Racconti di guerra : (Maggio 1915 - Novembre 1916)

By Luigi Ambrosini

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Title: Racconti di guerra
        (Maggio 1915 - Novembre 1916)

Author: Luigi Ambrosini

Release date: August 17, 2025 [eBook #76695]

Language: Italian

Original publication: Torino: Lattes, 1917

Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by the HathiTrust Digital Library)


*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI DI GUERRA ***


                            LUIGI AMBROSINI


                           RACCONTI DI GUERRA

                     (Maggio 1915 :: Novembre 1916)



                                 TORINO
                       _S. LATTES & C. — Editori_
                         LIBRAI DELLA REAL CASA
                     FIRENZE — R. BEMPORAD & FIGLIO
                        BOLOGNA — N. ZANICHELLI
                                   —
                                 1917




                          PROPRIETÀ LETTERARIA

             Torino 1917 — Stab. Grafico DITTA EREDI BOTTA.




_A mio fratello Giuseppe, combattente._

                                                       Dicembre 1916.




FRA GLI “UOMINI ROSSI”

                                                         Giugno 1915.


                                               _A Vincenzo Valducci._

Sono andato a cercare la guerra lungo l’Adriatico.

Romagne, Marche, i paesi miei: dove odo parlare dialetti familiari,
dove tutto mi è familiare: i volti delle cose, l’animo della gente, i
suoni della vita, che s’alzano dalle strade, dai campi e dalle soglie
delle case. Ho voluto vedere che c’è di mutato laggiù.

Andando verso il mare, per le basse di Ferrara, contemplavo l’aurora
sulle terre distese, pacifiche: i suoi fuochi accesi sui cantieri di
grano, sulle foreste scure di canapa; e i pennelli dei pioppi aguzzi
nell’aria cilestrina.

Il solito risveglio della campagna di giugno, e tutto era come sempre:
i canali, i cascinali, le aie, i pagliai, i maceri, i fossi, le siepi,
e quell’indescrivibile folto della vegetazione che in giugno copre la
terra come d’un peso.

Il panno turchino d’un territoriale che vigila un ponte con l’alta
baionetta inastata sul lungo fucile, non muta il senso del paesaggio.

L’occhio è tranquillo, non coglie nulla di insolito: vede le vie
frequentate, i carrettini fermi dinanzi alle sbarre dei passaggi a
livello, le contadine scalze che hanno posato il paniere sul margine
della strada e infilano e calze e scarpe prima d’entrare in città.

Dove è la guerra? Io ne cerco i segni con l’occhio in torno.

Quella mandria di bovi disciolti, che alcuni uomini cacciano a colpi di
randello entro lo steccato della stazione; quel carname ossuto e grigio
che vien dalla strada in una nuvola di polvere, fa pensare a qualche
lontano mattatoio militare. È il rancio dei nostri soldati.

Ma nei giorni di mercato non si assiste anche allora allo stesso
spettacolo?

E l’occhio fugge sui campi.

Miracolosa pianura ferrarese, non sei tu uno dei volti santi della
patria, che esce stamattina più bello e più fresco di sotto la
risciacquata della notte? Terra nostra, nostra scoperta e fatica, bene
nostro e passione, terra redenta; non qui si combatte: (qui si lavora,
e già guizzano le prime falci nel grano, e s’alza dinanzi a una casa
il fumo della trebbiatrice) ma quanti dei tuoi uomini, dei giovani,
sono ora lontani; e non falciarono quest’anno l’erba nei medicai e non
zapparono, a primavera, la terra, e non mieteranno e non legheranno i
covoni, non alzeranno la bica, i tuoi ardenti, riottosi giovani?

Ogni campo, ogni cascinale, ha dato almeno un uomo, un soldato. Si sono
“vestiti”, sono andati.

Li ho veduti con gli altri, lassù: con le decine di migliaia che
entrano in guerra.

                                 * * *

Mi torna alla memoria un mattino del recente maggio, in una cameretta
d’albergo a San Giorgio di Nogaro.

Fuori, per la strada, un improvviso rotolio di carri.

Dagli spiragli delle imposte filtravano nella penombra gocce azzurre di
luce. Traversata da un raggio di sole, una fenditura del legno bruciava
come un focherello rosso.

Spalancata la finestra, uno sbuffo di polvere, che rigonfiava su
bianca dalla strada, sbattè contro il davanzale. Passava al trotto
una colonna di artiglieria da campagna. Conducenti con le fruste
nel pugno, inforcati sulle selle; pariglie di cavalli alti e grossi
fra le lunghe tirelle di corda; serventi abbrancati agli appoggi;
cassoni affardellati, moschetti chiusi entro buste di cuoio, badili
agganciati agli uncini fissi sotto l’asse delle ruote: tutto chiazzato
di polvere: affusti, pezzi, sacchi, casse, finimenti, briglie. Certi
volti mandavano di tra le ciglia e i baffi imbiancati uno sguardo
indefinibile, strano: gli occhi ridevano come sotto una maschera.

La prima maschera della guerra.

E andavano.

E tutto il giorno passarono veicoli dietro veicoli, cavalli, uomini,
serrati come pezzi di un’enorme fragorosa catena, di cui non si vedeva
più nè il principio nè la fine.

La campagna brulicava come un formicaio. Campi, prati pareva che
buttassero su dai fossi e dai solchi uomini, carriaggi, quadrupedi.
Ne apparivano oltre le siepi, sui mucchi di ghiaia, sulle aie delle
masserie, oltre le cancellate dei parchi, sotto i verdi ombrelli
degli ippocastani, all’imboccatura dei paesi, entro le casupole e le
ville, ai balconi, nelle strombature delle finestre, sotto l’arco dei
portoni, fra i tavoloni delle osterie, nei cortili dei municipi, nelle
aule e nelle palestre delle scuole, sulle soglie delle farmacie, lungo
i viali pubblici, nelle spianate dei giochi di bocce. Uomini seduti
sugli zaini, sui paracarri, sulla polvere, che attendevano il segnale
della partenza; staffette a cavallo, in bicicletta, in motocicletta che
prendevano le voltate di volata; automobili che portavano ufficiali;
colonne di autocarri pesanti, schiaccianti, che avanzavano l’un
dietro l’altro come carrozzoni d’un treno; reggimenti di fanteria,
interminabili; pattuglie di carabinieri, ambulanze della Croce Rossa,
carrozzini requisiti, guidati da un ufficiale, plaustri carichi
di balle di paglia e di fieno, guidati da placidi bovari, trainati
da coppie di buoi bassotti e rossicci, dalle corna ritorte, quasi
ribattute sulla cervice paziente.

La gran macchina è tutta in movimento, lassù, sulla campagna friulana,
rigonfia anch’essa di vegetazione.

Ogni tratto, lungo le belle strade, è un intoppo di truppe e di
carriaggi: fanteria, artiglieria, automobilisti. Una fila di autocarri,
carichi di provvigioni viene a grande velocità; la massicciata tremola
come scossa da un terremoto. Sotto i cuffioni grigi, i conducenti
attaccati duramente al volante, son tutti bianchi, irriconoscibili
sotto gli occhiali. Alcuni hanno bendata la bocca e le guancie con un
fazzoletto annodato sulla nuca, come feriti chiusi in un bendaggio.

Più oltre una colonna di fanteria costringe a un’attesa di mezz’ora.
È un reggimento che viene chi sa di dove. Ha fatto tre giorni di
ferrovia, è in marcia da quarantotto ore. Ufficiali a cavallo e in
calesse, soldati e soldati, zaini, coperte, fucili accatastati su
alcune carrette meridionali, dalle altissime ruote snelle, istoriate a
vivi colori, trainate da splendidi cavallini trottatori, pieni di brio,
nervosi, ogni tanto inalberati.

Camminano, avanzano, nella prima estate, nella polvere, nel sole,
nella prima enorme gioia della guerra. La quale comincia sempre come
un’avventura.

Dove vanno, non sanno; verso il nuovo, verso l’ignoto.

Ciascuno muove un passo dietro l’altro, la schiena del compagno
limita la vista dinanzi, e dà all’occhio un po’ di refrigerio, presta
alla pupilla quasi un punto d’appoggio monotono, ma riposante. Per
ore e ore non si vedono che zaini barellanti e scarpe che affondano
nella polvere. Passano per paesi non mai veduti, dei quali l’unico
ricordo che rimarrà sarà quello di una fontana a cui si è riempita la
borraccia, o d’una finestra da cui sono piovuti dei fiori, o d’una
rivendita dove si è riusciti a trovare un pacco di sigarette. È la
marcia rude, possente e faticosa, ma allegra; è l’avanzata polverulenta
e sudata, ma piena di tutte le forze fresche, intatte.

Gli uomini che avanzano pensano molte volte di essere alla vigilia
imminente della lotta; e non vedranno il fuoco che fra una settimana,
fra un mese. Altre volte camminano tranquilli e spensierati, quasi si
trattasse di una marcia in tempo di pace, poichè intorno a loro tutto
è tranquillo; i paesi che traversano sono festanti. Al passaggio delle
truppe sbucano di tra le siepi frotte di ragazzi che protendono le
bandierine. Le donne che sarchiano nei campi di granoturco hanno il
tricolore al petto o tra i capelli.

Una primavera di cuori brilla nel mezzo della primavera eterna dei
campi e dei prati. Le corolle rosse dei papaveri, fanno nuvola entro la
verde marea dei grani, distesi tra gli striscioni candidi delle strade.

È il primo momento lieto della guerra: l’aria libera le strade percorse
in comune, come in una passeggiata, in una ubriacatura di campagna; i
pasti all’aperto, l’ombra delle siepi, l’acqua fresca delle fontane,
i canti, l’impreveduto, il nuovo... E sopratutto la fidanza che si fa
nella compagnia di tanti, nella forza di centinaia e migliaia di petti,
nelle armi nuove e pulite, in quell’abbondanza strepitosa di ogni cosa,
di salmerie e di macchine, che sono al servizio di ognuno e di tutti,
sono per tutti, di tutti. L’uomo si sente unito, difeso: è spensierato,
è sicuro, è lieto. Va innanzi e non dubita, non teme, non può temere.

Il rombo del cannone si ode e non si ode, a seconda del vento e
dell’aria. È una voce diversa, che ora si sprigiona dalla terra, come
un boato; ora viene dalle nuvole come un brontolio di tuono. Parla un
linguaggio che ancora i soldati non conoscono.

                                 * * *

Lassù sono anche i tuoi figli, o Romagna. Braccianti e contadini,
“gialli” e “rossi” di ieri, quelli della repubblica e quelli del
socialismo, si sono “vestiti” a migliaia, cavalleggeri, artiglieri,
bersaglieri, fanti.

Come prima avevano il garofano rosso all’occhiello, la cravatta
spampanata sul petto, il fazzoletto nero al collo, ora hanno il
grigio-verde, le penne sul cappello, il fez sanguigno, col fiocco che
sbatte sulle spalle; hanno i cuscinetti della sella e il maremmano fra
le cosce; vanno seduti sui cassoni dell’artiglieria anzi che sui loro
carri; portano lo zaino anzi che il sacco di grano, il fucile anzi che
la rivoltella, la baionetta in vece del coltello. Dalle pancacce delle
osterie sono passati alle caserme, dalle Camere del lavoro alle tende,
e alle trincee. Dagli scioperi alla guerra.

Senza soluzione profonda di continuità. I generosi combatteranno da
generosi. Chi ha sempre bagnato la terra di sudore, ora la tingerà di
sangue. Ignoti, i più, domani, nel sacrificio e nella morte, come erano
ieri, quando lavoravano su questi solchi e rissavano per la politica, e
ognuno teneva fede allo straccio della propria bandiera, ognuno era per
il suo Circoletto, o pel partito, e aveva il suo inno, e la sua Idea.

Nello squadrone e nel battaglione, come in mezzo a compagni di un
lavoro e di un rischio comune. Difenderanno nell’ufficiale e nel
compagno se stessi, il proprio onore, l’amor proprio, l’istinto
romagnolo di superiorità nel coraggio; il profondo bisogno di essere
bravi, di imporsi, di vincere.

Dinanzi alla guerra che non è più un’opinione, ma un fatto, una realtà,
i fermenti di contrasto, di lotta, ribolliranno, tutti insieme, contro
il nemico. Ieri questi era il padrone, era per il “rosso” il capo dei
“gialli” e per il “giallo” il capo dei “rossi”; oggi il nemico è uno
per tutti: contro il quale si marcia in massa.

O non dicevano che la “settimana rossa” era stata come una prova della
rivoluzione generale?

La rivoluzione ora è la guerra.

                                 * * *

A Ferrara avevo voglia di vedere, in pace, un po’ di cavalleria. Un
amico maggiore in uno dei più bei reggimenti nostri mi aveva scritto,
pochi giorni prima, se mai fossi passato di là, di soffermarmi.
Volentieri avrei cavalcato accanto ai suoi uomini, in uno di questi
stupendi mattini; li avrei volentieri accompagnati per un tratto di
strada, se fossero partiti verso le terre del Friuli.

Bisognerebbe, del resto, fare la guerra per poterla raccontare.

Il cortile della caserma era deserto. Un soldato in zoccoli,
scamiciato, lavava panni in un vascone. Nel maneggio scoperto un
giovinotto di Cesena, coi panni borghesi, dava l’esame davanti a due
ufficiali. Montava un sauro e non sapeva cavalcare. Dava l’esame pro
forma, per essere ammesso come veterinario. Gomiti larghi, redini
tirate, testa e corpo che pendevano sul collo del cavallo, saltarellava
sulla sella. Quando scavalcò con un tonfo pesante, lo salutai, mi
sorrise, sorridevano sotto i baffi anche gli ufficiali.

Nelle scuderie non erano più che pochi cavalli infermi, malandati:
_Causidico_, _Tripoli_, _Rataplan_. Conducevano fuori un morello
ossuto, magro, l’occhio spento, gli orecchi abbassati, due infossature
profonde sopra le ciglia. Un soldato lo teneva alla cavezza, un altro,
in farsetto, con la camicia rilevata sui gomiti, gli cacciava il bolo
giù nella gola.

E la sua aria sfinita faceva pensare, per contrasto, alle centinaia e
migliaia di suoi compagni, a quei cavallini leggeri e brillanti, fatti
per le cariche strepitose, per le volate folli sulle reni del nemico in
fuga.

I bei galoppi radenti, calmi ed elastici che io aveva intravveduti
pochi giorni innanzi su per le campagne venete! Cavalli dissellati,
alle tappe, che facevano l’abbeverata al tramonto; cavalli legati
alle corde sopra un prato, che ringhiavano e si calciavano, facendo
accorrere i soldati; quelli erano in guerra. _Causidico_ non li avrebbe
forse riveduti mai.

                                 * * *

Nel pomeriggio, mentre girellavo per le vie di Ferrara, lunghe,
solitarie, fra i palazzi e i muri dei parchi e le case, m’imbatto in
un amico in divisa di volontario ciclista. Ripartiva la sera stessa con
due compagni per raggiungere il suo plotoncino.

— Vieni con noi. S’arriva a mezzanotte, dormi sulla paglia; domani
andiamo al mare, forse in pineta.

Raccapezzammo una bicicletta e con le prime ombre si partì — gergo
sportivo — in fila indiana.

Erano di Faenza, tutti tre giovani. L’amico mio studente di secondo
anno di liceo. L’altro, studente in legge alla Università di Bologna.
Il terzo un popolano, di quelli della repubblica.

Andando, era lui che parlava sempre. Noi gli facevamo eco con
monosillabi, con esclamazioni, che più e più gli scioglievano lo
scilinguagnolo.

Narrava le proprie gesta di interventista, in una città che era stata
delle più avverse alla guerra. Lui e pochi compagni di partito avevano
per alcuni giorni tenuto testa alle schiere avversarie, affrontato coi
bastoni frotte di contadini che venivano in città per bravare, e per
imporsi. Una notte s’era sentito scoppiare un colpo d’arma da fuoco
a bruciapelo. Tornato a casa il repubblicano s’era accorto d’avere la
giacchetta sforacchiata dai pallini. Non girava più che col coltello in
tasca. Ce l’aveva ancora, lo tirò fuori, ce lo fece vedere. L’avrebbe
portato in guerra, per adoperarlo.

— Non ti basta la baionetta?

— La baionetta ha bisogno di più leva, — spiegò. — Il coltello basta, a
maneggiarlo, la mano, il braccio. È più pratico, lavora meglio.

Gli ricordai che i Bavaresi partono per la guerra col coltello da
caccia nella tromba degli stivali.

Sapeva. Era stato a lungo in Germania, a lavorare. Rimasticava un po’
di tedesco. E cominciò a narrare certe sue avventure nelle osterie del
Baden. Una volta aveva difeso una donna da un branco di ubbriachi, che
volevano buttarla sul tavolaccio dell’osteria. La polizia era accorsa,
non gli avevano fatto niente. Del resto lui avrebbe “fatto la barba” a
tutti.

Parlava e correva, impostato sulla macchina con una rigidità un po’
pesante, di uomo di fatica. Spalle strette, gambe arcuate, s’era
tolto il berretto, andava con la testa al vento, battendoci la strada.
Anche quello di marciare in testa a noi più giovani, e più elastici,
era un bisogno istintivo. Essere il primo, andare avanti. C’era
dell’ambizione irriflessa, o c’era, forse, e sopratutto della bontà,
dell’accondiscendenza. Ci batteva il passo, ci trenava. In compagnia di
tre “signori”, lui popolano, faceva la fatica grossa.

E non badava a nulla; non si curava della mirabile notte, cupa
tutto attorno a noi. Non lo interessava che il fatto proprio, la sua
persona. Era un romagnolo schietto, del popolo, di quelli che sotto
il papa avrebbero insanguinato il proprio rione. Un’anima di settario
spericolato, iscritto al gruppo repubblicano, e che adesso faceva il
volontario insieme coi signori monarchici e nazionalisti.

                                 * * *

Il cielo era tutto uno stellato. Non vidi mai tanto sperpero di lumi
in cielo. La cupola d’aria sul nostro capo ardeva di fiammoline. Era
una luminaria intensa, immensa: un incendio. E il fuoco celeste più
risaltava sul nero fondo della campagna.

A mezzanotte eravamo in mezzo alle paludi. Ci batteva il fresco sulla
faccia. Si udivano le rane gracidare nei pantani, garrule, querule,
innumerevoli. Come si andava, sempre ce n’era alla nostra destra e
alla nostra sinistra. Pareva sonassero le nacchere: strepitavano nei
notturni tripudii.

Giungemmo a Mandriole con le ginocchia fiaccate. Si respira male
in mezzo alla malaria: canali, fossati, alti argini, velati da una
nebbiolina maligna, che punge le ossa. C’era un freddo di notte
d’inverno.

S’udiva a intervalli il rumore del mare vicino.

Ed ecco giungemmo all’accantonamento. Sul ponticello, alla cancellata,
oltre la quale s’intravedeva una casa, la sentinella col bavero
rialzato, la mantellina avvoltolata intorno alle spalle, il naso dentro
le pieghe.

Ci domandò se per la strada non avessimo incontrato nessuno.

— Neanche un cane; chi ci ha da essere a quest’ora?

— S’è sentito rumore, fuori. Il tenente ha mandato due dei nostri a
fare un giro. Hanno da essere là dietro.

Rovesciammo le macchine sul prato, ci mettemmo alla ricerca di quei due.

— Chi va là?

— Volontari. Sei tu, Balanti?

— Oh!

Vennero avanti due fucili, due ombre.

— Che c’è?

— Pareva che qualcuno strisciasse. Siamo andati; era una scrofa rimasta
fuori.

Ridemmo.

— Venite dentro?

— Andiamo ancora fino al sasso di Anita, per sicurezza.

— Noi si va a dormire. Buona guardia.

— Buona notte.

                                 * * *

Eravamo nel buio più fitto. Mi fermai sulla soglia, che qualcuno
facesse un po’ di chiaro.

Si udiva russare. Il repubblicano gridò:

— Ui, Facanapa!

Lo conoscevano al rumore come alla voce, i compagni. Ma Facanapa
continuò a russare.

Altri si svegliò:

— Chi è?

— _Cut ciapa un azidént; azénd la lom!_ (Che ti pigli un accidente,
accendi il lume).

— _Spèta._ (Aspetta).

Si udì lo stropiccio d’un fiammifero, una fiammolina illuminò l’interno.

Eravamo in una stalla. Paglia per terra e corpi distesi, l’uno accanto
all’altro, vestiti. Non si vedevano neanche i volti, coperti per le
zanzare.

S’appicciò una lanterna.

Dormivano con le teste sugli zaini, e sulle coperte arrotolate. Si
scoprivano, man mano che si parlava.

Il repubblicano era un disturbatore chiassoso, voleva rompere il sonno
a tutti. Le imprecazioni fioccavano, quelle materiali imprecazioni
della gente di Romagna, che non si possono ripetere, nè tradurre in
eloquenza urbana.

— Un po’ di largo, ragazzi, c’è un borghese.

S’alzavano sui gomiti a guardare il borghese... Chi è, chi non è? “Un
giurnalesta”.

Il repubblicano mi cercava un posto, calciava sui renitenti, perchè
si stringessero. Mi proteggeva. Volle a forza che accettassi la sua
coperta, la mantellina.

Mi misi lì, dove voleva lui.

O dolce ristoro di una cuccia di paglia, dolce riposo...

Ma sì! Si continuava a chiacchierare forte. Facanapa s’era svegliato,
e malediceva i nuovi venuti. S’aveva da alzare alle tre per montare la
guardia. Peggio! Adesso lo bersagliavano tutti di motti feroci.

— Dormirai quando tornerai a casa, Facanapa.

E gli parlavano della morosa che aveva lasciata a Faenza, e gli
insinuavano tutti i sospetti.

— _Adess ben clat met al còran!_ (Adesso sì ti mette le corna!).

E il discorso cadde sulle donne. Si parlava di quelle poverette rimaste
a casa a languire. Tutti i giovani erano partiti. Come avrebbero fatto
la sera a andare a spasso sulle rive del Lamone, sole, sole!

— _Adess e basta, burdell!_ (Adesso basta, ragazzi). _Spegni mo la lom!_

Un soffio; si spense il lume. Ma i dialoghi continuavano. E
cominciarono le zanzare. Bisognava fasciarsi la faccia con la
mantellina, ma le zanzare s’infiltravano con quel sibilo metallico che
fa tanto dispetto.

Altri erano entrati, nel frattempo, che venivano dalla spiaggia, dove
avevano montato la guardia, verso il semaforo. Qualcun altro si alzò.
La punta dell’alba luceva alla finestra. La porta era aperta, entrava
il freddo. Allora mi alzai anch’io, e uscii fuori.

Eravamo sugli argini del Reno. Era un mattino incantato di giugno e
di luce fiorita. Nel freddo ancora intenso venivano lungo la strada i
primi mietitori, in bicicletta.

S’era di fianco a un immenso cantiere di grano, che il sole tingeva
di giallo. Pareva un mare d’oro. E di fronte a quello sfondo puro,
come una figurina nel mezzo di un quadro, veniva avanti a piedi, una
_burdèla_ (una ragazza).

Poteva avere quindici anni, scalza, un grembiule rosso che le
lasciava nudi i polpacci bronzini, bionda, sana, ridente. Camminava a
piccoli passi, col seno erto, duro, la gola scoperta e liscia, tutta
trionfante.

Cercava qualcuno lontano, in mezzo al cantiere, dove già si vedevano
i gruppi di mietitori. Si soffermò a guardare intensamente. Poi calò
giù per l’argine, fu in mezzo alle spiche, avanzò, rossa, fra tutto
quell’oro, affondò a poco a poco, lontana, come un’allodola.

                                 * * *

Andavamo al mare. E a me ora pareva di reggere sulla spalla il fucile
del volontario che m’accompagnava: tanto mi sentivo una cosa sola con
lui e con la sua persona e la sua sorte. Avevo indosso i suoi panni
e il peso dello zaino e della coperta. Ero come la sua ombra, che lo
seguiva, mobile lungo il sentiero. Mai non ho sentito dentro di me
farmisi più leggera l’anima.

E saliti che fummo sugli alti argini del Reno, vedemmo davanti a noi,
verso la foce del fiume, prima ancora che il mare, la luce riflessa del
mare. Il mare brillava nell’aria, laggiù; c’era non so che di aperto e
spazioso dinanzi a noi; raggiavano le acque al limite non lontano. Ma
come s’ode il respiro di persona dormente, e la persona non si vede,
così sentivamo la spiaggia vicina, senza che ne apparisse più che la
luce diffusa nel cielo.

Frusciavano erbe e cespugli sotto le nostre scarpe, e fummo presto
inzuppati di guazza fino al ginocchio. Pagnotte di fango ci si
incollavano sotto le suola, si camminava quasi a quattro gambe, con
quattro schiocchi ogni passo. E più andavamo e più si faceva liscio
il pastone di creta, e sempre più elastico. Veniva il desiderio di
sciogliersi i piedi, nudarsi la caviglia e camminare scalzi.

— Guardi se non sembra un pavimento di mattonelle.

Difatto la creta era tutta spaccata, a figure regolari, geometriche:
triangoli, losanghe, quadrati, che componevano insieme un unico
disegno. Solo dove il terreno mancava, ivi l’acqua delle piogge aveva
formato altrettante pozze, più o meno torbide, dai cui orli si vedevano
fuggire con un guizzo le lucertole, e nascondersi sotto i cespugli di
rosa macchia e di rovo con la puntolina della coda inalberata.

Più oltre, ogni traccia di sentiero si perdeva sulla landa sabbiosa,
allagata a vasti tratti dalle piogge dei giorni innanzi. S’affondava
fino alla caviglia: bisognava cercarsi la via con precauzione,
soffermarsi ogni tratto, rifare il cammino a destra o a sinistra,
cercare la via del mare, fidandosi alla direzione del vento. Eravamo
fra gli allagamenti e i monticelli di sabbia, quasi nel mezzo d’una
penisola, in un braccio di terra, tra il fiume e le fosse. Vedevamo
alla nostra destra le vele colore d’ocra d’una barca nascosta sotto la
linea del verde, e nulla era più strano di quella apparizione d’un due
alberi da pescatori in pieno orizzonte di terra.

— Imagini, di notte, quello che ci succede qui, quando andiamo a
montare la sentinella sulla spiaggia! Le guardie di finanza, tanto
tanto, sono pratiche e se la cavano. Noi si perde quasi sempre la
strada. Si gira a tondo per dei quarti d’ora, ci si perde, bisogna
fermarsi, darsi la voce, procedere a tentoni, e si va dentro nelle mote
con gli stinchi.

— Ecco il mare.

Di su la cima d’un monticello ce lo scoprimmo davanti, ce lo vedemmo
ai piedi, lustro e fresco, della più turchina acqua. Anche il mare ha
i suoi mattini di primavera, una tenerezza di colore d’erbe novelle,
sulla quale par che si possa posare il piede per camminare. Ci
accoccolammo sulla sabbia sottile.

                                 * * *

— Stanotte, nulla di nuovo?

Eravamo saliti al semaforo, sul terrazzo della torretta, e conversavamo
col marinaio di guardia. Lassù in alto, fra terra e cielo, egli pareva
la scolta eschilea che vigila sulla torre della reggia di Agamennone.

In mezzo a noi, alto sul cavalletto, un cannocchiale puntava il porto
di Magnavacca.

— Niente di nuovo?

— Si parlava di un incrociatore intravveduto a mezzo la notte, lungo la
costa.....

— Era un piroscafo, il _Maria Grazia_, che veniva da Venezia. È stato
fermo parecchie ore qui davanti, per non incappare in qualche nave
austriaca. Appena s’è fatto un po’ di luce, è ripartito verso Rimini.

(Era il vapore che doveva, due giorni dopo, incappare nella flottiglia
nemica).

— Che dite, torneranno a distribuirci qualche cannonata?

— Può darsi.

Era di quei marinai di poche parole, che hanno l’anima piena di
immensi silenzi, la bocca dura. Passeggiava su e giù per la terrazza,
tirandosi sulle spalle a quando a quando, con una scossetta della
schiena, il lungo cappotto marrone, col cappuccio a triangolo. Aveva i
piedi scalzi, in un paio di zoccoli di legno. Un mezzo abbigliamento
fratesco, quasi una tonaca, sotto la quale appariva la blusa bianca,
aperta abbondantemente sotto il collo.

Allora mi parve di conoscere un soldato, al quale non avevo ancora
pensato: il vigile calmo e tranquillo, che trascorre le ore sulla
torretta di un semaforo, e consuma i giorni, le settimane, i
mesi lontano e diviso da tutto il resto del mondo: l’occhio del
cannocchiale, la pura pupilla che aderisce alla lente.

Certo non è sicura la sua posizione, su quel castello di mattoni. È una
vita in pericolo, specie di notte, quando il nemico viene a strisciare
in vicinanza alle coste. È un uomo su un bersaglio. Ma il pericolo non
ha molta importanza. Ciò che importa e vale è la guardia continua, la
vigilanza monotona, alla quale altri non reggerebbe.

— Non v’annoiate quassù?

Sporse il labbro inferiore, senza dire sì o no. Forse non s’era mai
posto nella mente quel problema della monotonia e della noia della
propria vita.

Vuol dire che non esisteva per lui, non lo soffriva. Ci si era dunque
avvezzo a poco a poco, come il contadino alle linee chiuse del campo,
come l’operaio alle pareti dell’officina, come chiunque di noi si
avvezza col tempo a qualunque stato.

E anch’egli era un soldato in guerra: aveva il suo compito fisso
quotidiano e notturno, la vita in balìa della sorte, e la sua
responsabilità da reggere, senza altre cure, altre inquietudini.
Faceva la propria parte, non si preoccupava di tutto il rimanente della
lontana guerra.

— L’altra notte — disse l’amico mio — avemmo una bella emozione!

Il marinaio sorrise al pensiero di quella notte.

— Eravamo di sentinella tre volontari. Andavamo a montare la guardia
alla spiaggia. Eravamo appena passati di qui sotto, diretti al
mare. Pioveva, pioveva che Dio la mandava. Eravamo infagottati nelle
mantelline e la coperta sulla testa. Acqua di sopra, acqua di sotto,
pareva di essere in barca. Quando si arriva al mare sembra a tutti
tre di vedere dei lumi sulle onde. Dico che erano lumi, mica storie!
E tutti: “Le navi, le navi! Sono qui!”. Contenti eravamo, le dico,
felici! Si speravano cose pazze, perfino uno sbarco, speravamo! I
fucili erano carichi; ci toccammo la cartuccera qui sulla pancia,
esultanti di sentirla piena. Faceva piacere quel peso delle cartucce
qui davanti! Ci distendiamo sulla sabbia, alziamo solo la testa per
vedere. Buio, era buio, e quei lumi si rispondevano sulle onde,
come per segnali che mandassero o ricevessero. Era un colloquio
indecifrabile. Noi s’attendeva con la febbre. Eravamo così eccitati che
sentivamo le mani in sudore.

— Ebbene?

— Non ci abbiamo colpa. Eravamo in tre a guardare e a dirci: “Ma sono
proprio lumi? Guardiamo bene, se mai non fossero lumi”.

— Che cosa erano?

— Era la fosforescenza del mare...

— .....

— Quando ce ne siamo accorti tutti e tre ci siamo dati dei pugni nella
testa, tanti, tanti, per il dispetto, per la rabbia d’essere stati
presi in giro, d’essere stati lì alla bada di qualcuno che non c’era.
Non mangeremo più tanto fiele, lo giuro!

— Che ne dite, marinaio?

— Anche noi, che si legge nel mare, delle volte si sta sopra
pensiero.....

                                 * * *

Facevano contrasto con la calma d’animo di quel marinaio, con la sua
acquiescenza alla sorte, gli altri volontari del plotoncino, fra i
quali ritornai verso il tramonto.

Di una ventina di giovani era il plotone, compagnia curiosa, bizzarra:
uno dei tanti riflessi della guerra. Chè c’erano studenti, figli di
possidenti, braccianti, due calzolai, un muratore, un professore:
gente che qualche mese prima non si conosceva, si frequentava poco,
o si vedeva per tutt’altre cose, o si salutava appena per via. Negli
ultimi giorni e nelle ultime settimane il movimento interventista
li aveva accostati; avevano cominciato a trovarsi gomito a gomito
nelle dimostrazioni, nei comizi, nei serra serra in piazza, quando la
popolazione si rimischiava, e ognuno prendeva la sua parte e il suo
posto.

Tagliati fuori dal richiamo delle classi, s’erano arrolati volontari
nel Corpo dei ciclisti: la stessa divisa, la stessa destinazione, lo
stesso plotone: un’anima sola.

Ma non era difficile, passando qualche ora a conversare con loro,
ritrovare in ognuno l’uomo singolo e il movente particolare. Ciascuno
portava veramente sotto i panni comuni la preoccupazione e passione,
la sorte inalienabile, il segno della sua anima, il destino della sua
vita.

Il professore. Aveva forse trent’anni: alto, magro, cresciuto troppo
e senza muscoli. Un poco anchilosato dalla vita sui banchi e sulla
cattedra, dallo studio pesante e dalle fatiche aride dei compiti.
Portava gli occhiali a staffa.

Aveva preso parte attiva al movimento per la guerra: era sceso anche
lui per le strade a dimostrare, a cercar di arringare; aveva buscato
qualche pugno, aveva cercato di distribuirne. La guerra era stata per
lui un problema, che era maturato lentamente, e che a poco a poco lo
aveva distratto dalla vita contemplativa e portato in mezzo all’azione,
insieme coi suoi studenti e in mezzo agli altri, nuovi, ignoti, che
si agitavano confusamente. Aveva portato un po’ di ragione in mezzo
alla comune passione; era un giovane di studi non larghi, ma seri; che
aveva anche stampato un libro di buona critica sul filosofo e storico
Ferrari. Iscrivendosi volontario, risolveva nel migliore dei modi il
proprio problema intellettuale e morale: per dir meglio, risolveva quel
cumulo di problemi che lo avevano occupato e tormentato per lunghi
mesi: la necessità di una guerra nazionale, di liberazione completa
dall’Austria, di tutti i nostri confini, di tutte le nostre terre e
tradizioni e memorie — la partecipazione nostra alla difesa del mondo
e della civiltà e pace latina, contro i tedeschi, barbari invasori e
strapotenti, turbatori della comune quiete. Da quando era sotto le armi
il suo cervello era in pace.

Per altri, il volontariato era il più bell’episodio della giovinezza,
la più lieta decisione della vita; un non so che di imposto e quasi
necessario, pur nella libertà della decisione presa, dalla forza
dell’età stessa, dagli ancor pochi legami con gli interessi pratici
della vita, dall’esempio di tanti altri. Era bastata una parola del
padre, e il suo consentimento, per andare a firmarsi e partire.

