The Project Gutenberg eBook of Racconti di guerra This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Racconti di guerra (Maggio 1915 - Novembre 1916) Author: Luigi Ambrosini Release date: August 17, 2025 [eBook #76695] Language: Italian Original publication: Torino: Lattes, 1917 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI DI GUERRA *** LUIGI AMBROSINI RACCONTI DI GUERRA (Maggio 1915 :: Novembre 1916) TORINO _S. LATTES & C. — Editori_ LIBRAI DELLA REAL CASA FIRENZE — R. BEMPORAD & FIGLIO BOLOGNA — N. ZANICHELLI — 1917 PROPRIETÀ LETTERARIA Torino 1917 — Stab. Grafico DITTA EREDI BOTTA. _A mio fratello Giuseppe, combattente._ Dicembre 1916. FRA GLI “UOMINI ROSSI” Giugno 1915. _A Vincenzo Valducci._ Sono andato a cercare la guerra lungo l’Adriatico. Romagne, Marche, i paesi miei: dove odo parlare dialetti familiari, dove tutto mi è familiare: i volti delle cose, l’animo della gente, i suoni della vita, che s’alzano dalle strade, dai campi e dalle soglie delle case. Ho voluto vedere che c’è di mutato laggiù. Andando verso il mare, per le basse di Ferrara, contemplavo l’aurora sulle terre distese, pacifiche: i suoi fuochi accesi sui cantieri di grano, sulle foreste scure di canapa; e i pennelli dei pioppi aguzzi nell’aria cilestrina. Il solito risveglio della campagna di giugno, e tutto era come sempre: i canali, i cascinali, le aie, i pagliai, i maceri, i fossi, le siepi, e quell’indescrivibile folto della vegetazione che in giugno copre la terra come d’un peso. Il panno turchino d’un territoriale che vigila un ponte con l’alta baionetta inastata sul lungo fucile, non muta il senso del paesaggio. L’occhio è tranquillo, non coglie nulla di insolito: vede le vie frequentate, i carrettini fermi dinanzi alle sbarre dei passaggi a livello, le contadine scalze che hanno posato il paniere sul margine della strada e infilano e calze e scarpe prima d’entrare in città. Dove è la guerra? Io ne cerco i segni con l’occhio in torno. Quella mandria di bovi disciolti, che alcuni uomini cacciano a colpi di randello entro lo steccato della stazione; quel carname ossuto e grigio che vien dalla strada in una nuvola di polvere, fa pensare a qualche lontano mattatoio militare. È il rancio dei nostri soldati. Ma nei giorni di mercato non si assiste anche allora allo stesso spettacolo? E l’occhio fugge sui campi. Miracolosa pianura ferrarese, non sei tu uno dei volti santi della patria, che esce stamattina più bello e più fresco di sotto la risciacquata della notte? Terra nostra, nostra scoperta e fatica, bene nostro e passione, terra redenta; non qui si combatte: (qui si lavora, e già guizzano le prime falci nel grano, e s’alza dinanzi a una casa il fumo della trebbiatrice) ma quanti dei tuoi uomini, dei giovani, sono ora lontani; e non falciarono quest’anno l’erba nei medicai e non zapparono, a primavera, la terra, e non mieteranno e non legheranno i covoni, non alzeranno la bica, i tuoi ardenti, riottosi giovani? Ogni campo, ogni cascinale, ha dato almeno un uomo, un soldato. Si sono “vestiti”, sono andati. Li ho veduti con gli altri, lassù: con le decine di migliaia che entrano in guerra. * * * Mi torna alla memoria un mattino del recente maggio, in una cameretta d’albergo a San Giorgio di Nogaro. Fuori, per la strada, un improvviso rotolio di carri. Dagli spiragli delle imposte filtravano nella penombra gocce azzurre di luce. Traversata da un raggio di sole, una fenditura del legno bruciava come un focherello rosso. Spalancata la finestra, uno sbuffo di polvere, che rigonfiava su bianca dalla strada, sbattè contro il davanzale. Passava al trotto una colonna di artiglieria da campagna. Conducenti con le fruste nel pugno, inforcati sulle selle; pariglie di cavalli alti e grossi fra le lunghe tirelle di corda; serventi abbrancati agli appoggi; cassoni affardellati, moschetti chiusi entro buste di cuoio, badili agganciati agli uncini fissi sotto l’asse delle ruote: tutto chiazzato di polvere: affusti, pezzi, sacchi, casse, finimenti, briglie. Certi volti mandavano di tra le ciglia e i baffi imbiancati uno sguardo indefinibile, strano: gli occhi ridevano come sotto una maschera. La prima maschera della guerra. E andavano. E tutto il giorno passarono veicoli dietro veicoli, cavalli, uomini, serrati come pezzi di un’enorme fragorosa catena, di cui non si vedeva più nè il principio nè la fine. La campagna brulicava come un formicaio. Campi, prati pareva che buttassero su dai fossi e dai solchi uomini, carriaggi, quadrupedi. Ne apparivano oltre le siepi, sui mucchi di ghiaia, sulle aie delle masserie, oltre le cancellate dei parchi, sotto i verdi ombrelli degli ippocastani, all’imboccatura dei paesi, entro le casupole e le ville, ai balconi, nelle strombature delle finestre, sotto l’arco dei portoni, fra i tavoloni delle osterie, nei cortili dei municipi, nelle aule e nelle palestre delle scuole, sulle soglie delle farmacie, lungo i viali pubblici, nelle spianate dei giochi di bocce. Uomini seduti sugli zaini, sui paracarri, sulla polvere, che attendevano il segnale della partenza; staffette a cavallo, in bicicletta, in motocicletta che prendevano le voltate di volata; automobili che portavano ufficiali; colonne di autocarri pesanti, schiaccianti, che avanzavano l’un dietro l’altro come carrozzoni d’un treno; reggimenti di fanteria, interminabili; pattuglie di carabinieri, ambulanze della Croce Rossa, carrozzini requisiti, guidati da un ufficiale, plaustri carichi di balle di paglia e di fieno, guidati da placidi bovari, trainati da coppie di buoi bassotti e rossicci, dalle corna ritorte, quasi ribattute sulla cervice paziente. La gran macchina è tutta in movimento, lassù, sulla campagna friulana, rigonfia anch’essa di vegetazione. Ogni tratto, lungo le belle strade, è un intoppo di truppe e di carriaggi: fanteria, artiglieria, automobilisti. Una fila di autocarri, carichi di provvigioni viene a grande velocità; la massicciata tremola come scossa da un terremoto. Sotto i cuffioni grigi, i conducenti attaccati duramente al volante, son tutti bianchi, irriconoscibili sotto gli occhiali. Alcuni hanno bendata la bocca e le guancie con un fazzoletto annodato sulla nuca, come feriti chiusi in un bendaggio. Più oltre una colonna di fanteria costringe a un’attesa di mezz’ora. È un reggimento che viene chi sa di dove. Ha fatto tre giorni di ferrovia, è in marcia da quarantotto ore. Ufficiali a cavallo e in calesse, soldati e soldati, zaini, coperte, fucili accatastati su alcune carrette meridionali, dalle altissime ruote snelle, istoriate a vivi colori, trainate da splendidi cavallini trottatori, pieni di brio, nervosi, ogni tanto inalberati. Camminano, avanzano, nella prima estate, nella polvere, nel sole, nella prima enorme gioia della guerra. La quale comincia sempre come un’avventura. Dove vanno, non sanno; verso il nuovo, verso l’ignoto. Ciascuno muove un passo dietro l’altro, la schiena del compagno limita la vista dinanzi, e dà all’occhio un po’ di refrigerio, presta alla pupilla quasi un punto d’appoggio monotono, ma riposante. Per ore e ore non si vedono che zaini barellanti e scarpe che affondano nella polvere. Passano per paesi non mai veduti, dei quali l’unico ricordo che rimarrà sarà quello di una fontana a cui si è riempita la borraccia, o d’una finestra da cui sono piovuti dei fiori, o d’una rivendita dove si è riusciti a trovare un pacco di sigarette. È la marcia rude, possente e faticosa, ma allegra; è l’avanzata polverulenta e sudata, ma piena di tutte le forze fresche, intatte. Gli uomini che avanzano pensano molte volte di essere alla vigilia imminente della lotta; e non vedranno il fuoco che fra una settimana, fra un mese. Altre volte camminano tranquilli e spensierati, quasi si trattasse di una marcia in tempo di pace, poichè intorno a loro tutto è tranquillo; i paesi che traversano sono festanti. Al passaggio delle truppe sbucano di tra le siepi frotte di ragazzi che protendono le bandierine. Le donne che sarchiano nei campi di granoturco hanno il tricolore al petto o tra i capelli. Una primavera di cuori brilla nel mezzo della primavera eterna dei campi e dei prati. Le corolle rosse dei papaveri, fanno nuvola entro la verde marea dei grani, distesi tra gli striscioni candidi delle strade. È il primo momento lieto della guerra: l’aria libera le strade percorse in comune, come in una passeggiata, in una ubriacatura di campagna; i pasti all’aperto, l’ombra delle siepi, l’acqua fresca delle fontane, i canti, l’impreveduto, il nuovo... E sopratutto la fidanza che si fa nella compagnia di tanti, nella forza di centinaia e migliaia di petti, nelle armi nuove e pulite, in quell’abbondanza strepitosa di ogni cosa, di salmerie e di macchine, che sono al servizio di ognuno e di tutti, sono per tutti, di tutti. L’uomo si sente unito, difeso: è spensierato, è sicuro, è lieto. Va innanzi e non dubita, non teme, non può temere. Il rombo del cannone si ode e non si ode, a seconda del vento e dell’aria. È una voce diversa, che ora si sprigiona dalla terra, come un boato; ora viene dalle nuvole come un brontolio di tuono. Parla un linguaggio che ancora i soldati non conoscono. * * * Lassù sono anche i tuoi figli, o Romagna. Braccianti e contadini, “gialli” e “rossi” di ieri, quelli della repubblica e quelli del socialismo, si sono “vestiti” a migliaia, cavalleggeri, artiglieri, bersaglieri, fanti. Come prima avevano il garofano rosso all’occhiello, la cravatta spampanata sul petto, il fazzoletto nero al collo, ora hanno il grigio-verde, le penne sul cappello, il fez sanguigno, col fiocco che sbatte sulle spalle; hanno i cuscinetti della sella e il maremmano fra le cosce; vanno seduti sui cassoni dell’artiglieria anzi che sui loro carri; portano lo zaino anzi che il sacco di grano, il fucile anzi che la rivoltella, la baionetta in vece del coltello. Dalle pancacce delle osterie sono passati alle caserme, dalle Camere del lavoro alle tende, e alle trincee. Dagli scioperi alla guerra. Senza soluzione profonda di continuità. I generosi combatteranno da generosi. Chi ha sempre bagnato la terra di sudore, ora la tingerà di sangue. Ignoti, i più, domani, nel sacrificio e nella morte, come erano ieri, quando lavoravano su questi solchi e rissavano per la politica, e ognuno teneva fede allo straccio della propria bandiera, ognuno era per il suo Circoletto, o pel partito, e aveva il suo inno, e la sua Idea. Nello squadrone e nel battaglione, come in mezzo a compagni di un lavoro e di un rischio comune. Difenderanno nell’ufficiale e nel compagno se stessi, il proprio onore, l’amor proprio, l’istinto romagnolo di superiorità nel coraggio; il profondo bisogno di essere bravi, di imporsi, di vincere. Dinanzi alla guerra che non è più un’opinione, ma un fatto, una realtà, i fermenti di contrasto, di lotta, ribolliranno, tutti insieme, contro il nemico. Ieri questi era il padrone, era per il “rosso” il capo dei “gialli” e per il “giallo” il capo dei “rossi”; oggi il nemico è uno per tutti: contro il quale si marcia in massa. O non dicevano che la “settimana rossa” era stata come una prova della rivoluzione generale? La rivoluzione ora è la guerra. * * * A Ferrara avevo voglia di vedere, in pace, un po’ di cavalleria. Un amico maggiore in uno dei più bei reggimenti nostri mi aveva scritto, pochi giorni prima, se mai fossi passato di là, di soffermarmi. Volentieri avrei cavalcato accanto ai suoi uomini, in uno di questi stupendi mattini; li avrei volentieri accompagnati per un tratto di strada, se fossero partiti verso le terre del Friuli. Bisognerebbe, del resto, fare la guerra per poterla raccontare. Il cortile della caserma era deserto. Un soldato in zoccoli, scamiciato, lavava panni in un vascone. Nel maneggio scoperto un giovinotto di Cesena, coi panni borghesi, dava l’esame davanti a due ufficiali. Montava un sauro e non sapeva cavalcare. Dava l’esame pro forma, per essere ammesso come veterinario. Gomiti larghi, redini tirate, testa e corpo che pendevano sul collo del cavallo, saltarellava sulla sella. Quando scavalcò con un tonfo pesante, lo salutai, mi sorrise, sorridevano sotto i baffi anche gli ufficiali. Nelle scuderie non erano più che pochi cavalli infermi, malandati: _Causidico_, _Tripoli_, _Rataplan_. Conducevano fuori un morello ossuto, magro, l’occhio spento, gli orecchi abbassati, due infossature profonde sopra le ciglia. Un soldato lo teneva alla cavezza, un altro, in farsetto, con la camicia rilevata sui gomiti, gli cacciava il bolo giù nella gola. E la sua aria sfinita faceva pensare, per contrasto, alle centinaia e migliaia di suoi compagni, a quei cavallini leggeri e brillanti, fatti per le cariche strepitose, per le volate folli sulle reni del nemico in fuga. I bei galoppi radenti, calmi ed elastici che io aveva intravveduti pochi giorni innanzi su per le campagne venete! Cavalli dissellati, alle tappe, che facevano l’abbeverata al tramonto; cavalli legati alle corde sopra un prato, che ringhiavano e si calciavano, facendo accorrere i soldati; quelli erano in guerra. _Causidico_ non li avrebbe forse riveduti mai. * * * Nel pomeriggio, mentre girellavo per le vie di Ferrara, lunghe, solitarie, fra i palazzi e i muri dei parchi e le case, m’imbatto in un amico in divisa di volontario ciclista. Ripartiva la sera stessa con due compagni per raggiungere il suo plotoncino. — Vieni con noi. S’arriva a mezzanotte, dormi sulla paglia; domani andiamo al mare, forse in pineta. Raccapezzammo una bicicletta e con le prime ombre si partì — gergo sportivo — in fila indiana. Erano di Faenza, tutti tre giovani. L’amico mio studente di secondo anno di liceo. L’altro, studente in legge alla Università di Bologna. Il terzo un popolano, di quelli della repubblica. Andando, era lui che parlava sempre. Noi gli facevamo eco con monosillabi, con esclamazioni, che più e più gli scioglievano lo scilinguagnolo. Narrava le proprie gesta di interventista, in una città che era stata delle più avverse alla guerra. Lui e pochi compagni di partito avevano per alcuni giorni tenuto testa alle schiere avversarie, affrontato coi bastoni frotte di contadini che venivano in città per bravare, e per imporsi. Una notte s’era sentito scoppiare un colpo d’arma da fuoco a bruciapelo. Tornato a casa il repubblicano s’era accorto d’avere la giacchetta sforacchiata dai pallini. Non girava più che col coltello in tasca. Ce l’aveva ancora, lo tirò fuori, ce lo fece vedere. L’avrebbe portato in guerra, per adoperarlo. — Non ti basta la baionetta? — La baionetta ha bisogno di più leva, — spiegò. — Il coltello basta, a maneggiarlo, la mano, il braccio. È più pratico, lavora meglio. Gli ricordai che i Bavaresi partono per la guerra col coltello da caccia nella tromba degli stivali. Sapeva. Era stato a lungo in Germania, a lavorare. Rimasticava un po’ di tedesco. E cominciò a narrare certe sue avventure nelle osterie del Baden. Una volta aveva difeso una donna da un branco di ubbriachi, che volevano buttarla sul tavolaccio dell’osteria. La polizia era accorsa, non gli avevano fatto niente. Del resto lui avrebbe “fatto la barba” a tutti. Parlava e correva, impostato sulla macchina con una rigidità un po’ pesante, di uomo di fatica. Spalle strette, gambe arcuate, s’era tolto il berretto, andava con la testa al vento, battendoci la strada. Anche quello di marciare in testa a noi più giovani, e più elastici, era un bisogno istintivo. Essere il primo, andare avanti. C’era dell’ambizione irriflessa, o c’era, forse, e sopratutto della bontà, dell’accondiscendenza. Ci batteva il passo, ci trenava. In compagnia di tre “signori”, lui popolano, faceva la fatica grossa. E non badava a nulla; non si curava della mirabile notte, cupa tutto attorno a noi. Non lo interessava che il fatto proprio, la sua persona. Era un romagnolo schietto, del popolo, di quelli che sotto il papa avrebbero insanguinato il proprio rione. Un’anima di settario spericolato, iscritto al gruppo repubblicano, e che adesso faceva il volontario insieme coi signori monarchici e nazionalisti. * * * Il cielo era tutto uno stellato. Non vidi mai tanto sperpero di lumi in cielo. La cupola d’aria sul nostro capo ardeva di fiammoline. Era una luminaria intensa, immensa: un incendio. E il fuoco celeste più risaltava sul nero fondo della campagna. A mezzanotte eravamo in mezzo alle paludi. Ci batteva il fresco sulla faccia. Si udivano le rane gracidare nei pantani, garrule, querule, innumerevoli. Come si andava, sempre ce n’era alla nostra destra e alla nostra sinistra. Pareva sonassero le nacchere: strepitavano nei notturni tripudii. Giungemmo a Mandriole con le ginocchia fiaccate. Si respira male in mezzo alla malaria: canali, fossati, alti argini, velati da una nebbiolina maligna, che punge le ossa. C’era un freddo di notte d’inverno. S’udiva a intervalli il rumore del mare vicino. Ed ecco giungemmo all’accantonamento. Sul ponticello, alla cancellata, oltre la quale s’intravedeva una casa, la sentinella col bavero rialzato, la mantellina avvoltolata intorno alle spalle, il naso dentro le pieghe. Ci domandò se per la strada non avessimo incontrato nessuno. — Neanche un cane; chi ci ha da essere a quest’ora? — S’è sentito rumore, fuori. Il tenente ha mandato due dei nostri a fare un giro. Hanno da essere là dietro. Rovesciammo le macchine sul prato, ci mettemmo alla ricerca di quei due. — Chi va là? — Volontari. Sei tu, Balanti? — Oh! Vennero avanti due fucili, due ombre. — Che c’è? — Pareva che qualcuno strisciasse. Siamo andati; era una scrofa rimasta fuori. Ridemmo. — Venite dentro? — Andiamo ancora fino al sasso di Anita, per sicurezza. — Noi si va a dormire. Buona guardia. — Buona notte. * * * Eravamo nel buio più fitto. Mi fermai sulla soglia, che qualcuno facesse un po’ di chiaro. Si udiva russare. Il repubblicano gridò: — Ui, Facanapa! Lo conoscevano al rumore come alla voce, i compagni. Ma Facanapa continuò a russare. Altri si svegliò: — Chi è? — _Cut ciapa un azidént; azénd la lom!_ (Che ti pigli un accidente, accendi il lume). — _Spèta._ (Aspetta). Si udì lo stropiccio d’un fiammifero, una fiammolina illuminò l’interno. Eravamo in una stalla. Paglia per terra e corpi distesi, l’uno accanto all’altro, vestiti. Non si vedevano neanche i volti, coperti per le zanzare. S’appicciò una lanterna. Dormivano con le teste sugli zaini, e sulle coperte arrotolate. Si scoprivano, man mano che si parlava. Il repubblicano era un disturbatore chiassoso, voleva rompere il sonno a tutti. Le imprecazioni fioccavano, quelle materiali imprecazioni della gente di Romagna, che non si possono ripetere, nè tradurre in eloquenza urbana. — Un po’ di largo, ragazzi, c’è un borghese. S’alzavano sui gomiti a guardare il borghese... Chi è, chi non è? “Un giurnalesta”. Il repubblicano mi cercava un posto, calciava sui renitenti, perchè si stringessero. Mi proteggeva. Volle a forza che accettassi la sua coperta, la mantellina. Mi misi lì, dove voleva lui. O dolce ristoro di una cuccia di paglia, dolce riposo... Ma sì! Si continuava a chiacchierare forte. Facanapa s’era svegliato, e malediceva i nuovi venuti. S’aveva da alzare alle tre per montare la guardia. Peggio! Adesso lo bersagliavano tutti di motti feroci. — Dormirai quando tornerai a casa, Facanapa. E gli parlavano della morosa che aveva lasciata a Faenza, e gli insinuavano tutti i sospetti. — _Adess ben clat met al còran!_ (Adesso sì ti mette le corna!). E il discorso cadde sulle donne. Si parlava di quelle poverette rimaste a casa a languire. Tutti i giovani erano partiti. Come avrebbero fatto la sera a andare a spasso sulle rive del Lamone, sole, sole! — _Adess e basta, burdell!_ (Adesso basta, ragazzi). _Spegni mo la lom!_ Un soffio; si spense il lume. Ma i dialoghi continuavano. E cominciarono le zanzare. Bisognava fasciarsi la faccia con la mantellina, ma le zanzare s’infiltravano con quel sibilo metallico che fa tanto dispetto. Altri erano entrati, nel frattempo, che venivano dalla spiaggia, dove avevano montato la guardia, verso il semaforo. Qualcun altro si alzò. La punta dell’alba luceva alla finestra. La porta era aperta, entrava il freddo. Allora mi alzai anch’io, e uscii fuori. Eravamo sugli argini del Reno. Era un mattino incantato di giugno e di luce fiorita. Nel freddo ancora intenso venivano lungo la strada i primi mietitori, in bicicletta. S’era di fianco a un immenso cantiere di grano, che il sole tingeva di giallo. Pareva un mare d’oro. E di fronte a quello sfondo puro, come una figurina nel mezzo di un quadro, veniva avanti a piedi, una _burdèla_ (una ragazza). Poteva avere quindici anni, scalza, un grembiule rosso che le lasciava nudi i polpacci bronzini, bionda, sana, ridente. Camminava a piccoli passi, col seno erto, duro, la gola scoperta e liscia, tutta trionfante. Cercava qualcuno lontano, in mezzo al cantiere, dove già si vedevano i gruppi di mietitori. Si soffermò a guardare intensamente. Poi calò giù per l’argine, fu in mezzo alle spiche, avanzò, rossa, fra tutto quell’oro, affondò a poco a poco, lontana, come un’allodola. * * * Andavamo al mare. E a me ora pareva di reggere sulla spalla il fucile del volontario che m’accompagnava: tanto mi sentivo una cosa sola con lui e con la sua persona e la sua sorte. Avevo indosso i suoi panni e il peso dello zaino e della coperta. Ero come la sua ombra, che lo seguiva, mobile lungo il sentiero. Mai non ho sentito dentro di me farmisi più leggera l’anima. E saliti che fummo sugli alti argini del Reno, vedemmo davanti a noi, verso la foce del fiume, prima ancora che il mare, la luce riflessa del mare. Il mare brillava nell’aria, laggiù; c’era non so che di aperto e spazioso dinanzi a noi; raggiavano le acque al limite non lontano. Ma come s’ode il respiro di persona dormente, e la persona non si vede, così sentivamo la spiaggia vicina, senza che ne apparisse più che la luce diffusa nel cielo. Frusciavano erbe e cespugli sotto le nostre scarpe, e fummo presto inzuppati di guazza fino al ginocchio. Pagnotte di fango ci si incollavano sotto le suola, si camminava quasi a quattro gambe, con quattro schiocchi ogni passo. E più andavamo e più si faceva liscio il pastone di creta, e sempre più elastico. Veniva il desiderio di sciogliersi i piedi, nudarsi la caviglia e camminare scalzi. — Guardi se non sembra un pavimento di mattonelle. Difatto la creta era tutta spaccata, a figure regolari, geometriche: triangoli, losanghe, quadrati, che componevano insieme un unico disegno. Solo dove il terreno mancava, ivi l’acqua delle piogge aveva formato altrettante pozze, più o meno torbide, dai cui orli si vedevano fuggire con un guizzo le lucertole, e nascondersi sotto i cespugli di rosa macchia e di rovo con la puntolina della coda inalberata. Più oltre, ogni traccia di sentiero si perdeva sulla landa sabbiosa, allagata a vasti tratti dalle piogge dei giorni innanzi. S’affondava fino alla caviglia: bisognava cercarsi la via con precauzione, soffermarsi ogni tratto, rifare il cammino a destra o a sinistra, cercare la via del mare, fidandosi alla direzione del vento. Eravamo fra gli allagamenti e i monticelli di sabbia, quasi nel mezzo d’una penisola, in un braccio di terra, tra il fiume e le fosse. Vedevamo alla nostra destra le vele colore d’ocra d’una barca nascosta sotto la linea del verde, e nulla era più strano di quella apparizione d’un due alberi da pescatori in pieno orizzonte di terra. — Imagini, di notte, quello che ci succede qui, quando andiamo a montare la sentinella sulla spiaggia! Le guardie di finanza, tanto tanto, sono pratiche e se la cavano. Noi si perde quasi sempre la strada. Si gira a tondo per dei quarti d’ora, ci si perde, bisogna fermarsi, darsi la voce, procedere a tentoni, e si va dentro nelle mote con gli stinchi. — Ecco il mare. Di su la cima d’un monticello ce lo scoprimmo davanti, ce lo vedemmo ai piedi, lustro e fresco, della più turchina acqua. Anche il mare ha i suoi mattini di primavera, una tenerezza di colore d’erbe novelle, sulla quale par che si possa posare il piede per camminare. Ci accoccolammo sulla sabbia sottile. * * * — Stanotte, nulla di nuovo? Eravamo saliti al semaforo, sul terrazzo della torretta, e conversavamo col marinaio di guardia. Lassù in alto, fra terra e cielo, egli pareva la scolta eschilea che vigila sulla torre della reggia di Agamennone. In mezzo a noi, alto sul cavalletto, un cannocchiale puntava il porto di Magnavacca. — Niente di nuovo? — Si parlava di un incrociatore intravveduto a mezzo la notte, lungo la costa..... — Era un piroscafo, il _Maria Grazia_, che veniva da Venezia. È stato fermo parecchie ore qui davanti, per non incappare in qualche nave austriaca. Appena s’è fatto un po’ di luce, è ripartito verso Rimini. (Era il vapore che doveva, due giorni dopo, incappare nella flottiglia nemica). — Che dite, torneranno a distribuirci qualche cannonata? — Può darsi. Era di quei marinai di poche parole, che hanno l’anima piena di immensi silenzi, la bocca dura. Passeggiava su e giù per la terrazza, tirandosi sulle spalle a quando a quando, con una scossetta della schiena, il lungo cappotto marrone, col cappuccio a triangolo. Aveva i piedi scalzi, in un paio di zoccoli di legno. Un mezzo abbigliamento fratesco, quasi una tonaca, sotto la quale appariva la blusa bianca, aperta abbondantemente sotto il collo. Allora mi parve di conoscere un soldato, al quale non avevo ancora pensato: il vigile calmo e tranquillo, che trascorre le ore sulla torretta di un semaforo, e consuma i giorni, le settimane, i mesi lontano e diviso da tutto il resto del mondo: l’occhio del cannocchiale, la pura pupilla che aderisce alla lente. Certo non è sicura la sua posizione, su quel castello di mattoni. È una vita in pericolo, specie di notte, quando il nemico viene a strisciare in vicinanza alle coste. È un uomo su un bersaglio. Ma il pericolo non ha molta importanza. Ciò che importa e vale è la guardia continua, la vigilanza monotona, alla quale altri non reggerebbe. — Non v’annoiate quassù? Sporse il labbro inferiore, senza dire sì o no. Forse non s’era mai posto nella mente quel problema della monotonia e della noia della propria vita. Vuol dire che non esisteva per lui, non lo soffriva. Ci si era dunque avvezzo a poco a poco, come il contadino alle linee chiuse del campo, come l’operaio alle pareti dell’officina, come chiunque di noi si avvezza col tempo a qualunque stato. E anch’egli era un soldato in guerra: aveva il suo compito fisso quotidiano e notturno, la vita in balìa della sorte, e la sua responsabilità da reggere, senza altre cure, altre inquietudini. Faceva la propria parte, non si preoccupava di tutto il rimanente della lontana guerra. — L’altra notte — disse l’amico mio — avemmo una bella emozione! Il marinaio sorrise al pensiero di quella notte. — Eravamo di sentinella tre volontari. Andavamo a montare la guardia alla spiaggia. Eravamo appena passati di qui sotto, diretti al mare. Pioveva, pioveva che Dio la mandava. Eravamo infagottati nelle mantelline e la coperta sulla testa. Acqua di sopra, acqua di sotto, pareva di essere in barca. Quando si arriva al mare sembra a tutti tre di vedere dei lumi sulle onde. Dico che erano lumi, mica storie! E tutti: “Le navi, le navi! Sono qui!”. Contenti eravamo, le dico, felici! Si speravano cose pazze, perfino uno sbarco, speravamo! I fucili erano carichi; ci toccammo la cartuccera qui sulla pancia, esultanti di sentirla piena. Faceva piacere quel peso delle cartucce qui davanti! Ci distendiamo sulla sabbia, alziamo solo la testa per vedere. Buio, era buio, e quei lumi si rispondevano sulle onde, come per segnali che mandassero o ricevessero. Era un colloquio indecifrabile. Noi s’attendeva con la febbre. Eravamo così eccitati che sentivamo le mani in sudore. — Ebbene? — Non ci abbiamo colpa. Eravamo in tre a guardare e a dirci: “Ma sono proprio lumi? Guardiamo bene, se mai non fossero lumi”. — Che cosa erano? — Era la fosforescenza del mare... — ..... — Quando ce ne siamo accorti tutti e tre ci siamo dati dei pugni nella testa, tanti, tanti, per il dispetto, per la rabbia d’essere stati presi in giro, d’essere stati lì alla bada di qualcuno che non c’era. Non mangeremo più tanto fiele, lo giuro! — Che ne dite, marinaio? — Anche noi, che si legge nel mare, delle volte si sta sopra pensiero..... * * * Facevano contrasto con la calma d’animo di quel marinaio, con la sua acquiescenza alla sorte, gli altri volontari del plotoncino, fra i quali ritornai verso il tramonto. Di una ventina di giovani era il plotone, compagnia curiosa, bizzarra: uno dei tanti riflessi della guerra. Chè c’erano studenti, figli di possidenti, braccianti, due calzolai, un muratore, un professore: gente che qualche mese prima non si conosceva, si frequentava poco, o si vedeva per tutt’altre cose, o si salutava appena per via. Negli ultimi giorni e nelle ultime settimane il movimento interventista li aveva accostati; avevano cominciato a trovarsi gomito a gomito nelle dimostrazioni, nei comizi, nei serra serra in piazza, quando la popolazione si rimischiava, e ognuno prendeva la sua parte e il suo posto. Tagliati fuori dal richiamo delle classi, s’erano arrolati volontari nel Corpo dei ciclisti: la stessa divisa, la stessa destinazione, lo stesso plotone: un’anima sola. Ma non era difficile, passando qualche ora a conversare con loro, ritrovare in ognuno l’uomo singolo e il movente particolare. Ciascuno portava veramente sotto i panni comuni la preoccupazione e passione, la sorte inalienabile, il segno della sua anima, il destino della sua vita. Il professore. Aveva forse trent’anni: alto, magro, cresciuto troppo e senza muscoli. Un poco anchilosato dalla vita sui banchi e sulla cattedra, dallo studio pesante e dalle fatiche aride dei compiti. Portava gli occhiali a staffa. Aveva preso parte attiva al movimento per la guerra: era sceso anche lui per le strade a dimostrare, a cercar di arringare; aveva buscato qualche pugno, aveva cercato di distribuirne. La guerra era stata per lui un problema, che era maturato lentamente, e che a poco a poco lo aveva distratto dalla vita contemplativa e portato in mezzo all’azione, insieme coi suoi studenti e in mezzo agli altri, nuovi, ignoti, che si agitavano confusamente. Aveva portato un po’ di ragione in mezzo alla comune passione; era un giovane di studi non larghi, ma seri; che aveva anche stampato un libro di buona critica sul filosofo e storico Ferrari. Iscrivendosi volontario, risolveva nel migliore dei modi il proprio problema intellettuale e morale: per dir meglio, risolveva quel cumulo di problemi che lo avevano occupato e tormentato per lunghi mesi: la necessità di una guerra nazionale, di liberazione completa dall’Austria, di tutti i nostri confini, di tutte le nostre terre e tradizioni e memorie — la partecipazione nostra alla difesa del mondo e della civiltà e pace latina, contro i tedeschi, barbari invasori e strapotenti, turbatori della comune quiete. Da quando era sotto le armi il suo cervello era in pace. Per altri, il volontariato era il più bell’episodio della giovinezza, la più lieta decisione della vita; un non so che di imposto e quasi necessario, pur nella libertà della decisione presa, dalla forza dell’età stessa, dagli ancor pochi legami con gli interessi pratici della vita, dall’esempio di tanti altri. Era bastata una parola del padre, e il suo consentimento, per andare a firmarsi e partire. E per altri, era la risoluzione di un puro problema di coraggio. Siccome c’era del pericolo, dei rischi, avevano voluto andare. Si sarebbero vergognati di rimanere a casa. Non avrebbero potuto più farsi vedere all’osteria e al caffè, ai loro vecchi, che ai bei tempi erano partiti, alle loro donne, che amano il coraggio. Ed erano tutti lì. Ma, come dico, non tranquilli; irrequieti; volevano andare al fronte. Da un mese, ogni volta che qualcuno tornava da una breve licenza, gli altri gli si facevano attorno, e domandavano: — Che dicono di noi, a Faenza? — Cominciano a pensare male. Dicono che siamo qui in villeggiatura. Ci dànno dei poltroni! Silvagni, il repubblicano, schizzava fuoco. Gli altri attestavano che a Faenza avevano ragione di parlare così. — Noi ci siamo inscritti, perchè vogliamo fare alle fucilate. — Non vogliamo più starci qui! — _Me a m’inscriv in tla fantereia._ — _E pu i dis_... (E poi dicono). — _Cus el chi dis?_ (Che cosa è che dicono?). — _I dis chi s’è fet vuluntèri d’quii chi n’a mai ciapè tant aedè._ (Dicono che s’è fatto volontario qualcuno che non ha mai cavato tanto dalla sua giornata). — E anche questo è vero. Facanapa non ha mai guadagnato tre e cinquanta! Il povero Facanapa era mortificato. Ma che colpa aveva lui se a lavorare la pelle delle scarpe non era mai arrivato a guadagnare tre e cinquanta? Avrebbe esposta la pelle propria anche per meno. — _Basta chis manda prest a e front!_ Era il ritornello, il principio e la fine d’ogni discorso. Quelli che erano, se non garibaldini? O che importa se non avevano la camicia rossa? Io li preferivo vestiti di panno grigio. Non imitavano nessuno, non volevano far rinascere nessuna forma caduta: erano garibaldini nell’anima, poichè partiti volontari e poichè volevano andare al fuoco. Sentivano la guerra, più ancora che la milizia, amavano lo slancio più ancora della disciplina. Erano certo più generosi che ubbidienti. Ma solo perchè sapevano di potere ubbidire a se stessi, di potere fare fidanza nel proprio coraggio, e negli istinti profondi di bravura che ognuno aveva vivi entro dì sè. * * * Essi volevano “andare alla guerra”, e non si accorgevano che già c’erano. Poichè la guerra era per ognuno quella interruzione improvvisa e totale di abitudini: quella partenza e lontananza dalla famiglia e dalla casa, quella vita obbligata e metodica di tutti i giorni e di tutte le notti e di tutte le ore; quel dormire sulla paglia, quell’alzarsi a mezzo la notte per montare la guardia, quel passare lunghe ore su e giù per la spiaggia, sotto il sole, sotto l’acqua, nel vento, nel freddo, al buio, nella solitudine, fra la malaria..... Non era quella una via e un compito di soldati in guerra? Non era guerra, quell’essere rimossi da ogni solito pensiero e quotidiana occupazione; quell’essere pronti a tutto e sapere di servire a tutti, quell’avere il pasto versato in una gamella di latta, offerta dalla nazione, insieme con la carne e il pane; non era guerra quell’avere amici e compagni nuovi, quel guardare tutte le cose intorno con cuore più intenso e con occhio quasi più leggero e staccato, come cose che si possono lasciare fra poche ore e abbandonare per sempre? No, non era guerra per loro. Volevano il pericolo continuo, essi, il cannone, la fucilata, veder la morte in faccia, passarci per quel punto che par così rimosso da tutte l’altre vie della vita e dai momenti comuni. Augurai che il desiderio potesse essere presto soddisfatto. E che fra qualche giorno essi non fossero più là. Qualche guardia di finanza li avrebbe sostituiti. E lì presso sarebbe rimasta, durante la guerra e dopo la guerra, la silenziosa scolta eschilea della terrazza sulla torre del semaforo, il marinaio dal petto scoperto e dal capotto marrone col cappuccio a triangolo: l’occhio tranquillo del cannocchiale, la pura pupilla che aderisce alla lente. VELE LATINE Fano, agosto 1915. _A Sante Solazzi._ S’usciva ancora, quella mattina. Una delle ultime. Poichè adesso i porti e i canali sono chiusi, una catena sbarra l’imboccatura, e le barche, l’una addosso all’altra, accosciate con le pance sull’acqua, stanno dentro come greggi di pecore raccolte nello stazzo. I marinai passano la giornata nelle osterie, picchiano sodo coi pugni sulle lunghe tavole, giocando alla morra; tracannano il vin cotto, e al tramonto si vedono tornare a frotte dalle trattorie di campagna, dai giochi di bocce di Sgarzino e di Carboncino, abbracciati pel collo, dondolanti, ubbriachi. La vita di terra fa loro girare la testa. Il sole non s’era ancora levato; l’Adriatico era deserto. Solo una piccola vela, al largo, luceva come una fiammolina nella penombra argentea e nuvolosa del crepuscolo: un battello che non era potuto rientrare la sera, e che andava verso Pesaro, a scaricare il pesce. Ma poco fuori del porto c’era il battellaccio del Sordo, con la vela stanca, la prora volta alla spiaggia. Il Sordo aveva passato la notte fuori, contro l’ordinanza del capitano di porto, e ora voleva rientrare. Si udivano i colpi regolari dei remi entro gli scalmi; ma la voga era così fiacca, che il legno, che prendeva una bava di vento da terra, stava fermo. Da più di un’ora il Sordo vogava, e la sua vecchia carcassa si curvava in avanti, per risollevarsi, e ricadere sulle lunghe ali pesanti del battellaccio immobile. Di quando in quando giungeva la voce: Oooh! Oooooh! Chiamava che venisse qualcuno a rimorchiarlo. Il suo pareva il richiamo d’un naufrago abbandonato, lungo e monotono, paziente, d’un sordo che tentasse con la voce di scuotere dei sordi. Nessuno gli badava, chè ancora non c’era nessuno sulle calate. Le case dei pescatori, lungo il canale, erano chiuse; i barchetti legati da prora e da poppa, dormivano con le vele ammainate, in una quiete così stanca, che quasi faceva tornare la voglia del sonno. Più tardi cominciarono a giungere gli uomini, e anche i ragazzi. Con le camisacce di rigatino, i maglioni di lana aderenti al petto come corazze, le camicie di colore aperte sotto la gola, i piedi scalzi, quasi camminassero ancora sul pavimento delle loro camere, fra l’ampio letto in cui dormono le spose, e i materassi, per terra, su cui i figlioli si ammucchiano nell’aria greve. Si mettono le scarpe nei giorni di festa, ma sulle coperte dei loro trabaccoli piantano i pollici grossi e nocchiuti, le dita che prendono le corde come quelle di una mano e le stringono, i calcagni che hanno la cotenna e fanno il tonfo sul legno asciutto e sonoro delle barche. Cominciavano a venire giù i paroni e i morea, gli uomini di fatica e di timone; alcuni vestiti come operai che vanno alla fabbrica, senza nessuna di quelle caratteristiche pittoresche che hanno i marinai nell’immaginazione della gente di terra che non li ha mai osservati. Parevano ancora pieni di sonno, quasi corrucciati dal vino bevuto il giorno innanzi in occasione della festa. Le ciglia penavano a svincolarsi dall’accapatura; le facce erano dure; un non so che di lento e meccanico, di abitudinario era nel loro passo e in tutti i loro atti. Scendevano nelle barche, passavano dall’una all’altra, scavalcando i loro bordi che si toccavano; si calavano nei boccaporti per riporre il fagotto del pane e la bottiglia di acqua o di vino che portavano con sè. Poi, man mano che gli equipaggi si completavano, cominciavano le manovre per uscire; le prime barche calavano le vele, aprivano le ali colorate al sole che veniva su dal mare, rosso lanternone rotondo razzante come la luna di prima sera. E a poco a poco, col moversi delle barche, si scioglievano anche le lingue in bocca, s’udivano i comandi, gente correva ai bordi, sulle coperte, s’arrampicava agli alberi, si chinava a far nodi con le funi; lentava le gomene, le borine, le scotte, tra un dirugginìo di carrucole, e uno sbattere ancora lento di pennoni contro i legni, e uno schioccare di velature, chè il vento, verso la bocca del canale, cominciava a tirare e fioriva le acque di una marezzatura verde. Erano le parole della manovra, i consueti suoni di ogni mattino; ogni qual volta la flottiglia peschereccia usciva sul mare tranquillo si ripetevano, uguali. Nei giorni di maretta erano diversi. E così dopo gli altri, quasi ultimo nella fila del branco “Il Risorgimento” uscì anche esso: con Guideo, ritto alla barra; il grande alto Guideo, che pareva un colosso sulla piccola imbarcazione. * * * Ora le barche sembravano una schiera di farfalle sciamanti. Apparivano le mura della città, di lontano, gli alti bastioni malatestiani, il mastio della fortezza, dove ora sono le celle pei carcerati: il camino della filanda; le casette lungo i viali dello stabilimento; e le strisce lunghe dello spiaggione verso Pesaro da una parte, verso Marotta dall’altra. Sopra la città parevano pendere i monti: Monte Giove, con l’eremo dei Camaldolesi deserto; e quando fummo più al largo avvistammo le forche di Cagli, il passo dei Romani, di dove giunge la Flaminia, che sbocca sul mare in quel punto per piegare a sinistra su verso Rimini e le antiche Gallie. Poi la doppia gobba del Catria e il Carpegna. * * * Eravamo a otto o nove passi d’acqua, e Guideo s’era seduto accanto alla barra; gli altri calati sotto, s’erano buttati sugli strapunti, in attesa di essere chiamati su per gittare la rete. — Ecco, fu qui, disse Guideo. L’altra notte ci trovammo con le navi austriache in mezzo a noialtri. Era buio, credevamo fossero i nostri, e ci avvicinammo per vedere. Ce ne siamo accorti dopo, che erano loro; parlavano italiano e ci hanno chiesto se l’acque davanti a Fano erano minate. Che Dio li fulmini, venivano proprio a domandarlo a noi! Ho risposto io: “Noi non sappiamo niente”. E quelli hanno continuato ad avvicinarsi alla costa. C’era il barchetto del Grosso, davanti a loro, gli hanno detto: “Fatevi in là che dobbiamo tirare sui ponti”. Si vedevano i cannonieri ai pezzi, e si sentì _buumm_, _buumm_. Che tiratori sono? Lo vede il ponte sul Metauro? È lungo, no? Ci avessero cacciato un colpo! Fossero stati i nostri: lo vedeva il bersaglio, dove andava finire! Ma quelli! E dopo andarono davanti a Pesaro, che anzi i pesaresi, sentendo le cannonate dalla parte di Fano, erano andati giù allo stabilimento e alla spiaggia, per vedere lo spettacolo, e quando videro le navi venire, via tutti a corsa, chi a chiudersi nelle cantine, chi a prendere la campagna. E _buumm_ _buumm_ anche su loro, ma non ci sono state disgrazie. Con la ferrovia lì sul mare, non sono stati buoni a romperla! Io dico che fanno per spaventare la gente. Ma da noi c’erano le mura piene di uomini e di donne e di ragazzi che guardavano coi cannocchiali! Sempre sulle mura sono gli osservatori, i padroni delle barche, i pescivendoli, gli sfaccendati, i quali coi gomiti appoggiati al muricciolo, cercano sul mare le imbarcazioni: le conoscono a una a una, ai colori della velatura, sanno vita e miracoli di ogni equipaggio, affari di famiglia, gli amori, i fidanzamenti, i matrimoni, le disgrazie, i guadagni, tutto sanno. E là su in alto chiacchierano come i vecchioni di Ilio, mentre le paranze arano il mare, e combattono con le onde e con il vento. — Adesso — riprende Guideo — è venuto l’ordine di non più star fuori la notte: si esce all’alba e si rientra al calare del sole. — Guideo, un sigaro? Ringraziò, prese il sigaro, lo ripose nella tasca della giacchetta. — Lo fumo dopo colazione. Adesso salpiamo. E diede la voce a quelli che erano sotto. Recarono su la sfogliara, legarono con la sciagola il fondo del sacco, e messo il timone all’orza, gittarono in acqua le maglie, a bracciate. Si vide la rete nera stendersi, allungarsi, nuotare a guisa di pesce, con la larga bocca triangolare spalancata, con la coda guizzante, e man mano che le si dava la corda dilungava da noi, e affondava nell’acqua chiara. Finchè non se ne vide che l’ombra, poi più nulla: la fune fu lasciata correre fuori del bordo e _Il Risorgimento_ riprese l’andatura sua tranquilla, sotto il vento che rinforzava. Anche gli altri avevano gittato la rete, e la flottiglia sparsa sul mare procedeva più lenta. Ora i battelli sarchiavano il fondo del mare. * * * Tutti gli uomini tornarono sotto, fuori che Andrea e Remigio. Remigio aveva preso il posto di Guideo, alla barra, e parlava della guerra. Aveva avuto un nipote sull’_Amalfi_, che s’era salvato a nuoto, e adesso l’avevano mandato al fronte sull’Isonzo, con le batterie di marina. Dopo l’affondamento dell’incrociatore, Remigio aveva avuto una lettera dal nipote, in cui diceva che la vita era salva. Ma un altro di Fano, che aveva un figlio sulla nave, era andato a Venezia ed era tornato recando le notizie dei compaesani e i saluti alle famiglie. Tutti stavano bene. Parlava della guerra con la calma di un uomo di mare, che quasi non conosce il valore del tempo, che sa attendere, che non ha fretta. Parlava della guerra come un povero uomo del popolo, che sa di non capir nulla delle cose che si fanno tanto lontano da lui. Non era mai stato soldato sulle nostre navi; ma aveva sotto le armi una quantità di nipoti e di figli, che gli avevano lasciato in custodia le loro famiglie. — Quanti anni avete, Remigio? — Ho cinquantott’anni sulla vita mia, e un mucchio di ragazzi da mantenere. Quello è uno, vede? È il figlio di una mia figlia. Gli fa male il mare. Il ragazzo stava accucciato sulle tavole, con la faccia sugli avambracci, a pancia sotto, e non si moveva: come fosse inchiodato nel sonno. — I guadagni son pochi: e mangiare bisogna mangiare. Finchè c’è la salute, si va avanti, ma babbo ha da pensare a tutti. Il babbo era lui: babbo dei