata da
Novara, quando il vecchio Lavatelli cominciò a sonare la zampogna.

«Allora lei spiccò un salto giù dai quattro scalini della farmacia,
balzò in istrada in piedi, e, rialzandosi delicatamente le gonnelline
sui fianchi, col pollice e l’indice chiusi e le mani tese, cominciò a
ballonzolare avanti e indietro, dimenando il capo beatamente.

«Mio padre con tutta la famiglia, il medico ed alcuni avventori,
uscirono dalla farmacia; tutti i vicini della contrada, i ragazzi
vagabondi, si accostarono, e fecero cerchio intorno alla ballerina. Era
un trionfo, e la mia vanità mi spingeva fortemente a pigliarvi parte.

«Saltai in istrada anch’io, e, piantandomi dinanzi a lei colle mani sui
fianchi, mi posi ad imitare ogni suo movimento.

«Il repertorio del vecchio Lavatelli si limitava a poche cantilene di
canto fermo di chiesa, e ad una sua canzone prediletta, che cantava in
tono gemebondo quando lavorava nei campi, e della quale ricordo ancora
lo stupido ritornello:

    «I quattro evangelisti, la luna e il sol
    «E chi ha creà sto mondo l’è stà nostro Signor.»

«Quel giorno era appunto l’aria piagnucolosa, lenta, misteriosa della
sua canzone, che il Lavatelli sonava; per cui i movimenti della danza
dovevano essere straordinariamente lenti e languidi, per accompagnare
la musica. Erano dei dondolamenti malinconici, degli inchini solenni,
dei passi d’una gravità da funerale. Io, che, ballando, mi ricordavo e
canticchiavo il ritornello misterioso, ne ero profondamente commosso.

«Il nostro pubblico trovò che noi si ballava stupendamente, e la
domenica seguente c’incoraggiò a ripetere la danza. Questa volta
ballammo improvvisando, sull’aria maestosa del «_Tantum ergo_»
ambrosiano.

«E così di festa in festa, poi d’autunno in autunno ci esercitammo a
quel ballo fantastico e bizzarro, indipendente da ogni regola, che
noi ed i nostri ammiratori chiamavamo minuetto, unicamente perchè
si cominciava sempre, io colle mani sui fianchi, lei, rialzandosi le
gonnelline.

«Una volta, io era a Novara in casa della Giovannina per le vacanze
di carnovale, quando certi suoi parenti vennero, tutti in gala, a fare
l’invito per una festicciòla in casa loro, in tutta confidenza.

«A noi non parve vero d’andare a sfoggiare la nostra abilità ad una
vera festa da ballo, e colla vera musica d’un organetto.

«Io aveva tredici anni, e lei...

La signora Giovannina cominciò a scrollarsi, ed il nonno invece di dire
la sua età, riprese ridendo:

«Via, lasciamo andare!

«Entrammo trionfanti, la Giovannina col suo vestito più bello di lana
scozzese, io con un jabot molto rammendato ma di vera trina, sebbene
grossa e fatta al tombolo.

«Alle prime battute, senza curarci degli altri, ci mettemmo in
posizione, uno colle mani sui fianchi, l’altra coi rigonfi dell’abito
fra le dita, e cominciammo i nostri passi stravaganti, un po’
impacciati dal tempo accelerato a cui non eravamo avvezzi, ma lei
inventando meravigliosamente, io secondandola alla meglio.

«Ad un tratto, uno scoppio di risate irrompenti, poi, subito, una salva
d’applausi fragorosi, ci fece fermare.

«Soltanto allora, guardandoci intorno, ci accorgemmo che eravamo soli a
ballare, mentre tutta la sala ci faceva circolo intorno, e rideva alle
nostre spalle.

«Molti si figurarono che ballassimo una danza caratteristica di qualche
paese, e ci domandarono ripetutamente:

— Che ballo è? È la tarantella? È il fandango? È il bolero? Dov’è che
si balla così?

«Un minuto si rimase male tutti due. Ma la Giovannina, che ha sempre
avuta la lingua pronta, si rinfrancò subito, e, ridendo anche lei cogli
altri, rispose:

— Si balla così dove non si sa ballare. È una danza di nostra
invenzione.

«Volevano che si facesse il bis. Ma lei mi prese per la mano, e mi
disse piano:

— No, sai. La seconda volta ci burlerebbero. Stiamo a vedere come fanno
gli altri, poi faremo lo stesso anche noi.

«Infatti, sia pel lungo esercizio che s’era fatto alla nostra maniera,
sia per l’amor proprio che ci spingeva, prestammo un’attenzione così
intensa a tutti i passi, a tutte le movenze degli altri ballerini, che
la sera stessa incespicando, imbrogliando un poco le figure, riescimmo
a ballare la gavotta ed a prender parte ad una contraddanza.

«Il giorno dopo, a casa, ci chiudemmo nella stanza da pranzo, e, senza
musica, accompagnandoci con dei _tra la la, tra la la_, interrotti,
ansimanti, stonati, riprovammo ripetutamente quei balli.

«E l’anno seguente andammo a parecchie festicciòle, e ce la cavammo
alla meglio, pestandoci i piedi tra noi. Ed anche più tardi, quando
io era un giovinotto e lei una signorina da marito, la Giovannina era
molto ricercata dai ballerini migliori, ed io potevo scegliere fra le
signore, perchè ero conosciuto per un famoso ballerino.»

La lunga storia del nonno ci fece ridere, ma non ci persuase. E
la signora Giovannina, che amava sfoggiare le idee moderne per
ringiovanirsi, osservò:

— Queste sono coso d’altri tempi, Andrea. Ora se una signorina si
mettesse a ballare a quel modo, senza saperne nulla, la metterebbero
sulla _Vendetta_.

— Il nonno corresse ridendo: _Vedetta_.

Era un giornale che usciva a Novara con questo titolo, che la signora
Giovannina non aveva mai capito cosa volesse dire; e si ostinava
a chiamarlo «_Vendetta_» per dargli un senso nella sua mente. Per
cui alla correzione del nonno, ribattè appoggiando forte sulla _n_:
«_Venn-detta_.»

E ricominciarono le eterne spiegazioni e discussioni su quel titolo di
giornale, che si ripetevano ogni sera, senza che la signora Giovannina
si persuadesse mai.

Intanto le nostre lezioni di ballo andarono a monte, e noi imparammo a
ballare da noi, come potemmo, e la _Vedetta_ non ne parlò.

Ma ora credo davvero che, quando tocca una sventura simile alle nostre
bambine, non sia fuor del caso che qualche giornale di _sport_ rimandi
alla storia il fatto memorabile.




_Come il nonno imparò a sonare il flauto_


Questa storiella il nonno ce la narrò solennemente nel salotto della
direttrice, ed ecco in quale circostanza.

Bisogna dire che, nonostante quanto il nonno e la signora Giovannina
ci avevano raccontato del loro tirocinio e dei loro trionfi nell’arte
della danza, noi avevamo provato una grande mortificazione a dover
confessare in iscuola che non avremmo presa parte alle lezioni di
ballo.

Non avevamo pensato mai seriamente quale potesse essere la nostra
situazione finanziaria; ma avevamo una gran vanità istintiva,
un’ambizione stupida da non parere da meno delle compagne ricche,
e, parecchie volte, ci eravamo abbandonate alle più ridicole bugie,
vantando delle grandiosità inverosimili, volendo passare per signorine
cresciute nell’opulenza.

Quella volta la Giuseppina si provò persino a dire che il nonno non
voleva saperne delle lezioni di ballo, perchè il veder ballare gli
faceva girare il capo.

Ma una compagna sguaiatella le rispose un po’ brutalmente:

— Già. Se voialtre ballaste qui, al vostro nonno girerebbe il capo a
casa nel pagar le lezioni!...

Da quel giorno ci eravamo messe in testa l’idea d’essere vittime di
un nonno crudele ed avaro, che ci condannasse a vivere di privazioni.
Quando ci accadeva di leggere una delle solite sentenze: «che l’uomo
è nato per soffrire» — «che il mondo è una valle di lagrime» noi ci
mettevamo a sospirare, come se conoscessimo per esperienza quelle
tristi verità.

È vero che in tempo di ricreazione c’ingegnavamo a ballare con le
compagne; ed, a vederci, non c’era gran differenza fra quelle che
imparavano il ballo, e quelle che ballavano senz’aver preso lezione;
ma appena si toccava quel discorso, o si presentava qualche occasione
opportuna, non mancavamo mai di riprendere il nostro languido
atteggiamento da vittime.

E quando, finito il carnevale, cominciarono le lezioni di pianoforte,
alle quali intervennero moltissime allieve, noi non pensammo neppure un
istante di proporre al babbo quel lusso d’educazione, per non esporci
ad un altro rifiuto umiliante.

Ci atteggiammo da vittime più che mai, e cercammo, non di rassegnarci,
ma di esser compiante.

Ma le lezioni di pianoforte non dovevano durare soltanto un breve
periodo di tempo come quelle di ballo. E non c’è più costrutto a fare
la vittima quando nessuno ci compatisce.

Por dire la verità, fummo poco compatite.

Il nonno, da quell’uomo operoso e filosofo che era, non se ne
avvide neppure. Le compagne più superbiose, invece d’intenerirsi, ci
misero in burla, noi e le nostre compagne di sventura, chiamandoci
le «musicofobe.» Alcune, più buone, cercarono per alcuni giorni di
consolarci; ma vedendo che non ci riescivano, perdettero la pazienza e
vi rinunziarono.

Allora, prive anche del misero sollievo di attirare l’attenzione,
sentimmo più acerba che mai la ferita dell’amor proprio, e cominciammo
a pensare a mille ripieghi per uscire da quella situazione che ci
mortificava.

Avremmo voluto abbandonare l’istituto, andarci soltanto un’ora al
giorno per la lezione di francese; ma per far questo ci voleva il
consenso del nonno, e noi non osavamo domandarlo, non sapendo come
giustificare la nostra domanda.

Mentre stavamo in questo abisso d’incertezze, una sera capitò a casa
nostra un signore che aveva due nipotine da mandare a scuola, ed il
nonno gli fece un grande elogio della nostra direttrice, che diceva
degna d’ogni stima e d’ogni fiducia.

Queste dichiarazioni ci suggerirono l’idea d’interessare la direttrice
alla nostra causa, e di invocare il suo appoggio, per ottenere
nientemeno che di studiare il pianoforte.

Naturalmente, ci guardammo bene dal dirle che la causa del nostro gran
malcontento, ed il movente che ci spingeva allo studio della musica,
era la meschina vanità di non voler figurare da meno delle compagne.

Capivamo benissimo che questa ragione non era fatta per disporre
l’animo della direttrice in nostro favore. Parlammo invece d’una
gran passione per la musica, un’attrazione prepotente, una vocazione
addirittura. Mia sorella, la voce più stonata ch’io avessi mai udita,
osò dire che le bastava d’ascoltare una frase musicale, per impararla e
ripeterla esattissimamente.

Io, per non esser da meno, dissi con accento elegiaco, che quando
udivo, dalle compagne che prendevano lezione, la melodia soave delle
cinque note: «_do-re-mi-fa-sol, fa-mi-re-do_» avevo delle palpitazioni
violente, impallidivo, e finivo per struggermi in pianto dirotto, che
continuava finchè durava il commovente esercizio.

La direttrice si rannuvolò, e disse:

— Via! Non dite grullerie! Non occorrono tante esagerazioni per
dimostrare che amate la musica, e vorreste studiarla. Dacchè
credete ch’io abbia qualche ascendente sul vostro nonno, gli parlerò
volentieri, e se non avrà nessuna ragione in contrario...

Fu in seguito a questo, che la direttrice scrisse al nonno per pregarlo
d’andare da lei; e lui accorse premurosamente, com’era sua abitudine
cortese, quando una signora lo chiamava; poi fummo chiamate in sala
anche noi, ed alla nostra presenza, la direttrice espresse al nonno il
nostro desiderio.

Il nonno l’ascoltò con deferenza, poi rispose:

— Deve sapere, cara signora, che queste ragazze non sono ricche; dirò
meglio; non hanno nulla. Per conseguenza, intendo farne due buone
massaie, che sappiano governar bene una casa, che amino lavorare e non
isdegnino nessuna specie di lavoro.

La direttrice osservò:

— La musica è anche un lavoro; ed in alcune circostanze può riescire di
grande utilità, appunto per una ragazza senza mezzi.

Ma il nonno la interruppe:

— Vuoi dire che potrebbe diventar maestra di piano, non è vero? O
concertista? È verissimo. Ma bisognerebbe che queste signorine avessero
cominciato a studiare da sei o sette anni almeno, quando erano bimbe.
In quel caso soltanto, e consacrando moltissime ore al giorno a quello
studio esclusivo, dato che avessero delle disposizioni veramente
eccezionali, avrebbero potuto diventare delle brave pianiste. Ma
avrebbero anche potuto non avere quelle tali disposizioni eccezionali,
e perdere molto tempo inutilmente. Perchè, creda a me, cara signora,
la smania della musica non prova sempre la capacità di riuscire in
quell’arte tanto difficile e bella. Io ne so qualche cosa!

Il nonno disse queste ultime parole con quel sorrisetto e quello
sguardo fisso davanti a sè, come in una visione lontana, che aveva
sempre quando rivedeva col pensiero qualche scena del suo passato tanto
remoto.

La direttrice, che conosceva la sua abitudine di raccontare le sue
memorie alla spicciolata, sotto forma di aneddoti e di storielle, gli
disse:

— Vedo che ha una storiella da narrare a questo proposito. Me la
dica, la prego; se non altro per insegnarmi ad essere più cauta
nell’immischiarmi indiscretamente nei fatti degli altri.

Il nonno protestò energicamente, che lei non era stata indiscreta,
che non aveva bisogno di imparar nulla; ma consentì a raccontare la
storiella «per insegnare a queste signorine a non far troppo a fidanza
col loro supposto genio musicale.»

Noi chinammo il capo, imbronciate e contrite, ed il nonno cominciò:

«Queste ragazze sanno che un certo Lavatelli, un vecchio contadino
del mio paese e mio vicino di casa, sonava la zampogna, e che io lo
ammiravo straordinariamente, ed avevo imparato a ballare sulle arie
gemebonde che egli sonava, e che mi commovevano fino al pianto.

«Ma potevo udirlo soltanto la domenica, perchè gli altri giorni io era
a scuola, e lui lavorava in campagna. Mi ero tanto innamorato di quelle
cantilene patetiche, che tutta la settimana ne sentivo la mancanza, e
le desideravo ardentemente.

«Dal desiderare una cosa, al cercare tutti i mezzi di procurarsela,
queste signorine l’hanno dimostrato or ora, non c’è che un passo.

«Io, dunque, cercai d’imparare a sonare da me solo, con uno zuffoletto
di legno che m’ero comperato alla fiera di Novara.

«Mi mettevo in faccia al vecchio Lavatelli, e cercavo d’imitare colle
dita e colle labbra i movimenti che faceva lui.

«Erano delle stonature orribili. Tutta la contrada protestò
raccapricciata.

«Mio padre mi diceva:

— «Povero figliolo. Come vuoi riescir a sonare con quello zuffoletto?
Dà retta a me; smetti.

«Ma la mamma, che capiva quanto mi sarebbe dispiaciuto di rinunciare a
quell’aspirazione, insinuò:

— «Sul solaio c’è un vecchio flauto del povero zio Tommaso. È tutto
rotto. Ma se si potesse accomodare...

«Guardava il babbo come per suggerirgli di farlo accomodare; ed anch’io
lo guardavo.

«Ma lui non ci pensò neppure ed intavolò un discorso di politica col
medico condotto.

«Allora io me ne andai sul solaio, cercai in mezzo ad una quantità di
roba rotta, di cocci, di cenci, di mobili fuori d’uso, finchè mi riescì
di trovare tutti i pezzi sparsi di quel povero flauto.

«La sera lo portai nella stalla dei Lavatelli, e tra me ed il vecchio
musicista, lo accomodammo alla meglio. Mandava certi stridi, certi
rantoli, da far piangere i sassi; ma era un flauto e sonava.

«E cominciai, su quello strumento meno ignobile, ad imitare il vecchio,
che sonava la zampogna. Fu un esercizio che durò dei mesi; con quali
risultati si può figurarselo.

«Ma amavo con tanto ardore la musica, che le difficoltà, invece di
scoraggiarmi, mi spronavano allo studio. Mia madre ed il vecchio
Lavatelli dicevano che dovevo avere il genio della musica.

«Quanto a me non ne avevo mai dubitato.

«Soltanto, il vecchio disperava di poter fare da sè la mia educazione
musicale.

«Avevamo due strumenti diversi. Lui non aveva tempo di farmi una
zampogna per insegnarmi su quella, ed il mio flauto era anche tutto
guasto. E mi diceva:

— «Ci vorrebbero due cose: un flauto buono, ed un maestro.

«Era quanto dire: ci vorrebbero il sole e la luna.

«Ai miei tempi i ragazzi delle famiglie borghesi non avevano certe
aspirazioni alte, che hanno i ragazzi moderni. Sapevano che le cose di
lusso erano da lasciare ai signori, e si contentavano del loro stato.

«Io dunque non domandai a mio padre nè il flauto nè il maestro; e
tornai tranquillamente alle mie occupazioni di scuola, di casa e di
campagna, rassegnandomi, sebbene a malincuore, a privare il mondo del
mio genio musicale.

«Un tratto fuori dal paese c’era un vecchio fabbricato, tra palazzo e
castello, di proprietà del marchese De Landi di Novara.

«Non sapevo come si componesse la famiglia; ma conoscevo il marchesino,
un ragazzo della mia età, superbioso e bello, circondato di servitori
e di maestri, che martirizzava coi suoi capricci. L’avevo veduto
molte volte in giardino a cavalcioni sulle spalle d’un povero vecchio,
che obbligava a star delle ore carponi per fargli da cavallo, e che
frustava come una bestia.

«Un giorno, sull’imbrunire, mio padre mi mandò a portare al castello,
come lo chiamavano in paese, una medicina che gli aveva ordinata il
marchese nel passare.

«Nell’avvicinarmi cominciai a sentire un suono che andò facendosi man
mano più distinto e chiaro.

«Erano delle scale eseguite sul flauto,

«Per entrare nel castello bisognava traversare un ponte, sul fossato
che lo circondava. Io era rimasto sbalordito sul ponte, quando vidi
uscire dalla corte il giardiniere e, tutto palpitante, gli domandai:

— «Chi è che suona?

«Egli si fermò, e rispose:

— «È il marchesino che prende lezione di flauto.

«Tornai ad interrogarlo:

— «Comincia ora?

— «Chè! Sono due mesi che fa gli stessi urli. Non ne ha voglia. È
suo padre che vuol fargli imparare la musica ad ogni costo. E tutte
le sere, lassù, in quella sala al primo piano, dove vede il lume, il
povero maestro, venuto apposta da Novara, ci rimette tanto di fiato con
quello zuccone da marchesino.

«Consegnai la medicina al giardiniere, poi tornai a varcare il ponte,
e feci il giro del castello fuori dal fossato, fissando sempre quella
finestra illuminata, ed ascoltando con amore quell’orrore di scala
stonata.

«Un lungo e forte ramo d’ippocastano, che sporgeva traverso il fossato,
andava a finire dinanzi alla finestra, e ne velava e frastagliava la
luce.

«Ero sveltissimo, per la lunga pratica di arrampicarmi sugli alberi in
cerca di nidi.

«Pensai d’arrampicarmi al tronco forte dell’ipocastano, che sorgeva
sulla strada, e giunto in cima, di strisciarmi su quel ramo sporgente,
e così spingermi fin dinanzi alla finestra, per vedere come si desse
una lezione di flauto.

«La cosa mi riescì facile. Quel ramo pareva steso là apposta per me.
Vedevo benissimo ogni cosa. Il marchesino stava in piedi dinanzi ad un
leggìo sul quale c’era la musica. Il maestro era in piedi anche lui,
dall’altro lato del leggìo, e senza musica.

«Pare che lui non ne avesse bisogno.

«Avevano un flauto ciascuno. Il marchesino cominciava la scala,
e, quando sbagliava, il maestro lo interrompeva per correggerlo, e
ripeteva lui la parte sbagliata, che l’altro tornava a ripetere, il più
delle volte sbagliando ancora.

«Il maestro non s’impazientiva mai. Il marchesino sempre. Ad ogni
sbaglio scrollava le spalle, pestava i piedi, borbottava, andava
a sedere tutto imbronciato, e bisognava che il maestro andasse a
riprenderlo ed a pregarlo, per fargli ripigliar la lezione.

«Ero indignato di veder così male accolti i benefizi della Provvidenza,
e pensavo:

— «Se questa fortuna fosse toccata a me, chissà che progressi avrei già
fatti, chissà che maestro riescirei!

«E, tornato a casa, guardavo con disprezzo i vasi e le ampolle della
farmacia; mi sentivo artista.

«La notte, che è la madre dei consigli, me ne suggerì uno famoso.

«Dacchè c’era quel ramo d’ippocastano, da dove potevo assistere alla
lezione di flauto, perchè non ne profitterei?

«Era tutto un avvenire musicale che mi si parava dinanzi, e la sera
stessa mi trovai al mio alto posto d’osservazione, munito del mio
flauto, all’ora della lezione.

«Non che m’illudessi di poter sonare anch’io.

«Sarei stato scoperto, e cacciato via, per conseguenza, come un intruso.

«Ma mi proponevo d’imitare in silenzio la mimica del maestro, cavandone
quel tanto di utile che era possibile, il movimento delle dita, la
misura del tempo.... A casa poi, proverei ad eseguire la stessa manovra
emettendo i suoni.

«Quest’idea, che sembra una fola, ebbi il coraggio di metterla in
pratica.

«Era d’estate, avevo allora dai tredici ai quattordici anni, e la
sera, dopo la cena, mio padre mi concedeva un paio d’ore di libertà per
andare a passeggiare.

«Io, invece, correvo alla mia strana lezione di flauto, e mi pareva
di cavarne molto vantaggio, e d’essere già avviato sul sentiero della
gloria.

«Se soltanto avessi avuto un flauto meno scellerato, o almeno moderno!

«Ma era uno di quegli strumenti del secolo passato, con due sole
chiavi, mentre il maestro ed il marchesino studiavano con due bei
flauti moderni, di quelli inventati appunto allora, circa il 1812, che
hanno più di sedici chiavi.

«Si può figurarsi come il mio studio riuscisse difficile e pieno di
lacune!

«Avrei dato la mia parte di paradiso, per possedere un flauto con tutte
quelle chiavi lucenti.

«Una sera, ero alla mia decima lezione sul ramo d’ippocastano, che
sovrastava al sentiero sabbioso del giardino, quando il marchesino,
irritato da un esercizio che assolutamente non gli riesciva, dopo
averlo ripetuto tre o quattro volte, si mise a picchiare i piedi, a
gesticolare, come dichiarando che non voleva più saperne.

«Io udiva soltanto la voce stizzosa; non ero abbastanza vicino per
capir le parole.

Ad un tratto buttò il flauto sul leggìo, ed andò a sedere sul solito
divano, nascondendo il volto nei cuscini, e facendo spalluccie
dispettosamente.