E per altri, era la risoluzione di un puro problema di coraggio.
Siccome c’era del pericolo, dei rischi, avevano voluto andare. Si
sarebbero vergognati di rimanere a casa. Non avrebbero potuto più farsi
vedere all’osteria e al caffè, ai loro vecchi, che ai bei tempi erano
partiti, alle loro donne, che amano il coraggio.

Ed erano tutti lì. Ma, come dico, non tranquilli; irrequieti; volevano
andare al fronte.

Da un mese, ogni volta che qualcuno tornava da una breve licenza, gli
altri gli si facevano attorno, e domandavano:

— Che dicono di noi, a Faenza?

— Cominciano a pensare male. Dicono che siamo qui in villeggiatura. Ci
dànno dei poltroni!

Silvagni, il repubblicano, schizzava fuoco. Gli altri attestavano che a
Faenza avevano ragione di parlare così.

— Noi ci siamo inscritti, perchè vogliamo fare alle fucilate.

— Non vogliamo più starci qui!

— _Me a m’inscriv in tla fantereia._

— _E pu i dis_... (E poi dicono).

— _Cus el chi dis?_ (Che cosa è che dicono?).

— _I dis chi s’è fet vuluntèri d’quii chi n’a mai ciapè tant aedè._
(Dicono che s’è fatto volontario qualcuno che non ha mai cavato tanto
dalla sua giornata).

— E anche questo è vero. Facanapa non ha mai guadagnato tre e cinquanta!

Il povero Facanapa era mortificato. Ma che colpa aveva lui se a
lavorare la pelle delle scarpe non era mai arrivato a guadagnare tre e
cinquanta? Avrebbe esposta la pelle propria anche per meno.

— _Basta chis manda prest a e front!_

Era il ritornello, il principio e la fine d’ogni discorso.

Quelli che erano, se non garibaldini?

O che importa se non avevano la camicia rossa? Io li preferivo vestiti
di panno grigio. Non imitavano nessuno, non volevano far rinascere
nessuna forma caduta: erano garibaldini nell’anima, poichè partiti
volontari e poichè volevano andare al fuoco. Sentivano la guerra, più
ancora che la milizia, amavano lo slancio più ancora della disciplina.
Erano certo più generosi che ubbidienti. Ma solo perchè sapevano
di potere ubbidire a se stessi, di potere fare fidanza nel proprio
coraggio, e negli istinti profondi di bravura che ognuno aveva vivi
entro dì sè.

                                 * * *

Essi volevano “andare alla guerra”, e non si accorgevano che già
c’erano. Poichè la guerra era per ognuno quella interruzione improvvisa
e totale di abitudini: quella partenza e lontananza dalla famiglia
e dalla casa, quella vita obbligata e metodica di tutti i giorni
e di tutte le notti e di tutte le ore; quel dormire sulla paglia,
quell’alzarsi a mezzo la notte per montare la guardia, quel passare
lunghe ore su e giù per la spiaggia, sotto il sole, sotto l’acqua, nel
vento, nel freddo, al buio, nella solitudine, fra la malaria.....

Non era quella una via e un compito di soldati in guerra?

Non era guerra, quell’essere rimossi da ogni solito pensiero e
quotidiana occupazione; quell’essere pronti a tutto e sapere di
servire a tutti, quell’avere il pasto versato in una gamella di latta,
offerta dalla nazione, insieme con la carne e il pane; non era guerra
quell’avere amici e compagni nuovi, quel guardare tutte le cose intorno
con cuore più intenso e con occhio quasi più leggero e staccato, come
cose che si possono lasciare fra poche ore e abbandonare per sempre?

No, non era guerra per loro. Volevano il pericolo continuo, essi, il
cannone, la fucilata, veder la morte in faccia, passarci per quel punto
che par così rimosso da tutte l’altre vie della vita e dai momenti
comuni.

Augurai che il desiderio potesse essere presto soddisfatto. E che fra
qualche giorno essi non fossero più là.

Qualche guardia di finanza li avrebbe sostituiti. E lì presso sarebbe
rimasta, durante la guerra e dopo la guerra, la silenziosa scolta
eschilea della terrazza sulla torre del semaforo, il marinaio dal petto
scoperto e dal capotto marrone col cappuccio a triangolo: l’occhio
tranquillo del cannocchiale, la pura pupilla che aderisce alla lente.




VELE LATINE

                                                   Fano, agosto 1915.


                                                   _A Sante Solazzi._

S’usciva ancora, quella mattina. Una delle ultime. Poichè adesso i
porti e i canali sono chiusi, una catena sbarra l’imboccatura, e le
barche, l’una addosso all’altra, accosciate con le pance sull’acqua,
stanno dentro come greggi di pecore raccolte nello stazzo.

I marinai passano la giornata nelle osterie, picchiano sodo coi pugni
sulle lunghe tavole, giocando alla morra; tracannano il vin cotto, e al
tramonto si vedono tornare a frotte dalle trattorie di campagna, dai
giochi di bocce di Sgarzino e di Carboncino, abbracciati pel collo,
dondolanti, ubbriachi. La vita di terra fa loro girare la testa.

Il sole non s’era ancora levato; l’Adriatico era deserto. Solo una
piccola vela, al largo, luceva come una fiammolina nella penombra
argentea e nuvolosa del crepuscolo: un battello che non era potuto
rientrare la sera, e che andava verso Pesaro, a scaricare il pesce.
Ma poco fuori del porto c’era il battellaccio del Sordo, con la
vela stanca, la prora volta alla spiaggia. Il Sordo aveva passato la
notte fuori, contro l’ordinanza del capitano di porto, e ora voleva
rientrare. Si udivano i colpi regolari dei remi entro gli scalmi; ma
la voga era così fiacca, che il legno, che prendeva una bava di vento
da terra, stava fermo. Da più di un’ora il Sordo vogava, e la sua
vecchia carcassa si curvava in avanti, per risollevarsi, e ricadere
sulle lunghe ali pesanti del battellaccio immobile. Di quando in
quando giungeva la voce: Oooh! Oooooh! Chiamava che venisse qualcuno
a rimorchiarlo. Il suo pareva il richiamo d’un naufrago abbandonato,
lungo e monotono, paziente, d’un sordo che tentasse con la voce di
scuotere dei sordi.

Nessuno gli badava, chè ancora non c’era nessuno sulle calate. Le case
dei pescatori, lungo il canale, erano chiuse; i barchetti legati da
prora e da poppa, dormivano con le vele ammainate, in una quiete così
stanca, che quasi faceva tornare la voglia del sonno.

Più tardi cominciarono a giungere gli uomini, e anche i ragazzi. Con
le camisacce di rigatino, i maglioni di lana aderenti al petto come
corazze, le camicie di colore aperte sotto la gola, i piedi scalzi,
quasi camminassero ancora sul pavimento delle loro camere, fra l’ampio
letto in cui dormono le spose, e i materassi, per terra, su cui i
figlioli si ammucchiano nell’aria greve.

Si mettono le scarpe nei giorni di festa, ma sulle coperte dei loro
trabaccoli piantano i pollici grossi e nocchiuti, le dita che prendono
le corde come quelle di una mano e le stringono, i calcagni che hanno
la cotenna e fanno il tonfo sul legno asciutto e sonoro delle barche.

Cominciavano a venire giù i paroni e i morea, gli uomini di fatica e
di timone; alcuni vestiti come operai che vanno alla fabbrica, senza
nessuna di quelle caratteristiche pittoresche che hanno i marinai
nell’immaginazione della gente di terra che non li ha mai osservati.

Parevano ancora pieni di sonno, quasi corrucciati dal vino bevuto
il giorno innanzi in occasione della festa. Le ciglia penavano a
svincolarsi dall’accapatura; le facce erano dure; un non so che di
lento e meccanico, di abitudinario era nel loro passo e in tutti i loro
atti.

Scendevano nelle barche, passavano dall’una all’altra, scavalcando i
loro bordi che si toccavano; si calavano nei boccaporti per riporre il
fagotto del pane e la bottiglia di acqua o di vino che portavano con
sè.

Poi, man mano che gli equipaggi si completavano, cominciavano le
manovre per uscire; le prime barche calavano le vele, aprivano le
ali colorate al sole che veniva su dal mare, rosso lanternone rotondo
razzante come la luna di prima sera.

E a poco a poco, col moversi delle barche, si scioglievano anche le
lingue in bocca, s’udivano i comandi, gente correva ai bordi, sulle
coperte, s’arrampicava agli alberi, si chinava a far nodi con le
funi; lentava le gomene, le borine, le scotte, tra un dirugginìo di
carrucole, e uno sbattere ancora lento di pennoni contro i legni, e
uno schioccare di velature, chè il vento, verso la bocca del canale,
cominciava a tirare e fioriva le acque di una marezzatura verde.

Erano le parole della manovra, i consueti suoni di ogni mattino; ogni
qual volta la flottiglia peschereccia usciva sul mare tranquillo si
ripetevano, uguali. Nei giorni di maretta erano diversi.

E così dopo gli altri, quasi ultimo nella fila del branco “Il
Risorgimento” uscì anche esso: con Guideo, ritto alla barra; il grande
alto Guideo, che pareva un colosso sulla piccola imbarcazione.

                                 * * *

Ora le barche sembravano una schiera di farfalle sciamanti.

Apparivano le mura della città, di lontano, gli alti bastioni
malatestiani, il mastio della fortezza, dove ora sono le celle pei
carcerati: il camino della filanda; le casette lungo i viali dello
stabilimento; e le strisce lunghe dello spiaggione verso Pesaro da
una parte, verso Marotta dall’altra. Sopra la città parevano pendere i
monti: Monte Giove, con l’eremo dei Camaldolesi deserto; e quando fummo
più al largo avvistammo le forche di Cagli, il passo dei Romani, di
dove giunge la Flaminia, che sbocca sul mare in quel punto per piegare
a sinistra su verso Rimini e le antiche Gallie. Poi la doppia gobba del
Catria e il Carpegna.

                                 * * *

Eravamo a otto o nove passi d’acqua, e Guideo s’era seduto accanto
alla barra; gli altri calati sotto, s’erano buttati sugli strapunti, in
attesa di essere chiamati su per gittare la rete.

— Ecco, fu qui, disse Guideo. L’altra notte ci trovammo con le navi
austriache in mezzo a noialtri. Era buio, credevamo fossero i nostri,
e ci avvicinammo per vedere. Ce ne siamo accorti dopo, che erano loro;
parlavano italiano e ci hanno chiesto se l’acque davanti a Fano erano
minate. Che Dio li fulmini, venivano proprio a domandarlo a noi! Ho
risposto io: “Noi non sappiamo niente”. E quelli hanno continuato
ad avvicinarsi alla costa. C’era il barchetto del Grosso, davanti a
loro, gli hanno detto: “Fatevi in là che dobbiamo tirare sui ponti”.
Si vedevano i cannonieri ai pezzi, e si sentì _buumm_, _buumm_. Che
tiratori sono? Lo vede il ponte sul Metauro? È lungo, no? Ci avessero
cacciato un colpo! Fossero stati i nostri: lo vedeva il bersaglio, dove
andava finire! Ma quelli! E dopo andarono davanti a Pesaro, che anzi
i pesaresi, sentendo le cannonate dalla parte di Fano, erano andati
giù allo stabilimento e alla spiaggia, per vedere lo spettacolo, e
quando videro le navi venire, via tutti a corsa, chi a chiudersi nelle
cantine, chi a prendere la campagna. E _buumm_ _buumm_ anche su loro,
ma non ci sono state disgrazie. Con la ferrovia lì sul mare, non sono
stati buoni a romperla! Io dico che fanno per spaventare la gente.
Ma da noi c’erano le mura piene di uomini e di donne e di ragazzi che
guardavano coi cannocchiali!

Sempre sulle mura sono gli osservatori, i padroni delle barche,
i pescivendoli, gli sfaccendati, i quali coi gomiti appoggiati al
muricciolo, cercano sul mare le imbarcazioni: le conoscono a una a una,
ai colori della velatura, sanno vita e miracoli di ogni equipaggio,
affari di famiglia, gli amori, i fidanzamenti, i matrimoni, le
disgrazie, i guadagni, tutto sanno. E là su in alto chiacchierano come
i vecchioni di Ilio, mentre le paranze arano il mare, e combattono con
le onde e con il vento.

— Adesso — riprende Guideo — è venuto l’ordine di non più star fuori la
notte: si esce all’alba e si rientra al calare del sole.

— Guideo, un sigaro?

Ringraziò, prese il sigaro, lo ripose nella tasca della giacchetta.

— Lo fumo dopo colazione. Adesso salpiamo.

E diede la voce a quelli che erano sotto.

Recarono su la sfogliara, legarono con la sciagola il fondo del sacco,
e messo il timone all’orza, gittarono in acqua le maglie, a bracciate.

Si vide la rete nera stendersi, allungarsi, nuotare a guisa di pesce,
con la larga bocca triangolare spalancata, con la coda guizzante, e man
mano che le si dava la corda dilungava da noi, e affondava nell’acqua
chiara. Finchè non se ne vide che l’ombra, poi più nulla: la fune fu
lasciata correre fuori del bordo e _Il Risorgimento_ riprese l’andatura
sua tranquilla, sotto il vento che rinforzava.

Anche gli altri avevano gittato la rete, e la flottiglia sparsa sul
mare procedeva più lenta. Ora i battelli sarchiavano il fondo del mare.

                                 * * *

Tutti gli uomini tornarono sotto, fuori che Andrea e Remigio. Remigio
aveva preso il posto di Guideo, alla barra, e parlava della guerra.

Aveva avuto un nipote sull’_Amalfi_, che s’era salvato a nuoto, e
adesso l’avevano mandato al fronte sull’Isonzo, con le batterie di
marina. Dopo l’affondamento dell’incrociatore, Remigio aveva avuto una
lettera dal nipote, in cui diceva che la vita era salva. Ma un altro
di Fano, che aveva un figlio sulla nave, era andato a Venezia ed era
tornato recando le notizie dei compaesani e i saluti alle famiglie.
Tutti stavano bene.

Parlava della guerra con la calma di un uomo di mare, che quasi non
conosce il valore del tempo, che sa attendere, che non ha fretta.
Parlava della guerra come un povero uomo del popolo, che sa di non
capir nulla delle cose che si fanno tanto lontano da lui. Non era mai
stato soldato sulle nostre navi; ma aveva sotto le armi una quantità
di nipoti e di figli, che gli avevano lasciato in custodia le loro
famiglie.

— Quanti anni avete, Remigio?

— Ho cinquantott’anni sulla vita mia, e un mucchio di ragazzi da
mantenere. Quello è uno, vede? È il figlio di una mia figlia. Gli fa
male il mare.

Il ragazzo stava accucciato sulle tavole, con la faccia sugli
avambracci, a pancia sotto, e non si moveva: come fosse inchiodato nel
sonno.

— I guadagni son pochi: e mangiare bisogna mangiare. Finchè c’è la
salute, si va avanti, ma babbo ha da pensare a tutti.

Il babbo era lui: babbo dei babbi, che aveva cinquantotto anni “sulla
vita sua”.

— Con questa vita faticata, li portate bene.

— Si fa adesso un po’ di vita faticata, che siamo pescatori: prima
della guerra si navigava. Caricavamo legname. Tutti i porti di là erano
nostri: da Monfalcone a Trieste, a Zara, a Corfù. Tante volte ci siamo
stati. Adesso s’è disarmata la barca grande e abbiamo preso in cinque
questo barchetto, tanto per campare. Ma di giorno si pesca poco; al
largo non si può uscire; in capo alla settimana ci spartiamo qualche
decina di lire.

Tacque, l’occhio rivolto alla prora. Ci passava dinanzi tagliandoci la
strada il barchetto di Sbroccaseppie, vele rosse coi trezzi bianchi.
Sulla coperta non c’era che il timoniere: alto, diritto, i gomiti
appoggiati alla grossa barra:

— Oooh!

— Oooh!

Si passavano la voce da un legno all’altro, e ognuno continuava pel suo
cammino.

Il sole era alto nel cielo; diffondeva sul mare una sonnolenza greve,
cullata dallo sciabordare delle onde contro i fianchi neri del legno.

Di sotto le palpebre socchiuse vedevo Andrea che rattoppava la rete
della sfogliara piccola: il lungo ago di legno entrava e usciva di tra
le maglie colorate in rosso rugginoso.

Verso le undici ci mettemmo contro vento per fare la prima mano.
Avevamo pescato una cesta di sfoglie e di roscioli.

Guideo tirò fuori il coltello e preparò il brodetto. S’erano portati
con noi due fiaschi di vino e mangiammo con poche parole, all’ombra
della maestra.

                                 * * *

Ora Guideo s’era rimesso al timone, mentre il vento rinforzato
trascinava il barchetto e le due sfogliare. Gli altri erano scesi
a fare la dormita lunga sui ranci di sotto coperta, dopo il pasto.
Accanto al pilota era rimasto Remigio, con la pipa in bocca.

E Guideo, messo un po’ su dal vino, canticchiava: Bella Fiume e bel
Trieste.

Anche lui conosceva i porti di là dal mare: anzi, lui meglio degli
altri, benchè fosse più giovane, ch’era parone. E aveva nella sua
cabina la “geografia”.

Voleva dire l’atlante, le carte di navigazione.

C’era stato tante volte di là, presso quelle “ostie di slavi e di
tedeschi” con la sua barca vagabonda.

Conosceva i nostri nemici, perchè li aveva veduti sulle calate e nelle
osterie, li aveva incontrati per le strade di Trieste e per le isole
dalmate. Aveva assistito alle risse fra loro e i nostri.

— Bisogna vincere, adesso, se no sarebbe il caso di non farsi mai più
vedere di là!

— È una questione d’onore — dice Remigio.

— A me pare una questione di vita — corresse Guideo. — Se non si vince
siamo morti.

— Hanno da morire loro, hanno.

— Questo è sicuro. Ma hanno tutti quei buchi di là, che ci dànno da
fare.

— Quali buchi, Guideo?

— I buchi, no? Non è tutta buchi la marina loro? Si nascondono come
la grancelle attorno agli scogli. Noi altri abbiamo tutta la marina
aperta, ma non fa niente. Verrà il giorno che li cacciamo anche da
Pola.

— Se ha da venire! — disse Remigio. — Avessi da andare anch’io, avessi:
e poi non m’importerebbe niente andare a fondo, viva la Madonna! Tanto
per quattro giorni che s’ha da vivere..... Per correre il pericolo di
morire in America, è meglio morire qui!

— Siete stato in America, Remigio?

— Quando ero giovane. Ci ho quasi lasciato la vita per le febbri: e una
volta ci lasciavo i quattrini, ch’era peggio. Mi fecero prendere una
sbornia in un’osteria, avevo cento scudi in tasca, e me li son trovati
la mattina dopo tutti acciaccati: ho avuto tanta paura che sono andato
subito alla posta e li ho spediti a casa.

Era il tipo del nostro emigrante, che lavora e s’arrapina e fa la
fame, ma mette insieme il suo gruzzolo col quale torna in patria, e
si fabbrica la piccola casa sulla spiaggia del mare, o si fa fare un
barchetto per navigare.

Era anche uomo di lettere. A forza di leggerla aveva ormai tutta nella
mente la “Storia dei Reali di Francia”.

— Remigio, raccontate un po’.

— Cosa vuol che racconti io, lei la saprà meglio di me.

Io no, non la potevo sapere meglio di lui. E lo lasciai raccontare.
Parlava di Fioravanti e di Carlo, diceva che allora si combatteva solo
ad armi bianche.

Ma Guideo, scettico, rideva ogni tanto. Non abboccava a quelle favole.

— Adesso — diceva Remigio — non si crede più a niente. Una volta
eravamo più stupidi. Lasciamo andare.....

Guideo lo incitava:

— E bada a contare, bada.

— A vedervi ridere, mi vien da ridere, come ho da fare? Basta, allora,
Fioravanti, seppe che c’era un gran torneo per trovar marito alla
figlia del re.....

                                 * * *

Calava il vento, era l’ora che le barche riprendono la strada del
porto. La terra sfumava laggiù in contorni vaghi, con molto rosso
di sole calante. Il mare s’era fatto mosso: un mare lungo, con onde
che venivano al galoppo e _Il Risorgimento_ con le sfogliare legate
rullava, con lo scroscio del suo legname pesante.

Gli altri cominciavano a salpare, salpava _Mamulòn_, il _Biagiolo_,
_Lipin_, più vicini a noi. Salpammo anche noi, lasciata la prora al
vento.

C’impromettevamo una pesca bella; il vento avendo tirato forte fin
dalla mattina.

Ma Guideo:

— Ragazzi; siamo andati! I _dulfin_!

Cercammo sul mare i grossi bestioni che tengono dietro alle reti per
bucarle e divorare il pesce.

— Eccone uno.....

— Due.....

— Quattro.

Eravamo inseguiti da un branco. Erano a tiro di voce dalla nostra
barca, ma non si scomponevano, venivano dietro senza paura.

A uno a uno, a due a due uscivano con l’arco della schiena dall’acqua,
si rituffavano col testone nero, a capofitto, s’immergevano veloci come
siluri, scomparivano, per ridar fuori di lì a poco con un soffione e
una capriola. Andavano al fondo a bucare il sacco e parevano tornare su
per inaffiare la bocca con uno sbruffo di schiuma. Le loro groppe nere
si paravano come un bersaglio, a poca distanza. Ci inseguirono fin che
le reti non furono ritirate, poi scomparvero.

E noi, quando tirammo su i sacchi, trovammo due enormi strappi e tra un
mucchio di fango qualche libra di pesce.

— Ecco la giornata nostra — disse Guideo, allargando le braccia. —
Anche i delfini ci fanno la guerra.

Lasciata agli altri la cura di lavare e spogliare il poco pesce,
afferrò la barra per imboccare il porto.




UN DOTTORE

                                                      Settembre 1915.


                                                _A mio zio Giovanni._

S’era laureato a Modena nella sessione di maggio; subito era stato
chiamato al Distretto come sottotenente della Sanità. Non aveva
ancora fatto il dottore, e non aveva mai fatto il soldato: entro le
ventiquattr’ore dovette equipaggiarsi e partire pel fronte.

Bene, si parte! Lo accompagnammo nei giri per i negozi: la divisa, la
sciabola (la rivoltella l’aveva: un vecchio macchinone che arrugginiva
in casa entro un armadio), i gambali, la cassetta; non ricordo quante
altre cosucce. (Ah, gli stivali: grossi, morbidi, gialli, con le lunghe
stringhe rotonde, di cuoio, il suolo imbullettato, stridente, sonante
sulle mattonelle rosse del negozio). A me non sarebbe bastata una
settimana, a mettere insieme il corredo. Io sono un buono a nulla in
queste occorrenze. Egli provvide a tutto rapidamente, ordinatamente con
quel fruttuoso genio dell’organizzazione, che rende così notevole un
uomo per tante altre parti comune. E che è, sovente, fondato su qualità
di osservazione diretta e precisa, che pochi hanno.

Il nostro Enrico le ha. Non molte parole, immaginazione anche meno,
niente poesia; ma Enrico osserva. Ha certi occhi di miope, cauti
insistenti che non lasciano le cose se non dopo averne portato via i
contorni. Vorrei avere io una retina sulla quale gli oggetti restassero
incisi così a fondo. Gli stanno disegnati nella memoria per anni e
anni, per sempre.

Glielo ho detto tante volte: Se tu avessi ingegno letterario, potresti
fare lo scrittore. Ma alla licenza liceale fu bocciato in italiano.

Non importa. Il fatto è che in maggio prese la laurea; e partì con un
battaglione per la guerra.

— Vedete come tutto s’accomoda — dicemmo noi. Ci siamo tante volte
preoccupati di lui e del suo avvenire. Quando avrà presa la laurea,
che farà Ernesto? Concorrerà a una condotta di campagna, e andrà a
seppellirsi fra i monti? Ci siamo presi fastidio per nulla. Ecco che
dalla mattina alla sera egli è a posto.

Dio mio, non che fosse un ufficiale brillante. Gli ufficiali brillanti
vanno bene in tempo di pace (nei salotti, nelle sale da ballo,
nei concorsi ippici). In tempo di guerra ci vogliono anche i buoni
borghesi, i borghesi solidi, quadrati, massicci, che non hanno nulla di
brillante e di “militare”, e che rappresentano così bene la nazione che
combatte, che coopera, sotto il panno grigio dell’esercito, sotto le
mostrine innumerevoli delle varie armi. Il nostro esercito che combatte
è quasi tutto così.

Il nostro Enrico è in un reggimento di fanteria, di una classe di
richiamati. Fino alla vigilia erano borghesi anche i suoi soldati.
Quando partirono, i portaferiti erano forse meno allenati del loro
sottotenente alle fatiche del campo. Erano tutti vestiti allo stesso
modo, ecco l’importante. Tutti con lo stesso zaino, lo stesso fucile,
la stessa mantellina, e lo stesso numero di reggimento sul davanti
del berretto. Erano “quelli del 161”: un bel numero progressivo, che
fa pensare a una distesa massa di uomini, a una spianata immensa, su
cui brulichino centinaia di migliaia di uomini incolonnati. La terra
scompare sotto la marea d’armi e d’armati.

Il dottore ha buona gamba. Da quattro anni è della _Sucai_; ha fatto
tre campi in alta montagna; è cittadino emerito di tre Tendopoli.
S’intende di gite in montagna, di vita in montagna, di tende e di
cucina, di sacchi e di zaini, di piccozze, un poco anche di sci.

E il suo reggimento partì proprio per l’alta montagna.

Dunque:

Studente — sucaino; dottore — ufficiale.

Sano. Robusto. Buono, cordiale. Servizievole. Paziente. Senza nervi.

Piemontese.

No, non faceva “un brillante ufficiale”. Ma molto di più.

                                 * * *

Ora sono passati quattro mesi. Durante i quali ci ha scritto più
volte la settimana, lettere e cartoline. Cara mamma, care sorelle,
caro Luigi. Ne abbiamo un pacchetto, di sua corrispondenza. Come oggi
tutti ne hanno in famiglia. La mattina, la prima cosa che si chiede
al postino è la lettera dal fronte. E si sta bene tutto il giorno. Si
legge e si rilegge, se ne parla, si commenta.

Ognuno segue il suo caro, lontano. Lo si pensa e lo si vede. Lo si
colloca con l’immaginazione in un paesaggio, che è poi tutto di nostra
invenzione; in una cameretta così e così, fabbricata da noi, con la
finestra che guarda su un prato, su una strada, su un fiume, verso
una montagna; o sotto una tenda, in un bosco di pini, o di faggi, o di
abeti, o tra i macigni, in mezzo alle rupi, sul dente di una cresta,
in mezzo alle altre tende, vicino ai carriaggi, non lontano dai muli;
e più oltre un parco d’artiglieria, e una staccionata pei buoi della
sussistenza.

Ogni lettera che arriva di lassù, reca qualche particolare, che si
aggiunge ai precedenti: e compie il quadro. Un quadro che si finisce
col vedere quasi con gli occhi della fronte: tanto ci si fissa; tanto
ci si pensa di giorno e di notte, a occhi chiusi, non meno che a occhi
aperti.

                                 * * *

I primi giorni, era l’avanzata. Andavano a cercarsi il proprio posto.
Si ricevevano cartoline più che lettere; non c’era tempo per scrivere a
lungo; le cose erano un po’ sottosopra. Tutto era nuovo, le abitudini,
la compagnia, i doveri del servizio. Un po’ di smarrimento, un po’ di
stanchezza.

Quello che più mi piaceva nelle sue lettere era l’assenza di idee.
L’uomo che non pensava che al suo posto, al suo mestiere, alle piccole
cose che riguardavano proprio lui, alla sciabola che era forse inutile,
alle scarpe che facevano un po’ male, a qualche lieve incidente. Era
proprio l’uomo senza crisi, senza impazienze e preoccupazioni e anche
senza facili ebbrezze: semplice, queto, e parco di emozioni; direi
economico. Ma appunto per questo, buono alla guerra, alla guerra lenta,
lunga, che in molti consuma prima ancora lo spirito che il corpo.

Tutta la sua cura era nel mettersi a posto, nel divenire un piccolo
dente dell’enorme ingranaggio. “Mi sto ingranando, scriveva, e non mi
riesce difficile. Anche in guerra si è uomini come in pace. E io sono
un dottore, al seguito di qualche centinaio di clienti. La mattina
passo la visita, vedo qualche lingua sporca, distribuisco qualche
pozione di olio di ricino. Come vedi, comincia bene”.

Di tappa in tappa egli, con i suoi uomini e le carrette, seguiva
il battaglione. Una notte si persero. Il battaglione era andato
avanti, il dottore doveva raggiungerlo. A un bivio dovevano esserci
le segnalazioni, e non c’erano. Si fa un piccolo _alt_, e si tiene
consiglio. La notte è buia, si staccano le lanterne dai carri, si
esplora la massicciata, prima a destra, poi a sinistra, per sorprendere
le peste del reggimento. Ma c’erano segni di un passaggio recente da
una parte e dall’altra. Si chiama ad alta voce: Olà sentinella! Nessuno
risponde. Intorno non c’era che buio denso, che pareva appiccicato come
una vernice nera e spessa a tutte le cose, ai fossi, alle siepi, ai
campi, alla terra, al cielo. Un buio che empiva la notte, come il vano
di una grotta, e teneva fermi quei dieci o dodici uomini, accanto alle
carrette: fermi come i cavalli, che pareva si fossero addormentati.
Adesso che la strada non li guidava più, qualcuno s’era seduto per
terra, attendeva la decisione dagli altri, contento che non ci fosse
più un comando, perchè non c’era la possibilità di un comando.

(Erano i primi giorni di guerra; molti soldati ancora pigri; qualcuno
pieno di malavoglia, di disinteressamento, con un po’ di egoismo, con
un po’ di piccola cattiveria. Non gli dispiaceva vedere il superiore
nell’imbarazzo; non gli dispiaceva non aver trovata la sentinella al
suo posto. Un esercito è una macchina, di proporzioni enormi. Ci vuole,
a metterla in moto, qualche po’ di tempo. Poi tutto cammina).

E il dottore disse:

— Chi di voi vuole andare per quella strada, a vedere, a domandare? Ci
dovrebbe essere qualche sentinella più su.

Nel gruppetto intorno all’ufficiale tre o quattro si guardarono in
faccia senza parlare. Il sottotenente capì che nessuno aveva voglia.
Avrebbe potuto dare un ordine, non lo diede. Disse:

— Staccatemi un cavallo, vado io.

Glielo sciolsero dalle stanghe, lasciandogli in dosso tutti i finimenti.

L’ufficiale saltò sulla groppa, impugnò le redini, si volse per dire:

— Non movetevi finchè non sarò tornato.

E partì per una delle due strade, nel buio, solo, al trotto.

E andò, andò, senza incontrare nessuno, sempre salendo la costa di un
monte, senza sapere dove riuscisse la strada.

Trottò per più di mezz’ora. Poi per un’altra mezz’ora. Gli venne il
dubbio di avere perfino passato il confine. Ogni tanto portava le mani
all’anca destra: la busta della rivoltella gli dava una sensazione
gradevole nel buio tutto uguale, e avanti ancora. Finalmente, un: Alto
là! Chi va là! — Ufficiale. — Che ufficiale? — Ufficiale della Sanità,
italiano. — La parola d’ordine. — Mi sono perso. Dove siamo? — Al forte
di..... — Ebbene, ho sbagliato strada. Conducimi al forte. Era salito
al forte, dove fu accolto con sorpresa, e un ufficiale gli spiegò
dinanzi agli occhi una carta. Era l’altra strada che doveva prendere.
Risero, sturarono una bottiglia, e poi di nuovo in groppa, e giù verso
il crocicchio.

Aveva trovato i suoi soldati pieni di ansia. Avevano temuto per lui,
l’avevano immaginato prigioniero, dopo due ore di attesa. Il fatto è
che avevano ammirato il suo coraggio, si vergognavano, adesso, di non
essere andati loro, di non averlo accompagnato.

“Un’altra volta non mi lasceranno andare solo — ci scriveva nella
lettera in cui narrava l’avventura. — Per questa, mi basta di aver loro
dato una lezione, senza bisogno di sgridarli”.

Da allora i soldati cominciarono a volergli bene, a sentirsi legati a
lui, a capire che in guerra bisogna stare insieme, essere d’accordo,
sentirsi tutti uniti, aiutarsi sempre. Come, del resto, in qualunque
occorrenza difficile della vita.

                                 * * *

In luglio andai a trovarlo. Quando giunsi al paese dove il battaglione
doveva essere accantonato, seppi che questo era partito da mezz’ora
per una località più avanzata, che a me non era possibile raggiungere.
Dovevo dunque rinunziare a vederlo. Tuttavia provai a spedirgli
un biglietto, per un ciclista che pedalava verso quelle parti. Lo
avvertivo che l’avrei atteso ad Asiago fino a sera. Gironzolai
per il paese tutto il giorno, m’imbattei in parecchi conoscenti
ed amici, coi quali si parlò di tante cose, e anche di lui. Poichè
tutti lo conoscevano, di nome e di persona e di fama: il dottore del
battaglione, allegro, servizievole, bonario, che si prestava a tutto, e
non diceva no a nessuno: che aveva fatto perfino l’ufficiale di mensa.
E verso sera lo vidi venir giù per la bella strada bianca, inforcato
sulla bicicletta; gli tesi le braccia, ci scambiammo due baci, come
fratelli.

E quella notte non si dormì. All’alba egli doveva essere di ritorno, io
dovevo ripartire.

Domande e domande, una dopo l’altra: con una curiosità di notizie, di
impressioni, che pareva una sete; ed egli mi dissetava. Parlava, come
suo costume, lento e un po’ monotono, senza scatti, senza vivacità;
calmo, continuo, inesauribile, sicuro, preciso, pieno di cose, di
fatti, di osservazioni, quasi senza giudizi, senza personalità, ma
di quel che diceva ci si fidava, perchè non era un intellettuale, nè
un che cedesse alle impressioni sùbite, ma un ragazzo senza nervi,
che guardava gli uomini come avrebbe guardato le cose, che guardava
i morti in faccia come guardava i vivi, senza impallidire. Quando si
sono sezionati, sulla tavola anatomica centinaia di cadaveri, centinaia
di “pezzi”, si fa un’anima buona a tutte le circostanze, anche alle
peggiori: si sa che alla morte bisogna arrivarci, e che più in là della
morte non si va. La cosa è diventata semplice, e senza sorpresa.