babbi, che aveva cinquantotto anni “sulla vita sua”. — Con questa vita faticata, li portate bene. — Si fa adesso un po’ di vita faticata, che siamo pescatori: prima della guerra si navigava. Caricavamo legname. Tutti i porti di là erano nostri: da Monfalcone a Trieste, a Zara, a Corfù. Tante volte ci siamo stati. Adesso s’è disarmata la barca grande e abbiamo preso in cinque questo barchetto, tanto per campare. Ma di giorno si pesca poco; al largo non si può uscire; in capo alla settimana ci spartiamo qualche decina di lire. Tacque, l’occhio rivolto alla prora. Ci passava dinanzi tagliandoci la strada il barchetto di Sbroccaseppie, vele rosse coi trezzi bianchi. Sulla coperta non c’era che il timoniere: alto, diritto, i gomiti appoggiati alla grossa barra: — Oooh! — Oooh! Si passavano la voce da un legno all’altro, e ognuno continuava pel suo cammino. Il sole era alto nel cielo; diffondeva sul mare una sonnolenza greve, cullata dallo sciabordare delle onde contro i fianchi neri del legno. Di sotto le palpebre socchiuse vedevo Andrea che rattoppava la rete della sfogliara piccola: il lungo ago di legno entrava e usciva di tra le maglie colorate in rosso rugginoso. Verso le undici ci mettemmo contro vento per fare la prima mano. Avevamo pescato una cesta di sfoglie e di roscioli. Guideo tirò fuori il coltello e preparò il brodetto. S’erano portati con noi due fiaschi di vino e mangiammo con poche parole, all’ombra della maestra. * * * Ora Guideo s’era rimesso al timone, mentre il vento rinforzato trascinava il barchetto e le due sfogliare. Gli altri erano scesi a fare la dormita lunga sui ranci di sotto coperta, dopo il pasto. Accanto al pilota era rimasto Remigio, con la pipa in bocca. E Guideo, messo un po’ su dal vino, canticchiava: Bella Fiume e bel Trieste. Anche lui conosceva i porti di là dal mare: anzi, lui meglio degli altri, benchè fosse più giovane, ch’era parone. E aveva nella sua cabina la “geografia”. Voleva dire l’atlante, le carte di navigazione. C’era stato tante volte di là, presso quelle “ostie di slavi e di tedeschi” con la sua barca vagabonda. Conosceva i nostri nemici, perchè li aveva veduti sulle calate e nelle osterie, li aveva incontrati per le strade di Trieste e per le isole dalmate. Aveva assistito alle risse fra loro e i nostri. — Bisogna vincere, adesso, se no sarebbe il caso di non farsi mai più vedere di là! — È una questione d’onore — dice Remigio. — A me pare una questione di vita — corresse Guideo. — Se non si vince siamo morti. — Hanno da morire loro, hanno. — Questo è sicuro. Ma hanno tutti quei buchi di là, che ci dànno da fare. — Quali buchi, Guideo? — I buchi, no? Non è tutta buchi la marina loro? Si nascondono come la grancelle attorno agli scogli. Noi altri abbiamo tutta la marina aperta, ma non fa niente. Verrà il giorno che li cacciamo anche da Pola. — Se ha da venire! — disse Remigio. — Avessi da andare anch’io, avessi: e poi non m’importerebbe niente andare a fondo, viva la Madonna! Tanto per quattro giorni che s’ha da vivere..... Per correre il pericolo di morire in America, è meglio morire qui! — Siete stato in America, Remigio? — Quando ero giovane. Ci ho quasi lasciato la vita per le febbri: e una volta ci lasciavo i quattrini, ch’era peggio. Mi fecero prendere una sbornia in un’osteria, avevo cento scudi in tasca, e me li son trovati la mattina dopo tutti acciaccati: ho avuto tanta paura che sono andato subito alla posta e li ho spediti a casa. Era il tipo del nostro emigrante, che lavora e s’arrapina e fa la fame, ma mette insieme il suo gruzzolo col quale torna in patria, e si fabbrica la piccola casa sulla spiaggia del mare, o si fa fare un barchetto per navigare. Era anche uomo di lettere. A forza di leggerla aveva ormai tutta nella mente la “Storia dei Reali di Francia”. — Remigio, raccontate un po’. — Cosa vuol che racconti io, lei la saprà meglio di me. Io no, non la potevo sapere meglio di lui. E lo lasciai raccontare. Parlava di Fioravanti e di Carlo, diceva che allora si combatteva solo ad armi bianche. Ma Guideo, scettico, rideva ogni tanto. Non abboccava a quelle favole. — Adesso — diceva Remigio — non si crede più a niente. Una volta eravamo più stupidi. Lasciamo andare..... Guideo lo incitava: — E bada a contare, bada. — A vedervi ridere, mi vien da ridere, come ho da fare? Basta, allora, Fioravanti, seppe che c’era un gran torneo per trovar marito alla figlia del re..... * * * Calava il vento, era l’ora che le barche riprendono la strada del porto. La terra sfumava laggiù in contorni vaghi, con molto rosso di sole calante. Il mare s’era fatto mosso: un mare lungo, con onde che venivano al galoppo e _Il Risorgimento_ con le sfogliare legate rullava, con lo scroscio del suo legname pesante. Gli altri cominciavano a salpare, salpava _Mamulòn_, il _Biagiolo_, _Lipin_, più vicini a noi. Salpammo anche noi, lasciata la prora al vento. C’impromettevamo una pesca bella; il vento avendo tirato forte fin dalla mattina. Ma Guideo: — Ragazzi; siamo andati! I _dulfin_! Cercammo sul mare i grossi bestioni che tengono dietro alle reti per bucarle e divorare il pesce. — Eccone uno..... — Due..... — Quattro. Eravamo inseguiti da un branco. Erano a tiro di voce dalla nostra barca, ma non si scomponevano, venivano dietro senza paura. A uno a uno, a due a due uscivano con l’arco della schiena dall’acqua, si rituffavano col testone nero, a capofitto, s’immergevano veloci come siluri, scomparivano, per ridar fuori di lì a poco con un soffione e una capriola. Andavano al fondo a bucare il sacco e parevano tornare su per inaffiare la bocca con uno sbruffo di schiuma. Le loro groppe nere si paravano come un bersaglio, a poca distanza. Ci inseguirono fin che le reti non furono ritirate, poi scomparvero. E noi, quando tirammo su i sacchi, trovammo due enormi strappi e tra un mucchio di fango qualche libra di pesce. — Ecco la giornata nostra — disse Guideo, allargando le braccia. — Anche i delfini ci fanno la guerra. Lasciata agli altri la cura di lavare e spogliare il poco pesce, afferrò la barra per imboccare il porto. UN DOTTORE Settembre 1915. _A mio zio Giovanni._ S’era laureato a Modena nella sessione di maggio; subito era stato chiamato al Distretto come sottotenente della Sanità. Non aveva ancora fatto il dottore, e non aveva mai fatto il soldato: entro le ventiquattr’ore dovette equipaggiarsi e partire pel fronte. Bene, si parte! Lo accompagnammo nei giri per i negozi: la divisa, la sciabola (la rivoltella l’aveva: un vecchio macchinone che arrugginiva in casa entro un armadio), i gambali, la cassetta; non ricordo quante altre cosucce. (Ah, gli stivali: grossi, morbidi, gialli, con le lunghe stringhe rotonde, di cuoio, il suolo imbullettato, stridente, sonante sulle mattonelle rosse del negozio). A me non sarebbe bastata una settimana, a mettere insieme il corredo. Io sono un buono a nulla in queste occorrenze. Egli provvide a tutto rapidamente, ordinatamente con quel fruttuoso genio dell’organizzazione, che rende così notevole un uomo per tante altre parti comune. E che è, sovente, fondato su qualità di osservazione diretta e precisa, che pochi hanno. Il nostro Enrico le ha. Non molte parole, immaginazione anche meno, niente poesia; ma Enrico osserva. Ha certi occhi di miope, cauti insistenti che non lasciano le cose se non dopo averne portato via i contorni. Vorrei avere io una retina sulla quale gli oggetti restassero incisi così a fondo. Gli stanno disegnati nella memoria per anni e anni, per sempre. Glielo ho detto tante volte: Se tu avessi ingegno letterario, potresti fare lo scrittore. Ma alla licenza liceale fu bocciato in italiano. Non importa. Il fatto è che in maggio prese la laurea; e partì con un battaglione per la guerra. — Vedete come tutto s’accomoda — dicemmo noi. Ci siamo tante volte preoccupati di lui e del suo avvenire. Quando avrà presa la laurea, che farà Ernesto? Concorrerà a una condotta di campagna, e andrà a seppellirsi fra i monti? Ci siamo presi fastidio per nulla. Ecco che dalla mattina alla sera egli è a posto. Dio mio, non che fosse un ufficiale brillante. Gli ufficiali brillanti vanno bene in tempo di pace (nei salotti, nelle sale da ballo, nei concorsi ippici). In tempo di guerra ci vogliono anche i buoni borghesi, i borghesi solidi, quadrati, massicci, che non hanno nulla di brillante e di “militare”, e che rappresentano così bene la nazione che combatte, che coopera, sotto il panno grigio dell’esercito, sotto le mostrine innumerevoli delle varie armi. Il nostro esercito che combatte è quasi tutto così. Il nostro Enrico è in un reggimento di fanteria, di una classe di richiamati. Fino alla vigilia erano borghesi anche i suoi soldati. Quando partirono, i portaferiti erano forse meno allenati del loro sottotenente alle fatiche del campo. Erano tutti vestiti allo stesso modo, ecco l’importante. Tutti con lo stesso zaino, lo stesso fucile, la stessa mantellina, e lo stesso numero di reggimento sul davanti del berretto. Erano “quelli del 161”: un bel numero progressivo, che fa pensare a una distesa massa di uomini, a una spianata immensa, su cui brulichino centinaia di migliaia di uomini incolonnati. La terra scompare sotto la marea d’armi e d’armati. Il dottore ha buona gamba. Da quattro anni è della _Sucai_; ha fatto tre campi in alta montagna; è cittadino emerito di tre Tendopoli. S’intende di gite in montagna, di vita in montagna, di tende e di cucina, di sacchi e di zaini, di piccozze, un poco anche di sci. E il suo reggimento partì proprio per l’alta montagna. Dunque: Studente — sucaino; dottore — ufficiale. Sano. Robusto. Buono, cordiale. Servizievole. Paziente. Senza nervi. Piemontese. No, non faceva “un brillante ufficiale”. Ma molto di più. * * * Ora sono passati quattro mesi. Durante i quali ci ha scritto più volte la settimana, lettere e cartoline. Cara mamma, care sorelle, caro Luigi. Ne abbiamo un pacchetto, di sua corrispondenza. Come oggi tutti ne hanno in famiglia. La mattina, la prima cosa che si chiede al postino è la lettera dal fronte. E si sta bene tutto il giorno. Si legge e si rilegge, se ne parla, si commenta. Ognuno segue il suo caro, lontano. Lo si pensa e lo si vede. Lo si colloca con l’immaginazione in un paesaggio, che è poi tutto di nostra invenzione; in una cameretta così e così, fabbricata da noi, con la finestra che guarda su un prato, su una strada, su un fiume, verso una montagna; o sotto una tenda, in un bosco di pini, o di faggi, o di abeti, o tra i macigni, in mezzo alle rupi, sul dente di una cresta, in mezzo alle altre tende, vicino ai carriaggi, non lontano dai muli; e più oltre un parco d’artiglieria, e una staccionata pei buoi della sussistenza. Ogni lettera che arriva di lassù, reca qualche particolare, che si aggiunge ai precedenti: e compie il quadro. Un quadro che si finisce col vedere quasi con gli occhi della fronte: tanto ci si fissa; tanto ci si pensa di giorno e di notte, a occhi chiusi, non meno che a occhi aperti. * * * I primi giorni, era l’avanzata. Andavano a cercarsi il proprio posto. Si ricevevano cartoline più che lettere; non c’era tempo per scrivere a lungo; le cose erano un po’ sottosopra. Tutto era nuovo, le abitudini, la compagnia, i doveri del servizio. Un po’ di smarrimento, un po’ di stanchezza. Quello che più mi piaceva nelle sue lettere era l’assenza di idee. L’uomo che non pensava che al suo posto, al suo mestiere, alle piccole cose che riguardavano proprio lui, alla sciabola che era forse inutile, alle scarpe che facevano un po’ male, a qualche lieve incidente. Era proprio l’uomo senza crisi, senza impazienze e preoccupazioni e anche senza facili ebbrezze: semplice, queto, e parco di emozioni; direi economico. Ma appunto per questo, buono alla guerra, alla guerra lenta, lunga, che in molti consuma prima ancora lo spirito che il corpo. Tutta la sua cura era nel mettersi a posto, nel divenire un piccolo dente dell’enorme ingranaggio. “Mi sto ingranando, scriveva, e non mi riesce difficile. Anche in guerra si è uomini come in pace. E io sono un dottore, al seguito di qualche centinaio di clienti. La mattina passo la visita, vedo qualche lingua sporca, distribuisco qualche pozione di olio di ricino. Come vedi, comincia bene”. Di tappa in tappa egli, con i suoi uomini e le carrette, seguiva il battaglione. Una notte si persero. Il battaglione era andato avanti, il dottore doveva raggiungerlo. A un bivio dovevano esserci le segnalazioni, e non c’erano. Si fa un piccolo _alt_, e si tiene consiglio. La notte è buia, si staccano le lanterne dai carri, si esplora la massicciata, prima a destra, poi a sinistra, per sorprendere le peste del reggimento. Ma c’erano segni di un passaggio recente da una parte e dall’altra. Si chiama ad alta voce: Olà sentinella! Nessuno risponde. Intorno non c’era che buio denso, che pareva appiccicato come una vernice nera e spessa a tutte le cose, ai fossi, alle siepi, ai campi, alla terra, al cielo. Un buio che empiva la notte, come il vano di una grotta, e teneva fermi quei dieci o dodici uomini, accanto alle carrette: fermi come i cavalli, che pareva si fossero addormentati. Adesso che la strada non li guidava più, qualcuno s’era seduto per terra, attendeva la decisione dagli altri, contento che non ci fosse più un comando, perchè non c’era la possibilità di un comando. (Erano i primi giorni di guerra; molti soldati ancora pigri; qualcuno pieno di malavoglia, di disinteressamento, con un po’ di egoismo, con un po’ di piccola cattiveria. Non gli dispiaceva vedere il superiore nell’imbarazzo; non gli dispiaceva non aver trovata la sentinella al suo posto. Un esercito è una macchina, di proporzioni enormi. Ci vuole, a metterla in moto, qualche po’ di tempo. Poi tutto cammina). E il dottore disse: — Chi di voi vuole andare per quella strada, a vedere, a domandare? Ci dovrebbe essere qualche sentinella più su. Nel gruppetto intorno all’ufficiale tre o quattro si guardarono in faccia senza parlare. Il sottotenente capì che nessuno aveva voglia. Avrebbe potuto dare un ordine, non lo diede. Disse: — Staccatemi un cavallo, vado io. Glielo sciolsero dalle stanghe, lasciandogli in dosso tutti i finimenti. L’ufficiale saltò sulla groppa, impugnò le redini, si volse per dire: — Non movetevi finchè non sarò tornato. E partì per una delle due strade, nel buio, solo, al trotto. E andò, andò, senza incontrare nessuno, sempre salendo la costa di un monte, senza sapere dove riuscisse la strada. Trottò per più di mezz’ora. Poi per un’altra mezz’ora. Gli venne il dubbio di avere perfino passato il confine. Ogni tanto portava le mani all’anca destra: la busta della rivoltella gli dava una sensazione gradevole nel buio tutto uguale, e avanti ancora. Finalmente, un: Alto là! Chi va là! — Ufficiale. — Che ufficiale? — Ufficiale della Sanità, italiano. — La parola d’ordine. — Mi sono perso. Dove siamo? — Al forte di..... — Ebbene, ho sbagliato strada. Conducimi al forte. Era salito al forte, dove fu accolto con sorpresa, e un ufficiale gli spiegò dinanzi agli occhi una carta. Era l’altra strada che doveva prendere. Risero, sturarono una bottiglia, e poi di nuovo in groppa, e giù verso il crocicchio. Aveva trovato i suoi soldati pieni di ansia. Avevano temuto per lui, l’avevano immaginato prigioniero, dopo due ore di attesa. Il fatto è che avevano ammirato il suo coraggio, si vergognavano, adesso, di non essere andati loro, di non averlo accompagnato. “Un’altra volta non mi lasceranno andare solo — ci scriveva nella lettera in cui narrava l’avventura. — Per questa, mi basta di aver loro dato una lezione, senza bisogno di sgridarli”. Da allora i soldati cominciarono a volergli bene, a sentirsi legati a lui, a capire che in guerra bisogna stare insieme, essere d’accordo, sentirsi tutti uniti, aiutarsi sempre. Come, del resto, in qualunque occorrenza difficile della vita. * * * In luglio andai a trovarlo. Quando giunsi al paese dove il battaglione doveva essere accantonato, seppi che questo era partito da mezz’ora per una località più avanzata, che a me non era possibile raggiungere. Dovevo dunque rinunziare a vederlo. Tuttavia provai a spedirgli un biglietto, per un ciclista che pedalava verso quelle parti. Lo avvertivo che l’avrei atteso ad Asiago fino a sera. Gironzolai per il paese tutto il giorno, m’imbattei in parecchi conoscenti ed amici, coi quali si parlò di tante cose, e anche di lui. Poichè tutti lo conoscevano, di nome e di persona e di fama: il dottore del battaglione, allegro, servizievole, bonario, che si prestava a tutto, e non diceva no a nessuno: che aveva fatto perfino l’ufficiale di mensa. E verso sera lo vidi venir giù per la bella strada bianca, inforcato sulla bicicletta; gli tesi le braccia, ci scambiammo due baci, come fratelli. E quella notte non si dormì. All’alba egli doveva essere di ritorno, io dovevo ripartire. Domande e domande, una dopo l’altra: con una curiosità di notizie, di impressioni, che pareva una sete; ed egli mi dissetava. Parlava, come suo costume, lento e un po’ monotono, senza scatti, senza vivacità; calmo, continuo, inesauribile, sicuro, preciso, pieno di cose, di fatti, di osservazioni, quasi senza giudizi, senza personalità, ma di quel che diceva ci si fidava, perchè non era un intellettuale, nè un che cedesse alle impressioni sùbite, ma un ragazzo senza nervi, che guardava gli uomini come avrebbe guardato le cose, che guardava i morti in faccia come guardava i vivi, senza impallidire. Quando si sono sezionati, sulla tavola anatomica centinaia di cadaveri, centinaia di “pezzi”, si fa un’anima buona a tutte le circostanze, anche alle peggiori: si sa che alla morte bisogna arrivarci, e che più in là della morte non si va. La cosa è diventata semplice, e senza sorpresa. Non era ancora stato in trincea: non poteva dire che cosa è la guerra per chi combatte; ma raccontava la guerra di chi si prepara, di chi si allena, gli episodi della vita di accantonamento, i fatterelli della mensa, le caratteristiche dei compagni, le parole e l’anima dei soldati, la vita sotto la tenda, la sua preparazione al grave compito che lo attendeva, parlava dei mezzi che aveva a propria disposizione come dottore, dei portaferiti, delle barelle, dei medicinali, dei rifornimenti e d’altre cose; ma solo di quelle che aveva vedute lui, che erano la sua esperienza di due mesi. Io cercavo di capire se la vita militare l’avesse mutato: e in che cosa l’avesse mutato. Lo ritrovavo sempre uguale, sempre lui. Solo che la sua opera pratica s’era organizzata, ora, intorno a un dovere, a uno scopo, a un fine: ed egli era un uomo utile, era la parte di un tutto; aveva un compito e una responsabilità che lo ingrandiva ai miei occhi, lo ingrandiva agli occhi dei colleghi. Era il dottore del battaglione: a lui erano affidate delle vite, dalle sue cure avrebbero dipeso le sorti di chi sa quanti feriti, la riconoscenza e il sorriso o le lacrime di chi sa quante famiglie. Tutto questo egli non lo diceva, forse non perdeva tempo a pensarlo: ma lo _sapeva_, perchè lo sentiva dentro, accettando la guerra per quello che è, non scherzando sul proprio ufficio, pieno di una serietà che non si espandeva in parole, che era una cosa sola con la sua anima silenziosa, naturale, profonda. Rinasceva in lui, nell’occasione della guerra, il morto nonno materno, che era stato dottore del piccolo suo paese natale, che era stato cinquant’anni prima il “medico” per antonomasia, di una terra di fittavoli e di borghigiani; che aveva vissuto fino ai settantasei anni fra gli ammalati e i poveri; che aveva tenuto una condotta vasta come una regione, correndola a sella dalla mattina alla sera e di notte, a qualunque ora, per qualunque tempo; che rompeva le reni a tre cavalli il giorno, per raggiungere, là nelle langhe del Monferrato, per le scarpate dei colli, per i sentieri, i cascinali più remoti; che era rimasto, dopo la morte, un mito, per la gente del popolo. Sepolto quello, non ce n’era stati più di medici come lui: ne erano venuti su altri, molti, che tutti insieme non facevano le sue fatiche e non ritiravano indietro, quanti erano, tanti, vicini a morire. * * * Finalmente sapemmo ch’era in trincea, sotto il fuoco, e lavorava anche lui di zappa e di badile. Lo vedemmo, con la fantasia, rannicchiato nella sua buca; tutto caldo nei maglioni e nelle calzature di lana che gli avevamo spedite. E cercavamo sulla carta il posto avanzato nel quale egli era col suo battaglione. Egli segnava con la sua persona un punto del nuovo confine d’Italia! Ed ecco, l’altro giorno, una gran lettera: la descrizione di un assalto. “Cara mamma, “Mi trovo qui davanti un mucchio di vostre cartoline e lettere, che rilessi e alle quali rispondo cumulativamente con questa mia. Molte volte ho cominciato lettere, e non ho potuto continuarle e finire: per scrivere bisogna avere almeno un paio di ore di tranquillità e di libertà. Tranquilli non si può essere mai, liberi non s’era nemmeno nei così detti giorni di riposo, quando tutti i giorni c’erano marce o tattiche o finti combattimenti. “Eravamo nel paese di C....., vicino ad A.....; i soldati erano accantonati, ossia alloggiati nelle case, gli ufficiali sparsi per gli alberghi. Poi, come vi scrissi, siamo tornati su al fronte, e lì si fece servizio di trincea, un po’ in prima linea e un po’ indietro. “Ci fu un gran bombardamento di tutte le artiglierie per varii giorni e notti, nella sera del..... scorso siamo andati avanti verso il forte di..... Arrivammo nel bosco di.... che lo fiancheggia, a notte fatta: ci accompagnava l’artiglieria da montagna. Eravamo in due reggimenti; il mio, e precisamente il 1º battaglione doveva andare avanti nelle prime ore del mattino. Ho impiantato il posto di medicazione in una valletta il più avanti possibile, per abbreviare la strada ai portaferiti, che seguivano il 1º battaglione, e che hanno l’incarico di sgombrare il campo dai caduti per portarli ai medici. Fra gli alberi si vedeva bene la pianura, ossia una serie di collinette, di vallette con erba alta, ortiche, cardoni, scavate qua e là da grandi buche fatte dalle nostre artiglierie. Una stradetta di campagna l’attraversava, poi dei muretti a secco, qualche larice qua e là, da una parte il forte, davanti a lui i reticolati; dall’altro il..... collina che sembra un panettone, tutta trincee e reticolati, forse tutta gallerie e mine; più in alto ancora c’è un monte, lo..... anche lui col suo fortino. “C’era una bellissima luna e pareva di essere in pieno giorno. Finchè siamo stati nel bosco al coperto, arrivavano cannonate in alto, con nessun danno. Parevano treni diretti che fischiassero in lontananza. Ma poi si accesero qua e là riflettori: uno dal monte frugava in basso, il forte si illuminò con un altro riflettore; le sue trincee erano segnate da tante lampadine, e pareva di vedere una nave illuminata in mare. Andarono avanti i soldati guastatori, che devono tagliare o far saltare con tubi di gelatina esplosiva i reticolati, e cadde subito il tenente che li guidava. Ai primi tagli dei fili spinati, siccome ci sono i fili elettrici, i soldati hanno sentito squillare anche le sonerie elettriche nelle trincee del forte. Si vede che frammischiati al reticolato ci sono linee di campanelli: il soldato di notte non le distingue, le taglia, avviene il contatto, e il suono dà l’allarme. Io dal bosco vidi inalzarsi dei razzi verdi luminosi, e poi subito funzionarono le mitragliatrici, che scoppiettano come motociclette. Sono pericolosissime, poichè si sa che dove battono tagliano addirittura l’erba. Ogni tanto sparavano, poi tacevano; non si vedevano, naturalmente, e si andò avanti. Albeggiava quando arrivarono i primi feriti, a piedi e in barelle; poi il numero andò man mano crescendo, e noi due medici non bastavamo più, e chiedemmo aiuto dei medici del 2º e 3º battaglione, che stavano nel bosco, di rinforzo al 1º battaglione, che avanzava. Quando ci dissero che quattro ufficiali erano feriti, io lasciai il posto di medicazione e sono sceso coi caporali di Sanità e col padre Marcello sul campo. Allora non pensavamo al pericolo, ma vi assicuro che andare avanti allo scoperto era un affare serio. Ogni uomo, o sano o ferito, che si movesse era un bersaglio alla artiglieria da montagna nemica, e alle mitragliatrici e ai pochi, ma buoni tiratori scelti. L’artiglieria fa poca paura, ma sentire le pallottole di fucile e di mitragliatrice passare rasente il corpo, ripararsi distesi contro i tronchi abbattuti e sentire i proiettili piantarsi nel legno (ne ho estratti due come ricordo), o ripararsi in una buca fatta dai cannoni e non poter più uscire perchè sulla testa ti inaffiano colle pallette di _shrapnel_, non era certo piacevole. Pure se si stava fermi tanto valeva ritornare indietro, e allora sono saltato fuori e di corsa ho raggiunto un muro, e trovai un tenente col petto trapassato, e fu portato al sicuro. Più in su, in una buca da proiettili, s’era fatto portare il sottotenente Bortolotti, di Torino, ferito in più parti, alle gambe e all’inguine (ma non grave). Il frate andava a vedere i più gravi, i portaferiti li trasportavano su nel bosco per farli medicare, e poi cercammo gli altri due tenenti feriti, ed io non li trovai. Furono scoperti dai miei caporali. L’aiutante tenente Cena, col braccio stroncato da un proiettile d’artiglieria, e il tenente Zineroni (c’è l’annuncio di morte sulla _Stampa_), di Torino, direttore dei tramvai (crivellato di ferite), furono portati su ai medici. Anch’io allora mi ritirai, e mentre medicavo il povero Zineroni, gli altri colleghi colle forbici amputavano, o, meglio, staccavano i pochi brandelli del braccio. “Venne così il mezzogiorno. La sezione di Sanità portò via man mano i medicati; i morti venivano allineati e riconosciuti; poi si ritirarono le truppe che andavano avanti, e finite le medicazioni ci riposammo nel bosco. Il fuoco cessò, il più bel sole illuminava la scena molto triste, ed io mi sono addormentato, armato, e col sacco da montagna sulle spalle e il binoccolo a tracolla, là sull’erba. Verso le 2 il colonnello ci fece avvisare che si vedevano nel campo i morti, e forse ci potevano essere dei feriti. Chi voleva andare poteva seguire la bandiera della Croce Rossa, col P. Marcello, cappellano. Sul forte e sul..... gruppi di austriaci guardavano in giù, e pare che anche loro raccogliessero i caduti. Così partii col dottor Martina, col frate, tre caporali e non so quanti portaferiti, e siamo scesi giù e si cominciò la ricerca. “La bandiera fu piantata il più visibilmente possibile, e nessuno pensò che un colpo ben mirato poteva troncare la nostra opera di misericordia. Ricordo che appena io spuntai sulla cima della prima collinetta avanzò una lunga fila di dispersi; camminavano a quattro gambe e avevano abbandonate le fossette che s’erano scavate. Erano soldati che, spintisi avanti o rimasti indietro mentre si ritornava al mattino, non avevano più raggiunta la loro compagnia, e riunitisi in gruppetti, stavano, secondo loro, trincerati nelle buche o dietro i sacchetti pieni di terra, e aspettavano la notte per ritornare nelle loro file. Vista la bandiera, che il sole illuminava e il vento teneva ben spiegata, ci vennero incontro e si posero in salvo. E noi continuammo a battere il terreno. Non vi descriverò quello che abbiamo visto. Il nemico per noi almeno fu leale, ci sorvegliò certo, ma ci rispettò, e non fece che il suo dovere. “Raccolsi i feriti, e ne abbiamo trovati molti che, caduti nelle prime ore del mattino, erano lassù impossibilitati a muoversi, invocanti di essere portati via. Benchè non fosse mio compito, col carico della barella, aggiunsi le armi e le munizioni, il restante materiale, bombe di dinamite, pinze per il taglio dei reticolati, vanghette, tascapani per viveri di riserva per due giorni, e il carico di cartucce e baionette fu da noi ammucchiato e coperto con le mantelline. Quando credemmo di non aver lasciato feriti o morti al nemico, mentre calava il sole, rientrai al battaglione col caporale che portava la bandiera e con un portaferiti. Non so perchè, ci fu tirata una fucilata, e subito uno _shrapnel_ scoppiò alla nostra destra, un 300 metri troppo avanti. Si allungò il passo, raggiungendo il bosco, e per quel giorno avevamo fatto tutto il nostro dovere. “I battaglioni si posero sulla via del ritorno: io restai cogli zappatori, e in buche avvicinate seppellimmo i morti della giornata. Io portai in un sacchetto le carte trovate addosso ai caduti ed il piastrino che ogni soldato tiene cucito alla giubba, col nome e cognome, matricola e Distretto, coll’anno di leva. Scendemmo nella valle e ci fermammo in seconda linea. “Il 26 fui occupato con gli altri medici e col dottor Ferrero a compilare l’elenco dei feriti, dispersi e caduti; poi vi scrissi che si andava al mattino del 27 al......., a raccogliere i morti di un altro reggimento. Difatti alle 5,45 io mi sono presentato al Comando, ma consultato anche il Comando della nostra Brigata, col pericolo di restare noi pure sul campo o di essere catturati, si rinunciò. Da quel giorno, nessuno di loro è uscito. “Abbiamo notti fredde (4-3 gradi sopra zero) e giorni molto caldi. Da stamattina, alle 8, piove. Ora siamo qui aspettando un po’ di riposo. È dal 26 maggio che battiamo i monti e i boschi. Di salute sto bene. Ho molto da fare, non tanto per servizio di malati, perchè sono le solite indisposizioni, i feriti sono già tutti ai varii ospedali, più verso la pianura. “Scrivo male per essere appoggiato sulla mia cassetta, sotto un ricovero poco umano, mentre piove.....”. * * * Quando il nostro Enrico ritornerà, ve ne trascriverò altri di questi suoi racconti di guerra. SULLE TERRE INVASE Fronte dell’Isonzo, gennaio. _A Giulio Bechi._ Si entra nel gran movimento che empie le strade subito dietro il fronte. L’occhio che posava sulla campagna, monotono, vago, come sperso nella noia del paesaggio invernale, solo richiamato a un senso di vita dal frullo di un passero, dal saluto di un cantoniere, si volge ora verso nuovi aspetti. La corsa comincia a risentirsi della via ingombra; si rallenta, si sosta; la sirena lancia lontano, a ogni nuovo intoppo che appare, lo squittio lacerante, il grido rabbioso della velocità frenata. Ci si accorge a un tratto che i segni della vita normale sono scomparsi intorno a noi. Gente in panni borghesi s’incontra sempre più rara: operai col bracciale rosso, appartenenti al Genio civile, due vecchierelle sole su un lento carrozzino, un crocchio di monelli sulla proda di un fosso. Oppure un impresario, addetto ai lavori, che sul davanti di un autocarro mette la nota nera del cappotto fra il grigio delle divise militari. Rari mortali, forniti di uno specialissimo salvacondotto, ogni tanto si vedono fermi a una stazione di carabinieri, alla testa di un ponte, e tirano fuori le carte, fra le baionette di due territoriali. La rarefazione dell’elemento borghese è quasi completa. Vecchi mezzi di locomozione, che paiono venuti fuori dal fondo di un magazzino, avanzi arcaici di famiglia appaiono di quando in quando, attacchi lillipuziani, vasti soffi patriarcali, antiche berline, un leggerissimo _sulki_ sulle ruote di gomma: arnesi risparmiati dalla requisizione. E il tuono dei cannoni lontani sfoca nella solitudine dei campi. Solo nei villaggi, i piccoli nodi della vita agreste, e nelle borgate e nelle cittadine, la vecchia umanità si ostina a permanere, sotto il pericolo, incurante della minaccia continua; attaccata ai muri, alle case, alle vecchie strade, al fango dei crocicchi, istupidita davanti alle vetrine dei negozi che hanno mutato generi, davanti ai nuovi spacci, che ostentano i sigari e le cartoline italiane; attaccata alle piazze dove le vecchie statue e memorie austriache emergono ancora sul flutto della gente nuova sboccata da tutte le parti. Lì rimangono, e continuano la propria vita impassibile, legati ai piccoli interessi, tenuti su dalle ultime illusioni domestiche; rientrando nelle case dove si parla la solita lingua, dove si sussurra, dove si sta a sentire e si rimugina quel che accade fuori, affacciandosi alle finestre per vedere quello che passa, coll’orecchio teso alla cannonata lontana. Al di sopra delle piccole questioni locali, degli arresti necessari e delle deportazioni, al di sopra dei sospetti e delle vigilanze, è il fatto eterno della piccola gente che muta padrone, e fa i piccoli calcoli d’interesse, e mette su le piccole botteghe, dove traffica e vende cose nuove ai nuovi venuti, impara altre parole, sente le proprie ripetute da estranei con uno stupore curioso, e vede mutarsi l’orizzonte e il destino giorno per giorno, e nel frattempo vive di questo senso dell’improvviso, dell’inaudito e dell’incerto; mentre i ragazzi vanno verso la novità, con la curiosità intelligente e monella, docile e impertinente, che è diversa dal mutismo o dall’ossequio dei genitori e dei vecchi. Così le piante che nel rinnovo di una cultura l’agricoltore non abbatte — ma i ferri frugano nella terra e feriscono e schiantano le radici — inaridiscono a poco a poco e un giorno cadranno, ma i germogli buttano vivaci attorno al tronco e formeranno la vegetazione di domani. Sono sradicati. E una strana rassomiglianza agguaglia la loro sorte a quella della terra, che sola, abbandonata, conserva le proprie linee, le divisioni antiche, le sue facce infinite e diverse, i segni dei campi, le stampe fisse dei secoli, delle proprietà e delle culture, le rughe del tempo e del lavoro, e lascia fare ed attende, immutata, immobile. Arrischierà a primavera le sue fioriture oziose e vane, rampollerà in una vegetazione incomposta e inutile, darà fuori il suo verde scapigliato; finchè, col tempo, anche queste campagne riprenderanno l’aspetto usato, e le case riattate riformicoleranno di vita; e ai nostri figli e nipoti, passando di qui, potrà sembrare che le cose, dal tempo dei tempi, siano state sempre così. Allora i dolori saranno tutti dimenticati. Dove sono cimiteri saranno campi, dove s’accumulano rovine e calcinacci sorgeranno costruzioni nuove, e il mattone rifarà i villaggi, i campanili, le ville, e l’amore rifarà le creature. * * * Ma il flutto di quella che pare, anche oggi, la invasione nostra sulla pianura che volge verso l’Isonzo e ha per scenario i baluardi nemici digradanti sul Carso, richiama tutta l’attenzione. È questo l’altro volto della guerra, veramente nostro. Migliaia e migliaia di uomini occupano la regione: un popolo nuovo calpesta i campi e le strade. Sono dapprima figurine isolate, gruppetti, colonne, accampamenti, che appaiono, andando, in una successione interminabile. L’occhio se ne rende conto gradatamente, passando dal piccolo aspetto al grande, soffermandosi prima sulla varietà più minuta, e perdendosi poi in quella che sembra confusione crescente. Nei primi momenti è nulla quello che si vede. Ci si bada come a un qualunque episodio comune, che direste staccato da tutto il resto. Ecco cinque artiglieri, con le coperte a bandoliera, che camminano in gruppo: una macchietta sul nastro bianco della strada. Tornano forse dalla licenza. E il vento agita le falde dei loro cappotti. Silenzio e solitudine. Ad un tratto sopraggiunge un autocarro, col vetro del fanalotto verniciato di turchino, per velare la luce: i soldati hanno rialzato attorno al collo l’ampio baverone di pelo giallo. La strada è squassata dal traino; sotto le ruote pesanti si macina la ghiaia. Fantaccini col berretto di lana rossa, le mani nelle tasche dei calzoni; e paiono infreddoliti. Più oltre un vasto cantiere di legname; assi e tronchi accumulati sotto tettoie: materiale per i baraccamenti invernali, e per la copertura delle lontane trincee. Ancora: soldati in marcia, con berrettoni di lana nera; un bersagliere col cappello senza piume, foderato da una tela slavata dal sole e dalla pioggia. Carabinieri in grigio, la lucerna enorme, larga quasi quanto le spalle: macchiette napoleoniche che spiccano, ogni qual volta s’incontrano, sullo sfondo un po’ uguale di tutta l’altra milizia. Passa veloce, tra due ondate di polvere, un autocarro scoperto, carico di marinai, beccheggiando sulle cunette della strada; e gli uomini, in piedi, abbrancati alle bande di legno, come alle ringhiere di bordo, vi lasciano la visione strana dei berretti grigi rilevati sullo sfondo immobile delle siepi, degli alberi e dei solchi. Da tanti volti si cava un aspetto solo, comune, di salute e pulizia, di freschezza e giovinezza: un senso vivo del mirabile sangue nostro, della nostra forza umana e gentile, dolce, allegra e ridente. Le belle facce rasate di fresco e rosee fanno pensare a una vita salubre, all’aria aperta; alla bontà del nutrimento, abbondante, ai comodi e forse anche ai piccoli lussi degli accantonamenti, e anche alla relativa quiete della guerra invernale. Tuttavia pensate anche che le fatiche e gli strapazzi tolgono di mezzo, giorno per giorno, i più deboli, eliminano dalla circolazione i malati. Sappiamo tutti che questa guerra è consumo e logorìo di uomini, e che la carne dei nostri fratelli si struscia anch’essa come l’anima dei cannoni, come le ruote dei carri, come il cuoio duro delle bardature. Altri volti quelli dei territoriali: gote più incolte, non so che di trasandato nella persona, di meno svelto e men lieto; non hanno negli occhi la divina luce dei vent’anni, sentono anche nei moti del corpo, nella andatura, la piega ferma e un po’ dura del vecchio mestiere: carrettieri, sterratori, muratori, fabbri-ferrai, contadini. Hanno nello sguardo non so che di grave, quasi più che il ricordo, la cura presente della famiglia, i segni dell’autorità domestica e paterna. Poi frotte di operai borghesi, che tornano a piedi verso un villaggio, oppure, aggrappati ai veicoli, si fanno ricondurre alle baracche, con fagotti sotto il braccio, con borse di tela a tracolla, con gli strumenti del lavoro in mano. Sono i nostri emigranti di ieri, che hanno portato per tutto il mondo le magnifiche braccia; che hanno lavorato per tutti i popoli e furono pionieri oscuri di tutte le civiltà: oggi tornati entro i confini rassodano le strade nostre, scavano le trincee, rinforzano le difese: zappatori stupendi, vangatori, minatori, che la patria dilagando fuori dei vecchi termini manda anche una volta avanti. Proletariato che s’aggrappa alla guerra, e questa lo incorpora nella nazione. E poi ancora cataste di legname e operai addetti ai lavori stradali. La strada è rassodata e ampliata: d’ambo i lati furono allargati i margini, i fossi spostati, e nei fossi corre l’acqua che rinfresca la massicciata, e impasta la ghiaia. In alcuni punti la strada è talmente ampliata da raggiungere una fila d’alberi che prima era oltre il fossato: ora i capitozzi corrono lungo il margine, come strani paracarri di legno. E avanti, avanti. Un ufficiale a cavallo, con la sua ordinanza al fianco, giunge al trotto serrato. Poi un motociclista, a grande velocità, basso sulla macchina, con due ali di polvere sotto i pedali immobili. Una _limousine_, con ufficiali di Stato Maggiore, lo incalza, insistendo alle sue spalle con un trillo continuo di sirena. Più oltre un cavallo spaventato, salta da un campo in mezzo alla via, la corda della cavezza fra le zampe, e ringhia e springa, mentre due soldati tentano di riafferrarlo. Più oltre ancora un idillio: un tenente a braccetto con una signorina, in passeggiata romantica. Poi un fantaccino a cavallo d’un asinello, le gambe larghe su due enormi bisacce, gli scarponi ciondolanti, il cappotto giallo, con l’aria di un frate nel suo placido giro di questua. Ed ecco, in una ambulanza della Croce Rossa, tinta in nero, una suora infermiera sola sola, col rosario in mano, seduta su uno dei lunghi panconi, immota sotto le larghe ali bianche. * * * E così l’occhio abbandona la campagna e la monotona scena intorno. Il volto della terra dimenticata non ha più espressione. Tutto questo altro non è che una piana sulla quale un esercito accampa. E si vedono poco oltre altri baraccamenti d’inverno, coperti di tela incatramata, le finestrine quadrate, con i minuscoli telai di vetro, e per le porticine aperte appaiono le brande, e le coperte scure e i lenzuoli. Accanto alla ferrovia veri arsenali di rifornimento, montagne di legname da ardere. Non si finisce più di guardare: l’attenzione è sempre richiamata verso qualche nuovo episodio; sono frammenti della realtà che vi si rivelano l’uno dopo l’altro, in successione veloce più della corsa che vi rapisce per decine e decine di chilometri. E già sentite che tutti i particolari fanno parte di un tutto insieme, che conoscerete e vedrete a poco a poco, fermandovi e girando ancora, tornando più volte sui vostri passi, trascorrendo giornate intere là dove ora la pupilla lancia un’occhiata fuggevole. Passeremo ore ed ore in quegli accampamenti, anderemo a chiacchierare con quegli uomini di truppa che hanno veduto il fuoco e dormito in trincea; faremo fermare la vettura, un mattino, tornando qua, dinanzi a quell’immenso parco di artiglieria e scenderemo, ci frammischieremo in quella confusione di bipedi, di quadrupedi, di avantreni, di cassoni, di basti neri come la pece: aderiremo a tutte le piccole e grandi realtà della guerra che ora ci fuggono dinanzi veloci e saltuarie. Allora tutto ciò non sarà più per noi uno spettacolo, una visione, ma un lembo enorme di vita, un serbatoio di sensazioni, una scuola di realtà, per i nostri sensi e per l’anima, il campo vasto e profondo dei nostri pensieri e del nostro spirito e forse anche della nostra arte, se arte avremo uguale o non indegna della storia viva che ne circonda. Laggiù, in quel letto di fiume, arido, pieno di sole, di spaziosità luminosa, lavorano degli operai, vanno e vengono vagoncini di una ferrovia Decauville, e scendono trabalzando, ondeggiando, pencolando, pericolando colonne di autocarri. Scenderemo laggiù anche noi, un giorno; ci fermeremo a guardare, ad ascoltare, a parlare, seduti, sdraiati sulla sabbia e sui ciottoli; cercando in questi luoghi ancora lontani dal tiro, benchè non fuori del tiro, le propaggini naturali, le radici semplici della guerra, che non è soltanto eroismo e pericolo, ma un modo di vivere, come un altro, di organizzarsi e lavorare: è rifornimento e fatica, assestamento e consolidamento: una enorme cosa che non comincia nemmeno di qui, che viene di assai più lontano, dalle città che abbiamo lasciate, dalle officine, dai campi che non rivedremo per chi sa quanto tempo. Oggi, avanti ancora. Artiglieri coi furgoni, che cavalcano con le mani nelle tasche, le redini abbandonate sulle selle. E i territoriali che cacciano innanzi una mandria di buoi, grandi, magri, scuri, neri, che camminano lenti lenti verso le cannonate lontane, verso i macelli. A un punto vediamo cavalli disseminati da per tutto, a gruppetti, a decine, a centinaia. Qui all’abbeverata, là riposano in piedi, cavalli bai, neri, sauri, con un’aria dozzinale, poco nobile, di bestiame mezzo selvatico, peloso, arruffato. Cavalli raspati nelle requisizioni, che non hanno razza, raccolti in una varietà tumultuosa di mercato: alcuni con le orecchie basse, irritati dalla catenella che li lega a circolo, altri mordicchianti la scorza di un albero, altri mezzo addormentati, con l’occhio semispento, tutti coperti del pelo lungo e aspro dell’inverno. Ci sono parchi di cavalli, come ci sono parchi di motori, roba da fatica e da sciupìo, senza bellezza nè grazia, ma che insieme dànno l’idea della forza viva dell’esercito, del suo lavoro muscolare, e alcuni, staccati da poco, infangati e impolverati, fumano ancora come un motore dopo la corsa. Passiamo avanti a carretti carichi di carne macellata di fresco, sanguinosa, mal coperta da una tela. Più oltre — poichè lo spettacolo non finisce mai — cucine da campo, fumanti, cuochi all’opera, soldati che lavano. Poi una colonna di carri carichi di balle di fieno, impacchettate, legate con filo di ferro: venute sui treni chi sa di dove. Non passano di qui, come una volta, sui carri ordinari, tirati dai buoi pezzati di rosso, che hanno le ciglia bianche degli albini. Ma le portano le coppie dei cavalli americani, o i carrozzoni delle _Fiat_ o delle _Spa_. Non è il passaggio metodico dei frutti della terra, che si offrivano in ogni stagione, che venivano fuori da queste zolle intorno, che si coglievano da quei rami, stecchiti. È roba che viene di lontano, mandata e portata dagli invasori. Sullo sfondo rugginoso del paese agricolo si profilano distese vaste di botti di ferro, latte di benzina e di lubrificante: le materie industriali della guerra, le linfe spesse e graveolenti della meccanica. Siamo alle spalle delle linee combattenti, nel pieno della zona di operazione, quasi nelle trincee avanzate delle riserve di uomini e di materiale. Tutto un popolo in armi, coi suoi impedimenti e carriaggi, venuto fino dall’estrema Italia, si è accampato qui: ha invaso le casupole, occupato i letti, piantato gli accampamenti sui