«Il maestro, paziente come un santo, prese lo strumento, ed andò
accanto all’allievo, accarezzandogli le spalle, e parlandogli con tono
persuasivo.

«Allora il marchesino alzò il volto rosso dall’ira, afferrò il flauto,
e, strappandolo con mal garbo dalle mani del maestro, corse alla
finestra e lo scaraventò giù gridando:

— «Va’ al diavolo! Non sonerò mai più!

«Al rumore secco del flauto caduto sulla sabbia, seguì un altro rumore
sordo, come un tonfo.

«Ecco che cos’era accaduto:

«Alla vista di quel bel flauto, tanto desiderato, laggiù in terra,
io non avevo ragionato più; ed impazzito dal desiderio di possederlo,
avevo spiccato il salto dal ramo dove ero seduto, ed ero piombato in
giardino.

«Dalla finestra dove il maestro si era affacciato, partì un grido di
terrore.

«Un minuto dopo mi sentii sollevare pietosamente, ed aprendo gli
occhi, vidi, nella penombra d’una sera senza luna, il maestro ed il
marchesino, che mi reggevano, pallidi dalla paura. Il marchesino non
era più superbioso.

«Per fortuna, dalla finestra del primo piano, il salto non era stato
alto, ed anzi, passato il primo sbalordimento, mi parve di non essermi
fatto nessun male.

«Fu soltanto quando vollero rialzarmi, che mi accorsi d’avere una
gamba, che non mi reggeva, e che era rotta.

«Il marchesino voleva portarmi al castello, ma il maestro ed il
marchese, che era accorso anche lui, dissero che si troverebbe più
pronto il soccorso portandomi alla farmacia di mio padre.

«Là fui accolto da rimproveri per la mia sbadataggine, che velavano
male il turbamento e l’angoscia de’ miei poveri genitori, punto
carezzevoli, ma in fondo amorosissimi.

«Ma questo non c’entra con la mia storia.

«Il maestro ed il marchesino erano stati colpiti all’udire che la
passione della musica m’aveva spinto a salire sull’albero, ed a saltar
giù; e pensarono, come gli altri, che dovevo avere delle attitudini
eccezionali per la musica e che non si dovevano trascurare.

«Mio padre si stringeva nelle spalle, e diceva che avrebbe preferito
che avessi delle attitudini per la farmacia.

«Ma il marchesino insisteva a volermi regalare il suo flauto; forse
per liberarsene. Il maestro si offriva di darmi lezione per nulla; il
marchese protestava che lo pagherebbe lui, ed allora mio padre disse:

— «No, no. Se mio figlio deve prendere queste lezioni, voglio
pagarle io. Me le metta meno che può, maestro, perchè sono un povero
farmacista... Ma voglio pagarle.

«Ed infatti, appena la mia gamba fu guarita, ci mettemmo, il maestro
ed io, con uno zelo, un ardore straordinario, a sviluppare il mio genio
musicale.

«Ma, pur troppo, quel genio non c’era. Il mio amore per l’arte, era un
amore non corrisposto.

«Dopo aver soffiato dei mesi nel flauto del marchesino, non avevo
fatto più progressi di lui. Il maestro, mortificato del granchio che
aveva preso, e troppo coscienzioso per continuare a farsi pagare delle
lezioni inutili, si licenziò con bel garbo, consigliandomi di tornare
alla farmacia.

«Ed io, ostinandomi a consacrare al flauto tutte le ore che avevo
libere, mettendoci tutto l’entusiasmo che avevo in cuore per la
musica, riescii a stento a sonare, con qualche stonatura, la canzone
piagnucolosa del vecchio Lavatelli, e, più tardi, la _Marsigliese_.




_Come il nonno imparò a farsi la barba_


Quando il nonno usciva dalla sua camera dopo essersi fatta la barba,
aveva sempre sulle guancie, sul mento, sotto il naso, da una parte o
dall’altra del viso, qualche strisciolina di sangue, come un filo di
seta rossa. E noi gridavamo:

— Oh, nonno! S’è tagliato?

Egli si stropicciava il viso con una mano, domandando:

— Dove?

E soltanto quando ritirava la mano, guardandola da lontano come fanno i
presbiti, e la vedeva macchiata di sangue, diceva:

— Già! è vero.

A noi faceva una gran meraviglia che si tagliasse così senza sentir
dolore. Dovevano essere delle ferite a fior di pelle; ed infatti si
rimarginavano subito e non lasciavano traccia.

Però mio fratello rabbrividiva al vederle, e diceva:

— Io, quando avrò la barba, me la farò fare dal barbiere; da un buon
barbiere.

Questa, d’avere la barba e di farsela fare, era una manìa, che aveva
invaso Mario appena s’era messo gli abiti da uomo, a dieci anni; ed
erano circa sei anni che vagheggiava quell’ideale, e faceva, con le
dita al di sopra della bocca, l’atto d’aricciarsi dei baffi immaginari.

Finalmente, verso il diciassettesimo anno, cominciò a spuntargli una
peluria bruna al di sopra del labbro superiore, una sfumatura, della
quale egli andava oltremodo superbo.

Ma era proprio il caso di dire: «Non c’è rosa senza spine.»

Mentre il suo labbro si ornava di quella peluria fitta, morbida,
gentile, sul mento gli spuntavano qua e là certi peli isolati, duri
come setole; vere spine, che gli amareggiavano di molto la sua gioia.

Avevamo una serva, che aveva varcato il passo doloroso della
cinquantina, e che, appunto, aveva il mento deturpato da quelle setole.
Le tagliava con le forbici, ma questo non faceva che renderle più dure
e più buffe.

Mio fratello era mortificatissimo di quella comunanza di sventura con
la Maddalena. Si era aspettato ben altre glorie dalla sua barba, e
quell’esordio infelice era un vero disinganno per lui.

Un giorno venne a pranzo col mento liscio come noi. Non aveva più
neppure una setola.

Lo guardammo stupefatte, poi la Giuseppina gli accarezzò il mento con
una mano, e disse:

— Un velluto addirittura!

Io gridai:

— E le setole? Le hai tagliate con le forbici! Confessa! Come la
Maddalena!

Mario era molto indispettito; scrollava le spalle per respingerci
con lo stesso garbo che usano i ciuchi per respingere le mosche, e
mangiava, col naso nel piatto, per non risponderci.

La Giuseppina gli diede una gomitata e disse:

— Via, rispondi, ghiottone! Che cosa ne hai fatto «dell’onor del mento»
che non pungi più come una spazzola?

Non eravamo molto gentili fra noi fratelli. Mario rispose con la bocca
piena:

— Me la son fatta fare.

— Oh! dal barbiere?

— Che domanda sciocca! Da chi volete che me la facessi fare? Dal
tosa-cani?

— Ma perchè non fartela da te?

— Già, come fa il nonno, eh? Per comparir poi tutto coperto di ferite,
come un eroe del quarantotto!

Il nonno rideva e mangiava senza parlare. Non prendeva mai parte
ai nostri battibecchi, se non qualche volta, di rado, per dire a
mio fratello che, a’ suoi tempi, gli uomini erano più cortesi colle
signore. Al che Mario rispondeva, facendo dei garbacci a me ed a mia
sorella:

— Belle signore! E gentili poi!

Ed il battibecco continuava, più aspro di prima. Ma tutto questo per
burla, per spavalderia. In fondo ci si voleva tanto bene, quanto quelli
che si fanno mille smancerie.

Quel giorno cessai di bisticciarmi con Mario, per dire al nonno:

— Ma sì, appunto, nonno; perchè non va dal barbiere, invece di
tagliuzzarsi tutto il viso a quella maniera?

Il nonno inghiottì la cucchiata di minestra che aveva in bocca, poi
rispose:

— È laggiù, lontano, il perchè. Nel milleottocentoquattordici, mi pare.

E sorrideva tra sè guardando nel vuoto, come faceva sempre, quando
rivedeva col pensiero uno de’ suoi ricordi remoti.

Gli domandai:

— Allora, è una storia?

Il nonno rispose:

— Un aneddoto, piccino...

Mario disse con disprezzo:

— Un aneddoto dei tempi barbari? Via, lo dica, nonno. Servirà a farci
ingoiare quest’altra barbarie della carne lessa.

Il nonno esitò un pochino, dicendo:

— Veramente... veramente... quell’aneddoto non è fatto per far
ingoiare... tutt’altro...

Poi soggiunse:

— Ma via! Alla vostra età si ha lo stomaco forte, e non si guarda tanto
pel sottile.

E cominciò a raccontare, rivolgendosi a Mario:

«Alla tua età, anzi un anno prima, a sedici anni, avevo già il mento
coperto di quelle setole rade e disuguali, che tu avevi fino a ieri...

Io non potei a meno di dire ironicamente a Mario:

— Consolati. È una bellezza di famiglia.

Il nonno continuò:

«Dopo parecchi mesi, le mie setole erano cresciute tanto, che avevo una
barba ispida.

«Mio padre, che aveva sempre portato il volto sbarbato, come l’ho poi
sempre portato anch’io, non poteva soffrire quel mento barbuto, del
quale io andavo superbo.

«Un giorno mi disse:

« — Bada, non ti voglio più vedere quella barba da zappatore. Prendi i
miei rasoi, e levatela.

«Allora i figlioli, anche grandi, usavano obbedire ai genitori senza
rimbeccarsi, e, per quanto il privarmi della barba m’increscesse, non
mi venne neppur in mente di volerla portare, dal momento che spiaceva a
mio padre.

«Però mi sgomentai all’idea di mettermi sul volto il rasoio, che non
sapevo maneggiare affatto, ed osservai:

« — Ma non so fare, babbo. Mi tagliuzzerei tutto il viso.

«Il babbo sorrise, poi mi diede sei soldi e disse:

« — Allora prendi. Questi sono i quattrini. Se ti basta l’animo, va a
fartela fare dal barbiere.

«Non capivo perchè mi dovesse _bastar l’animo_, come se si trattasse di
un atto eroico.

«Ad ogni modo, ben contento di poter andare a farmi fare la barba con
i quattrini in mano come un signore, e come un uomo, la mattina dopo
andai dal barbiere.

«Cerano parecchi avventori. Il parroco, che era già seduto
coll’asciugamani sotto il mento e col volto insaponato; il vecchio
Lavatelli, quello dalla zampogna; ed un uomo di mezza età, che
masticava tabacco e sputacchiava nero.

«Sedetti ad aspettare mentre il barbiere faceva la barba al parroco,
appunto sulla gota destra, dove aveva un’enorme gonfiezza.

«L’avevo veduto la sera prima in farmacia, e pensavo:

— Come mai gli è gonfiato il viso a quella maniera in una notte? Ieri
sera stava bene...

«Tirai fuori il libro di scuola che avevo in tasca, e, per passare il
tempo, rilessi due volte un pezzo di latino difficile. Poi guardai
a che punto stava la barba di Don Domenico, e, con mia grande
stupefazione, vidi che la gonfiezza gli era passata dalla guancia
destra alla sinistra, che appunto il barbiere stava radendo.

«Pensai:

« — È l’insaponatura che gli fa quest’effetto. Soffre forse di
flussioni... Ma è strano che gli vengano tanto istantaneamente, e
scompaiano colla stessa rapidità.

«Intanto il barbiere aveva finito. Prese le due estremità
dell’asciugamani che pendeva sul largo petto di Don Domenico, glielo
buttò sul viso, stropicciò forte per togliere ogni residuo d’umidità
e di sapone, poi staccò l’asciugamani, ed il volto del parroco rimase
bianco, con una lieve sfumatura turchina al posto della barba, e
regolarissimo senza la menoma gonfiezza da nessuna parte.

«La mia stupefazione fu al colmo. Cosa poteva essere quel fenomeno? E
doveva accadere anche a me?

«Guardai attentamente l’uomo che sputacchiava nero. Sedette col volto
dritto e regolare. Il barbiere gli pose l’asciugamani sotto il mento
facendoglielo entrare un pochino tra il collo ed il goletto. Poi prese
il bacino, glielo mise sotto il volto e, presto presto, con la mano
che aveva libera, gli inondò la faccia di spuma bianca. Quando depose
il bacino per prendere il rasoio, il paziente aveva la guancia destra
gonfia, come dianzi Don Domenico.

«Non staccavo più un istante gli occhi da quel prodigio, ansioso di
scoprirne il segreto. Ad un tratto il barbiere disse:

— «Un po’ più alto...

«Ed immediatamente la gonfiezza salì più alto sulla guancia.

«Finalmente avevo capito, e risi di cuore della mia ingenuità. Si
gonfiavano la guancia empiendola d’aria, e stringendo forte le labbra,
per impedire che sfuggisse. Era una cosa che avevo fatta tante volte
per chiasso.

«Sicuro. Come mai non l’avevo capito subito? Ecco. Finita la guancia
destra, quell’uomo sputacchiò due o tre volte, mentre il barbiere
passava dall’altro lato, poi gonfiò la guancia sinistra. Era buffo. Non
vedevo l’ora di provare anch’io quel gioco. Intanto lo provavo da me,
nel mio cantuccio.

«Mentre il barbiere stropicciava coll’asciugamani il volto dell’uomo
che sputava nero, il vecchio Lavatelli, che era molto affezionato a
tutti noi, mi disse:

— «Se vuol farsi la barba prima di me, signor Andrea, io non ho
premura...

«Non mi parve vero, e corsi a sedermi sulla poltroncina. Appena fui
conciato, coll’asciugami sotto la gola, mi empii la bocca d’aria, e
mi gonfiai le gote, come un amorino paffuto, tenendo le labbra bene
strette e respirando a stento dal naso.

«Il barbiere prese il bacino con la saponata e mentre mi passava la
mano sulla bocca ripetutamente, disse:

— «La palla.

«Capii che voleva una sola palla, e che chiamava così la tensione delle
guance, e spinsi tutta l’aria nella gota destra come avevano fatto gli
altri.

«Ma cominciavo a soffocare, e stringevo più che mai le labbra per
contenere l’aria in bocca. Il barbiere tornò a dire:

— «La palla.

«Ed intanto mi premeva a tutta forza un corpo duro sulla bocca, dicendo:

— «Ma apra dunque.

«Mi spinsi indietro sbalordito per poter guardare, e vidi... una palla
d’avorio!

«Quella che aveva gonfiate le gote del parroco, e dell’uomo che sputava
nero!

«Afferrai l’asciugamani che avevo dinanzi, e stropicciandomi il volto
in fretta, balzai in piedi, poi scaraventando l’asciugamani dietro a
me senza saper dove, fuggii di corsa fuori della bottega, e via per
le strade, come un ladro inseguito; e non mi fermai che nella nostra
farmacia.

«Mio padre, vedendomi arrivare a quel modo, fece una risatina, e disse:

— «La palla, eh? Non t’è bastato l’animo!

«Da quel giorno cominciai a farmi la barba da me. Non ci ho attitudine;
riesco male; mi tagliuzzo tutto il volto. Ma non ho più potuto vincere
quella prima avversione che m’hanno inspirata le botteghe de’ barbieri,
sebbene la palla sia passata di moda da un pezzo.




_Come il nonno non si vestì di nuovo_


Altre volte, nelle scuole, anche civiche e governative, gli esami alla
fine dell’anno scolastico si facevano in pubblico, alla presenza del
sindaco, del prefetto, e di tutte le autorità cittadine.

Specialmente nelle scuole femminili, gli esami erano una pompa, e
vi si faceva più mostra di vanità che di sapere. Le interrogazioni
e gli esperimenti erano combinati in modo da far figurare le allieve
migliori, e da lasciare nell’ombra le mediocri.

Ogni insegnante chiamava quella che sapeva meglio istruita nella sua
specialità, e pregava qualche personaggio autorevole d’interrogarla.

Ed il pubblico, dopo aver uditi tre o quattro pappagallini ammaestrati
ripetere le gesta di qualche eroe più o meno leggendario, enumerare dei
fiumi e dei monti, e delle città capitali, eseguire qualche operazione
aritmetica irta di moltiplicazioni e di segni difficili a capire,
rimaneva sbalordito di tanta scienza.

Era buono, e facile di contentatura il povero pubblico.

Bisognava sentire, che sorta di pillole gli si facevano ingoiare,
coi nostri componimenti letterari, declamatorii, gonfi, ridicolmente
rettorici!

E bisognava vedere, come si commoveva, e si soffiava il naso, per
nascondere l’inumidirsi ed il luccicare degli occhi!

Rammento ancora una lettera sul tema: «Rimproverare ad una compagna la
sua cattiva condotta in iscuola, e darle dei buoni consigli.»

Io scrissi una specie di predica terribile, in cui parlavo di onore e
di disonore, di giustizia, umana e divina, di maledizioni paterne, di
rimorsi al letto di morte, d’ogni sorta d’orrori; per poi stemperarmi,
nella seconda parte, in una gran tenerezza di pentimenti, d’espiazione,
di ravvedimento, di riabilitazione, di virtù ideali ed inverosimili,
di morte rassegnata del giusto, di gioie mistiche ed eterne in un mondo
migliore.

Tagliata in due, avrebbe potuto essere una requisitoria contro un
malfattore della peggiore specie, ed una predica del padre confortatore
ad un condannato a morte.

Meritavo io, una condanna per quel delitto letterario.

Ma il pubblico ne fu commosso fin nelle viscere, non seppe frenare gli
applausi, sebbene fossero proibiti, e, finiti gli esami, una signora
anonima mi mandò a regalare dalla cameriera un astuccio, con un
finimento da lavoro in argento.

Era naturale che una delle cose a cui più si badasse in quegli esami
d’apparato, fosse il vestito. Era una gara di eleganza.

Noi avevamo un vestitino di mussola bianco, che ogni anno, in quella
circostanza, si rimetteva a nuovo, ben lavato, insaldato, teso e
scricchiolante come un vestito di carta.

Ne andavamo superbe; tanto più, che vi si aggiungeva una cintura di
velluto nero, legata dietro la vita con un fiocco smisurato, i cui capi
ci sbatacchiavano sulla schiena e sui fianchi, come le ale d’un grande
corvo, che ci avesse affondato il becco nelle reni e ci succhiasse il
sangue.

Queste cose mostruose, le dico ora, volgendo uno sguardo retrospettivo
a quell’abbigliatura, coll’occhio educato ai gusti moderni.

Ma allora, tanto io che mia sorella, la credevamo bellissima.

Furono le compagne ricche ed eleganti che scossero la nostra fede beata.

Quell’anno era di moda un certo colorino roseo, cangiante, con dei
riflessi argentei, che si chiamava «_nuage d’aurore_» (nube d’aurora).

Quelle signorine si erano fatto un abito del colore di moda per
portarlo agli esami, e ne parlavano continuamente in iscuola.

Un giorno una di loro, dopo aver fatto una descrizione pomposa del suo
bell’abito, si rivolse a noi, e disse con disprezzo:

— «Voialtre già, ricomparirete col solito abito di carta, e l’avoltoio
nella schiena!

Di carta! L’avoltoio!

Vidi mia sorella farsi pallida, mentre sentivo una vampa di rossore
salirmi al volto; ed il cuore si mise a saltarmi nel petto come un
passero in gabbia.

Quella critica ci giungeva nuova, inaspettata. Eppure la nostra vanità
intuì subito che la mussolina insaldata e la cintura nera di velluto
avevano inspirato l’umorismo crudele di quella ragazza.

Intesi pure che quella burla non era nata allora, e che doveva averci
circolato intorno negli anni precedenti, mentre noi ci pavoneggiavamo
beatamente, nella nostra abbigliatura di gala.

Fu una spina che ci si pose nel cuore; e ne soffrimmo, come, più
tardi, quando l’esperienza ci ha dimostrato che queste contrarietà sono
meschine e ridicole, si soffre per contrarietà più vere e gravi.

Pel nostro mondo piccino e per la nostra piccola età, quell’idea di
ricomparire vestite male, all’antica, in mezzo alle ragazze eleganti,
era una grande umiliazione.

Aspettammo con ansietà la domenica, e la visita al nonno.

Quando venne corremmo in parlatorio tutte eccitate, lo salutammo in
fretta, poi io gridai:

— Sa, nonno? Ci vuole un vestito nuovo....

E la Giuseppina soggiunse:

— Per gli esami; un vestito color «_nuage d’aurore_.»

Il nonno rimase un tratto attonito, senza poter rispondere, poi esclamò:

— Che cos’è questo «_nuage d’aurore_?» Siete matte? Non avete il
vestito bianco?

La Giuseppina borbottò dispettosamente:

— Oh! il vestito di carta!

Il nonno ripetè stupefatto:

— Di carta?

E la Giuseppina riprese:

— Ma sì; insaldato a quel modo la mussola sembra una carta.

Il nonno scrollò le spalle, e disse con fare conciliante:

— Si può fare a meno d’insaldarla.

Ma io mi figurai subito quel cencetto molle, cascante languidamente
sulle gonnelle, e soggiunsi sospirando:

— E quella cintura nera che sembra un corvo?

Questa volta il nonno si mise a ridere, e disse:

— Che strane idee vi siete messe in testa!

Poi riprese sempre conciliante:

— Del resto, se la cintura sembra un corvo, non ve la mettete. C’è modo
di accomodare ogni cosa.

— Bel modo! Sembreremo in camicia, con un vestito tutto bianco e non
insaldato.

— E allora, fatelo insaldare.

— Parrà di carta...

— Ma insomma, cosa posso farci io?

Questa era la vera domanda che aspettavamo, e ci affrettammo a
rispondere:

— Può farcene un altro, nonno.

— Color _nuage d’aurore_, nonno.

Il nonno scrollò il capo ridendo, e rispose:

— Questa è appunto la cosa che non posso fare. Posso invece raccontarvi
una storiella...

— Oh, nonno!

— È inutile protestare. La storiella può insegnarvi a non esser troppo
esigenti, ed a contentarvi di quanto vi si può dare. Per conseguenza
non ve ne faccio grazia. Tanto, debbo aspettare qui la Giovannina, che
verrà anche lei a vedervi.

Chinammo il capo un po’ imbroncite, ed il nonno, a bassa voce, per
non disturbare gli altri gruppi di collegiali e di visitatori, che
ingombravano il parlatorio, cominciò subito la storiella:

«Ogni anno, alla stagione dei bachi, mio padre ne allevava una
grossa partita, e voleva che tutti in casa, piccoli e grandi, ce ne
occupassimo senza risparmio di fatica.

«Io ebbi sempre una repulsione per quei vermiciattoli che, per quaranta
giorni, crescevano, crescevano, mangiavano senza posa, e diventavano
grossi come maccheroni.

«S’era appena finito di rizzare un palco di sei, sette stoie,
sovrapposte l’una all’altra, che già i bachi lo avevano invaso tutto, e
bisognava rizzarne un altro.

«E quando non c’era più spazio per nuovi palchi, i bachi crescevano
ancora, e bisognava posare le stoie sui mobili, in tutte le stanze,
accanto ai letti.

«Si doveva star sempre rinchiusi con una copertaccia di lana appesa
contro gli usci, perchè quegli animalucci stessero ben caldi. E, tra il
calore, la mancanza d’aria, l’odore della foglia verde, l’atmosfera non
era più respirabile.