Non era ancora stato in trincea: non poteva dire che cosa è la guerra
per chi combatte; ma raccontava la guerra di chi si prepara, di chi
si allena, gli episodi della vita di accantonamento, i fatterelli
della mensa, le caratteristiche dei compagni, le parole e l’anima dei
soldati, la vita sotto la tenda, la sua preparazione al grave compito
che lo attendeva, parlava dei mezzi che aveva a propria disposizione
come dottore, dei portaferiti, delle barelle, dei medicinali, dei
rifornimenti e d’altre cose; ma solo di quelle che aveva vedute lui,
che erano la sua esperienza di due mesi.

Io cercavo di capire se la vita militare l’avesse mutato: e in che cosa
l’avesse mutato. Lo ritrovavo sempre uguale, sempre lui. Solo che la
sua opera pratica s’era organizzata, ora, intorno a un dovere, a uno
scopo, a un fine: ed egli era un uomo utile, era la parte di un tutto;
aveva un compito e una responsabilità che lo ingrandiva ai miei occhi,
lo ingrandiva agli occhi dei colleghi. Era il dottore del battaglione:
a lui erano affidate delle vite, dalle sue cure avrebbero dipeso
le sorti di chi sa quanti feriti, la riconoscenza e il sorriso o le
lacrime di chi sa quante famiglie.

Tutto questo egli non lo diceva, forse non perdeva tempo a pensarlo:
ma lo _sapeva_, perchè lo sentiva dentro, accettando la guerra per
quello che è, non scherzando sul proprio ufficio, pieno di una serietà
che non si espandeva in parole, che era una cosa sola con la sua anima
silenziosa, naturale, profonda.

Rinasceva in lui, nell’occasione della guerra, il morto nonno materno,
che era stato dottore del piccolo suo paese natale, che era stato
cinquant’anni prima il “medico” per antonomasia, di una terra di
fittavoli e di borghigiani; che aveva vissuto fino ai settantasei anni
fra gli ammalati e i poveri; che aveva tenuto una condotta vasta come
una regione, correndola a sella dalla mattina alla sera e di notte, a
qualunque ora, per qualunque tempo; che rompeva le reni a tre cavalli
il giorno, per raggiungere, là nelle langhe del Monferrato, per le
scarpate dei colli, per i sentieri, i cascinali più remoti; che era
rimasto, dopo la morte, un mito, per la gente del popolo. Sepolto
quello, non ce n’era stati più di medici come lui: ne erano venuti
su altri, molti, che tutti insieme non facevano le sue fatiche e non
ritiravano indietro, quanti erano, tanti, vicini a morire.

                                 * * *

Finalmente sapemmo ch’era in trincea, sotto il fuoco, e lavorava anche
lui di zappa e di badile. Lo vedemmo, con la fantasia, rannicchiato
nella sua buca; tutto caldo nei maglioni e nelle calzature di lana
che gli avevamo spedite. E cercavamo sulla carta il posto avanzato nel
quale egli era col suo battaglione. Egli segnava con la sua persona un
punto del nuovo confine d’Italia!

Ed ecco, l’altro giorno, una gran lettera: la descrizione di un assalto.

  “Cara mamma,

“Mi trovo qui davanti un mucchio di vostre cartoline e lettere, che
rilessi e alle quali rispondo cumulativamente con questa mia. Molte
volte ho cominciato lettere, e non ho potuto continuarle e finire:
per scrivere bisogna avere almeno un paio di ore di tranquillità e di
libertà. Tranquilli non si può essere mai, liberi non s’era nemmeno
nei così detti giorni di riposo, quando tutti i giorni c’erano marce o
tattiche o finti combattimenti.

“Eravamo nel paese di C....., vicino ad A.....; i soldati erano
accantonati, ossia alloggiati nelle case, gli ufficiali sparsi per gli
alberghi. Poi, come vi scrissi, siamo tornati su al fronte, e lì si
fece servizio di trincea, un po’ in prima linea e un po’ indietro.

“Ci fu un gran bombardamento di tutte le artiglierie per varii giorni
e notti, nella sera del..... scorso siamo andati avanti verso il forte
di..... Arrivammo nel bosco di.... che lo fiancheggia, a notte fatta:
ci accompagnava l’artiglieria da montagna. Eravamo in due reggimenti;
il mio, e precisamente il 1º battaglione doveva andare avanti nelle
prime ore del mattino. Ho impiantato il posto di medicazione in
una valletta il più avanti possibile, per abbreviare la strada ai
portaferiti, che seguivano il 1º battaglione, e che hanno l’incarico di
sgombrare il campo dai caduti per portarli ai medici. Fra gli alberi
si vedeva bene la pianura, ossia una serie di collinette, di vallette
con erba alta, ortiche, cardoni, scavate qua e là da grandi buche fatte
dalle nostre artiglierie. Una stradetta di campagna l’attraversava, poi
dei muretti a secco, qualche larice qua e là, da una parte il forte,
davanti a lui i reticolati; dall’altro il..... collina che sembra un
panettone, tutta trincee e reticolati, forse tutta gallerie e mine; più
in alto ancora c’è un monte, lo..... anche lui col suo fortino.

“C’era una bellissima luna e pareva di essere in pieno giorno. Finchè
siamo stati nel bosco al coperto, arrivavano cannonate in alto, con
nessun danno. Parevano treni diretti che fischiassero in lontananza. Ma
poi si accesero qua e là riflettori: uno dal monte frugava in basso,
il forte si illuminò con un altro riflettore; le sue trincee erano
segnate da tante lampadine, e pareva di vedere una nave illuminata
in mare. Andarono avanti i soldati guastatori, che devono tagliare
o far saltare con tubi di gelatina esplosiva i reticolati, e cadde
subito il tenente che li guidava. Ai primi tagli dei fili spinati,
siccome ci sono i fili elettrici, i soldati hanno sentito squillare
anche le sonerie elettriche nelle trincee del forte. Si vede che
frammischiati al reticolato ci sono linee di campanelli: il soldato
di notte non le distingue, le taglia, avviene il contatto, e il suono
dà l’allarme. Io dal bosco vidi inalzarsi dei razzi verdi luminosi,
e poi subito funzionarono le mitragliatrici, che scoppiettano come
motociclette. Sono pericolosissime, poichè si sa che dove battono
tagliano addirittura l’erba. Ogni tanto sparavano, poi tacevano;
non si vedevano, naturalmente, e si andò avanti. Albeggiava quando
arrivarono i primi feriti, a piedi e in barelle; poi il numero andò
man mano crescendo, e noi due medici non bastavamo più, e chiedemmo
aiuto dei medici del 2º e 3º battaglione, che stavano nel bosco,
di rinforzo al 1º battaglione, che avanzava. Quando ci dissero che
quattro ufficiali erano feriti, io lasciai il posto di medicazione
e sono sceso coi caporali di Sanità e col padre Marcello sul campo.
Allora non pensavamo al pericolo, ma vi assicuro che andare avanti
allo scoperto era un affare serio. Ogni uomo, o sano o ferito, che si
movesse era un bersaglio alla artiglieria da montagna nemica, e alle
mitragliatrici e ai pochi, ma buoni tiratori scelti. L’artiglieria
fa poca paura, ma sentire le pallottole di fucile e di mitragliatrice
passare rasente il corpo, ripararsi distesi contro i tronchi abbattuti
e sentire i proiettili piantarsi nel legno (ne ho estratti due come
ricordo), o ripararsi in una buca fatta dai cannoni e non poter più
uscire perchè sulla testa ti inaffiano colle pallette di _shrapnel_,
non era certo piacevole. Pure se si stava fermi tanto valeva ritornare
indietro, e allora sono saltato fuori e di corsa ho raggiunto un muro,
e trovai un tenente col petto trapassato, e fu portato al sicuro. Più
in su, in una buca da proiettili, s’era fatto portare il sottotenente
Bortolotti, di Torino, ferito in più parti, alle gambe e all’inguine
(ma non grave). Il frate andava a vedere i più gravi, i portaferiti
li trasportavano su nel bosco per farli medicare, e poi cercammo gli
altri due tenenti feriti, ed io non li trovai. Furono scoperti dai
miei caporali. L’aiutante tenente Cena, col braccio stroncato da un
proiettile d’artiglieria, e il tenente Zineroni (c’è l’annuncio di
morte sulla _Stampa_), di Torino, direttore dei tramvai (crivellato
di ferite), furono portati su ai medici. Anch’io allora mi ritirai, e
mentre medicavo il povero Zineroni, gli altri colleghi colle forbici
amputavano, o, meglio, staccavano i pochi brandelli del braccio.

“Venne così il mezzogiorno. La sezione di Sanità portò via man mano i
medicati; i morti venivano allineati e riconosciuti; poi si ritirarono
le truppe che andavano avanti, e finite le medicazioni ci riposammo
nel bosco. Il fuoco cessò, il più bel sole illuminava la scena molto
triste, ed io mi sono addormentato, armato, e col sacco da montagna
sulle spalle e il binoccolo a tracolla, là sull’erba. Verso le 2 il
colonnello ci fece avvisare che si vedevano nel campo i morti, e forse
ci potevano essere dei feriti. Chi voleva andare poteva seguire la
bandiera della Croce Rossa, col P. Marcello, cappellano. Sul forte e
sul..... gruppi di austriaci guardavano in giù, e pare che anche loro
raccogliessero i caduti. Così partii col dottor Martina, col frate, tre
caporali e non so quanti portaferiti, e siamo scesi giù e si cominciò
la ricerca.

“La bandiera fu piantata il più visibilmente possibile, e nessuno
pensò che un colpo ben mirato poteva troncare la nostra opera di
misericordia. Ricordo che appena io spuntai sulla cima della prima
collinetta avanzò una lunga fila di dispersi; camminavano a quattro
gambe e avevano abbandonate le fossette che s’erano scavate. Erano
soldati che, spintisi avanti o rimasti indietro mentre si ritornava
al mattino, non avevano più raggiunta la loro compagnia, e riunitisi
in gruppetti, stavano, secondo loro, trincerati nelle buche o dietro
i sacchetti pieni di terra, e aspettavano la notte per ritornare
nelle loro file. Vista la bandiera, che il sole illuminava e il vento
teneva ben spiegata, ci vennero incontro e si posero in salvo. E noi
continuammo a battere il terreno. Non vi descriverò quello che abbiamo
visto. Il nemico per noi almeno fu leale, ci sorvegliò certo, ma ci
rispettò, e non fece che il suo dovere.

“Raccolsi i feriti, e ne abbiamo trovati molti che, caduti nelle prime
ore del mattino, erano lassù impossibilitati a muoversi, invocanti
di essere portati via. Benchè non fosse mio compito, col carico della
barella, aggiunsi le armi e le munizioni, il restante materiale, bombe
di dinamite, pinze per il taglio dei reticolati, vanghette, tascapani
per viveri di riserva per due giorni, e il carico di cartucce e
baionette fu da noi ammucchiato e coperto con le mantelline. Quando
credemmo di non aver lasciato feriti o morti al nemico, mentre calava
il sole, rientrai al battaglione col caporale che portava la bandiera e
con un portaferiti. Non so perchè, ci fu tirata una fucilata, e subito
uno _shrapnel_ scoppiò alla nostra destra, un 300 metri troppo avanti.
Si allungò il passo, raggiungendo il bosco, e per quel giorno avevamo
fatto tutto il nostro dovere.

“I battaglioni si posero sulla via del ritorno: io restai cogli
zappatori, e in buche avvicinate seppellimmo i morti della giornata.
Io portai in un sacchetto le carte trovate addosso ai caduti ed
il piastrino che ogni soldato tiene cucito alla giubba, col nome e
cognome, matricola e Distretto, coll’anno di leva. Scendemmo nella
valle e ci fermammo in seconda linea.

“Il 26 fui occupato con gli altri medici e col dottor Ferrero a
compilare l’elenco dei feriti, dispersi e caduti; poi vi scrissi che
si andava al mattino del 27 al......., a raccogliere i morti di un
altro reggimento. Difatti alle 5,45 io mi sono presentato al Comando,
ma consultato anche il Comando della nostra Brigata, col pericolo di
restare noi pure sul campo o di essere catturati, si rinunciò. Da quel
giorno, nessuno di loro è uscito.

“Abbiamo notti fredde (4-3 gradi sopra zero) e giorni molto caldi. Da
stamattina, alle 8, piove. Ora siamo qui aspettando un po’ di riposo.
È dal 26 maggio che battiamo i monti e i boschi. Di salute sto bene. Ho
molto da fare, non tanto per servizio di malati, perchè sono le solite
indisposizioni, i feriti sono già tutti ai varii ospedali, più verso la
pianura.

“Scrivo male per essere appoggiato sulla mia cassetta, sotto un
ricovero poco umano, mentre piove.....”.

                                 * * *

Quando il nostro Enrico ritornerà, ve ne trascriverò altri di questi
suoi racconti di guerra.




SULLE TERRE INVASE

                                         Fronte dell’Isonzo, gennaio.


                                                    _A Giulio Bechi._

Si entra nel gran movimento che empie le strade subito dietro il fronte.

L’occhio che posava sulla campagna, monotono, vago, come sperso nella
noia del paesaggio invernale, solo richiamato a un senso di vita dal
frullo di un passero, dal saluto di un cantoniere, si volge ora verso
nuovi aspetti. La corsa comincia a risentirsi della via ingombra; si
rallenta, si sosta; la sirena lancia lontano, a ogni nuovo intoppo
che appare, lo squittio lacerante, il grido rabbioso della velocità
frenata.

Ci si accorge a un tratto che i segni della vita normale sono scomparsi
intorno a noi.

Gente in panni borghesi s’incontra sempre più rara: operai col
bracciale rosso, appartenenti al Genio civile, due vecchierelle sole
su un lento carrozzino, un crocchio di monelli sulla proda di un
fosso. Oppure un impresario, addetto ai lavori, che sul davanti di un
autocarro mette la nota nera del cappotto fra il grigio delle divise
militari. Rari mortali, forniti di uno specialissimo salvacondotto,
ogni tanto si vedono fermi a una stazione di carabinieri, alla
testa di un ponte, e tirano fuori le carte, fra le baionette di due
territoriali.

La rarefazione dell’elemento borghese è quasi completa. Vecchi mezzi
di locomozione, che paiono venuti fuori dal fondo di un magazzino,
avanzi arcaici di famiglia appaiono di quando in quando, attacchi
lillipuziani, vasti soffi patriarcali, antiche berline, un leggerissimo
_sulki_ sulle ruote di gomma: arnesi risparmiati dalla requisizione. E
il tuono dei cannoni lontani sfoca nella solitudine dei campi.

Solo nei villaggi, i piccoli nodi della vita agreste, e nelle borgate
e nelle cittadine, la vecchia umanità si ostina a permanere, sotto il
pericolo, incurante della minaccia continua; attaccata ai muri, alle
case, alle vecchie strade, al fango dei crocicchi, istupidita davanti
alle vetrine dei negozi che hanno mutato generi, davanti ai nuovi
spacci, che ostentano i sigari e le cartoline italiane; attaccata alle
piazze dove le vecchie statue e memorie austriache emergono ancora sul
flutto della gente nuova sboccata da tutte le parti.

Lì rimangono, e continuano la propria vita impassibile, legati ai
piccoli interessi, tenuti su dalle ultime illusioni domestiche;
rientrando nelle case dove si parla la solita lingua, dove si
sussurra, dove si sta a sentire e si rimugina quel che accade fuori,
affacciandosi alle finestre per vedere quello che passa, coll’orecchio
teso alla cannonata lontana.

Al di sopra delle piccole questioni locali, degli arresti necessari
e delle deportazioni, al di sopra dei sospetti e delle vigilanze, è
il fatto eterno della piccola gente che muta padrone, e fa i piccoli
calcoli d’interesse, e mette su le piccole botteghe, dove traffica
e vende cose nuove ai nuovi venuti, impara altre parole, sente le
proprie ripetute da estranei con uno stupore curioso, e vede mutarsi
l’orizzonte e il destino giorno per giorno, e nel frattempo vive di
questo senso dell’improvviso, dell’inaudito e dell’incerto; mentre i
ragazzi vanno verso la novità, con la curiosità intelligente e monella,
docile e impertinente, che è diversa dal mutismo o dall’ossequio dei
genitori e dei vecchi. Così le piante che nel rinnovo di una cultura
l’agricoltore non abbatte — ma i ferri frugano nella terra e feriscono
e schiantano le radici — inaridiscono a poco a poco e un giorno
cadranno, ma i germogli buttano vivaci attorno al tronco e formeranno
la vegetazione di domani.

Sono sradicati. E una strana rassomiglianza agguaglia la loro sorte
a quella della terra, che sola, abbandonata, conserva le proprie
linee, le divisioni antiche, le sue facce infinite e diverse, i
segni dei campi, le stampe fisse dei secoli, delle proprietà e delle
culture, le rughe del tempo e del lavoro, e lascia fare ed attende,
immutata, immobile. Arrischierà a primavera le sue fioriture oziose e
vane, rampollerà in una vegetazione incomposta e inutile, darà fuori
il suo verde scapigliato; finchè, col tempo, anche queste campagne
riprenderanno l’aspetto usato, e le case riattate riformicoleranno di
vita; e ai nostri figli e nipoti, passando di qui, potrà sembrare che
le cose, dal tempo dei tempi, siano state sempre così.

Allora i dolori saranno tutti dimenticati. Dove sono cimiteri saranno
campi, dove s’accumulano rovine e calcinacci sorgeranno costruzioni
nuove, e il mattone rifarà i villaggi, i campanili, le ville, e l’amore
rifarà le creature.

                                 * * *

Ma il flutto di quella che pare, anche oggi, la invasione nostra sulla
pianura che volge verso l’Isonzo e ha per scenario i baluardi nemici
digradanti sul Carso, richiama tutta l’attenzione. È questo l’altro
volto della guerra, veramente nostro.

Migliaia e migliaia di uomini occupano la regione: un popolo nuovo
calpesta i campi e le strade. Sono dapprima figurine isolate,
gruppetti, colonne, accampamenti, che appaiono, andando, in una
successione interminabile. L’occhio se ne rende conto gradatamente,
passando dal piccolo aspetto al grande, soffermandosi prima sulla
varietà più minuta, e perdendosi poi in quella che sembra confusione
crescente.

Nei primi momenti è nulla quello che si vede. Ci si bada come a un
qualunque episodio comune, che direste staccato da tutto il resto.
Ecco cinque artiglieri, con le coperte a bandoliera, che camminano in
gruppo: una macchietta sul nastro bianco della strada. Tornano forse
dalla licenza. E il vento agita le falde dei loro cappotti. Silenzio
e solitudine. Ad un tratto sopraggiunge un autocarro, col vetro del
fanalotto verniciato di turchino, per velare la luce: i soldati hanno
rialzato attorno al collo l’ampio baverone di pelo giallo. La strada
è squassata dal traino; sotto le ruote pesanti si macina la ghiaia.
Fantaccini col berretto di lana rossa, le mani nelle tasche dei
calzoni; e paiono infreddoliti. Più oltre un vasto cantiere di legname;
assi e tronchi accumulati sotto tettoie: materiale per i baraccamenti
invernali, e per la copertura delle lontane trincee.

Ancora: soldati in marcia, con berrettoni di lana nera; un bersagliere
col cappello senza piume, foderato da una tela slavata dal sole e
dalla pioggia. Carabinieri in grigio, la lucerna enorme, larga quasi
quanto le spalle: macchiette napoleoniche che spiccano, ogni qual volta
s’incontrano, sullo sfondo un po’ uguale di tutta l’altra milizia.
Passa veloce, tra due ondate di polvere, un autocarro scoperto, carico
di marinai, beccheggiando sulle cunette della strada; e gli uomini, in
piedi, abbrancati alle bande di legno, come alle ringhiere di bordo,
vi lasciano la visione strana dei berretti grigi rilevati sullo sfondo
immobile delle siepi, degli alberi e dei solchi.

Da tanti volti si cava un aspetto solo, comune, di salute e pulizia,
di freschezza e giovinezza: un senso vivo del mirabile sangue nostro,
della nostra forza umana e gentile, dolce, allegra e ridente. Le belle
facce rasate di fresco e rosee fanno pensare a una vita salubre,
all’aria aperta; alla bontà del nutrimento, abbondante, ai comodi
e forse anche ai piccoli lussi degli accantonamenti, e anche alla
relativa quiete della guerra invernale.

Tuttavia pensate anche che le fatiche e gli strapazzi tolgono di mezzo,
giorno per giorno, i più deboli, eliminano dalla circolazione i malati.
Sappiamo tutti che questa guerra è consumo e logorìo di uomini, e che
la carne dei nostri fratelli si struscia anch’essa come l’anima dei
cannoni, come le ruote dei carri, come il cuoio duro delle bardature.

Altri volti quelli dei territoriali: gote più incolte, non so che di
trasandato nella persona, di meno svelto e men lieto; non hanno negli
occhi la divina luce dei vent’anni, sentono anche nei moti del corpo,
nella andatura, la piega ferma e un po’ dura del vecchio mestiere:
carrettieri, sterratori, muratori, fabbri-ferrai, contadini. Hanno
nello sguardo non so che di grave, quasi più che il ricordo, la cura
presente della famiglia, i segni dell’autorità domestica e paterna.

Poi frotte di operai borghesi, che tornano a piedi verso un villaggio,
oppure, aggrappati ai veicoli, si fanno ricondurre alle baracche,
con fagotti sotto il braccio, con borse di tela a tracolla, con gli
strumenti del lavoro in mano. Sono i nostri emigranti di ieri, che
hanno portato per tutto il mondo le magnifiche braccia; che hanno
lavorato per tutti i popoli e furono pionieri oscuri di tutte le
civiltà: oggi tornati entro i confini rassodano le strade nostre,
scavano le trincee, rinforzano le difese: zappatori stupendi,
vangatori, minatori, che la patria dilagando fuori dei vecchi termini
manda anche una volta avanti. Proletariato che s’aggrappa alla guerra,
e questa lo incorpora nella nazione. E poi ancora cataste di legname e
operai addetti ai lavori stradali.

La strada è rassodata e ampliata: d’ambo i lati furono allargati i
margini, i fossi spostati, e nei fossi corre l’acqua che rinfresca
la massicciata, e impasta la ghiaia. In alcuni punti la strada è
talmente ampliata da raggiungere una fila d’alberi che prima era oltre
il fossato: ora i capitozzi corrono lungo il margine, come strani
paracarri di legno. E avanti, avanti. Un ufficiale a cavallo, con la
sua ordinanza al fianco, giunge al trotto serrato. Poi un motociclista,
a grande velocità, basso sulla macchina, con due ali di polvere sotto i
pedali immobili. Una _limousine_, con ufficiali di Stato Maggiore, lo
incalza, insistendo alle sue spalle con un trillo continuo di sirena.
Più oltre un cavallo spaventato, salta da un campo in mezzo alla
via, la corda della cavezza fra le zampe, e ringhia e springa, mentre
due soldati tentano di riafferrarlo. Più oltre ancora un idillio: un
tenente a braccetto con una signorina, in passeggiata romantica. Poi
un fantaccino a cavallo d’un asinello, le gambe larghe su due enormi
bisacce, gli scarponi ciondolanti, il cappotto giallo, con l’aria di un
frate nel suo placido giro di questua. Ed ecco, in una ambulanza della
Croce Rossa, tinta in nero, una suora infermiera sola sola, col rosario
in mano, seduta su uno dei lunghi panconi, immota sotto le larghe ali
bianche.

                                 * * *

E così l’occhio abbandona la campagna e la monotona scena intorno.
Il volto della terra dimenticata non ha più espressione. Tutto questo
altro non è che una piana sulla quale un esercito accampa. E si vedono
poco oltre altri baraccamenti d’inverno, coperti di tela incatramata,
le finestrine quadrate, con i minuscoli telai di vetro, e per le
porticine aperte appaiono le brande, e le coperte scure e i lenzuoli.
Accanto alla ferrovia veri arsenali di rifornimento, montagne di
legname da ardere. Non si finisce più di guardare: l’attenzione è
sempre richiamata verso qualche nuovo episodio; sono frammenti della
realtà che vi si rivelano l’uno dopo l’altro, in successione veloce
più della corsa che vi rapisce per decine e decine di chilometri. E
già sentite che tutti i particolari fanno parte di un tutto insieme,
che conoscerete e vedrete a poco a poco, fermandovi e girando ancora,
tornando più volte sui vostri passi, trascorrendo giornate intere là
dove ora la pupilla lancia un’occhiata fuggevole. Passeremo ore ed ore
in quegli accampamenti, anderemo a chiacchierare con quegli uomini di
truppa che hanno veduto il fuoco e dormito in trincea; faremo fermare
la vettura, un mattino, tornando qua, dinanzi a quell’immenso parco
di artiglieria e scenderemo, ci frammischieremo in quella confusione
di bipedi, di quadrupedi, di avantreni, di cassoni, di basti neri come
la pece: aderiremo a tutte le piccole e grandi realtà della guerra che
ora ci fuggono dinanzi veloci e saltuarie. Allora tutto ciò non sarà
più per noi uno spettacolo, una visione, ma un lembo enorme di vita,
un serbatoio di sensazioni, una scuola di realtà, per i nostri sensi e
per l’anima, il campo vasto e profondo dei nostri pensieri e del nostro
spirito e forse anche della nostra arte, se arte avremo uguale o non
indegna della storia viva che ne circonda.

Laggiù, in quel letto di fiume, arido, pieno di sole, di spaziosità
luminosa, lavorano degli operai, vanno e vengono vagoncini di una
ferrovia Decauville, e scendono trabalzando, ondeggiando, pencolando,
pericolando colonne di autocarri. Scenderemo laggiù anche noi, un
giorno; ci fermeremo a guardare, ad ascoltare, a parlare, seduti,
sdraiati sulla sabbia e sui ciottoli; cercando in questi luoghi ancora
lontani dal tiro, benchè non fuori del tiro, le propaggini naturali, le
radici semplici della guerra, che non è soltanto eroismo e pericolo,
ma un modo di vivere, come un altro, di organizzarsi e lavorare: è
rifornimento e fatica, assestamento e consolidamento: una enorme cosa
che non comincia nemmeno di qui, che viene di assai più lontano, dalle
città che abbiamo lasciate, dalle officine, dai campi che non rivedremo
per chi sa quanto tempo.

Oggi, avanti ancora. Artiglieri coi furgoni, che cavalcano con le mani
nelle tasche, le redini abbandonate sulle selle. E i territoriali che
cacciano innanzi una mandria di buoi, grandi, magri, scuri, neri, che
camminano lenti lenti verso le cannonate lontane, verso i macelli.

A un punto vediamo cavalli disseminati da per tutto, a gruppetti, a
decine, a centinaia. Qui all’abbeverata, là riposano in piedi, cavalli
bai, neri, sauri, con un’aria dozzinale, poco nobile, di bestiame mezzo
selvatico, peloso, arruffato. Cavalli raspati nelle requisizioni, che
non hanno razza, raccolti in una varietà tumultuosa di mercato: alcuni
con le orecchie basse, irritati dalla catenella che li lega a circolo,
altri mordicchianti la scorza di un albero, altri mezzo addormentati,
con l’occhio semispento, tutti coperti del pelo lungo e aspro
dell’inverno. Ci sono parchi di cavalli, come ci sono parchi di motori,
roba da fatica e da sciupìo, senza bellezza nè grazia, ma che insieme
dànno l’idea della forza viva dell’esercito, del suo lavoro muscolare,
e alcuni, staccati da poco, infangati e impolverati, fumano ancora come
un motore dopo la corsa.

Passiamo avanti a carretti carichi di carne macellata di fresco,
sanguinosa, mal coperta da una tela. Più oltre — poichè lo spettacolo
non finisce mai — cucine da campo, fumanti, cuochi all’opera, soldati
che lavano. Poi una colonna di carri carichi di balle di fieno,
impacchettate, legate con filo di ferro: venute sui treni chi sa di
dove. Non passano di qui, come una volta, sui carri ordinari, tirati
dai buoi pezzati di rosso, che hanno le ciglia bianche degli albini. Ma
le portano le coppie dei cavalli americani, o i carrozzoni delle _Fiat_
o delle _Spa_. Non è il passaggio metodico dei frutti della terra,
che si offrivano in ogni stagione, che venivano fuori da queste zolle
intorno, che si coglievano da quei rami, stecchiti. È roba che viene
di lontano, mandata e portata dagli invasori. Sullo sfondo rugginoso
del paese agricolo si profilano distese vaste di botti di ferro, latte
di benzina e di lubrificante: le materie industriali della guerra, le
linfe spesse e graveolenti della meccanica. Siamo alle spalle delle
linee combattenti, nel pieno della zona di operazione, quasi nelle
trincee avanzate delle riserve di uomini e di materiale.

Tutto un popolo in armi, coi suoi impedimenti e carriaggi, venuto
fino dall’estrema Italia, si è accampato qui: ha invaso le casupole,
occupato i letti, piantato gli accampamenti sui seminati, disteso
i fili telefonici sugli alberi delle ville signorili, accumulato le
riserve nelle aie georgiche, appoggiato i fucili accanto alle siepi,
ordinato i cannoni sui solchi, ammonticchiato i basti nelle stalle,
gli zaini nei solai, e le sentinelle vigilano alle teste dei ponti,
sui crocevia, sui campanili delle chiese, sulle torrette dei camini,
sulle terrazze delle case. Qua e là alcuni monelli giocano, appare
qualche donna; ma gli amori e i dolori di questa gente non contano
più. Appartengono quasi a un’altra epoca, a un’altra storia. E i
soldati passano avanti ai cancelli dei cimiteri e non guardano oltre
la cancellata: non hanno lì i loro morti, non hanno lì nè memorie nè
dolori. La guerra occupa tutto, tutto è mutato provvisoriamente. Dove
era un giardinetto su un monticello è un osservatorio di artiglieria,
e tra le frasche di una capannetta sporge il volto di un ufficiale che
scruta col binoccolo il cannoneggiamento nostro e nemico, dal Sabotino
al S. Michele.

                                 * * *

Una tale varietà di particolari, che nella sola passeggiata di un
pomeriggio basta a riempire un taccuino, fa capo ultimamente a una
unità inscindibile: nel movimento sparso, che par confuso, è un ritmo,
una legge. Tutto in realtà è ordinato e preordinato. Il moto irradia
da centri fissi, va verso punti fermi, che in una prima occhiata
non si vedono; si ignorano, ma si suppongono: magazzini centrali e
magazzini avanzati, colonne, munizioni e autocarri, rifornimenti di
materiali e parchi, sezioni di sanità e posti di medicazione, ambulanze
e carri, ospedaletti da campo e ospedali di riserva, magazzini di
distribuzione per i vettovagliamenti e parchi viveri, panifici avanzati
e parchi buoi, comandi di tappa e traini automobilistici, tutte queste
parole vaghe per un profano, sono i termini precisi del linguaggio
e dell’azione militare: coi quali si unificano le innumeri e diverse
impressioni delle cose sparsamente vedute. Ogni movimento ha la sua
direzione, la linea tracciata da un punto all’altro: dai centri di
rifornimento, dai forni, dalle piccole stazioni ferroviarie, dai
depositi di munizioni ammassate nei rotoli di legno sotto le tettoie,
dagli ospedali della Croce Rossa indicati con un numero sul portone
di un vecchio palazzotto, o all’ingresso di un edificio scolastico,
dai comandi allogati in una villa nascosta tra le piante alte di
un parco. Ogni ruota che corre sulla strada e par libera, è presa
nell’ingranaggio di una macchina fantastica, che ha il movimento
impresso da otto mesi. L’ora di partenza di un autocarro, l’ora di
arrivo, tutto tutto era sulla carta stamane, sarà sulla carta stasera;
empirà la pagina di una giornata di guerra.

Il movimento è cronometrico: nulla può arrestarlo, nulla deve turbarlo.
Anche gli incidenti improvvisi di strada hanno poca importanza. Gli
impacci si sgombrano rapidamente: i piccoli disastri sono presto
riparati. Si ha fretta, si riatta tutto sollecitamente, si accorre,
si soccorre con tutte le forze e quando non si può riattare si
sostituisce. Un carro rotola dentro un fossato, carico di quintali di
legna. Soldati balzano dagli autocarri e in cinque minuti sono staccati
i cavalli e scaricato il veicolo, di lancio si tira fuori tutto, il
carro torna sulla via, è caricato, le bestie sono riattaccate, e non
resta che uno sbocconcellamento nell’orlo del fosso, che due pale
colmeranno. C’è della forza, in giro, che abbonda.

E si va sempre avanti. Quando la strada è liscia, bene; quando
è cattiva non ci si bada, si va ugualmente, con un po’ più di
materialità, di strepito, di sobbalzi: ma si deve andare ugualmente: i
pneumatici strosciano violenti contro le carreggiate inghiaiate, fanno
balzare lontano le pietre, si fanno mordere, ma si va. Se tutto si
consuma, tutto si rifornisce senza misura, senza limiti.

Gli è che tutta la roba è in comune, e non appartiene a nessuno,
e ognuno se ne serve come di uno strumento: son tante cose che
appartengono ai parchi automobilistici, ai magazzini, ai centri di
rifornimento, ecc. ecc.: sono il ferro, la gomma, l’acciaio, il legno
dell’esercito. Pare a tutta prima che chi se ne serve non abbia il
senso scrupoloso della proprietà. Ma non è che una illusione. Ognuno
ha cura della roba propria. Se osservate attentamente quegli uomini,
ognuno ha il senso, l’ambizione, la preoccupazione delle cose sue:
il cavaliere del suo cavallo, della sella, accomodata alla propria
inforcatura, delle redini che gli hanno fatto il callo alle dita;
l’automobilista del suo motore, di cui conosce il battito, di cui sa
il canto nelle lunghe ore di marcia, su cui si china ad ascoltare il
respiro nelle salite gravose, o del volante a cui rimane attaccato,
come il timoniere alla ruota. Ognuno aderisce, ognuno s’affeziona al
proprio strumento, perfino il territoriale al carretto che conduce, di
cui sa il peso e la portata, su cui dorme e siede, con le cosce sulle
stanghe, per chilometri e chilometri di cammino; o al cavalluccio, o
all’asino, o al bove, o al mulo morditore o calciatore, ch’egli guida
da tanti mesi tra la polvere, sul fango, sotto la pioggia, che bagna
tutti e due; e l’uomo è amico della bestia, con la quale ha diviso i
freddi della notte, o il calduccio di una stalla, a cui fa la lettiera,
a cui dà da mangiare, prima di mangiare egli stesso.