seminati, disteso i fili telefonici sugli alberi delle ville signorili, accumulato le riserve nelle aie georgiche, appoggiato i fucili accanto alle siepi, ordinato i cannoni sui solchi, ammonticchiato i basti nelle stalle, gli zaini nei solai, e le sentinelle vigilano alle teste dei ponti, sui crocevia, sui campanili delle chiese, sulle torrette dei camini, sulle terrazze delle case. Qua e là alcuni monelli giocano, appare qualche donna; ma gli amori e i dolori di questa gente non contano più. Appartengono quasi a un’altra epoca, a un’altra storia. E i soldati passano avanti ai cancelli dei cimiteri e non guardano oltre la cancellata: non hanno lì i loro morti, non hanno lì nè memorie nè dolori. La guerra occupa tutto, tutto è mutato provvisoriamente. Dove era un giardinetto su un monticello è un osservatorio di artiglieria, e tra le frasche di una capannetta sporge il volto di un ufficiale che scruta col binoccolo il cannoneggiamento nostro e nemico, dal Sabotino al S. Michele. * * * Una tale varietà di particolari, che nella sola passeggiata di un pomeriggio basta a riempire un taccuino, fa capo ultimamente a una unità inscindibile: nel movimento sparso, che par confuso, è un ritmo, una legge. Tutto in realtà è ordinato e preordinato. Il moto irradia da centri fissi, va verso punti fermi, che in una prima occhiata non si vedono; si ignorano, ma si suppongono: magazzini centrali e magazzini avanzati, colonne, munizioni e autocarri, rifornimenti di materiali e parchi, sezioni di sanità e posti di medicazione, ambulanze e carri, ospedaletti da campo e ospedali di riserva, magazzini di distribuzione per i vettovagliamenti e parchi viveri, panifici avanzati e parchi buoi, comandi di tappa e traini automobilistici, tutte queste parole vaghe per un profano, sono i termini precisi del linguaggio e dell’azione militare: coi quali si unificano le innumeri e diverse impressioni delle cose sparsamente vedute. Ogni movimento ha la sua direzione, la linea tracciata da un punto all’altro: dai centri di rifornimento, dai forni, dalle piccole stazioni ferroviarie, dai depositi di munizioni ammassate nei rotoli di legno sotto le tettoie, dagli ospedali della Croce Rossa indicati con un numero sul portone di un vecchio palazzotto, o all’ingresso di un edificio scolastico, dai comandi allogati in una villa nascosta tra le piante alte di un parco. Ogni ruota che corre sulla strada e par libera, è presa nell’ingranaggio di una macchina fantastica, che ha il movimento impresso da otto mesi. L’ora di partenza di un autocarro, l’ora di arrivo, tutto tutto era sulla carta stamane, sarà sulla carta stasera; empirà la pagina di una giornata di guerra. Il movimento è cronometrico: nulla può arrestarlo, nulla deve turbarlo. Anche gli incidenti improvvisi di strada hanno poca importanza. Gli impacci si sgombrano rapidamente: i piccoli disastri sono presto riparati. Si ha fretta, si riatta tutto sollecitamente, si accorre, si soccorre con tutte le forze e quando non si può riattare si sostituisce. Un carro rotola dentro un fossato, carico di quintali di legna. Soldati balzano dagli autocarri e in cinque minuti sono staccati i cavalli e scaricato il veicolo, di lancio si tira fuori tutto, il carro torna sulla via, è caricato, le bestie sono riattaccate, e non resta che uno sbocconcellamento nell’orlo del fosso, che due pale colmeranno. C’è della forza, in giro, che abbonda. E si va sempre avanti. Quando la strada è liscia, bene; quando è cattiva non ci si bada, si va ugualmente, con un po’ più di materialità, di strepito, di sobbalzi: ma si deve andare ugualmente: i pneumatici strosciano violenti contro le carreggiate inghiaiate, fanno balzare lontano le pietre, si fanno mordere, ma si va. Se tutto si consuma, tutto si rifornisce senza misura, senza limiti. Gli è che tutta la roba è in comune, e non appartiene a nessuno, e ognuno se ne serve come di uno strumento: son tante cose che appartengono ai parchi automobilistici, ai magazzini, ai centri di rifornimento, ecc. ecc.: sono il ferro, la gomma, l’acciaio, il legno dell’esercito. Pare a tutta prima che chi se ne serve non abbia il senso scrupoloso della proprietà. Ma non è che una illusione. Ognuno ha cura della roba propria. Se osservate attentamente quegli uomini, ognuno ha il senso, l’ambizione, la preoccupazione delle cose sue: il cavaliere del suo cavallo, della sella, accomodata alla propria inforcatura, delle redini che gli hanno fatto il callo alle dita; l’automobilista del suo motore, di cui conosce il battito, di cui sa il canto nelle lunghe ore di marcia, su cui si china ad ascoltare il respiro nelle salite gravose, o del volante a cui rimane attaccato, come il timoniere alla ruota. Ognuno aderisce, ognuno s’affeziona al proprio strumento, perfino il territoriale al carretto che conduce, di cui sa il peso e la portata, su cui dorme e siede, con le cosce sulle stanghe, per chilometri e chilometri di cammino; o al cavalluccio, o all’asino, o al bove, o al mulo morditore o calciatore, ch’egli guida da tanti mesi tra la polvere, sul fango, sotto la pioggia, che bagna tutti e due; e l’uomo è amico della bestia, con la quale ha diviso i freddi della notte, o il calduccio di una stalla, a cui fa la lettiera, a cui dà da mangiare, prima di mangiare egli stesso. Tutto ritorna alla forma ineliminabile eterna e quasi alla sostanza della proprietà individuale. Ognuno è legato al proprio arnese da vincoli di abitudine, di fatica, di compagnia, perchè si misura il passo su quello del proprio quadrupede, si vede la guerra col ritmo del proprio veicolo, e per questo anche se non ci appartiene è nostro, sia che ci porti verso la morte, e carreggi munizioni fin sotto le batterie prese di mira, sia che trasporti la ghiaia sulle strade dal letto pacifico dei fiumi. Tutto quel che ci è intorno, dinanzi agli occhi, fra le mani, a portata dei sensi, dalla mattina alla sera, è nostro e ci è caro, ne abbiamo cura, se anche ci grava, se ci affatica, se ci minaccia; ed è quello il nostro peso e il nostro compagno; è spesso un confidente muto e un appoggio. Per il soldatino che reca la posta la guerra grava sulle spalle col peso del piccolo sacco grigio fasciato di rosso. Egli porta il suo sacco come l’alpino lassù il proprio cannone. Ognuno ha la sua arma e il suo ufficio, ognuno è legato al suo compito, come a un dovere, come si è legati alla sorte, al destino umile o alto. * * * Scendeva la sera. E lo spettacolo dei nostri uomini accampati mi si rinnovava ancora e ancora, a ogni tratto di via. Era l’invasione nostra sulla pianura che volge verso l’Isonzo, e l’Isonzo era vicino, e i ponti si profilavano nel cielo del tramonto. Le cannonate rumoreggiavano, insistenti. La guerra ci tirava sempre più innanzi: ormai non si vedevano più che soldati. DUE MULI E UNA CARRETTA Oltre l’Isonzo, febbraio 1916. _A Enrico Bettazzi._ Sulla mensa sparecchiata, in mezzo ai fiaschi e alle bottiglie d’acqua minerale, ardeva una mezza candela. Sul pavimento posavano quattro ceste coi viveri. Sui panconi attendevano due bersaglieri di scorta, il moschetto fra le ginocchia, e il cantiniere. Alle tre il conducente avrebbe dovuto essere con la carretta davanti all’uscio. Erano le tre e mezzo. Pioveva. Fuori, per la strada non si udiva un’anima. Gli ultimi autocarri erano passati verso le due, in direzione del ponte di Sagrado. Da allora non si erano più udite che folate di scirocco l’una dietro l’altra sbattere contro la vetrata della finestra, e l’acqua che scrosciava sulla strada, e la spazzava a ventaglio. E ogni cinque minuti le nostre cannonate. Si era in un paese di pianura verso l’Isonzo, mezzo distrutto dalle artiglierie nemiche. Il campanile era ancora in piedi. Una quarantina di case, attorno al campanile erano a terra. Nelle altre stavano accantonati un trecento uomini nostri. E dormivano. Non ci si decide, neppure sotto il pericolo, a scansarsi dalle rovine. Anche fra quattro pareti smozzicate l’illusione del nido rimane, rimane l’attrazione di un po’ di raccoglimento e di tepore. Si fugge invece, specie di notte e di inverno, la terra nuda, la desolazione fredda delle cose abbandonate allo scoperto. Si cerca istintivamente un po’ d’intimità, non pure con l’occhio, ma quasi col piede: come il selciato di un cortile, l’angolo di un porticato, l’usciolo d’una stalla, la cancellata d’una cappella. Qualche ora prima, al calar della sera, i nostri erano tutti fuori sulla via principale, con la proibizione di oltrepassare le sentinelle, chiusi fra le due file di case: raccolti, ammucchiati come i branchi negli steccati. Perchè non bisogna farsi avvistare. E la sera, come il solito, era scesa triste. Lontano, nelle città, nei villaggi, di dove questi soldati vengono, quella è l’ora che s’accendono i fanali per le strade e nelle case s’accendono i lumi e i fuochi. Nulla, nelle città e nei villaggi, è più dolce del cielo che si fa pallido e imbruna a poco a poco sulla luminosità allegra, chiassosa, calda dell’abitato. Ma qui non si accende più un fiammifero, e l’oscurità che scende greve, noiosa ai sensi e all’anima, smorza le conversazioni nei crocchi e tronca le parole in gola. Si prova uno scoramento, una oppressione, fatta di solitudine, d’abbandono, di lontananza. Pare che nessun vincolo vi leghi più al mondo remoto, se non una malinconia infinita. Questi uomini ripensano alle proprie case, al proprio letto, alla moglie, ai ritrovi usati, agli amici; e restano all’aperto fin che c’è un poco di luce, quasi a consumare con le pupille il giorno. Ma si sentono lontani e stranamente divisi da tutto quello a cui pensano. Non possono raccogliersi in un canto e scrivere alle loro famiglie, non possono rileggere la cartolina, la lettera ricevuta nel giorno. Rientrando si coricheranno al buio, cercando ognuno a tastoni la propria cuccia, stendendosi sulla bracciata di paglia o sul pavimento; senza spogliarsi, l’uno accanto all’altro, allineati nel riposo e nel sonno come nella marcia. Per fortuna la stanchezza li prende presto ogni sera. Si coricano, i piedi accanto ai piedi, le gambe accanto alle gambe, le teste accanto alle teste; corpo accanto a corpo come i buoni soldati restano in vita e in morte, talvolta sotto un poco di terra e talvolta sopra la terra. Meglio ci si addormenta entro le stalle, distesa la coperta sui cumuli molli di fieno. Nell’oscurità s’odono le bestie scalciare, mordicchiare la greppia, si ode il calduccio e pare d’essere sprofondati in un gran pagliericcio. * * * Il carro giunse, finalmente, verso le quattro. S’udì il cigolìo delle ruote e l’irrequieto trapestio dei muletti che sostarono davanti all’uscio. Allora il cantiniere si alzò, sollevò col braccio la tenda che impediva alla poca luce di battere sulla strada e lanciò la mala parola al conducente, che avrebbe dovuto essere lì da un’ora. L’altro gli rispose per le rime. Toscani ambidue, nello scambiarsi le più spaccate ingiurie erano meravigliosi. Mettevano a soqquadro l’universo per cavarne i termini di paragone e gli epiteti più strambi e pazzi. Il fatto è che l’uno aveva più caro il sonno del pane, e udendo fra il sonno la pioggia scrosciare, affondato nella lettiera di fieno magnifica, non s’era voluto muovere. Ma gli altri tre, che dormivano per terra, lì nella saletta della mensa degli ufficiali, dietro una tenda, con certi sorcetti che venivano a correre sulle gambe e a leccare il grasso delle scarpe, s’erano anche in quella notte da lupi levati alla stessa ora, perchè avevano l’ufficio di recare le ceste dei viveri agli ufficiali di parte del battaglione che erano nei baraccamenti al di là del fiume, presso alle trincee. Si udì il conducente troncare la lite con queste parole piene di sapienza: — Statti quieto, un c’è furia. Quando piove ci tiene tutti umili. — E questo è vero — disse l’altro, e lo invitò dentro a bere un bicchierino di “cognacche”. — Un paio non ci sta mica male, sai? — No, basta uno. — Sii bono, fa il bisse. — Non ci sono avvezzo, io. — Manco io era avvezzo. Ma qui ci si avvezza a tutto. — Madonna, ste strade con la pioggia mi faranno ingrullire. Quante ceste hai stanotte! — Sono sei ufficiali. Un po’ di robicciola sempre gli ci vole. Erano tutti quattro incappottati in quei corti e larghi cappotti color giallo verdone, che hanno un cappuccio come le tonache dei frati, e sono anche più belli a vedere dei lunghi cappotti grigi, perchè dànno il colore del fango e di quella maledetta terra rossa che è là sul pietrame del S. Michele e fra le rocce del Carso. Pare terra che beva il sangue e tenga sempre la macchia, come fa il panno. Le ceste furono caricate a una a una sul carro. — Vai piano che lì ci sono le ova. Non mi fare la frittata. Poi furono caricate due sedie per i bersaglieri di scorta. — Quando si pole star comodi è meglio. L’ultimo a uscire soffiò sulla candela e chiuse l’uscio. — Madonna, come piove! — E’ par d’entrare col carro nella bocca di un lupo. — Stai bono, che a farci un po’ di chiaro ci pensano loro, lassù. Guarda come giocano coi razzi stanotte! — Anzi che i nostri quando piove non tirano! — Senti la batteria di..... È tutta notte che gli va in cuffia, come dice l’abruzzese. — Siete pronti? — Pronti siamo. Tu bada a quelle ova. Come i tre furono dentro, sotto il soffio di cerata gialla, il conducente mise il piede su un raggio della ruota, posò il ginocchio sulla stanga, abbrancò le redini, diede uno strappone, calò la frusta. — Vai, _Gigi_. E la carretta si mosse nel buio, parve affondare nella strada, diede tanti balzi come fosse ammattita, e i muletti via, al trotto e al mezzo galoppo, nella notte nera, sotto la pioggia che veniva a secchi. Non si vedeva più là delle orecchie dei muli, ma quelli sapevano la strada a memoria e si portavano via il carro coi tre uomini, come fosse una carriola, facendo tintinnare a ogni sgropponata le catenelle che sbattevano contro le stanghe e i bilancini. Erano due muletti alti, lunghi e magri, con le orecchie diritte e gentili, le groppe grassotelle e il pelo corto, pulito e lustro, tenuti bene, a razione abbondante di fieno e di biada. Bestiole giovani, un po’ capricciose quando sono sciolte, ma si rabboniscono subito sotto la stanga, come hanno il muso nella briglia, e i paròcchi, e sentono sulle spalle la bella bardatura di corame novello, e la carretta che loro vien dietro sulle ruote alte, frangendo coi cerchioni la ghiaia, facendo uno strepito, allegro. — Vai, _Gigi_. _Gigi_ era quello di destra, a bilancino, che aveva una redine sola e al richiamo dava un balzo in avanti e portava via la carretta. — Bada, che tu ci porti tutti nel fiume stanotte. — Voialtri badate alle ova, alla strada ci penso io. E se si andasse nel fiume più acqua di quella che piove non ci pole essere. — Madre della Madonna, senti che sparo. — È nostro. — La batteria è nostra, ma il colpo è loro. — Qui è dove tirano i “cecchini”. L’altra notte hanno ferito un soldato che veniva in bicicletta e portava un telegramma al maggiore. — Senti: _ta pum, ta pum_. — Vai, _Gigi_. Maledetti quei razzi, fanno il giorno a quattro chilometri. — I “cecchini” sono più vicini. — Si capisce eh! quelli saranno a un chilometro e mezzo. Vengono sotto, a tirare alle quaglie. — _Buumm_: senti quella batteria. Un c’è pericolo gli manchi il pane da munizione. — Giust’appunto che agli austriaci il pane gli fa difetto e i nostri gliene mandano. Senti adesso che spedizione gliene fanno! Gli tirano da tutte le parti. S’alzava la voce dei cannoni nostri da più punti della pianura. Era un cannoneggiamento senza precipitazione, senza rabbia, metodico, insistente, che veniva da batterie non visibili di giorno, anche più misteriose di notte. A uno capitato là la prima volta, i colpi facevano un effetto quasi pauroso. Ma bisogna sapere di dove vengono, e allora ognuna di quelle voci cessa di essere paurosa ed ignota, vi dice il nome di un paese o il numero di una quota, ridesta il vivo ricordo di un appostamento scavato nella roccia, interrato nella mota, difeso dai sacchetti di terra, mascherato dai graticci e dalle frasche. Allora, veramente, diventano voci amiche, che s’alzano nell’oscurità senza sorpresa, e che riconoscete e distinguete, come le voci delle campane dei villaggi disseminati in un lembo di paese che v’è familiare. Ficcando gli occhi nel buio, si sorprendevano a distanze vaghe le vampe dei colpi, i fiotti delle fiamme contro il nero della terra. Poi era il rombo di un tuono, e il suo rotolìo per un grande arco del cielo. Per tutta risposta, dalle colline al di là dell’Isonzo, e dall’altre sue posizioni ancora al di qua, dal Sabotino, dal Podgora, dal S. Michele e più verso il Carso, il nemico lanciava l’uno dopo l’altro, o due o tre alla volta, i suoi razzi illuminanti, che portano il fiocco di magnesio lento lento su in aria, in vetta a uno stelo di luce, e lo lasciano ricadere con l’ondulazione molle di un paracadute. Si fa nelle notti più cieche una così diffusa luce che a distanza di qualche chilometro dal razzo, sul palmo della mano distesa si scoprono le rughe più fini. Tutta la notte il nemico illumina in quelle zone le posizioni proprie e le nostre, ci tiene a bada con quel lancio ininterrotto di luce bianca che fa il giorno sui reticolati e rende facile la sorveglianza alle loro sentinelle. Quasi sempre le loro artiglierie tacciono, non si avventurano nel buio; ma si riattiva la fucileria e cade sui nostri un fastidio di pallottole. È la piccola e tormentosa caccia all’uomo, che tutte le notti fa le sue vittime e rende particolarmente pericolosi alcuni tratti di strada scoperti, alcuni sentieri presi di infilata dal tiratore invisibile, nascosto in una posizione avanzata, ch’egli va ad occupare a sera e da cui si ritrae con la prima luce. * * * La carretta era giunta in vicinanza del fiume. Cominciava appena a schiarire. Nella cuffia del carro c’erano tre o quattro buchi, segni di palle, e attraverso quelli si vedeva il primo chiaro del cielo nuvoloso, che continuava a mandar giù pioggia a ventate. La strada era un lago di fango. Le zampe nere dei muletti diguazzavano nella poltiglia come in una crema. In certi tratti, dove la massicciata era soda, pareva che gli zoccoli picchiassero sulla lastra lucente d’uno specchio metallico. Si calò al fiume, apparve la testata del ponte, un ammasso di legname, archi di travi, di tavole lanciati sul greto, sul ciottolame, sullo striscione qua verdognolo, là giallastro della corrente. Il conducente balzò a terra, aveva le gambe inzuppate, era intirizzito, si mise a correre accanto ai muli, le redini e la frusta in mano. Le tavole sotto le ruote, sotto i ferri, rimbombavano. La luce cominciava a farsi largo di qua e di là del ponte, sul letto dell’Isonzo, velata dalla pioggia. Il passaggio era lugubre. E finalmente, come si fu sull’altra riva, parve di entrare in un paesaggio nuovo, nel pieno della distruzione, in un regno cupo, sotto un’aria rarefatta, plumbea, greve come una cappa. Nessuno dei quattro uomini diceva più una parola. Nessuno arrischiava un frizzo. Quello che teneva la mano sul cestello delle ova, ci si era lasciato, in un trabalzo, cader sopra col gomito. Il conducente frustava i muletti, senza aprir bocca. L’alba livida sbatteva su quei quattro volti, che ora apparivano duri, assonnati, un po’ tirati, come sul giallo sporco della strada. Si lasciavano portare in silenzio dalla carretta, cullati dallo strepito monotono delle ruote e delle catenelle di ferro. Sensazioni nuove, ancor vaghe stentavano a precisarsi. La strada, oltre l’Isonzo, risale la corrente. A manca il fiume, a dritta il terrapieno della ferrovia che conduce a Gorizia. Al di là del terrapieno le prime falde delle colline dai nomi fatti truci da tanto sangue sparso. I segni delle granate sparsi per tutto, in mezzo alla strada, sui fossi, sull’argine del terrapieno, sulle rive del fiume; buche, avvallamenti, bocche di crateri, montagne di terra smossa, caselli ferroviari ridotti a un muricciolo basso, pavimenti di case portate via dalle esplosioni, rasate al suolo; vani di cantine, di stalle riempiti di macerie, di tegole frantumate, di avanzi di mobili. E dovunque l’occhio girava per quella devastazione, vedeva un rovinìo, uno stroncamento di alberi, di arbusti, di siepi; tutta la vegetazione colpita, scheggiata, curvata al suolo, frantumata, lacera. Una desolazione dantesca, d’inferno non imaginato, ma sensibile, reale, in cui le cose prendevano una animazione strana, paurosa, di fantasmi, come se ogni ramo recasse il segno eloquente della granata, come se ogni cespuglio piegato fosse sotto il peso di un cadavere stramazzatogli addosso, come se nell’aria fosse il sentore diffuso, acre, stagnante della strage, della morte, della putrefazione. E per chi transita di là ogni mattina, sull’orrore abituale della scena, spiccano sempre nuovi segni di rovina recente; una casa crollata, che ieri ancor si reggeva, un affossamento fresco a uno svolto della strada, un pezzo di rotaia sporgente dal terrapieno, contorta, ritta in aria, divelta come un virgulto risecchito. Questi segni rinnovano il senso della minaccia continua, del pericolo che vi pende sopra a ogni passo, cieco, inesorabile, come in un campo di battaglia, e nell’ora della battaglia. Si allunga lo sguardo sulla strada, si fissa su un tratto, ci si domanda se si arriverà in tempo a percorrerlo, a girare fino a quel gomito, a passare di là da quel masso. Non potete togliervi di dosso la noia affannosa di questa minaccia, che non vi lascia mai, che viene dall’ignoto, che vi fa parer grottesca ogni vostra posa del corpo, ogni vostra occupazione, che vi fa provare la stupidità di ogni vostro proposito, di ogni vostro più piccolo disegno: perchè non siete certi di essere vivi fra un istante, di potere fra mezz’ora essere al punto in cui un amico, che avete fatto avvertire del vostro arrivo, vi attende. E le prime volte siete preoccupati di tutto: del camminare adagio, che vi pare pericoloso, dell’affrettare il passo, che forse vi conduce al punto buono di una granata, del correre, che è altrettanto stupido quanto il soffermarsi, del vostro cappotto di pelliccia, che non vi servirà proprio a nulla, delle scarpe, che vi siete fatte pulire prima di partire, di tutte le cose che hanno importanza nella vita solita, in quella che vivono gli altri, lontani e che qui non hanno nessuna importanza. Finite col non pensare più a nulla, vi abbandonate alla vostra sorte, diventate, come dicono, fatalisti, e a poco a poco accettate tutto, non vi stupite più di niente, tutto rientra in un quadro di vita normale: è naturale che ci siano delle rovine, che scoppino delle granate, che lì ci sia un soldato ferito, che più oltre quattro uomini portino sulle spalle una barella con sopra una coperta di sotto la quale sporgono le due gambe di un morto, i suoi calzoni inzaccherati, le scarpe enormi, deformi, come due zolle di terra inzuppata di sangue. Il coraggio è l’accettazione calma, rassegnata, fredda di tutto quello che accade intorno a voi. E guardate i due muletti che salgono salgono al mezzo trotto, al galoppo, tirandosi dietro il carretto, da niente preoccupati, come se andassero sullo stradale tranquillo di Palmanova. * * * Andavano su verso le trincee del San Michele. Ed era l’ora che i soldati dei baraccamenti si svegliano: si alzano insonnoliti, si sporgono fuori del baraccamento a guardare il tempo, vanno con le mani alla cintola giù verso il fiume. Lungo la riva sono disposte, in cimiteri improvvisati, alcune centinaia di fosse dei nostri. Croci di legno, qualche lastra di pietra con sopra inscritto il nome. Poco sopra il fiume, nel fango, sono tristi quei piccoli ricoveri dei nostri caduti. Non hanno che un riposo incerto, pare che siano, anche dopo morti, in guerra. Non si è potuto dar loro che una pace provvisoria. Dinanzi alle cucine degli ufficiali del battaglione, la carretta si fermò, i quattro uomini scesero a terra, cominciarono a scaricare i cesti. Tre o quattro ova si erano rotte, e cominciò una piccola lite per quelle quattro ova rotte, un altro alterco meraviglioso, pieno di fantasia poetica, come un canto amebeo. Poi la carretta e i muli furono messi in un canto, sul margine della strada, e gli uomini si ripararono per qualche minuto nel baraccamento delle cucine. Vennero loro offerte quattro fumanti tazze di caffè, e stettero lì sotto i cappucci, a sorseggiarle. C’era in un secchione una mezza pagnotta di pane risecchito, buttata via da qualche soldato, un po’ infangata. — Questa la vo a dare a _Gigi_ — disse il conducente. E la portò ai muletti. La spezzò in due, e sul palmo delle mani offerse i due grossi bocconi alle bestiole. Queste glieli presero con le labbra calde e coi denti bianchi come mandorle sbucciate, e li frantumarono di gusto. Sogguardavano, di tra le ciglia lunghe, attraverso le nere pupille mansuete, dolci, il soldato. Erano tutti inzuppati, e la pioggia fumava sulle loro groppe, nel mattino invernale, come un’acqua in bollore. Si lasciarono accarezzare il muso, grattare la fronte, con una dolcezza di bestie bone bone. E come il conducente si allontanò da loro, per tornare nella baracca a bersi il caffè, si volsero tutte e due, d’un mezzo giro di testa, a guardarlo ancora. Nemmeno un mezzo minuto dopo, si sentì arrivare per l’aria, col rumore di un vagone, uno di quei marmittoni, che sfondano le case. Si videro gli uomini che erano sulla strada correre e buttarsi dentro le baracche. Si udì uno dei soliti soldati burloni, un abruzzese, borbottare, fuggendo: “_Matre delli Santi, arriveno li lupi manari_”. Poi un boato, che intoppò gli orecchi a tutti: lo sfracellìo di un monte di pietre, di sassi, le sassate contro le baracche, i vetri rotti, un odore di polvere nauseabondo. Era caduta sulla strada, scavando una buca inverosimile, ferendo leggermente, come si vide poi, cinque soldati, ma senza ammazzarne uno. Nessuno lì per lì pensò alla carretta e ai due muli. Fu il conducente, che quando si alzò da terra dove era ruzzolato, cercò le bestie e non vide più niente. Si trovò poi uno zoccolo d’un piede anteriore sulla branda di un tenente, a duecento metri di distanza, che c’era entrato per la finestra, fracassando i vetri. E non c’era più che mezzo ferro. Per questo fu impossibile anche al conducente stabilire se quello era lo zoccolo di _Gigi_ o del compagno. Il quale accertamento, del resto, non aveva molta importanza, e naturalmente non se ne fece cenno nel rapporto dell’accaduto, che mezz’ora dopo scrisse e firmò il capitano, con alcuni pochi particolari sulla sorte della carretta, i quali non potevano far nascere dubbi nell’Intendenza sulla sua impossibilità di riprendere servizio. RITORNO IN TRINCEA Plava, febbraio 1916. _Ad Alighiero Castelli._ Il 5º battaglione lasciava quel giorno gli accantonamenti, trascorso in pace il mese di riposo. A notte doveva essere di ritorno nelle trincee. Già innanzi l’alba un sottotenente e un graduato del 4º, che attendeva il cambio, erano venuti giù di staffetta a prendere in consegna gli alloggiamenti. Erano partiti di prima sera, per non farsi cogliere dalla luna, che s’alzava sul tardi, a mezzo le falde del Kuk. Calati a Plava avevano risalito il versante nostro, preso la strada scoperta e poi la mulattiera, che mena verso Cusbana. Giungevano che sul bivio di Cusbana splendeva la luna e illuminava a giorno i colli e i valloncelli, e batteva sul Planina nevoso. In una valletta che s’apre sulla strada, fra due speroncini di un poggio, erano le baracche del 5º, chiuse, addormentate. La sentinella passeggiava davanti alla garitta, su e giù col suo fucile a spalla e la sua ombra per terra. L’uscio del baraccamento degli ufficiali era socchiuso. Il tenente entrò nella saletta da pranzo e s’inoltrò nel corridoio. A destra e a manca gli uscioli delle cabine erano chiusi, e si sentiva russare. Dormivano tutti. Dormivano sodo, quella mattina, gli ufficiali del 5º battaglione, trentasettesimo fanteria. S’erano lasciati andare a una baldoria solenne, la sera; lì in quella saletta da pranzo ornata di coroncine d’edera e di festoni, come per un ballo campestre. Avevano sturato bottiglie su bottiglie di bianco e di rosso spumante e cantato in coro sulla chitarra e il mandolino, alla vigilia di tornare negli appostamenti del Kuk. Dove non si canta la sera e dove non si va attorno. Il Kuk è quella cosa Che sta ritta sull’Isonzo Non si può più andare a zonzo, C’è il cecchin che fa ta-pum. Erano una quindicina di giovani. Facevano la guerra da otto, da sei, da cinque mesi, molti venuti su dal niente, entrati nell’esercito volontari, o richiamati come tenenti di complemento e passati capitani. Due avvocati, un ingegnere, un dottore, altri studenti di secondo e terzo anno di liceo. Erano stati e avevano combattuto chi nel vallone di Paljevo, chi alle case di Zagora chi sul Sabotino e a Oslavia coi granatieri, chi a Globna e chi in qualche altro inferno. S’erano tirati dietro nelle giornate d’ottobre e di novembre i propri uomini, contadini, braccianti, operai, quasi tutti di leve più anziane: li avevano scatenati su pei gironi della bolgia di Plava non come uomini, come demoni. Avevano fatto cose garibaldine, compiuto gesta da camice rosse, con quei volti imberbi di adolescenti, quasi di fanciulli, cresciuti fra i comodi della vita, presi un bel giorno nel fondo di una provincia o nel mezzo di una città grande dalla passione politica, riscaldati dal circoletto o dal giornale nazionalista, divenuti feroci contro l’Austria, alla quale avevano gridato tante volte abbasso andando in corteo sotto i Consolati, e adunandosi a comizio nelle aule o nei cortili delle Università nei pomeriggi di sciopero scolastico. Ed erano tutti andati a sbattere contro reticolati immani, contro gabbie di fili e trabocchetti; e con la loro spensieratezza, le loro canzoncine napoletane, il loro indicibile slancio e disprezzo della vita, avevano fatto fare all’Italia, essi con le anime, coi corpi, col sangue, il balzo oltre i confini vietati. E la patria oggi è abbarbicata alle rocce dove essi hanno esposto il petto e costruito le difese, mettendo pietra su pietra sempre sotto il fuoco, fra i corpi insepolti dei compagni caduti al loro fianco. Ed ora, dopo avere gioito della mensa e dei canti e dei suoni nella notte serena, alla vigilia del ritorno nelle vecchie buche, dormivano il sonno ristoratore nelle loro cuccette. Come il diritto di alloggio appartiene, fino all’ultimo istante, al battaglione in riposo, prima che i vecchi inquilini ne siano sloggiati, i nuovi non entrano. Considerato dunque che l’attesa era lunga, il graduato depose zaino, coperte e fucile e si buttò sulla terra a dormire. Il sottotenente accese una sigaretta, s’appoggiò ad un alberello e considerò dal poggio la luna che tramontava. Era la luna di febbraio, così mite fino ad oggi, che ha dato quasi ogni notte il sereno ai nostri uomini. * * * Cominciarono i soldati a svegliarsi, verso le sei, pizzicati attraverso le fessure dell’assito dal frescolino dell’alba. S’udirono là dentro i primi dialoghi, il tramestio di quelli che si alzavano, i brontolii dei sonnacchiosi, che indugiavano a uscire di sotto le coperte. Si spalancavano usci e finestrelle. Il valloncello si popolò di soldati in farsetto. Cominciavano sparsamente i preparativi della partenza. Altra cosa è quando un battaglione in riposo, chiamato da un fonogramma inatteso, è fatto partire d’urgenza a rincalzo di truppe impegnate in una seria azione! Allora si è tutti fuori in pochi minuti, gli ufficiali lanciano ordini, e magari si parte senza gli zaini. È un altro spettacolo. Ma perdurando lo sverno e la calma sul fronte, col cambio metodico delle truppe, il ritorno in trincea è tranquillo. Si sa per tempo che si deve partire; si sa dove si torna; ognuno si prepara con calma a riprendere il suo posto. Due ore dopo, le carrette caricano le cassette, i sacchi di tela grigia degli ufficiali, coi nomi e cognomi inscritti a lapis copiativo, i lettucci da campo: tutto il superfluo che si manda indietro al magazzino, quando si fa il periodo di trincea. L’ufficiale venuto di là reca ai colleghi le notizie più interessanti: rende conto dei lavori compiuti nel frattempo, dei nuovi camminamenti coperti che ora conducono ai ridottini, delle piccole correzioni di linea; fornisce particolari sugli umori del nemico, che variano anch’essi come i nostri, col mutare delle truppe. In un luogo si è venuti a una tregua per il seppellimento dei cadaveri; in un altro si sono rafforzate le difese con lancio di cavalli di Frisia; in un altro abbiamo appostato una mitragliatrice; altrove il nemico riesce a prenderci d’infilata e bisognerà far nuovi lavori per non avere ogni notte qualche morto o qualche ferito. Nel vallone di Paljevo si dà una caccia stupenda ai merli: ci si tira a palla e si vanno a raccogliere sui reticolati la sera. E il tenente racconta tutte queste cose col sorriso contento, attendendo solo che il battaglione se ne vada per entrare lui e scegliersi la sua cabina. Il graduato è lì per terra, e non si moverà fino a sera. Girando per gli alloggetti degli ufficiali pare d’essere in uno di quei minuscoli alberghi di montagna, il giorno in cui parte una comitiva. Uno sbattere di usci nel corridoio, un via vai affrettato, un rintronare di scarponi chiodati, gente che insacca roba, arrotola coperte, ripiega sacchi a pelo, ripone panni, spazzole, boccette di profumi (quei tenentini sono rasati, pettinati a lucido, con la scriminatura); chi infila il passamontagna, chi si mette a tracolla il binoccolo, chi intasca la minuscola Kodak, chi straccia in quadretti minuti la corrispondenza. Si spazza via tutto, si fa il vuoto, fin che nelle cabine non restano che i telai di legno delle brande coi pagliericci gualciti, e qua e là una borraccia felpata, d’alluminio, o un bastone ferrato, che saranno presi all’ultimo momento. Nelle baracche della truppa, lunghe, ampie, aperte come corsie, dove si dorme sulle tavole, e la roba e gli uomini e le armi e gli attrezzi si pigiano e si affastellano, è una maggiore confusione; è un’altr’aria, una mistura ingrata di odori di scarpe ingrassate, di aliti grevi, di strame, di medicazioni. Pare di essere nella terza classe di un bastimento di emigranti, poco prima di entrare in un porto, quando ci si prepara a portare tutto in coperta. Il sole entra per i finestrini, come per tanti _hublots_; si direbbe che fuori c’è il mare. Chi sale, chi scende per le scalette; chi si gira le fasce intorno alle gambe, chi arrotola la coperta, chi, in un canto, si rade. Sull’uscio, all’aperto, il dottore passa la visita. Bocche che si spalancano, corone dentarie nere, guaste, tonsille infiammate, mani fasciate, che se si sviluppa la garza appaiono tumefatte, bluastre, e ne spiccia sul dorso una perlina di liquido giallognolo. C’è qualcuno che non andrà in trincea. Due accusano la febbre, e attendono il turno mogi mogi, le gote arrossate, il bavero della mantellina rialzato, pazienti, come sono i poveri che attendono negli ambulatori gratuiti. Verso le dieci distribuzione del rancio, odore di minestra, zaini a terra, fucili poggiati sugli zaini, in due lunghe file fra le due baracche. E una visione varia, un po’ strana, di elmetti ampi, rotondi, leggeri, senza quel che di truce o di fiero hanno i caschi aderenti e grevi e certi altri elmetti di acciaio, più spesso, che si calcano sulla fronte con un taglio netto e risalgono sulle orecchie, alla bella foggia degli elmi antichi, guerreschi e tutelari. Questi hanno una forma quasi di coccio, non so che del vaso capovolto, e spiovono cogli orli ampi sulla faccia, o sormontano sul berretto o sul passamontagna come una casseruola sopra un turbante. Ci vengono di Francia, e, a dire la verità, poco hanno della grazia e cavalleria francese. Dei nostri, i più burloni li lasciano ricadere sulle ventiquattro, con una ironica trascuranza. Si direbbe non ne vogliano sapere, preferiscono arrischiare il capo. E, certo, quell’azzurro cuccumone gallico non è bello. Ma quando il battaglione è adunato o in marcia, allora, moltiplicato per centinaia di teste, spalma una vernice fresca sulle linee, e di lontano fa una bizzarra nuvola turchina. Finalmente si sgombrano le baracche delle cartacce e della paglia marcita, si dà il fuoco ai mucchi di pattume, agli avanzi sudici, agli stracci. Fumacchi nerastri si svolgono in aria, lenti, pigri, con un bruciaticcio nauseabondo, e tra il fumo scoppiano, con una piccola risonanza chioccia, le cartuccie dei fucili cadute a terra, talvolta anche buttate via. Poichè il soldato nostro è qualche volta struscione. Non sempre misura l’utile, nè considera il prezzo di ciò che gli si dà abbondantemente, e che bisogna ridargli spesso. Vanghette, ad esempio, piccozzini, zappe (in genere l’attrezzamento leggero), lascia anche cadere e non sempre si china a raccogliere. È un segno che la guerra di trincea gli pesa, che non ama questi modi tedeschi della guerra. È contadino, e gli piace affondare la vanga nella scassatura della vigna, lavorare di zappa nel terriccio dei suoi orti. È bracciante, e fruga nel mucchio di sassi o nella grotta, con la pala e il piccone, per guadagnarsi la giornata. Ama l’opera bella, il nostro soldato italiano, l’opera buona, la fatica del suo vecchio mestiere, il suo arnese pacifico. Quanto ai pericoli della guerra li sfiderebbe volentieri allo scoperto; l’istinto lo porta a ripararsi alla bell’e meglio. Operaio meraviglioso in tutto il mondo, attaccato alla terra sempre dov’egli vada, sterratore, minatore paziente, resistente, magnifico, in guerra pare rifugga dai nascondigli sapienti, dalle gallerie sotterranee, da tutti gli apprestamenti d’approccio. Questa lotta cieca e minuziosa di talpe non è la sua. Eppure quanto non ha lavorato il soldato nostro nelle retrovie e nelle trincee! Quanto sudore non ha sparso sulle roccie, quante strade non ha aperte, quante mine non ha fatte brillare, quanti ponti non ha gittati tra l’acqua e il fuoco, bagnando la propria opera col proprio sangue! Tutto gli si fa fare, a tenerlo d’occhio, a curarlo, a trattarlo bene, a volergli bene. A tutto lo si muove parlando alla sua intelligenza e al suo cuore, facendogli capire che cosa è la guerra oggi, dimostrandogli che deve fare così per il suo stesso bene, per salvaguardare la sua vita, e per non essere da meno del nemico. Il nemico lavora dall’altra parte, dobbiamo lavorare anche noi. Il nemico non fa la guerra garibaldina, neanche noi possiamo più farla. Quando il soldato ha capito che non basta essere eroe della guerra, ma occorre anche essere manovale, operaio, minatore, sterratore, allora lavora di gusto e tiene cara la sua vanghetta come il fucile, e non butta via nulla di quel che gli si dà, e non sperpera più. — Forse il pane sperpererà sempre — mi dice un ufficiale sorridendo, dopo che c’eravamo scambiati questi pensieri. — Li guardi..... Guardai, e vidi che sì, lo sperperavano il pane, ma in carità. Porgevano le pagnotte o le lanciavano a certi bimbetti sloveni accorsi coi sacchi e le ceste a fare incetta. Come facevano in Libia coi piccoli arabi, le donne e i fanciulli. — Sempre la stessa storia. — Buono l’italiano. — E sfama sempre qualcuno, quando è soldato. * * * Si attese il calare del sole per prendere le mosse: sì da essere al punto dove si divalla su Plava di prima sera, quando la luna non è ancora levata. E dato l’ordine della partenza, i capitani si misero alla testa, e gli uomini, per due, dietro. Si risaliva una mulattiera, a passo lento, per le dorsali dei colli coltivati a vigna e a frutteto. C’era tanto oro diffuso nell’aria e sui costoni vicini, e ricascava giù come una pioggia magnifica da certi cestelli candidi di nubi sospese a mezz’aria, nel turchino. Ci passavano sul capo alberelli di ciliegio, alti sui ciglioni del sentiero. Le pianticelle di vite, arroncigliate come serpenti, spiccavano nere sulla terra invernale, vestita di seccumi giallastri. Più oltre si strisciò coi gomiti fra la ramaglia di un bosco novello di querce: migliaia di foglie colore di rame, secche, accartocciate tintinnavano sui rami, scosse al venticello della sera come campanelle di carta. E a mano a mano che si saliva apparivano in fondo alla valle i villaggi e i nastri bianchi delle strade e i filamenti pallidi dei sentieri, e i tetti neri delle baracche nostre, che mandavano fumo. La colonna veniva su adagio, ma senza fatica, e gli elmetti, gli uni dietro gli altri, parevano le scaglie lucide di un enorme colubro turchino, che si snodasse fra le piante, con un lungo fruscio. Erano nel battaglione molti che avevano preso per questi sentieri nei giorni di maggio, mentre le viti erano tutto uno spampanio verde per le terrazze, e i ciliegi si picchiettavano di rosso. Avevano compiuto la prima avanzata, erano scesi i primi su Plava, avevano varcato l’Isonzo. Morti quelli che erano morti, i fortunati tornavano ora anche una volta in trincea. Avevano ormai nello sguardo il senso e quasi il segno di tanta vicenda e monotonia della sorte. Emozioni vive, scosse al cuore, erano state dei primi giorni. E queste io ritrovavo mentre il battaglione saliva, sulle pagine ingenue d’un taccuino, che un soldato mi aveva dato a prestito perchè leggessi. Lessi fin che la luce non mi mancò. Più tardi trascrissi, e la parte del poema che si può pubblicare dice così: _Il 24 maggio._ Il 24 la notte un rombo si sente, Sul far dell’alba continua sovente. Il nostro tenente gridava a terra Che questa notte è cominciata la guerra. Fino al confine noi siamo arrivati, Con due bandiere che segnavano i lati. Avanti, ragazzi, non c’è paura Prima che la notte si faccia scura. Alla mattina siamo rivati, A San Martino che c’erano stati. Una confusione come quel giorno Non l’ho mai veduta da che sono al mondo. Da dieci chilometri li abbiamo seguiti Con una maniera di non usar fucili. Siamo arrivati fin là in fondo Dove dicevano questo è l’Isonzo. Plava l’abbiam passata senza paura Perchè ancora non si sapeva nulla. Avanti, ragazzi, dice il maggiore, Mentre si vedeva un grande splendore. Quando noi siam giunti al posto Su quel burrone vicino al bosco, Il mio compagno è stato ferito Disse il colpo è venuto e non l’ho sentito. Porta feriti, venitelo a pigliare Ma lui aveva poco da respirare. Il 16 un caso succede Che bisogna andare nelle trincee. Fra cinque minuti comincia l’attacco Era una cosa da diventar matto. Il 18 ottobre il bombardamento comincia Dicevano tutti questa volta si vince. Dopo tre giorni di bombardamento Una compagnia tentò pel centro. Chi ha fatto questa stragedia È stata l’eroica sestesima. Ti ringrazio fortuna di quel giorno tristo Che tante volte il pericolo l’ho visto. Tristi giorni la pioggia cadeva Con tutti i fatti che succedeva. Trenta prigionieri venivano avanti, Gridando siamo fratelli tutti quanti. Una ridotta è stata occupata Da quel giorno è tutta insanguinata. — Dove li hai scritti questi versi? — In trincea, quando non avevo niente da fare. Ma lei, che è borghese, perchè ci viene? — Per vedere quello che fate, gli ostacoli che dovete superare, per farlo sapere al Paese. — Allora venga su e vedrà. E leggeremo sul giornale la sua scrittura. * * * Si era giunti dove si inizia la discesa nella gola di Plava. Fu dato un breve _alt_. Bisognava che le compagnie scendessero in silenzio, a una a una, gli uomini distanziati. Dalla parte nostra il costone cala quasi a dirupo sul letto del fiume, e dall’altra si alzano sopra le nostre posizioni basse di Plava e di Zagora le cinture dei trinceroni nemici, irti di fucili puntati e di mitragliatrici. Ci potevano tirare a una distanza di poche centinaia di metri. Senza una parola, alleviando lo stropiccio dei piedi, gli uomini si defilarono giù, a uno a uno, curvi, lesti, come ombre. Ogni tanto qualche fucilata partiva dal versante opposto. Ogni tanto si levavano dalle loro posizioni quei maledetti razzi illuminanti, e la colonna sgranata, uomo per uomo, si fermava tutta d’un tratto, per non essere scorta. Tornata l’oscurità, quelli alla testa mormoravano: “Via!”, e d’un lancio si ripartiva, con certi passoni lunghi, la testa bassa. La scena aveva del fantastico. Centinaia di uomini venivano giù, quasi di corsa, la vita sospesa alla sorte. Taluno cominciava ad ansare, tutti sudavano sotto il peso dello zaino affardellato. Qualcuno inciampava e rotolava a terra. Prima che si alzasse, chi gli veniva dietro balzava avanti a prendergli il posto nella fila. Si camminava forse da mezz’ora e pareva un tempo infinito. La colonna s’era fatta straordinariamente lunga. Non si vedevano più i primi; chi sa dove erano gli ultimi, ancora. Soffermandosi, uno vedeva queste ombre di uomini calarsi giù una dopo l’altra, l’una uguale all’altra, senza mai fine, dando i medesimi balzi, facendo gli stessi tratti di corsa, girando stretti alla stessa voltata. Non un metro di terreno coperto, non un muro dietro cui acquattarsi in caso di