«Ma non importa; bisognava starci, e lavorare. Staccare la foglia
dai rami, tritarla, spargerla sulle stoie. E guai se pioveva! Allora
bisognava accendere un bel fuoco, e stendere i rami di gelso ad
asciugare, perchè i piccoli bachi soffrivano a mangiare la foglia
umida.

«Ed intanto, tutti quegli avanzi di erba rosicchiata si accumulavano
sulle stoie, formando un letto umidiccio e fitto, che minacciava di
fermentare.

«Ogni due giorni si cambiava il letto, cioè si traslocavano tatti i
bachi per togliere quello strato fetido che avevano sotto, e rimetterli
sulle stoie con la carta pulita, perchè la insudiciassero un’altra
volta.

«Erano quaranta giorni d’un lavoro incessante, febbrile; la fame dei
bachi era insaziabile. Si doveva alzarsi una o due volte nella notte
per somministrare il pasto a quelle centinaia di migliaia d’insetti.

«Poi, ad un tratto, non mangiavano più; scappavano da tutte le parti;
e bisognava affrettarsi a circondare le stoie con frasche ed eriche,
perchè i bachi si arrampicassero a fare il bozzolo.

«Io ed i miei fratelli ci sentivamo come rinascere, quando tutti
i bachi erano arrivati a frasca; e non ci pareva vero di uscire
all’aperto, e di non curarcene più.

«Ma il babbo e la mamma continuavano a guardare l’orizzonte, ed a
spaurirsi ad ogni nuvola che compariva, perchè bastava un temporale,
una giornata umida, una variazione di temperatura, perchè i bachi
interrompessero il loro lavoro, ed il bozzolo riescisse difettoso.

«Quando ebbi dodici anni, mio padre mi disse che, per avvezzarmi
a coltivare i bachi con tutta la cura dovuta ad una cosa tanto
importante, mi faceva dono dell’_ospedale_.

«Dovevo occuparmene da solo; ed il prodotto sarebbe messo da parte
come una mia assoluta proprietà, della quale potrei disporre per ogni
necessità impreveduta.

«L’ospedale era la parte più repulsiva di quella gran faccenda
repulsiva. Tutti i bachi stentini, giallini, rossastri, molli, bavosi,
si toglievano dalle stoie, e si mettevano da parte in una stoina
piccola, che era l’ospedale.

«Quelle bestiole infermiccie mangiavano lentamente, dormivano con
ritardo, ed alle quattro mute, non riescivano mai a togliersi del tutto
la vecchia pelle, che serbavano languidamente raggrinzata sulla coda. E
finalmente filavano dei bozzoli piccini, storti, molli, incompleti, che
si vendevano per pochi denari.

«Il primo anno però, il babbo, sempre allo scopo di innamorarmi dei
bachi, ne fece passare nell’ospedale di molti, che, a rigore, avrebbero
potuto stare coi sani; e quando fu il tempo di sbozzolare, raccolsi
non solo della faloppa, ma anche un paniere di bozzoli buoni, e misi da
parte trentacinque lire.

«Infatti, dopo quel guadagno, compresi l’utilità dei bachi, e li
coltivai con maggior cura, specialmente l’ospedale.

«Dopo un paio d’anni cedetti l’ospedale ai miei fratelli, ed io ebbi
un bel pizzico di seme, ed allevai la mia piccola partita speciale di
bachi buoni.

«Il denaro andò aumentando. Quando se ne parlava, la mamma diceva che
servirebbe a vestirmi tutto di nuovo quando dovrei andare a Novara per
studiare al liceo.

«Non si trattava di mettermi in gala, nè di farmi un vestito color
_nuage d’aurore_, piuttosto che di un altro colore. Si trattava
unicamente di vestirmi come vestivano i ragazzi di città, perchè a
Ceràno io portava i calzoni di fustagno corti fino al ginocchio, delle
grosse calze di cotone bigio, degli scarponi con la suola di legno, ed
una cacciatora di fustagno come i calzoni.

«Tutto il costume dei contadini del basso Novarese, che a Novara mi
avrebbe reso ridicolo. Per conseguenza, i miei genitori consideravano
come una necessità il vestirmi di nuovo.

«L’ultimo anno mi dedicai con un ardore straordinario alla coltivazione
de’ miei bachi; e, mentre mi arrampicavo sui palchi, pulivo le stoie,
tagliavo la foglia, avevo sempre in mente i bei calzoni di panno
turchino lunghi fin al collo del piede, gli scarpini, il gilè color
_nanchino_ ed il casacchino corto uguale ai calzoni, tutto l’abito
cittadino che dovevo farmi per andare in città.

«Quell’anno il raccolto andò maluccio; ma c’era il denaro degli anni
precedenti, e fra tutto faceva una bella somma. Circa dugentocinquanta
lire.

«Bastava a farmi un bellissimo corredo.

«In principio d’ottobre, mio padre ebbe la nuova che il marito di sua
sorella, medico condotto ad Oleggio, era gravemente ammalato.

«E tra il babbo e la mamma cominciarono a fare quei soliti discorsi
crudeli, che si fanno sempre in simili circostanze, considerando
già il povero malato come se non esistesse più, dandosi pensiero
unicamente dei superstiti, e compiangendo loro soli, quasichè la vita
di quell’uomo non avesse importanza, se non per l’utile che recava a
quegli altri.

— Quella povera vedova! E con cinque figlioli! E quel povero uomo
benedetto, che non volle mai saperne di privazioni!... Non avrà
lasciato un soldo di risparmio...

«E della gente buona come i miei genitori, rimproveravano già a
quel morto, che non era morto ancora, di non aver aggiunta anche
l’infelicità delle privazioni alla sua povera esistenza di lavoro, per
lasciare un po’ di benessere a quelli che rimanevano, vivi e sani, dopo
di lui, mentre lui se ne andava sotterra.

«Mi fece pena questa ingiustizia del mondo verso i poveri morti, e
dissi:

— «Io compiango lui, povero zio, che se ne va. Gli altri lavoreranno
come ha lavorato lui, ad ogni modo s’accomoderanno sempre...

«Mio padre chinò più volte il capo pensosamente, e disse:

— «È facile dire, s’accomoderanno...

«Verso la metà d’ottobre la malattia s’aggravò tanto, che mio padre
dovette partire per Oleggio. Lo zio era moribondo.

«Intanto il San Carlo s’avvicinava, e bisognava pensare a prepararmi
per andare a Novara.

«La mamma mi condusse a scegliere le stoffe per gli abiti, ad ordinarmi
le scarpe, le camicie, le pezzuole...

«Ma sulle stoffe ero irresoluta. Non ero avvezza a comperare senza
consultare il babbo. Si fece mandare le pezze a casa, per vederle
meglio, e per sentire anche dal sarto quali fossero più convenienti.
Intanto chi sa? Potrebbe darsi che lo zio stesse meglio, e che il babbo
tornasse per vedere anche lui...

«Infatti il babbo tornò, appunto la mattina seguente, mentre noi si
stava osservando le stoffe alla gran luce del giorno, nella farmacia.

«Entrò tutto frettoloso ed impensierito, rispose appena in fretta
«addio, addio» ai nostri saluti, poi domandò:

— «Che cos’è questa roba?

«La mamma rispose:

— «Sono le stoffe pei vestiti d’Andrea.

«Allora il babbo cercò me cogli occhi, e, guardandomi un po’
accigliato, disse:

— «Eh sì! C’è altro da pensare che a vestirsi ora, figliolo mio! Quelli
laggiù sono in mezzo ad una strada; e c’è un povero morto da portare al
campo santo.

«Noi restammo tutti sbigottiti senza rispondere. Il babbo riprese,
sempre guardandomi:

— «Tu non volevi aver pietà dei superstiti, e compiangevi il povero
morto. Ora è proprio il povero morto che ha bisogno di te. Io ho i
superstiti da provvedere. E tu, li vuoi dare i tuoi quattrini per i
funerali?

«Più tardi deplorai di non aver potuto vestirmi di nuovo; ma in
quel momento non sentii altro che un’immensa, un’infinita pietà per
quell’uomo che avevo veduto poche volte, ma sempre allegro e sano,
e che ora aveva bisogno de’ miei poveri soldi per esser portato al
camposanto; e dissi con tutto il cuore:

— «Sì che voglio darli, babbo! e corsi di sopra a prendere la cassetta
con i denari.

«Quando gliela portai, il babbo mi disse:

— «Bravo figliolo. Dopo quest’atto che fai, puoi portare con orgoglio
i tuoi vecchi abiti da contadino anche al liceo di Novara. Ti fanno
onore.

«Io pure pensavo così, e partii col cuore soddisfatto, ed entrai per la
prima volta in iscuola con la fronte alta, come un ragazzo contento di
sè.

«Durante la prima lezione vidi che i ragazzi mi guardavano, poi si
guardavano fra loro e ridevano nascondendo il volto sul banco. Ma
pensai che non sapevano il motivo per cui ero vestito così.

— «Alla prima occasione lo dirò, ed allora sarà finita. Mi
giudicheranno come merito.

«Appena terminata la lezione, mentre il maestro di latino usciva, e
s’aspettava quello di geografia, un ragazzo gridò:

— «Eh, massaio, quanto costa al sacco il grano?

«Guardai in giro per vedere dove fosse il massaio; ma un altro mi venne
proprio davanti e mi gridò in viso:

— «E il concime l’hai sparso sui campi, massaio?

«Capii che parlavano con me. Tutti ridevano e si burlavano dei miei
vestiti da contadino. Mi alzai rosso, rosso, per rispondere; ma mi
ripugnava, davvero, mi ripugnava il vantarmi pubblicamente del poco
bene che avevo fatto.

«In quel mentre entrò il professore di geografia, e tutti tacquero
e tornarono ai loro posti. Ma dopo quella seconda lezione, appena il
maestro aveva chiuso l’uscio dietro a sè, sentii qualche cosa di duro
colpirmi alla nuca, mentre una voce gridava:

— «Eh! ortolano! Prendi il concime!

«Ed un altro:

— «Questo è buon letame, raccogli!

«E da destra, da sinistra, da tutte le parti mi piovevano addosso
torsoli di mele, bucce, noccioli di frutta, vecchie croste di pane,
pallottole di carta stropicciata bagnate nell’inchiostro, che mi
colpivano nel volto, nel petto, sul dorso, e lasciavano la macchia.

«Mi alzai per parlare, ma una salva di fischi, di grida, di risate
coprì la mia voce. Imitavano il muggito del bue, il raglio dell’asino,
il gracidare delle galline, il canto del gallo; pareva d’essere in una
fattoria.

«Allora, tutto fremente di sdegno, corsi fuori dalla scuola, ed appena
giunto dalla vecchia parente dov’ero alloggiato, scrissi a mio padre
tutta quella scena. Nella mia disperazione gli dicevo:

— «Bisogna fare qualunque sacrificio per vestirmi come gli altri, da
cittadino; altrimenti sarà impossibile che io continui a studiare.
Intanto sospendo d’andare al liceo.

«Mio padre rispose:

— «Se credevi l’opera buona che hai fatta, tanto facile e senza
conseguenze per te, non meritavi l’ammirazione con cui l’accolsi.
Dare il denaro dei tuoi abiti pel tuo povero zio morto, voleva dire
rassegnarti a frequentare, per un tempo indeterminato, la scuola
vestito da contadino, esporti a qualche burla, a qualche umiliazione.
Abbi dunque il coraggio della tua buona azione. La vita ha ben
altre lotte, ben altre contrarietà, e devi avvezzarti di buon’ora a
sopportarle, se vuoi fare la tua strada nel mondo e diventare un uomo.
Io non voglio intervenire in questa puerilità. Sbrigati come puoi, e
sopratutto non lasciare lo studio, che è la parte seria della vita, per
codeste suscettività d’amor proprio, che ne sono la parte ridicola.»

«Sulle prime quella lettera mi parve crudele ma, ripensandoci, compresi
che era giusta nella sua severità. E tornai al liceo, e sopportai con
dignità le insolenze de’ miei compagni, rispondendo appena con qualche
scappellotto ai tentativi più violenti.

«Così si avvezzarono a vedermi vestito da contadino, e, a misura
che mi facevo onore negli studi, s’avvezzarono anche a rispettarmi.
S’avvezzarono tanto bene, che quando, dopo sei mesi, mio padre mi
regalò un bel vestito da città, al primo vedermi vestito così, i più
grulli cominciarono a burlarmi di nuovo. Ma i loro scherzi non furono
secondati, perchè la maggioranza aveva imparato a giudicarmi più
seriamente.»

Eravamo un po’ commosse, ma non tanto da aver completamente dimenticate
le occhiate ironiche e le risate di scherno delle compagne eleganti.

Io risposi, esitando un poco, ma facendomi coraggio:

— «Ma noi non abbiamo nessuna bella azione da raccontare, per
giustificare il nostro vestito vecchio.

Il nonno, col volto, non più conciliante, ma serio serio, rispose:

— «Fra tutte le belle azioni, la più bella è fare il proprio dovere.
Il vostro dovere è di accettare la situazione che Dio ha fatta al
vostro nonno ed a voi. Non siamo ricchi; dobbiamo accontentarci, io
di non farvi un abito nuovo, voi di non portarlo. Ho una gran paura
che nelle vostre testoline sia entrata tanta vanità, da farvi parere
un sacrificio, un atto eroico addirittura, il confessare la vostra
condizione modesta. Ebbene, confessatela, e se vi costerà molto, avrete
una buona azione da raccontare, una vittoria riportata sulla vostra
vanità. E vi farà del bene.

Non confessammo nulla. Non eravamo abbastanza dignitose e forti per
farlo. Ma l’abito di carta coll’avoltoio nella schiena, ricomparendo
ancora, confessarono per noi. Però quel giorno osservammo che erano
molte le compagne che portavano gli abiti degli anni precedenti, ed
il gruppo delle eleganti era così piccino, che ci accorgemmo d’averne
esagerata l’importanza. Tutte le più brave erano vestite modestamente;
ed anche noi facemmo un bell’esame. E ne avemmo una soddisfazione, che
il bel vestito non ci avrebbe dato di certo. Dopo l’esame la Giuseppina
mi disse, un po’ tardi, ma meglio che mai:

— Sono contenta ora, che non abbiamo fatto fare un sacrificio al nonno
per vestirci.




_Come il nonno troncò una serie di rappresentazioni_


Passati gli anni di collegio e di scuola, e finiti gli studi, la nostra
vita da signorine di provincia cominciò ad essere assai monotona.

Non si doveva più pensare ad altro che a diventare donne di casa, buone
massaie. L’ordine della casa, il bucato, la cucina, dovevano occuparci
interamente. Se ci veniva in mente di cominciare un ricamo, il nonno,
che badava all’igiene, diceva che quel lavoro sedentario e fine nuoceva
alla salute e sciupava la vista.

Se poi ci mettevamo a leggere, le zie esclamavano spaurite:

— Per carità! Che non avessero a credervi dottoresse!

Erano persuase che tutti i guai, tutte le miserie dell’umanità,
derivassero dalla lettura, specialmente per le donne; e dicevano, con
un risentimento pieno di convinzione:

— Ah! quei maledetti libri!

Tanto, che noi si pensava sovente, perchè ci avessero fatto imparare a
leggere.

Ma doveva essere per abilitarci a leggere «La cuoca piemontese» il solo
libro che trovasse grazia agli occhi delle zie.

Si doveva fare, noi due ragazze, una settimana ciascuna alternandoci
in cucina, cercando di mettere in pratica gli insegnamenti di quel
ricettario.

Il nonno però, che era condannato a mangiare i prodotti dei nostri
esperimenti, non aveva lo stesso ardore delle zie, nello spingerci a
fare da cuoche; e preferiva che ci occupassimo della «tenuta dei libri
di casa» come diceva pomposamente. In realtà si trattava di notare
le spese giornaliere; ce lo faceva fare in francese per tenerci in
esercizio.

Era un esercizio assai limitato, «Lait, pain, sel, ris, beurre, poulet,
viande, fromage...» un centinaio, mettiamo anche dugento parole
di questo genere, che si ripetevano ogni giorno con una monotonia
desolante. Metteva proprio conto d’avere imparata una lingua per
questo!

Intanto la nostra piccola famiglia, composta di noi due ragazze,
del nonno, e di nostro fratello, non ci dava da fare abbastanza
per occuparci tutto il giorno. Avevamo una donna di servizio
laboriosissima, a cui la nostra presenza in cucina dava noia, e che
stirava mezzo bucato, nel tempo che noi si stirava una camicia.

Per conseguenza le giornate erano molto lunghe per le nostre
occupazioni da massaie, e ci lasciavano molto tempo da fantasticare,
mentre lavoravamo meccanicamente di cucito, sole, perchè le zie
venivano spesso a vederci e ci accompagnavano fuori, ma non abitavano
con noi.

L’argomento sul quale si fantasticava più volentieri, era,
naturalmente, la nostra propria sorte. Ci domandavamo l’una all’altra:

— È questa la gioventù allegra, la gioventù serena, felice, piena
d’illusioni, di poesia; la bella gioventù, che dura appena una quinta
parte della vita, e che si continua a rimpiangere per gli altri quattro
quinti, inconsolabilmente?

Domandavo a mia sorella:

— Sei felice d’avere diciassett’anni?

E lei mi rispondeva:

— E tu sei felice d’essere quel personaggio ideale, l’incarnazione
della gioia e del sorriso, «_la giovinetta trilustre_?»

E tutte e due concludevamo:

— Era più bello esser bimbe. Ci si divertiva di più.

Ed infatti, in quei due anni, i nostri divertimenti erano stati scarsi.
Eravamo state una volta ogni carnevale al teatro di musica, con un
vecchio fratellastro del nonno, che chiamavamo zio, e con una sua
figlia, un po’ troppo matura, che chiamavamo cugina.

Lei si metteva in gran gala: abiti di tulle scolacciati, nastri, fiori,
trine. Noi portavamo il nostro vestito da estate più bello, che era
sempre brutto accanto a quegli abiti da sera. La cugina si faceva dare
del tu da noi, per ringiovanirsi; ma ci metteva una gran soggezione.

Entrando nel palco si fermava subito allo specchio, e si accomodava
lungamente l’acconciatura, ingombrando tutto lo stretto spazio, senza
badare che noi si rimaneva sull’uscio.

Poi andava a sedere al posto migliore, dove c’era un guancialone sulla
poltrona, in modo che lei rimaneva in alto, con tutta la vita sporgente
dal parapetto.

Mia sorella, che sedeva in faccia a lei, senza guanciale, sembrava
piccina piccina, e non figurava punto. Quanto a me, ero condannata alla
tortura del panchettino, sul quale si vedeva sorgere la mia vita di
lana colorata, fra i rigonfi della gonna bianca leggiera di mia cugina,
che si stendeva pomposamente sulle mie ginocchia.

Lei, che andava sovente al teatro, conosceva la musica, le belle
signore dei palchi, i bei giovinotti, e salutava, graziosa, chinando il
capo ed il ventaglio.

Noi, che si stava sempre in casa e solitarie, nessuno ci salutava; ci
sentivamo fuori di posto, come due campagnole.

E quel secondo anno, il giorno dopo quella serata memorabile, quando
il nonno ci domandò se ci eravamo divertite, cominciammo a gemere le
nostre lagnanze.

La Giuseppina disse:

— Come vuole che ci si diverta, nonno, andando al teatro una volta
all’anno? Non si conosce nessuno...

Ed io, che rammentavo quelle ore passate appollaiata sul disgraziato
panchettino, col capo teso innanzi fra mia cugina e mia sorella, e la
persona indietro per non schiacciare i rigonfi leggeri che avevo in
grembo, esclamai con premura:

— Ed in tre in un palco! Sembravamo tre galline in una stia...

Il nonno agitò le mani in alto con le dita aperte in atto di scandalo e
di stupefazione, ed esclamò:

— Oh! che gioventù! che gioventù! Ma non sapete prendere i divertimenti
come vengono, senza amareggiarveli con l’amor proprio, con le
aspirazioni della vanità? Ci vuole il racconto, ho capito.

E cominciò uno dei soliti racconti.

«La Giovannina, alla vostra età, e anche molto dopo, non aveva mai
veduto un teatro. Perchè ai nostri tempi — parlo del principio di
questo secolo — la società aristocratica si spassava quanto adesso
e forse più, faceva una vita dissipata, vestiva con molto cattivo
gusto, ma con uno sfarzo maggiore d’adesso. Ma le famiglie della
borghesìa menavano vita affatto casalinga, e non avevano la pretesa di
rivaleggiare coi signori. I nostri divertimenti ce li pigliavamo fra
noi, modestamente, e sapevamo contentarcene, per meschini che fossero.

«La Giovannina abitava allora in piazza del Rosario, ed aveva un gran
balcone al primo piano.

«Fino a diciotto anni, dunque, non aveva mai veduto un teatro; quando
verso la fine d’ottobre capitò a Novara un burattinaio, ed una bella
sera si vide comparire sulla piazza del Rosario, e proprio dirimpetto
al balcone della zia, la baracca dei burattini.

«Figuratevi la gioia della Giovannina! Sebbene la sala del balcone, di
solito, stesse sempre chiusa, perchè l’aria e la luce non facessero
scolorire le seggiole ed il divano di _reps_, quella sera ella si
piantò sul balcone appena vide la baracca, e non si mosse più finchè la
burattinata fu finita ed i lumi spenti.

«Il giorno dopo stette in grande ansietà per paura che il burattinaio
non tornasse. Ma tornò, e lei, tutta felice, domandò ai suoi parenti
il permesso di mandare a prendere due amiche, perchè godessero con lei
quello spettacolo.

«E per parecchie sere, le tre fanciulle si divertirono immensamente,
attentissime alla commedia, che poi il giorno dopo ripetevano a chi
voleva sentirla.

«Io, che ero appunto a Novara per studiare al liceo, fui invitato dalla
Giovannina alle burattinate, e quando non avevo molto da studiare, ci
andavo e mi divertivo la mia parte.

«Ma quell’anno l’ottobre era eccezionalmente freddo, e la commedia
finiva tardi, verso le dieci. Le ragazze infreddarono tutte.

«Allora tutti i parenti proibirono di stare al balcone di sera,
compresa mia zia, che intimò a sua figlia d’andare a letto alle otto,
finchè non le fosse passata la tosse.

«La Giovannina non disse nulla, perchè sua madre non le permetteva di
discutere le sue risoluzioni. Ma la tosse continuava e si faceva anzi
più acuta, nonostante gli atroci decotti di orzo indolciti col miele,
che la zia faceva ingollare alla malata.

«Intanto io, che non avevo bisogno del balcone per godere le
burattinate, la prima sera che i miei studi me lo permisero, andai in
piazza del Rosario, con l’intenzione di sentire la commedia in piedi.
Ma la folla era già compatta, e non mi fu possibile di farmi strada fin
sotto il balcone della zia, per essere in faccia alla baracca. Rimasi
invece dietro la baracca ed in faccia al balcone chiuso.