Tutto ritorna alla forma ineliminabile eterna e quasi alla sostanza
della proprietà individuale. Ognuno è legato al proprio arnese da
vincoli di abitudine, di fatica, di compagnia, perchè si misura il
passo su quello del proprio quadrupede, si vede la guerra col ritmo del
proprio veicolo, e per questo anche se non ci appartiene è nostro, sia
che ci porti verso la morte, e carreggi munizioni fin sotto le batterie
prese di mira, sia che trasporti la ghiaia sulle strade dal letto
pacifico dei fiumi. Tutto quel che ci è intorno, dinanzi agli occhi,
fra le mani, a portata dei sensi, dalla mattina alla sera, è nostro e
ci è caro, ne abbiamo cura, se anche ci grava, se ci affatica, se ci
minaccia; ed è quello il nostro peso e il nostro compagno; è spesso un
confidente muto e un appoggio. Per il soldatino che reca la posta la
guerra grava sulle spalle col peso del piccolo sacco grigio fasciato di
rosso. Egli porta il suo sacco come l’alpino lassù il proprio cannone.
Ognuno ha la sua arma e il suo ufficio, ognuno è legato al suo compito,
come a un dovere, come si è legati alla sorte, al destino umile o alto.

                                 * * *

Scendeva la sera. E lo spettacolo dei nostri uomini accampati mi si
rinnovava ancora e ancora, a ogni tratto di via. Era l’invasione nostra
sulla pianura che volge verso l’Isonzo, e l’Isonzo era vicino, e i
ponti si profilavano nel cielo del tramonto.

Le cannonate rumoreggiavano, insistenti. La guerra ci tirava sempre più
innanzi: ormai non si vedevano più che soldati.




DUE MULI E UNA CARRETTA

                                       Oltre l’Isonzo, febbraio 1916.


                                                 _A Enrico Bettazzi._

Sulla mensa sparecchiata, in mezzo ai fiaschi e alle bottiglie d’acqua
minerale, ardeva una mezza candela. Sul pavimento posavano quattro
ceste coi viveri. Sui panconi attendevano due bersaglieri di scorta,
il moschetto fra le ginocchia, e il cantiniere. Alle tre il conducente
avrebbe dovuto essere con la carretta davanti all’uscio.

Erano le tre e mezzo. Pioveva. Fuori, per la strada non si udiva
un’anima. Gli ultimi autocarri erano passati verso le due, in direzione
del ponte di Sagrado. Da allora non si erano più udite che folate
di scirocco l’una dietro l’altra sbattere contro la vetrata della
finestra, e l’acqua che scrosciava sulla strada, e la spazzava a
ventaglio. E ogni cinque minuti le nostre cannonate.

Si era in un paese di pianura verso l’Isonzo, mezzo distrutto dalle
artiglierie nemiche. Il campanile era ancora in piedi. Una quarantina
di case, attorno al campanile erano a terra. Nelle altre stavano
accantonati un trecento uomini nostri. E dormivano.

Non ci si decide, neppure sotto il pericolo, a scansarsi dalle rovine.
Anche fra quattro pareti smozzicate l’illusione del nido rimane, rimane
l’attrazione di un po’ di raccoglimento e di tepore. Si fugge invece,
specie di notte e di inverno, la terra nuda, la desolazione fredda
delle cose abbandonate allo scoperto. Si cerca istintivamente un po’
d’intimità, non pure con l’occhio, ma quasi col piede: come il selciato
di un cortile, l’angolo di un porticato, l’usciolo d’una stalla, la
cancellata d’una cappella.

Qualche ora prima, al calar della sera, i nostri erano tutti fuori
sulla via principale, con la proibizione di oltrepassare le sentinelle,
chiusi fra le due file di case: raccolti, ammucchiati come i branchi
negli steccati. Perchè non bisogna farsi avvistare. E la sera, come
il solito, era scesa triste. Lontano, nelle città, nei villaggi, di
dove questi soldati vengono, quella è l’ora che s’accendono i fanali
per le strade e nelle case s’accendono i lumi e i fuochi. Nulla,
nelle città e nei villaggi, è più dolce del cielo che si fa pallido
e imbruna a poco a poco sulla luminosità allegra, chiassosa, calda
dell’abitato. Ma qui non si accende più un fiammifero, e l’oscurità
che scende greve, noiosa ai sensi e all’anima, smorza le conversazioni
nei crocchi e tronca le parole in gola. Si prova uno scoramento, una
oppressione, fatta di solitudine, d’abbandono, di lontananza. Pare
che nessun vincolo vi leghi più al mondo remoto, se non una malinconia
infinita. Questi uomini ripensano alle proprie case, al proprio letto,
alla moglie, ai ritrovi usati, agli amici; e restano all’aperto fin che
c’è un poco di luce, quasi a consumare con le pupille il giorno. Ma si
sentono lontani e stranamente divisi da tutto quello a cui pensano.
Non possono raccogliersi in un canto e scrivere alle loro famiglie,
non possono rileggere la cartolina, la lettera ricevuta nel giorno.
Rientrando si coricheranno al buio, cercando ognuno a tastoni la
propria cuccia, stendendosi sulla bracciata di paglia o sul pavimento;
senza spogliarsi, l’uno accanto all’altro, allineati nel riposo e nel
sonno come nella marcia. Per fortuna la stanchezza li prende presto
ogni sera. Si coricano, i piedi accanto ai piedi, le gambe accanto alle
gambe, le teste accanto alle teste; corpo accanto a corpo come i buoni
soldati restano in vita e in morte, talvolta sotto un poco di terra
e talvolta sopra la terra. Meglio ci si addormenta entro le stalle,
distesa la coperta sui cumuli molli di fieno. Nell’oscurità s’odono le
bestie scalciare, mordicchiare la greppia, si ode il calduccio e pare
d’essere sprofondati in un gran pagliericcio.

                                 * * *

Il carro giunse, finalmente, verso le quattro. S’udì il cigolìo delle
ruote e l’irrequieto trapestio dei muletti che sostarono davanti
all’uscio.

Allora il cantiniere si alzò, sollevò col braccio la tenda che impediva
alla poca luce di battere sulla strada e lanciò la mala parola al
conducente, che avrebbe dovuto essere lì da un’ora. L’altro gli rispose
per le rime. Toscani ambidue, nello scambiarsi le più spaccate ingiurie
erano meravigliosi. Mettevano a soqquadro l’universo per cavarne i
termini di paragone e gli epiteti più strambi e pazzi. Il fatto è
che l’uno aveva più caro il sonno del pane, e udendo fra il sonno la
pioggia scrosciare, affondato nella lettiera di fieno magnifica, non
s’era voluto muovere. Ma gli altri tre, che dormivano per terra, lì
nella saletta della mensa degli ufficiali, dietro una tenda, con certi
sorcetti che venivano a correre sulle gambe e a leccare il grasso delle
scarpe, s’erano anche in quella notte da lupi levati alla stessa ora,
perchè avevano l’ufficio di recare le ceste dei viveri agli ufficiali
di parte del battaglione che erano nei baraccamenti al di là del fiume,
presso alle trincee.

Si udì il conducente troncare la lite con queste parole piene di
sapienza:

— Statti quieto, un c’è furia. Quando piove ci tiene tutti umili.

— E questo è vero — disse l’altro, e lo invitò dentro a bere un
bicchierino di “cognacche”.

— Un paio non ci sta mica male, sai?

— No, basta uno.

— Sii bono, fa il bisse.

— Non ci sono avvezzo, io.

— Manco io era avvezzo. Ma qui ci si avvezza a tutto.

— Madonna, ste strade con la pioggia mi faranno ingrullire. Quante
ceste hai stanotte!

— Sono sei ufficiali. Un po’ di robicciola sempre gli ci vole.

Erano tutti quattro incappottati in quei corti e larghi cappotti color
giallo verdone, che hanno un cappuccio come le tonache dei frati, e
sono anche più belli a vedere dei lunghi cappotti grigi, perchè dànno
il colore del fango e di quella maledetta terra rossa che è là sul
pietrame del S. Michele e fra le rocce del Carso. Pare terra che beva
il sangue e tenga sempre la macchia, come fa il panno.

Le ceste furono caricate a una a una sul carro.

— Vai piano che lì ci sono le ova. Non mi fare la frittata.

Poi furono caricate due sedie per i bersaglieri di scorta.

— Quando si pole star comodi è meglio.

L’ultimo a uscire soffiò sulla candela e chiuse l’uscio.

— Madonna, come piove!

— E’ par d’entrare col carro nella bocca di un lupo.

— Stai bono, che a farci un po’ di chiaro ci pensano loro, lassù.
Guarda come giocano coi razzi stanotte!

— Anzi che i nostri quando piove non tirano!

— Senti la batteria di..... È tutta notte che gli va in cuffia, come
dice l’abruzzese.

— Siete pronti?

— Pronti siamo. Tu bada a quelle ova.

Come i tre furono dentro, sotto il soffio di cerata gialla, il
conducente mise il piede su un raggio della ruota, posò il ginocchio
sulla stanga, abbrancò le redini, diede uno strappone, calò la frusta.

— Vai, _Gigi_.

E la carretta si mosse nel buio, parve affondare nella strada, diede
tanti balzi come fosse ammattita, e i muletti via, al trotto e al mezzo
galoppo, nella notte nera, sotto la pioggia che veniva a secchi.

Non si vedeva più là delle orecchie dei muli, ma quelli sapevano la
strada a memoria e si portavano via il carro coi tre uomini, come fosse
una carriola, facendo tintinnare a ogni sgropponata le catenelle che
sbattevano contro le stanghe e i bilancini.

Erano due muletti alti, lunghi e magri, con le orecchie diritte e
gentili, le groppe grassotelle e il pelo corto, pulito e lustro, tenuti
bene, a razione abbondante di fieno e di biada. Bestiole giovani, un
po’ capricciose quando sono sciolte, ma si rabboniscono subito sotto
la stanga, come hanno il muso nella briglia, e i paròcchi, e sentono
sulle spalle la bella bardatura di corame novello, e la carretta che
loro vien dietro sulle ruote alte, frangendo coi cerchioni la ghiaia,
facendo uno strepito, allegro.

— Vai, _Gigi_.

_Gigi_ era quello di destra, a bilancino, che aveva una redine sola e
al richiamo dava un balzo in avanti e portava via la carretta.

— Bada, che tu ci porti tutti nel fiume stanotte.

— Voialtri badate alle ova, alla strada ci penso io. E se si andasse
nel fiume più acqua di quella che piove non ci pole essere.

— Madre della Madonna, senti che sparo.

— È nostro.

— La batteria è nostra, ma il colpo è loro.

— Qui è dove tirano i “cecchini”. L’altra notte hanno ferito un soldato
che veniva in bicicletta e portava un telegramma al maggiore.

— Senti: _ta pum, ta pum_.

— Vai, _Gigi_. Maledetti quei razzi, fanno il giorno a quattro
chilometri.

— I “cecchini” sono più vicini.

— Si capisce eh! quelli saranno a un chilometro e mezzo. Vengono sotto,
a tirare alle quaglie.

— _Buumm_: senti quella batteria. Un c’è pericolo gli manchi il pane da
munizione.

— Giust’appunto che agli austriaci il pane gli fa difetto e i nostri
gliene mandano. Senti adesso che spedizione gliene fanno! Gli tirano da
tutte le parti.

S’alzava la voce dei cannoni nostri da più punti della pianura. Era
un cannoneggiamento senza precipitazione, senza rabbia, metodico,
insistente, che veniva da batterie non visibili di giorno, anche più
misteriose di notte. A uno capitato là la prima volta, i colpi facevano
un effetto quasi pauroso. Ma bisogna sapere di dove vengono, e allora
ognuna di quelle voci cessa di essere paurosa ed ignota, vi dice il
nome di un paese o il numero di una quota, ridesta il vivo ricordo di
un appostamento scavato nella roccia, interrato nella mota, difeso dai
sacchetti di terra, mascherato dai graticci e dalle frasche. Allora,
veramente, diventano voci amiche, che s’alzano nell’oscurità senza
sorpresa, e che riconoscete e distinguete, come le voci delle campane
dei villaggi disseminati in un lembo di paese che v’è familiare.

Ficcando gli occhi nel buio, si sorprendevano a distanze vaghe le vampe
dei colpi, i fiotti delle fiamme contro il nero della terra. Poi era il
rombo di un tuono, e il suo rotolìo per un grande arco del cielo. Per
tutta risposta, dalle colline al di là dell’Isonzo, e dall’altre sue
posizioni ancora al di qua, dal Sabotino, dal Podgora, dal S. Michele e
più verso il Carso, il nemico lanciava l’uno dopo l’altro, o due o tre
alla volta, i suoi razzi illuminanti, che portano il fiocco di magnesio
lento lento su in aria, in vetta a uno stelo di luce, e lo lasciano
ricadere con l’ondulazione molle di un paracadute. Si fa nelle notti
più cieche una così diffusa luce che a distanza di qualche chilometro
dal razzo, sul palmo della mano distesa si scoprono le rughe più fini.
Tutta la notte il nemico illumina in quelle zone le posizioni proprie
e le nostre, ci tiene a bada con quel lancio ininterrotto di luce
bianca che fa il giorno sui reticolati e rende facile la sorveglianza
alle loro sentinelle. Quasi sempre le loro artiglierie tacciono, non
si avventurano nel buio; ma si riattiva la fucileria e cade sui nostri
un fastidio di pallottole. È la piccola e tormentosa caccia all’uomo,
che tutte le notti fa le sue vittime e rende particolarmente pericolosi
alcuni tratti di strada scoperti, alcuni sentieri presi di infilata dal
tiratore invisibile, nascosto in una posizione avanzata, ch’egli va ad
occupare a sera e da cui si ritrae con la prima luce.

                                 * * *

La carretta era giunta in vicinanza del fiume. Cominciava appena a
schiarire. Nella cuffia del carro c’erano tre o quattro buchi, segni
di palle, e attraverso quelli si vedeva il primo chiaro del cielo
nuvoloso, che continuava a mandar giù pioggia a ventate. La strada
era un lago di fango. Le zampe nere dei muletti diguazzavano nella
poltiglia come in una crema. In certi tratti, dove la massicciata era
soda, pareva che gli zoccoli picchiassero sulla lastra lucente d’uno
specchio metallico.

Si calò al fiume, apparve la testata del ponte, un ammasso di legname,
archi di travi, di tavole lanciati sul greto, sul ciottolame, sullo
striscione qua verdognolo, là giallastro della corrente.

Il conducente balzò a terra, aveva le gambe inzuppate, era intirizzito,
si mise a correre accanto ai muli, le redini e la frusta in mano. Le
tavole sotto le ruote, sotto i ferri, rimbombavano. La luce cominciava
a farsi largo di qua e di là del ponte, sul letto dell’Isonzo, velata
dalla pioggia. Il passaggio era lugubre.

E finalmente, come si fu sull’altra riva, parve di entrare in un
paesaggio nuovo, nel pieno della distruzione, in un regno cupo, sotto
un’aria rarefatta, plumbea, greve come una cappa. Nessuno dei quattro
uomini diceva più una parola. Nessuno arrischiava un frizzo. Quello
che teneva la mano sul cestello delle ova, ci si era lasciato, in un
trabalzo, cader sopra col gomito. Il conducente frustava i muletti,
senza aprir bocca. L’alba livida sbatteva su quei quattro volti,
che ora apparivano duri, assonnati, un po’ tirati, come sul giallo
sporco della strada. Si lasciavano portare in silenzio dalla carretta,
cullati dallo strepito monotono delle ruote e delle catenelle di ferro.
Sensazioni nuove, ancor vaghe stentavano a precisarsi.

La strada, oltre l’Isonzo, risale la corrente. A manca il fiume, a
dritta il terrapieno della ferrovia che conduce a Gorizia. Al di là del
terrapieno le prime falde delle colline dai nomi fatti truci da tanto
sangue sparso. I segni delle granate sparsi per tutto, in mezzo alla
strada, sui fossi, sull’argine del terrapieno, sulle rive del fiume;
buche, avvallamenti, bocche di crateri, montagne di terra smossa,
caselli ferroviari ridotti a un muricciolo basso, pavimenti di case
portate via dalle esplosioni, rasate al suolo; vani di cantine, di
stalle riempiti di macerie, di tegole frantumate, di avanzi di mobili.

E dovunque l’occhio girava per quella devastazione, vedeva un
rovinìo, uno stroncamento di alberi, di arbusti, di siepi; tutta la
vegetazione colpita, scheggiata, curvata al suolo, frantumata, lacera.
Una desolazione dantesca, d’inferno non imaginato, ma sensibile,
reale, in cui le cose prendevano una animazione strana, paurosa, di
fantasmi, come se ogni ramo recasse il segno eloquente della granata,
come se ogni cespuglio piegato fosse sotto il peso di un cadavere
stramazzatogli addosso, come se nell’aria fosse il sentore diffuso,
acre, stagnante della strage, della morte, della putrefazione.

E per chi transita di là ogni mattina, sull’orrore abituale della
scena, spiccano sempre nuovi segni di rovina recente; una casa
crollata, che ieri ancor si reggeva, un affossamento fresco a uno
svolto della strada, un pezzo di rotaia sporgente dal terrapieno,
contorta, ritta in aria, divelta come un virgulto risecchito. Questi
segni rinnovano il senso della minaccia continua, del pericolo che
vi pende sopra a ogni passo, cieco, inesorabile, come in un campo di
battaglia, e nell’ora della battaglia.

Si allunga lo sguardo sulla strada, si fissa su un tratto, ci si
domanda se si arriverà in tempo a percorrerlo, a girare fino a quel
gomito, a passare di là da quel masso. Non potete togliervi di dosso
la noia affannosa di questa minaccia, che non vi lascia mai, che viene
dall’ignoto, che vi fa parer grottesca ogni vostra posa del corpo,
ogni vostra occupazione, che vi fa provare la stupidità di ogni vostro
proposito, di ogni vostro più piccolo disegno: perchè non siete certi
di essere vivi fra un istante, di potere fra mezz’ora essere al punto
in cui un amico, che avete fatto avvertire del vostro arrivo, vi
attende. E le prime volte siete preoccupati di tutto: del camminare
adagio, che vi pare pericoloso, dell’affrettare il passo, che forse vi
conduce al punto buono di una granata, del correre, che è altrettanto
stupido quanto il soffermarsi, del vostro cappotto di pelliccia, che
non vi servirà proprio a nulla, delle scarpe, che vi siete fatte pulire
prima di partire, di tutte le cose che hanno importanza nella vita
solita, in quella che vivono gli altri, lontani e che qui non hanno
nessuna importanza.

Finite col non pensare più a nulla, vi abbandonate alla vostra sorte,
diventate, come dicono, fatalisti, e a poco a poco accettate tutto, non
vi stupite più di niente, tutto rientra in un quadro di vita normale:
è naturale che ci siano delle rovine, che scoppino delle granate, che
lì ci sia un soldato ferito, che più oltre quattro uomini portino sulle
spalle una barella con sopra una coperta di sotto la quale sporgono le
due gambe di un morto, i suoi calzoni inzaccherati, le scarpe enormi,
deformi, come due zolle di terra inzuppata di sangue.

Il coraggio è l’accettazione calma, rassegnata, fredda di tutto quello
che accade intorno a voi. E guardate i due muletti che salgono salgono
al mezzo trotto, al galoppo, tirandosi dietro il carretto, da niente
preoccupati, come se andassero sullo stradale tranquillo di Palmanova.

                                 * * *

Andavano su verso le trincee del San Michele. Ed era l’ora che i
soldati dei baraccamenti si svegliano: si alzano insonnoliti, si
sporgono fuori del baraccamento a guardare il tempo, vanno con le
mani alla cintola giù verso il fiume. Lungo la riva sono disposte,
in cimiteri improvvisati, alcune centinaia di fosse dei nostri. Croci
di legno, qualche lastra di pietra con sopra inscritto il nome. Poco
sopra il fiume, nel fango, sono tristi quei piccoli ricoveri dei nostri
caduti. Non hanno che un riposo incerto, pare che siano, anche dopo
morti, in guerra. Non si è potuto dar loro che una pace provvisoria.

Dinanzi alle cucine degli ufficiali del battaglione, la carretta si
fermò, i quattro uomini scesero a terra, cominciarono a scaricare i
cesti. Tre o quattro ova si erano rotte, e cominciò una piccola lite
per quelle quattro ova rotte, un altro alterco meraviglioso, pieno di
fantasia poetica, come un canto amebeo.

Poi la carretta e i muli furono messi in un canto, sul margine della
strada, e gli uomini si ripararono per qualche minuto nel baraccamento
delle cucine. Vennero loro offerte quattro fumanti tazze di caffè, e
stettero lì sotto i cappucci, a sorseggiarle.

C’era in un secchione una mezza pagnotta di pane risecchito, buttata
via da qualche soldato, un po’ infangata.

— Questa la vo a dare a _Gigi_ — disse il conducente.

E la portò ai muletti. La spezzò in due, e sul palmo delle mani offerse
i due grossi bocconi alle bestiole. Queste glieli presero con le labbra
calde e coi denti bianchi come mandorle sbucciate, e li frantumarono
di gusto. Sogguardavano, di tra le ciglia lunghe, attraverso le nere
pupille mansuete, dolci, il soldato. Erano tutti inzuppati, e la
pioggia fumava sulle loro groppe, nel mattino invernale, come un’acqua
in bollore. Si lasciarono accarezzare il muso, grattare la fronte, con
una dolcezza di bestie bone bone. E come il conducente si allontanò da
loro, per tornare nella baracca a bersi il caffè, si volsero tutte e
due, d’un mezzo giro di testa, a guardarlo ancora.

Nemmeno un mezzo minuto dopo, si sentì arrivare per l’aria, col
rumore di un vagone, uno di quei marmittoni, che sfondano le case. Si
videro gli uomini che erano sulla strada correre e buttarsi dentro
le baracche. Si udì uno dei soliti soldati burloni, un abruzzese,
borbottare, fuggendo: “_Matre delli Santi, arriveno li lupi manari_”.
Poi un boato, che intoppò gli orecchi a tutti: lo sfracellìo di un
monte di pietre, di sassi, le sassate contro le baracche, i vetri
rotti, un odore di polvere nauseabondo.

Era caduta sulla strada, scavando una buca inverosimile, ferendo
leggermente, come si vide poi, cinque soldati, ma senza ammazzarne uno.

Nessuno lì per lì pensò alla carretta e ai due muli. Fu il conducente,
che quando si alzò da terra dove era ruzzolato, cercò le bestie e non
vide più niente. Si trovò poi uno zoccolo d’un piede anteriore sulla
branda di un tenente, a duecento metri di distanza, che c’era entrato
per la finestra, fracassando i vetri. E non c’era più che mezzo ferro.
Per questo fu impossibile anche al conducente stabilire se quello era
lo zoccolo di _Gigi_ o del compagno.

Il quale accertamento, del resto, non aveva molta importanza, e
naturalmente non se ne fece cenno nel rapporto dell’accaduto, che
mezz’ora dopo scrisse e firmò il capitano, con alcuni pochi particolari
sulla sorte della carretta, i quali non potevano far nascere dubbi
nell’Intendenza sulla sua impossibilità di riprendere servizio.




RITORNO IN TRINCEA

                                                Plava, febbraio 1916.


                                             _Ad Alighiero Castelli._

Il 5º battaglione lasciava quel giorno gli accantonamenti, trascorso in
pace il mese di riposo. A notte doveva essere di ritorno nelle trincee.

Già innanzi l’alba un sottotenente e un graduato del 4º, che attendeva
il cambio, erano venuti giù di staffetta a prendere in consegna gli
alloggiamenti. Erano partiti di prima sera, per non farsi cogliere
dalla luna, che s’alzava sul tardi, a mezzo le falde del Kuk. Calati
a Plava avevano risalito il versante nostro, preso la strada scoperta
e poi la mulattiera, che mena verso Cusbana. Giungevano che sul
bivio di Cusbana splendeva la luna e illuminava a giorno i colli e i
valloncelli, e batteva sul Planina nevoso.

In una valletta che s’apre sulla strada, fra due speroncini di un
poggio, erano le baracche del 5º, chiuse, addormentate. La sentinella
passeggiava davanti alla garitta, su e giù col suo fucile a spalla e la
sua ombra per terra.

L’uscio del baraccamento degli ufficiali era socchiuso. Il tenente
entrò nella saletta da pranzo e s’inoltrò nel corridoio. A destra e
a manca gli uscioli delle cabine erano chiusi, e si sentiva russare.
Dormivano tutti. Dormivano sodo, quella mattina, gli ufficiali del 5º
battaglione, trentasettesimo fanteria.

S’erano lasciati andare a una baldoria solenne, la sera; lì in quella
saletta da pranzo ornata di coroncine d’edera e di festoni, come per un
ballo campestre. Avevano sturato bottiglie su bottiglie di bianco e di
rosso spumante e cantato in coro sulla chitarra e il mandolino, alla
vigilia di tornare negli appostamenti del Kuk. Dove non si canta la
sera e dove non si va attorno.

    Il Kuk è quella cosa
    Che sta ritta sull’Isonzo
    Non si può più andare a zonzo,
    C’è il cecchin che fa ta-pum.

Erano una quindicina di giovani. Facevano la guerra da otto, da sei,
da cinque mesi, molti venuti su dal niente, entrati nell’esercito
volontari, o richiamati come tenenti di complemento e passati capitani.
Due avvocati, un ingegnere, un dottore, altri studenti di secondo e
terzo anno di liceo. Erano stati e avevano combattuto chi nel vallone
di Paljevo, chi alle case di Zagora chi sul Sabotino e a Oslavia
coi granatieri, chi a Globna e chi in qualche altro inferno. S’erano
tirati dietro nelle giornate d’ottobre e di novembre i propri uomini,
contadini, braccianti, operai, quasi tutti di leve più anziane: li
avevano scatenati su pei gironi della bolgia di Plava non come uomini,
come demoni.

Avevano fatto cose garibaldine, compiuto gesta da camice rosse, con
quei volti imberbi di adolescenti, quasi di fanciulli, cresciuti fra
i comodi della vita, presi un bel giorno nel fondo di una provincia
o nel mezzo di una città grande dalla passione politica, riscaldati
dal circoletto o dal giornale nazionalista, divenuti feroci contro
l’Austria, alla quale avevano gridato tante volte abbasso andando
in corteo sotto i Consolati, e adunandosi a comizio nelle aule o nei
cortili delle Università nei pomeriggi di sciopero scolastico. Ed erano
tutti andati a sbattere contro reticolati immani, contro gabbie di
fili e trabocchetti; e con la loro spensieratezza, le loro canzoncine
napoletane, il loro indicibile slancio e disprezzo della vita, avevano
fatto fare all’Italia, essi con le anime, coi corpi, col sangue, il
balzo oltre i confini vietati. E la patria oggi è abbarbicata alle
rocce dove essi hanno esposto il petto e costruito le difese, mettendo
pietra su pietra sempre sotto il fuoco, fra i corpi insepolti dei
compagni caduti al loro fianco.

Ed ora, dopo avere gioito della mensa e dei canti e dei suoni nella
notte serena, alla vigilia del ritorno nelle vecchie buche, dormivano
il sonno ristoratore nelle loro cuccette.

Come il diritto di alloggio appartiene, fino all’ultimo istante, al
battaglione in riposo, prima che i vecchi inquilini ne siano sloggiati,
i nuovi non entrano. Considerato dunque che l’attesa era lunga,
il graduato depose zaino, coperte e fucile e si buttò sulla terra
a dormire. Il sottotenente accese una sigaretta, s’appoggiò ad un
alberello e considerò dal poggio la luna che tramontava. Era la luna
di febbraio, così mite fino ad oggi, che ha dato quasi ogni notte il
sereno ai nostri uomini.

                                 * * *

Cominciarono i soldati a svegliarsi, verso le sei, pizzicati attraverso
le fessure dell’assito dal frescolino dell’alba. S’udirono là dentro
i primi dialoghi, il tramestio di quelli che si alzavano, i brontolii
dei sonnacchiosi, che indugiavano a uscire di sotto le coperte. Si
spalancavano usci e finestrelle. Il valloncello si popolò di soldati in
farsetto. Cominciavano sparsamente i preparativi della partenza.

Altra cosa è quando un battaglione in riposo, chiamato da un fonogramma
inatteso, è fatto partire d’urgenza a rincalzo di truppe impegnate
in una seria azione! Allora si è tutti fuori in pochi minuti, gli
ufficiali lanciano ordini, e magari si parte senza gli zaini. È un
altro spettacolo.

Ma perdurando lo sverno e la calma sul fronte, col cambio metodico
delle truppe, il ritorno in trincea è tranquillo. Si sa per tempo che
si deve partire; si sa dove si torna; ognuno si prepara con calma a
riprendere il suo posto.

Due ore dopo, le carrette caricano le cassette, i sacchi di tela grigia
degli ufficiali, coi nomi e cognomi inscritti a lapis copiativo,
i lettucci da campo: tutto il superfluo che si manda indietro al
magazzino, quando si fa il periodo di trincea.

L’ufficiale venuto di là reca ai colleghi le notizie più interessanti:
rende conto dei lavori compiuti nel frattempo, dei nuovi camminamenti
coperti che ora conducono ai ridottini, delle piccole correzioni
di linea; fornisce particolari sugli umori del nemico, che variano
anch’essi come i nostri, col mutare delle truppe. In un luogo si è
venuti a una tregua per il seppellimento dei cadaveri; in un altro
si sono rafforzate le difese con lancio di cavalli di Frisia; in un
altro abbiamo appostato una mitragliatrice; altrove il nemico riesce
a prenderci d’infilata e bisognerà far nuovi lavori per non avere ogni
notte qualche morto o qualche ferito. Nel vallone di Paljevo si dà una
caccia stupenda ai merli: ci si tira a palla e si vanno a raccogliere
sui reticolati la sera. E il tenente racconta tutte queste cose col
sorriso contento, attendendo solo che il battaglione se ne vada per
entrare lui e scegliersi la sua cabina. Il graduato è lì per terra, e
non si moverà fino a sera.

Girando per gli alloggetti degli ufficiali pare d’essere in uno
di quei minuscoli alberghi di montagna, il giorno in cui parte una
comitiva. Uno sbattere di usci nel corridoio, un via vai affrettato,
un rintronare di scarponi chiodati, gente che insacca roba, arrotola
coperte, ripiega sacchi a pelo, ripone panni, spazzole, boccette
di profumi (quei tenentini sono rasati, pettinati a lucido, con la
scriminatura); chi infila il passamontagna, chi si mette a tracolla il
binoccolo, chi intasca la minuscola Kodak, chi straccia in quadretti
minuti la corrispondenza. Si spazza via tutto, si fa il vuoto, fin
che nelle cabine non restano che i telai di legno delle brande coi
pagliericci gualciti, e qua e là una borraccia felpata, d’alluminio, o
un bastone ferrato, che saranno presi all’ultimo momento.

Nelle baracche della truppa, lunghe, ampie, aperte come corsie, dove si
dorme sulle tavole, e la roba e gli uomini e le armi e gli attrezzi si
pigiano e si affastellano, è una maggiore confusione; è un’altr’aria,
una mistura ingrata di odori di scarpe ingrassate, di aliti grevi,
di strame, di medicazioni. Pare di essere nella terza classe di un
bastimento di emigranti, poco prima di entrare in un porto, quando ci
si prepara a portare tutto in coperta. Il sole entra per i finestrini,
come per tanti _hublots_; si direbbe che fuori c’è il mare. Chi sale,
chi scende per le scalette; chi si gira le fasce intorno alle gambe,
chi arrotola la coperta, chi, in un canto, si rade.

Sull’uscio, all’aperto, il dottore passa la visita. Bocche che si
spalancano, corone dentarie nere, guaste, tonsille infiammate, mani
fasciate, che se si sviluppa la garza appaiono tumefatte, bluastre, e
ne spiccia sul dorso una perlina di liquido giallognolo. C’è qualcuno
che non andrà in trincea. Due accusano la febbre, e attendono il turno
mogi mogi, le gote arrossate, il bavero della mantellina rialzato,
pazienti, come sono i poveri che attendono negli ambulatori gratuiti.

Verso le dieci distribuzione del rancio, odore di minestra, zaini
a terra, fucili poggiati sugli zaini, in due lunghe file fra le due
baracche. E una visione varia, un po’ strana, di elmetti ampi, rotondi,
leggeri, senza quel che di truce o di fiero hanno i caschi aderenti
e grevi e certi altri elmetti di acciaio, più spesso, che si calcano
sulla fronte con un taglio netto e risalgono sulle orecchie, alla bella
foggia degli elmi antichi, guerreschi e tutelari. Questi hanno una
forma quasi di coccio, non so che del vaso capovolto, e spiovono cogli
orli ampi sulla faccia, o sormontano sul berretto o sul passamontagna
come una casseruola sopra un turbante. Ci vengono di Francia, e, a
dire la verità, poco hanno della grazia e cavalleria francese. Dei
nostri, i più burloni li lasciano ricadere sulle ventiquattro, con una
ironica trascuranza. Si direbbe non ne vogliano sapere, preferiscono
arrischiare il capo. E, certo, quell’azzurro cuccumone gallico non
è bello. Ma quando il battaglione è adunato o in marcia, allora,
moltiplicato per centinaia di teste, spalma una vernice fresca sulle
linee, e di lontano fa una bizzarra nuvola turchina.

Finalmente si sgombrano le baracche delle cartacce e della paglia
marcita, si dà il fuoco ai mucchi di pattume, agli avanzi sudici, agli
stracci. Fumacchi nerastri si svolgono in aria, lenti, pigri, con un
bruciaticcio nauseabondo, e tra il fumo scoppiano, con una piccola
risonanza chioccia, le cartuccie dei fucili cadute a terra, talvolta
anche buttate via.

Poichè il soldato nostro è qualche volta struscione. Non sempre misura
l’utile, nè considera il prezzo di ciò che gli si dà abbondantemente, e
che bisogna ridargli spesso. Vanghette, ad esempio, piccozzini, zappe
(in genere l’attrezzamento leggero), lascia anche cadere e non sempre
si china a raccogliere.