pericolo. La gola del vallone si faceva profonda più si scendeva: c’era sempre dell’ombra sotto di noi, c’era ancora del vuoto e dell’ignoto, e l’occhio, che cercava di scoprire il fondo, la fine, si perdeva in una vacuità immensa, cupa, continua di gola selvaggia, da cui non saliva eco di voce. Apparivano soltanto dei lumicini lontani lontani, dispersi, come quelli delle casine fra i boschi delle favole. E non c’era altro di umano nel silenzio, in quell’orrido, in quella notte cupa che il passo del compagno che inseguiva il compagno e l’ansia delle respirazioni stanche. Sotto il piede si sentiva sempre la strada in pendenza, e col capo in avanti si continuava a discendere, il sudore che grondava per la faccia, un ronzio metallico negli orecchi, che parevano intoppati, giù giù, automaticamente verso una mèta misteriosa in fondo all’abisso. Finalmente si arrivò su un tratto di strada pianeggiante, e si udirono le prime parolette, nel buio: “L’Isonzo!” Avevamo, di fatto, il fiume al nostro lato: riluceva un corso d’acqua non largo, incassato fra le pareti di roccia. E fu traversato l’Isonzo, e cominciò poi la salita per il pendio del monte, popolato di nostri alle falde e di nemici più in alto, tutto intorno alle spalle e sulle vette. La luna dava fuori allora con rossori sanguigni, che sparpagliava come spruzzi di vernice lucente su certi tratti neri dei costoni; e frugava dall’alto della sua pace celeste nel fiume verde, con sottili razzi di argento, e pareva aprisse tutta la valle con la luce distesa, diafana, bianca come un vestito di fata. E gli uomini, salivano per i camminamenti, stanchi, muti, inciampando nelle pietre, battendo con gli elmetti nei traversoni di copertura. Come la testa della colonna fu giunta presso alle trincee, s’imbattè nei primi manipoli del battaglione, che cominciavano a scendere. E man mano che le cuccette restavano vuote, i nostri, appena arrivati, ci si buttavano a giacere. Finalmente, a pochi metri dal nemico, si prendevano un po’ di riposo. FRA GLOBNA E ZAGORA Zagora, marzo 1916. _A Gino Berri._ Questa storia di Plava non è ancora finita. Il libro dei suoi martiri ha qualche pagina bianca, che attende. Siamo rimasti al punto dove s’è fermata l’offensiva d’autunno. L’offensiva d’autunno nel settore di Plava faceva parte della più vasta offensiva. Come l’Isonzo, in quel punto, scendendo da Canale e andando verso il Sabotino, fa un gomito a occidente, ci era utile allungare da ambo i lati le branche di quella morsa di ferro con la quale dal giugno mordevamo il terreno della riva sinistra e serravamo da presso il nemico ritirato sulle alture. Alta nel mezzo di questo gomito la quota 363 era nostra e si prestava bene, a guisa di pernio, al collegamento delle due ali, specialmente sul lato di Globna. Sull’altro il vallone di Paljevo divideva la quota dalle poche case di Zagora, che dovevamo occupare. L’offensiva doveva iniziarsi il 20 ottobre. Si trattava di operare in un vallone profondo, a pareti ripide, incassate, con un fiume, in mezzo, inguadabile e turbolento, munito di ponti mobili di legno che le artiglierie nemiche battevano e che la piena poteva asportare. Ogni momento la riva sinistra poteva essere separata dalla destra, e le truppe operanti restare senza collegamento. L’ottobre è generalmente mese di piogge grosse e continue. L’unica rotabile che mena nel vallone di Plava, da Verholje, dal punto in cui scende a nastro sulla sponda destra dell’Isonzo verso il paese, è tutta sotto il tiro del fucile nemico. Gli austriaci l’hanno disegnata e costrutta in modo che dalle posizioni di riva sinistra un passeggero sia scorto e seguìto passo per passo fino al fondo della valle. E, benchè venga qui costeggiando il burrone e a tratti si sporga sul precipizio, non ha sull’orlo un tratto di muretto, non ha da un lato la scanalatura di un fosso: liscia, dura, marmorea. Di lì doveva di necessità andare e venire tutto il nostro carriaggio. S’aggiunga che nel mese di ottobre i lavori nostri nelle posizioni occupate non erano ancora perfetti, perchè disturbati ininterrottamente dal nemico; non molti, di necessità, i camminamenti coperti. Tutta la conca era sotto il fuoco nemico, quasi un imbuto che raccoglieva d’ogni parte migliaia di proiettili. Le truppe di rincalzo erano sotto la morte come nelle trincee. Dai primi del mese il tempo s’era mostrato incerto, il fiume repentinamente ingrossava, decresceva un poco, tornava a crescere. La truppa era spesso costretta a consumare viveri di riserva. Con una barca si traghettavano le provviste. Il primo del mese si stabilì una comunicazione, fra Plava e quota 363, mediante un cavo d’acciaio, per il passaggio dei viveri ordinari. Verso il 5 si riuscì, con l’Isonzo in piena, a riattivare un ponte di barche. Un secondo fu gettato qualche giorno dopo. Intanto si approfittava del tempo che ci separava dall’offensiva, per dare un turno di riposo a parte delle truppe, sì che fossero fresche alla ripresa. Ma con le altre si doveva procedere ai lavori di rafforzamento e di approccio, e alla vigilanza specie nelle ore della notte, col tempo cattivo, la pioggia, il freddo. Ad alcuni reggimenti il vitto era distribuito ad ore insolite, alle 3 del mattino e la sera alle 20. Il nemico molestava i lavori e i lavoranti. S’accendevano grosse e piccole zuffe di batterie avversarie che si attaccavano a grandi distanze, incroci di tiri di mitragliatrici e di fucili, botte e risposte sonore, attacchi e contro-attacchi rapidi, ma furiosi, tutto un tasteggio di bocche da fuoco, assaggi e inizii di una battaglia che si veniva preparando. Si esplorava il terreno. Pattuglie nostre s’erano spinte, sulla ferrovia che costeggia la destra dell’Isonzo, fra la galleria di Zagora e quella del Sabotino, senza trovare traccia del nemico. Chi cercava e chi si acquattava. Si frustravano le esplorazioni più ardite con gli appostamenti più scaltri. Il nemico poneva ogni cura nel coprirsi, nel darsi per morto, quasi volesse farci dubbiosi della sua presenza. Nemico calmo e cauto, che conosceva le arti della guerra di posizione, e palmo per palmo il terreno e uno per uno i vantaggi e svantaggi e le insidie. Lo si udiva generalmente lavorare di notte, occupato senza posa a migliorare le difese, a rafforzare le trincee, a piantare paletti pei reticolati e a buttare nuove reti; ad aprire con le mine nuovi passaggi, a coprire con tavoloni e con sacchetti e con frasche i ridottini, ad appianare i sentieri. Frugati dai riflettori nostri alcuni rari gruppi o fanti isolati che andavano o venivano per i cambi, si buttavano loro addosso raffiche di mitraglia e di pallottole; si ricevevano entro le trincee bombe a mano, lazzi e scherni, ingiurie e sfide sprezzanti. Le loro batterie regolavano i tiri su questo o quel punto, sulla strada, sui ponti, sugli svolti delle mulattiere, sulle trincee, sui reticolati antistanti, sulle loro stesse difese per essere pronti a batterci in pieno quando mai le avessimo prese e occupate. Le alture in mano loro erano piene di cannoni d’ogni calibro: ce n’erano sul rovescio del Kuk, sulla sella del lontano Vodice, sul Monte Santo, sul Sabotino. Il duello delle artiglierie si annunciava grandioso, ci si attendeva un’azione di fuoco concentrata, al primo accenno di movimento generale. Attraverso le linee telefoniche erano corsi ordini, domande, rapporti intorno all’effetto dei tiri delle più grosse bocche da fuoco nelle difese mobili. S’erano fatte prove e riprove. Ma una cosa era certa: che neanche dai grossi calibri c’era da attendersi molta efficacia di distruzione dei reticolati. I mezzi d’offesa che vennero poi non li avevamo ancora. * * * Nei giorni antecedenti l’artiglieria nostra aveva dunque eseguito i così detti tiri di sconvolgimento sulle posizioni nemiche. La notte del 19 e del 20 li riprese più intensi, ripicchiando sulle trincee e nei reticolati. Il fuoco delle batterie era tale che preannunciava chiaramente l’attacco. Non si era fatto assegnamento su un’azione di sorpresa. Mandati a contatto con l’avversario osservatori appositi ne tornarono con informazioni varie. In alcuni punti i nemici erano stati obbligati a sgombrare le trincee, lasciandole esposte al tiro delle granate, degli _shrapnel_ e della fucileria, per evitare perdite inutili. In altri punti, su linee più vicine alle nostre, contro le quali avremmo potuto irrompere rapidamente, le ricognizioni informavano che il nemico non s’era mosso; tiratori scelti rimanevano sotto il tiro, alle feritoie dei blindamenti robusti e continuavano a sparare ad intermittenza. Tutta la truppa era all’agguato, dietro i muriccioli e i sacchetti. Il nemico era attentissimo e si preparava. Furono ordinati contemporaneamente tiri di interdizione sulle mulattiere retrostanti, per battere i rincalzi, per gittare la confusione e il panico sulle retrovie dell’avversario. Si controbattevano le batterie che rispondevano alle nostre. La battaglia era ormai accesa; cominciava a svilupparsi come un incendio. La notte sul 20 si fece un fuoco d’interdizione quasi continuo, integrato con tiri di mitragliatrici. Nelle difese si producevano i primi guasti, anche per l’opera dei posa-tubi. Verso Zagora scoppi di gelatina avevano prodotto nei reticolati un’apertura di una quindicina di metri; qua e là si erano aperti altri varchi, ma l’estensione del reticolato essendo molto profonda, non potevano ritenersi sufficienti. In altri settori si era riusciti a far brillare altri tubi, ma con distruzioni insufficienti, parziali. Ad una più intensa e metodica devastazione si opponeva la vigilanza e l’attività del nemico. Le sue vedette avanzate o coperte, al primo spuntare di un soldato nostro, davano l’allarme. I suoi tiratori eseguivano sugli audaci tiri di giustizieri. Il compito dell’avversario era reso più facile dall’uso abbondante dei razzi illuminanti, che si levavano in aria al più leggero nostro rumore. Protetti a loro volta dalla oscurità, pronti riparavano le distruzioni operate dalle nostre artiglierie o dai lancia-tubi. La mattina del 20 ottobre, un mercoledì, fu da noi rinnovata l’azione di fuoco da parte di tutte le batterie per accrescere i guasti, per rovinare tratti di trincea che visibilmente non avevano sofferto danni, e camminamenti non demoliti. Controbattuto violentemente dalle artiglierie nemiche, il nostro fuoco ottenne risultati che allora parvero buoni. Ma l’attacco fu rimandato al seguente giorno, sia per meglio stordire il nemico, sia per agevolare alle nostre truppe il còmpito che appariva arduo. Restava inteso che per l’ora stabilita l’attacco delle fanterie si sarebbe sferrato d’improvviso, simultaneamente, con la violenza necessaria al raggiungimento degli obbiettivi designati, ch’erano il villaggio e il fortino di Globna, il vallone di Paljevo, le case di Zagora. Quanto all’obbiettivo ultimo esso era molto più vasto. Già si combatteva per la caduta della testa di ponte di Gorizia. Un nostro battaglione avrebbe dunque operato contro Globna, defilandosi per i greti della riva sinistra dell’Isonzo, a ridosso delle falde basse del costone che scende da quota 363, mentre un altro battaglione alla destra del primo avrebbe dovuto impegnarsi in un’azione dimostrativa, traendo profitto dalle asperità del terreno per molestare il nemico calante alla difesa di Globna, con ogni mezzo in suo potere, cioè tiro di fucileria, lancio di bombe, e magari anche di pietre. S’era provveduto a far venire truppe di rincalzo, quante se ne potevano ammassare senza ingombro nella conca tutta battuta del vallone di Plava. Uomini freschi erano giunti quella notte stessa sul 21: e s’erano fatti marciare per reparti molto distanziati, in gran silenzio: e alla mezzanotte erano all’addiaccio. La colonna non aveva recato altri impedimenti che i muletti porta-cucine, i muletti porta-cartucce, e i muletti con doppia ghirba per il trasporto dell’acqua. Il tempo era incerto, ma non minaccioso. Il terreno piuttosto pesante, ma non tale da ostacolare le operazioni. I ponti sull’Isonzo reggevano. * * * Il 21 ottobre, alle undici antimeridiane, s’iniziò, come era convenuto, l’attacco generale delle fanterie. Fino all’ultimo minuto il cannone aveva scrosciato sulle difese nemiche e sulle retrovie, con boati assordanti, infernali, con tiri di sconvolgimento, di intimidamento, di interdizione. Piccoli incendi s’erano svegliati qua e là, da ambedue le parti, sotto la violenza dei due fuochi. Sulle rocce tronchi di piante smozzicati, bruciacchiati, neri, fumigavano come torce. Volute pigre di fumo si levavano dai boschi radi; vampate improvvise giganteggiavano da mucchi di rami abbattuti a terra, o sparsi qua e là come dalla furia dirompitrice di un uragano. Un incendio prestamente represso s’era sviluppato in una delle case di Zagora. In alcuni elementi di trincee nemiche avevano preso fuoco brevi tratti di copertura: i frasconi secchi bruciavano, con un lingueggiare di fiamme pallide nella luce diffusa del mattino. Nei pochi attimi di silenzio che seguirono l’alt del nostro fuoco, prima che cominciasse l’irruzione dalle trincee, s’udirono nitidamente gli schianti secchi, sonori dei tavoloni, spaccati dal calore. Qualche breccia nei muriccioli del nemico era stata aperta. Si intravedeva per gli squarci rotondi l’interno di un rifugio, in un accumulamento nuovo, confuso, di pietre, di tavole, di sacchetti sventrati. Ma non il cappotto di un nemico appariva, non una faccia, non una canna di fucile puntato. I nostri che durante il bombardamento avevano lasciato pochi uomini di guardia nelle avanzatissime trincee, si rispinsero subito avanti, in ordine e silenzio, per l’attacco immediato; si affollarono ai varchi aperti appositamente, ne aprirono altri, spingendo fuori i sacchetti con le punte delle baionette innastate, levando le pietre con le mani, facendole rotolare coi calci dei fucili, con le grosse punte delle scarpe. Già nella notte squadre di audaci, muniti di corde a miccia o di sigari accesi, e di scudi, e di elmetti, senza zaini, con i soli viveri per la mattinata, avevano eseguito rapide sortite fin sotto i reticolati, lanciato le bombe, fatto brillare tubi di gelatina e tentato il taglio dei fili. Cautamente erano rientrati. Ora doveva erompere la prima ondata, sparsa, leggera, rapida, guidata da pochi graduati o sottotenenti, che si dovevano buttare ai varchi, allargarli, e fare la strada ai sopravvenienti. I comandanti di battaglione tenevano l’occhio alle sfere degli orologi a polso. Erano gli ultimi istanti, nei quali lo spettacolo tutto intorno, fuori delle trincee, non aveva ancora nulla di tragico. Le trincee da conquistare erano a pochi passi, pareva che ci si sarebbe arrivati di un balzo: a Globna coperti dal ciglione roccioso e terroso, nel vallone di Paljevo procedendo tra due pareti di petrame, quasi come in un camminamento largo; verso Zagora saltando di terrazza in terrazza, traendo profitto dal terreno piantato a vigna, digradante verso noi ad alti scalini, ognuno dei quali offriva un muricciolo, un riparo. E le truppe erano fresche, avevano bevuto al risveglio una mezza gamella di caffè caldo, alle otto una razione copiosa di brodo, confezionato lungo la notte nelle casse di cottura. Si udivano uccelli nascosti cantare in una calma perfetta. Magnifici merli, grassi, pesanti, d’uno sviluppo inverosimile, che il cannone non aveva disturbati, svolavano fra i meli. Nel vigneto di Zagora, tra i pampini pendevano grappoli d’uva. La campagna, sgombra di cadaveri, pulita, solitaria, traspirava un’aria di pace autunnale, un senso placido di quiete. La terra mostrava agli uomini la sua faccia solita, velata di foglie cadute e di branche morbide di gramigna; un po’ spoglia, rilassata, indolente, ma senza un principio di orrore; senza le contrazioni convulse, i contorcimenti e sconvolgimenti paurosi, che prende nella mischia e conserva dopo il combattimento un lembo di terreno, quando pei ripiani e sui cigli, nei fossi e negli avvallamenti, i cadaveri dei caduti e i corpi dei feriti fanno nel suo calmo aspetto un mutamento e turbamento improvviso, spandono una vasta ruina, scavano rughe profonde, di strazio e di sangue. I primi uomini che uscirono curvi, di corsa, col fucile bilanciato, dai muriccioli bassi, dai ricoveri in pietra, verso i reticolati, parevano battitori in una caccia grossa che corressero dagli appostamenti, sui lacci, addosso alla fiera. Immediatamente, dall’altra parte, cominciarono le scariche della fucileria e delle mitragliatrici. * * * Le cose si misero bene nel sottosettore di Globna; dove non erano reticolati. I nostri risalirono a corsa la sponda dell’Isonzo, e si sparsero su per la carrozzabile che mena al paese. Altre compagnie si defilavano per lo sperone a nord della quota 363 con progresso simultaneo. Questa avanzata era protetta dal fitto fuoco di fucileria di altre truppe distese a cordone verso Lozice, sulla riva destra; le quali battevano le trincee nemiche fra Globna e Britof. Piccole lotte si impegnarono fra i nostri e alcune sentinelle avanzate, che, sorprese dalla fulminea irruzione, assalite e rovesciate a terra, come si videro le baionette puntate alla gola, si lasciarono fare prigioniere. Ma su quei gruppi di avversari e di nostri, il nemico riavutosi dalla sorpresa aprì senza indugio, dalle case e dal fortino di Globna, un fuoco accelerato di fucili e mitragliatrici. In quel punto i suoi _shrapnel_ scoppiavano alti, e s’udivano le pallottole ricadere come sassate sui nostri soldati, che avevano ricevuto l’ordine di avanzare con cautela, più riparati che fosse possibile. Si procedeva carponi, con la zappa si cominciavano a scavare buche per allungarcisi al riparo dei tiri, che frugavano il terreno con raffiche metodiche. A mezzogiorno si erano conquistati circa 150 metri in profondità e le case di Globna erano a pochi passi, separate dalla strada soltanto. Ma sulla massicciata era un miagolìo e un rimbalzare di pallottole. Le nostre e le nemiche ci si incrociavano follemente, bucherellandone e scrostandone il piano. Alcuni dei nostri che avevano potuto spingersi più avanti parevano dispersi, non si vedevano più. Nei fossi, nelle buche del bombardamento combattevano separati, avevano ingaggiato la loro piccola battaglia contro un determinato punto della linea avversaria, contro una finestra del villaggio, alla quale avevano intravisto un tiratore; e sparavano contro le porte, dentro le inferriate, nelle feritoie visibili a occhio nudo fra le crepe dei muri. L’assalto si dovette mutare nel pomeriggio in una lenta e sanguinosa lotta di assedio, nella quale il nemico aveva il vantaggio dei ripari solidi e organizzati, e i nostri quello del numero, dei rincalzi freschi che arrivavano a gruppetti, strisciando, gittando la voce ai compagni che erano più avanti, e che li attendevano per riprendere in gruppi densi l’assalto. Anche nel vallone di Paljevo l’uscita dei nostri non fu molto molestata; i primi plotoncini poterono aprire la strada ai susseguenti reparti, i quali non ebbero che perdite leggere. L’urto sanguinoso si delineò nel settore di Zagora, nostra estrema destra, dove aveva preso l’offensiva un battaglione, in corrispondenza delle brecce aperte nel trincerone nemico. Ivi la siepe dei reticolati era enorme, vicinissima. Il cannone l’aveva in più punti sconvolta, ma più era l’arruffio dei fili, più irregolari erano e più strambe le posizioni dei paletti, sradicati, contorti, spezzati, meno era visibile il punto di approccio e la via di passaggio. Eppure alcuni si erano infiltrati sotto il groviglio e, supini, lavoravano di forbice, di fucile, di paletto, per distendere un piccolo varco. Quando un proiettile li colpiva a morte, rimanevano con gli abiti attaccati alle punte, in posizioni di sforzo, di lotta disperata contro quella rete spessa, profonda, inestricabile. I feriti non potevano liberarsi dalla presa tenace, chiamavano soccorso. In breve, soldati, graduati, sottotenenti, tenenti, capitani, anche maggiori, si videro sempre più frequenti uscire dai punti rotti delle trincee, per distendere e approfondire l’attacco. Al loro apparire ai passaggi obbligati, il nemico, terribile nell’agguato, li prendeva di mira uno per uno, coi suoi tiratori di calcolo e di precisione, che pare vedano un bersaglio in ogni avversario, al quale mettono la palla nella fronte come farebbero nella rosetta di un centro. Fino dalla prima mezz’ora si vide che in quel punto la difesa, con poche perdite, minacciava di sventare l’offensiva. Le due fucilerie facevano un fracasso talmente assordante e continuo che non era più possibile udire i comandi. Quando si fece il conto delle cartucce sparate si vide che tre compagnie in poche ore avevano tirato più di ventimila colpi. Misurata ancora nel pomeriggio, con altri tentativi irruenti, la stabilità della difesa nemica, fondata particolarmente sulla resistenza dei reticolati, i vari Comandi diedero ordine che con la prima oscurità le truppe sotto Zagora rientrassero, con ogni cautela, entro le vecchie trincee. Si vide allora un fatto curioso quanto comune in giorni di battaglia. I soldati che avevano lottato per ore e ore, in una tensione nervosa facile a imaginare, rientravano dopo avere sfidato mille volte la morte. Appena al sicuro nei ricoveri, si buttavano a sedere, si stendevano per terra, nel fango, sui sacchetti, sulle pietre, abbassavano le palpebre e a pochi metri dal nemico si addormentavano di un sonno profondo, come fossero nel proprio letto. Non valeva chiamarli, scuoterli, squassarli, tirarli su; ricascavano come morti. Non chiedevano niente, nè da mangiare nè da bere. Avevano soltanto bisogno di dormire. Del paro, sotto quota 363, dalla parte di Globna, l’azione non era stata risolutiva. Squadre di guastatori, bombardieri, tagliafili, avevano anche là iniziato arditamente la sortita con numeroso lancio di bombe a mano, e col tentativo di taglio dei reticolati. Accolti da vivissimo fuoco avevano proseguito il lavoro, con buoni risultati. Allora avevano fatto irruzione alcune compagnie, precedute da pattuglie che erano giunte fin quasi al trincerone nemico. Un fremito d’entusiasmo si era propagato fra le truppe retrostanti. Si erano veduti molti innastare le baionette e precipitare verso le posizioni avversarie. Il nemico era rimasto per alcuni istanti sorpreso. Forse anche ordiva dietro le sue reti di spranga altre più feroci insidie. Guarnisce con doppia fila di tiratori le trincee e mette in funzione le mitragliatrici. Il breve spazio in cui possono irrompere i nostri, affollandosi ai varchi, è battuto da una cortina di fuoco. Tuttavia non pochi tentano di forzarla per raggiungere le trincee. Sono falciati, e la prima irruzione non riesce. Riordinati i reparti si tenta nel pomeriggio una seconda e una terza irruzione. Finchè viene l’ordine di desistere per quel giorno, e di riprendere le posizioni primitive. Solo dinanzi a Globna furono potuti tenere duecentocinquanta metri di terreno. * * * La mattina seguente le truppe riposate ripresero alla stessa ora l’offensiva su tutta la linea. Nel vallone di Paljevo alcune compagnie riuscirono per infiltrazione ad avanzare su un tratto di circa centocinquanta metri, ad altrettanta distanza dalle trincee nemiche, verso le quali si misero a costruire camminamenti coperti. Pattuglie inviate nel pomeriggio più innanzi non proseguivano per non perdere contatto con le truppe d’ala che trovavano ostacoli insormontabili nei reticolati e nei muri nemici. Alcuni soldati offertisi a collocare tubi e tagliare i fili e le reti, erano stati tutti colpiti. Nel settore di Globna, dove il giorno avanti, durante l’occupazione, e la notte stessa s’erano praticati nella boscaglia camminamenti a colpi di mannarese, per facilitare i rifornimenti e gli sgombri e per rassodare i ripari, verso il tramonto piccoli gruppi di un battaglione erano riusciti ad entrare nelle case del villaggio, impegnando furiosi corpo a corpo. Sotto Zagora il nemico continuava ad opporci la resistenza maggiore. Piccole incursioni notturne dei nostri avevano assodato che ivi anche le difese accessorie erano in buono stato. Prima dunque di slanciare fuori le fanterie, si rinnovò il tiro dei grossi calibri nelle trincee, e si disposero i fanti in modo da approfittare dell’effetto del bombardamento, non appena fosse cessato. In quel punto gli ostacoli erano molti e potenti: i reticolati su tutta la linea del fronte, una casa isolata, detta _Casa diruta_, alla nostra sinistra, a mezza costa fra noi e il paese; e le case del paese su in alto, nelle quali il nemico s’era raccolto e asserragliato, con strepitosa abbondanza di mitragliatrici. Il villaggio mezzo distrutto era come un bugno di vespe, che i nostri tiri inferocivano. I nostri ufficiali specialmente misuravano tutta la difficoltà della lotta, vedevano queste terrazze salienti l’una sull’altra, a gradinata, fino al crinale del poggio. Di lì non si sarebbe usciti vivi che per miracolo. Approfittavano degli ultimi istanti per scrivere l’ultima lettera alle loro famiglie. Era il loro saluto estremo alla vita, gittato in fretta, con una penna stilografica su un pezzo di carta che avrebbe preso la via del ritorno, mentre essi dovevano andare avanti ad ogni costo. E si scioglievano senza ribellione da tutti i vincoli del mondo, che sentivano ormai lontanissimo, alle proprie spalle, al di là del fiume il cui passaggio pareva avesse loro tolto la memoria della vita serena, e come lavato l’anima di ogni desiderio e affetto mortale. Molti, in un silenzio raccolto, si comunicavano in tutta purità con la morte. Avevano gli occhi sereni di chi sente sciogliersi nel cavo della propria anima ogni peccato, di chi sente come venir meno il peso di ogni colpa antica, in un ritorno improvviso alla dolcezza del fanciullo, e a quella bontà di perdono e dolcezza di rassegnazione che è propria di chi si sente morire e raccomanda altrui di non disperarsi e di non piangere. E alcuno aveva dato al Comando l’indirizzo di un amico di casa o di un fratello perchè la notizia giungesse alla famiglia non improvvisa. E se un pensiero addolorava non era di lasciare la vita in mezzo ai compagni, in quel luogo, ma di dare con la propria morte un grande dolore alle persone che li amavano, e che avrebbero continuato a piangerli quando essi non avrebbero più avuto bisogno di essere pianti. Quelli che precedono l’attacco sono i più terribili istanti. Di furia, correndo senza più pensare a nulla, senza più sentire nulla, i nostri irrompono verso la Casa diruta, e in pochi minuti, alcuni uomini di due compagnie penetrano per una breccia in un tratto di trincea nemica antistante alla casa. Si buttano addosso ai difensori, urlando, li sbattono contro i muri, li disarmano, li tengono prigionieri. Ma l’astuzia del nemico era stata tanta che aveva organizzato nelle trincee scompartimenti separati e chiusi, per fronteggiare un’invasione e limitarla: come si fanno gli scompartimenti chiusi nelle navi per fermare l’irruzione delle acque. Era un compartimento di una quindicina di metri, chiuso ai lati da solidi sbarramenti interni; onde la breccia era aperta e occupata, ma l’occupazione non si poteva allargare. Si picchiava coi calci dei fucili, si cercava di tirar via le pietre, ma si urtava in lamiere di ferro salde, spesse, come le pareti d’una cassaforte. Si chiamavano di là dentro i nostri in aiuto, di rinforzo, ma il tratto era angusto e col crescere in numero degli assalitori, diminuiva lo spazio per muoversi. Altri avevano operato una doppia diversione, tentavano l’accerchiamento, dal di fuori, di quella specie di saliente facente capo alla casa diroccata, di dove piovevano i proiettili a grandine spessa. S’ingaggiavano tra assalitori e difensori lotte furibonde, si strappavano i fucili dalle feritoie, si tiravano giù i sacchetti, si cercava di far leva sui tavoloni per massacrare dall’alto il nemico con gettito di bombe. Era una mischia piena di urli, di imprecazioni, di grida disperate, su cui passavano le vampate scottanti delle granate. Più a destra altre operazioni si tentavano verso le case del villaggio, ma così tormentate dalla artiglieria nemica che non era possibile svilupparle. Eppure un prigioniero fatto la mattina, interrogato, aveva detto che Zagora s’andava sgombrando. La notizia fu comunicata alle truppe, e allora tutto un battaglione si butta avanti, deciso a conquistare il villaggio, con qualunque sacrificio. Il comandante è ucciso, altri ufficiali caduti e scomparsi, l’artiglieria e la mitraglia insistono con violenza, e ci si impone di ripiegare con prudenza, a piccoli gruppi. Informazioni sicure avvertono che rinforzi nemici avanzano su Zagora, bisogna prevenire un vigoroso ritorno offensivo, che già si delinea anche alla Casa diruta, dove rincalzi nemici tentano di ributtare addietro e schiacciare i più ardimentosi dei nostri. E la sera scende sulla comune sospensiva. Intanto il contatto era stato preso, l’offensiva aveva avuto uno svolgimento più ampio del giorno innanzi, avevamo messo piede in trincee formidabili, munite d’ogni più solida difesa, d’ogni più spaventosa arma di offesa; avevamo aperto delle brecce che il nemico non poteva più chiudere, avevamo non pure subìto, ma inferto al nemico perdite gravi. Non bisognava cedere nè arrestarsi; bisognava non dar tregua al nemico in nessun punto, rinnovare la stretta, proseguire nello sgretolamento delle sue difese, riaffermare tutti i propositi di offensiva a fondo. I prigionieri fatti parlavano di volontà di arrendersi in tutti i compagni. E i nostri feriti rimasti sul terreno e i nostri morti, gli uni coi lamenti e gli altri col silenzio ci richiamavano fuori per il giorno seguente. * * * La notte sul 23 ottobre giunse nel settore di Zagora un nuovo comandante di reggimento, il colonnello Giletti. Arrivato a Plava la sera aveva avuto un colloquio col generale, e preso accordi per la ripresa dell’azione il mattino dopo. Giungeva in posizioni a lui nuove, e passò la notte girando per le trincee, interrogando i soldati, cercando di farsi una idea esatta del terreno. Erano le sette del mattino, quando il generale di brigata arrivò su anche lui, per dare sul posto le ultimissime disposizioni e tener d’occhio l’azione. Era un ometto sulla cinquantina, di poche parole, d’un coraggio spinto alla temerità, di una indifferenza assoluta davanti al pericolo. Il nemico bombardava di _shrapnel_ le nostre trincee, eseguiva dall’alba tiri di intimidazione e di interdizione, e colonnello e generale si portavano da un punto all’altro, si fermavano in osservazione nei punti più esposti. Quando uno _shrapnel_ scoppiò loro sul capo e lasciando incolume il generale uccise il colonnello. Erano le otto, era arrivato al battaglione quattro ore prima. Ripresa su tutto il fronte l’azione concorde, passò attraverso vicende di sbalzi, di soste, e di ripiegamenti non dissimili dai giorni precedenti. Le case di Globna furono occupate prima di mezzogiorno, e mentre i nostri ci si affermavano, pattuglie procedevano oltre il villaggio per un duecento metri, sulla strada di Britof. Nel settore di Paljevo una compagnia mirava all’avvolgimento della cappelletta, vivamente contrastata da pattuglie e da batterie avversarie. Altri reparti attendevano con intensa alacrità a lavori di approccio e di sistemazione, in attesa di tentare a sinistra l’attacco di quota 383, da noi occupata soltanto in una parte del versante nord, verso Plava e Globna. Come sempre la più tenace resistenza ci si opponeva dalla Casa diruta e dal villaggio di Zagora. Le nostre truppe, riuscite ancora una volta ad avanzare fin sotto i reticolati, erano state fermate dall’accorrere di truppe nemiche in cordone lungo tutta la striscia delle trincee. Si dovette nuovamente ricorrere a tiri violenti di artiglieria per arrestare una offensiva incipiente della fanteria austriaca e per tentare di obbligarla all’abbandono del trincerone. Verso il tramonto si tentò un nuovo risoluto assalto, che ebbe per effetto di portar nuove truppe sotto le posizioni nemiche, ma la nostra linea non potè essere mutata. Si decise di tenerla durante la notte, per appoggiare durante l’oscurità l’indispensabile lavoro dei guastatori contro i fili e le reti. Si era notato che alcune di queste avevano il particolarissimo còmpito di parare il nemico dalle schegge di rimbalzo. Avevamo dinanzi un sistema di difesa la cui potenza complessiva era forse superata da una incredibile abbondanza di risorse e scaltrezze minute. Si giunse adunque, con tali risultati parziali e dopo tante fatiche, al mattino del 24: dinanzi a difese complessivamente solide, benchè non più intatte; di fronte a un nemico che, in forze sempre crescenti, attendeva da tre giorni al grande assalto risolutivo, a truppe non ancora logore nè di animo nè di forze, benchè provate da un succedersi di azioni difficili e sanguinose. Rinnovato l’assalto alla Casa diruta, tale fu l’impeto e così imminente la minaccia che il nemico per frustrarla ricorse all’astuzia, e gridava parole di resa. “Buoni italiani, veniamo con voi”. I nostri, sorpresi, ebbero un attimo di sosta, di indecisione. Bastò perchè le mitragliatrici nemiche, cresciute di numero durante la notte, con scariche furibonde fermassero dall’alto la carica che stava per irrompere. Un battaglione rimase con due soli ufficiali. Un maggiore e un sergente, presi di mira ripetutamente, dovettero buttarsi a terra dietro il muricciolo di una delle tante terrazze che dovevano risalire. Le canne di alcuni fucili rimasero tutto il giorno puntate al ciglio sotto il quale le loro teste erano state viste calare. Tentarono più di una volta di strisciare carponi verso il ritorno. Ma come il nemico vedeva spuntare una mano o una scarpa, li batteva col fuoco. La terra intorno a loro era tutta bucherellata, smossa dalle pallottole; un cerchio di morte li chiudeva come in una tana. Essi decisero di attendere la notte per muoversi. Il sergente stanco prese sonno. Ma come si levò la luna, pareva fosse il giorno. Ogni più piccolo movimento era visto. Ogni movere di frasca, là dove altri erano rimasti acquattati o feriti, erano miagolii di pallottole, che pareva radessero i capelli sul capo. Le ore passavano ormai senza speranza. Quando la salvezza venne dalla improvvisa oscurità fatta da una nuvola. I due si mossero insieme, carponi; strisciarono in silenzio, ora soffermandosi, ora affrettandosi, e poterono rientrare incolumi nelle vecchie trincee, abbracciati dai nostri che avevano seguìto con ansia le fasi dell’avventura. Un episodio simile era occorso in quello stesso settore due giorni prima al capitano Viglione, che doveva morire in uno degli attacchi del 28. Pattuglie nostre uscite all’assalto il pomeriggio del 21, avevano trovato per terra il suo cappotto e il capitano non essendo rientrato la sera fu dato per morto. Più tardi lo si vide tornare sano e salvo tenendo per le cocche il fazzoletto colmo di grappoli d’uva. Costretto a ripararsi durante il giorno sotto un tralcio di vigna, aveva passato il tempo vendemmiando. La sera del 24, non potè ancora annunziarsi la presa della Casa diruta, ma solo l’espugnazione del trinceramento a quella antistante, dove reparti nostri erano riusciti ad irrompere nel pomeriggio, e avevano respinto un primo contrattacco, infliggendo perdite e prendendo prigionieri. Poichè il nemico si disponeva ormai a controattaccare. Ci assalì di fatto, in forze e d’improvviso la mattina del 25, piombando con elementi freschi sulle truppe esauste da un giorno continuo di assalti e da una notte agitata di vigilia e di lavoro. La sera del 25, il trincerone davanti alla Casa diruta tornava in mano al nemico. Tutto il terreno guadagnato con non poco sacrificio nella giornata del 24 era perduto nella seguente. * * * Come le onde susseguentesi e incalzantisi in un piano rendono meravigliosamente bene, secondo il concetto del Comando, l’imagine di un esercito vittorioso ed invasore; così le onde che urtano contro un lembo di roccia, e sono destinate a frangersi e a dare un balzo indietro per riprendere slancio e ritentare l’assalto, dànno altrettanto chiara l’idea del lento, fatale andare e venire d’ogni qualunque forza d’uomini sospinta ad abbattere una organizzata resistenza d’arte e di terreno, e a superare l’opposizione di un nemico che scaglia anch’esso e rovescia a tempo sugli assalitori i suoi successivi rincalzi. C’è nella guerra di posizione una specie di fissità sostanziale di ostacoli, che la rendono pochissimo mobile e moltissimo dura; e una episodica mobilità e quasi flusso e riflusso alterno di ondate, con tutte le sorprese, i giuochi, i capricci e i sobbalzi, i vortici, i risucchi, le spume di una qualunque massa liquida, lavorata da correnti che s’urtano e si affaticano, turbata e sbattuta da un fondo irregolare e insidioso, ricco di abissi, di secche e di scogli. Che se in teoria le ondate di uomini debbono susseguirsi e rincorrersi l’una l’altra dappresso, senza soste e interruzioni forzate, altro, di necessità, avviene in settori come quelli nei quali allora si combatteva: aspri a tenersi anche da un esercito immobile, se il nemico avesse potuto assumere un’attitudine di vigorosa offensiva; con comunicazioni difficili e ripari relativamente affrettati; con camminamenti ancora quasi tutti scoperti; con molti passaggi obbligati, battuti da molti fuochi; senza possibilità di cambi rapidi e sicuri. Rinforzi fatti partire la mattina per tempo dai ricoveri lungo il fiume, non sempre potevano giungere alle vecchie trincee prima del tramonto: tanto preciso e nutrito era il tiro d’interdizione nemico, su un terreno ancora povero di opere di approccio, nel quale dovevamo finalmente allargarci per poterci consolidare e proteggere. * * * Il giorno 26 si prende, dopo il villaggio di Globna, il fortino. All’alba alcuni volontari avevano fatto brillare due tubi di gelatina nel reticolato antistante alla piccola opera nemica. Alle 13 si diede il segnale dell’assalto, e prima di sera reparti di un reggimento di valorosi avevano conquistato il ridotto, facendovi prigionieri 75 soldati e 3 ufficiali. L’azione era stata così brillantemente condotta, da due battaglioni mossi da due parti all’attacco, che verso sera un plotone muove di là con tre ufficiali per spingersi fino alla chiesetta di Paljevo, alta sulle falde del Kuk, nella speranza di incunearsi fra le linee nemiche, vittoriosamente, sì da spezzarne a destra ed a sinistra la tenace difesa. Ma le truppe nostre operanti nel vallone di Paljevo, più in basso, avevano ritentato in quel giorno inutilmente la solita irruzione contro le trincee nemiche di quota 383, guadagnando non più che un centinaio di metri. E a Zagora la situazione era rimasta invariata, facendo il nemico un fuoco fitto di fucileria. Ma ormai si avevano dai prigionieri notizie più ampie e relativamente attendibili sugli effetti di tanti giorni di combattimento. Onde si diedero istruzioni di non dar tregua e di non cedere mai più un solo palmo di terreno conquistato. L’offensiva si venne consolidando a poco a poco, abbreviava così le sue pause, eliminava i proprî arresti. C’eravamo oramai avvicinati e addentati al nemico; cominciavano i sussulti dell’ultima lotta feroce corpo a corpo, quando anche gli assaliti messi alle strette e afferrati vigorosamente, debbono farsi assalitori per tentar di scrollare il nemico di dosso. Di fatto, nella notte stessa del 27, un violento controattacco si manifesta a Globna. Sulla mezzanotte artiglierie di grosso calibro iniziano un fortissimo bombardamento contro il villaggio e le vecchie trincee nostre di quota 383. Al cannoneggiamento segue un attacco disperato di fanterie, alla baionetta, con ufficiali alle spalle che rivoltellavano senza pietà i dubitosi, con squilli di tromba rianimatori. Dietro i pochi e deboli ripari le nostre truppe resistettero, e sventarono un minacciato avvolgimento della loro ala sinistra. Solo in qualche piccolo punto del centro, pei vuoti lasciati dai caduti, deboli nuclei nemici riuscirono ad infiltrarsi; ma la linea della fanteria rimase salda, nessuno dei nostri indietreggiò di un passo. Le perdite non furono poche nè da una parte nè dall’altra; qualche compagnia rimase al comando di ufficiali subalterni, finchè tutta la linea non fu rimpolpata e rinsanguata con nuovi elementi. Ma se all’impeto delle fanterie eravamo riusciti ad opporci, nuove perdite ci inflisse durante il giorno l’artiglieria: che pioveva proiettili sulle posizioni sparse di uomini ormai stanchi, di cadaveri e di feriti, che chiedevano soccorso e che non era agevole trasportare. Anche in quel punto il tiro di intimidazione e d’interdizione era feroce; impossibile riprendere l’azione; pericolosissimo defilarsi; e per quanto ufficiali e soldati, aggrappati al terreno, non dessero segno di volersi ritrarre, si ordina l’abbandono di tutta la valletta di Globna, ma in modo da costituirla zona neutra, impedendo al nemico di rioccupare la posizione del fortino sovrastante alle case. Sopra di essa il nemico aveva in antecedenza aggiustato i suoi tiri. Mentre a sera i nostri ripiegavano, giunsero tra loro gli avanzi del plotone che avevano tentato di raggiungere la chiesetta di Paljevo, e che avevano combattuto per tutto il giorno, soli, avanzati, scoperti, minacciati di accerchiamento e di distruzione. Gli ufficiali tornarono incolumi, recando avviso di perdite enormi del nemico, e cacciandosi innanzi alcuni prigionieri. Quanto a Zagora, si lavorò alacremente per tutto il giorno ad opere di approccio. Una vera trincea fu improvvisata dinanzi alla Casa diruta. Il 28, con truppe riposate, si fece irruzione contro i reticolati antistanti a Zagora. Un primo contrattacco alla nostra sinistra fu sventato; un altro alla destra, battuto dalla nostra artiglieria, semina il terreno di morti: possiamo allargare l’occupazione fino sotto al margine del paese, mentre ci rassodiamo a sinistra oltre la Casa diruta facciamo una ventina di prigionieri. Dagli interrogatori che si fanno a questi soldati presi, si viene a sapere che il nemico sta ricevendo notevoli rinforzi, e si prepara a un attacco imminente. Verso le 4,30 del mattino, questo si sviluppa con tale inaudita violenza, che ancora una volta si impone il ritorno dentro le vecchie e solide trincee. In poche ore la situazione torna quale era il mattino del giorno innanzi. Occorrevano assolutamente nuove truppe, e si decise di non tentare altra azione prima che fossero giunte. Si eseguì dunque il cambio la notte del 30, si riposò tutto il 31, e il 1º di novembre, alle 6 del mattino, con battaglioni freschi si tornò fuori: in pochi minuti si riprese tutta la trincea della Casa diruta, e i primi più fortunati reparti spintisi su verso il paese, penetrarono nel caseggiato. Altre forze seguirono, fu dato l’assalto alle case diroccate, furono invase le stradicciole e le stanze squarciate, furono come in una gran retata avviluppati e raccolti ben 202 prigionieri di truppa e 5 ufficiali, che tanti non erano bastati in un groviglio di ruderi, profondo e sovrastante a tutte le posizioni dei nostri, con un arsenale di mitragliatrici, bombe, fucili, a fermare, dopo una settimana di sforzi continui, inauditi, l’impeto assalitore dei fanti italiani. I quali più di altri cento prigionieri fecero nel pomeriggio, allargando l’occupazione a sinistra per le pendici del Kuk. * * * Chi scende oggi nel vallone di Plava e visita passo passo i vari settori, si sofferma dinanzi alle piccole croci di legno che disseminano qua e là il terreno combattuto. Ma nelle trincee molto è mutato da quei giorni oramai lontani di ottobre e di novembre. Molti lavori furono eseguiti durante l’inverno, lunghi camminamenti coperti, sicuri, conducono alle posizioni avanzate, ai ridottini estremi. Da Plava a Lozice si cammina per un sentiero nascosto, non veduti mai, e si trova il paesello abbandonato e tranquillo, con le piccole case solitarie fra gli orti e i giardini. Una scoletta deserta apre le sue finestrelle sulla riva destra del fiume e dai piccoli banchi neri si vede la corrente dell’Isonzo passare limpida, smeraldina. Si ripensa ai giorni quando questo era un nido di fanciulli biondi, di azzurri sloveni. Sui banchi e per terra, sparsi come le foglie della Sibilla, sono i minuscoli evangeli della sapienza infantile, sillabari e quaderni. Nel ridottino di Globna i nostri stanno saldamente afforzati: e i muletti calano sul ciglio di un valloncello, che in tempo di pioggia scarica le sue acque nell’Isonzo. Più oltre, nel terreno sgombro per un tratto di nemici, si sporgono sulla carrozzabile gli avanzi delle casette di Globna, grigiastre, e al di là della strada un orticello erboso, abbandonato, par che coltivi da solo una piantagione lussuosa di cavoli, alti, grassi, abbondanti. In un mattino limpido di febbraio, tutto spira un senso idillico di pace campestre. Solo lassù, nel settore di Zagora, gli avanzi della lotta feroce rimangono