«Quando non si vedono gli attori, l’attenzione è meno accaparrata
dallo spettacolo. Io dunque guardavo in giro, un po’ qua, e un po’ là,
e più spesso sul balcone della zia, pensando che lassù avrei veduto
tutto, e sarei stato più comodo che lì dietro, pigiato tra la folla,
dove sentivo la voce in falsetto d’una infelice ambiziosa defunta, che
urlava tra le fiamme dell’inferno: «Per trent’anni di regno, tutta
un’eternità di pene!» Vedevo i bagliori rossi del fuoco eterno di
paglia, che ardeva sul davanti della baracca, ma non potevo vedere nè
l’inferno, nè i diavoli, nè la regina.

«Ad un tratto, a quella luce rosseggiante, vidi moversi qualche cosa
di bianco sopra un gran testo, nel quale cresceva una magnifica pianta
d’oleandro, sul balcone della zia.

«Guardai attentamente, ma pare che l’inferno avesse cessato di
divampare, e la piazza ricadde nell’oscurità.

«Che l’eternità fosse già finita?

«No. I diavoli, più attenti di molte vestali, non lasciano spegnere il
fuoco infernale. S’udirono sibilare, movere i tridenti per rattizzarlo,
la piazza rosseggiò un’altra volta irradiata dalla vampa in cui
si dibatteva la regina col suo monotono lamento, ed a quella luce
sanguigna, abbagliante, vidi distintamente la Giovannina, leggermente
vestita d’una gonnella e d’un giubbino da notte, accoccolata sul testo
dell’oleandro, che contemplava esterrefatta quella scena diabolica.

«Il suo vestiario, e le persiane del balcone richiuse ermeticamente
dietro a lei, mi spiegarono subito il mistero.

«La Giovannina lasciava sua madre nella stanza da pranzo che era
dall’altro lato del quartiere, e se ne andava a letto in camera sua,
che comunicava appunto con la sala. E, dopo che sua madre era andata ad
assicurarsi che era coricata e che non le mancava nulla, usciva pian
piano, senza perder tempo a vestirsi, fors’anche a piedi nudi per non
far rumore, e se ne andava sul balcone al buio per più di due ore.

«E tutto questo per una miserabile commedia di burattini; e se ne
divertiva semplicemente, senza pensieri di vanità, in gonnella, non
veduta da nessuno.

«Che ne dite, belle signorine, che sdegnate uno spettacolo d’opera
e ballo, perchè l’andarvi una volta sola, non vi permette d’essere
ammirate e salutate dagli abbonati, e perchè l’essere in tre in un
palco non vi sembra abbastanza comodo e signorile?

«La mattina, volendo sapere qualche cosa di più preciso sulla
Giovannina, andai dalla zia, e la trovai tutta costernata perchè la sua
figliola continuava ad avere la tosse, e questo, in una ragazza tanto
lunga e sottile, dava da pensare.

« — Sono due giorni che la tengo a letto, ma tosse sempre egualmente, e
fors’anche di più... Temo che abbia la febbre...

«Era ancora peggio di quanto avevo supposto. Stando a letto, la
Giovannina non aveva gli abiti sotto mano, perchè sua madre, che amava
la pulizia e l’ordine, li portava fuori di certo, per spazzolarli, o
perchè non ingombrassero i pochi mobili della cameretta.

«Dunque, quella povera ragazza, usciva, calda dopo una giornata di
letto, e magari sudata, appena coperta d’una gonnella bianca, e stava
ferma delle ore sul balcone, al freddo, col rischio di pigliarsi una
polmonite, e d’andarsene all’altro mondo.

«Se avessi potuto vederla l’avrei sgridata severamente, e anche
minacciata di denunziarla a sua madre. Ma, naturalmente, non potevo
entrare nella sua camera; e denunziarla davvero mi ripugnava, per
quanto si trattasse di tutelare la sua salute.

«Ci pensai tutto il giorno, e trovai modo d’impedire che non
commettesse più quell’imprudenza, senza farle toccare i rimproveri, e
forse qualche scappellotto dalla sua mamma, che le voleva bene, ma era
molto severa.

«Pregai tre amici di venire la sera con me a vedere la burattinata
in piazza del Rosario, e mi collocai con loro, proprio accanto alla
baracca.

«Prima che ci fossimo trovati tutti all’appuntamento, s’era fatto un
po’ tardi, e lo spettacolo era già al secondo atto quando giungemmo a
posto.

«Guardai subito sul balcone della zia e, per quanto fosse buio, vidi
benissimo la figura bianca, che si moveva sul testo dell’oleandro.

«Allora alzai un pochino per di dietro la tela che chiudeva la baracca,
per assicurarmi che aveva un pavimento interno di legno, sul quale
stavano rannicchiati il burattinaio, ed un suo figlioletto mingherlino,
che faceva da suggeritore, e che, dopo il secondo atto, usciva a far la
questua tra la folla.

«Sicuro così del fatto mio, mi misi d’accordo coi miei compagni; ci
collocammo ai quattro angoli della baracca, ed aspettammo una scena
culminante del dramma, quando Florindo e Rosaura, con l’aiuto di
Colombina e di Arlecchino, si disponevano a fuggire dalla casa di
Pantalone.

«E ad un tratto, sollevammo di peso la baracca, col burattinaio,
il piccolo suggeritore, il cesto dei personaggi e tutti; e, fra
gli urli della folla, giubilante e plaudente, a quell’improvvisata,
trasportammo ogni cosa in quel vicolo stretto e curvo, che mette alla
contrada del municipio, mentre il burattinaio si sporgeva fuori della
baracca gesticolando disperatamente, con le braccia in alto, e con due
burattini per ogni mano.

«Nel vicolo buio lo rimettemmo in terra, avvertendolo con tutto il
garbo possibile che, se non sceglieva un altro posto per i suoi
spettacoli, sarebbe stato portato in trionfo ogni sera a quella
maniera, prima che avesse il tempo di mandare in giro il suggeritore a
raccogliere i quattrini.

«La sera seguente il burattinaio piantò la baracca in piazza delle
Erbe; e dopo due o tre giorni la tosse della Giovannina era cessata.

«Ma quando ella seppe che ero stato io l’eroe di quell’impresa, e che
l’avevo compiuta per lei, invece di ringraziarmi, mi rimproverò, perchè
l’avevo privata del suo modesto teatro democratico, che la divertiva
tanto.




_Come il nonno non sposò la signora Giovannina_


Quella storiella dei burattini ci aveva molto scoraggiate. Era stata
come una gran raffica, che aveva spazzato via tutte le nostre speranze
di divertimenti.

A noi pareva anche ingiusta perchè, in realtà, non eravamo musone, e
la baracca dei burattini, se fosse capitata sotto la nostra terrazza,
avrebbe divertite anche noi, come ci divertiva alle volte una partita a
tombola col nonno e con le zie.

Soltanto, quegli spassi lì non ci bastavano. Avevamo sempre il
desiderio d’andare ai balli, dove andavano la tale e la talaltra; di
vestire come loro; e quei continui confronti ci rendevano malcontente,
e dissipavano presto l’allegria, che ci avevano procurato i nostri
modesti e semplici piaceri.

Per combinazione, appunto pochi giorni dopo quel discorso sul teatro,
ricevemmo per la prima volta un invito per una festa da ballo.

Eravamo a tavola; noi si pranzava al tocco; la donna venne a dirci che
c’erano giù in sala delle signore.

— Chi mai?

Il nonno non voleva esser disturbato quand’era a pranzo; e sebbene,
quando si trovava con le signore, le trattasse con la squisita cortesia
dei suoi tempi, preferiva però di non trovarcisi.

Ci permise di scendere in sala noi a ricevere quella visita, e rimase a
tavola solo, perchè allora nostro fratello era in collegio.

In sala trovammo la signora Righi, con due delle sue sei figliole. Non
volevano neppure sedersi, perchè avevano una gran premura; erano in
giro a fare gl’inviti «per quattro salti» che si farebbero in casa loro
il domani sera.

Dovevano ancora girare tutta Novara, perchè non si trattava d’una
festa, per la quale mettesse conto di mandare gli inviti per lettera.

— Quattro salti, semplicemente. In tutta confidenza. Un vestito chiaro
purchessia. Chiaro, perchè è più allegro; ma senza eleganza, vedete? E
badate di non mancare. Ditelo al nonno che contiamo su voi....

Ed erano già in fondo alla scala.

Io era come sbalordita, in uno di quegli accessi di contento insperato,
che quasi non si osa credere alla nostra felicità.

Stavo a guardare mia sorella, aspettando di sentire cosa ne pensasse
lei, prima d’abbandonarmi alla gioia che mi gonfiava il cuore.

La Giuseppina scrollò il capo, e disse sfiduciata:

— È inutile pensarci, non ci si va, sai!

— Perchè? Il nonno non vorrà?

— Figurati! Lui, che crede che una commedia di burattini basti a
mantenere l’ilarità delle ragazze finchè dura la gioventù, penserà che
l’opera dell’altra sera debba bastare a farci giubilare pel resto dei
nostri giorni.

Mi parve che avesse ragione, e susurrai scoraggiata:

— Allora non gli si dice neppure?

— Io non glielo dico per non sentirmi dare un rifiuto.

— Ma se domanda perchè sono venute le Righi...

— Gli si può dire, come novità del giorno. Ma non ci fondare speranze,
sai.

Invece, con nostra grande meraviglia, e con altrettanta gioia, il nonno
non discusse neppure quell’invito. Ci domandò a che ora si dovesse
andare, e ci avvertì che si dovrebbe tornare a mezzanotte, perchè lui
non permetteva che si vegliasse più tardi.

Non mi riuscì più d’ingoiare un boccone, tanto ero eccitata. Un ballo!
Continuavo a parlare, a parlare con una vivacità insolita, senza badare
a quanto dicevo, come ubbriaca di gioia.

Mia sorella era assai meno allegra. Appena il nonno si alzò da tavola e
scese nel suo studio, io dissi alla Giuseppina:

— Vedi? Se non gli si diceva dell’invito, si perdeva il divertimento.
Pensa; un ballo!

Lei scrollò le spalle infastidita, e disse:

— Ma che ballo! non ci si va.

Rimasi sbalordita, poi mi venne una grande indignazione ed esclamai:

— Vedi come sei? Ha ragione il nonno. Nulla ti contenta. Lui, povero
vecchio, è disposto a condurci ad un ballo, e tu non vuoi. Allora è
colpa tua se non ci si diverte....

Lei non si scompose e tornò a rispondere fredda fredda:

— Sì, è colpa mia. C’è un bel vestito bianco in guardaroba, ed io non
me lo voglio mettere, nevvero?

— Un vestito bianco?... Chi ce l’ha messo?...

— Non fare la scimunita. Ti dico che non abbiamo vestito per andare a
ballare, ecco perchè non ci si andrà.

Io osservai timidamente:

— Ma quello bianco e verde?...

— Già, per fare la figura che abbiamo fatta al teatro. Sarebbe un bel
divertimento.

— Ma le Righi hanno detto «in tutta confidenza; un vestitino chiaro
purchessia...»

— Sono cose che si dicono. Io preferisco non andarci.

Quella risoluzione inaspettata mi affliggeva troppo; ci pensai un
pochino, poi feci questa proposta temeraria:

— Se si dicesse al nonno di farci un vestito; o, anzi, di farlo
soltanto per te, che sei la maggiore, e lo desideri... A me non importa
di venire con quello bianco e verde...

Mia sorella alzò le braccia al cielo, e gridò:

— Per carità! Ci racconterebbe un’altra storia, noiosa come quella de’
suoi vestiti andati in fumo, che ci raccontò due anni fa in collegio; e
non ci si guadagnerebbe altro.

Io sospirai:

— È vero. Tutti i nostri ideali sono destinati a svanire in una
storiella.

Tuttavia avevo l’animo pieno di gratitudine pel nonno, che aveva
acconsentito con tanta facilità ad accompagnarci a quel ballo, e mi
addolorava il pensiero di non profittare di quella concessione.

Cercai di conciliare le cose con un’altra proposta:

— Infatti, domandare un abito nuovo sarebbe un’indiscrezione. E poi la
sarta non avrebbe neppure il tempo di farlo. Ma si può accomodare ogni
cosa. Io mi metto il vestito verde. Tu prendi quella vecchia gonnella
rossa di seta della povera mamma, che è nell’armadio. La copriremo
tutta coi nostri due veli di tulle bianco della prima comunione, che
sono affatto nuovi, e che ti faranno una bellissima sopravveste. Quanto
alla vita, metterai quella di seta nera, ed avrai una toletta da serata
senza spendere un soldo.

Mia sorella si rasserenò tutta all’idea di quell’abbigliatura, che
allora era di gran moda, e che certo le avrebbe fatto fare una figura
magnifica.

Soltanto, la gonnella rossa la teneva il nonno in un armadio chiuso a
chiave, con tutto lo spoglio della nostra povera mamma, e non si poteva
pigliarla, se lui non ci dava la chiave, ed il consenso.

Questo ci mise in gran pensiero, perchè, conoscendo i suoi principî
severi, temevamo un serio rabbuffo.

Tuttavia, siccome non c’era tempo da perdere, io che, domandando non
per me ma per un altra, mi sentivo più coraggio, andai dal nonno, e
pian piano gli dissi che la Giuseppina sarebbe stata tanto bene con
un vestito da ballo, e che si poteva combinarlo senza nessuna spesa,
perchè c’era tutto in casa...

E gli esposi il mio disegno, il vestito rosso, i veli, ecc. ecc.

Egli corrugò la fronte, poi rispose una sua parola che noi conoscevamo
decisiva, inesorabile, ed alla quale non avremmo mai osato di
rispondere:

— Non se ne parli altro!

Io rimasi male. Ma cosa potevo dire?

Non dava nessuna ragione del rifiuto; non c’era mezzo di combatterlo.
Mia sorella si limitò a crollare il capo ed a dire che prevedeva che
sarebbe andata così. Ma aveva le lagrime agli occhi; e ripetè che
non voleva venire al ballo. Io poi, ero disperata di rinunciare al
divertimento per quella storia del vestito, e suggerii di far parlare
al nonno da qualcuno più influente di noi.

— Se si provasse la signora Giovannina? La stuzzica sempre per la sua
età, ma in fondo le vuoi bene. Ha fatta tutta quella cosa della baracca
dei burattini per lei...

La Giuseppina stette un minuto perplessa, poi mi approvò:

— Forse hai ragione. La signora Giovannina è la sola che lo possa
persuadere. Se si andasse da lei?

Felice di vedere ancora accettato un mio consiglio, e di potere, ad
ogni modo, andare a quel ballo, corsi dal nonno a domandargli il
permesso di uscire colla serva e con la mia sorella, per fare una
visita alla signora Giovannina.

Il nonno si tolse gli occhiali per guardarmi, e cominciò a dire:

— Mi pare una stravaganza.

Ma poi, forse ricordandosi d’avermi dato un rifiuto secco secco un
momento prima, si strinse nelle spalle, e disse:

— Ma se vi fa piacere, andate.

Corsi in cucina ad avvertire la serva, che brontolò perchè le si faceva
smettere di rigovernare, e ci avviammo.

Infatti la serva aveva ragione. Era un’avventatezza indegna di
due giovinette destinate a diventare due modelli di donne di casa,
l’interrompere le occupazioni importanti dell’unica donna di servizio,
per una visita che non si giustificava in nessun modo.

Ma la strada era breve, ed appena fummo alla porta della signora
Giovannina, rimandammo la donna alle sue faccende, e salimmo sole.

Era la prima volta che andavamo spontaneamente da quella vecchia
parente, e la prima volta che invocavamo il suo appoggio.

Come accade sempre dei disegni troppo arditi, passata l’eccitazione
orgogliosa d’averlo concepito, mi si affacciavano tutte le difficoltà
dell’attuarlo. Nel salire le scale, dissi con un sospiro:

— Non otterrà nulla neppur lei, come la direttrice quando si trattò
delle lezioni di piano.

E la Giuseppina rispose:

— Almeno la signora Giovannina non corre il rischio di sentire una
storiella, perchè le storie del nonno le sa tutte anche lei.

Ed io soggiunsi:

— E così non la sentiremo neppur noi; sarà tanto di guadagnato.

Fu invece la signora Giovannina, che, questa volta, ci raccontò una
storia.

Appena, un po’ intimidite, un po’ esitanti, le ebbimo detto quanto
volevamo da lei, si scrollò tutta con tale nervosità, che i nastri
della cuffia, i lembi della cravatta, il grembiule, tutto si mise a
svolazzare ed a sbattacchiarle intorno.

E, mentre si agitava a quel modo, diceva:

— No, no, ragazze, no. Io non glielo dico; e nessuno glielo deve dire.
E voi dovete rinunziare a questa idea del vestito, e non pensarci più,
e metter da parte l’ambizione... Perchè, se sapeste che male può farvi!
Se sapeste! Bisogna sapersi accontentare del proprio stato, e non
pretendere di imitare i ricchi, ecco! Non importa che quell’abito non
costi nulla. Non dovete farlo.

Poi, con una certa peritanza, e con espressione di rammarico, soggiunse:

— Io l’ho imparato a mie spese...

La Giuseppina disse spaurita:

— Oh, Dio! Vuol raccontare una storiella anche lei, signora Giovannina?

E lei rispose con impeto:

— Ma sì; appunto. Siete ragazze, e vi può fare del bene. Sapete
perchè sono invecchiata sola, senza marito, senza figlioli, in questo
isolamento che mette pietà? Per l’ambizione. E per un’ambizione che non
costava nulla ai miei parenti e che prima non avevo...

— «State a sentire. Voi conoscete quanto è buono Andrea, e quanto ha
studiato, e che uomo d’ingegno è. Ma allora, ai tempi di cui parlo
io, non era ancora professore di fisica e di botanica. Era farmacista
e giovane. Aveva comprata la farmacia con poche migliaia di lire che
gli aveva date suo padre, impegnandosi a pagare il resto del prezzo
convenuto, nel termine d’un certo numero di anni. E lavorava molto,
e spendeva poco, per finire quel pagamento e diventare proprietario
assoluto della farmacia: E diceva:

— «Allora avrò una situazione modesta, ma sicura, e potrò pensare al
mio avvenire, a farmi una famiglia...

«Non aveva mai detto di più; ma frequentava moltissimo la nostra casa,
e mi dimostrava tanto affetto...

La Giuseppina, che cominciava a prender gusto a quella storia, la
interruppe ridendo:

— Sì, sì, sappiamo, signora Giovannina. Le imprese d’Ercole! Ha portato
un teatro con tutta la compagnia drammatica, per risparmiarle un
raffreddore.

E la signora Giovannina riprese:

— «Appunto. Mi voleva bene a quella maniera. Ed era contento che mi
divertissi delle burattinate! Diceva che gli piacevano le ragazze
semplici, contente del loro stato, sanamente allegre.

«I miei genitori dicevano apertamente che Andrea sarebbe stato un
buon marito per me. Che sarebbero stati felici d’avere un genero con
quell’intelligenza e con quel carattere.

«Ed io non lo dicevo apertamente, ma lo pensavo, e, più ancora, lo
sentivo.

«Disgraziatamente, qualche anno dopo la storia dei burattini, ebbi,
come voialtre, l’invito per una festina da ballo.

«Allora le case della borghesia non ostentavano il lusso di
appartamento e di mobili che si ostenta ora.

«La famiglia che dava il ballo possedeva un salottino, ma piccolo,
appartato, che non si prestava ai ricevimenti un po’ numerosi, e stava
quasi sempre chiuso e buio.

«Invece avevano una bella cucina, vasta, quadrata, colle pareti bianche
ed i fornelli di mattoni rossi.

«Si toglieva la tavola di mezzo, si stendeva un lenzuolo sopra una
parete per nascondere il rame, si annaffiava il pavimento di mattoni
con acqua insaponata, e si ballava in cucina.

«Per musica c’era un organetto, per rinfreschi il secchio dell’acqua
con il rispettivo ramaiuolo, per illuminazione due lampade ad olio sul
camino, e due candele sui fornelli.

«Però, nel fare gl’inviti, la padrona di casa aveva detto, come dissero
le Righi a voi, di vestirci di chiaro, per dare alla serata un’aria più
gaia.

«Allora si usavano gli abiti scollati, con le maniche corte e rigonfie,
con la vita cortissima, e la gonnella stretta alla persona tanto da
disegnarne le forme, e lunga appena fino alla caviglia; tutto il piede
rimaneva scoperto; si portavano scarpe scollate e calze bianche a
trafori.

«Io aveva un abito di mussola bianca; una stoffa che cominciava appena
a comparire e costava più cara della seta. Era un regalo che m’aveva
mandato da Parigi una signora, alla quale mio padre aveva prestato
i suoi servigi come medico, durante un suo viaggio in Italia. Era un
vestito di lusso per me.

«Andai dunque alla prima festa con quell’abito. Il nonno vi disse,
come, senza maestro, avessi imparato a ballare assai bene. Non si
ballavano le _polke_ ed i _walzer_, che ballate ora; si ballava
la contraddanza, la monaco, balli eleganti in cui le abbigliature
figuravano meglio e si sciupavano meno che nei balli d’adesso. Ora,
con quei giri violenti che fate, strette strette contro il ballerino
vestito di nero come un notaio, ed in mezzo al turbinìo di molte altre
copie, che girano urtandovi e calpestando gli strascichi, le eleganze
del vestire sfuggono.

«Allora anche gli uomini portavano dei calzoni chiari, delle giacchette
corte color grigio di sorcio o verdolino. Ma questo non importa. Io
mi avvidi d’aver fatto una bellissima figura col mio vestito bianco,
e tornando a casa mi promettevo una serie di trionfi identici. Andrea,
che ci accompagnò a casa, io e la mamma, perchè mio padre, occupato de’
suoi ammalati, non aveva potuto venire, ci assicurò che in quella casa
si sarebbe ballato ancora quattro volte nel corso del carnevale.

«La mamma aveva osservato l’assiduità d’Andrea a ballare con me, e se
ne rallegrò più volte parlandone col babbo a tavola. Io me ne rallegrai
senza parlarne.

«Alla seconda festa, due signorine che mettevano tutta la loro
ambizione nel vestire con grande eleganza, comparvero con un abito
differente dal primo. Un abito d’un turchino brillante, che era di moda
quell’anno e si chiamava _celeste Maria Luigia_.

«Tutto le signore le complimentarono per quel vestito; gli uomini
si affollarono intorno a loro, leticando per essere i primi a farle
ballare, ed io fui assai meno ammirata della prima volta; ballai quasi
sempre con Andrea, che non dovette leticare con nessuno per avermi.

«Quella sera, al ritorno, ero assai meno contenta; e, quando la mamma
parlava dell’assiduità di mio cugino, e ci fondava sopra i suoi disegni
d’avvenire, io, invece di rallegrarmene, mi sentivo mortificata, e
pensavo che, se non m’avesse fatta ballar lui, sarei rimasta seduta; e
che certo lui mi aveva compianta per quell’abbandono.

«Ero troppo orgogliosa per rassegnarmi ad essere compianta, e mi
proposi di non andare ad un terzo ballo con lo stesso vestito. La mia
preziosa mussolina bianca mi era doventata odiosa.

«Tuttavia, sapevo che mio padre non era ricco, e che lavorava per
mantenere la famiglia, e non mi passò neppure per la mente di domandare
un vestito nuovo. Ero molto laboriosa ed ingegnosa, e mi venne l’idea
di trasformare il mio vestito bianco in un vestito celeste. A questo
la mia mamma si oppose un pochino dapprincipio, perchè dubitava della
riescita, ma poi consentì, e mi lasciò fare.