È un segno che la guerra di trincea gli pesa, che non ama questi modi
tedeschi della guerra. È contadino, e gli piace affondare la vanga
nella scassatura della vigna, lavorare di zappa nel terriccio dei suoi
orti. È bracciante, e fruga nel mucchio di sassi o nella grotta, con
la pala e il piccone, per guadagnarsi la giornata. Ama l’opera bella,
il nostro soldato italiano, l’opera buona, la fatica del suo vecchio
mestiere, il suo arnese pacifico. Quanto ai pericoli della guerra li
sfiderebbe volentieri allo scoperto; l’istinto lo porta a ripararsi
alla bell’e meglio. Operaio meraviglioso in tutto il mondo, attaccato
alla terra sempre dov’egli vada, sterratore, minatore paziente,
resistente, magnifico, in guerra pare rifugga dai nascondigli sapienti,
dalle gallerie sotterranee, da tutti gli apprestamenti d’approccio.
Questa lotta cieca e minuziosa di talpe non è la sua. Eppure quanto non
ha lavorato il soldato nostro nelle retrovie e nelle trincee! Quanto
sudore non ha sparso sulle roccie, quante strade non ha aperte, quante
mine non ha fatte brillare, quanti ponti non ha gittati tra l’acqua e
il fuoco, bagnando la propria opera col proprio sangue!

Tutto gli si fa fare, a tenerlo d’occhio, a curarlo, a trattarlo
bene, a volergli bene. A tutto lo si muove parlando alla sua
intelligenza e al suo cuore, facendogli capire che cosa è la guerra
oggi, dimostrandogli che deve fare così per il suo stesso bene, per
salvaguardare la sua vita, e per non essere da meno del nemico. Il
nemico lavora dall’altra parte, dobbiamo lavorare anche noi. Il nemico
non fa la guerra garibaldina, neanche noi possiamo più farla. Quando il
soldato ha capito che non basta essere eroe della guerra, ma occorre
anche essere manovale, operaio, minatore, sterratore, allora lavora
di gusto e tiene cara la sua vanghetta come il fucile, e non butta via
nulla di quel che gli si dà, e non sperpera più.

— Forse il pane sperpererà sempre — mi dice un ufficiale sorridendo,
dopo che c’eravamo scambiati questi pensieri. — Li guardi.....

Guardai, e vidi che sì, lo sperperavano il pane, ma in carità.
Porgevano le pagnotte o le lanciavano a certi bimbetti sloveni accorsi
coi sacchi e le ceste a fare incetta. Come facevano in Libia coi
piccoli arabi, le donne e i fanciulli.

— Sempre la stessa storia.

— Buono l’italiano.

— E sfama sempre qualcuno, quando è soldato.

                                 * * *

Si attese il calare del sole per prendere le mosse: sì da essere al
punto dove si divalla su Plava di prima sera, quando la luna non è
ancora levata. E dato l’ordine della partenza, i capitani si misero
alla testa, e gli uomini, per due, dietro.

Si risaliva una mulattiera, a passo lento, per le dorsali dei colli
coltivati a vigna e a frutteto. C’era tanto oro diffuso nell’aria e
sui costoni vicini, e ricascava giù come una pioggia magnifica da
certi cestelli candidi di nubi sospese a mezz’aria, nel turchino.
Ci passavano sul capo alberelli di ciliegio, alti sui ciglioni
del sentiero. Le pianticelle di vite, arroncigliate come serpenti,
spiccavano nere sulla terra invernale, vestita di seccumi giallastri.
Più oltre si strisciò coi gomiti fra la ramaglia di un bosco novello
di querce: migliaia di foglie colore di rame, secche, accartocciate
tintinnavano sui rami, scosse al venticello della sera come campanelle
di carta. E a mano a mano che si saliva apparivano in fondo alla valle
i villaggi e i nastri bianchi delle strade e i filamenti pallidi dei
sentieri, e i tetti neri delle baracche nostre, che mandavano fumo.

La colonna veniva su adagio, ma senza fatica, e gli elmetti, gli uni
dietro gli altri, parevano le scaglie lucide di un enorme colubro
turchino, che si snodasse fra le piante, con un lungo fruscio.

Erano nel battaglione molti che avevano preso per questi sentieri nei
giorni di maggio, mentre le viti erano tutto uno spampanio verde per le
terrazze, e i ciliegi si picchiettavano di rosso. Avevano compiuto la
prima avanzata, erano scesi i primi su Plava, avevano varcato l’Isonzo.
Morti quelli che erano morti, i fortunati tornavano ora anche una volta
in trincea. Avevano ormai nello sguardo il senso e quasi il segno di
tanta vicenda e monotonia della sorte.

Emozioni vive, scosse al cuore, erano state dei primi giorni. E queste
io ritrovavo mentre il battaglione saliva, sulle pagine ingenue d’un
taccuino, che un soldato mi aveva dato a prestito perchè leggessi.

Lessi fin che la luce non mi mancò. Più tardi trascrissi, e la parte
del poema che si può pubblicare dice così:

    _Il 24 maggio._

    Il 24 la notte un rombo si sente,
    Sul far dell’alba continua sovente.

    Il nostro tenente gridava a terra
    Che questa notte è cominciata la guerra.

    Fino al confine noi siamo arrivati,
    Con due bandiere che segnavano i lati.

    Avanti, ragazzi, non c’è paura
    Prima che la notte si faccia scura.

    Alla mattina siamo rivati,
    A San Martino che c’erano stati.

    Una confusione come quel giorno
    Non l’ho mai veduta da che sono al mondo.

    Da dieci chilometri li abbiamo seguiti
    Con una maniera di non usar fucili.

    Siamo arrivati fin là in fondo
    Dove dicevano questo è l’Isonzo.

    Plava l’abbiam passata senza paura
    Perchè ancora non si sapeva nulla.

    Avanti, ragazzi, dice il maggiore,
    Mentre si vedeva un grande splendore.

    Quando noi siam giunti al posto
    Su quel burrone vicino al bosco,

    Il mio compagno è stato ferito
    Disse il colpo è venuto e non l’ho sentito.

    Porta feriti, venitelo a pigliare
    Ma lui aveva poco da respirare.

    Il 16 un caso succede
    Che bisogna andare nelle trincee.

    Fra cinque minuti comincia l’attacco
    Era una cosa da diventar matto.

    Il 18 ottobre il bombardamento comincia
    Dicevano tutti questa volta si vince.

    Dopo tre giorni di bombardamento
    Una compagnia tentò pel centro.

    Chi ha fatto questa stragedia
    È stata l’eroica sestesima.

    Ti ringrazio fortuna di quel giorno tristo
    Che tante volte il pericolo l’ho visto.

    Tristi giorni la pioggia cadeva
    Con tutti i fatti che succedeva.

    Trenta prigionieri venivano avanti,
    Gridando siamo fratelli tutti quanti.

    Una ridotta è stata occupata
    Da quel giorno è tutta insanguinata.

— Dove li hai scritti questi versi?

— In trincea, quando non avevo niente da fare. Ma lei, che è borghese,
perchè ci viene?

— Per vedere quello che fate, gli ostacoli che dovete superare, per
farlo sapere al Paese.

— Allora venga su e vedrà. E leggeremo sul giornale la sua scrittura.

                                 * * *

Si era giunti dove si inizia la discesa nella gola di Plava. Fu dato un
breve _alt_. Bisognava che le compagnie scendessero in silenzio, a una
a una, gli uomini distanziati.

Dalla parte nostra il costone cala quasi a dirupo sul letto del fiume,
e dall’altra si alzano sopra le nostre posizioni basse di Plava e di
Zagora le cinture dei trinceroni nemici, irti di fucili puntati e di
mitragliatrici. Ci potevano tirare a una distanza di poche centinaia di
metri.

Senza una parola, alleviando lo stropiccio dei piedi, gli uomini si
defilarono giù, a uno a uno, curvi, lesti, come ombre. Ogni tanto
qualche fucilata partiva dal versante opposto. Ogni tanto si levavano
dalle loro posizioni quei maledetti razzi illuminanti, e la colonna
sgranata, uomo per uomo, si fermava tutta d’un tratto, per non essere
scorta. Tornata l’oscurità, quelli alla testa mormoravano: “Via!”, e
d’un lancio si ripartiva, con certi passoni lunghi, la testa bassa.

La scena aveva del fantastico. Centinaia di uomini venivano giù, quasi
di corsa, la vita sospesa alla sorte. Taluno cominciava ad ansare,
tutti sudavano sotto il peso dello zaino affardellato. Qualcuno
inciampava e rotolava a terra. Prima che si alzasse, chi gli veniva
dietro balzava avanti a prendergli il posto nella fila.

Si camminava forse da mezz’ora e pareva un tempo infinito. La colonna
s’era fatta straordinariamente lunga. Non si vedevano più i primi;
chi sa dove erano gli ultimi, ancora. Soffermandosi, uno vedeva queste
ombre di uomini calarsi giù una dopo l’altra, l’una uguale all’altra,
senza mai fine, dando i medesimi balzi, facendo gli stessi tratti di
corsa, girando stretti alla stessa voltata. Non un metro di terreno
coperto, non un muro dietro cui acquattarsi in caso di pericolo.

La gola del vallone si faceva profonda più si scendeva: c’era sempre
dell’ombra sotto di noi, c’era ancora del vuoto e dell’ignoto, e
l’occhio, che cercava di scoprire il fondo, la fine, si perdeva in
una vacuità immensa, cupa, continua di gola selvaggia, da cui non
saliva eco di voce. Apparivano soltanto dei lumicini lontani lontani,
dispersi, come quelli delle casine fra i boschi delle favole. E non
c’era altro di umano nel silenzio, in quell’orrido, in quella notte
cupa che il passo del compagno che inseguiva il compagno e l’ansia
delle respirazioni stanche.

Sotto il piede si sentiva sempre la strada in pendenza, e col capo
in avanti si continuava a discendere, il sudore che grondava per la
faccia, un ronzio metallico negli orecchi, che parevano intoppati, giù
giù, automaticamente verso una mèta misteriosa in fondo all’abisso.

Finalmente si arrivò su un tratto di strada pianeggiante, e si udirono
le prime parolette, nel buio: “L’Isonzo!” Avevamo, di fatto, il fiume
al nostro lato: riluceva un corso d’acqua non largo, incassato fra le
pareti di roccia.

E fu traversato l’Isonzo, e cominciò poi la salita per il pendio del
monte, popolato di nostri alle falde e di nemici più in alto, tutto
intorno alle spalle e sulle vette.

La luna dava fuori allora con rossori sanguigni, che sparpagliava come
spruzzi di vernice lucente su certi tratti neri dei costoni; e frugava
dall’alto della sua pace celeste nel fiume verde, con sottili razzi di
argento, e pareva aprisse tutta la valle con la luce distesa, diafana,
bianca come un vestito di fata.

E gli uomini, salivano per i camminamenti, stanchi, muti, inciampando
nelle pietre, battendo con gli elmetti nei traversoni di copertura.

Come la testa della colonna fu giunta presso alle trincee, s’imbattè
nei primi manipoli del battaglione, che cominciavano a scendere. E man
mano che le cuccette restavano vuote, i nostri, appena arrivati, ci si
buttavano a giacere.

Finalmente, a pochi metri dal nemico, si prendevano un po’ di riposo.




FRA GLOBNA E ZAGORA

                                                  Zagora, marzo 1916.


                                                      _A Gino Berri._

Questa storia di Plava non è ancora finita. Il libro dei suoi martiri
ha qualche pagina bianca, che attende. Siamo rimasti al punto dove s’è
fermata l’offensiva d’autunno.


L’offensiva d’autunno nel settore di Plava faceva parte della più vasta
offensiva. Come l’Isonzo, in quel punto, scendendo da Canale e andando
verso il Sabotino, fa un gomito a occidente, ci era utile allungare da
ambo i lati le branche di quella morsa di ferro con la quale dal giugno
mordevamo il terreno della riva sinistra e serravamo da presso il
nemico ritirato sulle alture. Alta nel mezzo di questo gomito la quota
363 era nostra e si prestava bene, a guisa di pernio, al collegamento
delle due ali, specialmente sul lato di Globna. Sull’altro il vallone
di Paljevo divideva la quota dalle poche case di Zagora, che dovevamo
occupare. L’offensiva doveva iniziarsi il 20 ottobre.

Si trattava di operare in un vallone profondo, a pareti ripide,
incassate, con un fiume, in mezzo, inguadabile e turbolento, munito
di ponti mobili di legno che le artiglierie nemiche battevano e che
la piena poteva asportare. Ogni momento la riva sinistra poteva essere
separata dalla destra, e le truppe operanti restare senza collegamento.
L’ottobre è generalmente mese di piogge grosse e continue.

L’unica rotabile che mena nel vallone di Plava, da Verholje, dal
punto in cui scende a nastro sulla sponda destra dell’Isonzo verso il
paese, è tutta sotto il tiro del fucile nemico. Gli austriaci l’hanno
disegnata e costrutta in modo che dalle posizioni di riva sinistra un
passeggero sia scorto e seguìto passo per passo fino al fondo della
valle. E, benchè venga qui costeggiando il burrone e a tratti si sporga
sul precipizio, non ha sull’orlo un tratto di muretto, non ha da un
lato la scanalatura di un fosso: liscia, dura, marmorea. Di lì doveva
di necessità andare e venire tutto il nostro carriaggio.

S’aggiunga che nel mese di ottobre i lavori nostri nelle posizioni
occupate non erano ancora perfetti, perchè disturbati ininterrottamente
dal nemico; non molti, di necessità, i camminamenti coperti. Tutta la
conca era sotto il fuoco nemico, quasi un imbuto che raccoglieva d’ogni
parte migliaia di proiettili. Le truppe di rincalzo erano sotto la
morte come nelle trincee.

Dai primi del mese il tempo s’era mostrato incerto, il fiume
repentinamente ingrossava, decresceva un poco, tornava a crescere.

La truppa era spesso costretta a consumare viveri di riserva. Con una
barca si traghettavano le provviste.

Il primo del mese si stabilì una comunicazione, fra Plava e quota 363,
mediante un cavo d’acciaio, per il passaggio dei viveri ordinari.

Verso il 5 si riuscì, con l’Isonzo in piena, a riattivare un ponte di
barche. Un secondo fu gettato qualche giorno dopo.

Intanto si approfittava del tempo che ci separava dall’offensiva,
per dare un turno di riposo a parte delle truppe, sì che fossero
fresche alla ripresa. Ma con le altre si doveva procedere ai lavori di
rafforzamento e di approccio, e alla vigilanza specie nelle ore della
notte, col tempo cattivo, la pioggia, il freddo. Ad alcuni reggimenti
il vitto era distribuito ad ore insolite, alle 3 del mattino e la sera
alle 20.

Il nemico molestava i lavori e i lavoranti. S’accendevano grosse e
piccole zuffe di batterie avversarie che si attaccavano a grandi
distanze, incroci di tiri di mitragliatrici e di fucili, botte e
risposte sonore, attacchi e contro-attacchi rapidi, ma furiosi, tutto
un tasteggio di bocche da fuoco, assaggi e inizii di una battaglia che
si veniva preparando.

Si esplorava il terreno. Pattuglie nostre s’erano spinte, sulla
ferrovia che costeggia la destra dell’Isonzo, fra la galleria di Zagora
e quella del Sabotino, senza trovare traccia del nemico. Chi cercava e
chi si acquattava. Si frustravano le esplorazioni più ardite con gli
appostamenti più scaltri. Il nemico poneva ogni cura nel coprirsi,
nel darsi per morto, quasi volesse farci dubbiosi della sua presenza.
Nemico calmo e cauto, che conosceva le arti della guerra di posizione,
e palmo per palmo il terreno e uno per uno i vantaggi e svantaggi e le
insidie.

Lo si udiva generalmente lavorare di notte, occupato senza posa a
migliorare le difese, a rafforzare le trincee, a piantare paletti
pei reticolati e a buttare nuove reti; ad aprire con le mine nuovi
passaggi, a coprire con tavoloni e con sacchetti e con frasche i
ridottini, ad appianare i sentieri. Frugati dai riflettori nostri
alcuni rari gruppi o fanti isolati che andavano o venivano per i cambi,
si buttavano loro addosso raffiche di mitraglia e di pallottole; si
ricevevano entro le trincee bombe a mano, lazzi e scherni, ingiurie e
sfide sprezzanti.

Le loro batterie regolavano i tiri su questo o quel punto, sulla
strada, sui ponti, sugli svolti delle mulattiere, sulle trincee, sui
reticolati antistanti, sulle loro stesse difese per essere pronti a
batterci in pieno quando mai le avessimo prese e occupate. Le alture
in mano loro erano piene di cannoni d’ogni calibro: ce n’erano sul
rovescio del Kuk, sulla sella del lontano Vodice, sul Monte Santo, sul
Sabotino. Il duello delle artiglierie si annunciava grandioso, ci si
attendeva un’azione di fuoco concentrata, al primo accenno di movimento
generale.

Attraverso le linee telefoniche erano corsi ordini, domande, rapporti
intorno all’effetto dei tiri delle più grosse bocche da fuoco nelle
difese mobili. S’erano fatte prove e riprove.

Ma una cosa era certa: che neanche dai grossi calibri c’era da
attendersi molta efficacia di distruzione dei reticolati. I mezzi
d’offesa che vennero poi non li avevamo ancora.

                                 * * *

Nei giorni antecedenti l’artiglieria nostra aveva dunque eseguito i
così detti tiri di sconvolgimento sulle posizioni nemiche. La notte del
19 e del 20 li riprese più intensi, ripicchiando sulle trincee e nei
reticolati.

Il fuoco delle batterie era tale che preannunciava chiaramente
l’attacco. Non si era fatto assegnamento su un’azione di sorpresa.

Mandati a contatto con l’avversario osservatori appositi ne tornarono
con informazioni varie. In alcuni punti i nemici erano stati obbligati
a sgombrare le trincee, lasciandole esposte al tiro delle granate,
degli _shrapnel_ e della fucileria, per evitare perdite inutili. In
altri punti, su linee più vicine alle nostre, contro le quali avremmo
potuto irrompere rapidamente, le ricognizioni informavano che il
nemico non s’era mosso; tiratori scelti rimanevano sotto il tiro,
alle feritoie dei blindamenti robusti e continuavano a sparare ad
intermittenza. Tutta la truppa era all’agguato, dietro i muriccioli e i
sacchetti.

Il nemico era attentissimo e si preparava. Furono ordinati
contemporaneamente tiri di interdizione sulle mulattiere retrostanti,
per battere i rincalzi, per gittare la confusione e il panico
sulle retrovie dell’avversario. Si controbattevano le batterie che
rispondevano alle nostre. La battaglia era ormai accesa; cominciava a
svilupparsi come un incendio.

La notte sul 20 si fece un fuoco d’interdizione quasi continuo,
integrato con tiri di mitragliatrici.

Nelle difese si producevano i primi guasti, anche per l’opera dei
posa-tubi. Verso Zagora scoppi di gelatina avevano prodotto nei
reticolati un’apertura di una quindicina di metri; qua e là si erano
aperti altri varchi, ma l’estensione del reticolato essendo molto
profonda, non potevano ritenersi sufficienti. In altri settori si era
riusciti a far brillare altri tubi, ma con distruzioni insufficienti,
parziali.

Ad una più intensa e metodica devastazione si opponeva la vigilanza
e l’attività del nemico. Le sue vedette avanzate o coperte, al primo
spuntare di un soldato nostro, davano l’allarme. I suoi tiratori
eseguivano sugli audaci tiri di giustizieri. Il compito dell’avversario
era reso più facile dall’uso abbondante dei razzi illuminanti, che
si levavano in aria al più leggero nostro rumore. Protetti a loro
volta dalla oscurità, pronti riparavano le distruzioni operate dalle
nostre artiglierie o dai lancia-tubi. La mattina del 20 ottobre, un
mercoledì, fu da noi rinnovata l’azione di fuoco da parte di tutte le
batterie per accrescere i guasti, per rovinare tratti di trincea che
visibilmente non avevano sofferto danni, e camminamenti non demoliti.
Controbattuto violentemente dalle artiglierie nemiche, il nostro
fuoco ottenne risultati che allora parvero buoni. Ma l’attacco fu
rimandato al seguente giorno, sia per meglio stordire il nemico, sia
per agevolare alle nostre truppe il còmpito che appariva arduo. Restava
inteso che per l’ora stabilita l’attacco delle fanterie si sarebbe
sferrato d’improvviso, simultaneamente, con la violenza necessaria al
raggiungimento degli obbiettivi designati, ch’erano il villaggio e il
fortino di Globna, il vallone di Paljevo, le case di Zagora.

Quanto all’obbiettivo ultimo esso era molto più vasto. Già si
combatteva per la caduta della testa di ponte di Gorizia.

Un nostro battaglione avrebbe dunque operato contro Globna, defilandosi
per i greti della riva sinistra dell’Isonzo, a ridosso delle falde
basse del costone che scende da quota 363, mentre un altro battaglione
alla destra del primo avrebbe dovuto impegnarsi in un’azione
dimostrativa, traendo profitto dalle asperità del terreno per molestare
il nemico calante alla difesa di Globna, con ogni mezzo in suo potere,
cioè tiro di fucileria, lancio di bombe, e magari anche di pietre.

S’era provveduto a far venire truppe di rincalzo, quante se ne potevano
ammassare senza ingombro nella conca tutta battuta del vallone di
Plava. Uomini freschi erano giunti quella notte stessa sul 21: e
s’erano fatti marciare per reparti molto distanziati, in gran silenzio:
e alla mezzanotte erano all’addiaccio. La colonna non aveva recato
altri impedimenti che i muletti porta-cucine, i muletti porta-cartucce,
e i muletti con doppia ghirba per il trasporto dell’acqua.

Il tempo era incerto, ma non minaccioso. Il terreno piuttosto pesante,
ma non tale da ostacolare le operazioni. I ponti sull’Isonzo reggevano.

                                 * * *

Il 21 ottobre, alle undici antimeridiane, s’iniziò, come era convenuto,
l’attacco generale delle fanterie. Fino all’ultimo minuto il cannone
aveva scrosciato sulle difese nemiche e sulle retrovie, con boati
assordanti, infernali, con tiri di sconvolgimento, di intimidamento, di
interdizione. Piccoli incendi s’erano svegliati qua e là, da ambedue le
parti, sotto la violenza dei due fuochi. Sulle rocce tronchi di piante
smozzicati, bruciacchiati, neri, fumigavano come torce. Volute pigre di
fumo si levavano dai boschi radi; vampate improvvise giganteggiavano da
mucchi di rami abbattuti a terra, o sparsi qua e là come dalla furia
dirompitrice di un uragano. Un incendio prestamente represso s’era
sviluppato in una delle case di Zagora. In alcuni elementi di trincee
nemiche avevano preso fuoco brevi tratti di copertura: i frasconi
secchi bruciavano, con un lingueggiare di fiamme pallide nella luce
diffusa del mattino. Nei pochi attimi di silenzio che seguirono l’alt
del nostro fuoco, prima che cominciasse l’irruzione dalle trincee,
s’udirono nitidamente gli schianti secchi, sonori dei tavoloni,
spaccati dal calore. Qualche breccia nei muriccioli del nemico era
stata aperta. Si intravedeva per gli squarci rotondi l’interno di un
rifugio, in un accumulamento nuovo, confuso, di pietre, di tavole, di
sacchetti sventrati. Ma non il cappotto di un nemico appariva, non una
faccia, non una canna di fucile puntato.

I nostri che durante il bombardamento avevano lasciato pochi uomini di
guardia nelle avanzatissime trincee, si rispinsero subito avanti, in
ordine e silenzio, per l’attacco immediato; si affollarono ai varchi
aperti appositamente, ne aprirono altri, spingendo fuori i sacchetti
con le punte delle baionette innastate, levando le pietre con le mani,
facendole rotolare coi calci dei fucili, con le grosse punte delle
scarpe.

Già nella notte squadre di audaci, muniti di corde a miccia o di sigari
accesi, e di scudi, e di elmetti, senza zaini, con i soli viveri per
la mattinata, avevano eseguito rapide sortite fin sotto i reticolati,
lanciato le bombe, fatto brillare tubi di gelatina e tentato il
taglio dei fili. Cautamente erano rientrati. Ora doveva erompere la
prima ondata, sparsa, leggera, rapida, guidata da pochi graduati o
sottotenenti, che si dovevano buttare ai varchi, allargarli, e fare la
strada ai sopravvenienti. I comandanti di battaglione tenevano l’occhio
alle sfere degli orologi a polso.

Erano gli ultimi istanti, nei quali lo spettacolo tutto intorno,
fuori delle trincee, non aveva ancora nulla di tragico. Le trincee da
conquistare erano a pochi passi, pareva che ci si sarebbe arrivati
di un balzo: a Globna coperti dal ciglione roccioso e terroso, nel
vallone di Paljevo procedendo tra due pareti di petrame, quasi come in
un camminamento largo; verso Zagora saltando di terrazza in terrazza,
traendo profitto dal terreno piantato a vigna, digradante verso noi ad
alti scalini, ognuno dei quali offriva un muricciolo, un riparo.

E le truppe erano fresche, avevano bevuto al risveglio una mezza
gamella di caffè caldo, alle otto una razione copiosa di brodo,
confezionato lungo la notte nelle casse di cottura. Si udivano
uccelli nascosti cantare in una calma perfetta. Magnifici merli,
grassi, pesanti, d’uno sviluppo inverosimile, che il cannone non
aveva disturbati, svolavano fra i meli. Nel vigneto di Zagora, tra i
pampini pendevano grappoli d’uva. La campagna, sgombra di cadaveri,
pulita, solitaria, traspirava un’aria di pace autunnale, un senso
placido di quiete. La terra mostrava agli uomini la sua faccia
solita, velata di foglie cadute e di branche morbide di gramigna; un
po’ spoglia, rilassata, indolente, ma senza un principio di orrore;
senza le contrazioni convulse, i contorcimenti e sconvolgimenti
paurosi, che prende nella mischia e conserva dopo il combattimento un
lembo di terreno, quando pei ripiani e sui cigli, nei fossi e negli
avvallamenti, i cadaveri dei caduti e i corpi dei feriti fanno nel suo
calmo aspetto un mutamento e turbamento improvviso, spandono una vasta
ruina, scavano rughe profonde, di strazio e di sangue.

I primi uomini che uscirono curvi, di corsa, col fucile bilanciato, dai
muriccioli bassi, dai ricoveri in pietra, verso i reticolati, parevano
battitori in una caccia grossa che corressero dagli appostamenti,
sui lacci, addosso alla fiera. Immediatamente, dall’altra parte,
cominciarono le scariche della fucileria e delle mitragliatrici.

                                 * * *

Le cose si misero bene nel sottosettore di Globna; dove non erano
reticolati. I nostri risalirono a corsa la sponda dell’Isonzo, e si
sparsero su per la carrozzabile che mena al paese. Altre compagnie
si defilavano per lo sperone a nord della quota 363 con progresso
simultaneo. Questa avanzata era protetta dal fitto fuoco di fucileria
di altre truppe distese a cordone verso Lozice, sulla riva destra; le
quali battevano le trincee nemiche fra Globna e Britof. Piccole lotte
si impegnarono fra i nostri e alcune sentinelle avanzate, che, sorprese
dalla fulminea irruzione, assalite e rovesciate a terra, come si videro
le baionette puntate alla gola, si lasciarono fare prigioniere. Ma
su quei gruppi di avversari e di nostri, il nemico riavutosi dalla
sorpresa aprì senza indugio, dalle case e dal fortino di Globna, un
fuoco accelerato di fucili e mitragliatrici. In quel punto i suoi
_shrapnel_ scoppiavano alti, e s’udivano le pallottole ricadere come
sassate sui nostri soldati, che avevano ricevuto l’ordine di avanzare
con cautela, più riparati che fosse possibile. Si procedeva carponi,
con la zappa si cominciavano a scavare buche per allungarcisi al
riparo dei tiri, che frugavano il terreno con raffiche metodiche. A
mezzogiorno si erano conquistati circa 150 metri in profondità e le
case di Globna erano a pochi passi, separate dalla strada soltanto. Ma
sulla massicciata era un miagolìo e un rimbalzare di pallottole. Le
nostre e le nemiche ci si incrociavano follemente, bucherellandone e
scrostandone il piano.

Alcuni dei nostri che avevano potuto spingersi più avanti parevano
dispersi, non si vedevano più. Nei fossi, nelle buche del bombardamento
combattevano separati, avevano ingaggiato la loro piccola battaglia
contro un determinato punto della linea avversaria, contro una finestra
del villaggio, alla quale avevano intravisto un tiratore; e sparavano
contro le porte, dentro le inferriate, nelle feritoie visibili a occhio
nudo fra le crepe dei muri. L’assalto si dovette mutare nel pomeriggio
in una lenta e sanguinosa lotta di assedio, nella quale il nemico aveva
il vantaggio dei ripari solidi e organizzati, e i nostri quello del
numero, dei rincalzi freschi che arrivavano a gruppetti, strisciando,
gittando la voce ai compagni che erano più avanti, e che li attendevano
per riprendere in gruppi densi l’assalto.

Anche nel vallone di Paljevo l’uscita dei nostri non fu molto
molestata; i primi plotoncini poterono aprire la strada ai susseguenti
reparti, i quali non ebbero che perdite leggere.

L’urto sanguinoso si delineò nel settore di Zagora, nostra estrema
destra, dove aveva preso l’offensiva un battaglione, in corrispondenza
delle brecce aperte nel trincerone nemico. Ivi la siepe dei reticolati
era enorme, vicinissima. Il cannone l’aveva in più punti sconvolta,
ma più era l’arruffio dei fili, più irregolari erano e più strambe
le posizioni dei paletti, sradicati, contorti, spezzati, meno era
visibile il punto di approccio e la via di passaggio. Eppure alcuni si
erano infiltrati sotto il groviglio e, supini, lavoravano di forbice,
di fucile, di paletto, per distendere un piccolo varco. Quando un
proiettile li colpiva a morte, rimanevano con gli abiti attaccati alle
punte, in posizioni di sforzo, di lotta disperata contro quella rete
spessa, profonda, inestricabile. I feriti non potevano liberarsi dalla
presa tenace, chiamavano soccorso.

In breve, soldati, graduati, sottotenenti, tenenti, capitani, anche
maggiori, si videro sempre più frequenti uscire dai punti rotti delle
trincee, per distendere e approfondire l’attacco. Al loro apparire ai
passaggi obbligati, il nemico, terribile nell’agguato, li prendeva di
mira uno per uno, coi suoi tiratori di calcolo e di precisione, che
pare vedano un bersaglio in ogni avversario, al quale mettono la palla
nella fronte come farebbero nella rosetta di un centro.

Fino dalla prima mezz’ora si vide che in quel punto la difesa, con
poche perdite, minacciava di sventare l’offensiva. Le due fucilerie
facevano un fracasso talmente assordante e continuo che non era più
possibile udire i comandi. Quando si fece il conto delle cartucce
sparate si vide che tre compagnie in poche ore avevano tirato più di
ventimila colpi.

Misurata ancora nel pomeriggio, con altri tentativi irruenti, la
stabilità della difesa nemica, fondata particolarmente sulla resistenza
dei reticolati, i vari Comandi diedero ordine che con la prima oscurità
le truppe sotto Zagora rientrassero, con ogni cautela, entro le vecchie
trincee.

Si vide allora un fatto curioso quanto comune in giorni di battaglia.
I soldati che avevano lottato per ore e ore, in una tensione nervosa
facile a imaginare, rientravano dopo avere sfidato mille volte
la morte. Appena al sicuro nei ricoveri, si buttavano a sedere,
si stendevano per terra, nel fango, sui sacchetti, sulle pietre,
abbassavano le palpebre e a pochi metri dal nemico si addormentavano
di un sonno profondo, come fossero nel proprio letto. Non valeva
chiamarli, scuoterli, squassarli, tirarli su; ricascavano come morti.
Non chiedevano niente, nè da mangiare nè da bere. Avevano soltanto
bisogno di dormire.

Del paro, sotto quota 363, dalla parte di Globna, l’azione non era
stata risolutiva. Squadre di guastatori, bombardieri, tagliafili,
avevano anche là iniziato arditamente la sortita con numeroso lancio
di bombe a mano, e col tentativo di taglio dei reticolati. Accolti da
vivissimo fuoco avevano proseguito il lavoro, con buoni risultati.
Allora avevano fatto irruzione alcune compagnie, precedute da
pattuglie che erano giunte fin quasi al trincerone nemico. Un fremito
d’entusiasmo si era propagato fra le truppe retrostanti. Si erano
veduti molti innastare le baionette e precipitare verso le posizioni
avversarie.

Il nemico era rimasto per alcuni istanti sorpreso. Forse anche ordiva
dietro le sue reti di spranga altre più feroci insidie. Guarnisce
con doppia fila di tiratori le trincee e mette in funzione le
mitragliatrici. Il breve spazio in cui possono irrompere i nostri,
affollandosi ai varchi, è battuto da una cortina di fuoco. Tuttavia non
pochi tentano di forzarla per raggiungere le trincee. Sono falciati, e
la prima irruzione non riesce.

Riordinati i reparti si tenta nel pomeriggio una seconda e una terza
irruzione. Finchè viene l’ordine di desistere per quel giorno, e di
riprendere le posizioni primitive.

Solo dinanzi a Globna furono potuti tenere duecentocinquanta metri di
terreno.

                                 * * *

La mattina seguente le truppe riposate ripresero alla stessa ora
l’offensiva su tutta la linea.

Nel vallone di Paljevo alcune compagnie riuscirono per infiltrazione
ad avanzare su un tratto di circa centocinquanta metri, ad altrettanta
distanza dalle trincee nemiche, verso le quali si misero a costruire
camminamenti coperti. Pattuglie inviate nel pomeriggio più innanzi non
proseguivano per non perdere contatto con le truppe d’ala che trovavano
ostacoli insormontabili nei reticolati e nei muri nemici. Alcuni
soldati offertisi a collocare tubi e tagliare i fili e le reti, erano
stati tutti colpiti.

Nel settore di Globna, dove il giorno avanti, durante l’occupazione,
e la notte stessa s’erano praticati nella boscaglia camminamenti a
colpi di mannarese, per facilitare i rifornimenti e gli sgombri e per
rassodare i ripari, verso il tramonto piccoli gruppi di un battaglione
erano riusciti ad entrare nelle case del villaggio, impegnando furiosi
corpo a corpo.

Sotto Zagora il nemico continuava ad opporci la resistenza maggiore.
Piccole incursioni notturne dei nostri avevano assodato che ivi anche
le difese accessorie erano in buono stato.

Prima dunque di slanciare fuori le fanterie, si rinnovò il tiro
dei grossi calibri nelle trincee, e si disposero i fanti in modo da
approfittare dell’effetto del bombardamento, non appena fosse cessato.

In quel punto gli ostacoli erano molti e potenti: i reticolati su
tutta la linea del fronte, una casa isolata, detta _Casa diruta_, alla
nostra sinistra, a mezza costa fra noi e il paese; e le case del paese
su in alto, nelle quali il nemico s’era raccolto e asserragliato, con
strepitosa abbondanza di mitragliatrici. Il villaggio mezzo distrutto
era come un bugno di vespe, che i nostri tiri inferocivano.