fra la terra smossa, sconvolta, seminata di paletti rovesciati, di fili e spranghe di ferro, di cavalli di frisia buttati all’aria, fracassati. Poche piante da frutta, qualche raro tralcio di vite è ancora abbarbicato al terreno, come sperduto nella convulsione. E le case di Zagora, quelle più basse nelle quali siamo noi, e le più alte nelle quali si annida a muro a muro coi nostri il nemico, sembrano nel loro stretto abbraccio, nel loro inviluppo tenace, nel nodoso intrico delle viuzze perpetuare il ricordo dell’antica lotta degli uomini nella materia petrosa, che resiste dopo tanti mesi al crollo e alla distruzione. IL “DIARIO DI TRINCEA” DI RENATO SERRA _Nello zaino di Renato Serra, insieme con la rivoltella — della quale non fu sparato neanche un colpo — era un taccuino di piccola mole, con alcune pagine piene della sua sottile scrittura: il diario della sua breve vita di trincea._ _Nella edizione milanese dell’_Esame di coscienza, _dove pur avrebbe trovato posto al seguito di quelle che sono senza dubbio le pagine più belle che da penna di scrittore europeo siano uscite sull’argomento della guerra, non demmo di questo diario neanche la notizia; per ragioni che è inutile dire._ _Per la prima volta se ne trascrivono qui le pagine intere, segnando con tratti punteggiati alcune brevi lacune della trascrizione._ _Il diario va dal 6 luglio 1915, giorno dell’arrivo davanti al Podgora, al 19 luglio, vigilia della morte del grande e caro amico._ * * * “6-VII, ore 14,40. — Nel bosco davanti Podgora: cuccie nel terreno sconvolto: dopo un sonno sotto i primi _shrapnel_. Stanotte che bella dormita sui cuscini dell’autom. accanto a F. Alle 5 via: per Palmanova in cerca di Cormons: dalle pinete e dai canali neri sotto i colonnati alle colline di terra rossa e di sassi — Incontri, schiene d’asino — Da C. a Mossa: scarico presso il Comando di Div. Di lì al com. di brigata. Torno a prendere la borsa zaino, faccio l’ultima scelta di cose necessarie; entro in campagna — Le guide nel bosco. Arrivo al regg.to — A mensa — A posto — Istinto che fa batter le ciglia al passaggio dello _shrapnel_. “Ripenso all’arrivo: entrando nel campo, incrocio la barella del cap. D. G.: una forma sotto una coperta, una mano increspata fuori della coperta, magra, esangue, verde — Segno? Tante cose. “Caldo sotto il tavolato. Mi chiamano per dare il cambio alla 3ª in trincea di 2ª linea — Vado a percorrere la trincea — Si mangia in fretta aspettando il buio. E. non può lasciare le mitragliatrici. Mi chiamano ancora: un ordine di operaz. è arrivato — a bassa voce — cambio sospeso — tenga la comp. pronta per appoggiare l’avanzata. Il cap. che mi ha fatto festa prima cambia voce: parla a uno che va per un’altra strada — Bene — in un giorno solo, tutto. Il circolo si chiuderà? curioso — Raccolgo la comp. (M. dà gli ordini per me), due plotoni sul ciglio: a sedere per terra, aspettiamo: la sera scende assorta, sulle membra indolenzite — Si parla a voce sommessa, parole più rade: gli occhi fissi: si vede sempre il cielo e il bosco, nelle ore lunghe. Sul materasso, ad aspettare che mi chiamino, senza pensarci più. “7 — Notte di fuoco e di lampi, razzi fin sopra noi — Mi persuado che non ci chiameranno, dormo tranquillo, lungamente — Sveglia del mattino, e giorno chiaro: la vita del campo che si riprende, lavarsi, pulirsi... Sto in piedi un po’ a stento, traballando — La ferita. Mi passa per la testa che potrei benissimo ammalarmi, tornare in licenza: per un secondo mi son già accomodato. Ma so che non sarà per più di un secondo. Sorrido, come quando una granata scoppiandomi sulla testa me la fa abbassare — Giornata senza novità — Il mio caporale ferito alle dita, Manoni: lo proporremo per la ricompensa. Si mangia; coi miei compagni, sudati, sotto le tavole basse: bisogna aggiungere Mensozzi, e gli altri attendenti fuori presso l’apertura, pronti: e la nostra famiglia — Riposo — Le ore passano — Vado in trincea a parlare dei bisogni della comp. e poi col colonnello: faccio uno specchio, sorveglio i lavori per spianare la strada alla batteria — Non daremo cambio ancora stanotte. Forse domani tutto il battaglione sarà ritirato — sento le notizie della giornata — il tentativo della brigata Perugia alla destra. Come si vede e si sente diversa la guerra, a esserci in mezzo. Si fa. Ma è ormai come la vita. È tutto, non è più una passione, nè una speranza. E, come la vita è piuttosto triste e rassegnata: ha un volto stanco, pieno di rughe e di usura, come noi — Questo non toglie tanta forza nascosta, insospettata — quasi inesauribile malgrado tutte le stanchezze. Scrivo guardando i monti intorno e il cielo velato di vapori di calore che si stanca. Vicino, i soldati gridano come scolari per rimettersi a posto nelle trincee più basse — Sopra è arrivata l’artiglieria — Che cosa si prepara per stanotte? Aspettiamo la mensa e il giornale — La cresta di fronte è coperta di alberi, bassi, un verde cupo, arricciato e velato come nella lama di uno specchio — Le acacie del mio bosco hanno un fogliame tenero, chiaro e fermo nella luce che vien meno — Sento i panni attaccati alla pelle da un resto di sudore. Le figure di Battase: un altro che prenderà posto in questa compagnia. “Si fa scuro, chiacchierando: cose militari — A dormire — La sinfonia notturna — Scroscio di pallette sul tavolato: palle di fucile tra gli alberi — Il cuore un po’ in sospeso: attaccano? attaccheremo? “8 — Sveglia: sacchi per la terza: visite alle trincee — Visi rossi alla luce del mattino di chi non ha dormito — Seguito a girare — Desiderio di fare un giro per le trincee avanzate — Non mi sono ancora sentito sparare addosso, non ho ancora fatto una traversata di terreno veramente battuto! — come una puntura — con Pipietto — che bel viso arrossato dal sole, ma fresco e fiorente di 20 anni: tranquillo, ridente: così bisogna essere: soldato, fanciullesco. “Arrivo alla 1ª sotto il monte, tutto ansante, sudato: neanche un colpo si è sentito: la cresta di fronte, a 300 metri, con le sue tavole sottosopra, la terra un po’ scavata e rivoltata negli squarci brulli, e il bosco fermo, pieno di silenzio — la pendice circolare alla base, tagliata come una parete sul fondo: e i soldati appoggiati rintanati tutto intorno — Lì appoggiati si sta al sicuro: si vede solo la parete e il cielo azzurro brillare sopra; dietro un rivoletto tra le frasche, prato, filari vigne immobili — di un verde chiaro, intrecciato di fili lucenti al sole — L’areoplano che non vedo — Dall’angolo della trincea i reticolati a cento metri; paletti e fili in croce: che aspetto inoffensivo! “Visite alle trincee del 131, sulla destra. Il pozzo, le case annerite di Lucinico abbandonate in mezzo al verde — Ritorno più adagio: sempre il silenzio e il cielo immobile caldo, sospeso sulle brevi corse. E nulla — Il comando per la comp. — La vallata di dietro a noi; il sole sul bosco sempre arricciato, ma fresco, molle — Ritorno: la salita stanca; grondando di sudore. Da Borla, distesi sotto il blindamento; scrosciano gli _shrapnel_ da montagna: due feriti a pochi metri. Passano laggiù per la radura: un lamento napoletano “Povera mamma, povera mamma” — Mensa, riposo. Gli scoppi periodici oramai e consueti — Come passa il pomeriggio vuoto e lento — Scrivere qualche cartolina, lavarsi, mettere in ordine lo zaino; e poi sulla cassetta rovesciata, col sole pallido che piove sulle mani di tra i rubini — Il boschetto intorno; cinereo, azzurrino di dietro su lembi di un cielo di perla: verde spento, quasi di carta chiara e fragile a sinistra; tenero e bagnato di sole stanco, frastagliato tra la nebbia calda. “9 — È già buio. Non vedo il lapis — In trincea agli avamposti, in luogo della 2ª — Giornata calma — E la notte? “Ricapitolo. Nottata dell’8 — La solita grandinata di colpi. Fuochi a comando, a scroscio; fuoco individuale, scoppiettio ininterrotto — Le pallottole tra il bosco, schiantano i rami, cadono a fasci, con piccolo tonfo secco, sul terreno — Bisogno d’alzarsi dalla cuccia e sporgere la testa dall’apertura — Sonno del mattino, nella luce scialba — Un’ombra sulla soglia la interrompe — Mi chiamano. Sostituire la 2ª — A vedere i luoghi — Discesa dalle trincee della 3ª, per la vigna, cammino non ancora percorso — Sbalzi di corsa, per seguire il compagno che si fa piccino ma non si ferma; soste a scrutare fra l’erba e le pannocchie di stipa la strada buona — Si tira a indovinare, e via, avanti. Fiato grosso — arrivo — perlustrazione, stato dei lavori — Ritorno da sinistra in cerca di un cammino più coperto — Per il camminamento sotto le case della Morte, tra l’argilla viscida d’acqua e per il bosco — irritazione, che sudata e che fatica. “Preparativi e partenza — si sfila per uno; Cinque va a fare il giro lungo per le posizioni del 12º — Si sale, si scende; è una delle manie solite di soldati — Il tratto scoperto — 15 metri in pendio; a gruppi, di corsa — Sono sfilati tutti — Qualche sparo — Una pallottola fracassa la scatola serbatoio di un fucile; curiosità, chiasso — Siamo in trincea — Ci si accomoda come per starci sempre — Dopo un po’ di tempo si scoprono delle piccole fortune ignorate ancora: sedersi sulla proda del filare davanti alla buca arrostita dal sole, nel ronzio delle mosche — Un po’ d’acqua e par già d’esser contenti — Sistemaz. delle trincee; giro intorno a vedere gli altri lavori, alla 1ª, all’8ª, che è già su, sotto la volta del bosco — Si fa sera — Arrivano delle granate da 210 — Mangiamo i biscotti con quelli della 1ª. “Notte — che stellato — Vedette a posto colla baionetta inastata — Ci mettiamo a dormire — Qualche colpo raro. A mezzanotte giro d’ispezione — Tutto quieto — Si torna a riposare — Dormiveglia, scariche, le pallottole fitte proprio sopra noi — Scoppi d’artiglieria nel buio, attraverso a un velo languido, fino alla mattina. “10 — Son qui a scrivere, nella mattina ancor fresca — Qualche colpo, un canto sottile di uccelli qui presso, parlare sommesso di soldati — Vita di trincea — Lavato, una tazza di latte; come par di star bene — Fatte le scritture per le comp., dati gli ordini, si lascia passare il tempo — Ora finiremo di far pulizia, e poi s’andrà a trovar gli zappatori. Ci dovevano essere 3 ore di tregua per seppellire i morti su un fronte vicino (del 1º fant.). Poi l’hanno sospeso — Areoplani — Mortaretti di _shrapnel_ e fiocchi bianchi che restano sospesi nel cielo lucido — (di seta). “Avanti — Giornate spaziose, piene — Calma del nemico — I soliti convogli oscillanti sbuffanti gravi alti sul capo: colpi rabbiosi tesi dei nostri 75 che gettano i frantumi roventi indietro fra noi — Qualche colpo di Cecchino — uno anche a me, vicino, mi è sembrato. Ma nessuna impressione — Vo al comando a riscotere quasi tutti gli arretrati e ne spedisco via due vaglia — Si torna, per le case diroccate: le api e il merdaio — Si mangia e si prova a riposare: ma il sole entra obliquo e preciso — Mi siedo a scrivere — Poi ordini alla compagnia per i lavori e per la notte — avanti adagio: comincio ad adattarmi all’animo degli altri — A visitare le trincee; si manda un plotone a cercare i teli e le mantelline — Unica novità, i pennacchi di fumo biancastro a lungo cacciati dal vento là di fronte sulle colline — selvose — brulle — dell’altra riva: verso S. Michele. I nostri che avanzano — Presto Podgora sarà presa a rovescio — Comincio a capire come si troverà la forza e la voglia di andare all’assalto; è un cerchio che si stringe, irresistibilmente. Ci troveremo anche noi a far parte dell’ondata che sale — Partecipo ancora al brontolare e allo scontento — legittimo — dei miei vicini; ma capisco che a un certo momento saremo portati via tutti. Non penso a me: non mi faccio ancora il caso mio personale, il problema del mio morire. “Infine, il temporale che s’addensava; gonfiezza umida lucente del cielo sulla ricchezza sorda fresca del verde — Le nubi gonfie brillanti di luce; zone d’ombra disciolte e lavate, a stracci caldi sul freddo — colore magnifico. “E adesso non c’è più nè luci nè colori — Il vento fa le foglie scure in basso, in alto l’aria celestina — I primi spari. “11 — Ricomincio: accoccolato presso la spalliera di sacchi che ripara una vedetta — di destra; col sole a piombo, sole tardo del pomeriggio, cocente dopo il temporale. “Si prepara la partenza: il cambio — In mezzo a una pioggia di bombe — C’è dei feriti nel bilancio di oggi; un po’ di scompiglio tra i soldati; ma si comincia anche ad averli in mano — io — un po’ di più. Poco da aggiungere, ricapitolando. “Notizie del nemico che ha preso posto sullo sperone di destra, quello scoperto e sconvolto dalle nostre granate — Feriti e morti sul tratto di strada dopo la casa del pozzo e lungo la trincea della 3ª — La strada che faccio io — presa d’infilata — Sparano anche sopra noi, vicinissimi: battono la nostra destra. Due feriti. “Il primo dei miei che vedo con un fianco lacerato da una palla (esplosiva?) viso di Guidi (quello del naso mancante a virgola). I compagni vicini — Bisogno di spingermi sul posto preciso dove son caduti: silenzio di quelli che son lì quatti; le pallottole piovono ancora. E bombe-bottiglie. Una dopo l’altra. Fragore e scompiglio. “Stamattina, lo svegliarsi dopo il temporale: cielo grigio, che si scioglie in uno sgocciolamento autunnale — Tutta la notte ha piovuto, prima violento, a raffiche di bufera: vento e spari: le mie gite alla trincea superiore: nel buio sferzato dall’acqua, e fischio e crepitìo di palle vicine, croscianti — Una volta devo tornare indietro, mollo d’acqua; non trovavo la strada tra il fango e la tenebra — Ma non son contento finchè non son tornato a sedermi lassù, vicino all’ultima vedetta: i nervi rallentano la tensione delle ultime scariche che non finivano mai — Guardo la notte fosca, di un lividore che comincia a scialbarsi. Verrà il sole? Come si desidera! Ci si ribella alla prospettiva di una giornata come questa notte. — C’è fango e acqua per tutto, nei camminamenti, nelle buche: sacchi, coperte, vestiti brutti di mota, che si secca nelle mani, si incrosta. “Venne il sole, ma ha tardato — Pioggia a scosse e poi acqua minuta, perpetua sul far dell’alba, si guarda il grigiore dal fondo della fossa, rassegnati indifferenti — Resto lì, chiudendo gli occhi volontariamente: ho visto qualche squarcio di chiaro, — ma freddo, sporco — fra gli stracci di nuvole e non voglio muovermi finchè non sia tutto un po’ schiarito — Sereno come d’autunno — E poi il sole prima pallido; e poi vivo, caldo, brillante, sull’umidore che non si asciuga. Torna la voglia di pulirsi, di lavorare — Istantanee — Il sole fra i pampani, di un verdiccio vergine — E la ricchezza dei verdi, per tutta la valle e sui monti, dai viticci ai castagni, alle querci fredde e fosche lassù: quanti toni e risonanze nella luce fresca — Poi viene il cambio — di Raggi — Marcia di ritorno, dentro il bosco; si mangia laggiù al posto di medicazione, nel crepuscolo — E poi a Vallisella. “12 — Scrivo che è già buio — Dopo l’arrivo penoso, irritante di stanotte e il brancolare nel bosco, sulla terra dura, in cerca di riposo, pieni di sonno e di stanchezza, oggi niente di nuovo — Riposo — Aggiungo: l’entrata nel bosco, dopo la marcia notturna — come torna fuori — Ma anche sotto il fuoco si ritrovava — il solito meccanismo della vita militare:....... — Ci mettono in marcia....... — Uno dietro l’altro; per la via rotta, fra muri calcinati e buche di granate — Ogni tanto qualche indicante. Ma non a tutti i bivii. Cerchiamo di non serrare addosso agli altri: ma si finisce per raggiungere la colonna — Il solito andare, allungarsi e poi premersi alle fermate — Il movimento della testa che si comunica alla coda, come attraverso un corpo senza vertebre con sussulti e riprese strascicate, spossanti. Si arriva abbastanza presto per fortuna. — I plotoni si formano, si affiancano: (sono un po’ perduto in quel buio, con quella stanchezza, ordini, contrordini, gente che brontola, voci di comandanti che minacciano: ripetizione eterna, monotona — Niente dunque cambierà mai?); si abbattono giù sul prato umido. “Il comando di battaglione ci chiama: i soliti ordini, entrare nel bosco, ognuno nella sua zona, non lasciare uscire nessuno (gli areoplani!); una comp. darà la guardia — sempre alla 4ª tocca! — mandare la _corvée_ per il rancio su, prima dell’alba; domattina si fisseranno i settori, le consegne, le sentinelle — Avevamo sperato di riposare..... È sempre la stessa cosa...... — Attraverso un fosso e un pantano: bisogna sfilare per uno lungamente — E poi su per il pendio imbrattato di mota viscida dai piedi dei primi, sdrucciolando e incespicando nelle scheggie d’alberi e nei tronconi — Il terreno solito degli accampamenti dove han vissuto i soldati; orribile terreno nudo, battuto, indurito — Si intravedeva il folto degli alberi; e ci si buttava sperando l’erba, il terriccio soffice, il musco intorno alle zocche e il seccume. Si trova questo — E tutto il pendio è arduo, gobbo. Andiamo a finire giù nello spiazzo; giù in un sonno di piombo. Manca Mont. che ha raccolto le _corvées_ e alle 2-1/2 le deve accompagnare — Lo sentiamo tornare sul far del giorno: la luce pallida attraverso le palpebre calate; voci che passano dietro il velo — Poi bisogna alzarsi, ancora con le ossa peste. Mettere a posto la comp.; ecc. Si trova il luogo per la nostra capanna; un po’ d’acqua sugli occhi — Si comincia a andare — Servizio interno, l’acqua, le latrine, la cinquina — avvisi al comando — La giornata passa con una lunga, profonda riposata dormita pomeridiana — si fa sera — Mont. smonta — La sua malattia....... Cinque porta la comp. a Capriva per gli zaini — Noi restiamo, nella trincea mezzo vuota si conversa un poco sotto il nostro tetto di frasche nel crepuscolo. Di là dal colle giunge un suono strano, insistente; musica di negri — L’artiglieria ha fatto le trombette con la scorza di fico — Qualche bomba di areoplano, qualche granata — Scoppiano e dileguano. “M’addormento senza aver nemmeno data un’occhiata al cielo, se si vedan le stelle. “13 — Mi sveglio tardi, ristorato, tranquillo — sono le 6 — M’ha preparato di Marco acqua e tirato fuori calze, mutande: ce n’andiamo in un altro boschetto laggiù, tacito e fresco, con qualche filo di sole che piove sull’erba pulita, e mi lavo e mi cambio. Torno. Mattinata quasi senza sole, sereno a zone d’ombra, ora tepida ora fredda — Scrivo rapporti, note; e il tempo passa — scorrevole, uguale — Riprendo. Come sono superficiali queste note! Colori, apparenze, minuzie materiali.... par di aver fatto quasi un tacito compromesso con sè stessi per sorvolare, per lasciare in sospeso tutti i problemi ansiosi, le parti oscure. Si tira via, forse è necessario far così, per conservare forza e voglia di vivere, questa facilità, questa disinvoltura che passa sopra a tutto; e se non ci fosse. Istinto del vivere, irresistibile — Non mi son fermato sul primo incontro del 20º per la via di Chiopris. Colonna d’uomini curvi rassegnati sui due lati della strada polverosa: panni rossastri, colle pieghe del giacere per terra e la crosta di polvere e fango che non s’ha più la forza di sbatterci il rosso della terra del Carso sugli abiti e sui volti, sulle mani scure e stanche, sulla pelle rugginosa; albe delle notti passate su una strada, quando t’alzi senza una goccia d’acqua da lavarti la polvere: occhi brucianti sotto le palpebre che tirano, occhi spenti, atoni; volti invecchiati e infossati — Il riposo tetro, l’andare inesorabile. Il volto della guerra. “È l’altro volto — quello a cui nessuno vuol guardare — Ma tutti lo fissano muti,.......: non è malcontento, non è sfiducia, non è stanchezza soltanto, è abitudine superficiale di individualismo (che non impedirà il sacrificio e lo star fermi e il correre avanti): è l’istinto della vita che si ribella sordamente, che non vuol vedere, che non sa accettare..... “Anch’io: come quando andavo in bicicletta, su per una salita, col sangue che mi scoppiava martellando nelle arterie; ancora un paracarro e poi mi fermerò — E seguitavo — Così dico di fermarmi — Ma so che non mi fermerò. Tirerò avanti, ogni tanto, trasportato da qualche ondata improvvisa che non so donde sorga. . . . . . . . “Finiamo la cronaca. Dormire, scrivere — Passeggiata sul cocuzzolo, dove il bosco ha una radura: e si vedono tutte le cime circostanti affollarsi, dense di macchie e di verdura ondeggiante, scura, riccioluta: schiuma di castagni fresca, verdezza chiara e fragile di rubini tra il fosco dei querceti: e di là dalle gobbe e per le insellature, la pianura che s’intravede come un velo di cenere sotto la caldura — E il cielo. “La notte ci risveglia dolorosamente, si lotta per trovare una posizione meno incomoda — La terra è dura, le membra informicolate — S’arriva al mattino con una pena lunga — e ci si trova riposati, lieti. “Sempre così. “14 — Al solito — davanti alla capanna — Scritto un monte di cartoline. . . . . . . . “Note della giornata — Minaccia di temporale; il cielo gonfio che si scioglie in acqua: una parete color di lavagna a destra: vento per l’accampamento, che rovista tra le frasche e le immondizie: i primi goccioloni, e il vento che li porta via. “Crepuscolo fresco, frizzante; con un grigio d’autunno; e i riflessi di tramonto caldi sui volti — Mi scordavo: un quarto d’ora nell’altro boschetto, dietro il cocuzzolo: intrico di rovi e di piante sottili fra cui danza il sole umido e cocente........ cose insignificanti — Dormita breve (appena mi sposto o mi abbasso come sento la testa che non ha ancora ripreso l’equilibrio fisico!) — Notte lunga. Un po’ di dolore alle gengive. E poi queste giornate senza muoversi, rintanati in un buco, stancano l’appetito e il sonno. “15 — Giornate pigre, senza mangiare, senza scrivere — Sdraiato per terra in un torpore su cui (come sono metallici gli scoppi degli _shrapnel_ stasera) galleggia il senso di qualche malessere: denti, ventre. “Due quercie che ho guardato a mezzogiorno dal basso, tra la macchia di rubini, accovacciato — Due quercie si profilavano sul cielo: che fogliame duro, cupo, fresco: che calma e che silenzio: cupo argento sull’azzurro brillante profondo e limpido senza fine... . . . . . . . “Si fa sera — Granate che passano — Prima gli areoplani: uno dei nostri colpito, o minacciato. “16 — Niente novità — Malessere. “Pareva che si dovesse partire stasera, e quasi era meglio. Oramai che si sta a fare? Il riposo si sente bene che è finito. Non ho detto niente dell’acqua di stanotte. Siamo ancora infangati. Ma oramai — son cose che bisogna parlarne intanto che avvengono: tutta notte lotta col sonno, coll’umido, coll’acqua che filtra — E poi, è passata — E via. “17 — Notte penosa, mattinata brutta; senza mangiare da ieri, dissenteria, mal di capo, la parete dell’orecchio sempre più ottusa, s’ingrossa e pesa — le gambe che traballano, caldo e sudore quasi di febbre in pelle in pelle — Giù sulle foglie, spossato. “Arriva l’ordine di partire, per questa sera — il 3º Battagl. viene a darci il cambio qui — Inasprimento e stanchezza: — Farò una morte oscura e sciupata! Una morte che non mi dispiace. Ma non ne ho coscienza _reale_ nessuna in questo momento — (Prima sì, laggiù disteso nell’afa della capanna) — Meno male che si lascia questo campo che m’è divenuto intollerabile: Riposo! — su questa terra cattiva, pestata, indurita, con queste buche malfatte e questi sentieri a casaccio, che non puoi guardare senza sentire in tutte le membra la noia ingrata e inevitabile del giaciglio insufficiente, che non ti lascia stendere, colle disuguaglianze ti rompe la schiena — degli sdruccioloni e del cammino a zig-zag — a strapponi, che ti snerva senza scopo — tutte le difficoltà e le asprezze delle cose malfatte, provvisorie, che ti tolgono il cuore di provare a raddrizzarle. “E poi tutti i segni dell’agglomeramento di uomini, che passano e sanno di non restare, e lasciano il peggio di sè, le traccie del vivere abbandonato, bestiale: brani di carta che s’ammucchiano in tutti gli angoli coi resti, e gli stracci, biancheria sporca buttata sui cespugli secchi e sui rami scortecciati, avanzi di cibo tra il fango, pasta che si macera e mescola la sua acredine al puzzo degli escrementi e delle lordure disseminate per tutto; tutti i detriti di un campo, dove si è bevuto e vociato come all’osteria, paglia, ovatta, fiaschi, latte interrate e ammucchiate su questo terreno spelato, in questo sottobosco rado dove il sole che filtra tra i riflessi del verde pare un’ironia sulla terra gibbosa, nuda e tetra, dove non trovi più un filo d’erba, e anche di là dai termini del campo, dove ricomincia la macchia e l’intrico delle fronde, non un angolo, non un ramo, non una zolla, che non conservi la pesta e la sporcizia dell’uomo — E dire che non si può pensare a un bosco, senza l’impressione del riposo nell’ombra, su cui danza il sole, nell’ombra piena di cose secche e molli, verdi e fresche, erba e musco, foglie secche affondate nel terriccio — O una proda di erba vera, vivace, non toccata ancora se non dalla luce — erba per camminarci a piedi scalzi e per dormire distesi, fra il silenzio e il cielo! “S’accosta il tramonto — Sto meglio. “Arriva il pacchetto-campione della mamma — Povera mamma! Non parlo mai di lei in queste note — Ma come è possibile! È nel cuore, nel respiro, nel vivere: così naturalmente e continuamente che non si sente il bisogno di parlarne. Se non a urti, a certe scosse che riempiono di commozione dolorosa — Come quando incontrai quella donna vestita di nero con un ragazzo pallido, stretto al braccio — soli loro due uniti e silenziosi nel vasto mondo — E come quando mi arriva questa roba: chi sa quanto impazzire e crucciarsi nel prepararla, e scordare un poco le sue pene senza perderle. “18-VII: 1915 — Podgora. (Il giorno dell’avanzata?) ore 16...... mentre si aspetta (l’assalto?) — dopo, il bombardamento che dura da stanotte — Odore di esplosivi nell’aria — Poca voglia di scrivere — finchè non si possa fare un po’ di bilancio: o chiusura. “19 — ore 11. — È cominciato l’attacco. “In riserva: “Ore 19 — Sommario di ieri e di oggi — perchè non posso scrivere — Arrivo nella notte, dopo la marcia — Snervamento — La compagnia a posto (ore 2-1/4) — La baracca per noi — Nel posto degli altri — Sveglia, stanchi — Ordine di operazioni. 2ª e 4ª — Bombardamento — Sonno — Fotografie — Dalla parte di S. Michele — Arrivo di granate — Per le 4? — Un plotone che avanza, bombardieri, zappatori — La giornata passa — Il temporale — uragano; poi pioggia fina — Il cambio della guardia — Impressioni — Notte, coi piedi nell’acqua — Posta. “Dormo fino alle 8 — Alle 9 riprende il bombardamento — Notizie dal Carso — Disposizioni — 12 plotoni della guardia pronti per un bisogno. I primi feriti — Raggi — Notizie di soldati — sotto la tettoia del Comando — Raffica di _shrapnel_ che sfiorano il campo — A vedere l’azione, con Genta, poi alle batterie — La mensa — Altri feriti (E i morti) — I prigionieri: prima 3 — Il caporale preso per ufficiale: notizie — Passaggio di 305 — Riposo. “L’azione che procede: a vedere: i nostri che avanzano. Notizie. Al Comando: Tassinari (il vol.): italiani eroici — sui 4 prigionieri — La 2ª e la 3ª sfilano per pigliar posizione — Toccherebbe a noi dopo — Il povero Combi — Stelluti e gli altri, feriti e feriti — La trincea rioccupata e perduta: le bombe — Genta mi porta la notizia — Scoramento — Da ricominciare — Che cosa resterà da fare a me? Esame di coscienza; triste — Si fa sera, tra le nuvole e la luna fresca”. MATTINO DI BATTAGLIA Marzo 1916. _Ad Achille Benedetti._ Eravamo due corrispondenti di guerra, partiti a notte dal Quartier generale. Avevamo scrutato il cielo partendo, per sorprendere un accenno di tempo sereno. Ma in aperta campagna si vedevano uscire dalle profondità oscure dell’orizzonte i fasci dei riflettori, pallidi fra la pioggia e affondare in alto nella nuvolaglia sporca che lo scirocco da venti giorni non faceva che sciogliere in pioggia su tutta la pianura friulana. Parea di viaggiare in canotto lungo le strade, con le ruote che giravano nell’acqua come quelle dei vecchi bastimenti a vapore, gettando di qua e di là, oltre i fossi, nei campi, immense spruzzate giallastre, a ventaglio. In queste fiumane torbide, che allagano le carreggiate, il transito caotico delle retrovie non ha più tregua nè giorno nè notte. Il movimento ha preso un ritmo continuo e rapido, s’incanala, si dirama, si intensifica, si allarga. Le colonne munizioni, più lunghe del solito, al trotto serrato delle pariglie, vanno verso le batterie avanzate; gli uomini a cavallo, incrostati sulle selle, i lembi dei pastrani madidi, senza più colore, si raggricchiano sulle groppe. Paiono strane teorie di fantasmi, alti, grossi, corpulenti, che cavalcando si suscitino dietro un fragore stridente di legname duro, di cassoni carichi di metalli. Ogni tanto su un cavallo di timone spazia un arcione vuoto: lunghi sputi di mota chiazzano il cuoio dei cuscinetti. Gli autocarri succedono agli autocarri, macchinosi, pesanti come vagoni di un treno sgranato, che maciulla le massicciate. Le sirene delle automobili sibilano per gli stradoni, lungo interi chilometri; le vetture si aprono in alcuni punti varchi angusti, e si perdono lontane. Reggimenti che vanno, reggimenti che tornano, un movimento in grande di unità che cambiano sede, che debbono raggiungere il posto di combattimento, di riserva, o di riposo. E su questo tramestìo accelerato di uomini e di carri, di staffette e di generali, spiccano, come gli annunciatori della tempesta, i grigi trasporti della Croce Rossa, che si mobilitano verso il fronte, e in parte ritornano recando i primi feriti, volti fasciati di garza, braccia fissate al collo nei triangoli di tela. Il bombardamento dura intenso da due giorni e i proiettili piovono anche sulle nostre linee. Queste scene nella notte si intravedono, a squarci, o ammassate, confuse; se ne afferrano i particolari solo in alcuna delle tante soste forzate, nella strozzatura di una strada, all’imbocco di un ponte, nella piazzetta d’un paese, al chiarore turchiniccio di un fanalotto proteso sopra un radiatore. Talvolta la sosta è meno breve; una prolunga s’è accasciata sull’asse, attraverso la strada; una automobile s’è accosciata in un fosso; un enorme cannone è affondato coi cingoli nel suolo di una via campestre, e bisogna tornare addietro, voltare le macchine, spostare il traffico verso un’altra arteria stradale, rifare chilometri e chilometri, cercarsi lontano un’uscita. Dopo un’ora o due avete quasi un principio di stanchezza e di stordimento, e sentite come la guerra pesi fino nei luoghi dove il cannone non giunge che col boato smorzato, e che cosa sia la fatica che si tira dietro una linea di combattenti, alla vigilia di movere un passo fuori delle trincee. Sentite la gravità incommensurabile che incombe su operazioni anche di non vastissima portata, come forse son quelle che stanno per cominciare, quando il tempo ci è così spietatamente avverso, quando si deve lottare sulle strade come si farebbe nei pantani, e quando bisogna andare avanti nei pantani come se fossero strade; notte e giorno, sotto l’acqua che bagna, incolla i panni alla pelle, passa gli impermeabili e gli stivali, e dà dopo qualche ora la stupidità brutale della pioggia che inflaccidisce i nervi e stronca le giunture. Procedendo per Cormons nella luce diafana dell’alba, che spuntava fra scrosci di pioggia, incontrammo, disseminati sullo stradone, alcuni soldati che tornavano dalle trincee. Le truppe che tornano dal fronte si riconoscono súbito, spiccano nella pittoresca stranezza sullo sfondo comune delle cose. Portano sulle spalle tutto il loro carico greve, e il pondo più greve della fatica. Non parlano, non cantano, procedono mute, in ordine sparso, come stupite al rivedere il mondo, le vie larghe, le case, le siepi, i campi pacifici. I primi che ci passarono accanto nel lividore del giorno, erano ancora i più freschi, formavano la testa della lunghissima colonna. Riconoscemmo un reggimento che tiene alcune trincee del Podgora. Venivano di là, e avevano camminato tutta la notte. Nella loro stanchezza fisica, ridotta allo stremo, erano pur da descrivere. Se pittura e scultura cercheranno mai nuove forme in questa guerra, nuove espressioni, le troveranno meravigliose in queste parvenze di uomini stracchi, sfiniti, sovraccarichi di impedimenti, di armi, che paiono usciti dai cunicoli di una miniera. Soldati e ufficiali, non riconoscibili gli uni dagli altri, procedevano insieme, uguagliati dalla sorte e dall’affanno. Nelle immagini, che parevano fantastiche, di quei piccoli uomini stronchi, infangati, inzuppati di pioggia, riconoscemmo le colonne formidabili della nostra guerra. Avevano i bei cappotti giallognoli striati, insozzati di belletta, striati da larghe pennellate di un colore sanguigno, tenace come vernice. Avevano trascorso nelle trincee una ventina di giorni; avevano dormito nelle tane di pietra e di terra, di tavole marce e di tela; s’erano seduti, accosciati nel fango; avevano le facce, le mani incrostate di mota. Le barbe lunghe invecchiavano i volti. Tutte le milizie che combattono in questa terribile guerra lunga, lenta, faticosa, come tornano dai covi delle trincee per il turno di riposo, sono così. Pensavamo, guardandoli passare, che fra due o tre giorni, mutati i panni, lavati, ripuliti, quelli sarebbero i più allegri soldati del mondo. Sotto quell’ammasso di panni, d’armi, di fango rimane, come un focherello sempre acceso, come una lampada tenace, la nostra anima di popolo cresciuto al sole nella robusta bontà della terra. Ed ecco che alcuni compagni di quelli che avevamo veduti passare col carico greve — zaino, coperta, tascapane, bisaccia, scarpe di ricambio, giberne, fucile, baionetta — curvi e incappucciati, sotto l’acqua, o seduti per terra, sul margine di un fosso, o sdraiati sulla soglia di una casa — li ritrovammo nella bettola di un villaggio, dove s’erano fermati per rifocillarsi. Rivedo un sottotenente con l’ordinanza, soli a un tavolino; altri tre soldati a un altro, in disparte. Avevano ordinato chi caffè, chi vino, pane e salciccia; quel che la bettola dava. Avevano bisogno di buttare qualche cosa di tepido nello stomaco vuoto, infreddolito, ristretto. E, mentre mangiavano, li ascoltammo parlare. Avevano lasciato a sera i posti della morte, quando il bombardamento nostro durava da quarantott’ore; per dare il cambio a un reggimento fresco, che trovava nei reticolati antistanti qualche breccia aperta. Avevan passato lassù, fra prima, seconda linea e posti di riserva una ventina di giorni sotto l’acqua incessante. Non s’era più veduta una stagione simile. I muretti delle trincee bisognava ogni notte rimetterli a posto, perchè l’acqua sgretolava, rovinava, portando via tutto, correndo a ruscelli pei camminamenti che si sfaldavano. Si stentava a tenersi in piedi, camminare era un’impresa. Nelle grotte s’entrava a schiena curva, a capo basso, per non urtare nelle travi, e si camminava nell’acqua, come nei corridoi di cantine allagate. Il sottotenente, dietro le lenti a staffa, moveva lo sguardo vago, intontito dal lungo cammino: le mani terrose, intirizzite, spezzavano il pane con stento. Ma il volto imberbe, di studente, era d’una serenità tranquilla, in cui affiorava il sorriso. A fianco dell’ufficiale, in silenzio, in atto di devozione stava l’ordinanza. Si capiva che s’erano trovati tante volte insieme al pericolo; una comunanza di pensieri e d’affetti s’era stabilita fra loro. All’altro tavolino tre siciliani, occhi neri, lucenti, volti vivaci di saraceni, razza vergine ancora, belle fisonomie argute. Dicevano motteggiando, che con questi tempi da ladri, deve per forza esserci la guerra. “_Lu Signore si mise a pi_...”. Avevano sulle labbra arguzie aristofanesche, quei contadini siracusani, che fino a ieri scassavano la terra attorno ai ruderi della civiltà magno-greca. Mangiavano di gusto, inaffiando il pasto con sorsate di vin bianco, aspretto, cavato dai vigneti austriaci. “Mangiamo, chè la pelle tirata vuol essere!” Tutti e tre sopra i trent’anni, si motteggiavano come fanciulli. Uno di essi diceva di avere una lotta col proprio zaino: “L’uno vuol fare f... l’altro. Vedremo chi vince dei due!” Si sarebbe stati lì a sentirli parlare: incantavano. Che curiosa varietà di sentimenti, di fantasie, quanta poesia di anime in queste masse grige di uomini, che paiono l’uno uguale all’altro, quando si vedono passare in colonne lungo le strade! Chi ce la ridirà questa poesia, chi ce lo scriverà il romanzo vero della guerra nostra, il poema di questa italica unità discorde, della Nazione in cui le stirpi diverse non sono ancora perdute, in cui le regioni più lontane si ritrovano ognuna coi propri accenti, coi canti e i lazzi della propria terra? Come usciamo all’aperto, ritroviamo sulla strada, che giungono, che vanno oltre, o si soffermano soldati e soldati ancora, con lo stesso numero sopra la visiera, che vengono dalle stesse buche, che vanno verso lo stesso riposo: che hanno gavette, fucili, vanghette, zappe, coperte, zaini, elmetti, tutto accatastato sulle spalle, e vanno sotto la pioggia, specchiando i volti sulla strada bagnata, lucida al biancicare del giorno. Sull’uscio d’una bottega, un gruppetto s’accalca dinanzi a una cesta di frutta. Hanno comperato gli aranci; mordono coi denti bianchi la polpa dolce, succosa, che sanguina dalla buccia rossastra. Li riconosciamo siciliani all’accento. E tengono in mano quei frutti del sole, come una cosa cara, un prezioso dono. Non c’è che grigio colore intorno, su cui spiccano i rossi dischi rotondi, e pare che se ne riscaldino il cavo delle mani i buoni figli della Sicilia lontana, che hanno tenuto per tanti giorni filati il tristo Podgora! * * * Filiamo verso un osservatorio di artiglieria. Come l’aria schiarisce, i tiri delle batterie nostre rinforzano. Andiamo a vedere i fumacchi delle granate sui baluardi del Sabotino, se è possibile, e sul S. Michele. Bisogna cercarla così, da punto a punto, questa battaglia, che si distende in proporzioni vaste come l’orizzonte, e dilaga per tanti panorami. Questa notte, verso l’una e verso le quattro, hanno tirato sulla stazione di Cormons. Ce lo dicono all’osservatorio, aprendo gli sportelli per dove si contempla il duello lontano dei grossi e medi calibri sulle posizioni del San Michele. Podgora, Sabotino, Monte Santo sono nascosti dalla nebbia. Ci dicono anche che finora le batterie austriache hanno controbattuto debolmente. Ma qualche cosa accade sul S. Michele verso il Bosco del Cappuccio. L’azione si orienta verso il Carso. I nostri devono essere usciti, e a quest’ora attaccano, non v’ha dubbio. Sul Bosco del Cappuccio gli _shrapnel_ nemici scoppiano l’uno dopo l’altro, c’è un lampeggio continuo, un ballo di scintille elettriche che scoccano, in furia. Il nostro fuoco è concentrato ora sul rovescio del San Michele: si battono i camminamenti nemici che menano alle trincee. E nulla è più sorprendente della pace che regna attorno a noi, attorno a questo buco donde si spazia con l’occhio su tanta distesa di orizzonte, su un quadro mattutino di battaglia. Non s’ode che la pioggia scrosciare sulla terra molle, rimbalzare con un suono dolce; strepere tepida nella giornata sciroccale, con un invito alle radici e alle fronde di scuotere il sonno dell’inverno, chè la primavera già viene, coi quadratini verdi di grano, coi prati che germinano. Andiamo a vedere un po’ più da vicino quel che succede laggiù. Sono le otto della mattina. * * * Per via ci soffermiamo a un ufficio di collegamento, dove affluiscono notizie dal fronte per telefono e per mezzo di staffette. Abbiamo: che verso Zagora, nella giornata di ieri, è stato segnalato un gran movimento di truppe nemiche e di feriti. Da tutta altra parte, verso Monfalcone, pattuglie nostre sono uscite ad assaggiare il terreno. Alcune azioni di varia importanza paiono in corso sul San Michele. Verso la chiesa di San Martino abbiamo provocato incendi. Si tratta, in sostanza, di una ripresa offensiva, che di ora in ora prende maggiore sviluppo. Il nemico impressionato, ha ricominciato a tirare coi più grossi calibri, che da un pezzo dormivano. Riserve numerose sono state portate avanti, le trincee loro sono piene di truppa, come si arguisce dalla vivacità della fucileria, e come hanno constatato ardite esplorazioni e irruzioni di piccoli nostri riparti. Sfortuna vuole che il terreno sia così molle, che le granate si smorzano nel fango e non tutte possono scoppiare come quando picchiano sull’asciutto e sul sodo. Procedendo verso Gradisca il tempo accenna a schiarire. Le quattro cime del S. Michele si disegnano fuori della nebbia, come le gobbe di un mostro accovacciato sulla sponda sinistra dell’Isonzo, e rivolto col muso basso verso Gorizia. Sotto ognuna di quelle quattro cime che il nemico tiene corrono le linee dei nostri. Dagli osservatori delle creste l’occhio della difesa spazia giù sul costone, e sul fiume sempre ineguale, ora gonfio d’acqua gialla, ora striato da venature di smeraldo, e sul piano nostro che si allarga alla destra dell’Isonzo. Dall’alto il nemico contempla tutte le nostre vie, batte col cannone i paesi, i villaggi, le case sole, le solitarie rovine. Gradisca è ancora a tiro dei suoi fucili. * * * Gradisca era un giorno un’amena villeggiatura Oggi è una vittima squallida della guerra; porta i segni di una devastazione più impressionante ancora di quel che potrebbe essere la distruzione completa. Una borgata rasata al suolo, senza più una casa in piedi, ha perso tutte le sue proporzioni, non esiste veramente più. Una città come Gradisca, la quale ancora si tiene su, fa meglio vedere la rovina, la solitudine, l’abbandono, lo strazio che ha sofferto e che soffre, ed è piena di accorata tristezza. I giardini, le piazze, le strade, le case, le ville, sono ancora lì, come un tempo, ma il luogo è spopolato, deserto, gli usci spalancati, le finestre a pian terreno vi lasciano guardare negli interni, oltre le cancellate vedete aiole verdeggiare e fiorire. Tutto non è morto, non tutto è abbattuto, ma appunto per questo il contrasto è duro per il ridente abitato di un tempo e la sconquassata solitudine attuale. Vedete le facciate scrostate dalla fucileria, come picchiettate da tanti schizzi; le pallottole cadono con un tonfo tra il folto dei bossi, o passano sibilando fra i rami, picchiano nei tronchi, rimbalzano sui marciapiedi. A notte il tiro rincalza: si cammina con sospetto sotto i viali, rasente i muri; non si è mai sicuri di arrivare di qui a lì. Ogni tanto un ferito, un morto. Ogni tanto una granata va a cadere su una casa, sfonda un tetto, sbreccia una finestra, squarcia un muro, storce un tratto di cancellata, butta in aria tavolini e credenze di un caffè, fra un rovinìo di legname, di vetri, di bicchieri. Un silenzio profondo tien dietro a quegli scoppi di collera cieca. Se ne possono essere viste di rovine, ma ogni volta stringono il cuore. La insistenza nella distruzione ogni volta vi colpisce e vi fa male. C’è sempre qualche abitazione intatta, o che non mostra i segni della rovina: soffrite per il suo strazio, che il nemico persegue metodicamente ogni giorno e ogni notte. Come le città resistono a questo martirio! Come stentano a morire, a finire tutte in polvere e frantumi; come continuano, dopo mesi e mesi di bombardamento a opporsi alla propria fine, come si erigono al cielo anche con le rovine, ora con la vetta di un campanile, ora con la punta di un comignolo di fabbrica, ora con le pareti scheletriche di una casa. Le città hanno una vita tenace, come le foreste, come tutte le cose cresciute a poco a poco, con somme di lavoro e di fatiche, col tempo, l’industria e la pazienza: la furia della guerra le martirizza per mesi e mesi, le fa agonizare, ma si direbbe non riesca mai a ucciderle, ad abbatterle, a sprofondarle in una sepoltura quieta. Quando libereremo Gradisca? Solo quando la testa di ponte di Gorizia sarà caduta. Caduto il Podgora, il Sabotino, il San Michele; e caduta tutta la prima linea nemica da San Michele al mare, liberato l’Isonzo da una parte e dall’altra. Oggi si sta con l’unghie e coi denti ancora aggrappati al primo ciglione del Carso: ed è guerra ingrata, terribile. Siamo al di là dell’Isonzo come naufraghi usciti dall’acqua sbattuti contro lo scoglio, attaccati alla pietra. Sui camminamenti, sulle baracche, sui cimiteri piove il ferro e la morte, incombe la molestia quotidiana, continua. Ogni metro di terra fu intriso del sangue dei nostri. Ora si ode il crepitare della fucileria, e la voce roca delle mitragliatrici: segni d’attacco. Si lotta e si muore: per una trincea, per un elemento di trincea. Quando si sfonderà tutta la linea, quando si caccerà il nemico; a quando il balzo in avanti e la vittoria? . . . . . . . ALLE TRINCEE DI SELZ Aprile 1916. _Alla memoria di Gigi De Prosperi._ Fummo alle