«A forza di bagnarla in un’acqua con molto turchinetto, mi riescì di
dare alla mussolina un color celeste, meno bello di quello _Maria
Luigia_, ma abbastanza grazioso; e quando l’ebbi stirato e rimesso
a nuovo, il mio vestito stava molto bene; ed alla terza festa fui
ammirata e ricercata come alla prima.

«Allora, invece di badare alla maggioranza delle signorine, che
venivano con la stessa abbigliatura della prima sera, e si divertivano
con semplicità, come conveniva ad un modesto ballo di giovinette,
e quando non erano ricercate dai ballerini, ballavano tra loro, mi
rallegrai del mio trionfo, mi compiacqui di poter compiangere Andrea,
perchè, circondata com’ero, avevo potuto ballare ben poco con lui, e mi
parve che questo dovesse darmi maggior valore ai suoi occhi, e che se
non mi fossi mantenuta a quel grado di eleganza, sarei decaduta nella
sua considerazione.

«Pensai dunque al modo di cambiare ancora abbigliatura per la prossima
festa, e, dopo quel primo risultato, mi attenni al primo sistema, della
tintura. Lavai io stessa il mio vestito; feci bollire una quantità
di spinacci, ed in quell’acqua verdognola che lasciarono, immersi il
vestito bianco.

«Avevo pensato di dargli quel certo color verdolino che si usava per le
giacchette degli uomini, e che si chiamava, poco elegantemente, _caca
d’oie_.

«E la cosa mi riescì a meraviglia. Quando il vestito fu stirato, ed
il volante pieghettato fu rimesso in fondo alla gonnella, mia madre mi
fece delle lodi per la mia abilità. Mi diceva:

« — Sei una figliola industriosa; sai figurare senza spender quattrini.

«Andrea invece, quando mi vide con quella nuova abbigliatura, ed udì la
storia della mia abilità, disse:

« — Io non capisco che utilità ci sia a parere di più di quello che
siamo.

«E non mi fece nessun elogio.

«Quella sera ancora fui molto circondata e potei fare soltanto un
ballo o due con mio cugino. Ma mi avevano trovata tutti così bizzarra,
per aver adottato quel colore degli abiti maschili, che io ne ero
lusingatissima; e, del resto, ci mettevo dell’amor proprio a potermi
far preziosa con lui. Non mi pareva mai d’aver riscattata abbastanza
l’umiliazione di quella seconda sera, quando, vedendomi trascurata,
m’aveva fatta ballare per compassione.

«Almeno io aveva creduto che fosse per compassione.

«Incoraggiata dai risultati ottenuti, per l’ultimo ballo rilavai il
vestito e, sempre con lo stesso metodo, m’ingegnai a dargli un nuovo
colore. Questa volta lo bagnai nel caffè e gli diedi una forte tinta
di tela greggia, che allora si chiamava color nanchino. Con due o tre
lire di spesa vi aggiunsi una cintura rossa, e fu ancora una serata
trionfale per me.

«Quella sera la mamma osservò che, con Andrea, non avevo ballato
affatto. Neppure una volta. Ma io me ne consolai. Chissà quanto doveva
aver sospirato d’avermi, senza trovarmi mai libera! Doveva ammirarmi
tanto più, dacchè m’aveva veduta tanto ricercata da tutti.

«Finito il carnovale non si parlò più di divertimenti, e si tornò alla
solita vita casalinga.

«Andrea si vedeva di rado; ma era molto occupato nella farmacia; si
capiva che non gli rimanesse tempo d’andare in giro.

«Non gli mancava più che un’ultima rata del pagamento per diventare
proprietario.

«La mamma diceva a mio padre:

— «Sono sicura che, appena avrà finito di pagare la farmacia, verrà a
domandarci la Giovannina.

«Ed il babbo rispondeva:

— «Io non desidero di meglio. È un bravo giovane. Ha cuore ed
intelligenza. Farà una bella strada.

«Quanto a me non dicevo nulla; ma pensavo anch’io che verrebbe, e mi
rallegravo di aver tanto brillato a quelle feste, pensando che lui
doveva rammentarmi così elegante e corteggiata.

«Ma passarono dei mesi. Andrea continuò a farci delle visite
settimanali, senza mai fare la menoma allusione al pagamento della
farmacia, nè al suo proposito di crearsi una famiglia.

«Verso la fine di giugno ci preparammo a partire per un paesucolo
vicino a Novara, dove s’aveva una casetta e poca terra, e dove s’andava
ogni anno per badare ai raccolti e per fare un gran bucato annuale, non
per villeggiare nè per cura climatica, perchè era una brutta campagna,
tutta circondata di risaie che ammorbavano l’aria.

«La vigilia della nostra partenza Andrea venne a salutarci, e la
mamma lo trattenne a pranzo, sperando che dicesse qualche cosa. Questa
speranza me la comunicò più tardi; ma io l’avevo indovinata subito,
perchè era anche la speranza mia.

«A tavola Andrea disse, guardando sul piatto vuoto, come se gli facesse
pena di guardare in faccia qualcuno di noi.

— «Sa, zia? Ho cominciato a studiare seriamente le scienze naturali.
Voglio doventar professore e dedicarmi all’insegnamento.

«La mamma capì, come l’avevo intuito io stessa, che quegli studi serii,
nei quali sarebbe tutto assorbo per un tempo relativamente lungo,
distruggevano que’ suoi primi propositi che ci avevano lusingati, e ne
prendevano il posto; ed esclamò:

— «Oh! e la farmacia?

— «Ho preso con me un buon praticante; così avrò tutto il tempo di
studiare.

«Mio padre fece la sua osservazione da uomo pratico.

— «Ti sei assunta questa spesa, prima di aver finito il pagamento della
farmacia?

«Andrea rispose, sempre cogli occhi sul piatto, e facendosi rosso, ed
asciugandosi la fronte sudata:

— «Il praticante mi costa poco; soltanto il vitto e l’alloggio; ed
il pagamento è compiuto fin da questo carnovale... Misericordia, che
caldo!

«La mamma guardò me, che ero tutta agitata, e mi disse d’andare a far
il caffè. Poi quando fui uscita, riprese il discorso con intimità da
parente:

— «Allora non ci pensi più a crearti una famiglia, come dicevi?...

«E lui brusco brusco:

« — Per ora no.

«Si alzò in piedi, girò per la stanza come se volesse uscire, poi
fermandosi dinanzi alla finestra, e sporgendosi in fuori come per
cercare un soffio d’aria, disse ancora:

— «Voglio prendere gli esami, e doventare professore di fisica o di
botanica; e si sventolava con la pezzuola.

— «Ma perchè? Non avevi già scelta una professione? Non vuoi più fare
il farmacista?

— «Sì: ma ho bisogno di occupare la mente, di fare qualche cosa di più.
La vita della farmacia mi rattrista...

«In quel mentre entravo col caffè.

«Si parlò d’altro, poi ancora di quegli studi che Andrea si proponeva;
poi egli si alzò per andarsene, dicendo che faceva troppo caldo a star
rinchiusi, che aveva bisogno d’uscire a respirare un po’ d’aria.

«Mio padre nel salutarlo gli disse:

— «Dacchè hai un praticante, potrai andare qualche volta da mia moglie
a Caltignaga. Non c’è buon’aria, ma è meno caldo che in città... almeno
la sera.

«Andrea esitò un minuto, poi rispose:

— «No; grazie, zio. Debbo studiare; quest’anno non potrò venire neppure
la domenica con lei.

«Allora la mamma, che, come tutti noi, vedeva benissimo che voleva
evitarci ad ogni costo, s’avviò verso la sua camera, dicendo:

— «Vieni qui un momento. Ho dimenticata una commissione, e domattina si
parte presto. Mi farai il favore di farla tu...

«Andrea la seguì, e stettero circa un quarto d’ora.

«Io sentii che qualche cosa di doloroso mi era accaduto; sentii
che quel cugino buono, intelligente, pieno di buone intenzioni e
che prometteva tanto per l’avvenire, si era staccato da me; che non
dovevo più considerarlo, come l’avevamo considerato fin allora, il mio
fidanzato, il compagno del mio avvenire.

«Compresi che facevo una gran perdita, e sentii come uno schianto al
cuore.

«Incrociai le braccia sulla tavola, chinai il capo sulle braccia, e
piansi in silenzio.

«Mio padre passeggiò un tratto su e giù per la stanza, sbuffando contro
il caldo, come se quello fosse il suo solo pensiero; poi, sfiorandomi
il capo con la mano, mi disse:

— «Via, non crucciarti. Ne capiterà un altro! Mi dispiace anche a me,
perchè era un buon partito. Ma si vede che non ci pensava. Abbiamo
preso un granchio.

«Quella riflessione aggiunse una puntura di amor proprio al dispiacere
che provavo già. Pensai ai commenti delle mie amiche e dei nostri
conoscenti, i quali avevano indovinato di certo i nostri disegni su
Andrea, che noi non ci davamo molta briga di nascondere.

«Dopo un tratto sentii tornare la mamma, che disse subito con un po’ di
risentimento:

« — Mia cara; non è il caso di piangere, ma di picchiarsi il petto e
dire _mea culpa_. Sai perchè ha smessa l’idea di sposarti? E l’aveva,
sai? me l’ha detto. Per i tuoi tre vestiti, cioè per i tre colori del
tuo vestito di questo carnovale. Dice che hai dimostrato un’ambizione
che lui non sarebbe in grado di soddisfare; e, per quanto cercassi di
fargli capire che non si è speso nulla per quei vestiti, che anzi sei
stata industriosa, ed hai saputo figurare bene con poco, non volle
saperne. Mi rispose:

— «Quella è un’industria pericolosa, zia. Per me, che si sia speso
o no, non cambia nulla alla cosa. Ho veduto che mia cugina ama la
società e l’eleganza del vestire; e questo è contrario ai miei gusti
ed ai miei principii. Ho sempre pensato di trovarmi una moglie che
si contenti dello stato in cui l’avrò posta, non per far atto di
doverosa rassegnazione, ma spontaneamente, per modestia di carattere,
per semplicità di gusti. Invece ho veduto che i gusti della Giovannina
sono differenti. Si compiaceva di essere elegante, o di parere, che
per me è la stessa cosa; si compiaceva d’essere ammirata, corteggiata.
Il vivere senza queste soddisfazioni le costerebbe un sacrificio,
un atto d’abnegazione, che farebbe forse volentieri per me, ma che
sarebbe sempre sacrificio ed abnegazione. E questo io non lo voglio,
perchè fa fare a me la parte del tiranno, ed espone lei al rischio
di pentirsi più tardi. Dal canto mio non potrei mai rassegnarmi a
quella vita esteriore e leggiera, e se volessi farlo per lei, anch’io
m’imporrei un sacrificio, e correrei il rischio di pentirmene. Alla
nostra età la vita può essere ancora molto lunga, e non bisogna esporsi
al pericolo di renderla infelice all’uno e all’altra. La Giovannina
troverà facilmente un giovane meno orso di me, il quale sarà felice di
avere una moglie, che fa bella figura in società, che si fa ammirare; e
si sposeranno, e, non dovendo nessuno dei due far violenza ai proprii
gusti, andranno perfettamente d’accordo. E quanto a me, se più tardi,
molto più tardi, mi stancherò d’esser solo, farò lo stesso anch’io;
cercherò una giovane che si diverta semplicemente, modesta come me, e
che non debba imporsi nessun sacrificio per accettare la situazione che
potrò offrirle.»

                             . . . . . . .

La signora Giovannina stette un tratto pensosa, e sospirò come se
rimpiangesse ancora dopo cinquant’anni, quel buon matrimonio andato a
monte. E forse lo rimpiangeva davvero, perchè la sua vita doveva essere
stata molto arida e triste.

La Giuseppina osservò:

— Però, quella volta, il nonno è stato cattivo. L’ha punita troppo
severamente.

La signora Giovannina si scrollò tutta con grande energia, e rispose:

— Ma no, ma no! Lui non l’ha fatto per punirmi, nè per atteggiarsi a
giudice. Ha dovuto sopportare anche lui le conseguenze di un errore
della mia educazione. I miei genitori erano stati deboli, per cieco
affetto, e non mi avevano corretta a tempo della mia vanità; io, giunta
ad una età ragionevole, invece di considerare il male che poteva farmi
quella tendenza, creandomi dei gusti e dei bisogni non adatti al mio
stato, assecondai la mia inclinazione, e, realmente, se allora avessi
sposato Andrea, sarei stata infelice di non poter più sfoggiare dei
bei vestiti, e di non essere ammirata e complimentata in società. E la
mia infelicità avrebbe reso infelice lui. Fu una disgrazia per me, ma
lui ebbe ragione di non sposarmi. E, vedete, nessun altro mi domandò.
Rimasi zitellona. Forse appunto perchè tutti mi trovarono molto vana,
per una giovane della mia condizione.

Noi comprendemmo che tutto questo era vero, e, senza più parlare
del famoso vestito rosso, andammo a quelle due festicciole col
nostro vestito da estate di lanetta bianca e verde, che ora farebbe
rabbrividire certe nostre giovinette pretenziose ed inspirerebbe loro
chissà quanti epigrammi maligni.

E ci divertimmo allegramente, ballando fra noi ragazze quando i
ballerini non venivano a prenderci.

Però quel giorno, mentre la signora Giovannina era andata a mettersi il
cappellino per accompagnarci a casa, la Giuseppina mi disse:

— Dicevi bene, dianzi a casa, Maria. Tutti i nostri ideali sono
destinati a svanire in una storiella.

E tutte e due sospirammo con grande rammarico.




_Come il nonno prese moglie_


Quel gran disinganno della signora Giovannina ci aveva richiamata
alla memoria la prima moglie del nonno, morta da molti anni, e che noi
naturalmente non avevamo mai conosciuta.

Ma avevamo udito ripetere in casa e fuori che era una gobbina, alta
appena un metro, e che non usciva mai di casa. In sedici anni circa che
aveva vissuto col nonno, non era uscita più di otto o dieci volte, in
carrozza.

Perchè mai il nonno aveva sposato quel povero essere deforme? Lui
doveva essere stato bello nella prima gioventù. Certo era alto, molto
alto, ben proporzionato, forte, cogli occhi buoni ed i lineamenti
regolari. Tutto questo si vedeva ancora ad ottantasei anni.

Ed anche la signora Giovannina, la sua prima passione, era stata bella.
Ne portava le traccie nelle linee correttissime del volto, nella
persona alta e svelta. E poi, il nonno stesso ce l’aveva detto più
volte.

Come mai era poi andato a scegliere quella sposa disgraziata?

Ci pensammo tanto, che alla fine, non potendo più frenare la curiosità,
domandammo alla signora Giovannina com’era andata quella cosa strana.

Era un pomeriggio d’estate quando le facemmo quella domanda.

Eravamo tutte e tre alla cascina del nonno, che noi ragazze chiamavamo
per affettazione «la villa» quando però il nonno non udiva.

Si stava sedute sopra una panca di legno, addossata al muro esterno
della casa civile, la quale era poco più civile di quella rustica.

Dinanzi a noi si stendeva una striscia di terreno lunga e stretta
come una strada maestra, tagliata fuori dalle praterie e dagli orti, e
fiancheggiata da due viali.

In quella striscia crescevano alla rinfusa delle dalie d’ogni colore,
delle ortensie, dei gigli, delle peonie, fiori ed arbusti comunissimi,
che costituivano tutte le bellezze del nostro giardino.

I viali laterali erano fiancheggiati da piante di calicanto, di
persicaria, che il nonno chiamava sempre polygonum persicario in
memoria della cattedra di botanica che aveva occupato per molti anni,
di lilla e di altri alberi ed arboscelli fioriti, che chiudevano il
giardino come in una fitta siepe, separandolo dal resto del fondo.

Nel viale di destra vedevamo il nonno, con una vecchia giubba nera,
ed un vecchio cappello a tuba grigio, avanzi della sua guardaroba di
città, che egli faceva servire come costume di campagna, per misura
d’economia.

Camminava lentamente, allontanandosi da noi, colle mani dietro la
schiena, e con in mano il falcetto che luccicava al sole.

Tratto tratto alzava il braccio destro armato di quell’arma innocente,
spiccava con un solo colpo un ramo troppo sporgente, poi riprendeva la
sua positura colle mani di dietro incrociate, e tirava via a camminare
canticchiando certe sue tre note, stonate ed invariabili.

«Hum! Hum! Hum!»

Quel giorno eravamo troppo distanti per udire le note, ma conoscevamo
le sue abitudini, e ci pareva di udirle.

La signora Giovannina strinse le labbra ed alzò il mento, accennando il
nonno, e, cogli occhi fissi in quella larga schiena diritta, rispose:

«Perchè è sempre stato buono come un santo. Ecco perchè ha fatto quel
matrimonio!

Noi non parlammo, perchè avevamo sorpreso nella voce della signora
Giovannina un certo suono gutturale, che ci aveva imbarazzate.

E lei pure s’era interrotta, un po’ mortificata di quella commozione.

Si diede una gran scrollata, come per scuoterla via, poi cominciò
a raccontare, parlando a scatti, col suo accento asciutto, che quel
giorno stonò più volte col senso pieno di calore delle sue parole.

                             . . . . . . .

«Quella povera gobbina, era figlia di certi signori Ripamonti, lontani
parenti di Andrea.

«Erano tre figliole e quattro maschi.

«Le figlie erano maggiori dei fratelli.

«Le due prime erano sane e belle. La terza era stata colpita a dieci
anni da un’artritide deformante, che l’aveva ridotta in uno stato
da far pietà: gobba, colle mani contorte e nodose, e quasi inferma.
Soltanto il volto aveva serbato una gran dolcezza d’espressione, ed
una gran gentilezza di linee; ed i capelli biondi erano così lunghi ed
abbondanti, che formavano come un cimiero troppo grave, per quel povero
capino delicato dell’Editta.

«La signora Ripamonti era una buona donna, ma d’un’intelligenza assai
limitata. Era di Biandrate, figlia d’un possidente rozzo, che non le
aveva data nessuna istruzione, oltre quella che aveva ricevuta alla
scuoletta comunale del villaggio, in quei tempi, quando le maestre non
avevano bisogno di diplomi, e ne sapevano abbastanza se riescivano a
scrivere una lettera, ed a fare le quattro operazioni aritmetiche.

«Ripamonti l’aveva sposata, perchè appunto era figlia d’un ricco
possidente.

«Ma quel possidente, che non era una gran testa neppur lui, s’era
sempre lagnato di non aver altri figli che quella ragazza; ed aveva
dichiarato di voler lasciare a lei, soltanto la parte che le spettava
a titolo di legge, e di voler legare il grosso del suo patrimonio ai
discendenti maschi.

«Se sua figlia aveva dei maschi, come era da sperare, essi
erediterebbero la sostanza del nonno materno, coll’obbligo di portarne
il nome, unito a quello del padre: Ripamonti-Pratinelli.

«Se per disgrazia sua figlia non aveva figli maschi, gli eredi
sarebbero i figli d’un fratello di lui, dei veri Pratinelli, due
ragazzoni robusti, che promettevano di godere a lungo i quattrini dello
zio.

«Si può figurarsi con che ansietà il signor Ripamonti, un piccolissimo
proprietario, che cavava appena da’ suoi fondi, tanto da vivere,
aspettasse d’esser padre d’un bel maschiotto, Ripamonti-Pratinelli,
ed anche Gaetano, perchè, per abbondare di cortesia, contava di farlo
tenere a battesimo dal suocero e di dargli il suo nome.

«La sposa pregava il Cielo con fervore che le mandasse un bambino.

«Ma videro invece, e con crescente terrore di tutti, venire al mondo,
una dopo l’altra, tre bambinette.

«La signora Ripamonti le amava, le allattava, ne aveva tutte le cure, e
le trovava bellissime. Ma se ne vergognava, come di tre cattive azioni
che avesse commesse.

«E, certo, suo padre e suo marito le consideravano, se non proprio come
tre cattive azioni, come tre errori; e la facevano responsabile delle
conseguenze finanziarie, disastrose per la famiglia.

«Finalmente, dopo sei anni di matrimonio, quella povera donna
trovò grazia dinanzi a Dio, che le mandò il piccolo Gaetano
Ripamonti-Pratinelli, destinato a richiamare sulla retta via il
patrimonio di suo nonno, che stava per sviarsi. Il fausto avvenimento
fu festeggiatissimo da tutta la famiglia, ed il bambino divenne
l’idolo, l’arbitro della casa.

«A due anni, quel piccolo despota, si ammalò gravemente di morbillo,
e fu lì lì per tornare al limbo dal quale era partito. Fu una tale
ansietà, un tal terrore, che per poco non morirono tutti i Ripamonti,
di quella sua malattia.

«Le cure assidue, amorosissime della madre, contribuirono molto a
salvarlo. Però era ridotto come un cadaverino, ed il medico ripeteva:

« — Ora io ho finita la mia parte. Il resto lo deve fare la mamma.
È la sola che possa assisterlo con tutta l’attenzione, con tutta la
devozione che si richiede. Avrà una convalescenza lunga e difficile
assai. La menoma inavvertenza, un soffio d’aria, un boccone che mangi
più del bisogno, possono mandarlo all’altro mondo da un’ora all’altra.

«La povera mamma non si risparmiava di certo, ed era disposta a
rimetterci la vita, pur di guarire il piccolo ammalato.

«Ma sgraziatamente il male era contagioso, o dopo alcuni giorni ne fu
colpita anche lei molto gravemente. Si fece un consulto, ma i medici
tentennavano il capo e davano poca speranza. Ed intanto il bambino,
invece di riaversi, rimaneva abbattuto, languido, con un resto di
febbriciattola che non si poteva sradicare.

«Quando si vide perduta, la povera donna s’impaurì, non tanto per sè
quanto per quel piccolo essere, tanto necessario all’avvenire della
famiglia, alla felicità di suo marito e di suo padre.

«La sua mente piccina si smarrì a quell’idea tremenda che, morta lei,
anche il bambino, al quale erano indispensabili le sue cure materne,
morrebbe, lasciando la casa nella disperazione e nella rovina.

«Sotto quell’incubo pauroso, ella fece un voto strano, inaudito, quasi
incredibile.

«Giurò di offrire al Signore tutte e tre le sue figliole, di farle
monache, se otteneva la grazia di guarire, per curare il piccolo
Gaetano.

                             . . . . . . .

Noi interrompemmo il racconto della signora Giovannina, per esclamare
con indignazione:

— Ma era una cattiva madre!

— Una donna senza cuore!

— Un’egoista!

La signora Giovannina stette zitta un lungo tratto, chiudendo quasi
gli occhi, e stringendo le labbra, come per fare violenza a sè stessa
e trattenere le parole che le venivano in bocca. Poi disse con molta
fermezza:

— No. Anch’io ho pensato come voi alla vostra età, ed ho giudicato
quella donna severamente. Ma ho fatto male. Più tardi dovetti
riconoscerlo. Fu sempre per le sue figlie una madre affettuosa, le
allevò colla massima tenerezza; guai se si ammalavano, se alla scuola
subivano qualche piccola ingiustizia; era sempre pronta ad assisterle,
a difenderle con una parzialità affatto materna. Quando l’Editta fu
colpita dall’artritide che durò più d’un anno nello stato acuto, poi
prese un carattere cronico, la mamma abbandonò ogni cosa per curarla
giorno e notte, non risparmiò nè fatiche nè veglie, tutti la videro
soffrire, agire ed amare come una vera e buona madre.