I nostri ufficiali specialmente misuravano tutta la difficoltà della
lotta, vedevano queste terrazze salienti l’una sull’altra, a gradinata,
fino al crinale del poggio. Di lì non si sarebbe usciti vivi che per
miracolo. Approfittavano degli ultimi istanti per scrivere l’ultima
lettera alle loro famiglie. Era il loro saluto estremo alla vita,
gittato in fretta, con una penna stilografica su un pezzo di carta che
avrebbe preso la via del ritorno, mentre essi dovevano andare avanti ad
ogni costo. E si scioglievano senza ribellione da tutti i vincoli del
mondo, che sentivano ormai lontanissimo, alle proprie spalle, al di là
del fiume il cui passaggio pareva avesse loro tolto la memoria della
vita serena, e come lavato l’anima di ogni desiderio e affetto mortale.
Molti, in un silenzio raccolto, si comunicavano in tutta purità con
la morte. Avevano gli occhi sereni di chi sente sciogliersi nel cavo
della propria anima ogni peccato, di chi sente come venir meno il
peso di ogni colpa antica, in un ritorno improvviso alla dolcezza del
fanciullo, e a quella bontà di perdono e dolcezza di rassegnazione che
è propria di chi si sente morire e raccomanda altrui di non disperarsi
e di non piangere. E alcuno aveva dato al Comando l’indirizzo di
un amico di casa o di un fratello perchè la notizia giungesse alla
famiglia non improvvisa. E se un pensiero addolorava non era di
lasciare la vita in mezzo ai compagni, in quel luogo, ma di dare con
la propria morte un grande dolore alle persone che li amavano, e che
avrebbero continuato a piangerli quando essi non avrebbero più avuto
bisogno di essere pianti.

Quelli che precedono l’attacco sono i più terribili istanti.

Di furia, correndo senza più pensare a nulla, senza più sentire
nulla, i nostri irrompono verso la Casa diruta, e in pochi minuti,
alcuni uomini di due compagnie penetrano per una breccia in un
tratto di trincea nemica antistante alla casa. Si buttano addosso
ai difensori, urlando, li sbattono contro i muri, li disarmano, li
tengono prigionieri. Ma l’astuzia del nemico era stata tanta che
aveva organizzato nelle trincee scompartimenti separati e chiusi,
per fronteggiare un’invasione e limitarla: come si fanno gli
scompartimenti chiusi nelle navi per fermare l’irruzione delle acque.
Era un compartimento di una quindicina di metri, chiuso ai lati da
solidi sbarramenti interni; onde la breccia era aperta e occupata,
ma l’occupazione non si poteva allargare. Si picchiava coi calci dei
fucili, si cercava di tirar via le pietre, ma si urtava in lamiere di
ferro salde, spesse, come le pareti d’una cassaforte. Si chiamavano
di là dentro i nostri in aiuto, di rinforzo, ma il tratto era angusto
e col crescere in numero degli assalitori, diminuiva lo spazio per
muoversi.

Altri avevano operato una doppia diversione, tentavano
l’accerchiamento, dal di fuori, di quella specie di saliente facente
capo alla casa diroccata, di dove piovevano i proiettili a grandine
spessa. S’ingaggiavano tra assalitori e difensori lotte furibonde, si
strappavano i fucili dalle feritoie, si tiravano giù i sacchetti, si
cercava di far leva sui tavoloni per massacrare dall’alto il nemico con
gettito di bombe. Era una mischia piena di urli, di imprecazioni, di
grida disperate, su cui passavano le vampate scottanti delle granate.

Più a destra altre operazioni si tentavano verso le case del villaggio,
ma così tormentate dalla artiglieria nemica che non era possibile
svilupparle. Eppure un prigioniero fatto la mattina, interrogato,
aveva detto che Zagora s’andava sgombrando. La notizia fu comunicata
alle truppe, e allora tutto un battaglione si butta avanti, deciso
a conquistare il villaggio, con qualunque sacrificio. Il comandante
è ucciso, altri ufficiali caduti e scomparsi, l’artiglieria e la
mitraglia insistono con violenza, e ci si impone di ripiegare con
prudenza, a piccoli gruppi. Informazioni sicure avvertono che rinforzi
nemici avanzano su Zagora, bisogna prevenire un vigoroso ritorno
offensivo, che già si delinea anche alla Casa diruta, dove rincalzi
nemici tentano di ributtare addietro e schiacciare i più ardimentosi
dei nostri.

E la sera scende sulla comune sospensiva.

Intanto il contatto era stato preso, l’offensiva aveva avuto uno
svolgimento più ampio del giorno innanzi, avevamo messo piede in
trincee formidabili, munite d’ogni più solida difesa, d’ogni più
spaventosa arma di offesa; avevamo aperto delle brecce che il nemico
non poteva più chiudere, avevamo non pure subìto, ma inferto al nemico
perdite gravi.

Non bisognava cedere nè arrestarsi; bisognava non dar tregua al nemico
in nessun punto, rinnovare la stretta, proseguire nello sgretolamento
delle sue difese, riaffermare tutti i propositi di offensiva a fondo.

I prigionieri fatti parlavano di volontà di arrendersi in tutti i
compagni. E i nostri feriti rimasti sul terreno e i nostri morti, gli
uni coi lamenti e gli altri col silenzio ci richiamavano fuori per il
giorno seguente.

                                 * * *

La notte sul 23 ottobre giunse nel settore di Zagora un nuovo
comandante di reggimento, il colonnello Giletti. Arrivato a Plava
la sera aveva avuto un colloquio col generale, e preso accordi per
la ripresa dell’azione il mattino dopo. Giungeva in posizioni a lui
nuove, e passò la notte girando per le trincee, interrogando i soldati,
cercando di farsi una idea esatta del terreno. Erano le sette del
mattino, quando il generale di brigata arrivò su anche lui, per dare
sul posto le ultimissime disposizioni e tener d’occhio l’azione. Era
un ometto sulla cinquantina, di poche parole, d’un coraggio spinto
alla temerità, di una indifferenza assoluta davanti al pericolo. Il
nemico bombardava di _shrapnel_ le nostre trincee, eseguiva dall’alba
tiri di intimidazione e di interdizione, e colonnello e generale si
portavano da un punto all’altro, si fermavano in osservazione nei punti
più esposti. Quando uno _shrapnel_ scoppiò loro sul capo e lasciando
incolume il generale uccise il colonnello. Erano le otto, era arrivato
al battaglione quattro ore prima.

Ripresa su tutto il fronte l’azione concorde, passò attraverso vicende
di sbalzi, di soste, e di ripiegamenti non dissimili dai giorni
precedenti. Le case di Globna furono occupate prima di mezzogiorno,
e mentre i nostri ci si affermavano, pattuglie procedevano oltre il
villaggio per un duecento metri, sulla strada di Britof.

Nel settore di Paljevo una compagnia mirava all’avvolgimento della
cappelletta, vivamente contrastata da pattuglie e da batterie
avversarie. Altri reparti attendevano con intensa alacrità a lavori di
approccio e di sistemazione, in attesa di tentare a sinistra l’attacco
di quota 383, da noi occupata soltanto in una parte del versante nord,
verso Plava e Globna.

Come sempre la più tenace resistenza ci si opponeva dalla Casa diruta
e dal villaggio di Zagora. Le nostre truppe, riuscite ancora una volta
ad avanzare fin sotto i reticolati, erano state fermate dall’accorrere
di truppe nemiche in cordone lungo tutta la striscia delle trincee.
Si dovette nuovamente ricorrere a tiri violenti di artiglieria per
arrestare una offensiva incipiente della fanteria austriaca e per
tentare di obbligarla all’abbandono del trincerone. Verso il tramonto
si tentò un nuovo risoluto assalto, che ebbe per effetto di portar
nuove truppe sotto le posizioni nemiche, ma la nostra linea non potè
essere mutata. Si decise di tenerla durante la notte, per appoggiare
durante l’oscurità l’indispensabile lavoro dei guastatori contro
i fili e le reti. Si era notato che alcune di queste avevano il
particolarissimo còmpito di parare il nemico dalle schegge di rimbalzo.
Avevamo dinanzi un sistema di difesa la cui potenza complessiva era
forse superata da una incredibile abbondanza di risorse e scaltrezze
minute.

Si giunse adunque, con tali risultati parziali e dopo tante fatiche,
al mattino del 24: dinanzi a difese complessivamente solide, benchè
non più intatte; di fronte a un nemico che, in forze sempre crescenti,
attendeva da tre giorni al grande assalto risolutivo, a truppe non
ancora logore nè di animo nè di forze, benchè provate da un succedersi
di azioni difficili e sanguinose.

Rinnovato l’assalto alla Casa diruta, tale fu l’impeto e così imminente
la minaccia che il nemico per frustrarla ricorse all’astuzia, e
gridava parole di resa. “Buoni italiani, veniamo con voi”. I nostri,
sorpresi, ebbero un attimo di sosta, di indecisione. Bastò perchè
le mitragliatrici nemiche, cresciute di numero durante la notte,
con scariche furibonde fermassero dall’alto la carica che stava per
irrompere. Un battaglione rimase con due soli ufficiali. Un maggiore
e un sergente, presi di mira ripetutamente, dovettero buttarsi a terra
dietro il muricciolo di una delle tante terrazze che dovevano risalire.
Le canne di alcuni fucili rimasero tutto il giorno puntate al ciglio
sotto il quale le loro teste erano state viste calare. Tentarono
più di una volta di strisciare carponi verso il ritorno. Ma come il
nemico vedeva spuntare una mano o una scarpa, li batteva col fuoco. La
terra intorno a loro era tutta bucherellata, smossa dalle pallottole;
un cerchio di morte li chiudeva come in una tana. Essi decisero di
attendere la notte per muoversi. Il sergente stanco prese sonno.
Ma come si levò la luna, pareva fosse il giorno. Ogni più piccolo
movimento era visto. Ogni movere di frasca, là dove altri erano rimasti
acquattati o feriti, erano miagolii di pallottole, che pareva radessero
i capelli sul capo. Le ore passavano ormai senza speranza. Quando la
salvezza venne dalla improvvisa oscurità fatta da una nuvola. I due si
mossero insieme, carponi; strisciarono in silenzio, ora soffermandosi,
ora affrettandosi, e poterono rientrare incolumi nelle vecchie
trincee, abbracciati dai nostri che avevano seguìto con ansia le fasi
dell’avventura.

Un episodio simile era occorso in quello stesso settore due giorni
prima al capitano Viglione, che doveva morire in uno degli attacchi del
28. Pattuglie nostre uscite all’assalto il pomeriggio del 21, avevano
trovato per terra il suo cappotto e il capitano non essendo rientrato
la sera fu dato per morto. Più tardi lo si vide tornare sano e salvo
tenendo per le cocche il fazzoletto colmo di grappoli d’uva. Costretto
a ripararsi durante il giorno sotto un tralcio di vigna, aveva passato
il tempo vendemmiando.

La sera del 24, non potè ancora annunziarsi la presa della Casa diruta,
ma solo l’espugnazione del trinceramento a quella antistante, dove
reparti nostri erano riusciti ad irrompere nel pomeriggio, e avevano
respinto un primo contrattacco, infliggendo perdite e prendendo
prigionieri.

Poichè il nemico si disponeva ormai a controattaccare. Ci assalì
di fatto, in forze e d’improvviso la mattina del 25, piombando con
elementi freschi sulle truppe esauste da un giorno continuo di assalti
e da una notte agitata di vigilia e di lavoro. La sera del 25, il
trincerone davanti alla Casa diruta tornava in mano al nemico. Tutto
il terreno guadagnato con non poco sacrificio nella giornata del 24 era
perduto nella seguente.

                                 * * *

Come le onde susseguentesi e incalzantisi in un piano rendono
meravigliosamente bene, secondo il concetto del Comando, l’imagine
di un esercito vittorioso ed invasore; così le onde che urtano
contro un lembo di roccia, e sono destinate a frangersi e a dare un
balzo indietro per riprendere slancio e ritentare l’assalto, dànno
altrettanto chiara l’idea del lento, fatale andare e venire d’ogni
qualunque forza d’uomini sospinta ad abbattere una organizzata
resistenza d’arte e di terreno, e a superare l’opposizione di un
nemico che scaglia anch’esso e rovescia a tempo sugli assalitori i
suoi successivi rincalzi. C’è nella guerra di posizione una specie di
fissità sostanziale di ostacoli, che la rendono pochissimo mobile e
moltissimo dura; e una episodica mobilità e quasi flusso e riflusso
alterno di ondate, con tutte le sorprese, i giuochi, i capricci e
i sobbalzi, i vortici, i risucchi, le spume di una qualunque massa
liquida, lavorata da correnti che s’urtano e si affaticano, turbata e
sbattuta da un fondo irregolare e insidioso, ricco di abissi, di secche
e di scogli.

Che se in teoria le ondate di uomini debbono susseguirsi e rincorrersi
l’una l’altra dappresso, senza soste e interruzioni forzate, altro,
di necessità, avviene in settori come quelli nei quali allora si
combatteva: aspri a tenersi anche da un esercito immobile, se il
nemico avesse potuto assumere un’attitudine di vigorosa offensiva;
con comunicazioni difficili e ripari relativamente affrettati; con
camminamenti ancora quasi tutti scoperti; con molti passaggi obbligati,
battuti da molti fuochi; senza possibilità di cambi rapidi e sicuri.
Rinforzi fatti partire la mattina per tempo dai ricoveri lungo il
fiume, non sempre potevano giungere alle vecchie trincee prima del
tramonto: tanto preciso e nutrito era il tiro d’interdizione nemico,
su un terreno ancora povero di opere di approccio, nel quale dovevamo
finalmente allargarci per poterci consolidare e proteggere.

                                 * * *

Il giorno 26 si prende, dopo il villaggio di Globna, il fortino.
All’alba alcuni volontari avevano fatto brillare due tubi di gelatina
nel reticolato antistante alla piccola opera nemica. Alle 13 si diede
il segnale dell’assalto, e prima di sera reparti di un reggimento
di valorosi avevano conquistato il ridotto, facendovi prigionieri 75
soldati e 3 ufficiali.

L’azione era stata così brillantemente condotta, da due battaglioni
mossi da due parti all’attacco, che verso sera un plotone muove di là
con tre ufficiali per spingersi fino alla chiesetta di Paljevo, alta
sulle falde del Kuk, nella speranza di incunearsi fra le linee nemiche,
vittoriosamente, sì da spezzarne a destra ed a sinistra la tenace
difesa.

Ma le truppe nostre operanti nel vallone di Paljevo, più in basso,
avevano ritentato in quel giorno inutilmente la solita irruzione contro
le trincee nemiche di quota 383, guadagnando non più che un centinaio
di metri.

E a Zagora la situazione era rimasta invariata, facendo il nemico un
fuoco fitto di fucileria.

Ma ormai si avevano dai prigionieri notizie più ampie e relativamente
attendibili sugli effetti di tanti giorni di combattimento. Onde si
diedero istruzioni di non dar tregua e di non cedere mai più un solo
palmo di terreno conquistato. L’offensiva si venne consolidando a poco
a poco, abbreviava così le sue pause, eliminava i proprî arresti.
C’eravamo oramai avvicinati e addentati al nemico; cominciavano i
sussulti dell’ultima lotta feroce corpo a corpo, quando anche gli
assaliti messi alle strette e afferrati vigorosamente, debbono farsi
assalitori per tentar di scrollare il nemico di dosso.

Di fatto, nella notte stessa del 27, un violento controattacco si
manifesta a Globna. Sulla mezzanotte artiglierie di grosso calibro
iniziano un fortissimo bombardamento contro il villaggio e le
vecchie trincee nostre di quota 383. Al cannoneggiamento segue un
attacco disperato di fanterie, alla baionetta, con ufficiali alle
spalle che rivoltellavano senza pietà i dubitosi, con squilli di
tromba rianimatori. Dietro i pochi e deboli ripari le nostre truppe
resistettero, e sventarono un minacciato avvolgimento della loro ala
sinistra. Solo in qualche piccolo punto del centro, pei vuoti lasciati
dai caduti, deboli nuclei nemici riuscirono ad infiltrarsi; ma la
linea della fanteria rimase salda, nessuno dei nostri indietreggiò di
un passo. Le perdite non furono poche nè da una parte nè dall’altra;
qualche compagnia rimase al comando di ufficiali subalterni, finchè
tutta la linea non fu rimpolpata e rinsanguata con nuovi elementi.

Ma se all’impeto delle fanterie eravamo riusciti ad opporci, nuove
perdite ci inflisse durante il giorno l’artiglieria: che pioveva
proiettili sulle posizioni sparse di uomini ormai stanchi, di cadaveri
e di feriti, che chiedevano soccorso e che non era agevole trasportare.

Anche in quel punto il tiro di intimidazione e d’interdizione era
feroce; impossibile riprendere l’azione; pericolosissimo defilarsi;
e per quanto ufficiali e soldati, aggrappati al terreno, non dessero
segno di volersi ritrarre, si ordina l’abbandono di tutta la valletta
di Globna, ma in modo da costituirla zona neutra, impedendo al nemico
di rioccupare la posizione del fortino sovrastante alle case. Sopra di
essa il nemico aveva in antecedenza aggiustato i suoi tiri.

Mentre a sera i nostri ripiegavano, giunsero tra loro gli avanzi del
plotone che avevano tentato di raggiungere la chiesetta di Paljevo, e
che avevano combattuto per tutto il giorno, soli, avanzati, scoperti,
minacciati di accerchiamento e di distruzione. Gli ufficiali tornarono
incolumi, recando avviso di perdite enormi del nemico, e cacciandosi
innanzi alcuni prigionieri.

Quanto a Zagora, si lavorò alacremente per tutto il giorno ad opere di
approccio. Una vera trincea fu improvvisata dinanzi alla Casa diruta.

Il 28, con truppe riposate, si fece irruzione contro i reticolati
antistanti a Zagora. Un primo contrattacco alla nostra sinistra fu
sventato; un altro alla destra, battuto dalla nostra artiglieria,
semina il terreno di morti: possiamo allargare l’occupazione fino sotto
al margine del paese, mentre ci rassodiamo a sinistra oltre la Casa
diruta facciamo una ventina di prigionieri.

Dagli interrogatori che si fanno a questi soldati presi, si viene a
sapere che il nemico sta ricevendo notevoli rinforzi, e si prepara a
un attacco imminente. Verso le 4,30 del mattino, questo si sviluppa
con tale inaudita violenza, che ancora una volta si impone il ritorno
dentro le vecchie e solide trincee. In poche ore la situazione torna
quale era il mattino del giorno innanzi. Occorrevano assolutamente
nuove truppe, e si decise di non tentare altra azione prima che fossero
giunte.

Si eseguì dunque il cambio la notte del 30, si riposò tutto il 31, e
il 1º di novembre, alle 6 del mattino, con battaglioni freschi si tornò
fuori: in pochi minuti si riprese tutta la trincea della Casa diruta, e
i primi più fortunati reparti spintisi su verso il paese, penetrarono
nel caseggiato. Altre forze seguirono, fu dato l’assalto alle case
diroccate, furono invase le stradicciole e le stanze squarciate, furono
come in una gran retata avviluppati e raccolti ben 202 prigionieri
di truppa e 5 ufficiali, che tanti non erano bastati in un groviglio
di ruderi, profondo e sovrastante a tutte le posizioni dei nostri,
con un arsenale di mitragliatrici, bombe, fucili, a fermare, dopo una
settimana di sforzi continui, inauditi, l’impeto assalitore dei fanti
italiani. I quali più di altri cento prigionieri fecero nel pomeriggio,
allargando l’occupazione a sinistra per le pendici del Kuk.

                                 * * *

Chi scende oggi nel vallone di Plava e visita passo passo i vari
settori, si sofferma dinanzi alle piccole croci di legno che
disseminano qua e là il terreno combattuto.

Ma nelle trincee molto è mutato da quei giorni oramai lontani di
ottobre e di novembre. Molti lavori furono eseguiti durante l’inverno,
lunghi camminamenti coperti, sicuri, conducono alle posizioni avanzate,
ai ridottini estremi. Da Plava a Lozice si cammina per un sentiero
nascosto, non veduti mai, e si trova il paesello abbandonato e
tranquillo, con le piccole case solitarie fra gli orti e i giardini.
Una scoletta deserta apre le sue finestrelle sulla riva destra del
fiume e dai piccoli banchi neri si vede la corrente dell’Isonzo passare
limpida, smeraldina. Si ripensa ai giorni quando questo era un nido di
fanciulli biondi, di azzurri sloveni. Sui banchi e per terra, sparsi
come le foglie della Sibilla, sono i minuscoli evangeli della sapienza
infantile, sillabari e quaderni.

Nel ridottino di Globna i nostri stanno saldamente afforzati: e i
muletti calano sul ciglio di un valloncello, che in tempo di pioggia
scarica le sue acque nell’Isonzo. Più oltre, nel terreno sgombro per
un tratto di nemici, si sporgono sulla carrozzabile gli avanzi delle
casette di Globna, grigiastre, e al di là della strada un orticello
erboso, abbandonato, par che coltivi da solo una piantagione lussuosa
di cavoli, alti, grassi, abbondanti. In un mattino limpido di febbraio,
tutto spira un senso idillico di pace campestre.

Solo lassù, nel settore di Zagora, gli avanzi della lotta feroce
rimangono fra la terra smossa, sconvolta, seminata di paletti
rovesciati, di fili e spranghe di ferro, di cavalli di frisia buttati
all’aria, fracassati. Poche piante da frutta, qualche raro tralcio di
vite è ancora abbarbicato al terreno, come sperduto nella convulsione.

E le case di Zagora, quelle più basse nelle quali siamo noi, e le più
alte nelle quali si annida a muro a muro coi nostri il nemico, sembrano
nel loro stretto abbraccio, nel loro inviluppo tenace, nel nodoso
intrico delle viuzze perpetuare il ricordo dell’antica lotta degli
uomini nella materia petrosa, che resiste dopo tanti mesi al crollo e
alla distruzione.




IL “DIARIO DI TRINCEA”

DI RENATO SERRA


_Nello zaino di Renato Serra, insieme con la rivoltella — della quale
non fu sparato neanche un colpo — era un taccuino di piccola mole, con
alcune pagine piene della sua sottile scrittura: il diario della sua
breve vita di trincea._

_Nella edizione milanese dell’_Esame di coscienza, _dove pur avrebbe
trovato posto al seguito di quelle che sono senza dubbio le pagine più
belle che da penna di scrittore europeo siano uscite sull’argomento
della guerra, non demmo di questo diario neanche la notizia; per
ragioni che è inutile dire._

_Per la prima volta se ne trascrivono qui le pagine intere, segnando
con tratti punteggiati alcune brevi lacune della trascrizione._

_Il diario va dal 6 luglio 1915, giorno dell’arrivo davanti al Podgora,
al 19 luglio, vigilia della morte del grande e caro amico._

                                 * * *

“6-VII, ore 14,40. — Nel bosco davanti Podgora: cuccie nel terreno
sconvolto: dopo un sonno sotto i primi _shrapnel_. Stanotte che bella
dormita sui cuscini dell’autom. accanto a F. Alle 5 via: per Palmanova
in cerca di Cormons: dalle pinete e dai canali neri sotto i colonnati
alle colline di terra rossa e di sassi — Incontri, schiene d’asino — Da
C. a Mossa: scarico presso il Comando di Div. Di lì al com. di brigata.
Torno a prendere la borsa zaino, faccio l’ultima scelta di cose
necessarie; entro in campagna — Le guide nel bosco. Arrivo al regg.to —
A mensa — A posto — Istinto che fa batter le ciglia al passaggio dello
_shrapnel_.

“Ripenso all’arrivo: entrando nel campo, incrocio la barella del cap.
D. G.: una forma sotto una coperta, una mano increspata fuori della
coperta, magra, esangue, verde — Segno? Tante cose.

“Caldo sotto il tavolato. Mi chiamano per dare il cambio alla 3ª in
trincea di 2ª linea — Vado a percorrere la trincea — Si mangia in
fretta aspettando il buio. E. non può lasciare le mitragliatrici.
Mi chiamano ancora: un ordine di operaz. è arrivato — a bassa voce
— cambio sospeso — tenga la comp. pronta per appoggiare l’avanzata.
Il cap. che mi ha fatto festa prima cambia voce: parla a uno che va
per un’altra strada — Bene — in un giorno solo, tutto. Il circolo si
chiuderà? curioso — Raccolgo la comp. (M. dà gli ordini per me), due
plotoni sul ciglio: a sedere per terra, aspettiamo: la sera scende
assorta, sulle membra indolenzite — Si parla a voce sommessa, parole
più rade: gli occhi fissi: si vede sempre il cielo e il bosco, nelle
ore lunghe. Sul materasso, ad aspettare che mi chiamino, senza pensarci
più.

“7 — Notte di fuoco e di lampi, razzi fin sopra noi — Mi persuado
che non ci chiameranno, dormo tranquillo, lungamente — Sveglia del
mattino, e giorno chiaro: la vita del campo che si riprende, lavarsi,
pulirsi... Sto in piedi un po’ a stento, traballando — La ferita. Mi
passa per la testa che potrei benissimo ammalarmi, tornare in licenza:
per un secondo mi son già accomodato. Ma so che non sarà per più di
un secondo. Sorrido, come quando una granata scoppiandomi sulla testa
me la fa abbassare — Giornata senza novità — Il mio caporale ferito
alle dita, Manoni: lo proporremo per la ricompensa. Si mangia; coi
miei compagni, sudati, sotto le tavole basse: bisogna aggiungere
Mensozzi, e gli altri attendenti fuori presso l’apertura, pronti: e la
nostra famiglia — Riposo — Le ore passano — Vado in trincea a parlare
dei bisogni della comp. e poi col colonnello: faccio uno specchio,
sorveglio i lavori per spianare la strada alla batteria — Non daremo
cambio ancora stanotte. Forse domani tutto il battaglione sarà ritirato
— sento le notizie della giornata — il tentativo della brigata Perugia
alla destra. Come si vede e si sente diversa la guerra, a esserci in
mezzo. Si fa. Ma è ormai come la vita. È tutto, non è più una passione,
nè una speranza. E, come la vita è piuttosto triste e rassegnata: ha un
volto stanco, pieno di rughe e di usura, come noi — Questo non toglie
tanta forza nascosta, insospettata — quasi inesauribile malgrado tutte
le stanchezze. Scrivo guardando i monti intorno e il cielo velato di
vapori di calore che si stanca. Vicino, i soldati gridano come scolari
per rimettersi a posto nelle trincee più basse — Sopra è arrivata
l’artiglieria — Che cosa si prepara per stanotte? Aspettiamo la mensa e
il giornale — La cresta di fronte è coperta di alberi, bassi, un verde
cupo, arricciato e velato come nella lama di uno specchio — Le acacie
del mio bosco hanno un fogliame tenero, chiaro e fermo nella luce che
vien meno — Sento i panni attaccati alla pelle da un resto di sudore.
Le figure di Battase: un altro che prenderà posto in questa compagnia.

“Si fa scuro, chiacchierando: cose militari — A dormire — La sinfonia
notturna — Scroscio di pallette sul tavolato: palle di fucile tra gli
alberi — Il cuore un po’ in sospeso: attaccano? attaccheremo?


“8 — Sveglia: sacchi per la terza: visite alle trincee — Visi rossi
alla luce del mattino di chi non ha dormito — Seguito a girare —
Desiderio di fare un giro per le trincee avanzate — Non mi sono ancora
sentito sparare addosso, non ho ancora fatto una traversata di terreno
veramente battuto! — come una puntura — con Pipietto — che bel viso
arrossato dal sole, ma fresco e fiorente di 20 anni: tranquillo,
ridente: così bisogna essere: soldato, fanciullesco.

“Arrivo alla 1ª sotto il monte, tutto ansante, sudato: neanche un
colpo si è sentito: la cresta di fronte, a 300 metri, con le sue tavole
sottosopra, la terra un po’ scavata e rivoltata negli squarci brulli,
e il bosco fermo, pieno di silenzio — la pendice circolare alla base,
tagliata come una parete sul fondo: e i soldati appoggiati rintanati
tutto intorno — Lì appoggiati si sta al sicuro: si vede solo la parete
e il cielo azzurro brillare sopra; dietro un rivoletto tra le frasche,
prato, filari vigne immobili — di un verde chiaro, intrecciato di fili
lucenti al sole — L’areoplano che non vedo — Dall’angolo della trincea
i reticolati a cento metri; paletti e fili in croce: che aspetto
inoffensivo!

“Visite alle trincee del 131, sulla destra. Il pozzo, le case annerite
di Lucinico abbandonate in mezzo al verde — Ritorno più adagio: sempre
il silenzio e il cielo immobile caldo, sospeso sulle brevi corse. E
nulla — Il comando per la comp. — La vallata di dietro a noi; il sole
sul bosco sempre arricciato, ma fresco, molle — Ritorno: la salita
stanca; grondando di sudore. Da Borla, distesi sotto il blindamento;
scrosciano gli _shrapnel_ da montagna: due feriti a pochi metri.
Passano laggiù per la radura: un lamento napoletano “Povera mamma,
povera mamma” — Mensa, riposo. Gli scoppi periodici oramai e consueti
— Come passa il pomeriggio vuoto e lento — Scrivere qualche cartolina,
lavarsi, mettere in ordine lo zaino; e poi sulla cassetta rovesciata,
col sole pallido che piove sulle mani di tra i rubini — Il boschetto
intorno; cinereo, azzurrino di dietro su lembi di un cielo di perla:
verde spento, quasi di carta chiara e fragile a sinistra; tenero e
bagnato di sole stanco, frastagliato tra la nebbia calda.


“9 — È già buio. Non vedo il lapis — In trincea agli avamposti, in
luogo della 2ª — Giornata calma — E la notte?

“Ricapitolo. Nottata dell’8 — La solita grandinata di colpi. Fuochi a
comando, a scroscio; fuoco individuale, scoppiettio ininterrotto — Le
pallottole tra il bosco, schiantano i rami, cadono a fasci, con piccolo
tonfo secco, sul terreno — Bisogno d’alzarsi dalla cuccia e sporgere la
testa dall’apertura — Sonno del mattino, nella luce scialba — Un’ombra
sulla soglia la interrompe — Mi chiamano. Sostituire la 2ª — A vedere
i luoghi — Discesa dalle trincee della 3ª, per la vigna, cammino non
ancora percorso — Sbalzi di corsa, per seguire il compagno che si fa
piccino ma non si ferma; soste a scrutare fra l’erba e le pannocchie
di stipa la strada buona — Si tira a indovinare, e via, avanti.
Fiato grosso — arrivo — perlustrazione, stato dei lavori — Ritorno da
sinistra in cerca di un cammino più coperto — Per il camminamento sotto
le case della Morte, tra l’argilla viscida d’acqua e per il bosco —
irritazione, che sudata e che fatica.

“Preparativi e partenza — si sfila per uno; Cinque va a fare il giro
lungo per le posizioni del 12º — Si sale, si scende; è una delle
manie solite di soldati — Il tratto scoperto — 15 metri in pendio; a
gruppi, di corsa — Sono sfilati tutti — Qualche sparo — Una pallottola
fracassa la scatola serbatoio di un fucile; curiosità, chiasso — Siamo
in trincea — Ci si accomoda come per starci sempre — Dopo un po’ di
tempo si scoprono delle piccole fortune ignorate ancora: sedersi sulla
proda del filare davanti alla buca arrostita dal sole, nel ronzio delle
mosche — Un po’ d’acqua e par già d’esser contenti — Sistemaz. delle
trincee; giro intorno a vedere gli altri lavori, alla 1ª, all’8ª, che è
già su, sotto la volta del bosco — Si fa sera — Arrivano delle granate
da 210 — Mangiamo i biscotti con quelli della 1ª.

“Notte — che stellato — Vedette a posto colla baionetta inastata — Ci
mettiamo a dormire — Qualche colpo raro. A mezzanotte giro d’ispezione
— Tutto quieto — Si torna a riposare — Dormiveglia, scariche, le
pallottole fitte proprio sopra noi — Scoppi d’artiglieria nel buio,
attraverso a un velo languido, fino alla mattina.


“10 — Son qui a scrivere, nella mattina ancor fresca — Qualche colpo,
un canto sottile di uccelli qui presso, parlare sommesso di soldati —
Vita di trincea — Lavato, una tazza di latte; come par di star bene —
Fatte le scritture per le comp., dati gli ordini, si lascia passare
il tempo — Ora finiremo di far pulizia, e poi s’andrà a trovar gli
zappatori. Ci dovevano essere 3 ore di tregua per seppellire i morti
su un fronte vicino (del 1º fant.). Poi l’hanno sospeso — Areoplani
— Mortaretti di _shrapnel_ e fiocchi bianchi che restano sospesi nel
cielo lucido — (di seta).

“Avanti — Giornate spaziose, piene — Calma del nemico — I soliti
convogli oscillanti sbuffanti gravi alti sul capo: colpi rabbiosi tesi
dei nostri 75 che gettano i frantumi roventi indietro fra noi — Qualche
colpo di Cecchino — uno anche a me, vicino, mi è sembrato. Ma nessuna
impressione — Vo al comando a riscotere quasi tutti gli arretrati e ne
spedisco via due vaglia — Si torna, per le case diroccate: le api e il
merdaio — Si mangia e si prova a riposare: ma il sole entra obliquo e
preciso — Mi siedo a scrivere — Poi ordini alla compagnia per i lavori
e per la notte — avanti adagio: comincio ad adattarmi all’animo degli
altri — A visitare le trincee; si manda un plotone a cercare i teli e
le mantelline — Unica novità, i pennacchi di fumo biancastro a lungo
cacciati dal vento là di fronte sulle colline — selvose — brulle —
dell’altra riva: verso S. Michele. I nostri che avanzano — Presto
Podgora sarà presa a rovescio — Comincio a capire come si troverà la
forza e la voglia di andare all’assalto; è un cerchio che si stringe,
irresistibilmente. Ci troveremo anche noi a far parte dell’ondata che
sale — Partecipo ancora al brontolare e allo scontento — legittimo —
dei miei vicini; ma capisco che a un certo momento saremo portati via
tutti. Non penso a me: non mi faccio ancora il caso mio personale, il
problema del mio morire.

“Infine, il temporale che s’addensava; gonfiezza umida lucente del
cielo sulla ricchezza sorda fresca del verde — Le nubi gonfie brillanti
di luce; zone d’ombra disciolte e lavate, a stracci caldi sul freddo —
colore magnifico.