cave di Selz un pomeriggio dello scorso marzo. Visitammo le posizioni e facemmo la conoscenza di un generale che ebbe dal Re la medaglia d’oro. Una giornata di sole. Cominciava la primavera. C’era ancora molta acqua nei fossi e un po’ di polvere sulle strade: un cielo pazzerello, a enormi spazi turchini, dove giocherellavano bioccoli leggeri di nuvole. Oltre il ponte di Pieris udimmo qualche cannonata, rada, come dispersa: le batterie parevano annoiate e stanche quel giorno. Quiete sul fronte, quasi indolenza da una parte e dall’altra. Era uno di quei pomeriggi di primavera che insonnoliscono gli uomini e la terra, quando le palpebre scendono sulle pupille al riflesso delle strade bianche, e gli occhi delle gemme buttano le prime fogliette, coprono i rami neri di vivide ciglia. Mazzi di fiori di pesco spiccavano su macchie verdi di prati punteggiati da ranuncoli d’oro. Non pareva e non era una giornata di guerra; spaziava nel dramma una parentesi d’idillio, s’era fatta una sosta di pace. Una calma enorme, una tranquillità profonda, appena turbata da qualche sparo, era sulla terra e nell’aria. Andavamo verso il Carso. La vettura levava nella corsa un traino di polvere. Vedevamo le creste occupate dal nemico, le sue vedette ci vedevano. Eravamo di fronte a quel primo ciglio del Carso che gira verso il mare, e che è il più basso. Da Gorizia a Monfalcone si inarca a ferro di cavallo questo gradino gibboso, che al S. Michele raggiunge i 275 metri e alle cave di Selz scende sotto i cento. È come il cerchio di una balconata, alla quale siamo aggrappati: il monte Sei Busi ne è quasi il centro. E da Sei Busi vediamo Doberdò, al di là delle linee nemiche, come dal S. Michele gli altri vedono Cormons e Gradisca, al di qua dell’Isonzo. Fra Sei Busi e la rocca di Monfalcone, sotto l’ondata della roccia sono le cave di Selz, dove andavamo. Come la strada corre alle radici di queste rosse gobbe carsiche, poche centinaia di metri lontana dai muriccioli nostri e nemici, vedevamo tutte le difese, il labirinto delle trincee nostre e nemiche. Immaginate sulla sponda di un fiume un sistema di canalotti e di ripari fatti con la mota e coi sassi da un branco di fanciulli che giocano. Se ne fanno tanti d’estate sulla spiaggia del mare. Durano un mattino, viene un po’ di maretta e spazza tutto. Questa guerra formidabile, che occupa milioni di uomini, fa di questi giochi, disegna di queste tracce labili, che pare debbano durare un giorno, sul terreno tutto intorno devastato. Vedute di lontano le linee, che si guatano, si fronteggiano, si rincorrono, si cercano, paiono minuscole cose, effetti di un capriccio, stranezze di una mente inferma. Sembrano proprio linee tracciate da bambini o da folli. Ma vedute da presso hanno un’aria brutta, sudicia e feroce, la perversità tortuosa dei reticolati, le punte offensive delle armi e le lame taglienti, e son fatte per offendere, per sorprendere, per sovrastare, per incunearsi nel cuore delle linee nemiche, per tagliarne fuori i lembi sporgenti, per ributtarle indietro, per rovesciarle tutte. Seguono il terreno nelle sue scabrosità, nella sua crosta sassosa, si acquattano negli avvallamenti, risalgono i costoni, si nascondono e rispuntano, hanno nella loro immobilità una vicenda strana di intenzioni, di mosse. Ogni tratto di muricciolo è una vita di uomo; dietro ogni pietra è un fucile, fra sacchetto e sacchetto s’appiatta un elmetto e una testa. La difesa di terra, di sacchi, di pietra è mobile, viva, animata, tortuosa come un serpente. Gli uomini stanno fermi, le trincee non si movono, un manipolo irrompe, la trincea si apre, i sacchetti si spostano avanti: avviene il balzo da una posizione all’altra, s’accende la mischia, le trincee si congiungono anch’esse, si abbrancano, si addentano, s’avviluppano, e così in lunghi mesi il disegno si corregge, le linee s’intricano e districano, i salienti s’allungano o si smussano, gli archi si ampliano: sono gli episodi della lotta, le vicende della guerra, segnate metro per metro con gocce di sangue. Questo il romanzo e il poema, il dramma inverosimile della guerra di posizione, che ha lunghi, enormi intermezzi, e atti rapidi, fulminei, nei quali centinaia di personaggi cadono e scompaiono attorno al protagonista, che è un pezzo di muro, un lembo di reticolato, un osservatorio blindato. È una guerra d’assedio, una lotta d’approcci: rotolando le proprie difese le due schiere opposte s’incontrano, cozzano come gli avari e i prodighi nell’inferno dantesco. * * * Trovammo il generale nei suoi ricoveri. Che ha il generale nell’occhio? Che ha nello sguardo quell’uomo? Un sorriso dolce è sul volto giovane, ma lo inquadrano due rughe, intorno alla bocca, profonde. La carne è segnata come una maschera, uno spirito mite la illumina. La volontà è maschia, assidua, tenace: l’animo ha un che di vago e pio, a tratti intimamente mesto. È di quegli uomini raccolti, che ascoltano parlare più che non parlino. I suoi silenzi hanno non so che di musicale al paro delle parole. Tutta la figura piccola, armoniosa, gentile, è come i tratti del suo volto, come i gesti parchi della mano, accomodata alla misura dell’anima, che è senza orgogli e depressioni, calma, limpida, vereconda. Il nastrino della medaglia d’oro brilla al suo petto, quasi non come il premio di una giornata eroica, ma come segno e riconoscimento di un che di puro e di aureo che è nella sua natura e umanità perfetta. Figlio schietto dell’Abruzzo, rampollo di una razza antica e giovane sempre, robusta e vergine ancora, il generale che parla poco offre nello sguardo e nella voce una effusa mitezza, una perpetua poesia di fanciullo. Il braccio destro sente ancora le ferite di novembre; camminando, il generale s’appoggia sul bastoncino, come un pastore della sua terra lontana; non porta armi. Nei giorni d’azione, dove è più vicino il pericolo, è la sua persona; sulle trincee, fuori delle trincee dove passa l’assalto è il suo occhio che guarda, la punta del bastoncino che accenna. Quante altre cose avrebbe potuto fare questo uomo se non fosse soldato! Forse l’agricoltore nelle terre di Popoli, sua patria; forse il pastore pei monti, se fosse nato povero; forse il maestro di fanciulli in una piccola scuola. Altre circostanze avrebbero potuto volgere l’animo suo ad altre cure. Tra i fanciulli non sarebbe stato diverso da quello che è fra i soldati. Avrebbe voluto bene, si sarebbe fatto amare dai piccoli, come si fa dai grandi, da questi nostri soldati fanciulloni di vent’anni. Egli è lì, in uno dei settori più aspri del fronte, pacato, sorridente, buono, come sarebbe fra i banchi. Loderebbe i suoi piccoli come loda i grandi, si compiacerebbe dei loro progressi nel leggere e nello scrivere, come si compiace con un sorriso, con una carezza, con un groppo alla gola delle bravure, degli eroismi e sacrifizi delle truppe dei suoi reggimenti. I soldati sono i suoi ragazzi. La loro scuola comune è quella del quotidiano dovere: non della violenza o dell’aggressione o dell’odio, ma del lavoro e della serenità nella fatica e nel sacrifizio. Tutti i rischi delle truppe sono anche i suoi. Egli visita i soldati in trincea ogni giorno, una o due volte, parla con loro, assaggia il loro rancio, si occupa e si preoccupa dei particolari minuti della loro vita. Li ascolta e li consiglia, li guarda e li segue, li conosce e li pensa; all’ora dell’attacco non li sospinge, non li manda; va verso le loro baracche, passa in mezzo alle loro file, butta giù i sacchetti, esce dalle trincee, li precede, e quelli si scagliano di qua e di là dove egli accenna. Gli sono passati avanti molti che non hanno fatto ritorno, molti gli sono caduti morti o feriti accanto; fu ferito anche lui come gli altri, portò la sua ferita in silenzio, finchè gli mancarono le forze, non l’animo. Allora disse: “Ragazzi, vado a prendere rinforzi, voi continuate”. I rinforzi non c’erano, ma si vinse ugualmente. Il generale fu portato via in barella, curato in un ospedale, dove il Re andò a trovarlo, gli mise la medaglia sul petto e gli disse: “Generale, sono sicuro che Ella guarirà”. E il generale è tornato. * * * Fu condiscepolo di Gabriele D’Annunzio nel collegio Cicognini, a Prato. E ci parlò quel giorno del “suo conterraneo glorioso”. “Eravamo compagni di scuola, me lo ricordo benissimo. Era un bel ragazzo, un po’ effeminato. Non studiava molto, era tuttavia il primo in greco e latino. Scriveva allora le prime poesie. Noi veramente credevamo che le copiasse. Lo avevamo in gran concetto, ma non avremmo potuto presagire la gloria che ebbe. Di matematica mi pare non intendesse nulla. E, se ricordo bene, quella lampada votiva che egli celebrò in una delle sue prose, era una fiammella sulla quale mettevamo a cocere la farina di castagne. “Aveva grande fantasia e si appartava da noi sovente, faceva vita piuttosto ritirata, leggeva molto. Da allora non ci siamo più veduti. Egli è salito e mi ha dimenticato. Oggi ho letto che gli hanno dato la medaglia d’argento. Gli voglio scrivere, per congratularmi”. Anch’egli era salito molto alto, il generale. Ma a sentire lui non pareva. Non si sale mai abbastanza per la via del dovere. Non ci sono cime oltre le quali non si possa andare. È una via di tutti i giorni, di tutte le ore, di tutti i minuti. Da quando la guerra è cominciata, la via non fa che allungarsi. Quando la guerra sarà finita, sarà ancora quella, e sempre aperta, per gli uomini di buona volontà, fino al giorno del riposo, che non è in questa vita. E si capiva che il generale non pensava mai, non aveva mai pensato a se stesso, nè alla sua gloria, nè alla sua salvezza. Nel suo sorriso era come la punta di una malinconia pensosa d’altrui, quasi il ricordo mesto di quelli che gli erano morti accanto, che avevano chiuso le pupille per dargli la vittoria. Egli li ricorda tutti, i suoi caduti; li porta nel cuore. E con poche parole ci fece l’elogio dei propri soldati. Ci disse che abbiamo dei grandi soldati: perchè abbiamo dei veri uomini, dei quali si fa quello che si vuole, che si portano dove si vuole. “Forse — egli ci disse — il nemico non ci è inferiore nella resistenza fisica: ma noi abbiamo riserve e risorse morali mirabili. Con queste vinceremo la guerra”. Queste cose ci diceva un uomo nel quale sentivamo di poter credere. Poichè egli ci appariva pieno di fede e insieme di ragione e di buon senso, e la sua vita era di nobili fatti. Uno di quegli uomini di razza, che hanno l’antichità dei padri nelle vene, l’esperienza e l’istinto di molte generazioni sane. L’Abruzzo non ha politici, ma tradizioni di poesia, di arte, di cultura e di agricoltura, antichissime che si perdono nei tempi; e di guerra. Quell’uomo era antico come la sua terra. Come fummo all’aperto lo vedemmo guardare le piante d’un giardinetto che fiorivano attorno alla sua casa. Le piante del giardino, là dentro, e poi come fummo sulla strada, le piante degli orti e i mandorli fioriti, le siepi, i campi. — “Peccato che queste belle campagne siano tutte in abbandono”. Avevamo le trincee nemiche a poche centinaia di metri, camminavamo lungo la strada scoperta. E gli occhi del generale spaziavano sui campi dove la primavera spargeva i suoi ciuffi di verde e i suoi grumi di fiori. * * * Per salire alle posizioni infilammo un camminamento. Chi mai loderà abbastanza i camminamenti nella guerra di trincea? Essi sono quel che i grandi viali alberati, ombreggiati in una città avvampata, percossa dal sole di un mezzogiorno di agosto. Ci si respira qualche boccata d’aria fresca. Camminamenti sono i sentieri che menano alle trincee. Nei più dei casi ai loro fianchi sono due muriccioli di sacchetti, levati ad altezza d’uomo. È già una buona protezione contro i tiri di fianco. Ma certi camminamenti possono essere presi d’infilata, che è il tiro più pericoloso; allora nei tratti bersagliati si posano tronchi d’albero o travature spazieggiate, per sbarrare il tiro della fucileria e delle mitragliatrici. I camminamenti più sicuri sono tuttavia quelli scavati a fossato, con rivestitura completa e potente, o addirittura a cunicolo, addentrati nella terra o nella pietra. Si è relativamente al riparo anche dalle grosse artiglierie. L’utilità di questi lavori è palmare. È proprio sulle zone immediatamente retrostanti alle trincee, che batte quotidianamente quella parte della artiglieria nemica che non ha il compito di cercare i pezzi dell’artiglieria avversaria. Su queste zone le truppe vanno e vengono per i cambi: passano a ogni ora del giorno le _corvées_, col rancio, le munizioni, i carichi di materiale. Le trincee, nei giorni di calma, godono d’una certa immunità. La stessa vicinanza in cui sono verso le trincee nemiche le protegge. L’avversario non tira sulle trincee nemiche per non colpire le proprie, che distano in alcuni punti dieci, quindici, venti metri. Per lo meno non tira con le artiglierie. Fra trincea e trincea la lotta si fa a colpi di fucile, a scariche di mitragliatrice, a lancio di bombe. Gli _shrapnel_ e le granate cadono sulle zone retrostanti, sulle strade, sui sentieri, sui villaggi, dove si dubita siano truppe accantonate, insomma sulle retrovie, dove l’occhio del nemico è in grado di individuare una quantità di bersagli, colonne in marcia, carri, uomini isolati. I camminamenti sono dunque opere di protezione e di difesa; indispensabili anche all’offensiva, per poter fare accorrere rincalzi, per poter sgombrare il terreno dei feriti. Base di una grande offensiva saranno sempre le solide e abbondanti opere di difesa. Tutto ciò è intuitivo, fa parte, più ancora che dell’arte o scienza militare, del buon senso. Di fatto, le mitragliatrici, i cannoncini, i lanciabombe, armi che si collocano nelle trincee stesse o nei tratti adiacenti, non possono esplicare la loro funzione se non sono esse stesse abilmente e solidamente coperte. Il loro fuoco essendo facile a individuare, provoca un tiro concentrato, sotto il quale non si potrebbe reggere se mancassero difese adeguate. Solo un esercito che abbia condotto a termine grandi opere difensive può ragionevolmente volgersi all’offensiva. Ecco anche perchè la guerra moderna richiede periodi così lunghi, mesi e mesi, di sosta apparente e di silenziosa preparazione, ecco perchè essa è fatta di lavoro e di fatica, ecco come i nemici che abbiamo di fronte, gente dura e metodica, che occupa in lavori gran parte del tempo, riesce ad opporsi al nostro slancio, sminuzza le nostre avanzate, delimita e frastaglia i nostri progressi. Ed ecco il punto in cui il soldato italiano ha dovuto subire necessità del tutto nuove, e assoggettarsi a una disciplina che pare aliena dalla sua natura. Il nostro soldato era, specie nei primi tempi, sprezzante del pericolo. Molti dei nostri giovani ufficiali credevano ancora alla guerra brillante, alla lotta aperta dell’uomo contro l’uomo; erano garibaldini. Contro il garibaldinismo il nemico usava poco gli uomini e molto usava le artiglierie e le mitragliatrici. Più noi ci scoprivamo, più egli si copriva; ai nostri balzi rispondeva con altrettanti appiattamenti e interramenti. Noi cercavamo la vittoria nella luce, nel sole, egli preparava la difesa e l’offesa nell’ombra, nei camminamenti, nelle caverne. Non si fiaccava, ma ci massaggiava duramente. Egli aveva su noi il vantaggio di un anno di guerra europea. Per noi tutto era novità, per lui tutto era esperienza. Si impara sempre qualche cosa dal peggiore dei nemici: noi abbiamo imparato molto dal nostro. * * * Scendemmo dunque nei camminamenti a fossato che dovevano condurci su alle trincee. Dopo le grandi piogge di marzo l’acqua stagnava ancora lungo certi tratti. Pareva di camminare nel letto di un ruscello. Diguazzammo prima con le scarpe, poi fino ai polpacci. Il pomeriggio era caldo, assolato, uno di quei pomeriggi di primavera che vi dànno il senso della piena estate; e l’avventura era piacevole. Dieci giorni prima avremmo detto altrimenti; le nostre calzature avrebbero dovuto impegnare un’altra lotta. Tuttavia in guerra ci si avvezza a tutto. L’uomo sarà sempre l’animale più adattabile dell’universo. Vive sulla terra e sotto terra, sull’acqua e sotto l’acqua, con qualunque tempo, a qualunque temperatura. L’altra mattina, sul Pal Grande un ufficiale degli alpini, in mutandine, faceva il bagno sulla neve, mentre sul capo gli sfioccavano gli _shrapnel_. La guerra non fu mai così piatta: tuttavia ha i suoi momenti e i suoi episodi fantastici. E nulla era più fantastico in quel marzo radioso, fiorito di mandorli, del nostro procedere al buio, curvi, nell’acqua, sotto le cannonate. Raggiungevamo pel camminamento soldati che procedevano carichi di sacchetti e di tavole: passavamo innanzi a gruppetti di sterratori; davamo il passo ad altri che scendevano dalle trincee. Erano andati su con gli asinelli ed ora tornavano. Le bestiole, piccole, grigie, nerastre, facevano la loro strada tranquillamente al di sopra del camminamento, o ai suoi lati, su un sentiero scoperto. Frustavano le mosche col mozzicone della coda; soffiavano sulla polvere nuova, che metteva loro nelle narici il gusto dolce della primavera, spiccavano coi denti cespi di erbetta. Il loro fatalismo era sublime, di quella sublimità esemplare, filosofica, che l’asino rivela in ogni sua faccenda e che lo rende spesso di tanto superiore all’uomo, il quale si è sempre vendicato delle sue virtù proverbiando i suoi difetti. L’asino non è impressionabile, come prova la lentezza dei suoi placidi orecchi. Non capisce perchè in una bella giornata si debba lasciare la strada buona per la cattiva. Passando loro accanto ci accorgemmo di essere guardati con indifferenza. Ho veduto molte volte gli asinelli in terreno battutissimo, bersagliati da una tempesta di medi calibri. Non movevano neppure la coda. A differenza del cavallo, l’asino non si interessa affatto alla guerra, non prende la più piccola parte alle battaglie, non ha slanci di generosità e di odio per nessuno; delle lotte più accanite, delle mischie più furibonde rimane sino all’ultimo spettatore impassibile, inerte. È grande perchè è semplice, è eroico perchè mite, serve perchè è buono, è buono perchè è sobrio. * * * Ai baraccamenti trovammo i soldati che si asciugavano al sole. Tutto asciugava al sole, quel giorno: la terra, gli uomini, le baracche, il piccolo cimitero che raccoglie i nostri morti. Forse anche quelli asciugavano; ci deve essere molto umido laggiù. Si mettono le croci sui tumuli, le tavolette coi nomi, le lodi brevi, i fiori, ma non si può fare di più. Si ricordano, si tengono vicini, si dice la messa su un piccolo altare improvvisato sulla piana di una macchina da cucire, portata via da una casa diruta, ma l’aria, la luce, il sole, la primavera non arrivano fino ai morti, sono il lusso dei vivi. Tuttavia, quando piove fa ancora più pena saperli laggiù. E come il tempo si rasserena si pensa che essi non lo vedranno, che hanno gli occhi chiusi, sono distesi, coperti, e questo pensiero è triste. Bene: dopo un poco non ci si pensa: la vita è piena di questi mutamenti: tutti si deve o prima o poi morire. E intanto ritorna la stagione buona, si può uscir fuori delle baracche senza avere sulla pelle i vestiti umidi incollati, senza avere l’acqua nelle scarpe e nelle ossa. È il piacere delle lucertole che si sdraiano al sole, la terra fuma, l’orizzonte s’apre, si vedono le strade bianche lontano, un occhio azzurro, aperto, che è quello del mare, distese di campi, coi canapugli gialli, strisce brune di siepi, braccia di alberi che si stirano al caldo, scossi dal torpore, le groppe del Carso, la schiena del Sei Busi, con le nostre linee e le nemiche accanto, il padule, i vigneti incolti, abbandonati, i canali irrigatori, la rocca di Monfalcone, i frammenti intatti di boscaglie, tutto il paese fertile e deserto, teatro della guerra e della solitudine, che va verso il mare da un lato, verso l’Isonzo dall’altro, disseminato di paesi altra volta popolosi e ridenti, ridotti a cumuli di macerie, a bersagli di batterie, a ricoveri perigliosi di sentinelle o di truppe. Sopra i baraccamenti, via via per la traccia bizzarra delle trincee, quali siano le posizioni nostre non si può dire, non si può fare intendere a chi non ha visto, a chi non c’è stato. Descrivere, non è la parola; non si riesce a descrivere. Abbiamo fatto tante fotografie di questi luoghi e di altri, ma le fotografie non rendono che particolari minuti della scena; la scena nella sua larghezza, nel suo tutto insieme, nel suo groviglio e confusione inestricabile di muri, di fossi, di ridotti, di scavi, di grotte è quella che conta. E con mezzi meccanici non si rende. Bisogna esserci stati, bisogna tornarci, bisogna averci vissuto. Allora l’occhio, la mente, l’animo s’accasano in questi luoghi, ognuno di essi diventa un mondo; in essi si vive da quattro, da cinque, da sei mesi; si conosce ogni sentiero e ogni pietra, ogni parapetto e ogni cuccia, ogni passaggio mortale e ogni riparo; questa è una tomba recente, quella è un avanzo di vecchia trincea espugnata il tale giorno, dal tale battaglione, che ebbe i tali morti, i tali feriti; quello è il punto dove il generale fu ferito in novembre, dove il maggiore Embabi morì. Adesso ci si passa, ci si cammina, ci si sofferma; allora era tutto terreno scoperto, qui era l’inferno, là era l’inferno, più oltre era l’inferno. I feriti imploravano, i morti imbarazzavano, i vivi urlavano, erano attacchi, contrattacchi, progressi, regressi, spiegamenti di truppe, irruzioni violente, assalti alla baionetta, colonne di prigionieri, barelle che passavano, l’inferno, l’inferno. Ma ci volevano ributtare dalle cave di Selz, come dal Sei Busi, come dal San Michele, e più oltre dal Sabotino, dal Podgora, dal Kuk; e non ci riuscirono, lasciarono morti su morti a centinaia, armi, feriti dappertutto, e andarono indietro. Gli strappammo di sotto i piedi la terra passo per passo, ci affacciammo qui sulla cresta delle cave, fino a vedere la loro conca mortifera, pestifera di morti, quella tragica conca di Doberdò che pare un vaso in cui le artiglierie nostre da mesi maciullano il nemico come con un pestello che non ha tregua. Verso il mare essi hanno il Cosich, il monte a cono, con ciuffi di alberi senza foglie, da cui tirano con le batterie e cercano di tagliarci ogni avanzata. * * * Eppure abbiamo fatto un passo avanti anche di questi giorni su questi crostoni del Carso. In una settimana abbiamo messo fuori combattimento più di mille nemici, abbiamo espugnato un lungo tratto di trincea. Cominciammo col dare l’assalto a circa centocinquanta metri di trinceramento nemico. Fermati nel primo sbalzo, ne demmo un secondo. Contrattaccati, mandammo avanti nuove truppe; assalite anche queste di notte, ci ributtammo avanti di pieno giorno. I centocinquanta metri divennero circa seicento; i prigionieri salirono a più di duecento. I morti non si sono contati. Si calcola che il nemico ne abbia lasciato almeno uno per ogni metro di difese perduto. Venivano avanti come demoni. Prima a masse dense, poi a colonne serrate, alfine a piccole squadre. Si può vedere anche adesso come cadevano, le file addosso alle file, i mucchi accanto ai mucchi. Le mitragliatrici li falciavano come si falcia il grano, l’erba. Cadevano a decine sulle gambe stroncate, coi petti e le teste che buttavano zampilli di sangue. I colpi dei nostri cannoni prendevano su gli uomini, li buttavano in aria, le braccia e le gambe divaricate, li rammulinavano a venti o trenta metri dal suolo insieme coi fucili, le pietre. Era uno spettacolo di orrore, di follia, di strage indescrivibile. Quella di Selz è stata una lezione. Ma poichè tutto è possibile, potrebbe anche darsi l’assurdo: che gli austriaci non l’avessero capita. SUI GHIACCI DELL’ADAMELLO Maggio 1916. _Alla memoria del Generale Carlo Giordana._ Siamo saliti sull’Adamello a trovare i nostri soldati. Abbiamo seguìto le loro strade fin dove si perdono in sentieri, abbiamo battuto i sentieri fin dove la neve li copre, siamo andati da capanna a capanna, di pesta in pesta, dall’uno all’altro paletto lasciato a indicazione del cammino nella desolata solitudine dei ghiacci, su fino alle grotte candide dove si annidano a guardia delle linee recenti gli ultimi nostri garibaldini delle Alpi. Che scrive il _Berliner Tageblatt_ delle nostre azioni recenti sull’Adamello? Che sono un miracolo della guerra moderna. Siamo saliti a 3200 metri. Abbiamo portato cannoni anche più in alto. Tutto il massiccio dell’Adamello, meno un tratto di poche centinaia di metri, è in nostro possesso. Siamo attendati su un ghiacciaio che ha più di sessanta chilometri quadrati d’estensione. Cercate in Francia, in Russia, in Asia un campo di battaglia più inverosimile. Cercatelo nella storia. Cercatelo nei racconti di Wells o di Verne. Non è mai stato immaginato. Neanche noi, all’inizio della guerra avevamo in mente che ci fosse qualche cosa da fare lassù. I tratti del fronte nei quali avremmo dovuto prendere l’offensiva erano scelti. Erano anche noti i punti dove ci saremmo organizzati alla difensiva. Il massiccio dell’Adamello non apparteneva nè a questi, nè a quelli. Rappresentava, per così dire, la non-guerra. “_Di qui non si passa_” era lassù il motto della natura. Negli orrori di quella solitudine neanche i camosci si spingono. D’inverno è uno spento mondo, in cui vivono solo le nevi, in cui le acque correnti si polverizzano o cristallizzano. Come viene l’estate, il ghiacciaio si scioglie alla superficie, rivoletti d’argento corrono per il piano vitreo, sgorgano dalle spaccature di cristallo, precipitano nei crepacci, decine di metri profondi, azzurri come le onde di un cupo mare, ricche di riflessi mutevoli, di scintillii, di bagliori. Allora il ghiaccio vive, palpita e guarda dai mille occhi mobili, fantastici, insidiosi: disteso con le sue vaste branche dall’una all’altra cresta del massiccio, come un immane essere prensile, una specie di mostruoso polipo, che avvolge di amplessi possenti i granitici fianchi delle montagne che si denudano al sole. La materia si agita in occulti misteriosi amori. Sono le nozze della materia, gli incontri folli delle molecole, il ballo degli atomi, la giovinezza del mondo, che rinasce da un sonno di morte, e ripartecipa al travaglio della vita perenne. Non era dunque l’Adamello un punto del fronte contro il quale dovessimo pur pensare di premere, o dal quale potessimo attenderci una pressione nemica. Esso non unisce, ma separa Val Camonica dal Trentino. Non era una porta che si dovesse aprire od abbattere. Anche dinanzi alla violenza delle armi, che sforza ogni resistenza, che rovescia ogni opposizione, che si accanisce contro ogni tenacia, il gruppo dell’Adamello rimaneva come qualche cosa di troppo elevato, di troppo superiore ed estraneo a tutte le lotte, i tentativi e le competizioni: ostile egualmente ai due avversari, che teneva fra loro lontani, recinto di orrore e di silenzio, con le molte vette all’intorno e coi passi dai nomi inesplicabili e maliosi: Tòpete e Fargorida, Veneròcolo e Brizio, Mandrone e Carè Alto, Pisgana, e Crozzon di Lares. Solo un appellativo squillava quasi come invito e incitamento ardimentoso, incalzante: quello di Punta Garibaldi. E fu nel nome eroico, che i nostri primi soldati diedero all’Adamello il battesimo della guerra. * * * Alle falde del massiccio, sul versante italiano, fu costruito anni or sono un rifugio. Scoppiata la guerra, i nostri soldati vi presero stanza e cominciarono a costrurre qualche baracca. Il contingente di uomini era piccolo, le masse affluivano altrove. Il confine correva a mezzo il massiccio, e noi sostammo al di qua. Affidammo al ghiacciaio la prima e migliore difesa. Contro quel baluardo ciclopico il nemico non aveva forze da lanciare. Nessuno dei suoi piani d’invasione contemplava la traversata di quel mare di ghiaccio, costituente una specie di angolo morto della gran guerra che divampava su tutto il resto del fronte. Eppure i nostri si mossero. Benchè il rifugio fosse un posto avanzatissimo, gli alpini ne fecero il centro di una intensa attività. Ogni mattina partivano di là pattuglie e compagnie in ricognizione. Stavano fuori buona parte della giornata, tornavano a sera; talvolta perlustravano le montagne circostanti di piena notte. Studiavano il terreno, si allenavano alle più aspre fatiche, alle più rischiose ascensioni. E come sul rifugio pendeva la cresta più occidentale del ghiacciaio, su per il petrame della gradinata che conduceva a quella, s’inerpicavano, in vista alla prima vitrea distesa, la vedretta del Mandrone. Passo Brizio segna quella imboccatura del ghiacciaio, ed è come un cancello aperto in una rastrelliera di vette, formata dall’allineamento dell’Adamello propriamente detto (3554), di Monte Veneròcolo (3325), di Monte Venezia e di Corno Bèdole: linea che digradando s’innesta alla difesa del Tonale. Di fronte a questa specie di cancello la vedretta del Mandrone si distende fino al secondo allineamento montano, costituito da Monte Fumo (3478), dal Dosson di Genova, o anche Crozzon di Genova (3441), dalla Cresta della Croce (3373), dalla Lobbia Alta (3196), dalla Lobbia di mezzo (3002), dalla Lobbia Bassa (2959): linea le cui depressioni formano i passi di Monte Fumo (3402) e della Lobbia Alta (3036). Oltre questa seconda cancellata, il ghiacciaio prende il nome di vedretta della Lobbia, con uno sviluppo di circa due chilometri e mezzo, mentre quella del Mandrone ne ha quattro all’incirca. E la vedretta Lobbia è chiusa a sua volta da una terza serie di alture, prolungamento del versante orientale dell’Alta Valle del Chiese. Nei riguardi dell’azione nostra, queste ultime alture, con andamento quasi parallelo alla precedente linea, culminano nel Corno di Cavento (3400), nel Crozzon di Lares (3354), e nel Crozzon di Fargorida (3082), e si deprimono ai rispettivi passi di Cavento (3195), di Lares (3256) e di Fargorida (2923). Oltre la quale catena numerosi valloni scoscesi conducono nella Valle di Genova, dove nel primo maggio della guerra erano i posti avanzati del nemico, molto al di là del confine. A guardia del rifugio ponemmo dunque in maggio alcuni piccoli posti sul Passo di Brizio: lievissime pattuglie, che erano come l’occhio del ghiacciaio. Nel mese seguente, approssimando l’estate, la prima linea fu occupata con posti d’avviso di carattere stabile. Fra i sassi e le nevi sorsero alcune tende. L’osservatorio era stupendo. Pareva un nido di aquile. Tutta la vedretta del Mandrone gli era sottoposta, un piano immenso di lago gelato, una calotta polare, che andava a urtare contro lo sbarramento della seconda linea montana, contro la piramide della Lobbia Alta, per piegare alla destra e ridistendersi in ampiezza fino alla terza ed ultima linea, precipite su Val di Genova. Punta Garibaldi si leva alla sinistra del passo Brizio, come il torrione d’una fortezza medievale a guardia del ponte. È una mole di blocchi rettangolari, di color bruno, sovrapposti l’uno all’altro in tante stratificazioni. Dalla parte della vedretta, esso scende a picco sul tavoliere dei ghiacci: ed è senza neve, tutto essicato, scavato, screpolato dal vento. L’aria lavora la pietra come l’acqua il fondo dei torrenti, la rode, la morde, la lima, la spacca. La parete orientale del picco ha le rughe profonde, le ferite, gli squarci di una vecchia faccia di gigante alpino. La furia degli elementi ha tagliato nella roccia le sue pagine levigate, sulle quali ha scritto la storia delle sue lotte, dei suoi assalti. La tormenta che infuria sovente sulla vedretta, viene a ingolfarsi in quella specie di forra e sbatte contro l’ostacolo dell’immane pilastro. Le nostre scolte avevano dovuto celare le tende entro i triangoli aperti fra i blocchi granitici, perchè non fossero strappate dall’uragano. Le avevano legate con corde, inchiodate alla roccia. Non un filo d’erba cresce lassù, non un seme sbattuto dal vento riesce a metter radice. * * * Settimane e settimane trascorsero lassù, dandosi cambi frequenti, attendendo un nemico che non si faceva vivo. I giorni di tormenta trascorrevano bui come le notti, sotto le tende senza paglia era un’oscurità completa. Allo scoperto, quando la tormenta saliva dalla vedretta, o irrompeva dalle gole, avvolgendo tutto in un pulviscolo grigio, in un nebbione pungente, che feriva a sangue la faccia e tagliava le mani, le scolte soffocavano. Le notti di tempesta erano atroci. Nessun lume reggeva, non si riusciva neanche sotto la tenda ad accendere un sigaro. Le mani, i piedi gelavano. Bisognava ravvolgersi nelle coperte umide o incrostate di ghiaccio. Erano ore indescrivibili di attesa, di pazienza, di resistenza, di passione. La consegna era più dura della roccia. Gli animi più duri della consegna. Soldati e ufficiali aggrappati alla pietra vivevano di quella profonda, semplice, tenace vita che l’uomo porta dentro di sè, sotto l’apparenza della vita consueta, fatta d’immaginazione, di convenzioni, di desiderî, di capricci. In ognuno di noi sono queste riserve elementari di energia, queste possibilità fisiche di resistenza, delle quali in tempi comuni ignoriamo la portata. Sono forse gli avanzi dell’antica vita selvaggia, ferina, che la fatica, la lotta per l’esistenza, la guerra, risollevano entro di noi. E tuttavia la resistenza lassù era tanto più dura, quanto meno poteva volgersi contro il nemico, quanto più era contro le cose. Non la guerra, ma la solitudine, la pietra, il freddo, la tormenta lottavano contro i nostri. Gli uomini si dovevano misurare con le cose enormi, impassibili, eterne, fatte per superarci nello spazio e nel tempo; che prima o poi ci vincono tutte, perchè noi passiamo e quelle rimangono, l’uomo soffre e quelle non sentono, l’uomo si consuma e quelle si rinnovano o si succedono sempre. Le nostre scolte rimasero. Si doveva rimanere lassù fermi, soli, perchè l’ordine era questo. Non di avanzare, ma di attendere. Si doveva obbedire. Un giorno molto lontano, quando lo avevano fermato, quando più che fermato, gli avevano imposto di tornare, il Generale non aveva scritto su un foglio di carta, sul modulo di un telegramma questa parola: Obbedisco? Le oscure scolte dell’Adamello riconsacravano il luminoso esempio. * * * Un giorno, verso la metà di luglio, uno degli alpini di scolta a Passo Brizio credette vedere una pattuglia sbucare dal fondo della vedretta di Mandrone. Era un mattino chiaro, il lastrone lucido del ghiacciaio mandava lampi abbaglianti, che ingannavano l’occhio. Ma non c’era dubbio: il nemico avanzava in ricognizione. La pattuglia, in fila indiana, era di una quarantina di uomini. I nostri erano quattro. Nessuno descriverà la gioia, l’esultanza, l’allegrezza irrattenuta, sfrenata che si impadronì dei nostri a quella vista improvvisa. Erano soldati soli, senza ufficiali; comandavano se stessi. Scorgevano il nemico per la prima volta, lo vedevano avanzare su per la crosta liscia, venir sotto tiro passo per passo, senza sospetto. Poteva essere l’avanguardia di un nucleo più numeroso: non sarebbe stato inopportuno mandare qualcuno al rifugio per avvertire il Comando. Nessuno volle andare, nessuno volle muoversi dal posto. Di balzo i quattro si sparpagliarono su per il crostone di Punta Garibaldi, ognuno si acquattò dietro un ronciglio, col fucile fra le ginocchia, i pacchi delle cartucce a portata di mano, per terra. Erano tutti tiratori scelti, sicuri del fatto loro. Quando ebbero misurata a occhio la distanza aprirono un fuoco calmo, avvicendato. Tirava l’uno e taceva, poi tirava l’altro da un altro punto, poi il terzo, poi il quarto. Non c’era fretta, e non bisognava neanche spaventare il nemico, facendogli credere che molti fossero alla difesa del passo: nel qual caso la colonna avrebbe forse ripiegato rapidamente. Si doveva capire che si trattava solo di quattro fucili contro quaranta. Gli assalitori dovevano essere attirati dalla scarsità numerica dei difensori, nella speranza di sopraffarli e di giungere al passo dall’alto del quale avrebbero potuto esplorare la nostra zona circostante al rifugio. Ecco, le prime pallottole fischiarono sul passo, andarono a schiacciarsi con un tonfo chioccio contro le rocce. Cercavano i nostri. Dalle buche del torrione questi aggiustavano il tiro in tutta calma, dandosi la voce, cominciando a contare quelli che si vedevano cadere. Furono quattro, poi altri quattro, poi altri quattro ancora che si afflosciarono sul ghiaccio, e non si mossero più. Allora i superstiti cominciarono a indietreggiare. A un tratto uno si mise a fuggire, un altro lo seguì, gli altri tennero dietro. Alcuni erano feriti, camminavano zoppicando, senza più volgersi, senza più sparare. E i nostri cominciarono a bersagliarli di grida e di urla. Pur scaricando i fucili, li chiamavano indietro, li sfidavano a salire, a venire a prendersi il passo. Quelli, a uno a uno scomparvero donde erano saliti. I compagni caduti rimasero sul ghiaccio; strane apparizioni di morte in un quadro di fulgori abbaglianti, divini, che nessun episodio di strage aveva mai turbato. Solo allora le quattro scolte, scendendo per le scalinate della roccia, si accorsero di perdere sangue. Erano state tutte e quattro ferite. * * * Questo accadeva il 15 luglio del primo anno di guerra. Da allora sull’immenso ghiacciaio non apparve più l’ombra di un soldato nemico. S’entrava nella grande estate e il massiccio dell’Adamello mutava forme e colori. Le pareti dei picchi si spogliavano delle nevi; ai soffi del vento caldo scrollavano a lembo a lembo la candida pelliccia. Nelle anfrattuosità delle selle, nelle fenditure riposte restavano lucide striature e sparsi candori. Il nero e il bianco s’avvicendavano, la roccia erompeva dallo scintillio monotono dell’inverno. E le vedrette, sul cui piano s’erano sciolte le nevi, si tingevano di azzurro, balenavano alla luce. Apparivano qua e là, in forma di risucchi in una gran distesa d’acqua, i nudi vitrei gorghi dei crepacci. La stagione e il terreno invitavano alle escursioni alpine, e le ricognizioni che si fecero ebbero questo carattere di _sport_ arrischiato. Il còmpito era di esplorare i luoghi e riconoscerli punto per punto. La guerra era ancora all’inizio, l’inverno relativamente vicino, e nessuno pensava a una occupazione del ghiacciaio. Pareva che lo stesso nemico ne rifuggisse, poichè non si faceva vedere, ci abbandonava tutto il deserto. In perfetta quiete trascorse tutta l’estate e l’autunno. Alla fine dell’anno le condizioni della montagna erano tali che l’occupazione nostra del Passo Brizio, difficile e piena di sacrifizio, rappresentava un còmpito per se stesso mirabile. * * * Ma un altro, anche più grave e complesso, ci attendeva al basso. S’era venuti nel proposito di aumentare il presidio che teneva il rifugio. Nuove reclute arrivarono, giunsero alpini delle classi richiamate, si deliberò di costituire un nucleo di sciatori. Ne fu affidata l’istruzione a un giovane capitano, e tutto l’inverno le nuove truppe lo passarono in esercitazioni. Squadre volanti partivano dal rifugio, si sparpagliavano sulle nevi, risalivano i costoni intorno, a destra e a manca del passo che rappresentava l’estrema occupazione nostra; si allenavano. Erano un pugno di uomini, ma la guerra di montagna non si fa con le grandi masse. Molte più braccia occorrevano pei servizi di rifornimento. Si richiedevano lavori e fatiche immense, date le distanze dal piano, le strade solo fino a un certo punto praticabili, poi i sentieri che la neve aveva ricoperti, le ardue pendenze, le valanghe. Si dovettero costituire colonne di portatori, vere cordate umane per le quali salivano i viveri, le provvigioni, gli indumenti, le coperte, le lane, le munizioni, le armi, i materiali per le baracche. Rifornimenti enormi erano accumulati al piano. L’amministrazione militare mandava roba, giungevano ogni settimana offerte di privati, centinaia di pacchi, di sacchi, di scatole, di casse: ogni tanto perveniva una serie di nuovi oggetti, tipi di scarpe più solide, _stoks_ di occhiali, di passamontagne, di sacchi a pelo. Si preparava la ripresa d’estate. Soldati cadevano malati, bisognava trasportarli agli ospedali; c’erano casi di congelamento; bisognava organizzare i soccorsi e i trasporti solleciti. Anche i poveri morti bisognava caricare sulle barelle, portarli in ispalla a seppellire giù nella valle, dov’è il cimitero, la terra. Lassù non era che neve e ghiaccio. Truppe territoriali, uomini sopra i trent’anni che non avevano còmpiti di prima linea, vennero a dare la mano agli alpini. Con le lunghe catene ricongiunsero giorno per giorno i posti avanzati alla sottostante vita dei villaggi e dei paesi. Centinaia di uomini andavano e venivano nel più crudo inverno, sulla neve, fra la neve, nella tormenta, pei valichi stretti e rischiosi, su per le falde impervie come muraglie, strapiombanti l’una sull’altra. Erano giornate intere di marcia; notti trascorse alla meglio, dopo le fatiche del giorno, ritorni lenti e guardinghi giù pei pendii diroccati verso le sedi più comode, che anche a valle s’andavano costruendo per opera d’altri innumerevoli lavoratori. * * * Non appena fu possibile si provvide a una teleferica. Si trasportarono le macchine, migliaia di metri di corda di ferro, l’altro necessario. Alpini e territoriali si aiutarono a vicenda. Tonnellate d’acciaio furono così trasportate passo per passo, si portarono su gli appoggi e le travature: la macchina ancora smontata, pezzo per pezzo, chilogramma per chilogramma, fu fatta salire: in pochi giorni la prima teleferica funzionò. Abbreviava di circa tre ore il cammino. Si provvide alla costruzione della seconda. I Comandi non perdevano un giorno, l’Amministrazione mandava quel che si chiedeva, tutte le autorità agivano con energia anche sugli ingegneri borghesi. Si fissò il numero dei giorni nei quali la seconda linea doveva essere pronta. Il trasporto dei materiali fu facilitato dal funzionamento della prima e in pochissimo tempo la seconda teleferica funzionò. Senza indugio si iniziarono i lavori per una terza, la più lunga di tutte. Un altro motore salì, salirono le corde e i carrelli, furono costruiti altri due capannoni, e la terza linea era pronta quando già si cominciava a provvedere per la quarta. La guerra usciva anche lassù dal puro sforzo muscolare, dalla rudimentale fatica umana, per assumere il suo aspetto di organizzazione e di lotta meccanica. Era la guerra ordinata e precisa, macchinosa, agglomeratrice di trovati, di produzioni, di capitali, quale si svolge per tutta l’Europa. Noi la facevamo in alta montagna, la spingevamo audacemente verso le creste che si perdono nel tumulto caliginoso delle nubi. * * * Ci rivediamo ancora in cammino, per un sentiero che s’inerpica da prima in mezzo a boscaglie, contro il corso di un torrente. Poco fa erano prati verdi intorno a noi: la primavera sta salendo dal fondo della valle. Poi l’erba muore, la vegetazione dirada; i muletti scalpitano sul suolo fangoso, nevoso. A un tratto l’ondata d’una valanga ci ferma il cammino. Si abbandonano le cavalcature, si prosegue a piedi, lenti lenti, per raggiungere la prima teleferica. Il carrello sale ondeggiando, quasi mordendo con la ruota il filo. Sotto di noi si spalanca un abisso vertiginoso, s’apre l’occhio candido di un lago incrostato dal gelo. Tutto rimpicciolisce, si perde lontano. La rotella della teleferica stride, manda un respiro sforzato, affannato. Pare che si debba arrestare ogni poco, e qualche volta accade che ci si fermi a mezza via per una lieve stanchezza del motore. Il sottostante vuoto assume allora proporzioni più paurose e vaste, si soffre un attimo la tentazione di saltare fuori. Quando il vento soffia impetuoso, le corde di ferro stridono e sibilano, il carrello ondeggia follemente nel vuoto, come un sughero nella tempesta. Eppure lungo la guida aerea salgono senza interruzione viveri e rifornimenti d’ogni sorta, quintali di legno e di ferro, di arnesi, di sci, di maglie, pellicce, pale, zappe, piccozze. E discendono i feriti e i malati rapidamente, che prima bisognava portare in ispalla per decine di ore di cammino. Le _corvées_ continuano a salire per i sentieri, a svolgersi lente e faticose. Ne vediamo una dall’alto: una fila nera di formiche nel bianco, carica ognuna del suo fuscello e del suo granello. È una vista che induce nell’animo una commozione senza parole. Ci si sente diventare più modesti quassù, più pensosi e più buoni. Un sentimento di devozione, di rispetto, di riconoscenza devota cresce nell’animo verso i nostri fratelli. Non è il tramonto grigio e malinconico che induce questi pensieri, ma la scena che abbiamo d’intorno. La seconda teleferica ci attende. Il carrello è partito poc’anzi, carico di viveri. Si allontana verso le nubi, scompare. Piano, piano, un rettangolo nero spunta giù dalla nebbia, si avvicina quasi col moto strano d’un grosso ragno appeso ad un filo. Reca un carico strano, allungato. Quando il carrello si ferma compaiono le aste gialle