Io risposi:

— Però deve ammettere che, quelle povere figlie, le amava molto male, e
le sacrificava. Lei non aveva diritto di disporre della loro vita.

— È vero. Ma era semplice di mente. Queste cose che tu dici non le
sapeva. Siccome il privarsi delle sue figlie era un sacrificio, un
dolore anche per lei, non poteva immaginarsi d’essere egoista. Chi non
sa di fare il male è come se non lo facesse. Credete a me, ragazze,
non abbiamo diritto noi di erigerci a giudici. Io ho compreso questo,
quando ho veduto Andrea, quel giovane buono ed onesto, troncare ad
un tratto tutte le mie speranze, il mio avvenire di donna, per una
questione di principii giusta a’ suoi occhi, ma troppo severa. Ho
compreso allora che si può far male ad altri senza essere cattivi, nè
colpevoli:

Mia sorella disse:

— Oh è stato cattivo, sì, quella volta il nonno con lei. È stato
crudele. Io non glielo posso perdonare.

E la vecchia, con un accento secco, come di stizza, rispose:

— Ed io sì. Voi siete giovani. Non sapete. Ma quando si vede che una
persona è buona, giusta, onesta in tutta la sua vita, non si deve
giudicarla per un atto solo che sembra crudele. Può essere soltanto uno
sbaglio; e può essere che noi non lo comprendiamo e che sia un atto
buono, nel fine o nell’intenzione. Il nostro cuore di donna ci porta
a stimare barbare le madri spartane, che spingevano i loro figli in
guerra, e non piangevano quando erano morti. Invece pare che fossero
migliori delle altre madri, grandi addirittura. Siamo noi povere
donnette semplici, che non le comprendiamo. Forse al mondo non vi sono
vere cattiverie; vi sono soltanto degli errori.

La signora Giovannina finì quel discorso mite, che aveva detto
coll’asprezza d’una invettiva, e rimase assorta in quelle riflessioni,
che chissà quanta parte avevano occupata nella sua povera vita
solitaria.

Io era stupita, come se la vedessi e la udissi per la prima volta.

Non avrei mai supposto che quella vecchia zitella, priva di coltura,
piena di piccole manìe, fosse capace, per sola intelligenza e nobiltà
d’animo naturali, di quelle due virtù tanto grandi e pie:

Essere indulgente, e non giudicare il prossimo.

Sono le più difficili delle virtù umane.

Il perdono, la dolce virtù del perdono, che Cristo ci comanda e ci
insegna, non è che una riparazione per chi ha mancato a queste altre.
Chi ha commesso l’atto di superbia di giudicare arbitrariamente un suo
simile, deve poi espiarlo, perdonando la colpa che gli ha imputato.

Ma l’uomo umile e giusto, che dice: — «Io non posso giudicare le azioni
d’un altro, perchè non gli vedo nel cuore; perchè, forse, anche facendo
quanto a me sembra male, ha delle intenzioni buone», — quel giusto, non
ha bisogno di perdonare.

Queste cose che ora dico, allora le sentivo soltanto. Ed ammiravo
quella vecchia semplice e sfortunata, che in tanti lunghi anni di vita
senza gioie, non le aveva rinnegate.

La signora Giovannina dovette darsi una scrollata famosa per
riscuotersi da quelle idee filosofiche. Tutti i suoi abiti, i nastri,
le gale, svolazzarono; la panca tremò, e noi saltammo sulla panca, come
se ci fosse il terremoto.

Poi ella riprese a parlare in fretta, come per farci dimenticare quegli
sfoghi di sentimento e quei voli di pensiero, dei quali, nella sua
timidezza selvatica, si vergognava.

                             . . . . . . .

«La signora Ripamonti guarì, e potè allevare quel primo erede
Pratinelli, e due altri che vennero poi, a garantire solidamente alla
famiglia il possesso della sostanza materna.

«Ed intanto, accanto ai fratelli ricchi, crescevano le sorelle povere.

«Le due maggiori erano già al Sacro Cuore per esservi educate, e per
avvezzarsi a quell’ambiente nel quale dovevano passare tutta la loro
vita.

«La povera Editta, a quindici anni, ne dimostrava appena dieci.

«Camminava con difficoltà, era incapace di qualsiasi lavoro, aveva
bisogno di un’assistenza continua.

«Quando sua madre, l’aveva trasportata a Trecate per farla ammettere
al Sacro Cuore come educanda, aveva ricevuto un rifiuto formale,
irrevocabile.

«E, non solo non poteva esservi ammessa come educanda, ma non potrebbe
neppure, più tardi, entrarvi come monaca professa. La sua infermità la
escludeva dalla vita monastica.

«Allora la coscienza timorata della signora Ripamonti cominciò ad
inquietarsi.

«Nel suo voto solenne aveva promesse al Signore tutte e tre le sue
figlie; ora dandone due soltanto, si sentiva spergiura.

«Cosa sarebbe di lei, cosa sarebbe de’ suoi figlioli, e di quella
figlia stessa, in questa vita e nell’altra? Era continuamente
tormentata da scrupoli religiosi, atterrita dall’idea delle punizioni
soprannaturali che la minacciavano.

«La Editta, che colla sua infermità la obbligava a trasgredire un voto,
divenne ai suoi occhi un oggetto di repulsione; era al tempo stesso
causa e rimprovero della sua colpa.

«L’eccitazione della povera donna raggiunse il grado d’una idea fissa,
d’una manìa. Ella non parlava più d’altro, e colle sue lagnanze, come
coi silenzi feroci, rimproverava continuamente all’inferma la sua
disgrazia, e le conseguenze orrende che, secondo lei, ne dovevano
derivare.

«Quando ebbero compiuta la loro educazione nel Sacro Cuore, le due
sorelle maggiori tornarono in casa per passarvi un anno prima di
prendere il velo. Tutte e due, ma specialmente la Delfina, la maggiore,
furono prese da un’immensa pietà per la loro giovane sorella, sulla
quale pesavano due grandi miserie: l’infermità, e l’ingiustizia della
madre.

«Le due educande tentarono ogni mezzo per far ragionare la signora
Ripamonti; ma la sua scarsa intelligenza, l’ignoranza, il fanatismo
religioso, l’avevano ridotta in uno stato d’irritazione vicino alla
demenza.

«Neppure il suo confessore riesciva a toglierle dalla mente quello
strano scrupolo del voto trasgredito.

«In quel tempo, Andrea, che prima frequentava poco quei lontani
parenti, era diventato il più assiduo di casa Ripamonti.

«Aveva posti gli occhi ed il cuore sulla Delfina, la bella bruna
malinconica, dai grandi occhi azzurri. Egli, che non era mai entrato
nelle confidenze della famiglia, sapeva vagamente, come tutti lo
sapevano a Novara, che le due sorelle Ripamonti erano destinate a farsi
monache; ma non poteva immaginarsi a che punto la madre fosse tenace e
irremovibile in quel suo proposito.

«Appena comunicò alla Delfina la sua intenzione di domandarla in
isposa, e di cambiare il suo destino, lei gli tolse ogni illusione,
perchè non gli riescisse più amaro il disinganno.

«Per la madre era una questione di coscienza, ed il contrariarla
avrebbe finito di farla impazzire. Il nonno Pratinelli era imbecillito
da qualche anno e non poteva più esercitare nessuna influenza sulla
figlia. Ed il signor Ripamonti aveva troppo desiderati ed aspettati gli
eredi maschi, per non aver aderito, fin dal principio, al voto di sua
moglie. Dunque non c’era speranza di revocarlo.

«Del resto, a quei tempi, erano molto frequenti i casi di fanciulle che
prendevano il velo, anche senza averne la vocazione, per considerazioni
di famiglia. E quel caso delle Ripamonti non suscitava l’indignazione
ed il compianto che susciterebbe ora.

«Andrea e la Delfina erano due anime forti: videro che il loro
matrimonio era impossibile, e si rassegnarono colla tranquillità delle
anime forti. Andrea aveva condivisa con le due educande la grande pietà
per la povera Editta, e le aveva posto affetto come ad una sorella
infelice.

«Mancavano pochi giorni alla vestizione delle due novizie. Il signor
Ripamonti pensò che la presenza continua di quel giovinotto in casa,
e le sue occhiate amorose e meste alla Delfina, potrebbero mettere la
ribellione nel cuore della sua figliola, e suscitare nella sua triste
famiglia altri guai, oltre a quelli che la funestavano già.

«Quella sera stessa, quando Andrea si congedò, egli uscì ad
accompagnarlo un tratto, e, quando furono in istrada, lo pregò di
sospendere le sue visite, finchè le due monache fossero partite pel
loro mesto destino.

«Senza un saluto, senza una stretta di mano, Andrea si vide separato
dalla Delfina, per non rivederla mai più. Se almeno il signor Ripamonti
avesse parlato due ore prima! Avrebbe potuto darle un ultimo addio...

«Questa riflessione Andrea la fece nel suo cuore; ma obbedì al padre
della Delfina. Era troppo onesto per ribellarsi a quell’ordine o per
eluderlo coll’astuzia. Ne sofferse molto. Ma se l’onestà non costasse
nessuna pena, non sarebbe tanto rara.

«La farmacia d’Andrea era in fondo al corso di porta Milano. La
carrozza che doveva condurre le due monache a Trecate al Sacro Cuore,
doveva necessariamente passarle davanti. Il giorno della partenza era
stato fissato da un pezzo, ed Andrea lo conosceva.

«Quella mattina abbandonò le polverine, le pillole, i decotti al suo
praticante, ed appena ebbe aperta la farmacia, si mise in sentinella
all’ingresso. Prese il caffè là fuori. Rinunciò a far colazione per non
abbandonare il suo posto, ed aspettò pazientemente, ore dopo ore, per
vedere un’ultima volta gli occhi azzurri della Delfina.

«Finalmente, verso le undici, vide venire da lontano la carrozza da
nolo, una miserabile timonella, che il signor Ripamonti guidava stando
a cassetta.

«Le due fanciulle erano sedute di dentro ai due lati, rincantucciate
contro le pareti della carrozza per non schiacciare la mamma, che era
seduta in fondo in mezzo a loro.

«Come Andrea, anche la Delfina doveva aver pensato a quell’ultima
occhiata, perchè si era messa dalla parte della farmacia, a destra.

«Tutti salutarono Andrea, senza fermarsi. Il signor Ripamonti gli
gridò che lo aspettava a casa la sera dopo, le ragazze chinarono
ripetutamente il capo e sorrisero. La Delfina sorrise più a lungo,
lo guardò fisso, lo salutò colla mano, poi abbandonò il braccio fuori
della carrozza, e lasciò cadere un fogliolino piegato.

«Andrea corse innanzi sulla strada, dove il foglio era caduto, e stette
là a custodirlo finchè la carrozza fu scomparsa.

«Allora, sicuro di non esser veduto, si chinò, raccolse il biglietto,
corse in casa, traversò la farmacia in fretta, e salì a rinchiudersi
nella sua camera.

«Non so se pianse lassù, o cosa fece. Non lo disse mai. Ma certo in
quel breve istante, mentre la carrozza passava, mentre egli salutava
e sorrideva, aveva sentito il suo avvenire spezzarsi, la sua più cara
speranza svanire per sempre.

«Io l’avevo provato un anno prima, per lui, quel dolore. E so quanto è
tremendo per un cuore giovane.

«Il biglietto della Delfina diceva:

      «CARO ANDREA,

  «Io accetto, per obbedienza figliale una vita di sacrificio.
  Accettatela anche voi per sentimento di carità. Sposate la mia
  povera Editta; toglietela a quell’esistenza tribolata, a quei
  maltrattamenti che la uccidono.»

  «È la sola prova che posso domandarvi del vostro amore, e ve ne
  sarò grata, e vi benedirò per tutta la vita, e pregherò per voi.»

                                                         «DELFINA.»

«Andrea esitò qualche tempo.

«Il sacrificio era troppo grande pei suoi venticinque anni.

«Ma una sera trovò l’Editta col capo fasciato; ed il signor Ripamonti
non esitò a dirgli che, un pugno violento della madre, l’aveva fatta
cadere contro un mobile, dove aveva battuta la fronte in mal modo.

«Dopo qualche giorno l’Editta scomparve dal tinello, dove stava di
solito radunata la famiglia. Andrea ne domandò conto alla signora
Ripamonti; ed ella rispose che l’aveva rinchiusa in camera, perchè era
colpevole di sacrilegio.

«Allora Andrea si rammentò la preghiera della Delfina, e si risolvette
al sacrificio eroico. Sposò la povera gobba, per sottrarla alla
persecuzione di quella pazza.

«Ora che si cura prima d’ogni cosa l’igiene, la salute, lo sviluppo
fisico, quel matrimonio sarebbe considerato più mostruoso che sublime.

«Anche allora, molti esclamarono inorriditi:

« — Avranno dei bambini deformi!

«E parlavano dei Greci che gettavano i bambini contraffatti giù dalla
rupe Tarpea, perchè non si moltiplicasse la loro razza disgraziata.

«Può darsi che a forza di discorsi scientifici si possa dimostrare che
avevano ragione.

«Ma Andrea non almanaccò tanto. Fu generoso, pietoso, ed obbedì alla
preghiera della Delfina.

«Grazie alla sua carità eroica, quella povera gobbina visse sedici anni
tranquilla, circondata da cure amorevoli.

«E sua madre, non vedendosela più continuamente accanto, si calmò, ed
evitò il manicomio, al quale l’avrebbe condotta indubbiamente la sua
pazzia religiosa.

«È certo che, se Andrea si fosse veduto crescere intorno una corona
di bambini deformi avrebbe sofferto; si sarebbe anche pentito del suo
eroismo.

«Ma la provvidenza gli risparmiò quella prova. Egli non ebbe figli.
Forse fu quello il compenso della sua buona azione.

«Ad ogni modo, in quel matrimonio, come in ogni atto della sua vita,
Andrea fu nobile, generoso e buono.

  _Nota._ — Questo racconto, che forse sembrerà a molti improbabile,
  è tutto, tutto verissimo, e non vi ho aggiunto del mio altro che la
  forma letteraria. L’AUTRICE.




_Non se ne parli altro!_

EPISODIO NUM. 1


Un giorno dello scorso inverno ero in casa d’una mia amica, la signora
Neris, quando la sua figliola, Emma, tornò dalla lezione di tedesco,
conducendo con sè una compagna, per far insieme il còmpito, che era
molto difficile.

Entrò in sala, e presentò la compagna con tutta disinvoltura.

— Mamma, la signorina Vitta, che ha la bontà di venir a lavorare con me.

Poi, rivolgendosi alla sua amica, riprese accennando noi:

— La mia mamma... La Marchesa Colombi...

La signorina Vitta s’inchinò con un garbo da vera donnina,
s’intrattenne un minuto rispondendo alle domande della signora Neris,
ed appena il discorso accennò a cadere, si rivolse all’Emma, e le
disse:

— Quando vuoi che andiamo a lavorare...

Uscirono dal salotto tutte e due; ma, dopo pochi minuti, la Emma tornò
per prendere la cartella dei libri che aveva dimenticata.

Sua madre, con un pensiero cordialissimo, le disse:

— Puoi trattenerla a pranzo la tua amica, se ti fa piacere.

L’Emma pensò un tratto, poi disse con aria infastidita:

— Bisognerebbe avvertire i suoi parenti...

— Li avvertiremo per mezzo della persona di servizio che verrà a
prendere la ragazza.

— No... Potrebbero non acconsentire, ed allora dovrebbero mandar qui
un’altra volta a pigliarla. Sarebbe un disturbo.

— Si potrebbe mandar la nostra cameriera ora, e domandare il permesso
di trattenere la signorina.

L’Emma non manifestò nessuna soddisfazione, e disse anzi con un fare
sprezzantuccio:

— Ne parli magnificamente, mamma, di questo pranzo. Ma io vorrei sapere
che pranzo c’è.

— Oh, il solito.

L’Emma si mise a ridere, e domandò:

— Fai del proselitismo per la società di temperanza? Confessalo.

Poi soggiunse:

— Dì, davvero; cosa si può aggiungere alle dolcezze della nostra _mensa
di famiglia_?

La signora suggerì: un antipasto, un piatto di mezzo freddo, una crema,
ed una bottiglia di vino dolce spumante.

La figliola crollò il capo disapprovando:

— Si capisce troppo che è un pranzo di ripiego.

La mamma, troppo buona, le disse ancora:

— Ma, se non ti fa piacere, non invitarla, sai. Io lo dicevo per te...

— Sì, a me farebbe piacere... Ma vorrei anche che noi non si facesse
troppa cattiva figura. L’Elisa ha dei gusti molto raffinati.

La mamma osservò:

— Ad ogni modo, non potrà figurarsi che noi facciamo ogni giorno
un banchetto. Dacchè la invitiamo «_à la fortune du pôt_» non può
aspettarsi che un pranzo di famiglia. E, come pranzo di famiglia, il
nostro non è da sprezzare.

— È questo invitare «_à la fortune du pôt_» che non è signorile, quando
il _pôt_ ha delle fortune discutibili come il nostro.

Io stava a sentire a bocca aperta, sbalordita.

Non seppi trattenermi dal domandare a quella ragazza:

— Quanti anni hai, figliola mia?

— Ne avrò presto quindici. Sono vecchia.

— Ma è certo che sei vecchia! Sei ben sicura di non avere trent’anni?

Lei mi rispose con un’aria da scettica:

— Chi è mai sicuro di nulla a questo mondo?

— Ma tu, tu, non senti che hai quindici anni, che sei quasi una bimba,
che hai un babbo, una mamma....

— Oh! babbo e mamma si fanno sentire, se non altro, per farmi dei
predicozzi e per dettare delle leggi!

Diceva questo sorridendo, come per burla, ma, in fondo, si sentiva che
le pesavano le leggi.

Io ripresi:

— Ma nel tuo cuore di fanciulla amata, vezzeggiata, viziata anzi,
non esulta l’allegrezza della gioventù? Dianzi, all’udire che potevi
invitare la tua compagna a pranzo, non hai giubilato? Non hai sentito
un impeto di riconoscenza per la mamma che è tanto cordiale colle tue
amiche?

L’Emma baciò sua madre con aria di protezione, e disse ridendo:

— Oh! la cordialità della mamma non la manda in rovina! Ha sentito che
trattamenti luculliani? Un antipasto, un piatto freddo ed una crema,
abilmente intercalati al rancio del focolare domestico....

E vedendo la sua compagna, che, stanca forse d’aspettarla nello studio,
tornava in sala a cercarla, le disse:

— Giubila, Elisa. Ci si prepara un divertimento sfarzoso; una gioia
pazza. Qui, la marchesa non può darsi pace ch’io non faccia le capriole
per la gioia. Indovina di cosa si tratta.

L’altra rispose subito, con un gesto ed una cera che parevano dire:
«_Transeat a me calix iste!_»

— No, no! per carità! Non posso soffrire i giochi innocenti.
Specialmente gl’indovinelli.

Io pensava che, infatti, co’ suoi _gusti raffinati_, come diceva
l’Emma, doveva essere molto difficile divertire quella ragazza.

L’Emma riprese:

— Ti si invita al nostro pranzo di gala! Alla folle ilarità della
nostra serata di famiglia!

L’invitata rispose con un fare perfettamente cortese:

— Oh grazie. La tua mamma è troppo gentile... Ma mi aspettano a casa.

La signora Neris non osò insistere. L’Emma disse:

— Non è proprio il caso di pregarti, perchè ti annoieresti più che in
casa tua...

L’Elisa alzò le mani e gli occhi al soffitto, esclamando:

— Oh! in casa mia!

Io domandai, sempre più curiosa, e sempre più sbalordita:

— Scusa. Ti annoi anche in casa tua?

Quella signorina dai gusti raffinati, mi guardò, meravigliata ch’io le
dessi del tu senza conoscerla, poi mi rispose:

— Ma quanto! È un abisso, un incubo di noia!

Io ripresi:

— Sei forse sola, senza fratelli nè sorelle?... Scusa sai; io do sempre
del tu alle ragazze. Non ho ancora potuto avvezzarmi a considerarle
persone serie, come siete voialtre.

Ella fece un cenno del capo, graziosamente, per indicare che scusava,
poi esclamò:

— Ma che! Sola! Ci chiamiamo legione! Siamo sei; si figuri!

— Mi figuro che giocherete, che riderete, che vi bisticcerete qualche
volta, e che starete allegri.

— Quanto a bisticciarci, sì, ci bisticciamo spesso. Ma ridere non è
facile. Manca di ilarità la nostra casa. Siamo due sorelle, vestite
tutte e due ad un modo, uguali, minuziosamente uniformi, come due
vasi del Giappone, come due candelabri da caminetto borghese, come
due _pendants_; molto ridicole; ma, sa, il ridicolo fa ridere gli
altri, e noi ci fa quasi piangere. Abbiamo due fratelli in collegio...
studiosi! — Sono cose che capitano soltanto a noi! — Hanno sempre delle
uscite di favore pei loro meriti, e le nostre domeniche le passiamo
tutte a portare in giro per Milano quei due soldatini dotti, in grande
uniforme, che fanno voltar la gente in istrada! Ed il resto del nostro
tempo, quando non si è a scuola, si fanno delle esclamazioni ammirative
dinanzi a Nini ed a Baby, i due piccini, tanto bellini, tanto carini, e
tanto noiosini....

La signora Neris profittò di quella geremiade per dire:

— Ebbene, qui non c’è nè il suo _pendant_ che le fa venir da piangere,
nè i _noiosini_ che strillano. Resti oggi con noi; ci rallegrerà tutti
col suo spirito....

Finalmente la signorina Elisa, con molte smorfiette, lasciò cader
dall’alto il suo consenso, al quale l’Emma fece questo commento, poco
lusinghiero per la sua famiglia:

— Poverina! Come ti compiango!

Io mi sentivo invasa da quello sgomento, da quel sentimento d’un
pericolo prossimo, che m’inspirano sempre l’indifferenza, lo
scetticismo, la mancanza d’ilarità e di gioia nella gioventù.

Da un pezzo i miei poveri vecchi, il nonno e la signora Giovannina,
erano morti.

Confrontando la mia adolescenza, che a quella gente austera sembrava
già pretensiosa e scettica, coll’adolescenza vecchia di queste
giovinette, la mia mi parve gaia come una risata, al paragone. E,
sopratutto, la mia era stata più semplice e meno fortunata.

Profittai d’un’uscita della signora Neris che andò a dare degli ordini
per la sua ospite inaspettata, e feci con quelle ragazze la parte che
faceva il nonno co’ miei fratelli e con me. Cominciai da un predicozzo,
per finire con una storiella.