“E adesso non c’è più nè luci nè colori — Il vento fa le foglie scure
in basso, in alto l’aria celestina — I primi spari.


“11 — Ricomincio: accoccolato presso la spalliera di sacchi che ripara
una vedetta — di destra; col sole a piombo, sole tardo del pomeriggio,
cocente dopo il temporale.

“Si prepara la partenza: il cambio — In mezzo a una pioggia di bombe
— C’è dei feriti nel bilancio di oggi; un po’ di scompiglio tra i
soldati; ma si comincia anche ad averli in mano — io — un po’ di più.
Poco da aggiungere, ricapitolando.

“Notizie del nemico che ha preso posto sullo sperone di destra, quello
scoperto e sconvolto dalle nostre granate — Feriti e morti sul tratto
di strada dopo la casa del pozzo e lungo la trincea della 3ª — La
strada che faccio io — presa d’infilata — Sparano anche sopra noi,
vicinissimi: battono la nostra destra. Due feriti.

“Il primo dei miei che vedo con un fianco lacerato da una palla
(esplosiva?) viso di Guidi (quello del naso mancante a virgola). I
compagni vicini — Bisogno di spingermi sul posto preciso dove son
caduti: silenzio di quelli che son lì quatti; le pallottole piovono
ancora. E bombe-bottiglie. Una dopo l’altra. Fragore e scompiglio.

“Stamattina, lo svegliarsi dopo il temporale: cielo grigio, che si
scioglie in uno sgocciolamento autunnale — Tutta la notte ha piovuto,
prima violento, a raffiche di bufera: vento e spari: le mie gite alla
trincea superiore: nel buio sferzato dall’acqua, e fischio e crepitìo
di palle vicine, croscianti — Una volta devo tornare indietro, mollo
d’acqua; non trovavo la strada tra il fango e la tenebra — Ma non son
contento finchè non son tornato a sedermi lassù, vicino all’ultima
vedetta: i nervi rallentano la tensione delle ultime scariche che non
finivano mai — Guardo la notte fosca, di un lividore che comincia
a scialbarsi. Verrà il sole? Come si desidera! Ci si ribella alla
prospettiva di una giornata come questa notte. — C’è fango e acqua per
tutto, nei camminamenti, nelle buche: sacchi, coperte, vestiti brutti
di mota, che si secca nelle mani, si incrosta.

“Venne il sole, ma ha tardato — Pioggia a scosse e poi acqua minuta,
perpetua sul far dell’alba, si guarda il grigiore dal fondo della
fossa, rassegnati indifferenti — Resto lì, chiudendo gli occhi
volontariamente: ho visto qualche squarcio di chiaro, — ma freddo,
sporco — fra gli stracci di nuvole e non voglio muovermi finchè non sia
tutto un po’ schiarito — Sereno come d’autunno — E poi il sole prima
pallido; e poi vivo, caldo, brillante, sull’umidore che non si asciuga.
Torna la voglia di pulirsi, di lavorare — Istantanee — Il sole fra i
pampani, di un verdiccio vergine — E la ricchezza dei verdi, per tutta
la valle e sui monti, dai viticci ai castagni, alle querci fredde e
fosche lassù: quanti toni e risonanze nella luce fresca — Poi viene
il cambio — di Raggi — Marcia di ritorno, dentro il bosco; si mangia
laggiù al posto di medicazione, nel crepuscolo — E poi a Vallisella.


“12 — Scrivo che è già buio — Dopo l’arrivo penoso, irritante di
stanotte e il brancolare nel bosco, sulla terra dura, in cerca di
riposo, pieni di sonno e di stanchezza, oggi niente di nuovo — Riposo
— Aggiungo: l’entrata nel bosco, dopo la marcia notturna — come torna
fuori — Ma anche sotto il fuoco si ritrovava — il solito meccanismo
della vita militare:....... — Ci mettono in marcia....... — Uno dietro
l’altro; per la via rotta, fra muri calcinati e buche di granate —
Ogni tanto qualche indicante. Ma non a tutti i bivii. Cerchiamo di non
serrare addosso agli altri: ma si finisce per raggiungere la colonna —
Il solito andare, allungarsi e poi premersi alle fermate — Il movimento
della testa che si comunica alla coda, come attraverso un corpo senza
vertebre con sussulti e riprese strascicate, spossanti. Si arriva
abbastanza presto per fortuna. — I plotoni si formano, si affiancano:
(sono un po’ perduto in quel buio, con quella stanchezza, ordini,
contrordini, gente che brontola, voci di comandanti che minacciano:
ripetizione eterna, monotona — Niente dunque cambierà mai?); si
abbattono giù sul prato umido.

“Il comando di battaglione ci chiama: i soliti ordini, entrare
nel bosco, ognuno nella sua zona, non lasciare uscire nessuno (gli
areoplani!); una comp. darà la guardia — sempre alla 4ª tocca! —
mandare la _corvée_ per il rancio su, prima dell’alba; domattina si
fisseranno i settori, le consegne, le sentinelle — Avevamo sperato
di riposare..... È sempre la stessa cosa...... — Attraverso un fosso
e un pantano: bisogna sfilare per uno lungamente — E poi su per il
pendio imbrattato di mota viscida dai piedi dei primi, sdrucciolando
e incespicando nelle scheggie d’alberi e nei tronconi — Il terreno
solito degli accampamenti dove han vissuto i soldati; orribile terreno
nudo, battuto, indurito — Si intravedeva il folto degli alberi; e ci
si buttava sperando l’erba, il terriccio soffice, il musco intorno
alle zocche e il seccume. Si trova questo — E tutto il pendio è
arduo, gobbo. Andiamo a finire giù nello spiazzo; giù in un sonno di
piombo. Manca Mont. che ha raccolto le _corvées_ e alle 2-1/2 le deve
accompagnare — Lo sentiamo tornare sul far del giorno: la luce pallida
attraverso le palpebre calate; voci che passano dietro il velo — Poi
bisogna alzarsi, ancora con le ossa peste. Mettere a posto la comp.;
ecc. Si trova il luogo per la nostra capanna; un po’ d’acqua sugli
occhi — Si comincia a andare — Servizio interno, l’acqua, le latrine,
la cinquina — avvisi al comando — La giornata passa con una lunga,
profonda riposata dormita pomeridiana — si fa sera — Mont. smonta —
La sua malattia....... Cinque porta la comp. a Capriva per gli zaini
— Noi restiamo, nella trincea mezzo vuota si conversa un poco sotto
il nostro tetto di frasche nel crepuscolo. Di là dal colle giunge un
suono strano, insistente; musica di negri — L’artiglieria ha fatto le
trombette con la scorza di fico — Qualche bomba di areoplano, qualche
granata — Scoppiano e dileguano.

“M’addormento senza aver nemmeno data un’occhiata al cielo, se si vedan
le stelle.


“13 — Mi sveglio tardi, ristorato, tranquillo — sono le 6 — M’ha
preparato di Marco acqua e tirato fuori calze, mutande: ce n’andiamo in
un altro boschetto laggiù, tacito e fresco, con qualche filo di sole
che piove sull’erba pulita, e mi lavo e mi cambio. Torno. Mattinata
quasi senza sole, sereno a zone d’ombra, ora tepida ora fredda — Scrivo
rapporti, note; e il tempo passa — scorrevole, uguale — Riprendo. Come
sono superficiali queste note! Colori, apparenze, minuzie materiali....
par di aver fatto quasi un tacito compromesso con sè stessi per
sorvolare, per lasciare in sospeso tutti i problemi ansiosi, le parti
oscure. Si tira via, forse è necessario far così, per conservare forza
e voglia di vivere, questa facilità, questa disinvoltura che passa
sopra a tutto; e se non ci fosse. Istinto del vivere, irresistibile —
Non mi son fermato sul primo incontro del 20º per la via di Chiopris.
Colonna d’uomini curvi rassegnati sui due lati della strada polverosa:
panni rossastri, colle pieghe del giacere per terra e la crosta di
polvere e fango che non s’ha più la forza di sbatterci il rosso della
terra del Carso sugli abiti e sui volti, sulle mani scure e stanche,
sulla pelle rugginosa; albe delle notti passate su una strada, quando
t’alzi senza una goccia d’acqua da lavarti la polvere: occhi brucianti
sotto le palpebre che tirano, occhi spenti, atoni; volti invecchiati
e infossati — Il riposo tetro, l’andare inesorabile. Il volto della
guerra.

“È l’altro volto — quello a cui nessuno vuol guardare — Ma tutti
lo fissano muti,.......: non è malcontento, non è sfiducia, non è
stanchezza soltanto, è abitudine superficiale di individualismo (che
non impedirà il sacrificio e lo star fermi e il correre avanti): è
l’istinto della vita che si ribella sordamente, che non vuol vedere,
che non sa accettare.....

“Anch’io: come quando andavo in bicicletta, su per una salita, col
sangue che mi scoppiava martellando nelle arterie; ancora un paracarro
e poi mi fermerò — E seguitavo — Così dico di fermarmi — Ma so che non
mi fermerò. Tirerò avanti, ogni tanto, trasportato da qualche ondata
improvvisa che non so donde sorga.

                             . . . . . . .

“Finiamo la cronaca. Dormire, scrivere — Passeggiata sul cocuzzolo,
dove il bosco ha una radura: e si vedono tutte le cime circostanti
affollarsi, dense di macchie e di verdura ondeggiante, scura,
riccioluta: schiuma di castagni fresca, verdezza chiara e fragile
di rubini tra il fosco dei querceti: e di là dalle gobbe e per le
insellature, la pianura che s’intravede come un velo di cenere sotto la
caldura — E il cielo.

“La notte ci risveglia dolorosamente, si lotta per trovare una
posizione meno incomoda — La terra è dura, le membra informicolate —
S’arriva al mattino con una pena lunga — e ci si trova riposati, lieti.

“Sempre così.


“14 — Al solito — davanti alla capanna — Scritto un monte di cartoline.

                             . . . . . . .

“Note della giornata — Minaccia di temporale; il cielo gonfio che si
scioglie in acqua: una parete color di lavagna a destra: vento per
l’accampamento, che rovista tra le frasche e le immondizie: i primi
goccioloni, e il vento che li porta via.

“Crepuscolo fresco, frizzante; con un grigio d’autunno; e i riflessi
di tramonto caldi sui volti — Mi scordavo: un quarto d’ora nell’altro
boschetto, dietro il cocuzzolo: intrico di rovi e di piante sottili fra
cui danza il sole umido e cocente........ cose insignificanti — Dormita
breve (appena mi sposto o mi abbasso come sento la testa che non ha
ancora ripreso l’equilibrio fisico!) — Notte lunga. Un po’ di dolore
alle gengive. E poi queste giornate senza muoversi, rintanati in un
buco, stancano l’appetito e il sonno.


“15 — Giornate pigre, senza mangiare, senza scrivere — Sdraiato per
terra in un torpore su cui (come sono metallici gli scoppi degli
_shrapnel_ stasera) galleggia il senso di qualche malessere: denti,
ventre.

“Due quercie che ho guardato a mezzogiorno dal basso, tra la macchia
di rubini, accovacciato — Due quercie si profilavano sul cielo: che
fogliame duro, cupo, fresco: che calma e che silenzio: cupo argento
sull’azzurro brillante profondo e limpido senza fine...

                             . . . . . . .

“Si fa sera — Granate che passano — Prima gli areoplani: uno dei nostri
colpito, o minacciato.


“16 — Niente novità — Malessere.

“Pareva che si dovesse partire stasera, e quasi era meglio. Oramai
che si sta a fare? Il riposo si sente bene che è finito. Non ho detto
niente dell’acqua di stanotte. Siamo ancora infangati. Ma oramai — son
cose che bisogna parlarne intanto che avvengono: tutta notte lotta col
sonno, coll’umido, coll’acqua che filtra — E poi, è passata — E via.


“17 — Notte penosa, mattinata brutta; senza mangiare da ieri,
dissenteria, mal di capo, la parete dell’orecchio sempre più ottusa,
s’ingrossa e pesa — le gambe che traballano, caldo e sudore quasi di
febbre in pelle in pelle — Giù sulle foglie, spossato.

“Arriva l’ordine di partire, per questa sera — il 3º Battagl. viene
a darci il cambio qui — Inasprimento e stanchezza: — Farò una morte
oscura e sciupata! Una morte che non mi dispiace. Ma non ne ho
coscienza _reale_ nessuna in questo momento — (Prima sì, laggiù disteso
nell’afa della capanna) — Meno male che si lascia questo campo che m’è
divenuto intollerabile: Riposo! — su questa terra cattiva, pestata,
indurita, con queste buche malfatte e questi sentieri a casaccio, che
non puoi guardare senza sentire in tutte le membra la noia ingrata e
inevitabile del giaciglio insufficiente, che non ti lascia stendere,
colle disuguaglianze ti rompe la schiena — degli sdruccioloni e del
cammino a zig-zag — a strapponi, che ti snerva senza scopo — tutte
le difficoltà e le asprezze delle cose malfatte, provvisorie, che ti
tolgono il cuore di provare a raddrizzarle.

“E poi tutti i segni dell’agglomeramento di uomini, che passano e
sanno di non restare, e lasciano il peggio di sè, le traccie del vivere
abbandonato, bestiale: brani di carta che s’ammucchiano in tutti gli
angoli coi resti, e gli stracci, biancheria sporca buttata sui cespugli
secchi e sui rami scortecciati, avanzi di cibo tra il fango, pasta che
si macera e mescola la sua acredine al puzzo degli escrementi e delle
lordure disseminate per tutto; tutti i detriti di un campo, dove si
è bevuto e vociato come all’osteria, paglia, ovatta, fiaschi, latte
interrate e ammucchiate su questo terreno spelato, in questo sottobosco
rado dove il sole che filtra tra i riflessi del verde pare un’ironia
sulla terra gibbosa, nuda e tetra, dove non trovi più un filo d’erba,
e anche di là dai termini del campo, dove ricomincia la macchia e
l’intrico delle fronde, non un angolo, non un ramo, non una zolla,
che non conservi la pesta e la sporcizia dell’uomo — E dire che non
si può pensare a un bosco, senza l’impressione del riposo nell’ombra,
su cui danza il sole, nell’ombra piena di cose secche e molli, verdi
e fresche, erba e musco, foglie secche affondate nel terriccio — O una
proda di erba vera, vivace, non toccata ancora se non dalla luce — erba
per camminarci a piedi scalzi e per dormire distesi, fra il silenzio e
il cielo!

“S’accosta il tramonto — Sto meglio.

“Arriva il pacchetto-campione della mamma — Povera mamma! Non parlo mai
di lei in queste note — Ma come è possibile! È nel cuore, nel respiro,
nel vivere: così naturalmente e continuamente che non si sente il
bisogno di parlarne. Se non a urti, a certe scosse che riempiono di
commozione dolorosa — Come quando incontrai quella donna vestita di
nero con un ragazzo pallido, stretto al braccio — soli loro due uniti
e silenziosi nel vasto mondo — E come quando mi arriva questa roba: chi
sa quanto impazzire e crucciarsi nel prepararla, e scordare un poco le
sue pene senza perderle.


“18-VII: 1915 — Podgora. (Il giorno dell’avanzata?) ore 16...... mentre
si aspetta (l’assalto?) — dopo, il bombardamento che dura da stanotte —
Odore di esplosivi nell’aria — Poca voglia di scrivere — finchè non si
possa fare un po’ di bilancio: o chiusura.


“19 — ore 11. — È cominciato l’attacco.

“In riserva:

“Ore 19 — Sommario di ieri e di oggi — perchè non posso scrivere —
Arrivo nella notte, dopo la marcia — Snervamento — La compagnia a posto
(ore 2-1/4) — La baracca per noi — Nel posto degli altri — Sveglia,
stanchi — Ordine di operazioni. 2ª e 4ª — Bombardamento — Sonno —
Fotografie — Dalla parte di S. Michele — Arrivo di granate — Per le 4?
— Un plotone che avanza, bombardieri, zappatori — La giornata passa —
Il temporale — uragano; poi pioggia fina — Il cambio della guardia —
Impressioni — Notte, coi piedi nell’acqua — Posta.

“Dormo fino alle 8 — Alle 9 riprende il bombardamento — Notizie dal
Carso — Disposizioni — 12 plotoni della guardia pronti per un bisogno.
I primi feriti — Raggi — Notizie di soldati — sotto la tettoia del
Comando — Raffica di _shrapnel_ che sfiorano il campo — A vedere
l’azione, con Genta, poi alle batterie — La mensa — Altri feriti (E
i morti) — I prigionieri: prima 3 — Il caporale preso per ufficiale:
notizie — Passaggio di 305 — Riposo.

“L’azione che procede: a vedere: i nostri che avanzano. Notizie. Al
Comando: Tassinari (il vol.): italiani eroici — sui 4 prigionieri —
La 2ª e la 3ª sfilano per pigliar posizione — Toccherebbe a noi dopo
— Il povero Combi — Stelluti e gli altri, feriti e feriti — La trincea
rioccupata e perduta: le bombe — Genta mi porta la notizia — Scoramento
— Da ricominciare — Che cosa resterà da fare a me? Esame di coscienza;
triste — Si fa sera, tra le nuvole e la luna fresca”.




MATTINO DI BATTAGLIA

                                                          Marzo 1916.


                                              _Ad Achille Benedetti._

Eravamo due corrispondenti di guerra, partiti a notte dal Quartier
generale. Avevamo scrutato il cielo partendo, per sorprendere un
accenno di tempo sereno. Ma in aperta campagna si vedevano uscire dalle
profondità oscure dell’orizzonte i fasci dei riflettori, pallidi fra la
pioggia e affondare in alto nella nuvolaglia sporca che lo scirocco da
venti giorni non faceva che sciogliere in pioggia su tutta la pianura
friulana. Parea di viaggiare in canotto lungo le strade, con le ruote
che giravano nell’acqua come quelle dei vecchi bastimenti a vapore,
gettando di qua e di là, oltre i fossi, nei campi, immense spruzzate
giallastre, a ventaglio.

In queste fiumane torbide, che allagano le carreggiate, il transito
caotico delle retrovie non ha più tregua nè giorno nè notte. Il
movimento ha preso un ritmo continuo e rapido, s’incanala, si dirama,
si intensifica, si allarga. Le colonne munizioni, più lunghe del
solito, al trotto serrato delle pariglie, vanno verso le batterie
avanzate; gli uomini a cavallo, incrostati sulle selle, i lembi dei
pastrani madidi, senza più colore, si raggricchiano sulle groppe.
Paiono strane teorie di fantasmi, alti, grossi, corpulenti, che
cavalcando si suscitino dietro un fragore stridente di legname duro,
di cassoni carichi di metalli. Ogni tanto su un cavallo di timone
spazia un arcione vuoto: lunghi sputi di mota chiazzano il cuoio
dei cuscinetti. Gli autocarri succedono agli autocarri, macchinosi,
pesanti come vagoni di un treno sgranato, che maciulla le massicciate.
Le sirene delle automobili sibilano per gli stradoni, lungo interi
chilometri; le vetture si aprono in alcuni punti varchi angusti, e
si perdono lontane. Reggimenti che vanno, reggimenti che tornano, un
movimento in grande di unità che cambiano sede, che debbono raggiungere
il posto di combattimento, di riserva, o di riposo. E su questo
tramestìo accelerato di uomini e di carri, di staffette e di generali,
spiccano, come gli annunciatori della tempesta, i grigi trasporti della
Croce Rossa, che si mobilitano verso il fronte, e in parte ritornano
recando i primi feriti, volti fasciati di garza, braccia fissate al
collo nei triangoli di tela. Il bombardamento dura intenso da due
giorni e i proiettili piovono anche sulle nostre linee.

Queste scene nella notte si intravedono, a squarci, o ammassate,
confuse; se ne afferrano i particolari solo in alcuna delle tante soste
forzate, nella strozzatura di una strada, all’imbocco di un ponte,
nella piazzetta d’un paese, al chiarore turchiniccio di un fanalotto
proteso sopra un radiatore.

Talvolta la sosta è meno breve; una prolunga s’è accasciata sull’asse,
attraverso la strada; una automobile s’è accosciata in un fosso; un
enorme cannone è affondato coi cingoli nel suolo di una via campestre,
e bisogna tornare addietro, voltare le macchine, spostare il traffico
verso un’altra arteria stradale, rifare chilometri e chilometri,
cercarsi lontano un’uscita. Dopo un’ora o due avete quasi un principio
di stanchezza e di stordimento, e sentite come la guerra pesi fino
nei luoghi dove il cannone non giunge che col boato smorzato, e che
cosa sia la fatica che si tira dietro una linea di combattenti, alla
vigilia di movere un passo fuori delle trincee. Sentite la gravità
incommensurabile che incombe su operazioni anche di non vastissima
portata, come forse son quelle che stanno per cominciare, quando il
tempo ci è così spietatamente avverso, quando si deve lottare sulle
strade come si farebbe nei pantani, e quando bisogna andare avanti
nei pantani come se fossero strade; notte e giorno, sotto l’acqua
che bagna, incolla i panni alla pelle, passa gli impermeabili e gli
stivali, e dà dopo qualche ora la stupidità brutale della pioggia che
inflaccidisce i nervi e stronca le giunture.

Procedendo per Cormons nella luce diafana dell’alba, che spuntava fra
scrosci di pioggia, incontrammo, disseminati sullo stradone, alcuni
soldati che tornavano dalle trincee. Le truppe che tornano dal fronte
si riconoscono súbito, spiccano nella pittoresca stranezza sullo sfondo
comune delle cose. Portano sulle spalle tutto il loro carico greve, e
il pondo più greve della fatica. Non parlano, non cantano, procedono
mute, in ordine sparso, come stupite al rivedere il mondo, le vie
larghe, le case, le siepi, i campi pacifici.

I primi che ci passarono accanto nel lividore del giorno, erano
ancora i più freschi, formavano la testa della lunghissima colonna.
Riconoscemmo un reggimento che tiene alcune trincee del Podgora.

Venivano di là, e avevano camminato tutta la notte. Nella loro
stanchezza fisica, ridotta allo stremo, erano pur da descrivere.
Se pittura e scultura cercheranno mai nuove forme in questa guerra,
nuove espressioni, le troveranno meravigliose in queste parvenze di
uomini stracchi, sfiniti, sovraccarichi di impedimenti, di armi, che
paiono usciti dai cunicoli di una miniera. Soldati e ufficiali, non
riconoscibili gli uni dagli altri, procedevano insieme, uguagliati
dalla sorte e dall’affanno.

Nelle immagini, che parevano fantastiche, di quei piccoli uomini
stronchi, infangati, inzuppati di pioggia, riconoscemmo le colonne
formidabili della nostra guerra.

Avevano i bei cappotti giallognoli striati, insozzati di belletta,
striati da larghe pennellate di un colore sanguigno, tenace come
vernice. Avevano trascorso nelle trincee una ventina di giorni;
avevano dormito nelle tane di pietra e di terra, di tavole marce e di
tela; s’erano seduti, accosciati nel fango; avevano le facce, le mani
incrostate di mota. Le barbe lunghe invecchiavano i volti.

Tutte le milizie che combattono in questa terribile guerra lunga,
lenta, faticosa, come tornano dai covi delle trincee per il turno
di riposo, sono così. Pensavamo, guardandoli passare, che fra due o
tre giorni, mutati i panni, lavati, ripuliti, quelli sarebbero i più
allegri soldati del mondo.

Sotto quell’ammasso di panni, d’armi, di fango rimane, come un
focherello sempre acceso, come una lampada tenace, la nostra anima di
popolo cresciuto al sole nella robusta bontà della terra.

Ed ecco che alcuni compagni di quelli che avevamo veduti passare col
carico greve — zaino, coperta, tascapane, bisaccia, scarpe di ricambio,
giberne, fucile, baionetta — curvi e incappucciati, sotto l’acqua, o
seduti per terra, sul margine di un fosso, o sdraiati sulla soglia di
una casa — li ritrovammo nella bettola di un villaggio, dove s’erano
fermati per rifocillarsi. Rivedo un sottotenente con l’ordinanza, soli
a un tavolino; altri tre soldati a un altro, in disparte. Avevano
ordinato chi caffè, chi vino, pane e salciccia; quel che la bettola
dava. Avevano bisogno di buttare qualche cosa di tepido nello stomaco
vuoto, infreddolito, ristretto. E, mentre mangiavano, li ascoltammo
parlare.

Avevano lasciato a sera i posti della morte, quando il bombardamento
nostro durava da quarantott’ore; per dare il cambio a un reggimento
fresco, che trovava nei reticolati antistanti qualche breccia aperta.
Avevan passato lassù, fra prima, seconda linea e posti di riserva
una ventina di giorni sotto l’acqua incessante. Non s’era più veduta
una stagione simile. I muretti delle trincee bisognava ogni notte
rimetterli a posto, perchè l’acqua sgretolava, rovinava, portando
via tutto, correndo a ruscelli pei camminamenti che si sfaldavano. Si
stentava a tenersi in piedi, camminare era un’impresa. Nelle grotte
s’entrava a schiena curva, a capo basso, per non urtare nelle travi, e
si camminava nell’acqua, come nei corridoi di cantine allagate.

Il sottotenente, dietro le lenti a staffa, moveva lo sguardo
vago, intontito dal lungo cammino: le mani terrose, intirizzite,
spezzavano il pane con stento. Ma il volto imberbe, di studente,
era d’una serenità tranquilla, in cui affiorava il sorriso. A fianco
dell’ufficiale, in silenzio, in atto di devozione stava l’ordinanza.
Si capiva che s’erano trovati tante volte insieme al pericolo; una
comunanza di pensieri e d’affetti s’era stabilita fra loro.

All’altro tavolino tre siciliani, occhi neri, lucenti, volti vivaci
di saraceni, razza vergine ancora, belle fisonomie argute. Dicevano
motteggiando, che con questi tempi da ladri, deve per forza esserci la
guerra. “_Lu Signore si mise a pi_...”. Avevano sulle labbra arguzie
aristofanesche, quei contadini siracusani, che fino a ieri scassavano
la terra attorno ai ruderi della civiltà magno-greca. Mangiavano di
gusto, inaffiando il pasto con sorsate di vin bianco, aspretto, cavato
dai vigneti austriaci. “Mangiamo, chè la pelle tirata vuol essere!”
Tutti e tre sopra i trent’anni, si motteggiavano come fanciulli. Uno di
essi diceva di avere una lotta col proprio zaino: “L’uno vuol fare f...
l’altro. Vedremo chi vince dei due!” Si sarebbe stati lì a sentirli
parlare: incantavano.

Che curiosa varietà di sentimenti, di fantasie, quanta poesia di anime
in queste masse grige di uomini, che paiono l’uno uguale all’altro,
quando si vedono passare in colonne lungo le strade! Chi ce la ridirà
questa poesia, chi ce lo scriverà il romanzo vero della guerra nostra,
il poema di questa italica unità discorde, della Nazione in cui le
stirpi diverse non sono ancora perdute, in cui le regioni più lontane
si ritrovano ognuna coi propri accenti, coi canti e i lazzi della
propria terra?

Come usciamo all’aperto, ritroviamo sulla strada, che giungono, che
vanno oltre, o si soffermano soldati e soldati ancora, con lo stesso
numero sopra la visiera, che vengono dalle stesse buche, che vanno
verso lo stesso riposo: che hanno gavette, fucili, vanghette, zappe,
coperte, zaini, elmetti, tutto accatastato sulle spalle, e vanno
sotto la pioggia, specchiando i volti sulla strada bagnata, lucida al
biancicare del giorno.

Sull’uscio d’una bottega, un gruppetto s’accalca dinanzi a una cesta di
frutta. Hanno comperato gli aranci; mordono coi denti bianchi la polpa
dolce, succosa, che sanguina dalla buccia rossastra. Li riconosciamo
siciliani all’accento. E tengono in mano quei frutti del sole, come una
cosa cara, un prezioso dono. Non c’è che grigio colore intorno, su cui
spiccano i rossi dischi rotondi, e pare che se ne riscaldino il cavo
delle mani i buoni figli della Sicilia lontana, che hanno tenuto per
tanti giorni filati il tristo Podgora!

                                 * * *

Filiamo verso un osservatorio di artiglieria.

Come l’aria schiarisce, i tiri delle batterie nostre rinforzano.
Andiamo a vedere i fumacchi delle granate sui baluardi del Sabotino,
se è possibile, e sul S. Michele. Bisogna cercarla così, da punto a
punto, questa battaglia, che si distende in proporzioni vaste come
l’orizzonte, e dilaga per tanti panorami.

Questa notte, verso l’una e verso le quattro, hanno tirato sulla
stazione di Cormons. Ce lo dicono all’osservatorio, aprendo gli
sportelli per dove si contempla il duello lontano dei grossi e medi
calibri sulle posizioni del San Michele. Podgora, Sabotino, Monte Santo
sono nascosti dalla nebbia. Ci dicono anche che finora le batterie
austriache hanno controbattuto debolmente. Ma qualche cosa accade sul
S. Michele verso il Bosco del Cappuccio. L’azione si orienta verso
il Carso. I nostri devono essere usciti, e a quest’ora attaccano, non
v’ha dubbio. Sul Bosco del Cappuccio gli _shrapnel_ nemici scoppiano
l’uno dopo l’altro, c’è un lampeggio continuo, un ballo di scintille
elettriche che scoccano, in furia. Il nostro fuoco è concentrato ora
sul rovescio del San Michele: si battono i camminamenti nemici che
menano alle trincee.

E nulla è più sorprendente della pace che regna attorno a noi,
attorno a questo buco donde si spazia con l’occhio su tanta distesa
di orizzonte, su un quadro mattutino di battaglia. Non s’ode che la
pioggia scrosciare sulla terra molle, rimbalzare con un suono dolce;
strepere tepida nella giornata sciroccale, con un invito alle radici
e alle fronde di scuotere il sonno dell’inverno, chè la primavera già
viene, coi quadratini verdi di grano, coi prati che germinano.

Andiamo a vedere un po’ più da vicino quel che succede laggiù. Sono le
otto della mattina.

                                 * * *

Per via ci soffermiamo a un ufficio di collegamento, dove affluiscono
notizie dal fronte per telefono e per mezzo di staffette. Abbiamo:
che verso Zagora, nella giornata di ieri, è stato segnalato un gran
movimento di truppe nemiche e di feriti. Da tutta altra parte, verso
Monfalcone, pattuglie nostre sono uscite ad assaggiare il terreno.
Alcune azioni di varia importanza paiono in corso sul San Michele.
Verso la chiesa di San Martino abbiamo provocato incendi. Si tratta, in
sostanza, di una ripresa offensiva, che di ora in ora prende maggiore
sviluppo. Il nemico impressionato, ha ricominciato a tirare coi più
grossi calibri, che da un pezzo dormivano. Riserve numerose sono
state portate avanti, le trincee loro sono piene di truppa, come si
arguisce dalla vivacità della fucileria, e come hanno constatato ardite
esplorazioni e irruzioni di piccoli nostri riparti.

Sfortuna vuole che il terreno sia così molle, che le granate si
smorzano nel fango e non tutte possono scoppiare come quando picchiano
sull’asciutto e sul sodo.

Procedendo verso Gradisca il tempo accenna a schiarire. Le quattro cime
del S. Michele si disegnano fuori della nebbia, come le gobbe di un
mostro accovacciato sulla sponda sinistra dell’Isonzo, e rivolto col
muso basso verso Gorizia.

Sotto ognuna di quelle quattro cime che il nemico tiene corrono le
linee dei nostri. Dagli osservatori delle creste l’occhio della difesa
spazia giù sul costone, e sul fiume sempre ineguale, ora gonfio d’acqua
gialla, ora striato da venature di smeraldo, e sul piano nostro che si
allarga alla destra dell’Isonzo.

Dall’alto il nemico contempla tutte le nostre vie, batte col cannone i
paesi, i villaggi, le case sole, le solitarie rovine.

Gradisca è ancora a tiro dei suoi fucili.

                                 * * *

Gradisca era un giorno un’amena villeggiatura Oggi è una vittima
squallida della guerra; porta i segni di una devastazione più
impressionante ancora di quel che potrebbe essere la distruzione
completa. Una borgata rasata al suolo, senza più una casa in piedi,
ha perso tutte le sue proporzioni, non esiste veramente più. Una città
come Gradisca, la quale ancora si tiene su, fa meglio vedere la rovina,
la solitudine, l’abbandono, lo strazio che ha sofferto e che soffre,
ed è piena di accorata tristezza. I giardini, le piazze, le strade, le
case, le ville, sono ancora lì, come un tempo, ma il luogo è spopolato,
deserto, gli usci spalancati, le finestre a pian terreno vi lasciano
guardare negli interni, oltre le cancellate vedete aiole verdeggiare
e fiorire. Tutto non è morto, non tutto è abbattuto, ma appunto per
questo il contrasto è duro per il ridente abitato di un tempo e la
sconquassata solitudine attuale.

Vedete le facciate scrostate dalla fucileria, come picchiettate
da tanti schizzi; le pallottole cadono con un tonfo tra il folto
dei bossi, o passano sibilando fra i rami, picchiano nei tronchi,
rimbalzano sui marciapiedi. A notte il tiro rincalza: si cammina con
sospetto sotto i viali, rasente i muri; non si è mai sicuri di arrivare
di qui a lì. Ogni tanto un ferito, un morto. Ogni tanto una granata va
a cadere su una casa, sfonda un tetto, sbreccia una finestra, squarcia
un muro, storce un tratto di cancellata, butta in aria tavolini
e credenze di un caffè, fra un rovinìo di legname, di vetri, di
bicchieri. Un silenzio profondo tien dietro a quegli scoppi di collera
cieca.

Se ne possono essere viste di rovine, ma ogni volta stringono il
cuore. La insistenza nella distruzione ogni volta vi colpisce e vi fa
male. C’è sempre qualche abitazione intatta, o che non mostra i segni
della rovina: soffrite per il suo strazio, che il nemico persegue
metodicamente ogni giorno e ogni notte.

Come le città resistono a questo martirio! Come stentano a morire, a
finire tutte in polvere e frantumi; come continuano, dopo mesi e mesi
di bombardamento a opporsi alla propria fine, come si erigono al cielo
anche con le rovine, ora con la vetta di un campanile, ora con la
punta di un comignolo di fabbrica, ora con le pareti scheletriche di
una casa. Le città hanno una vita tenace, come le foreste, come tutte
le cose cresciute a poco a poco, con somme di lavoro e di fatiche, col
tempo, l’industria e la pazienza: la furia della guerra le martirizza
per mesi e mesi, le fa agonizare, ma si direbbe non riesca mai a
ucciderle, ad abbatterle, a sprofondarle in una sepoltura quieta.