di una barella, sulla quale un corpo umano è avviluppato. La barella affidata a due sci è deposta sulla neve. Gli scarponi ferrati, d’un colore bruno, di cuoio tutto bagnato, sporgono fuori delle coperte. La faccia è velata: nessuno la scopre. Le mani chiuse nei guanti sono composte sul petto in un segno di croce. Due giri di corda passano attorno al cadavere, lo fermano alla barella. Un biglietto sotto la corda reca nome, cognome, qualità del caduto. È un alpino di Edolo andato volontario. Ha compiuto dieci mesi di guerra, ha offerto alla patria tutta la sua anima, tutta la sua fatica mortale; ora riposa, raccolto in poco spazio come quando si sta per lasciare il mondo e cercare la quiete dentro la terra. Quattro soldati, senza parlare, prendono in mano le funicelle; a passi lenti, sulla neve, trascinano la slitta, scendono verso la stazione dell’altra teleferica. Lo stesso carrello ci prende e ci solleva. Noi seguiamo dall’alto in silenzio il convoglio dell’oscuro eroe che scende verso la valle. * * * Il primo nucleo di sciatori fu pronto verso la metà di marzo — che a quelle altezze è fitto inverno. Era, sul terreno quanto mai duro a praticare, una truppa leggerissima, uno stormo di gente volante: i cavalleggeri della montagna. (Avevano ai piedi le alette gialle o nere dei volatori del Nord: i legnetti sottili e lunghi, dal becco ricurvo, di tempra fine come il più nobile acciaio. A mezzo la stretta assicella s’imposta lo scarpone chiodato, massiccio come uno zoccolo: le stringhe allacciano il collo del piede, il peso della persona va leggero sulla neve). Erano alpini scelti, bergamaschi e bresciani. Fu dunque ordinata per il venti di marzo una ricognizione in forze su tutta la zona del ghiacciaio: la traversata di quella ampia terrazza polare che la neve copriva ancora: dalla prima cancellata di monti, cioè dal Passo Brizio, alla seconda, cioè al Passo della Lobbia Alta, e di là alla terza, dove s’apre il Passo di Fargorida, che mena alla nemica Valle di Genova. La sera avanti, al Rifugio, si apprestarono alla partenza. Tempo meraviglioso, cielo puro, freschezza luminosa di stelle, aria calmissima. Attorno alle baracche, centocinquanta uomini, chiusi negli scafandri di tela bianca, i cappucci sul capo, le mani inguantate, i volti cotti dal freddo, s’aggiravano come fantasmi. Era lo stormo che voleva alzarsi. La partenza fu data dopo la mezzanotte. Si salì a Passo Brizio, sulla neve gelata, che sotto i pattini crocchiava. E raggiunto il Passo, calarono giù pel ghiacciaio, sul pendio dolce, quasi in una sospensione di volo. Lievi pattuglie di sicurezza precedevano, ed esploravano il campo, che appariva deserto. Si sapeva che nella prima vedretta non si sarebbe incontrato il nemico. Si dubitava che fosse annidato al termine della seconda. E come si giunse alla Lobbia Alta, primo obbiettivo della ricognizione, fu dato l’_alt_: le forze si divisero in tre colonne, che puntarono a ventaglio sul Passo di Lares e Cavento, sul Crozzon di Lares, sul Passo di Fargorida. S’era fatto giorno, il luogo appariva in tutta la sua miracolosa bellezza, ampio, solenne, come un paese nuovo, vergine d’ogni traccia; scenario luminoso, fantastico, teatro aperto alle voci sonore del vento, alle orchestre immani delle bufere: che ora un gruppo di uomini occupava, infinitamente piccolo nella solitudine e nel silenzio. La guerra si presentava lassù diversa da tutte le altre parti. Gli uomini lottano per la terra, si battono per questa crosta lavorata e scavata, per i suoi campi recinti di siepi, arati e seminati, popolati d’alberi e di erbe, carichi della secolare fatica umana, gravi dei segni della nostra passione. Lassù, nulla. Il luogo non è di nessuno, l’uomo ci passa ma non ci si radica; tutto è dimenticanza e sterminio. Non una traccia, un segno che duri: soli i nomi delle vette, delle vedrette, dei passi, dànno l’illusione che anche quel lembo di mondo sia nostro, che l’uomo lo popoli. L’uomo ci passa con la sua anima, solo, e cerca un suo simile per suscitare la guerra dalla stessa fraternità comune. Giunti che fummo alla terza catena, senza intoppi, senza trovare nessuno, ci affacciammo alla sottostante valle, vedemmo in quel fondo i segni della vita: sentieri che si perdevano lontano, macchie nere di boschi d’abeti, un lembo di terra ancora nevosa, ma che recava le malghe disperse, le piccole solitarie abitazioni umane, attorno alle quali la primavera avrebbe presto scoperto i prati novelli, i pascoli fioriti. Era uno degli angoli della cara terra del Trentino, che pareva ci attendesse. Il mezzogiorno era alto, e frugava coi raggi nella valle, stretta alla testata, dominata dalla vetta impervia della Presanella, come da una scolta; una valle tacita e povera, dove cercando con l’occhio non si scopriva un solo nemico. Il ritorno fu come l’andata, tranquillo. Il tempo si mantenne sereno. E tuttavia, volgendo l’occhio da cima a cima, si aveva l’impressione della difficoltà di una azione a quelle smisurate altezze, dove le sorprese del cattivo tempo s’annidano quasi in ogni punto, e balzano fuori d’un tratto, per assumere proporzioni e forme terribili. Le nubi stagnano pigre in qualche seno riposto, sono acquattate nei bacini profondi quasi dormissero, torpide. Si vedono i loro crini bianchi, le code tortuose che il vento solleva in furia. Si mischiano le nubi alle nebbie, le nevicate piovono improvvise, la tormenta flagella intere zone, ammucchia l’oscurità sul massiccio. La montagna si rattrappisce in un chiarore smorto, crepuscolare. Gli austriaci conoscevano il luogo, e non avevano osato violarlo, ma la nostra ricognizione li fece reagire. Qualche giorno dopo, la parte del ghiacciaio dove c’eravamo avventurati lanciò i primi segni di vita, offrì le prove d’una recente occupazione. Dal Passo di Tòpete, imminente su Val di Genova, fu visto salire nell’aria un filo di fumo. Movimenti minuscoli di pattuglie si svolgevano anche sulla seconda linea, specie a Lobbia Alta: si videro sulla neve numerose piste. Attraverso il deserto i due nemici cominciavano veramente a fronteggiarsi: si avvicinavano, si osservavano: s’iniziava un contatto che avrebbe ben presto suscitato un’azione. * * * Da parte loro essa era più facile. Più rapidi e brevi sono i rifornimenti per Val di Genova. La via più lunga, più aspra è la nostra. Ma questo è il proprio della guerra italiana: non ci spaventò altrove, non ci fermò sull’Adamello. Anzi, poichè il nemico usciva dai ricoveri, meglio farglisi incontro, azzuffarsi. La prima linea fu rafforzata, fu studiata ed eseguita l’impostazione di alcuni pezzi. Si accrebbero i depositi delle armi e dei viveri; munite le truppe d’ogni conforto, si equipaggiarono splendidamente, e fu decisa pel 12 aprile la prima vera azione: la conquista della linea di mezzo, che sarebbe stata battuta dai più alti cannoni d’Europa. Le truppe non erano mai state così belle. La presenza del nemico le infervorava: non si sentivano più sole: non si trattava più di avanzare nel deserto. La montagna era un campo di azione. L’11 aprile, a sera, dal rifugio muove una grossa colonna di sciatori, per portarsi al Passo di Brizio. Il tempo era coperto, ma poichè bisognava operare di sorpresa, nessuno desiderava il sereno. Al Passo di Brizio, quando i primi si affacciarono alla cresta rocciosa, nella notte buia, furono schiaffeggiati dal vento. Fu un trapasso brusco, una specie di assalto improvviso. Questa volta il ghiacciaio non ci voleva. Il suo saluto non poteva giungerci più ostile. Gli uomini stentarono a valicare quel punto. La bufera ci s’ingolfava, ributtava addietro come per furia di ondate. Pareva di scendere dal vertice di uno scoglio in un mare burrascoso. Il terreno diroccia a picco, frana, come una sponda a perpendicolo. La neve, i ghiacci, le pietre fanno impasto, e si sdrucciolava, bisognava aggrapparsi con le mani, calarsi adagio; a ogni passo si rischiava di rotolare. Si calò, e ci si raccolse più a basso, dove il piano del ghiaccio comincia a distendersi. Ma lo sguardo si perdeva in un rammulinamento furioso. Si dovettero subito abbassare gli occhiali per non avere gli occhi feriti dagli aghi della tormenta. I ghiaccioli schiaffeggiavano la pelle, come manate di pezzi di vetro lanciate con forza da tutte le parti. In queste difficoltà si formarono tre colonne, che da quel punto si mossero, divergendo, affidate all’istinto delle guide. Era passata la mezzanotte. Andarono per qualche tempo ognuno per avvicinarsi al punto convenuto. Non era possibile orizzontarsi se non palpando il terreno, seguendone i molli ondulamenti che dànno la fisionomia alla vedretta. Ma la tormenta operava con stordimento sui sensi. Gli uccelli si perdono nella tempesta, si persero anche i nostri. Le tre colonne, dopo avere piegato a destra, forse nella direzione più forte del vento, andate per un lungo tratto alla deriva, giravano su se stesse. All’alba, schiaritosi il tempo, i nostri si ritrovarono vicini. Fu dato l’ordine di comporre quattro colonne e di riacquistare il tempo trascorso. Tornava il sereno. La sorpresa veniva a mancare, ma si andò avanti ugualmente. Il nemico forse allora cominciava a vederci, ma non tirava ancora. Si profilavano le loro sentinelle sul Passo di Lobbia Alta; e noi avanzavamo bianchi nel bianco, gli zaini e i fucili chiusi nelle fodere di tela, perchè non facessero macchia, cogli scafandri ingannatori. Una prima colonna sale per Monte Fumo, un’altra pel Dosson di Genova, una terza tenta la Cresta della Croce; una quarta la Lobbia Alta. Questi reparti salendo dovevano biforcarsi, espandersi, per procedere verso la vetta all’aggiramento dei nuclei nemici. Questi come ci videro salire aprirono il fuoco. Erano acquattati alti fra le rocce, scaricavano giù fucilate e raffiche su raffiche di mitragliatrici. Fu allora che le nostre artiglierie cominciarono a batterli, aprendo la strada ai nostri che si inerpicavano cogli sci. Approfittavano dell’aria limpida a nostro vantaggio. Inerpicati com’erano a ventaglio su per i vari crostoni, i nostri s’andavano stringendo a tenaglia addosso al nemico. Andavano su così: una raffica di fucileria e uno sbalzo. Un’altra raffica e un altro sbalzo. La conquista delle quattro posizioni progrediva uniforme, pareva regolata sul cronometro. I pezzi spostavano i tiri da punta a punta, battendo la resistenza nemica più dura, facendo volare qualche mitragliatrice. Sul Dosson di Genova fu intimata ai nemici la resa a tre metri di distanza: si invitarono a darsi prigionieri. Ma un colpo partì dalla loro parte a bruciapelo, e allora con una scarica pulimmo la posizione. Uno sciatore che precedeva di qualche metro la pattuglia si trovò di fronte, improvvisamente, tre o quattro austriaci. Vedendosi solo, gridò: “Avanti la compagnia!” colla baionetta innastata. I nemici sorpresi alzarono le mani e gli si diedero prigionieri. Sulla Cresta della Croce, un caporale avendo avvistato un punto adatto per impostarci una mitragliatrice, fattosi avanti con le bombe a mano, le gittò su coloro che lo occupavano, li uccise e disperse, fece piazzare l’arma, e la mise in azione. Prima di sera tutta la linea assalita, che oggi teniamo saldamente, era in nostro potere. * * * Si sono prese a occhio le misure, non sono venti metri quadrati. Bisognerà dormire qui in sei. Per la cena si sono dovute disporre due serie, come nei _Wagons-Restaurants_, poichè tutti non ci si stava. Ora portano fuori la tavola e mettono su i letti. Non si dormirà certo bene come al Rifugio. Che dormita al Rifugio, in quella cuccetta di legno, che veniva fuori dalla parete, come una cabina di bastimento! Ce n’erano altre otto attorno a noi, e vaporava un calduccio che ristorava. Un professore di greco, che ai bei tempi della scuola batteva i più grossi filologi tedeschi sul campo della restaurazione dei testi monchi, allungato nel suo rettangolo pareva una di quelle statue che si posano sui sarcofaghi: gli occhietti semichiusi, il volto soffuso del sorriso serafico del pedante ingegnoso e fine, filava a mezza voce esametri su esametri di Omero. Avevamo assaporato, anzi c’eravamo nutriti di uno di quei sonni ristoratori che tolgono dieci anni di sulle spalle e venti dall’anima. E di buon mattino s’era ripresa la salita verso il ghiacciaio; attraversata la prima vedretta, eravamo giunti nel mezzo del teatro della guerra. I letti che ora si apprestano sono questi: tante barelle, coi pattini sotto. Le stanno infilando di traverso per l’uscio, a una a una, le distendono sul pavimento di tavole. Come le tele erano ricoperte di neve, l’hanno dovute scrollare: c’è rimasta l’incrostatura del ghiaccio, ma per raschiare che si faccia col paletto, non vuole andarsene. Si stenderanno due coperte sopra, in vece del materasso, e delle nostre giunture sarà quel che Dio vuole. Pensiamo un po’! Gli alpini che ci hanno fornita questa sontuosa baracca di legno tolta a un Comando austriaco, sono là, nella notte piena di nevischio, entro grotte, aperte nella neve. Dormono impacchettati nelle coperte umide. Sono quindici giorni che salgono, che combattono, che vigilano. Sono quelli che hanno preso la seconda linea, quasi tutta la terza. Gli attacchi nostri del 29 aprile e del 30 ci hanno dato in mano quasi intero il terzo ed ultimo sbarramento del ghiacciaio. Restano alcuni posti nemici nel mezzo della linea, che andremo a prendere fra cinque o sei giorni. Ora ch’hanno distese le barelle sul tavolato ci si può anche distendere. Ma uno alla volta, perchè tutti dentro non ci si sta. Vestiti, s’intende; tolti i soli scarponi che la marcia nella neve ha inzuppati; e due soldati ci rinfagottano fra le coperte, come tante mummie grottesche, col passamontagna in capo, le mani nei guantoni di lana. Verso il mattino, se non fa freddo, sono sempre quei dieci gradi sotto zero. Quando gli alpini escono dalle loro buche, trovano la coperta distesa la sera sulla bocca della caverna, dura come un lastrone di zinco. — Soldato, fammi il piacere di stendere anche l’impermeabile sulle coperte. Mi piove addosso. Sul tetto della baracca il tepore scioglieva la neve: era uno stillicidio sulle mie spalle. — E voi come state? — Così, così. — Io ho le estremità gelate. — L’umido della tela della barella comincia a passare le coperte. — Buona notte. — Non sarà una buona notte. Per fortuna, ai nostri piedi ardeva una stufetta portatile, a petrolio. Aveva certi quadretti di vetro rossi, pareva una lanterna e diffondeva nel dormitorio un mite chiarore. * * * Dopo un po’: _cr cr cr cr cr cr_..... Il telefono. Ci eravamo allogati nella baracca del centralino (voglio dire che in quei venti metri quadrati si facevano i pasti, si dormiva e si raccoglievano tutte le comunicazioni telefoniche del vasto settore). _Cr cr cr cr cr cr_; chioccio chioccio. Il soldato telefonista stava per prendere sonno, s’era allungato sulla branda. _Cr cr cr cr cr cr_..... — Pronti! Pronti! Centralino. Chi sei? Scuoti il microfono, non si capisce un accidente. Prontiiiii! Comando?, sta bene. Ti metto in comunicazione. No. Sì. “La compagnia ha avuto questa notte il cambio”..... Nevica..... virgola..... La terza teleferica ha avuto una interruzione di circa un’ora. Punto. Ciao. _Cr cr cr cr cr cr cr cr_..... Il telefonista torna alla sua branda. La stufa borbotta, come una pentola in bollore, ripiena di fagiuoli. Dove siamo? in Russia? Al Polo Nord? Che siamo? Esploratori dell’Artico o dell’Antartico? Ma! Senti quello come russa! Beato lui! Sull’impermeabile piove, piove. Le gocce cadono l’una dopo l’altra, ritmicamente, come da una grondaia. Fuori s’ode l’urlo della tormenta, che scorrazza sulla vedretta e viene a sbattere contro la baracca. Qualche spiritello maligno zufola alle fessure. Quando ancora la baracca era senza uscio, si doveva stare molto peggio. Allora la tormenta entrava dentro, la mattina ci si trovava con le coperte tutte bianche, impaccati nel gelo. La situazione è migliore assai. — Dormi tu? — Io no. — Hai visto l’onorevole come resiste, a queste fatiche? — Come è andato via e come è venuto qui a balzi, dalla Lobbia Alta! — Un vecchio alpino, quello! — Un bel sergente. — E quel tenente volontario, che ha fatto il bagno sulla neve! — Quello è un tipo! Sai che ha preso parte anche lui alla conquista della terza linea, senza essere del battaglione? Era venuto quassù per servizio. Quando ha saputo che c’era qualche cosa in aria, s’è fatto dare sette uomini e su, alla carica, per un roccione a nord di Passo di Cavento. Pensa: sette uomini! Andavano su a balzi: si fermavano ogni tanto per riprendere fiato, per cercare un passaggio. “Avanti ragazzi!” Un soldato non si voleva muovere. “Va su, che fai?” Lo prende per il cappuccio, lo scuote, si abbassa per guardarlo in faccia. Era morto! — _Cr cr cr cr cr_..... Il telefonista si rialza. — Ma è così tutta la notte? — Tutta la notte. Pronti! Va bene. Qui la tormenta fino a poco fa. Adesso si deve essere rasserenato. Sì, sì, sì..... Faremo verificare la linea appena sarà giorno. Ciao. — _Cr cr cr cr cr cr cr cr cr cr cr cr_. — Di’ un po’, e il colonnello, che ti pare? — Quello è un uomo! — Hai visto che occhi dolci in quella faccia dura come il legno? Li tiene nel pugno tutti, dal primo all’ultimo, i suoi uomini, ufficiali e soldati! Quello che vuole vuole. Quando il tenente gli ha detto: “Signor colonnello, due alpini della compagnia che ha ricevuto il cambio, sono mezzo svenuti”, hai sentito lui? “Non è vero; nel mio battaglione non è mai svenuto un alpino, in vent’anni che ho di carriera”. Lui gli uomini li tiene su con una parola, con un’occhiata. Vedrai come li spazza gli austriaci, fra qualche giorno! — Sì, ma io ho le ginocchia intormentite. Una voce assonnata: — E se ve la finiste una buona volta? Non potreste provarvi a dormire, come facciamo noi? — Ha ragione. Proviamo a dormire. Ma piove sempre sull’impermeabile, e giù pel collo s’infiltra il freddo frizzante dell’alba. La stufa non borbotta più, ha consumato tutto il petrolio, si è spenta. Per fortuna, fuori comincia a schiarire. Con l’aria gelata scocca per le fessure la luce. L’interno della baracca s’illumina. Quella è la parete destinata alla cucina. I fornelli, i piatti, tegami e tegamini, uno zampone appeso allo spago. Là è una mensola con un par di occhiali gialli, una rivoltella nella busta di cuoio, un par di grappette fra alcuni oggetti di cancelleria, una macchina fotografica. A quest’altra parete, cappotti di pelliccia, passamontagne, mantelli impermeabili..... Un colpo di cannone: un proietto che passa alto alto nella parabola sibilante. Un pezzo grosso! _Cr cr cr cr cr cr cr._ — Pronti! Sì, ha sparato ora. No, è il..... Sopra i tremila metri! Scuoti il microfono. Pronti. È il pezzo postato sopra i tremila metri..... Va bene. Ti metto in comunicazione con la batteria..... DON BIGOLIN Aprile 1916. _A Giorgio Bardanzellu._ Pare ci fosse un cappellano in un reggimento dei nostri molto avanzato in Valle Lagarina, il quale si chiamava don Bigolino. Anzi, più breve: don Bigolin. Sulle labbra dei soldati, degli ufficiali e dell’altra gente del luogo, il nome o nomignolo che fosse sonava ogni volta al passare rapido rapido d’una tonaca, che veniva di chi sa dove, che andava chi sa dove, che si vedeva in varie ore del giorno un po’ dappertutto. In paese i ragazzi dicevano: “Ecco don Bigolin”. E la tonaca scantonava per le viuzze. Le donne che lavano i panni entro la vasca, alzavano il capo quando sentivano il _fru-fru_ del panno, e don Bigolin passava. Lungo la strada, dove sono i paletti con su scritto “passaggio battuto dall’artiglieria nemica”, anche di lì passava don Bigolin, di pieno giorno, col suo solito passetto affrettato, ma non per le parole scritte sul paletto. Più avanti, dove i territoriali lavorano, e ogni tanto, al fischio delle granate, si rimbucano entro le grotte, la tonaca di don Bigolin sventolava. Gli artiglieri inginocchiati attorno alla coda dei pezzi mascherati, tirando la cordicella per rispondere alle missive nemiche, vedevano con la punta dell’occhio il cappellano che batteva il sentiero scoperto, e procedeva oltre. Quando, molto più avanti, i camminamenti nostri scavati nella sabbia erano ancora stretti stretti, e bisognava in certi punti camminare di sbieco, i soldati con l’elmetto vedevano passare anche da quelle parti, rialzando con le mani la tonaca, l’irrequieto cappellano. Più avanti ancora, dove i camminamenti sboccano nelle trincee e fra le corone dei sacchetti s’aprono le fenditure degli osservatori in cemento o quelle quadrate, in legno, le guardie che stanno all’agguato col fucile in pugno e le bombe allineate sulle mensole, all’altezza del petto, volgendosi si trovavano alle spalle don Bigolin. Nelle ore calme, come nei giorni più caldi, don Bigolin era sempre in giro di qua e di là, in un punto o nell’altro della zona, ed era sempre quella tonaca, sempre quel passetto rapido, sempre quella vocetta di saluto e di sorpresa, e, con quel suo essere dappertutto, pareva avesse del leggendario e del fantastico. Questi era don Bigolin. Di qui venne che un cannoncino austriaco, che tirava sulle nostre posizioni da posizioni non precisate, e mandava i suoi colpi anche lui dappertutto, improvvisi anche quelli e senza conseguenze, come il _fru-fru_ della tonaca del cappellano, avesse dai soldati il nome di costui, e si chiamasse senz’altro, don Bigolin. Chi fu il primo a trasferire a un cannoncino il nome di un buon servo di Dio, non si sa, e non si saprà mai. Nulla è più misterioso della prima origine delle parole. Ora in Val Lagarina don Bigolin è nome comune: dal cannoncino austriaco che tira ora da un punto ora dall’altro, si è trasferito a più d’uno dei nostri che gli rispondono. Di dove precisamente, è un mistero profondo. Noi si vede dove arrivano, e non si deve cercare altro. Ci sono dinanzi a Rovereto, dei pezzi che hanno ben altra importanza. Coni Zugna e Zugna Torta, — che a guisa di sperone, si spingono fra Val Lagarina e Vallarsa fin sulla bella città in mano al nemico, dividendo le due magnifiche strade che da Rovereto si partono per raggiungere l’una Verona e l’altra Vicenza — devono essere pieni di grossi calibri nostri, che dànno alla guerra d’assedio una maestà terribile e sonante. Non per nulla abbiamo cacciato gli austriaci di qui: credo bene per mettere qualcosa di grande nelle piazzole e negli appostamenti che essi s’erano preparati lassù. Ma accanto ai pezzi grossi, i nostri vari don Bigolin conservano il proprio ufficio particolare che assolvono con impegno. Proprio su Mori, che noi ci siamo lasciati alle spalle per inoltrarci a monte dell’Adige, con un sistema di camminamenti, di trincee e reticolati, s’erge e strapiomba sul paesetto abbandonato il Biaena: una di quelle posizioni austriache che vi fanno pensare all’impossibilità di un’avanzata. Il monte su in vetta è forato, e i buchi delle cannoniere accennano dall’alto, giù dal regno delle nuvole. Più in basso, pei canalotti, lungo i costoni ora lisci ora scabri, per le schegge e i macigni, per i sentieri e i ripiani, s’abbarbicano le difese nemiche. S’appostano i tiratori, si snodano i camminamenti, si annidano altri pezzi, si stendono in brevi linee le trincee. Tutta questa roba ci pende sul capo, e dovrebbe impedirci di muovere un passo. Ebbene, laggiù in fondo alla valle, sulla riva del fiume, sotto quelle difese aeree che paiono appostamenti di cacciatori, che sono veri nidi di falchi, la nostra avanzata quasi tocca Rovereto. Quando il nemico tenta di disturbare i lavori, questo cannoncino, o quello va coi suoi colpi su per le rocce del Biaena, a scovare il disturbatore. * * * Da Mori si vede su pel Biaena un camminamento nemico; deve essere un modesto sentiero, dove passano le truppe loro che vanno e vengono da un tratto di trincea. Per coprire il passaggio, l’hanno coperto con una fila di graticci, di quelli che servono all’allevamento dei bachi. Un muretto di cannucce, giallognolo, leggero, che appena resiste al vento di montagna. Dietro quello schermo passano non veduti: ma don Bigolin sale a trovarli di quando in quando, e apre nel graticcio una falla. In altro punto un loro sentiero è mascherato da una cortina di frasche: e don Bigolin rovescia le frasche. Allora quelli s’indispettiscono e a loro volta tirano. La lite s’ingaggia fra i piccoli pezzi. Se non cessa intervengono i grossi. Basta una fucilata a far nascere uno scompiglio. Una pallottola scatena una tempesta. La valle rintrona per ore di ululi e di boati, gli echi si sbattono da parete a parete, coprono il vasto profondo mormorìo del fiume, trasportano la guerra in fondo ai burroni, la sollevano ad altezze candide di nevi e di nubi. Alle batterie di Valle Lagarina fanno presto compagnia quelle di Vallarsa, e Rovereto e la sua bella conca sono in piena guerra d’assedio. * * * Dinanzi a Rovereto, come dinanzi a Gorizia, si è a poche centinaia di metri dai borghi. Sulle sponde dell’Adige e su quelle dell’Isonzo siamo risaliti a monte con quei lenti, prudenti passi che nella guerra moderna movono avanti agli stessi uomini le trincee. Fin dove giungono i campi, gli orti, le sparse propaggini dei suburbi, le prime case, siamo giunti noi strisciando, appiattandoci, sprofondando nei lunghi camminamenti tortuosi scavati nella terra o nella sabbia, sotto i bracci distesi dei filari, lungo le siepi di biancospino, fra le radici dei susini, dei peschi, dei meli. Stratificazioni molli e profonde ha lasciate l’Adige súbito a valle di Rovereto. Un soffice giacimento di arena si è accumulato ai piedi delle montagne rocciose, dirupate, che si erigono come baluardi della difesa nemica. Sotto un velo di terriccio fertile, dato tutto alla vegetazione, si è trovato scavando questo strato di sabbia nel quale la nostra avanzata ha proceduto con lavori di approccio silenziosi. * * * Chi venga qui dal fronte carsico, ha l’impressione quasi di un’altra guerra. Le sponde dell’Adige fin presso le linee nostre più avanzate, sono ricreative al paragone di quelle dell’Isonzo. Bel fiume è l’Adige e si svolge fra pareti di roccia e piani verdi come una vena azzurra che si disegni vigorosa in un bel corpo. L’Adige ha un aspetto di forza e di letizia insieme, e intona mille episodi idillici. La sua corrente non separa due nemici. Per lungo tratto è unicamente nostra, attraversa le nostre città, specchia i nostri villaggi, le rustiche case, i bei campi dove il lavoro ferve ininterrotto, e gira le alte nere ruote dei nostri mulini e degli orti. Verso Rovereto, i colpi di cannone fioccano; ma non si trovano le rovine dei paesi che l’Isonzo costeggia o bagna. Qualche casa scoperchiata, un muro sforacchiato da un finestrone rotondo, irregolare, il cornicione d’un campanile sfrangiato, qualche fossa orlata di terra nera, smossa di recente e che s’apre lungo i sentieri o in mezzo all’abbandono dei campi. Sono i segni della guerra, ma non della devastazione, dello spopolamento, del terrore. La popolazione rimane ad abitare le case, a lavorare i campi, ad accudire alle proprie faccende. Sono bambini che giocano, donne che lavano curve su una vasca o vanno alla fontana col carico dei bei secchioni di rame lucente. Sono contadini che menano il carro coll’unico bove aggiogato fra le due stanghe che si riuniscono sul davanti a punta di timone. Tutta questa gente è sotto il tiro, vive nel pericolo, e non ci bada. La guerra passa loro accanto, ma non li caccia e non li schiaccia. Traversano i passaggi comunemente colpiti, rimangono lunghe ore in zone scoperte, non si dànno pensiero di quel che accade. Questo è anche un effetto della montagna. La pianura è terribile perchè ogni suo punto può essere individuato, bersagliato, colpito. I monti hanno dei fianchi scoscesi, anfrattuosi; hanno una fronte ma anche una schiena, hanno delle rughe profonde, una vegetazione folta, un rivestimento denso; hanno mille angoli morti, nei quali si annida la pace, il placido idillio dell’erba col ruscello, della cascatella col musco, della zolla col sole. Le gole rombano, riecheggiano al tuono delle artiglierie, ma la montagna mormora e sospira da tanti piccoli angoli calmi, che empie solo il mormorio dell’acqua cadente, il borbottio della roggia e del canaletto, lo strepito lene, uguale, monotono della fontana. * * * La conquista di Coni Zugna e di Zugna Torta è stata per noi di un valore inestimabile. Ci ha permesso di andare innanzi in Valle Lagarina, lungo l’Adige, e contemporaneamente in Vallarsa, per le due strade alle quali accennammo, che muovono da Verona e da Vicenza e convergono a Rovereto. In Vallarsa siamo passati proprio sotto l’immenso forte del Pozzacchio, che è tutta una montagna scavata a fortezza; gli austriaci ne volevano fare una porta chiusa per sempre a noi; non sono riusciti a fornirla a tempo di truppe e di cannoni. Don Bigolin ci avrebbe aiutato poco da quella parte, se il Pozzacchio fosse stato pronto nel maggio del 1915! Chi da Valle Lagarina passi in Vallarsa e salga a visitare i lavori interrotti sul grosso cocuzzolo del monte, che doveva difendere Rovereto sbarrando la rotabile che porta da Vicenza e da Schio per il pian delle Fugazze, resta attonito dinanzi alla enormità del disegno, alla maestosa potenza di quell’abbozzo di forte. Una intera montagna è stata scavata per annidarci le più potenti artiglierie di cui l’Austria dispone. Chi ha visto a Siracusa le Latomie può farsi un’idea dell’immensità di quest’opera, nelle cui grotte ampie, ciclopiche, lugubri come catacombe si sarebbero facilmente adunate provviste inesauribili di proiettili di maggiori calibri, capaci di sostenere una guerra senza limiti di tempo. Il Pozzacchio doveva essere un caposaldo della difesa delle terre italiane aggiogate all’Impero. Così com’è rimasto a mezzo deve essere costato milioni. La fortezza immane è in nostro possesso, e le nostre truppe l’hanno sorpassata di parecchi chilometri. Anche da quella parte esse stringono Rovereto dappresso, con opere d’approccio che il nemico vede ogni mese crescersi sotto gli occhi. La sua rabbia deve essere stata grande, se proprio in questo settore ha creduto di dover sperperare contro di noi una cinquantina di colpi di quell’unico pezzo da 420 che esso abbia finora rivelato lungo tutta la linea del fronte. Povero pezzo, deve essere ormai fuori uso. E doveva essere malandato quando intraprese il compito vano, se quasi tutti i proiettili che lanciò caddero senza esplodere, sulla viva roccia. Ne abbiamo veduto uno in una sella di monte, lungo, lucido, rossastro, rimasto lì sugli scogli come un cetaceo arenato. Pieno di polvere e di spocchia, grottesco, nella sua fine, più innocuo assai di un piccolo don Bigolin che sentivamo correre in aria mentre eravamo chini a guardarlo. AUTOCARRI Maggio 1916. _A Gino Piva._ Improvviso, verso sera, era giunto l’ordine di tenersi pronti alla partenza. Per dove, si ignorava, ma chi pensò all’Albania e chi disse: “Ci mandano nel Trentino”. I comunicati cominciavano a dare notizie dei primi movimenti dell’offensiva; qualche cosa di grosso stava per accadere lassù; eravamo al principio di una nuova fase della guerra. Benchè fosse recente l’episodio di Monfalcone, dove gli austriaci avevano tentato di rovesciare le nostre difese per infiltrarsi nel paese e prenderci alle spalle, ed erano stati trattenuti e poi ributtati in mischie sanguinose da ondate di fantaccini e di bersaglieri; benchè da qualche giorno, su tutta la linea del Carso, dalla groppa di Sei Busi alle cime del S. Michele, e contro il Podgora e il Sabotino e giù nell’imbuto di Plava, le artiglierie nemiche scaraventassero tempeste di proiettili, che pareva preludessero ad un generale attacco; — pure si cominciava a sentire che il fronte vero si spostava dall’Isonzo verso le valli del lontano saliente trentino. I più pensavano che si sarebbe corsi là a far argine contro la nuova pressione. Si trattava di alcune sezioni di autocarri, che fino allora avevano fatto servizio un po’ qua, un po’ là sull’Isonzo, raccolte in uno dei tanti parchi automobilistici organizzati su quel fronte. Come in Francia, alla Marna e a Verdun, si operava la mobilitazione dei motori, una delle più interessanti della guerra moderna. E per alcune ore il reparto fu tutto in movimento. Forse, dal principio della guerra non s’era più veduta una cosa simile. Si stava proprio costituendo un fronte nuovo e pareva d’essere nel maggio dell’anno avanti, in quel movimento grandioso e folto, in quella novità di notizie e di ordini, in quella viva e pungente incertezza del domani che sbriglia le fantasie ed eccita i sentimenti, come fa sempre la guerra quando è di movimento e di avventura, e serba agli uomini l’allettamento dell’ignoto e della sorpresa. Conduttori e meccanici che da mesi e mesi facevano sempre, su per giù, la stessa vita misurata alle esigenze d’uno stesso servizio, benchè avessero finito la loro giornata, si preparavano allegri a una partenza che li avrebbe condotti chi sa dove per altre strade, in settori diversi. Sotto le tettoie era un andare e venire di macchine e di uomini: chi insaccava la propria roba, chi veniva dall’avere disdetto la propria stanza, chi provvedeva al completo rifornimento; sotto i cofani sollevati si ripassavano i carburatori o le candele, per terra erano latte di benzina, di olii, di grassi, cumuli di copertoni vecchi e nuovi, pacchi di camere d’aria, pezzi di ricambio, cassette spalancate che lasciavano vedere gli arnesi meccanici, i martelli, le chiavi, le leve. Nei magazzini, in mezzo all’abbondanza strepitosa d’ogni cosa, si eseguivano i necessari prelevamenti, con quella furia un po’ materiale ch’hanno sempre i conduttori delle grosse macchine, e che la fretta del momento moltiplicava. Verso le otto, la colonna cominciò a formarsi lungo la strada nell’ordine regolamentare. Man mano che le macchine erano pronte, uscivano dal parco, si raccoglievano a sezione, l’una dietro l’altra, ogni sezione al comando del proprio ufficiale. Alle otto e mezzo il comandante del reparto passò in rassegna le vetture e comunicò il luogo di destinazione. Si doveva andare verso Padova. I conduttori erano al volante, i meccanici girarono le manovelle, i motori s’accesero con un lungo rispondersi di scoppi: parve lungo la strada una enorme esplosione, e al fischio di segnale le vetture di testa si mossero, e le altre dietro, prendendo subito le distanze. Il lungo treno s’allontanò nel polverone. * * * Lasciavano, non senza una punta di nostalgia — cominciavano a sentirla ora che se ne allontanavano — il fronte nel quale avevano fatto servizio, chi da qualche mese e chi dal principio della guerra. Erano fra essi alcuni partiti da Bologna proprio un anno prima: e avevano fatto parte di una famosa colonna di trecento autocarri, che occupava dieci chilometri di strada. Erano arrivati a Padova tutta bianca, con le rose di maggio legate a mazzi sui volanti e sulle scuffie, avevano portato lo strepito della guerra attraverso il Veneto verde e cantante, avevano raggiunto e sorpassato le colonne delle fanterie, i reggimenti di cavalleria che andavano all’invasione. Erano ricordi lontani lontani, ma indimenticabili, l’aurora luminosa della campagna, l’entusiasmo diffuso delle truppe e delle popolazioni, dei contadini, al di là delle siepi, delle donne che lavoravano i campi coi nastri tricolori al petto, dei ragazzi che gridavano al passaggio dei treni: Evviva Trieste! Poi erano venuti i giorni gloriosi e gravi del giugno e del luglio, quando l’esercito si batteva eroico e furibondo contro un nemico che cresceva di numero, di forza e di difese; poi l’altra offensiva memorabile dell’ottobre e novembre, poi la sosta invernale, la guerra lenta ed aspra, la resistenza faticosa e tenace, la volontà di vincere indurita, divenuta cupa e profonda, fatta più solenne da tante prove e tanto sacrificio di uomini, di compagni e di amici. Era gente che la conosceva la guerra sull’Isonzo, che s’imboscava nel pericolo ogni giorno ed ogni notte. Conoscevano palmo per palmo la strada di Plava; i parecchi chilometri di nastro, che girano su se stessi come un serpente perfido, sotto il tiro delle mitragliatrici puntate, dei cannoncini, dei fucili; sotto il tiro degli _shrapnel_; con quelle svolte senza un metro di muretto ai lati, che hanno la gola dell’Isonzo spalancata sotto; e bisogna passare di lì, la notte, a lumi spenti, fra le pallottole che vi cercano, al lume dei razzi accesi sulle trincee nemiche del Kuk. Gente che aveva avuto il coraggio di rimanere lì ferma ventiquattr’ore per tirare su una macchina uscita dalla strada, che aveva rischiato cento volte la pelle per riparare un guasto al motore, pur di non abbandonare la propria vettura. Altri avevano per mesi e mesi battuto le strade del Sabotino, di Lucinico e del basso Isonzo, sulle quali ogni cento metri è un picchio di granata, dove si passa in mezzo alle rovine squallide dei paesi distrutti, delle case che hanno i tetti rovesciati sulla via, che hanno i piani sprofondati nelle cantine, che fumano d’incendi nella pianura vigilata dagli osservatori nemici. Erano le loro strade di ogni giorno, il pane quotidiano dei loro motori. Proprio così: gli imboscati in tutti i pericoli. Bella gente che ci passava in mezzo tenendosi ferma al volante, con la destra alla leva dei cambi, l’occhio alla strada, l’orecchio al motore, e tutto il rimanente a torno non conta nulla. Andavano ora verso un fronte sconosciuto, incontro ad altri pericoli, verso altre strade, sulle quali il nemico cominciava forse allora a regolare i suoi tiri, rompendo le massicciate coi marmittoni che precipitano a capofitto di sopra i mille metri, ululando. * * * Si fece sera nelle terre del Friuli. I paesi erano addormentati; qualche ritardatario su un uscio, qualche piccola luce trapelante dalle imposte. La colonna passava con un frastuono assordante, tremavano i vetri, si scoteva l’acciottolato. La luce dei fanali era velata dal polverone, i vetri dei fanali erano divenuti quasi opachi. Andavano così, a circa quindici chilometri l’ora sempre disposti ordinatamente; cento metri fra sezione e sezione, e trenta metri fra vettura e vettura. C’erano macchine da 25-35, che raggiungono anche i 50 chilometri; tipi 18 B. L., 17 A, 15 Ter. Si regolava il passo sulle vetture meno potenti. E s’entrò a notte alta nelle terre del Veneto, in quella gran dolcezza di strade elastiche e pulite come piste, nella campagna verde e quieta, rigonfia di vegetazione, attraverso paesi e cittadine che sorridono dai giardini pieni di fiori, dalle ville settecentesche disposte sui balzi dei poggi. A quando a quando un tratto di strada coperto di ghiaia minuta, un viale alberato che pareva condurre in un parco, pieno di frescura, un biancheggiare di grappoli d’acacie che venivano a sbattere contro gli scuffioni di tela. Ed ecco che da altre strade, altre colonne di autocarri cominciavano a sboccare, alcune che tornavano dalle prime linee lontane, altre che si dirigevano verso quelle, le vetture già cariche di truppa. L’alba spuntava e venivano avanti i carrozzoni traboccanti di elmetti turchini, di canne di fucile, di braccia, di volti, di grida festose, di canti. E di fiori innumerevoli. Il giorno avanti le popolazioni avevano coperto di rose, di garofani i soldati che andavano su, alle difese. Reggimenti interi, intere brigate fluivano, un torrente di uomini senza fine, che centinaia di motori erano corsi a prendere nei vari accantonamenti della pianura, e che sballottavano da dieci, da quindici ore via per le strade che s’irraggiano verso le alture. Si poteva arguire che verso tutta la zona minacciata migliaia di autocarri erano in moto. A un bivio entrò nella corrente una colonna infinita di vetture nuove, che venivano da qualche deposito di riserva. Recavano centinaia di latte di essenza. Interi parchi si spostavano, era una improvvisa mobilitazione nel cuore della guerra che dura da un anno: una esplosione di nuove energie intatte, una messa in azione fulminea di riserve. E a un passaggio a livello la cancellata chiusa arrestò per alcuni minuti tutto il movimento. Transitavano a poca distanza l’uno dall’altro treni anch’essi carichi di soldati, poi uno carico di cannoni. I pezzi, i cassoni erano velati di fronde e di erbe. Veniva da un tanto movimento, da un tale flusso di forze, di macchine, di mezzi, un senso di energia e di sicurezza. Di contro l’offensiva nemica, sorgeva naturalmente, a poco a poco per molte vie, per le più oscure vie, l’entusiasmo della ripresa, la febbre della rivincita, l’allegro impeto della vendetta. Le notizie dei nostri ripiegamenti erano giunte molto vaghe a quelle truppe, spostate dalle retrovie lontane, e che non conoscevano il fronte. I più credevano ancora che in poche ore la situazione si sarebbe capovolta; il fatto è che non chiedevano nulla, non volevano saper nulla, andavano cantando là dove c’era bisogno di loro, a formare il nuovo argine, a segnare i nuovi confini. Si respirava un’atmosfera di riscossa attorno a quelle decine di migliaia di uomini, che il fronte diverso rinnovava, come andassero allora per la prima volta alla guerra. La colonna giunse il mattino alla prima destinazione, e i conduttori ebbero un’ora di tempo per rifocillare se stessi e rifornire le macchine, prima di caricare le truppe. * * * La lunga colonna, come fu carica, ebbe ordine di ripartire senza indugio. I conduttori, al volante da più di dodici ore, avevano gli occhi sbarrati dal sonno e dalla fissità, calcarono il piede sull’acceleratore e il treno uscì di sotto il viale alberato, le cui fronde dovevano celare agli aeroplani nemici i nostri concentramenti. Centinaia di cittadini acclamavano ai partenti. La bella città veneta non dormiva da più notti, era tutta una attesa e una passione. Ma gli animi fidavano nella sorte; persuasi che si sarebbe fermato il nemico. Il suo primo balzo in avanti era certamente dato, ma la guerra è fatta di alterne vicende. Si erano vedute andare su tante migliaia di uomini che le speranze avevano una ragione d’essere più solida dei facili dubbi, degli scoramenti vili. Del ripiegamento delle truppe sui due settori vicini, d’Arsiero e d’Asiago, non erano giunte al piano che notizie contraddittorie. Ora tutta la massa umana si rinnovava, andavano su contingenti freschi, bei volti sereni di soldati, artiglierie di diversi calibri. Sui treni ferveva una mobilitazione grandiosa, si parlava di centinaia di convogli arrivati e ripartiti, tutti destinati al trasporto delle forze. Le strade che dalla pianura conducono all’altipiano e ai valichi aperti nella barriera montana che separa l’Italia dalle fortificazioni di Lavarone a destra e più a sinistra da quelle di Rovereto, man mano che le colonne coi rincalzi procedevano, rigurgitavano sempre più di movimento. S’era nelle retrovie immediate della guerra, e il flusso e riflusso delle truppe e dei borghesi riempivano da un capo all’altro i larghi nastri candidi, sui quali picchiava il sole, dai quali fumava la polvere sollevata da un tanto traffico. Il ritorno dei reggimenti che avevano avuto il comando di ripiegare avveniva in ordine. Lassù nei boschi fervevano ancora mischie disperate, lotte di piccoli nuclei per difendere i pezzi e i convogli fino all’ultimo minuto, cannoni fatti saltare quando la fanteria nemica era a poche centinaia o decine di metri, calibri difesi con le mitragliatrici, coi fucili, colle baionette: ci si batteva ormai più per i pezzi che non per la vita, più per proteggere i compagni che ripiegavano che non per aprire un varco a sè stessi. Gli avvallamenti del terreno, gli infiniti tronchi degli abeti, le innumerevoli trune di pietra che avevano servito di ricovero agli operai borghesi, le trincee costrutte dietro le linee principali, le casette, le baracche di legno, tutto serviva di riparo, di punto provvisorio d’arresto, di difesa. Nei boschi ululava una caccia selvaggia di uomini e di cannoni. Dal Lavarone entravano nella foresta migliaia di proiettili a lacerare, a squarciare, a schiacciare le piante, il terreno. Gli immensi gentili abeti che noi avevamo rispettati sempre, la cara profonda foresta nella quale avevamo portato la guerra, ma senza guasti e senza rovine, scrosciava tutta come d’inverno sotto le valanghe, presa ora sotto una valanga strepitosa, senza posa, immane, che rovesciava giù gli alberi dalle cime, che li svelleva come fuscelli, che li piegava gli uni addosso agli altri come giganti feriti; e i tronchi divelti formavano nel fondo delle valli ponticelli improvvisati, sbarravano con le loro membra enormi le strade e i sentieri. Gli uomini ripiegavano ordinatamente e sullo straziato cadavere della foresta. La ritirata continuava. Sezioni stupende d’artiglieria nuova, montata su autocarri, spiccavano tra le file degli uomini a piedi, tra le colonne dei muletti, tra i carrozzini e le carrette che trasportavano la roba delle popolazioni fuggiasche. Era questa forse la nota più mesta del