Ecco il predicozzo:

— Avete troppe soddisfazioni, ragazze. Tutti i vostri desiderii sono
appagati. Non vi resta nulla a desiderare nel campo delle cose semplici
e possibili. Per questo, quando vi capita una cosa piacevole, non la
apprezzate, perchè l’avete ottenuta con troppa facilità, e v’immaginate
delle cose più difficili ad ottenere, e, per conseguenza, ai vostri
occhi, più belle. E così vi create degli ideali impossibili, ed
avete il gusto guasto dalle raffinatezze. Una, non è contenta d’avere
un’amica a pranzo, perchè non può offrirle un pranzo di gala, l’altra
si fa pregare ad accettare, perchè forse non vede la prospettiva d’una
serata elegante...

La Emma m’interruppe con quel suo fare di superiorità un po’ ironica,
che sembrava burlarsi di me:

— Ma perchè, marchesa, s’immagina che invitare un’amica a pranzo sia
una cosa tanto peregrina?

— Perchè a’ miei tempi era, se non peregrina, molto rara di certo,
nella nostra condizione di borghesi non ricchi. Perchè io non ho
mai avuta questa gioia, e tutte le mie compagne, figlie di famiglie
modeste, come la mia, come la vostra, erano, su per giù, nello stesso
caso. Perchè, un giorno, questa soddisfazione che voi disprezzate, io
l’ho desiderata con tutto l’ardore del mio amor proprio compromesso,
della mia parola impegnata...

— E non l’ha ottenuta?

— Non si ottenevano mica molte cose, ai miei tempi! E bisognava
prendere il mondo come veniva. Si borbottava un poco fra noi, qualche
volta si arrischiava una timida protesta; ma si finiva sempre a piegare
il capo alla volontà dei superiori, una volontà indiscutibile ed
inesorabile.

La signorina Elisa osservò con un sospiro:

— Allora dovevano essere anche meno allegre di noi!

— Confesso che cominciavamo già un po’ a prendere gli atteggiamenti da
vittima che prendete voialtre; ma soltanto nei momenti di contrarietà,
e per poco. In generale, eravamo molto più allegre, perchè avevamo
delle esigenze molto più moderate; ed anche quelle, per moderate che
fossero, i nostri genitori ce le sapevano reprimere con fermezza. Ci si
allevava nel sentimento della sommissione.

— Ma era una tirannia!

— Chissà! Anche noi, allora si pensava così. Ma, col tempo, ci ha
risparmiati molti dolori, quella così detta tirannia; perchè ci aveva
avvezzati alle contrarietà della vita, e quando le incontrammo più
tardi, serie ed inevitabili, avevamo imparato a sopportarle senza
debolezza. Non so se voialtre, che a quindici anni discutete un pranzo,
e non lo trovate abbastanza raffinato per meritare d’essere offerto
ad una bimba, che trovate ridicolo vestirvi come le vostre sorelle,
e noioso passeggiare coi vostri fratelli, sapreste, poi rassegnarvi,
da donne fatte, alle limitazioni che impongono le rendite ristrette
o l’avarizia d’un marito, alla privazione d’ogni divertimento, alla
vita affatto casalinga, che tocca a moltissime spose, mentre magari il
marito esce ogni sera e si diverte.

La Emma, che probabilmente si annoiava della piega troppo seria ch’io
aveva data al discorso, osservò, colla confidenza con cui trattava
sempre con me, come con tutti superiori ed inferiori:

— Credevo che questa predica dovesse metter capo ad un raccontino come
quelli del suo nonno...

— Infatti; ma non c’ero arrivata ancora.

— Allora, scusi, sa; ma il suo nonno era meno... era un po’ più
divertente; non faceva delle dissertazioni morali tanto lunghe...
almeno a giudicarne da quanto riferisce lei...

— È perchè io, quando vi ripeto i suoi racconti, ne abbrevio la parte
noiosa.

— Ma è una buona abitudine, marchesa. Badi di non perderla, per carità.

— Profitterò della tua lezione.

E ridendo dell’impertinenza schietta di quella bimba, cominciai a
raccontare.

                             . . . . . . .

«Una delle nostre grandi contrarietà, toccò appunto, a me ed a mia
sorella, per un invito a pranzo.

«Avevamo due amiche, le signorine Liprandi, maggiori di noi di parecchi
anni, molto belle e molto eleganti, che ci davano una gran suggezione,
ma della cui amicizia andavamo molto superbe.

«Alle volte, nell’estate, venivano la sera al cascinino del nonno, che
noi parlando con loro chiamavamo sempre «villa» per darci un’aria un
po’ elegante anche noi; e si mettevano tanto in gala, che a noi pareva
che facessero una gran degnazione girando con quei bei vestiti pei
filari della vigna, e mettendosi in bocca i chicchi dell’uva con quei
guantini attillati e chiari. E quando avevano fatte queste cose, noi
non si finiva d’esclamare:

— «Come sono buone! Come sono semplici! Non hanno nessun orgoglio!

Pareva che si trattasse di due principesse.

Del resto erano buone e semplici davvero, e tolta la manìa di vestir
sempre in gala, avevano le stesse abitudini casalinghe che avevamo
noi, si divertivano facilmente, s’accontentavano di tutto. Ed anche
l’eleganza delle loro tolette, non costava di molto, perchè si facevano
gli abiti loro stesse con un’abilità invidiabile.

«Una volta mia sorella aveva imparato uno di quei lavori di cattivo
gusto che inventano tratto tratto i giornali di moda, e contro i quali
l’arte dovrebbe bandire delle pene severe.

«Si chiamava «_pittura orientale_» e serviva ad imbrattare delle belle
stoffe di seta, con fiori, frutti, augelli, destinati a disgustare per
sempre l’umanità, contro tutte le flore e le faune dipinte, ed a far
piangere all’arte le sue lagrime più amare.

«Le Liprandi, invece di disgustarsi, s’innamorarono di quei delitti di
leso buon gusto, e desiderarono d’imparare a commetterne.

«Era d’estate, e noi avevamo l’abitudine di pranzare alla «villa.»
Ci si andava il mattino dopo la colazione. Si pranzava al tocco; e si
tornava in città la sera a cena.

«Quel giorno che si parlò colle Liprandi, in casa loro, della «pittura
orientale» mia sorella disse:

— «Bisognerebbe che si potesse stare insieme un po’ a lungo, se volete
imparare; almeno tutto un pomeriggio.

«Loro risposero:

— «Noi non domandiamo di meglio; ma come si fa?

«Mia sorella riprese:

— «Potreste, un giorno, venire da noi presto presto, e rimanere fino
alla sera.

«La Giuseppina intendeva presto presto nel pomeriggio; al tocco e
mezzo. Invece le Liprandi, che in casa loro pranzavano alle cinque,
udendo quell’invito che sopprimeva il loro pranzo, credettero che
volesse dire di pranzare da noi; e l’Elena, la maggiore, rispose con
molto garbo:

— «Grazie; grazie tante. Noi accettiamo senza complimenti. Quando
vorrete, potremo esser pronte alle nove del mattino.

«Io provai l’impressione di cadere in un abisso. Sentii istintivamente
che davvero entravo in un ginepraio, dal quale sarebbe stato
difficilissimo uscire.

«Tuttavia, il sentimento della cortesia, ed anche un po’ la vanità di
farla da signorina ricca ed indipendente, che può fare inviti _nelle
sue terre_, mi spinsero a rispondere:

— «Benissimo. Passeremo a prendervi alle nove, ed andremo alla «villa»
insieme; e poi la sera, o la vostra mamma verrà a prendervi, o vi
accompagneremo a casa noi. Nevvero, zia?

«La zia Caterina assentì con un’aria molto spaurita.

«Le Liprandi ci ringraziarono ed approvarono tutto cordialmente. Si
discusse il giorno, e si combinò per il prossimo venerdì. Il posdomani.

«Vi fu un momento di eccitazione e di gioia nel fare il programma della
giornata. Si stabilirono per bene le ore dell’andata, dell’arrivo, del
lavoro, dello spasso in giardino, del pranzo...

«Io mi ubbriacai al punto da dire, come una vera padrona di casa:

— «Mi dispiace che, da noi, si mangia di magro il venerdì...

«E loro dissero che non importava; anzi.... E tornarono a ringraziare.
Poi venne in sala la loro mamma colla parrucca, e ci ringraziò anche
lei, e noi trionfammo coll’aria cortese di due signore, che, possedendo
una villa, potevano permettersi il lusso di far degli inviti.

«Ma, appena fummo uscite da casa Liprandi, la zia Caterina disse:

— «Cosa dirà poi il nonno, di questo invito?

«Noi rispondemmo con due sospiri.

«Pur troppo, l’aria e la luce della strada avevano richiamate anche
noi alla realtà, e ci era entrato un gran freddo nel cuore all’idea di
annunciare al nonno, che, così, di nostra testa, avevamo invitato due
signorine a pranzo.

«In casa nostra, a nostra ricordanza, tolte le zie, ed i parenti che
venivano dalla campagna, non s’era mai invitato a pranzo nessuno.
Neppure la signora Giovannina.

«La zia riprese:

— «Come farete a dirglielo?

«Io sospirai ancora:

— «Ma!

«E mia sorella fece eco con un altro sospiro:

— «Ma!

«Appena fummo a casa raccontammo il caso a nostro fratello, che era
tornato dal collegio per le vacanze:

«Egli fece una gran risata ed esclamò:

— «Brave! Voi le studiate tutte per mettervi negli impicci!

«Si vedeva che lui non sperava nulla di buono. Ma, invece di crucciarsi
come noi, trovava il caso molto buffo, e si divertiva un mondo alle
nostre spalle.

«Io gli domandai tutta costernata:

— «Cosa diresti di fare?

— «Io mi metterei a letto colla febbre... o senza; e, ad ogni modo,
scriverei a quelle signorine che ho la febbre, e che l’avrò per tutto
il resto dell’estate e fino all’autunno inoltrato...

— «Credi proprio che il nonno dirà di no?

— «Io non so. Provate a dirglielo...

«E fece un’altra risata.

«Quella sera, a cena, io mi feci un gran coraggio e dissi forte, come
per parlare al nonno, ma senza guardarlo, e cogli occhi fissi nel mio
piatto:

— «Venerdì verranno le Liprandi con noi al cascinino.

«E mia sorella, vedendomi saltare il fosso così, mi seguì in fretta,
come per non lasciarmi perir sola, e soggiunse:

— «Verranno, perchè abbiamo bisogno di star insieme a lungo. Vogliono
imparare la «pittura orientale...»

«Il nonno, tutto intento a mettere del latte e dello zucchero nella
pasta asciutta, com’era sua abitudine, rispose distrattamente:

— «Bene, bene!

«Poi soggiunse, accennando quegli ingredienti eterogenei:

— «Voi, già, non ne volete...

«Io un po’ per gratitudine di quel «bene, bene!» che mi aveva
incoraggiata, un po’ per la speranza di rabbonirlo e d’indurlo
alla concessione maggiore, mi sacrificai eroicamente, ed inaffiai
abbondantemente di latte il mio piatto di pasta, poi dissi, facendo uno
sforzo per ingoiarne un cucchiaio:

— «È buona!

«Mio fratello, che se la godeva pazzamente, mi volse un’occhiata
derisoria, e suggerì:

— «Mettici anche un po’ di zucchero. _Farà meglio!_

«Avevo il cuore che mi batteva fin in gola.

«La Giuseppina era pallida. Perchè, in sostanza, il più grave non era
ancora detto.

«Ad un tratto Mario, con una gran sfrontatezza, disse forte,
trattenendosi a stento dal ridere:

— «Resteranno anche a pranzo, quelle signorine!

«Io chinai il volto sulle mie povere lasagne natanti nel latte
freddo, sul quale il burro coagulato formava dei dischi gialli; ero
letteralmente soffocata dalla palpitazione. Mi aspettavo una grande
protesta del nonno; magari una sfuriata, sebbene non ne facesse mai.

«Ma non udii nulla.

«Alzai gli occhi a guardarlo, e vidi che sorrideva bonariamente alla
sua minestra inzuccherata.

«E non rispose.

«Era contento? Si doveva considerare quel silenzio come un consenso?

«Fu una discussione che durò tutta la sera sul balcone fra noi tre
ragazzi, mentre il nonno di dentro discorreva colle zie, che venivano
sempre a passare la serata con noi.

«Mario, citando il solito «_chi tace consente_» pretendeva che non si
dovesse parlarne più, e presentare addirittura le signorine Liprandi a
tavola.

«Io inclinavo un poco a questo partito eroico; perchè, insomma, quando
una cosa è fatta, è fatta. Tutt’al più, il nonno ci avrebbe sgridate
dopo; ma intanto, noi non si mancava all’impegno preso; non si faceva
una figuraccia.

«Perchè, quanto a fare il menomo commento scortese dinanzi alle sue
ospiti, per quanto poco desiderate, il nonno non ne era capace. Anzi,
aveva la galanteria de’ suoi tempi colle signore, e biasimava i giovani
moderni, specialmente mio fratello, di non averla.

«La Giuseppina però si oppose a quel ripiego. Temeva che un
atto di meraviglia del nonno, che non poteva mancare dinanzi a
quell’avvenimento nuovo nella storia di casa nostra, facesse capire
a quelle signorine l’irregolarità dell’invito, e le mortificasse,
mortificando anche noi.

«E ripeteva saviamente:

— «No no; esporle ad un’accoglienza equivoca, è assai più inospitale
che non invitarle.

«E Mario, che non perdeva un’occasione di burlarsi della nostra
avventatezza, rispose con aria grave:

— «Ah! Infatti! Io vi consiglierei di _non invitarle_!

«Poi, ad un tratto, senza avvertirci di nulla, entrò un passo dal
balcone, e disse:

— «Sanno, zie? Venerdì vengono a pranzo al Cascinino le signorine
Liprandi.

«La zia Caterina ci guardò, stupefatta. Lei che sapeva com’era andata
la cosa, pareva soddisfatta di vederla accomodata così facilmente.

«Il nonno fece ancora il suo risolino bonario, e disse:

— «Già! Già!...

«Poi riprese a bisticciarsi colla zia Rosa, che gli leggeva forte il
giornale, e che pronunciava Nicotèra, mentre lui voleva che dicesse
Nicòtera.

«Noi, che, fuori sul balcone, avevamo udite quel «_già, già!_» tanto
condiscendente, ci abbracciammo e saltammo di gioia, ridendo piano.

«E dicevamo:

— «Vedi? ci eravamo esagerata la misantropia del nonno.

— «Alle volte ci si figurano le cose più difficili di quello che sono...

«Non avevamo mai amato tanto il nonno come quella sera.

«Mezz’ora prima del solito, io corsi a preparare una sua bibita che
prendeva sempre prima di andare a letto, fatta con acqua calda, limone
e fondo di caffè, e che si chiamava _acqua caffettata_, mentre mia
sorella rientrava in salotto e si metteva a leggergli lei il giornale,
con certi Nicotera tanto sdruccioli, che ruzzolavano come palle, nella
noia dell’articolo di fondo.

«E Mario interruppe la lettura, per offrire al nonno le pianelle ed
il berretto da notte, mellifluamente, a grande stupefazione del povero
vecchio, che lo ringraziò sorridendo di quella strana offerta.

«Però, la mattina dopo, mia sorella tornò a mettere le cose in dubbio.

— «Io vorrei che il nonno ci desse proprio un consenso formale. Se
ho da dire la verità, più ci penso, e più mi pare che abbia preso
quell’invito come una burla.

«E mio fratello anche lui diceva:

— «È quasi certo. Il nonno è furbo. S’è buscato tutte le nostre
gentilezze, il caffè mezz’ora prima, la lettura coi Nicotera
sdruccioli, le pianelle ed il berretto da notte, e l’eroismo
gastronomico della Maria che s’è gonfiata di pasta col latte; e lui
intanto ci ha canzonati.

— «Cosa fare?

— «Cosa fare?

«Mario ci diede un consiglio serio.

— «Andate nello studio e ditegli la cosa francamente.

«Io pregai mia sorella che ci andasse lei, come la maggiore. Ma lei non
voleva; non aveva coraggio. Cercammo di persuadere Mario a pigliarsi
lui quell’incarico, ma protestò energicamente.

— «Brave! Vi buttate in acqua e poi volete ch’io vi salvi. No. No.
Del resto, io non sono il Beniamino del nonno. Vi guasterei l’affare.
Tirate alla pagliuzza fra voi due chi deve parlamentare.

«Preparò lui le pagliuzze. La più corta toccò alla Giuseppina, che si
rassegnò.

«Io presi il vangelo, e mi posi a leggerlo con fervore, implorando
nel mio cuore come una grazia, che mia sorella ottenesse il consenso
desiderato.

«Mario la spinse nello studio, poi si mise in ginocchio dietro l’uscio,
facendo delle grandi smorfie, come se pregasse, e dei segni di croce
per mettere in caricatura me; e picchiandosi il petto disperatamente,
esclamava:

— «Faccio voto d’andare in Terra Santa sulle ginocchia logore de’
miei calzoni, purchè il nonno me ne comperi un altro paio, ed offra un
piatto di maccheroni col latte a quelle belle signorine!...

«Ad un tratto l’uscio dello studio fu spinto con violenza, mandando
Mario a gambe levate; e la Giuseppina uscì tutta rossa, cogli occhi
pieni di lagrime, e disse subito stizzita:

— «Ecco! L’ho detto io, che non se ne faceva nulla! Non ci aveva
nemmeno pensato, lui! L’aveva creduto uno scherzo. Bello scherzo
spiritoso, nevvero?

— «Infatti..., il nonno mostra d’avere un’idea un po’ meschina del
vostro spirito.... Volete che lo sfidi?

«Io interruppi Mario per domandare alla Giuseppina:

— «Ma quando gli hai detto che si diceva per davvero?

— «Quando gliel’ho detto, ha risposto la sua gran parola irrevocabile:
«_Non se ne parli altro!_»

«Infatti, pel nonno, quella era una sentenza senza appello. Sarebbe
stato perfettamente inutile parlargli della nostra parola impegnata,
della nostra mortificazione d’amor proprio, della cattiva figura che si
farebbe tutti!...

«Queste considerazioni, per lui, non avevano importanza. Quando una
cosa non gli accomodava, la metteva addirittura da parte con quella
sentenza inesorabile: «Non se ne parli altro.» E non si curava affatto
delle conseguenze. Crollava le spalle, e sorrideva di compassione alle
nostre suscettibilità, che chiamava leggerezze.

«Ora non c’era altro a fare, che trovar un modo di cavarcela alla
meglio.... o alla peggio.

«Il ripiego della febbre, suggerito da Mario non era effettuabile.
Il nonno non era uomo da permetterci una commedia simile, neppure un
giorno. Era troppo schietto e semplice.

«Se eravamo ammalati ci faceva curare con premura. Ma non tollerava
smorfie, nè finzioni.

«Bisognò rassegnarsi, e scrivere semplicemente alle signorine Liprandi,
che in causa di certi affari del nonno, che lo trattenevano in città,
s’era dovuto smettere d’andare a pranzo «alla villa» per cui il domani
non potevamo andarle a prendere per la partita combinata.

«Era assurdo, perchè in tal caso, avremmo dovuto pregarle di venire
ad imparare la famosa pittura orientale a casa nostra in città, e di
rimanere a pranzo con noi egualmente.

«Quelle signorine capirono che questa seconda parte del biglietto
mancava per qualche ragione. Tanto più che a noi non venne neppur in
mente la temerità inaudita, di proporre al nonno di rinunciare ai suoi
cari pranzi del Cascinino per accomodare quel nostro pasticcio; e si
continuò ad andar fuori il mattino, per non tornare che la sera.

«Per conseguenza le Liprandi, non potendo immaginare il vero motivo
della nostra scortesia, la semplice avversione del nonno ad ogni
specie di novità, si offesero, e non vennero più a vederci. Tanto, che
credemmo d’aver perduta per sempre quell’amicizia che era la nostra
gloria.

«La ricuperammo invece in un’altra circostanza, che fu un vero trionfo
per noi. Ma un trionfo breve. Il regno dei cento giorni.

                             . . . . . . .

L’Emma e la sua amica erano state a sentire la mia storiella, con
un’attenzione benevola da signorine bene educate, e si erano degnate di
far bocca da ridere alle burle di Mario ed al nostro imbarazzo.

Quando però, alludendo a quell’altra circostanza, feci capire che c’era
una seconda storiella da dire, la Emma, con una premura, che non oserei
dire se fosse di desiderio o di sgomento, ma inclino a credere di
sgomento, mi domandò:

— E vuol raccontarci anche quella, marchesa?

Io non mi lasciai scoraggiare e risposi:

— Sì, voglio raccontarla, perchè gioverà a farvi apprezzare quanto
valgono i divertimenti che i nostri genitori vi procurano, e che voi
vi pigliate con indifferenza, come cose che vi siano dovute, perchè
non ne avete mai provata la privazione. Giacchè la Elisa si ferma
qui a pranzo, domanderò anch’io da pranzo alla tua mamma, per potervi
raccontare questa sera la storiella Num. 2.

Le due signorine, sempre ben educate, fecero «_a mauvais jeu bonne
mine_» e mi ringraziarono.




_Non se ne parli altro!_

EPISODIO NUM. 2


Quelle gite quotidiane, inesorabili, che si dovevano fare al Cascinino,
con qualunque tempo ed in qualunque stagione, erano, alle volte, molto
uggiose.

«Nell’inverno specialmente, quella spedizione era seccantissima per
noi, e si faceva a gara a chi non andrebbe.

— «Io debbo finire un ricamo....

— «Io debbo fare un esercizio di francese....

«Ma il nonno non ci menava buone quelle scuse. La gioventù, secondo
lui, aveva sempre bisogno di moto; al moto si doveva sacrificare ogni
cosa....

«In sostanza credo che, oltre al nostro moto, gli premesse anche d’aver
compagnia nella sua passeggiata, sebbene non parlasse quasi mai. Perchè
il nonno amava raccontare, ma non conversare.

«Ad ogni modo, non voleva andare al Cascinino solo nella sua seconda
gita del pomeriggio. Ci si rassegnava nella prima, che faceva il
mattino dalle dieci alle dodici, perchè le zie trovavano che, per due
ragazze giovani, sarebbe stato sconveniente uscire due volte nella
giornata, a meno che una fosse per andare in chiesa.

«S’erano dunque accomodate le cose alla meglio, alternandoci, e facendo
un giorno per ciascuna ad andare al Cascinino, durante i tristi mesi
dell’inverno novarese, rigido, umido, nevoso.

«Si camminava nella neve, sul ghiaccio, nel fango.

«La casa era chiusa. Il nonno apriva; s’entrava nella sala buia, si
spalancavano le imposte, e s’accendeva il fuoco nel camino.

«Quella vampata era la gioia del nonno ed il nostro tormento, perchè
toccava a noi toglierci i guanti, e, vestite da passeggio, romper la
legna e fare il fuoco.

«Una volta ch’io m’ero provata a chiamare la contadina, il nonno mi
aveva dato sulla voce: «che non ero una principessa, e che una ragazza
doveva esser sempre pronta a tutte le occupazioni casalinghe, anche le
più modeste....» Una ramanzina che era durata un quarto d’ora.