gran quadro di guerra. S’era dovuto dare l’ordine di sgomberare i paesi. Quel che non s’era mai fatto in un anno di guerra, s’imponeva da qualche giorno come una necessità. La settimana avanti l’offensiva, il nemico aveva lanciato su Asiago qualche grossa granata, aveva tuonato di lontano, dal di là del confine, la prima sua feroce minaccia. C’era stata in paese qualche vittima e qualche ferito. L’esodo era cominciato subito. Non era più possibile la vita in un paese di qualche migliaio di anime, ormai sotto il tiro di un pezzo della marina austriaca. S’aggiunga che il paese non avrebbe potuto resistere a un altro bombardamento anche per la struttura leggera e pronta all’incendio della maggior parte delle sue abitazioni. Una bomba lanciata da qualche areoplano, che avesse appiccicato il fuoco a una casa avrebbe facilmente provocato un incendio generale. Le abitazioni sono contigue e le fiamme camminano sui tetti di legno e di paglia. Cominciò dunque l’esodo da Asiago e a un tempo dagli altri comuni dell’altipiano. Scendevano a una a una le famiglie, calavano in una corrente continua le singole popolazioni a occidente dell’Assa. L’altipiano si sgombrava. Verso Val d’Astico fluiva la stessa processione. Vecchi, fanciulli, donne e qualche malato; erano, anzi tutto le vite che cercavano scampo. Poi, i piccoli beni che l’uomo non abbandona se non con la morte. Si vedevano sui carrettini stracarichi gli avanzi delle abitazioni domestiche: i materassi senza i letti, qualche arnese da cucina, qualche rame lucente, qualche sacco pieno di abiti o di oggetti confusi. Non erano le caratteristiche processioni dei nomadi che non hanno casa, che hanno sempre organizzata e pronta la piccola dimora su quattro ruote; era l’esodo di una gente che aveva sconvolto e abbandonato le proprie dimore e recava fuggendo le testimonianze della fretta, della confusione e dell’abbandono. Traevano seco l’innumerevole bestiame che i pascoli fini, molli come tappeti, alimentano attorno alle case d’ogni comune. Le mucche da latte venivano dietro i carretti, procedevano a due a due, o a mandrie folte. Le mammelle gialle apparivano talmente gonfie che le bestie procedevano lente, scansandosi a fatica, intoppando la strada. Le colonne degli autocarri subivano lunghi arresti, le mucche istupidite dal cammino, dal frastuono andavano a urtare contro i radiatori delle macchine, pareva non avessero la forza di trarsi in disparte. Branchi di pecore venivano anche giù, trotterellando nel polverone. Centinaia di vitellini, legati entro le ceste, o sprofondati tra le masserizie, guatavano, le gambe in aria, e il muso rivolto al cielo, le strane cose che accadevano nel mondo proprio nei giorni ch’essi erano nati. Volti rosei di fanciulli guardavano senza nulla capire, e si passava accanto a donne e bambini grandicelli distesi sui veicoli, sprofondati in un sonno più forte d’ogni ansia, tranquillo, riparatore. Non una faccia in pianto: una fermezza e pacatezza tutta campagnola, di gente nostra che non grida, non bestemmia, non mormora. Pareva veder passare in un gran sogno calmo, senza voci, le migrazioni usuali dei tempi remoti. Si assisteva a uno spettacolo senza apparente dolore, non si udiva un lagno, non si riusciva a sorprendere nemmeno sui volti femminili un segno di sgomento o di paura. Reggeva gli animi una forza immensa, pacata, che serviva d’esempio e conforto a noi, che salivamo con l’animo sospeso, e il pianto alla gola. Era la forza inesausta, inesauribile del popolo, che resta sempre la sorgente più ricca d’energie di una nazione: qualche cosa di duro e fermo insieme e tranquillo come la terra che si stendeva all’intorno, come le vallate e i pascoli che non mutavano forma, e restavano uguali, e lasciavano passare la gente tacita che scendeva, e lasciavano passare la truppa che saliva festosa, e reggevano sulle proprie groppe i reggimenti che cominciavano ad accampare sul verde. Ricordo che il primo giorno si incontrò un vecchio solo che scendeva passo passo, col proprio maiale. L’uomo aveva la barba bianca, come una figura antica, dai tratti duri, senza eloquenza, un volto tagliato nel legno, le scarpe grosse, i panni polverulenti, le ciglia, le labbra polverulente, le mani, quelle aduste mani che hanno i vecchi con le floscie rughe giallognole e le vene grosse e turchine. Veniva giù dietro il maiale bassotto e grasso, ricascante di grasso da tutte le parti, la testa pesante, i fianchi rotondi, le natiche sballonzolanti sui garretti fiaccati; avanzava zoppicando, a stento, lo si sentiva soffiare, lo si vedeva patire. Si soffermavano ogni tanto. Lo perdemmo di vista. Quel giorno stesso al ritorno li trovammo qualche centinaio di metri più sotto. Il giorno dopo, come risalivamo, li rivedemmo ancora non molto lontano dal punto in cui s’erano incontrati la prima volta, al piede di un albero, fermi tutti e due, l’uno accanto all’altro, la bestiola distesa col muso sul margine della strada, accosciata sul fianco, il vecchio candido seduto, solo, in silenzio. Ma tali episodi che toccavano l’animo, man mano che si saliva sprofondavano nel vasto quadro della guerra. Una meravigliosa energia di uomini, l’esercito splendido e sereno saliva all’arginatura dell’altipiano. E la strada fremeva, tumultuava a quel passaggio d’armi, di uomini e di canti; su per le infinite volute della salita fumava un polverone bianco che dava imagine di un incendio diffuso nella vaporosità avvampata del mezzogiorno di maggio. E pareva vedere i volti accesi dal riflesso di una gran fiamma che ardeva lassù dappertutto: che era come il fuoco dell’immensa fornace crepitante e divoratrice. GIUGNO VICENTINO Vicenza, giugno 1916. _A Roberto Cantalupo._ Ieri, nel pomeriggio domenicale, tutto festante di sole, pieno della placida gaiezza di tutta una popolazione uscita all’aperto, disseminata pei ridenti giardini, pei magnifici viali, pei verdi passeggi sereni che si distendono sulla pianura, che si inerpicano sui colli berici di storiche memorie, vivi oggi più che mai di reminiscenze gloriose, cominciarono a diffondersi le prime ancora incerte vaghissime notizie del ripiegamento nemico sulla regione dell’altipiano, su tutta la regione dell’altipiano. Giungevano da fonti non ancora ufficiali, serpeggiavano come sussurrii indefinibili, come annunzi scoccati nel rapido suono di poche parole, nella concitazione di un dialogo breve, fra gente che giungeva di là e taluno che qui attendeva, si propagavano poi di bocca in bocca, di crocchio in crocchio, con le inevitabili amplificazioni della fantasia e con le innocue esagerazioni dell’animo incapace di calma, ugualmente eccitato dai timori e dalle speranze. Tante voci si propagano in tempo di guerra, tante invenzioni mettono radice facilmente, tanto ondeggiare di notizie buone e di facili sconforti aveva nelle passate settimane colpito i vicentini, che i più si afferravano quasi ostentatamente al dubbio, alla incredulità, come a un’àncora che dovesse conferire un po’ di stabilità agli animi e alle menti prese nel vortice di una corrente che se veramente reale, continua e profonda avrebbe fatto delirare di gioia la cittadinanza. * * * Intanto le informazioni continuavano a giungere. E da più parti giungevano; nomi di luoghi lontani si univano nella confusione concitata dei discorsi, si parlava di una nostra azione vittoriosa sul Cengio, di una riconquista della vetta imminente, di una pressione fortissima verso Busibollo che avrebbe tagliato fuori le difese nemiche già affrante da troppi giorni di combattimento; si parlava di una nostra avanzata verso Campiello, si rivedeva con gli occhi della mente il bel luogo così caro ai vicentini, dove la cremagliera fa ugualmente la sua sosta, quasi a mezzo il cammino dell’altipiano, si ripensavano i giorni tristi, ma non sconsolati dell’abbandono, della ritirata sanguinosa, di borra in borra della regione; e di notte si giunse perfino a parlare di Conca e Treschè e più tardi di Asiago ripresa, rioccupata, ritenuta saldamente dai nostri. Un automobilista giunto dopo la mezzanotte fu circondato da un crocchio di cittadini, interrogato, premuto, quasi soffocato da una folla crescente di nottambuli, che voleva sapere, voleva notizie certe, precise, indiscutibili; e il soldato disse di essere arrivato veramente ad Asiago alle quattro del pomeriggio, col proprio autocarro. — Con questo? — Sì, con questo. Allora si dovè credere al testimonio semplice, all’araldo che non poteva mentire, al soldatino che veniva proprio di là con la sua macchina polverosa, che aveva dovuto da circa un mese abbreviare le sue corse quotidiane, correndo sotto il fuoco nemico che precipitava strepitoso insolente giù per le retrovie in declivio e pretendeva di imporre con la propria violenza il timore e lo sconforto alle popolazioni del piano. Dunque era vero quello che era stato per tutti i vicentini e per tutti i nostri gloriosi soldati un sogno di tutte le notti, un vagheggiato e fremente desiderio di tutti i giorni da un mese a questa parte, ora, finalmente, era la verità, la verità semplice e vera, quella che si ode con l’orecchio, che si diffonde con la voce della parola, che si percepisce con la pupilla aperta, sciolta dai veli. Ed ecco stamane fin dalle prime ore la notizia riprese il suo corso, e tutta la città, pel centro e pei borghi pieni di popolo disceso sulle soglie, raccolto per le vie a domandare, a narrare, a fantasticare, a ripetere, e finalmente a gridare di gioia, a improvvisare dimostrazioni di entusiasmo, a urlare: _Viva l’Italia! Viva Cadorna!_ Una folla di centinaia di persone si assembrò in piazza, e la gioia di tutta una popolazione, diciamo meglio, di tutto un popolo esplose nel sole, nel sorriso della città ridesta a una nuova sensazione di vita, chiamata a vivere e a godere un’ora indimenticabile di gloria. Era proprio tutta Vicenza gaudiosa, paziente, fidente e gloriosa che esultava stamane per le vie e per le piazze, sul limitare delle povere case operaie e per le finestre dei palazzi meravigliosi, per le bifore marmoree che vedono da secoli il flutto della storia passare. * * * Attraversiamo Vicenza che s’orna, s’addobba, letteralmente si riveste di bandiere. È una fioritura fulminea, uno scampanìo di colori che dondolano dai balconi, dalle finestre: grandi e ricche bandiere che palpitano come vele fresche al sole, piccole, povere bandiere di stoffa stinta e gualcita dal tempo, che mettono una nota di popolo minuto di piccola e buona gente, di borghesia modesta nel coro dell’esultanza civile, italiana. Mai Vicenza fu più esultante e bella, mai più prodigio di luci e colori, di quadri e di sfondi d’arte, di archi e di colonne, di palagi e di torri si offerse all’occhio del sole. Pareva che i ciuffi dei gerani dalle bifore del 300, dalle cornici di vecchio rosso mattone, tutto caldo di glorie gittassero nell’aria voci acute di giubilo, squilli alti di vittoria, zampilli di giovine sangue glorioso. Su Piazza dei Signori il mezzogiorno di giugno batteva la pietra di bianco e grigio color freddo, scoteva l’impassibilità marmorea di quell’enorme sala scoperta, e la vecchia torre dei Bissaro, altissima puntava al cielo come una fiamma. Tutte le glorie architettoniche di Vicenza, le balaustre, i balconi, le logge, i portali, gli spaziosi cortili luminosi e armoniosi come vani di teatri, parean corsi da un palpito di rinascenza civile, da un fremito di umanità nuova, che rievocava tutte le grandezze d’un tempo, tutte le lotte magnifiche e sanguigne, tutti gli splendori, le fedi, le forze del tempo antico, guerriero e politico, artistico e signorile. Tutto rivive nei grandi giorni, tutto ritorna l’immortale passato. Questa è nella storia l’ora in cui si rifiacca anche una volta l’orgoglio e la rabbia tedesca: contro questi emergenti lavori dell’arte, contro queste rimanenze eterne della nobiltà nostra perenne, contro queste cose che nacquero dalle anime dei nostri padri, che furono e sono il retaggio delle loro menti, il capolavoro delle loro mani, la loro stessa anima dalle molte vite, contro questa italianità sacra e squillante, sempre giovane e sempre vera, dei marmi e dei mattoni, delle linee e dei colori, dell’arte e dello spirito nostro; proprio contro questi baluardi, contro questi segni di spiritualità che più ci appartengono, che furono e sono e saranno la nostra forza più franca, la ragion d’essere più profonda e più pura, contro questi limiti divini, che non sono trincee, che non sono reticolati, nè cavalli di frisia, nè bocche di lupo, nè altre cose orride dai più orridi nomi, si è fermato il flutto iroso nemico, come contro una scogliera che non si frange, che nessuna alluvione potrebbe sommergere. Noi lo scrivemmo: verrà il giorno in cui la cieca furibonda violenza austriaca cederà il campo al ritorno felice, alla ripresa sicura del nostro vigore, del nostro slancio, della fede e volontà di resistere e vincere, per difendere le nostre città e i nostri tesori, i campi e le case, i luoghi del lavoro e della preghiera; i nostri solchi sudati, le nostre piazze, i nostri quadri, i nostri vicoli, le nostre strade candide fra il verde, i nostri paesi più avanti, i pascoli dei nostri armenti più in alto, le terrazze dei nostri panorami più in alto ancora, i nostri fiumi, la nostra acqua e la nostra terra e anche il nostro cielo. A ogni muro, a ogni zolla abbiamo dato le radici dei nostri germogli, qui per tutto lo spazio che appare è passo per passo una pianticella e una pianta, un arbusto e un colosso, un fiore ed un tronco, uno stelo e una branca della nostra crescenza, lenta, folta, forestale di popolo. Tutto voleva abbattere il nemico, con qualche centinaio di bocche da fuoco; tutto voleva dirompere, stroncare, invadere, incenerire la meravigliosa foresta: ed essa era piena di spiriti, ogni tronco era una vita viva, ogni memoria è diventata una forza strenua, ogni cosa è tornata un’anima; non i soli generali, non i soli soldati, non quelli unicamente che combattono, non i viventi, non quelli che sono caduti, ma tutto il popolo, ma tutta l’anima del popolo, ma tutta la storia del popolo ha resistito e vinto, ha fatto impeto e breccia, ha temprato le spade, ha rifucinato i cannoni, ha rovesciato tutta la nostra infinita anima addosso al nemico. * * * Faccio un rapido giro per i quartieri popolari. Voglio rivedere i luoghi dove prima conobbi la povera gente cui non si oscurò l’animo nei giorni più bui, che accese nel suo cuore tutte le luci e tutte le fiamme, sotto quello che ai senza fede poteva sembrare il vento della disfatta. Chi dimenticherà mai quelle visioni, quegli istanti, mentre le truppe giungevano a folate di migliaia di uomini dai lontanissimi punti di concentramento, da altri tratti del fronte, sugli autocarri squassati e polverulenti, e traversavano questi quartieri, lambivano questi borghi per portare soccorso ai combattenti dell’altipiano, e la popolazione che oggi vedo sparsa per le strade in festa e rumore prima le accolse e le coprì di fiori, di auguri, di grida di fede e di vittoria? Come non ripensare ora, come non rivedere nella fantasia accesa le scene memorande che allora il popolo compose a se stesso e per se stesso nell’intrico delle sue viuzze, fra i muri di queste casupole che oggi riecheggiano di interiezioni di gioia. In quei giorni, in quei momenti di trepidazione si gittò la sementa che oggi fiorisce e fruttifica. Di qui passavano le truppe che venivano dalla pianura; entravano, dapprima per Porta Borgo Padova, traversavano la città per ponte degli Angeli, imboccavano il corso famoso. Poi si fece fare alle colonne degli autocarri il giro di circonvallazione, e venivano a Porta Santa Lucia, a Porta S. Bortolo o Bartolomeo, e a Porta Santa Croce. Le altre provenienti da Treviso passavano per Borgo Scrofe e il Viale dell’Astichello, tra il profumo dei tigli. Tutte si congiungevano a Santa Lucia, e i carri correvano rapidi sotto le piccole mura del 300. Questa porta S. Bortolo è un avanzo delle vecchie mura aggiunte nel 1508 per fare argine contro le truppe di Massimiliano. Anche allora si erano calate giù per le vie naturali dell’altipiano e del Brenta e cozzarono contro i nostri nella battaglia del Rastello. Proprio qui, dove comincia la fila delle case più popolari, su questa porta erano i cannoni che respinsero, nel ’48, il 20 maggio, gli austriaci che facevano impeto dalla strada di Bassano. E coi vicentini erano romani e svizzeri. Ora non si vedono più, ma che lungo ammonimento lasciarono quelle vecchie bombarde, che spinsero gli austriaci verso Verona, e quelli tornarono il 24 a ritentare da Porta Felice, e invano, e allora Radetzskj organizzò la famosa spedizione che venne da Montagnano e prese Vicenza dall’alto. Per queste stesse strade l’invasione nemica fu fermata un mese fa, con la forza degli animi. Qui vivono famiglie di artigiani, ecco botteguccie di falegnami, di fabbri, di calzolai, di stiratrici, di cucitrici, di piccoli sarti. La grande industria non ha ancora messo le sue radici qui. E gli uomini non emigravano. Lasciarono poi la casa e la famiglia, il desco e la bottega, quando furono chiamati in guerra. E non tutti la volevano quella partenza. Ma un anno più tardi, come si seppe che l’altipiano stava per essere invaso fino al ciglio suo estremo, quando si videro le cannonate balenare nella notte sulle cime che guardano il piano; quando accorsero i soldati alla salvezza, una improvvisa commozione umana, uno slancio trattenuto di affetto, un sorriso e una lacrima sola si accesero su tutti i volti, al passare delle truppe, rapido, incessante, incalzante. Dalle casette rimaste quasi vuote di uomini validi, le donne, le giovinette, i vecchi, i bambini si rovesciarono fuori sulle strade: rifiorirono per le truppe tutti i giardini e i prati del maggio. Queste donne che ora accorrono a strappare dalle mani del rivenditore la copia del giornale che reca la laconica _Stefani_, che tirano fuori il soldino e si raccolgono a crocchio per leggere o compitare le poche linee dell’annunzio fausto e felice; questa gente che non aveva mai gridato guerra, gridava ora, in una sublime anticipazione degli eventi, vittoria! — Bravi, bravi i nostri figlioli! Siete tutti nostri figlioli! Era un clamore di voci, la folla accorreva attorno ai carri, li fermava. — Benedetti da Dio! E quelli di rimando: — Adesso andiamo su noi, non li lasceremo passare. Vi giuriamo che non passeranno. Contate su noi. — Figli nostri, benedetti, benedetti! Le fanciulle correvano verso i prati verdi lì intorno, strappavano a furia le margherite, le erbe, tornavano sulla strada, i grembiuli pieni di primavera, i pugni ricolmi dei più semplici colori del maggio e infioravano i carri e i capi dei soldati: _Evviva, evviva!_ Le madri cercavano ansiose con sguardi fulminei il volto di un proprio figlio, che forse era là in mezzo; le spose cercavano i mariti, i fanciulli vedevano rapidamente passare il padre loro, confuso nella schiera carreggiata del reggimento. Passavano alpini, granatieri, bersaglieri, fantaccini delle vecchie e nuove Brigate, decine e decine di migliaia di uomini al giorno, decine e decine di migliaia di uomini la notte. Nel buio venivano sulle soglie coi lumi, con le candele affondate in un imbuto di carta, perchè l’aria non scotesse e non spegnesse la fiamma. Le fiamme più belle non si spegnevano nei cuori. Vidi io un mattino povere fruttivendole afferrare, le ceste delle frutta, il loro unico capitale, e rovesciarle entro gli autocarri, dando tutto in dono spontaneo. Vidi donnette meschine, quelle stesse che vanno al Municipio a riscotere il sussidio settimanale, mettere insieme a due a due i centesimi per comperare un _toscano_; e per offrirlo a qualche soldato; una ne vidi che nello slancio dell’offerta tanto si fece innanzi che fu urtata e rovesciata a terra da una macchina, che per poco non le passò sul corpo; un mazzo di sigari che aveva in mano le andò per la polvere sfasciato; ed ella si sollevò pronta e si curvò a raccogliere, e offrì il dono ai soldati di un altro carro sopravvenente. Chi assistendo a quelle scene di popolare pietà non ebbe le ciglia umide, non proverà più commozione. * * * In poco più di un mese quale e quanta mutazione di animi e di cose! Tutto si può rendere con una parola sola: _La guerra!_ La guerra che è un’epopea e un dramma, che ha i suoi svolgimenti pacati e lenti, e le sue sorprese improvvise, i suoi rivolgimenti tragici, le sue ore di sospensione e di ansia soffocante, avviliente, e i suoi ritorni fatali, le sue conclusioni necessarie, le sue sintesi ultime, che rimangono a chiudere la vicenda alterna degli avvenimenti singoli e minuti. Tanto quanto si è atteso bisognava soffrire, e bisognava anche temere e dubitare, e sentirsi il cuore in ferita e in sangue prima di giungere a questo. La via sassosa, spinosa, intricata, nemica, che prova le forze e gli animi bisognava percorrere e ripercorrere, cadendo, soffermandoci, disseminando la terra di nostri caduti, seppellendo i nostri santi morti; ma non seppellendo mai la fede, anzi sollevandola sopra di noi, sopra tutte le venture e le sventure, più alta di ogni caso, più splendida d’ogni luce, più terribile di ogni arma. Mai i nostri placidi fiumi furono più pieni di storia, di destino e di santità. LAGHETTO DI DOBERDÒ Agosto 1916. _Ad Arnaldo Monti._ I soldati, ora, vanno attorno allo scoperto, vengono fuori come le lucertole ai primi soli caldi. Fa un effetto curioso la gente che si muove in libertà su quel terreno di insidie mortali, d’appostamenti, fra quelle tane di accucciati e sepolti. Non s’era mai veduto. Dal giorno in cui i primi, da una parte e dall’altra, sbucando su dalla strada di Ronchi e dal terrapieno della ferrovia, che va per S. Polo e Monfalcone a Trieste, e dalle case di Selz, s’erano scontrati con gli altri, calati da Doberdò, che li aspettavano al varco, dietro i ciglioni di pietra; da quel lontano giorno i due avversari s’erano distesi in linea, questi di fronte a quelli e non avevano fatto che ammucchiare pietre per coprirsi, empire sacchetti di terra, e scavare, scavare, con le zappe, coi badili, coi picconi, talvolta perfino colle baionette, con le bocche dei fucili e con le unghie, per ripararsi, nascondersi. Era passato un autunno, un inverno, tutta una primavera. Erano venute le settimane di pioggia continua: nelle buche ricolme d’acqua gialla si pescava. Era venuta l’estate, la pietra bolliva al sole come avesse il fuoco sotto, e le due schiere nemiche erano ancora lì, coi fucili spianati alle feritoie, con le provviste di bombe a mano sui parapetti e negli angoli, nel lezzo tremendo dei cadaveri che non si possono rimovere, che gonfiano, e fanno le mani nere, come fossero inguantate, poi calano di settimana in settimana, quasi che gli abiti si sgonfino; si spersonano, ischeletriscono dopo qualche mese e il vento li scuote. Ognuno aveva i suoi. Ognuno ne aveva davanti alcuni non della sua parte. Dopo un’azione, aprendo all’occhio un varco sottile tra sacchetto e sacchetto, si cercava lì sulla petraia gialla, bruciata qualcuno che non era tornato, si credeva di vederlo laggiù, disteso bocconi, col fucile per terra a pochi passi. Era, non era, come si sarebbe potuto sapere? Adesso si gira liberamente, si può andare dove si vuole, sporgere il capo, camminare senza curvarsi; non s’ode più in aria il “ta-pum” che una volta scoccava la sua minaccia di morte. Questo sole d’agosto che batte sul pianoro liberato, s’espande improvvisamente dolce come a primavera. Sulla faccia tormentata della terra, sulle sue ferite aperte dove pare rosseggino grumi di sangue, il sole comincia a risanare, a pulire, a spazzare via le sporcizie, i lerciumi, gli avanzi ripugnanti degli scomparsi abitatori del luogo. Sole d’agosto, che tu sia benedetto! Gli ultimi morti rimasti fra queste pietre, scoperti, t’hanno veduto ancora. Tu li hai purificati. La loro presenza non si fa più sentire ai vivi. Quel nemico proteso bocconi con le braccia allargate, ha uno strano capo rossiccio, arso, bruciato dalla vampa. Ciuffi di capelli gialli scendono sulla nuca, come una strana parrucca. Non fa nessuna impressione il morto. Non è più un cadavere, non è che il ricordo lontano, scolorito di un corpo. Ora vanno in giro per le trincee nemiche ad osservare, a frugare, a raccogliere armi, fucili, cassette di munizioni, di bombe a mano. Camminano guardinghi, con la cautela della gente di mestiere che sa da un pezzo che sia un campo di difesa. Guardano dove posano il piede, certo non vanno a rovistare nel pattume. Ogni tanto un topolino grigio sfrugola via in silenzio, fuor d’un cencio di coperta, fuor d’una scarpa sdruscita. Anche i topi, ora faranno pulizia. E si butterà la calce su quei letamai, si darà fuoco ai mucchi di paglia, ai pagliericci lerci dove si dormiva martoriati dai pidocchi. Già si è cominciato ad appicciare l’incendio qua e là, coi fiammiferi: nella diffusa luce del pomeriggio estivo, le vampe tremolano come ombre d’oro tenui, evanescenti. Il sole e il fuoco ti ripuliranno, vecchio e tristo pianoro del Carso. Come sembrano sformate, ora, svuotate d’ogni importanza, ridotte a qualche fosso, a qualche muretto, a mucchi sconvolti di filo di ferro, le difese della guerra atroce. Non ci voleva che una tempesta di acciaio che ci passasse sopra, per rovesciare ogni cosa, per togliere importanza a tutto. È un campo di cose morte, di rovine senza quasi più significazione di vita. Rimosso il pericolo, snidata l’insidia, cessato il bisogno di nascondersi, di ripararsi in un modo qualunque, nulla ha più alcun valore. L’istinto della difesa rimbucava la gente: ogni pietra aveva un compito; ogni ricovero, se anche colmo di pattume, serviva. I fossati profondi, pure scheggiati, abbozzati, grezzi, erano una salvazione. Lì dentro ci si viveva. Non si viveva che lì dentro. Le buche avevano le dimensioni dei corpi. I corpi s’erano accomodati, adattati alle buche. Prima, quei solchi erano colmi di gente, di seme umano; ormai non sono che rughe del terreno aride, vuote; non c’è che un guasto sterile intorno, un campo di vecchie cose, la rigattiera della guerra. Dopo un incendio, dopo un terremoto si vede pure la gente che va curva tra le rovine, le macerie. Ma le case anche più distrutte conservano un’anima, mantengono qualche linea intatta, parlano del passato come di cosa che non ha cessato la sua ragion d’essere, che in altra forma tornerà ad esistere. Queste opere che parvero grandiose, formidabili, immani, non presentano che una desolazione squallida. * * * Il cuore torna a quelli che sono morti, che hanno preparato la gioia e la vittoria di oggi, nel sacrificio; a tutti i santi e i poveretti caduti per fare un passo avanti, qui dove noi ora camminiamo sicuri a piedi. La più alta e durabile espressione della guerra è in questa sua somma immensa di dolore. Ciò che si è fatto par nulla al paragone di quello che si è sofferto. Ciò che si sa è nulla al paragone di tutto ciò che non si racconterà più e non si saprà mai. C’è qui una religione del dolore, più grande d’ogni storia militare. E l’animo va verso il senso nuovo di gioia e liberazione, che non si può reprimere nè soffocare. La strada che sale dal piano per Doberdò, si scioglie anch’essa come da un incubo. Rivede, dopo un anno, nella piena luce del giorno, ripassare carri e truppe in cammino. Non udiva da tempo che il calpestio tacito, nelle notti senza luna, di reparti nemici che andavano alle trincee e ne venivano, di compagnie e battaglioni che si davano il cambio. Di giorno le granate la bersagliavano, solo che un’ombra vi apparisse sopra, solo che una figura minuscola risaltasse sullo sfondo della sua carreggiata polverosa. Il tracciato è pieno di buche: ma centinaia di colpi non l’hanno distrutto. Appena ricominciato il movimento, la strada, con qualche carriola di pietrame, è tornata quello che era. Si svolge, corre al sole, manda fumate di polvere, tagliando a una a una le linee delle trincee, là fino alle case di Doberdò. Di là prosegue. Le nostre truppe che avanzano la scoprono passo per passo. È una sensazione così nuova, così forte, e piena di così strano sapore che la si vuol godere mano mano che si procede. Pare di andare alla scoperta di un terreno vergine. Qui non abbiamo ricordi nè riallacciamenti col passato. Quelli di noi che in tempo di pace non ci vennero mai, ora hanno il senso di scoprire tutto, di trovare cose nuove. Che altra cosa è la guerra quando ci si muove! Quando gli orizzonti mutano e si lasciano i morti addietro. Nella guerra di trincea quasi sempre si hanno davanti. Si cammina cantando. Odo canzoni attorno a me. Il nemico non è lontano. Si sa che si ritira, ma si sa anche che si vede ancora da qualcuna di quelle alture. Non è più sul Cosich, non è più su quota pelata; anche quota 121 è stata sgombrata stamane. Ma quota 144 è ancora sua. Dicono che la fanteria avanzi verso la cima. Al di là, dal versante opposto, s’alzano fumate bianche; effetti dei nostri tiri di sbarramento e di inseguimento. Si impedisce ai rincalzi di venire avanti, si cerca di tagliare la ritirata ai difensori. Di quando in quando traversa l’aria un sibilo. Più si procede e più giungono. Ci battono. Ma è un fuoco senza persuasione, di truppe e di batterie in ritirata. Noi si incalza. Vengono giù di corsa alcuni autocarri della Croce Rossa: i feriti nell’azione impegnata a Oppacchiasella, e più avanti ancora. Incontriamo reparti di un reggimento che avevamo veduto l’ultima volta altrove, in un giorno d’azione. Effetti della grande manovra per le linee interne, che ha sorpreso il nemico; rinforzi venuti per la linea più breve, seguendo la corda che regge l’immenso arco del nostro fronte. Gobbe rocciose, bozze di spugna arida, secca, un velo di terra disteso dalle conche dal vento; e il tormento del caldo e della sete. Agli spinelli delle botti piene d’acqua, allineate in un campo, fanno ressa i soldati con le borracce. Il nemico tira _shrapnel_ su quei luoghi di ristoro che ha individuati. Alle spalle delle truppe che incalzano, che i Comandi gettano nella sempre più aperta spaccatura del fronte, per premere il nemico su tutta la linea, per ributtarlo senza soste verso le sue difese a tergo, a oriente del vallone, contro le alture di Medeazza, che saranno il pernio più vicino al mare della nuova resistenza, fluisce l’ondata dei carriaggi, gli approvvigionamenti, le batterie, le munizioni. La mostruosa organizzazione tutta si sposta, dalle sedi di Comando agli osservatori di batteria, dai depositi alle pattuglie di punta. Gli uomini sono come i tentacoli più sensibili e prensili, avvolgenti e penetranti del mostro che si muove con la sua vasta mole, sulle strade, pei sentieri, pei dosserelli erbosi, attraverso la scarsa vegetazione arborea, che i tiri della nostra artiglieria hanno rasa, rotta, bruciata. Ma tutto questo fra poco ripullulerà. C’è una vegetazione folta di erba attorno alle rovine delle prime case di Doberdò. * * * Il paese è una desolazione. Non una casa che nasconda la propria rovina. Ci si è tirato dentro con le grosse artiglierie, come in un bersaglio. Doberdò era un luogo di concentramento e di passaggio per le truppe austriache della difesa di Sei Busi e di Selz. Molte di quelle case aperte, squarciate, sono delle tombe: sotto le macerie si ritroveranno delle ossa, delle armi, forse anche qualche pezzo d’artiglieria. Dalla chiesa il nemico tirava con un medio calibro. La facciata è crollata, la chiesa s’apre come il vano d’un palcoscenico. Nel mezzo è un cumulo di rovine alto molti metri. Le case scoperchiate, sventrate, afflosciate su sè stesse, senza più il sostegno di una parete valida. È la insulsa tristezza degli abbandoni remoti che non hanno più colore. Un tritume, un seccume di avanzi tormentati all’infinito da nuove esplosioni, coperti, soffocati da sempre nuove ricadute di pietre, di sassi, di mattoni, di calcinacci, di polvere. Vecchie tombe di case scoperchiate e inaridite, senza episodi. Silenzio. Non s’ode che il cigolìo di un fanale arrugginito rimasto appeso al suo braccio, all’angolo di una casa. L’ultimo avanzo della illuminazione stradale di Doberdò. Una granata ha colpito anche quello, lo ha dimezzato, non è rimasta che una porzione dello scheletro lieve: cigola ai buffi del vento che viene dall’Adriatico. Di tutto il paese di una volta, che aveva da essere ridente, non restano che gli alberi. Gli abitanti sono stati i primi ad essere spazzati via: poi se ne sono andate a una a una le case; ora se ne sono andate le truppe loro. Ma i gelsi sono ancora qui, quasi tutti in piedi. Hanno resistito all’abbandono degli uomini; un po’ intristiti dall’incuria di quattordici mesi; hanno resistito ai bombardamenti che facevano crollare le case attorno ai loro tronchi; si sono salvati. Allargano le fronde, un po’ scarne, di un verde malato, sui resti bassi delle dimore umane. Ci vuole più furia di ferro e di fuoco a distruggere un filare di gelsi che a polverizzare un paese. * * * A oriente di Doberdò le tre groppe del Crni Hrib, uno dei punti di appoggio della seconda linea nemica, anch’esso crollato. La battaglia infuria più oltre, al di là di Oppacchiasella, e a sud sulle alture di quota 144, che il nemico difende da alcuni elementi di trincee a mezza costa. Fra quota 144 e il paese, s’apre come una pupilla il laghetto, orlato di rive flaccide, pantanose. Qualche batteria avversaria manda rari _shrapnel_ a sfiaccarsi fra i molli canneti. Paiono gli ultimi radi fumacchi di un incendio, le cui vampate hanno ormai attraversato il vallone. PRIGIONIERI AUSTRIACI Novembre 1916. _A Mario Missiroli._ Erano circa duecento, stesi per terra, falciati l’uno accanto all’altro da un sonno più pesante della morte. Parevano cadaveri. L’abbandono, il rilasso dei loro corpi non mostravano più nulla di volontario, di mosso, di vivo. Ci sono posture nel sonno che rivelano ancora il pensiero, o qualche cruccio della veglia, o la serenità del riposo, o la quiete dolce, il sogno. Quelli erano corpi inanimati, senza più nessun appiglio alla vita, nessun ricordo e nessuna plastica, allineati per quattro o cinque lunghe file, tutti voltati sullo stesso fianco, gli uni agli altri accostati, aderenti, stretti come salme deposte in poco spazio per essere inumate in una fossa comune. Certo non l’ala di un sogno affiorava dai giacenti; non si udiva un respiro levarsi di sotto quei cenci che li avviluppavano, li fasciavano come corpi induriti di mummie. Erano i loro cappotti turchini, dai baveroni rialzati, che li coprivano fin sopra la testa: qualche mento con la barba lunga veniva fuori qua e là, qualche pezzo di faccia dalla carne pallida, cerea, o il giallore di una calvizie untuosa, o le occhiaie profonde intorno alle palpebre chiuse, scavate sotto la fronte come in un defunto. Le gambe s’allineavano come tronchetti di legno, ingrossate dalle fasce fangose; e sporgevano i piedi chiusi negli scarponi di cuoio buono che hanno i nostri nemici e che durano addosso ai cadaveri per mesi e mesi: talvolta sui terreni dove i morti non si sono mai potuti seppellire, rimangono a calzare agli scheletri le ossa dei piedi. C’era una umanità immensa, dantesca, in tutta quella carne prosternata al suolo in attesa di una occulta remota resurrezione. E nella notte, gli alberi a torno apparivano anch’essi senza vita e senza nome, forme imprecise, nere, levate come scheletri su quella specie di umano strame. E dentro il recinto non era che quella miseria, e l’odore del branco putrido e l’albore della pacifica luna. Era un rilievo degno della mente di Dante. Erano anime che venivano dall’inferno, scampate alle bolge e alle doline del Carso, sfuggite al fuoco che piove lassù a larghe falde sulla landa della nostra caccia selvaggia e della loro condanna e del martirio. Erano lì come in un vestibolo di pace, sulla terra che è l’avanzo di un parco, disseminata di paglia, di stracci, di scatolette di carne in conserva. C’erano dei fanali azzurri appesi agli alberi, fiochi come i lumicini che vegliano i malati, inutili, che si perdevano nella chiarità lunare. E quelli erano i prigionieri del giorno stesso, che avevano addosso la cappa ferrea della fatica, sotto la quale non si potevano più muovere. S’erano lasciati cadere lì allo scoperto, meccanicamente addossati come per non soffrire il freddo pungente dell’alba, con le teste posate sulla terra, come si trovano i morti. Non s’erano nè fatto nè cercato un giaciglio, avrebbero preso sonno sulle più dure pietre, avevano lo sfinimento, l’abbrutimento come capezzale, come materasso e coperta. Si vedeva ch’erano affondati in un sonno cupo, senza risentimento e senza intoppo, quasi presi in braccio dalla terra materna, che è la genitrice eterna, dalla quale si esce, alla quale si ritorna, nella quale si rimane poi per sempre quando ogni altro appoggio e abbraccio e consolazione umana è finita per sempre. La terra che era per la loro infinita stanchezza come il pane solo per la loro fame, come l’acqua sola per la loro sete. Quelli erano i combattenti di ventiquattr’ore prima, che avevano sparato sui nostri soldati usciti fuori dalle trincee, che ne avevano anche ucciso qualcuno, che avevano preparato dolore e lagrime alle nostre madri. Erano lì, riposavano. Avevano salva la vita che è ancora un bene sulla terra. Taluno di loro interrogato appena preso intorno a quel che pensasse della guerra, aveva risposto: Per noi la guerra è finita. Tutto quel che sarebbe accaduto dopo la loro partenza dalle linee perdute, non li riguardava affatto: diventava una faccenda per gli altri. E nella totale assenza di ogni altro sentimento che non fosse di questa liberazione intera, suprema, avevano parlato. * * * Scampavano chi da uno, chi da due anni di guerra. Non avevano più altre memorie che di guerra. Chi aveva fatto tre campagne, chi quattro: parlavano della Serbia e della Galizia, dei Carpazi e del Trentino, dove i loro battaglioni erano stati richiamati e sbattuti, dove erano stati decimati e rifatti, donde erano tornati, come onde di un mare in tempesta. Avevano corso tutte le linee ferroviarie dell’Impero, nei lunghi treni che portano di qua e di là il nerbo delle offensive, e poi i soccorsi febbrili sulle retrovie dei fronti rotti o minacciati. Avevano combattuto d’inverno e d’estate, s’erano trovati di fronte sempre nuovi nemici, s’erano trovati di fianco commilitoni sempre nuovi, dalle favelle incomprese. Erano la storia viaggiante di tutte le spedizioni militari dell’Austria. Avevano combattuto in Serbia senza trincee, riparando il capo dietro un sasso qualunque: avevano combattuto sui Carpazi nevosi nei rigidi inverni, con la morte nelle carni, nelle ossa; erano stati mandati ora sul Carso, nella bolgia più orrida di tutta la loro guerra. Alcuni di costoro erano stati veduti e descritti da Wiegand mentre tornavano dai trinceroni di Sei Busi, di Selz e del Cosich: gente che aveva incrostata sul volto la maschera di terrore della guerra: la carne dei loro compagni aveva appestato la conca di Doberdò, aveva riempito i cimiteri sparsi sui luoghi dove oggi sono i nostri soldati. Erano i testimoni della nostra guerra terribile, dicevano senza esitazione che di tutti i fronti il nostro è quello dove si vive e si muore più tragicamente di tutti. Parlando delle campagne sul fronte russo, i contadini accennavano con poche parole alle terre distese, su cui marciando avevano posato il piede, in cui avevano potuto scavare le trincee con la vanghetta, su cui i proiettili affondano nella mollezza del terriccio e dei solchi. Ma qui sul Carso avevano trovato la pietra che vola in schegge sotto gli scoppi e dissemina e centuplica la strage, come se ogni lastra d’acciaio riscoppiasse a mitraglia. E avevano narrato il martirio della resistenza su linee che non erano ancora pronte e finite: specie le più avanzate, contro le quali le nostre fanterie avevano sferrato l’assalto, dopo due giorni di bombardamento distruggitore. Chi aveva potuto trovare una caverna vi si era imbucato, e non se ne era più mosso: era stato fatto prigioniero dai nostri. Altri avevano avuto ordine di non arrendersi, di lottare fino alla morte, così com’erano, allo scoperto o quasi, dietro alcuni muretti di divisione tra campo e campo. Altri assicuravano che gli ufficiali li avevano abbandonati in massa il giorno prima, lasciando l’ordine di ripiegare lentissimamente, passo per passo, ricostruendo difese improvvisate ad ogni opportunità che offrisse il terreno. Ad alcuni era stato detto che le loro retrovie erano bombardate da nostre granate asfissianti, e che perciò non pensassero nemmeno a fuggire, perchè avrebbero trovato nella fuga la più atroce delle morti. Ad altri erano state affidate le mitragliatrici, con l’ordine di scaricarle non appena si mostrassero le nostre truppe: la grande arma con la quale il nemico cerca di controbilanciare l’effetto spaventoso delle bombarde italiane. Interrogato in quali condizioni si trovasse Comen, un prigioniero aveva dichiarato che tutti i Comandi n’erano scappati, cacciati dal nostro fuoco. Altri parlavano della linea di Kostanjevica, come della vera linea loro di difesa, senza interruzioni, ricca di caverne, munita di saldi punti d’appoggio, in complesso durissima. Ma annunciavano anche che i nostri calibri la tormentavano intensamente. Alla domanda se avessero sofferto la fame, rispondevano che da qualche tempo nell’esercito austriaco si gode del buon raccolto fatto quest’anno in Ungheria. Ma negli ultimi due giorni moltissimi non avevano più ricevuto il pane nè il rancio perchè il nostro fuoco d’interdizione aveva impedito tutti i rifornimenti. E finalmente interrogati su quel che si dice e pensa nel campo avversario della nostra continua pressione e della nostra attuale offensiva, alcuni avevano risposto che ogni giorno si attende una ripresa a fondo delle nostre operazioni, che le preoccupazioni sono molte e vive, che l’animo delle truppe è incerto, e che se noi fossimo giunti a Kostanjevica, essi avrebbero dovuto poi ritirarsi su Adelsberg. Insistevano specialmente sulla gravità delle perdite subíte sotto i nostri bombardamenti furibondi. * * * Questo ed altro avevano detto nei primi rapidi interrogatorii, subito dopo essere calati giù in branco, per le strade carsiche che qualche mese fa essi stessi o i loro commilitoni avevano disperatamente difese. Quanti di quelli che noi vedevamo lì non erano passati in formazione di plotoni e di compagnie su per la strada di Doberdò, dove ora corrono i nostri autocarri, o per le strade di San Martino e di Castelnuovo, dove ora s’odono i dialoghi dei soldati delle nostre centurie? Quanti di quelli che giacevano a terra, ridotti come cenci, senza più forma e senza più forza, non avevano tenuto per mesi e mesi le trincee al di qua del Vallone, ora vuote, abbandonate, imbiancate alla calce come luoghi d’infezione, corse nei lunghi silenzi da frotte fameliche di topi? Erano, quei prigionieri ai quali non si sarebbe dato un soldo, nient’altro che i soldati dell’Austria, che avevano combattuto fino a ieri come combattono i nostri nemici, tenacemente; senza speranza di vittoria, ma senza rilasso. E duri alle fatiche fino all’estremo. E fin quando sono sotto la sferza dell’aguzzino, disciplinati e feroci. Poi, caduti prigionieri, perdono ogni carattere, ogni coesione, quasi ogni fisionomia militare e d’un tratto rendono a chi li guarda l’imagine degli elementi diversi dell’impero. Ora, non parevano più che avanzi di uomini. Nel silenzio raccolto del luogo, una bestialità stanca e greve li accomunava, come capi di un gregge, distesi in lunghe file sulla terra che era già stata la loro, donde s’eran dovuti ritirare, che avevano abbandonata a noi, e sulla quale ora ritrovavano, tornando, una notte di requie. FINE INDICE Fra gli uomini rossi (_a Vincenzo Valducci_) PAG. 1 Vele latine (_a Sante Solazzi_) 31 Un dottore (_a mio zio Giovanni_) 47 Sulle terre invase (_a Giulio Bechi_) 67 Due muli e una carretta (_a Enrico Bettazzi_) 85 Ritorno in trincea (_ad Alighiero Castelli_) 103 Fra Globna e Zagora (_a Gino Berri_) 121 Il “Diario di trincea” di Renato Serra 155 Mattino di battaglia (_ad Achille Benedetti_) 177 Alle trincee di Selz (_alla memoria di Gigi De Prosperi_) 193 Sui ghiacci dell’Adamello (_alla memoria del Generale Carlo Giordana_) 213 Don Bigolin (_a Giorgio Bardanzellu_) 245 Autocarri (_a Gino Piva_) 257 Giugno vicentino (_a Roberto Cantalupo_) 275 Laghetto di Doberdò (_ad Arnaldo Monti_) 289 Prigionieri Austriaci (_a Mario Missiroli_) 301 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI DI GUERRA *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. If you do not charge anything for copies of this eBook, complying with the trademark license is very easy. You may use this eBook for nearly any purpose such as creation of derivative works, reports, performances and research. 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