«E non bastava di farla la vampata, bisognava anche goderla, come
diceva lui, bruciandosi il viso al fuoco e gelandosi il dorso in
quella così detta sala, che era una stanzaccia terrena, con delle
finestre alte alte, alle quali s’arrivava appena salendo in piedi ad
una sedia, ed ingombra d’una tavola quadrata, tanto larga, che a stento
si poteva girarle intorno. Una tavola tutta screpolata, vacillante,
scricchiolante, minacciante rovina; perchè il nonno, che aveva la
passione del ferro vecchio, una vera manìa, andava comperando a tutte
le fiere, sui banchi dei rigattieri, agli incanti, una quantità di
serrature arrugginite, di catenacci, di chiodi, di chiavi, di viti; e
ne aveva, col tempo, talmente riempita la cassetta di quel tavolone,
che un bel giorno s’era sfondata sotto il peso, e, nel cadere col
carico formidabile che aveva nel ventre, aveva fatto piegare la tavola,
spezzandone due gambe.

«Il nonno poi aveva rattoppato alla peggio quel mobilaccio monumentale
e venerabile.

«Dico rattoppato, e non fatto rattoppare, perchè era un’altra sua
manìa di fare da sè, quando poteva; ed anche quando non avrebbe potuto,
perchè si può figurarsi com’erano bellini quei mobili che rabberciava
lui, inchiodando delle vecchie lastre di ferro ai due pezzi staccati
d’una gamba di tavola, o d’una spalliera di sedia, per tenerli uniti.

«Con che occhi li guarderebbero le nostre signorine, quegli orrori,
fra i quali noi siamo cresciute, ridendone un poco, anche molto, ma
senza crucciarcene però, e sopratutto senza vergognarcene menomamente,
vagheggiando anzi, se ci fosse stato possibile, di ricevere fra essi le
nostre amiche ed anche di farvi degli inviti.

«Gli altri ornamenti di quella famosa sala, erano: un divano di
pelle lustra e fredda che metteva i brividi, ed un grande e massiccio
cantonale di quercia, solido che avrebbe sostenuto un cannone, e la cui
unica destinazione era di reggere un piccolo Napoleone a Sant’Elena,
«le braccia al sen conserte» chiuso in un tempietto di vetro.

«Quella statuina era l’idolo, la passione del nonno, e gli forniva ogni
giorno l’occasione di raccontarci qualche episodio della vita gloriosa
di quel suo eroe non mai abbastanza ammirato.

«Dopo la vampata e l’episodio napoleonico, si saliva al piano di sopra,
squallido, coi letti disfatti e respinti in un canto, con dei palchi
come quelli dei bachi, rizzati in mezzo alle stanze, e carichi di
frutta conservata per l’inverno, che mandava un odore nauseabondo.

«Il nonno ci faceva salire a prendere una mela, una pera o un grappolo
d’uva, per aiutarci a pazientare, aspettando che lui avesse finito il
giro della casa e del fondo.

                             . . . . . . .

«Una sera io tornai dalla passeggiata al Cascinino con una grande, una
stupefacente novità.

«Noi si darebbe un ballo alla villa!!!

«Per fortuna Mario era in collegio, altrimenti Dio sa che scene avrebbe
fatte! Mia sorella, che pure non era una gran riditrice, fece una
quantità d’esclamazioni, e finì per abbandonarsi sul divano in una
convulsione di risa contorcendosi e gridando:

— «Oh! no! no! È troppo buffa! È troppo buffa!

«E la zia Rosa, che si trascinava dietro da trent’anni una malattia di
fegato, e coi suoi poveri occhi gialli, vedeva dei malanni dappertutto,
mi afferrò il polso, e mi disse tutta spaurita, preparandosi a
guardarmi in bocca:

— «Metti fuori la lingua!

«Mi credeva in un delirio di febbre.

«Veramente la cosa era tanto nuova, tanto impreveduta, tanto
straordinaria, che avevano ragione di non volerla credere.

«Eppure era vero.

«Quel giorno, al Cascinino, dopo aver fatto il giro delle stanze
di sopra che erano quattro, due da ciascun lato della scala, e
comunicavano fra loro da una parte pel pianerottolo, e dall’altra per
un corridoio interno, il nonno aveva detto queste precise parole:

— «Ora che, ai balli, c’è quella brutta moda di non stare in sala, di
fare la coda, qui si potrebbe benissimo dare una festa; perchè quattro
coppie in qualunque di queste stanze ci possono ballare comodamente,
poi uscirebbero man mano dal pianerottolo, passerebbero nella prima
stanza di là dalla scala, e rientrerebbero dal corridoio...

«Quando vidi l’incredulità con cui in casa era accolta la mia fausta
novella, ripetei alla Giuseppina ed alle zie quel discorso del nonno,
tutta eccitata dall’idea gloriosa di far passare la coda d’una festa da
ballo... dal pianerottolo.

«Mia sorella, che aveva smesso di ridere per riprender fiato, mi disse
con un’aria sbalordita:

— «E perchè il nonno ha detto questo, tu t’immagini che daremo un
ballo davvero? No! Veramente sei troppo immaginosa, Maria! Un giorno o
l’altro scriverai dei romanzi!

«Povera sorella! Non pensava certo, allora, che quel malinconico
oroscopo la farebbe indovina!

«Io, più che mai impuntigliata a dimostrare che non avevo raccontata
una frottola, esclamai:

— «Ma no! Ma no! Il nonno ha detto di più. Si sono fatti dei progetti.
Si farà portare un pianoforte, ben inteso. Si toglieranno dalle stanze
i letti ed i palchi della frutta; si faranno ridipingere le pareti...

«Un’altra risata di mia sorella mi troncò le parole in bocca.

— «Oh! Oh!!... Ridipingere le pareti! Il nonno!... Oh! ma davvero ti
gira la testa. Ha ragione la zia Rosa. Metti fuori la lingua! E chi è
il Raffaello che farà questo lavoro?

— «Via! non s’hanno a dipingere davvero; s’intende ricolorirle... darci
una tinta...

«Ero così mortificata che non sapevo più stare allo scherzo e
rispondevo seria seria e scimunita.

«Dovetti lottare tutta la sera contro l’incredulità della Giuseppina e
delle zie, e contro le loro burle.

«Finalmente il nonno uscì dallo studio, ed io lo aggredii addirittura,
domandandogli francamente, a bruciapelo, come una ragazza sicura del
fatto suo:

— «Nevvero, nonno, che s’è combinato di dare una festa da ballo al
Cascinino?

— «Ah! sì. Ho veduto che i locali si prestano, rispose lui, tutto
sorridente al pensiero di quei suoi locali che amava tanto.

— «E quando daremo questa festa? domandò mia sorella, sempre con
un’aria d’incredulità e di burla.

— «Ma... questa primavera, disse subito il nonno.

«Io trionfavo. Ma la Giuseppina tornò a domandare ridendo:

— «Si ballerà intorno ai palchi dei bachi da seta?

«Il nonno, che sentì in quelle parole un accento d’ironia, come un voto
di sfiducia ai suoi locali ed al suo tenimento, rispose:

— «Ma no! Che bisogno c’è? Non manca lo spazio. I bachi si possono
mettere a pian terreno; in sala, in cucina, nella serra....

«La serra era un corridoio senza stufa, dove si ritiravano nell’inverno
i vasi di fiori che sarebbero morti stando al freddo di fuori, e che
morivano gelati di dentro.

«Mia sorella non potè a meno di osservare:

— «Staranno caldi i bachi nella serra!

«Però, vedendo che il nonno insisteva sulla possibilità, per quanto
discutibile, di dare quel ballo, cominciò a trovarmi meno immaginosa,
ed a prender sul serio la mia grande nuova.

«Dal prenderla sul serio ad appassionarsene non c’era che un passo.
Perchè, sebbene cominciassimo già ad avere quello spirito critico, che
ora rende tanto esigenti ed un po’ infelici i giovinetti, non eravamo
ancora arrivati a farcene un cruccio, e ne usavamo soltanto per trovare
il lato buffo d’ogni cosa e per divertircene.

«Pel resto della serata non si parlò d’altro che della festa.
Si disposero, colla fantasia, le sale, i lumi, i rinfreschi. Dei
rinfreschi molto ridicoli, che noi credevamo adatti ad una festa
campestre, tutti di frutta, di latte, di cose di campagna, ed
assolutamente disadatte ad un ballo.

«Io, che ebbi sempre un senso esagerato di pietà anche per le miserie
che lo meritano meno, ed un bisogno inconsiderato di larghezza che ha
mantenuto sempre lo squilibrio nel mio bilancio con una costanza degna
di miglior causa, avevo immaginata un’altra assurdità, che mi pareva
magnifica: di spargere qua e là per le sale, sui mobili, delle scatole
di guanti. E questo perchè mi ero commossa sproporzionatamente alle
piccole festine di provincia dov’ero stata, vedendo dei giovanotti,
poveri impiegati della posta, del telegrafo, della prefettura, con dei
guanti troppo vecchi e sporchi.

«Andammo a letto colla fantasia eccitata, gloriose di quell’avvenimento
insperato, che permetteva alla nostra vanità di fare degli inviti, di
ricevere, d’essere ringraziate e ricercate dai ballerini, come lo sono
sempre, ad un ballo, le padroncine di casa, anche quando non sono punto
attraenti.

«Il domani la Giuseppina, che non rideva più, volle stendere la lieta
degli inviti, e, naturalmente, mettemmo avanti a tutti le Liprandi,
felici di potere in quell’occasione riparare alla scortesia che avevamo
dovuto fare nell’estate, per quel disgraziato invito a pranzo, e di
ricuperare la loro amicizia.

«Non si può immaginare cosa più stravagante di quegli inviti che
combinavamo pel nostro ballo.

«Mentre doveva essere una seratina affatto intima, agli uomini si
doveva mandare un invito, scritto o stampato, ma sempre un invito
formale per lettera, perchè noi di uomini non ne conoscevamo neppur
uno. Il nonno non voleva giovinetti per casa. Si dovevano dunque
invitare i ballerini dai guanti vecchi, che avevamo veduti nel
carnovale alle festicciuole dove avevamo fatta la nostra breve comparsa
prima di mezzanotte, ed altri giovani che vedevamo in istrada, e dei
quali sapevamo appena il nome, oppure non lo sapevamo nemmanco, e
contavamo di domandarlo sui connotati.

«Cominciammo a parlarne colle cugine, poi colle prime amiche che
incontrammo. La voce corse, e ben presto tutte le nostre conoscenti
furono informate che nella primavera vi sarebbe una festa da ballo alla
nostra villa.

«Un bel giorno, dopo un lungo abbandono, capitarono a farci visita
le Liprandi tutte in ghingheri, e ci dissero con quel loro fare tanto
affabile e grazioso:

— «Abbiamo sentito che ci farete ballare, nevvero?

«Noi, che non vedevamo l’ora di dare la stura alla grande nuova, con
tutto il suo seguito di progetti, confermammo gentilmente l’invito,
sottinteso nella loro domanda, e cominciammo subito a discorrere della
disposizione dei locali, e dell’orario, e dei vestiti...

«Dicevamo con una grande affettazione di semplicità:

— «Non si dovrà fare del lusso... figurarsi! Quattro salti in
campagna... Ma ci vestiremo di chiaro, però; sarà della stagione, ed
anche più allegro...

«Il che era quanto dire modestamente:

«Badate a farvi belle, ad ornarvi di colori gai, perchè noi intendiamo
che la nostra festa riesca elegante.

«Le Liprandi, che non avevano bisogno d’incoraggiamenti in fatto di
toletta, proposero subito varie combinazioni, una più bella dell’altra,
compiacendosene già in anticipazione, come se si vedessero in uno
specchio.

«A Novara le voci hanno presto fatto a compiere il giro della città;
allora era anche più piccola d’adesso, e quella voce, nel suo giro,
doveva bussare soltanto alle porte della borghesia modesta.

«In capo alla settimana la novità di casa nostra non era più ignorata
da nessuno; e noi si venne a sapere, molto indirettamente, e con un
misto d’orgoglio e di sgomento, che se n’era parlato in un caffè!

«Poi ebbimo altre soddisfazioni inaspettate.

«Una signorina molto bionda, molto miope e molto altera, che, colla
scusa che non vedeva bene, non salutava mai nessuno in istrada, ci fece
dire dalle Liprandi che desiderava di fare la nostra conoscenza.

«Non ci era mai accaduto d’inspirare a nessuno un desiderio simile.

«Infatti, venne colle nostre belle amiche a farci una visita, e la
maggiore delle Liprandi, che parlava bene, avviò il discorso con garbo,
per preparare l’invito.

— «Queste signorine, disse alla bionda miope, hanno una _bella villa_
fuori di porta Vercelli.

«E l’altra, che non s’era mai degnata di guardare l’umile Cascinino del
nonno, rispose tutta in un sorriso:

— «Oh lo so! La conosco. Ci si passa per andare alla Vigna Grande.

«La Vigna Grande era la sua villa. Una vera villa, quella. Non di
lusso, nè elegante; ma certo adatta per passarvi il tempo della
villeggiatura, e da non confrontarsi colla nostra capanna.

«Ma era l’idea del ballo che rendeva quelle ragazze tanto indulgenti e
complimentose verso il povero Cascinino. Troppo complimentose; tanto,
da parere che ci burlassero, perchè, mentre noi balbettavamo con
dei falsi attucci modesti: «Oh! la nostra non è una villa... Le sta
meglio il nome che le ha posto il nonno: il Cascinino... ecc. ecc.» la
Liprandi maggiore c’interruppe, per dire, sempre alla sua amica:

— «Ma no, no. Se tu vedessi, di dentro, è bellissima!

«Poi, un po’ confusa di quella bomba che aveva sparata, riprese:

— «Modesta, sai; campestre, anzi. Ma graziosa. E contano anche di darvi
un ballo, appena comincerà la primavera.

«L’altra, che era venuta per quello, fece le meraviglie, come se non ne
sapesse nulla.

«La tentazione di formulare un invito era così forte per me, che
soggiunsi subito:

— «Sarà un’occasione di vedere il nostro Cascinino, se vorrà favorirci
in quella circostanza.

«E si tirò via, una serie di salamelecchi, che a me ed a mia sorella
andarono in tanto sangue.

«Certe altre signorine, che avevano il banco immediatamente davanti al
nostro in Duomo, e che ci salutavano appena con un’aria di degnazione,
perchè avevano un titolo di nobiltà e molti anni più di noi,
cominciarono a farci dei sorrisetti amichevoli quando si voltavano ad
aprire il banco prima della predica. Ed un giorno una, la più giovane,
profittò della combinazione ch’io era ancora inginocchiata, per cui le
rimanevo vicina, per dirmi, mentre metteva la chiave nella toppa:

— «Le piace questo predicatore?

«Era un modo d’entrare in discorso, per poi concludere, come concluse:

— «È tanto, che ci si vede ogni giorno nella quaresima, che mi pare di
conoscerle, e m’è venuto naturale di rivolgerle la parola.

«Io balbettavo delle cose inconcludenti, tutta intimidita, perchè erano
tre zitellone che non m’inspiravano nessuna confidenza.

«Ma loro si voltarono tutte a fare dei sorrisetti e dei cennini
graziosi col capo; e quella che aveva parlato, mi disse a bruciapelo,
facendomi arrossire e confondere:

— «È un pezzo, sa, che volevo parlarle. Mi è tanto simpatica!..

«Infatti d’allora ci parlarono ogni giorno, e fin dal giorno
seguente, cominciarono a fare delle allusioni alla villa, ed alla
festa da ballo... «che chissà come doveva riescir bella! Una festa
campestre...!»

«Naturalmente, ricaddi a capo fitto nel tranello, e sfoggiai le mie
graziette in un invito.

«Quel fermento, quel chiacchierìo, durò una settimana in città. Poi,
siccome eravamo in piena quaresima, ed alla primavera mancavano ancora
due mesi e più, il fermento cessò, e della nostra festa non si parlò
più che fra noialtre amiche.

«E finì la quaresima, e venne la Pasqua, che quell’anno fu verso
la metà d’aprile, poi l’aprile finì, e cominciò il maggio, tutto
biancheggiante di margherite e rosseggiante di rose.

«Era primavera!

«Ma, a misura che il tempo di concretare il gran disegno s’avvicinava,
l’enormità della cosa si faceva più chiara alla nostra mente, ed un
segreto sgomento c’invadeva.

«Sarebbe stato tempo di provvedere a far dipingere le stanze, a far
portare il pianoforte, a diramare gl’inviti....

«Il nonno non faceva la menoma allusione a tutto questo.

«Anzi, era tutto occupato del seme di bachi, e già due volte di seguito
ce l’aveva fatto lavare nel vino, con gravissimo danno delle nostre
mani, che ne serbavano il violetto alla radice delle unghie per vari
giorni, ad onta delle più complicate lavande.

«Intanto le amiche, incontrandoci in istrada, ci domandavano:

— «A quando? Sarete occupate nei preparativi? Sarà questa settimana? O
quest’altra?

«E noi si rispondeva sempre:

— «Oh, sarà presto; sicuro...

«Ma sempre con un freddo nel cuore; con una specie di vertigine,
all’idea che ci si affacciava alla mente di quelle stanze squallide,
colle pareti imbiancate a calce ed ora annerite dal fumo e dal tempo,
e col pavimento di mattoni, che ad ogni passo esalava una nuvoletta di
polvere rossastra.

«Mia sorella cominciava a recriminare:

— «S’è parlato troppo presto. Tu colla tua fantasia che vola, e che
piglia per veri tutti i fantasmi... Ora chissà come andrà a finire? Il
nonno non ci pensa affatto; bisognerà rammentarglielo...

«Ah! che tribolazioni, che paure, che lunghe strette di cuore ci costò
quella festa da ballo!

«Non ne hanno idea le ragazze d’adesso, avvezze a trattare i genitori
con tanta confidenza, ed esprimere i loro desideri senza soggezione, ad
accettare il sì dei babbi e delle mamme come cosa a cui abbiano sempre
diritto, a ribatterne il no quando lo trovano incomodo, a discutere,
a volere, a contare per qualche cosa, per molto, nelle risoluzioni da
prendersi in famiglia!

«Intanto i giorni e le settimane passavano, e non si vedeva nessun
sintomo di festa da ballo; e noi non avevamo il coraggio di ricordare
al nonno quella sua parola spontaneamente impegnata.

«Eppure bisognava trovarlo quel coraggio. Cominciavamo già a pensare
come si potrebbe entrare in discorso. Andavamo alla villa con lui,
o l’una o l’altra, anche il mattino; parlavamo di cose agricole. Mia
sorella, la cui inettitudine per la botanica non era comparabile che
alla mia, ricominciò a farsi insegnare dal nonno quella sua scienza
gentile che avevamo abbandonata, ed a masticare dei nomi latini, che
era una pietà. Ed io lavavo e rilavavo con fervore il seme dei bachi,
immergendo eroicamente le braccia nel vino fino ai gomiti.

«Ah! cosa non avremmo fatto per predisporre l’animo del nonno alla
condiscendenza!

«Mentre noi accarezzavamo così tutte le sue piccole manie, e lo
studiavamo ad ogni ora, in ogni sguardo, in ogni sorriso, nel tono
della voce, e nell’espressione del silenzio, per spiare il momento più
opportuno al difficile discorso della festa da ballo, il caso provocò
la spiegazione tanto e lungamente aspettata.

«Un giorno, tornando colle zie da casa loro, ci vedemmo correre
incontro giù per le scale la serva, che ci disse:

— «Ci sono su quelle due signorine in gala, con quell’altra che non ci
vede.

«Capimmo subito che erano le Liprandi colla bionda miope della Vigna
Grande.

— «Dove sono? domandammo affrettandoci a salire.

— «Sono in sala, col signor Andrea.

«Arrivammo su di corsa, tutte sorridenti, colle mani stese... Ma fummo
arrestate, fulminate sull’uscio, respinte indietro contro le zie che ci
seguivano davvicino, all’udire una parola tremenda:

— «Non se ne parli altro!

«Era il nonno, naturalmente, che parlava, col volto serio, accigliato.
Poi, con accento fermo, inesorabile, ripetè spiccando le sillabe, come
per piantarle ben salde:

— «Non-se-ne-par-li-al-tro!

«Le signore erano tutte confuse; e la Liprandi maggiore, tutta rossa in
viso, si rivolse a noi, e senza badare alle nostre mani stese, ci disse
con accento di stizza:

— «Brave, voi! Ci fate fare delle belle figure!

«E la loro mamma colla parrucca, soggiunse:

— «Ma sicuro! Domandavamo al vostro nonno di questo ballo.... Pare che
ve lo siate sognato! Bisogna pensarci, prima di parlare, mie care...
Avete montata la testa a queste ragazze... Le avete fatte lavorare a
cucirsi gli abiti... E poi ne abbiamo parlato con tutti... Ora come si
fa a dire che non era vero?

«Noi ci affannammo a protestare che era vero; che il nonno l’aveva
detto lui, e che noi non si poteva a meno di crederlo.

«Ma parlavamo come d’un terzo lontano, senza osare di rivolgere la
parola al nonno per rinfacciargli la promessa mancata.

«Quanto a lui, aveva detta la sentenza che troncava ogni questione,
aveva respinta da sè una idea importuna, come si scaccia una mosca, e
non si curava affatto delle lagnanze di quelle signore, nè del nostro
imbarazzo.

«Ai suoi occhi le ragazze erano esseri così assolutamente dipendenti,
che non ammetteva che nessuno potesse aver dato valore alle nostre
parole non confermate da lui. Ed avrebbe riso se gli avessimo detto che
noi ci prendevamo tanto sul serio, da crederci impegnate in faccia alla
società per quella promessa mancata.

«Da quel giorno l’amicizia delle Liprandi fu inesorabilmente perduta
per noi.

«La loro amica, più miope che mai, non ci riconobbe più affatto,
neppure quando ci incontrò sul cancello del Cascinino, nel passare per
andare alla Vigna Grande.

«E le zitellone del banco in Duomo, quando si voltavano ad aprirlo,
avevano da fare a cercare la toppa, e non potevano neppure alzare
gli occhi. I loro volti pieni di sussiego non sembravano neppur
suscettibili dei sorrisetti e dei cennini graziosi che li avevano
rischiarati un istante.

«Nell’estate la brigata delle amiche non si fece più vedere al
Cascinino; e nel carnovale seguente non ebbimo neppure un invito per
una seratina.

«Aveva fatto il vuoto intorno a noi, quel terribile: «Non se ne parli
altro!»


  FINE.




INDICE


  Due parole d’esordio                                 Pag. 9
  Come il nonno imparò a nuotare                        »  19
  Santa Lucia                                           »  31
  Come il nonno si fece levare un dente                 »  51
  Come il nonno diventò un famoso ballerino             »  63
  Come il nonno imparò a suonare il flauto              »  79
  Come il nonno imparò a farsi la barba                 » 101
  Come il nonno non si vestì di nuovo                   » 115
  Come il nonno troncò una serie di rappresentazioni    » 137
  Come il nonno non sposò la signora Giovannina         » 153
  Come il nonno prese moglie                            » 183
  Non se ne parli altro! (Episodio n. 1)                » 207
  Non se ne parli altro! (Episodio n. 2)                » 237





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I RAGAZZI D'UNA VOLTA E I RAGAZZI D'ADESSO ***


    

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