Quando libereremo Gradisca?

Solo quando la testa di ponte di Gorizia sarà caduta. Caduto il
Podgora, il Sabotino, il San Michele; e caduta tutta la prima linea
nemica da San Michele al mare, liberato l’Isonzo da una parte e
dall’altra.

Oggi si sta con l’unghie e coi denti ancora aggrappati al primo
ciglione del Carso: ed è guerra ingrata, terribile. Siamo al di
là dell’Isonzo come naufraghi usciti dall’acqua sbattuti contro lo
scoglio, attaccati alla pietra. Sui camminamenti, sulle baracche, sui
cimiteri piove il ferro e la morte, incombe la molestia quotidiana,
continua. Ogni metro di terra fu intriso del sangue dei nostri.

Ora si ode il crepitare della fucileria, e la voce roca delle
mitragliatrici: segni d’attacco.

Si lotta e si muore: per una trincea, per un elemento di trincea.
Quando si sfonderà tutta la linea, quando si caccerà il nemico; a
quando il balzo in avanti e la vittoria?

                             . . . . . . .




ALLE TRINCEE DI SELZ

                                                         Aprile 1916.


                                  _Alla memoria di Gigi De Prosperi._

Fummo alle cave di Selz un pomeriggio dello scorso marzo. Visitammo
le posizioni e facemmo la conoscenza di un generale che ebbe dal Re la
medaglia d’oro.

Una giornata di sole. Cominciava la primavera. C’era ancora molta acqua
nei fossi e un po’ di polvere sulle strade: un cielo pazzerello, a
enormi spazi turchini, dove giocherellavano bioccoli leggeri di nuvole.
Oltre il ponte di Pieris udimmo qualche cannonata, rada, come dispersa:
le batterie parevano annoiate e stanche quel giorno. Quiete sul fronte,
quasi indolenza da una parte e dall’altra.

Era uno di quei pomeriggi di primavera che insonnoliscono gli uomini e
la terra, quando le palpebre scendono sulle pupille al riflesso delle
strade bianche, e gli occhi delle gemme buttano le prime fogliette,
coprono i rami neri di vivide ciglia. Mazzi di fiori di pesco
spiccavano su macchie verdi di prati punteggiati da ranuncoli d’oro.
Non pareva e non era una giornata di guerra; spaziava nel dramma una
parentesi d’idillio, s’era fatta una sosta di pace. Una calma enorme,
una tranquillità profonda, appena turbata da qualche sparo, era sulla
terra e nell’aria.

Andavamo verso il Carso. La vettura levava nella corsa un traino di
polvere. Vedevamo le creste occupate dal nemico, le sue vedette ci
vedevano.

Eravamo di fronte a quel primo ciglio del Carso che gira verso il
mare, e che è il più basso. Da Gorizia a Monfalcone si inarca a ferro
di cavallo questo gradino gibboso, che al S. Michele raggiunge i 275
metri e alle cave di Selz scende sotto i cento. È come il cerchio di
una balconata, alla quale siamo aggrappati: il monte Sei Busi ne è
quasi il centro. E da Sei Busi vediamo Doberdò, al di là delle linee
nemiche, come dal S. Michele gli altri vedono Cormons e Gradisca, al di
qua dell’Isonzo. Fra Sei Busi e la rocca di Monfalcone, sotto l’ondata
della roccia sono le cave di Selz, dove andavamo.

Come la strada corre alle radici di queste rosse gobbe carsiche, poche
centinaia di metri lontana dai muriccioli nostri e nemici, vedevamo
tutte le difese, il labirinto delle trincee nostre e nemiche.

Immaginate sulla sponda di un fiume un sistema di canalotti e di ripari
fatti con la mota e coi sassi da un branco di fanciulli che giocano.
Se ne fanno tanti d’estate sulla spiaggia del mare. Durano un mattino,
viene un po’ di maretta e spazza tutto.

Questa guerra formidabile, che occupa milioni di uomini, fa di questi
giochi, disegna di queste tracce labili, che pare debbano durare un
giorno, sul terreno tutto intorno devastato.

Vedute di lontano le linee, che si guatano, si fronteggiano, si
rincorrono, si cercano, paiono minuscole cose, effetti di un capriccio,
stranezze di una mente inferma. Sembrano proprio linee tracciate da
bambini o da folli. Ma vedute da presso hanno un’aria brutta, sudicia e
feroce, la perversità tortuosa dei reticolati, le punte offensive delle
armi e le lame taglienti, e son fatte per offendere, per sorprendere,
per sovrastare, per incunearsi nel cuore delle linee nemiche, per
tagliarne fuori i lembi sporgenti, per ributtarle indietro, per
rovesciarle tutte. Seguono il terreno nelle sue scabrosità, nella sua
crosta sassosa, si acquattano negli avvallamenti, risalgono i costoni,
si nascondono e rispuntano, hanno nella loro immobilità una vicenda
strana di intenzioni, di mosse.

Ogni tratto di muricciolo è una vita di uomo; dietro ogni pietra è un
fucile, fra sacchetto e sacchetto s’appiatta un elmetto e una testa. La
difesa di terra, di sacchi, di pietra è mobile, viva, animata, tortuosa
come un serpente. Gli uomini stanno fermi, le trincee non si movono, un
manipolo irrompe, la trincea si apre, i sacchetti si spostano avanti:
avviene il balzo da una posizione all’altra, s’accende la mischia,
le trincee si congiungono anch’esse, si abbrancano, si addentano,
s’avviluppano, e così in lunghi mesi il disegno si corregge, le linee
s’intricano e districano, i salienti s’allungano o si smussano, gli
archi si ampliano: sono gli episodi della lotta, le vicende della
guerra, segnate metro per metro con gocce di sangue.

Questo il romanzo e il poema, il dramma inverosimile della guerra di
posizione, che ha lunghi, enormi intermezzi, e atti rapidi, fulminei,
nei quali centinaia di personaggi cadono e scompaiono attorno al
protagonista, che è un pezzo di muro, un lembo di reticolato, un
osservatorio blindato. È una guerra d’assedio, una lotta d’approcci:
rotolando le proprie difese le due schiere opposte s’incontrano,
cozzano come gli avari e i prodighi nell’inferno dantesco.

                                 * * *

Trovammo il generale nei suoi ricoveri. Che ha il generale nell’occhio?
Che ha nello sguardo quell’uomo? Un sorriso dolce è sul volto giovane,
ma lo inquadrano due rughe, intorno alla bocca, profonde. La carne è
segnata come una maschera, uno spirito mite la illumina. La volontà
è maschia, assidua, tenace: l’animo ha un che di vago e pio, a tratti
intimamente mesto. È di quegli uomini raccolti, che ascoltano parlare
più che non parlino. I suoi silenzi hanno non so che di musicale al
paro delle parole. Tutta la figura piccola, armoniosa, gentile, è come
i tratti del suo volto, come i gesti parchi della mano, accomodata
alla misura dell’anima, che è senza orgogli e depressioni, calma,
limpida, vereconda. Il nastrino della medaglia d’oro brilla al suo
petto, quasi non come il premio di una giornata eroica, ma come segno
e riconoscimento di un che di puro e di aureo che è nella sua natura e
umanità perfetta.

Figlio schietto dell’Abruzzo, rampollo di una razza antica e giovane
sempre, robusta e vergine ancora, il generale che parla poco offre
nello sguardo e nella voce una effusa mitezza, una perpetua poesia
di fanciullo. Il braccio destro sente ancora le ferite di novembre;
camminando, il generale s’appoggia sul bastoncino, come un pastore
della sua terra lontana; non porta armi. Nei giorni d’azione, dove è
più vicino il pericolo, è la sua persona; sulle trincee, fuori delle
trincee dove passa l’assalto è il suo occhio che guarda, la punta del
bastoncino che accenna.

Quante altre cose avrebbe potuto fare questo uomo se non fosse soldato!
Forse l’agricoltore nelle terre di Popoli, sua patria; forse il pastore
pei monti, se fosse nato povero; forse il maestro di fanciulli in una
piccola scuola. Altre circostanze avrebbero potuto volgere l’animo suo
ad altre cure.

Tra i fanciulli non sarebbe stato diverso da quello che è fra i
soldati. Avrebbe voluto bene, si sarebbe fatto amare dai piccoli, come
si fa dai grandi, da questi nostri soldati fanciulloni di vent’anni.
Egli è lì, in uno dei settori più aspri del fronte, pacato, sorridente,
buono, come sarebbe fra i banchi. Loderebbe i suoi piccoli come loda
i grandi, si compiacerebbe dei loro progressi nel leggere e nello
scrivere, come si compiace con un sorriso, con una carezza, con
un groppo alla gola delle bravure, degli eroismi e sacrifizi delle
truppe dei suoi reggimenti. I soldati sono i suoi ragazzi. La loro
scuola comune è quella del quotidiano dovere: non della violenza o
dell’aggressione o dell’odio, ma del lavoro e della serenità nella
fatica e nel sacrifizio.

Tutti i rischi delle truppe sono anche i suoi. Egli visita i soldati
in trincea ogni giorno, una o due volte, parla con loro, assaggia il
loro rancio, si occupa e si preoccupa dei particolari minuti della
loro vita. Li ascolta e li consiglia, li guarda e li segue, li conosce
e li pensa; all’ora dell’attacco non li sospinge, non li manda; va
verso le loro baracche, passa in mezzo alle loro file, butta giù i
sacchetti, esce dalle trincee, li precede, e quelli si scagliano di
qua e di là dove egli accenna. Gli sono passati avanti molti che non
hanno fatto ritorno, molti gli sono caduti morti o feriti accanto;
fu ferito anche lui come gli altri, portò la sua ferita in silenzio,
finchè gli mancarono le forze, non l’animo. Allora disse: “Ragazzi,
vado a prendere rinforzi, voi continuate”. I rinforzi non c’erano, ma
si vinse ugualmente. Il generale fu portato via in barella, curato in
un ospedale, dove il Re andò a trovarlo, gli mise la medaglia sul petto
e gli disse: “Generale, sono sicuro che Ella guarirà”. E il generale è
tornato.

                                 * * *

Fu condiscepolo di Gabriele D’Annunzio nel collegio Cicognini, a Prato.
E ci parlò quel giorno del “suo conterraneo glorioso”.

“Eravamo compagni di scuola, me lo ricordo benissimo. Era un bel
ragazzo, un po’ effeminato. Non studiava molto, era tuttavia il primo
in greco e latino. Scriveva allora le prime poesie. Noi veramente
credevamo che le copiasse. Lo avevamo in gran concetto, ma non
avremmo potuto presagire la gloria che ebbe. Di matematica mi pare non
intendesse nulla. E, se ricordo bene, quella lampada votiva che egli
celebrò in una delle sue prose, era una fiammella sulla quale mettevamo
a cocere la farina di castagne.

“Aveva grande fantasia e si appartava da noi sovente, faceva vita
piuttosto ritirata, leggeva molto. Da allora non ci siamo più veduti.
Egli è salito e mi ha dimenticato. Oggi ho letto che gli hanno dato la
medaglia d’argento. Gli voglio scrivere, per congratularmi”.

Anch’egli era salito molto alto, il generale. Ma a sentire lui non
pareva. Non si sale mai abbastanza per la via del dovere. Non ci sono
cime oltre le quali non si possa andare. È una via di tutti i giorni,
di tutte le ore, di tutti i minuti. Da quando la guerra è cominciata,
la via non fa che allungarsi. Quando la guerra sarà finita, sarà ancora
quella, e sempre aperta, per gli uomini di buona volontà, fino al
giorno del riposo, che non è in questa vita.

E si capiva che il generale non pensava mai, non aveva mai pensato a se
stesso, nè alla sua gloria, nè alla sua salvezza.

Nel suo sorriso era come la punta di una malinconia pensosa d’altrui,
quasi il ricordo mesto di quelli che gli erano morti accanto, che
avevano chiuso le pupille per dargli la vittoria. Egli li ricorda
tutti, i suoi caduti; li porta nel cuore. E con poche parole ci fece
l’elogio dei propri soldati. Ci disse che abbiamo dei grandi soldati:
perchè abbiamo dei veri uomini, dei quali si fa quello che si vuole,
che si portano dove si vuole. “Forse — egli ci disse — il nemico non ci
è inferiore nella resistenza fisica: ma noi abbiamo riserve e risorse
morali mirabili. Con queste vinceremo la guerra”.

Queste cose ci diceva un uomo nel quale sentivamo di poter credere.
Poichè egli ci appariva pieno di fede e insieme di ragione e di
buon senso, e la sua vita era di nobili fatti. Uno di quegli uomini
di razza, che hanno l’antichità dei padri nelle vene, l’esperienza
e l’istinto di molte generazioni sane. L’Abruzzo non ha politici,
ma tradizioni di poesia, di arte, di cultura e di agricoltura,
antichissime che si perdono nei tempi; e di guerra. Quell’uomo era
antico come la sua terra.

Come fummo all’aperto lo vedemmo guardare le piante d’un giardinetto
che fiorivano attorno alla sua casa. Le piante del giardino, là dentro,
e poi come fummo sulla strada, le piante degli orti e i mandorli
fioriti, le siepi, i campi.

— “Peccato che queste belle campagne siano tutte in abbandono”.

Avevamo le trincee nemiche a poche centinaia di metri, camminavamo
lungo la strada scoperta. E gli occhi del generale spaziavano sui campi
dove la primavera spargeva i suoi ciuffi di verde e i suoi grumi di
fiori.

                                 * * *

Per salire alle posizioni infilammo un camminamento. Chi mai loderà
abbastanza i camminamenti nella guerra di trincea? Essi sono quel che i
grandi viali alberati, ombreggiati in una città avvampata, percossa dal
sole di un mezzogiorno di agosto. Ci si respira qualche boccata d’aria
fresca.

Camminamenti sono i sentieri che menano alle trincee. Nei più dei
casi ai loro fianchi sono due muriccioli di sacchetti, levati ad
altezza d’uomo. È già una buona protezione contro i tiri di fianco. Ma
certi camminamenti possono essere presi d’infilata, che è il tiro più
pericoloso; allora nei tratti bersagliati si posano tronchi d’albero
o travature spazieggiate, per sbarrare il tiro della fucileria e
delle mitragliatrici. I camminamenti più sicuri sono tuttavia quelli
scavati a fossato, con rivestitura completa e potente, o addirittura a
cunicolo, addentrati nella terra o nella pietra. Si è relativamente al
riparo anche dalle grosse artiglierie.

L’utilità di questi lavori è palmare. È proprio sulle zone
immediatamente retrostanti alle trincee, che batte quotidianamente
quella parte della artiglieria nemica che non ha il compito di cercare
i pezzi dell’artiglieria avversaria. Su queste zone le truppe vanno e
vengono per i cambi: passano a ogni ora del giorno le _corvées_, col
rancio, le munizioni, i carichi di materiale.

Le trincee, nei giorni di calma, godono d’una certa immunità. La
stessa vicinanza in cui sono verso le trincee nemiche le protegge.
L’avversario non tira sulle trincee nemiche per non colpire le proprie,
che distano in alcuni punti dieci, quindici, venti metri. Per lo meno
non tira con le artiglierie. Fra trincea e trincea la lotta si fa a
colpi di fucile, a scariche di mitragliatrice, a lancio di bombe. Gli
_shrapnel_ e le granate cadono sulle zone retrostanti, sulle strade,
sui sentieri, sui villaggi, dove si dubita siano truppe accantonate,
insomma sulle retrovie, dove l’occhio del nemico è in grado di
individuare una quantità di bersagli, colonne in marcia, carri, uomini
isolati.

I camminamenti sono dunque opere di protezione e di difesa;
indispensabili anche all’offensiva, per poter fare accorrere rincalzi,
per poter sgombrare il terreno dei feriti. Base di una grande offensiva
saranno sempre le solide e abbondanti opere di difesa.

Tutto ciò è intuitivo, fa parte, più ancora che dell’arte o scienza
militare, del buon senso.

Di fatto, le mitragliatrici, i cannoncini, i lanciabombe, armi
che si collocano nelle trincee stesse o nei tratti adiacenti, non
possono esplicare la loro funzione se non sono esse stesse abilmente
e solidamente coperte. Il loro fuoco essendo facile a individuare,
provoca un tiro concentrato, sotto il quale non si potrebbe reggere se
mancassero difese adeguate.

Solo un esercito che abbia condotto a termine grandi opere difensive
può ragionevolmente volgersi all’offensiva. Ecco anche perchè la guerra
moderna richiede periodi così lunghi, mesi e mesi, di sosta apparente
e di silenziosa preparazione, ecco perchè essa è fatta di lavoro e
di fatica, ecco come i nemici che abbiamo di fronte, gente dura e
metodica, che occupa in lavori gran parte del tempo, riesce ad opporsi
al nostro slancio, sminuzza le nostre avanzate, delimita e frastaglia i
nostri progressi. Ed ecco il punto in cui il soldato italiano ha dovuto
subire necessità del tutto nuove, e assoggettarsi a una disciplina che
pare aliena dalla sua natura.

Il nostro soldato era, specie nei primi tempi, sprezzante del
pericolo. Molti dei nostri giovani ufficiali credevano ancora alla
guerra brillante, alla lotta aperta dell’uomo contro l’uomo; erano
garibaldini. Contro il garibaldinismo il nemico usava poco gli uomini e
molto usava le artiglierie e le mitragliatrici.

Più noi ci scoprivamo, più egli si copriva; ai nostri balzi rispondeva
con altrettanti appiattamenti e interramenti. Noi cercavamo la vittoria
nella luce, nel sole, egli preparava la difesa e l’offesa nell’ombra,
nei camminamenti, nelle caverne. Non si fiaccava, ma ci massaggiava
duramente. Egli aveva su noi il vantaggio di un anno di guerra europea.
Per noi tutto era novità, per lui tutto era esperienza. Si impara
sempre qualche cosa dal peggiore dei nemici: noi abbiamo imparato molto
dal nostro.

                                 * * *

Scendemmo dunque nei camminamenti a fossato che dovevano condurci su
alle trincee. Dopo le grandi piogge di marzo l’acqua stagnava ancora
lungo certi tratti. Pareva di camminare nel letto di un ruscello.
Diguazzammo prima con le scarpe, poi fino ai polpacci. Il pomeriggio
era caldo, assolato, uno di quei pomeriggi di primavera che vi dànno
il senso della piena estate; e l’avventura era piacevole. Dieci giorni
prima avremmo detto altrimenti; le nostre calzature avrebbero dovuto
impegnare un’altra lotta.

Tuttavia in guerra ci si avvezza a tutto. L’uomo sarà sempre
l’animale più adattabile dell’universo. Vive sulla terra e sotto
terra, sull’acqua e sotto l’acqua, con qualunque tempo, a qualunque
temperatura. L’altra mattina, sul Pal Grande un ufficiale degli
alpini, in mutandine, faceva il bagno sulla neve, mentre sul capo
gli sfioccavano gli _shrapnel_. La guerra non fu mai così piatta:
tuttavia ha i suoi momenti e i suoi episodi fantastici. E nulla era
più fantastico in quel marzo radioso, fiorito di mandorli, del nostro
procedere al buio, curvi, nell’acqua, sotto le cannonate.

Raggiungevamo pel camminamento soldati che procedevano carichi di
sacchetti e di tavole: passavamo innanzi a gruppetti di sterratori;
davamo il passo ad altri che scendevano dalle trincee. Erano andati
su con gli asinelli ed ora tornavano. Le bestiole, piccole, grigie,
nerastre, facevano la loro strada tranquillamente al di sopra del
camminamento, o ai suoi lati, su un sentiero scoperto. Frustavano le
mosche col mozzicone della coda; soffiavano sulla polvere nuova, che
metteva loro nelle narici il gusto dolce della primavera, spiccavano
coi denti cespi di erbetta. Il loro fatalismo era sublime, di quella
sublimità esemplare, filosofica, che l’asino rivela in ogni sua
faccenda e che lo rende spesso di tanto superiore all’uomo, il quale si
è sempre vendicato delle sue virtù proverbiando i suoi difetti. L’asino
non è impressionabile, come prova la lentezza dei suoi placidi orecchi.
Non capisce perchè in una bella giornata si debba lasciare la strada
buona per la cattiva. Passando loro accanto ci accorgemmo di essere
guardati con indifferenza.

Ho veduto molte volte gli asinelli in terreno battutissimo, bersagliati
da una tempesta di medi calibri. Non movevano neppure la coda. A
differenza del cavallo, l’asino non si interessa affatto alla guerra,
non prende la più piccola parte alle battaglie, non ha slanci di
generosità e di odio per nessuno; delle lotte più accanite, delle
mischie più furibonde rimane sino all’ultimo spettatore impassibile,
inerte. È grande perchè è semplice, è eroico perchè mite, serve perchè
è buono, è buono perchè è sobrio.

                                 * * *

Ai baraccamenti trovammo i soldati che si asciugavano al sole. Tutto
asciugava al sole, quel giorno: la terra, gli uomini, le baracche,
il piccolo cimitero che raccoglie i nostri morti. Forse anche quelli
asciugavano; ci deve essere molto umido laggiù. Si mettono le croci
sui tumuli, le tavolette coi nomi, le lodi brevi, i fiori, ma non si
può fare di più. Si ricordano, si tengono vicini, si dice la messa su
un piccolo altare improvvisato sulla piana di una macchina da cucire,
portata via da una casa diruta, ma l’aria, la luce, il sole, la
primavera non arrivano fino ai morti, sono il lusso dei vivi. Tuttavia,
quando piove fa ancora più pena saperli laggiù. E come il tempo si
rasserena si pensa che essi non lo vedranno, che hanno gli occhi
chiusi, sono distesi, coperti, e questo pensiero è triste.

Bene: dopo un poco non ci si pensa: la vita è piena di questi
mutamenti: tutti si deve o prima o poi morire. E intanto ritorna la
stagione buona, si può uscir fuori delle baracche senza avere sulla
pelle i vestiti umidi incollati, senza avere l’acqua nelle scarpe e
nelle ossa. È il piacere delle lucertole che si sdraiano al sole, la
terra fuma, l’orizzonte s’apre, si vedono le strade bianche lontano,
un occhio azzurro, aperto, che è quello del mare, distese di campi,
coi canapugli gialli, strisce brune di siepi, braccia di alberi che si
stirano al caldo, scossi dal torpore, le groppe del Carso, la schiena
del Sei Busi, con le nostre linee e le nemiche accanto, il padule,
i vigneti incolti, abbandonati, i canali irrigatori, la rocca di
Monfalcone, i frammenti intatti di boscaglie, tutto il paese fertile
e deserto, teatro della guerra e della solitudine, che va verso il
mare da un lato, verso l’Isonzo dall’altro, disseminato di paesi altra
volta popolosi e ridenti, ridotti a cumuli di macerie, a bersagli di
batterie, a ricoveri perigliosi di sentinelle o di truppe.

Sopra i baraccamenti, via via per la traccia bizzarra delle trincee,
quali siano le posizioni nostre non si può dire, non si può fare
intendere a chi non ha visto, a chi non c’è stato. Descrivere, non è la
parola; non si riesce a descrivere. Abbiamo fatto tante fotografie di
questi luoghi e di altri, ma le fotografie non rendono che particolari
minuti della scena; la scena nella sua larghezza, nel suo tutto
insieme, nel suo groviglio e confusione inestricabile di muri, di
fossi, di ridotti, di scavi, di grotte è quella che conta. E con mezzi
meccanici non si rende.

Bisogna esserci stati, bisogna tornarci, bisogna averci vissuto. Allora
l’occhio, la mente, l’animo s’accasano in questi luoghi, ognuno di essi
diventa un mondo; in essi si vive da quattro, da cinque, da sei mesi;
si conosce ogni sentiero e ogni pietra, ogni parapetto e ogni cuccia,
ogni passaggio mortale e ogni riparo; questa è una tomba recente,
quella è un avanzo di vecchia trincea espugnata il tale giorno, dal
tale battaglione, che ebbe i tali morti, i tali feriti; quello è il
punto dove il generale fu ferito in novembre, dove il maggiore Embabi
morì. Adesso ci si passa, ci si cammina, ci si sofferma; allora era
tutto terreno scoperto, qui era l’inferno, là era l’inferno, più
oltre era l’inferno. I feriti imploravano, i morti imbarazzavano, i
vivi urlavano, erano attacchi, contrattacchi, progressi, regressi,
spiegamenti di truppe, irruzioni violente, assalti alla baionetta,
colonne di prigionieri, barelle che passavano, l’inferno, l’inferno.

Ma ci volevano ributtare dalle cave di Selz, come dal Sei Busi, come
dal San Michele, e più oltre dal Sabotino, dal Podgora, dal Kuk; e
non ci riuscirono, lasciarono morti su morti a centinaia, armi, feriti
dappertutto, e andarono indietro. Gli strappammo di sotto i piedi la
terra passo per passo, ci affacciammo qui sulla cresta delle cave, fino
a vedere la loro conca mortifera, pestifera di morti, quella tragica
conca di Doberdò che pare un vaso in cui le artiglierie nostre da mesi
maciullano il nemico come con un pestello che non ha tregua.

Verso il mare essi hanno il Cosich, il monte a cono, con ciuffi
di alberi senza foglie, da cui tirano con le batterie e cercano di
tagliarci ogni avanzata.

                                 * * *

Eppure abbiamo fatto un passo avanti anche di questi giorni su questi
crostoni del Carso. In una settimana abbiamo messo fuori combattimento
più di mille nemici, abbiamo espugnato un lungo tratto di trincea.
Cominciammo col dare l’assalto a circa centocinquanta metri di
trinceramento nemico. Fermati nel primo sbalzo, ne demmo un secondo.
Contrattaccati, mandammo avanti nuove truppe; assalite anche queste
di notte, ci ributtammo avanti di pieno giorno. I centocinquanta metri
divennero circa seicento; i prigionieri salirono a più di duecento. I
morti non si sono contati. Si calcola che il nemico ne abbia lasciato
almeno uno per ogni metro di difese perduto.

Venivano avanti come demoni. Prima a masse dense, poi a colonne
serrate, alfine a piccole squadre. Si può vedere anche adesso come
cadevano, le file addosso alle file, i mucchi accanto ai mucchi. Le
mitragliatrici li falciavano come si falcia il grano, l’erba. Cadevano
a decine sulle gambe stroncate, coi petti e le teste che buttavano
zampilli di sangue. I colpi dei nostri cannoni prendevano su gli
uomini, li buttavano in aria, le braccia e le gambe divaricate, li
rammulinavano a venti o trenta metri dal suolo insieme coi fucili,
le pietre. Era uno spettacolo di orrore, di follia, di strage
indescrivibile.

Quella di Selz è stata una lezione. Ma poichè tutto è possibile,
potrebbe anche darsi l’assurdo: che gli austriaci non l’avessero
capita.




SUI GHIACCI DELL’ADAMELLO

                                                         Maggio 1916.


                          _Alla memoria del Generale Carlo Giordana._

Siamo saliti sull’Adamello a trovare i nostri soldati. Abbiamo seguìto
le loro strade fin dove si perdono in sentieri, abbiamo battuto i
sentieri fin dove la neve li copre, siamo andati da capanna a capanna,
di pesta in pesta, dall’uno all’altro paletto lasciato a indicazione
del cammino nella desolata solitudine dei ghiacci, su fino alle grotte
candide dove si annidano a guardia delle linee recenti gli ultimi
nostri garibaldini delle Alpi.

Che scrive il _Berliner Tageblatt_ delle nostre azioni recenti
sull’Adamello? Che sono un miracolo della guerra moderna.

Siamo saliti a 3200 metri. Abbiamo portato cannoni anche più in alto.
Tutto il massiccio dell’Adamello, meno un tratto di poche centinaia di
metri, è in nostro possesso. Siamo attendati su un ghiacciaio che ha
più di sessanta chilometri quadrati d’estensione. Cercate in Francia,
in Russia, in Asia un campo di battaglia più inverosimile. Cercatelo
nella storia. Cercatelo nei racconti di Wells o di Verne. Non è mai
stato immaginato.

Neanche noi, all’inizio della guerra avevamo in mente che ci fosse
qualche cosa da fare lassù. I tratti del fronte nei quali avremmo
dovuto prendere l’offensiva erano scelti. Erano anche noti i punti dove
ci saremmo organizzati alla difensiva. Il massiccio dell’Adamello non
apparteneva nè a questi, nè a quelli. Rappresentava, per così dire, la
non-guerra. “_Di qui non si passa_” era lassù il motto della natura.

Negli orrori di quella solitudine neanche i camosci si spingono.
D’inverno è uno spento mondo, in cui vivono solo le nevi, in cui le
acque correnti si polverizzano o cristallizzano. Come viene l’estate,
il ghiacciaio si scioglie alla superficie, rivoletti d’argento
corrono per il piano vitreo, sgorgano dalle spaccature di cristallo,
precipitano nei crepacci, decine di metri profondi, azzurri come le
onde di un cupo mare, ricche di riflessi mutevoli, di scintillii, di
bagliori. Allora il ghiaccio vive, palpita e guarda dai mille occhi
mobili, fantastici, insidiosi: disteso con le sue vaste branche
dall’una all’altra cresta del massiccio, come un immane essere
prensile, una specie di mostruoso polipo, che avvolge di amplessi
possenti i granitici fianchi delle montagne che si denudano al sole.
La materia si agita in occulti misteriosi amori. Sono le nozze della
materia, gli incontri folli delle molecole, il ballo degli atomi, la
giovinezza del mondo, che rinasce da un sonno di morte, e ripartecipa
al travaglio della vita perenne.

Non era dunque l’Adamello un punto del fronte contro il quale dovessimo
pur pensare di premere, o dal quale potessimo attenderci una pressione
nemica. Esso non unisce, ma separa Val Camonica dal Trentino. Non
era una porta che si dovesse aprire od abbattere. Anche dinanzi
alla violenza delle armi, che sforza ogni resistenza, che rovescia
ogni opposizione, che si accanisce contro ogni tenacia, il gruppo
dell’Adamello rimaneva come qualche cosa di troppo elevato, di troppo
superiore ed estraneo a tutte le lotte, i tentativi e le competizioni:
ostile egualmente ai due avversari, che teneva fra loro lontani,
recinto di orrore e di silenzio, con le molte vette all’intorno e coi
passi dai nomi inesplicabili e maliosi: Tòpete e Fargorida, Veneròcolo
e Brizio, Mandrone e Carè Alto, Pisgana, e Crozzon di Lares.

Solo un appellativo squillava quasi come invito e incitamento
ardimentoso, incalzante: quello di Punta Garibaldi. E fu nel nome
eroico, che i nostri primi soldati diedero all’Adamello il battesimo
della guerra.

                                 * * *

Alle falde del massiccio, sul versante italiano, fu costruito anni or
sono un rifugio.

Scoppiata la guerra, i nostri soldati vi presero stanza e cominciarono
a costrurre qualche baracca. Il contingente di uomini era piccolo, le
masse affluivano altrove.

Il confine correva a mezzo il massiccio, e noi sostammo al di qua.
Affidammo al ghiacciaio la prima e migliore difesa. Contro quel
baluardo ciclopico il nemico non aveva forze da lanciare. Nessuno
dei suoi piani d’invasione contemplava la traversata di quel mare di
ghiaccio, costituente una specie di angolo morto della gran guerra che
divampava su tutto il resto del fronte.

Eppure i nostri si mossero. Benchè il rifugio fosse un posto
avanzatissimo, gli alpini ne fecero il centro di una intensa attività.
Ogni mattina partivano di là pattuglie e compagnie in ricognizione.
Stavano fuori buona parte della giornata, tornavano a sera; talvolta
perlustravano le montagne circostanti di piena notte. Studiavano il
terreno, si allenavano alle più aspre fatiche, alle più rischiose
ascensioni. E come sul rifugio pendeva la cresta più occidentale del
ghiacciaio, su per il petrame della gradinata che conduceva a quella,
s’inerpicavano, in vista alla prima vitrea distesa, la vedretta del
Mandrone.

Passo Brizio segna quella imboccatura del ghiacciaio, ed è come un
cancello aperto in una rastrelliera di vette, formata dall’allineamento
dell’Adamello propriamente detto (3554), di Monte Veneròcolo (3325),
di Monte Venezia e di Corno Bèdole: linea che digradando s’innesta
alla difesa del Tonale. Di fronte a questa specie di cancello la
vedretta del Mandrone si distende fino al secondo allineamento montano,
costituito da Monte Fumo (3478), dal Dosson di Genova, o anche Crozzon
di Genova (3441), dalla Cresta della Croce (3373), dalla Lobbia Alta
(3196), dalla Lobbia di mezzo (3002), dalla Lobbia Bassa (2959): linea
le cui depressioni formano i passi di Monte Fumo (3402) e della Lobbia
Alta (3036).

Oltre questa seconda cancellata, il ghiacciaio prende il nome di
vedretta della Lobbia, con uno sviluppo di circa due chilometri e
mezzo, mentre quella del Mandrone ne ha quattro all’incirca. E la
vedretta Lobbia è chiusa a sua volta da una terza serie di alture,
prolungamento del versante orientale dell’Alta Valle del Chiese. Nei
riguardi dell’azione nostra, queste ultime alture, con andamento quasi
parallelo alla precedente linea, culminano nel Corno di Cavento (3400),
nel Crozzon di Lares (3354), e nel Crozzon di Fargorida (3082), e si
deprimono ai rispettivi passi di Cavento (3195), di Lares (3256) e
di Fargorida (2923). Oltre la quale catena numerosi valloni scoscesi
conducono nella Valle di Genova, dove nel primo maggio della guerra
erano i posti avanzati del nemico, molto al di là del confine.

A guardia del rifugio ponemmo dunque in maggio alcuni piccoli posti
sul Passo di Brizio: lievissime pattuglie, che erano come l’occhio del
ghiacciaio. Nel mese seguente, approssimando l’estate, la prima linea
fu occupata con posti d’avviso di carattere stabile. Fra i sassi e le
nevi sorsero alcune tende.

L’osservatorio era stupendo. Pareva un nido di aquile. Tutta la
vedretta del Mandrone gli era sottoposta, un piano immenso di lago
gelato, una calotta polare, che andava a urtare contro lo sbarramento
della seconda linea montana, contro la piramide della Lobbia Alta,
per piegare alla destra e ridistendersi in ampiezza fino alla terza ed
ultima linea, precipite su Val di Genova.

Punta Garibaldi si leva alla sinistra del passo Brizio, come il
torrione d’una fortezza medievale a guardia del ponte. È una mole di
blocchi rettangolari, di color bruno, sovrapposti l’uno all’altro in
tante stratificazioni. Dalla parte della vedretta, esso scende a picco
sul tavoliere dei ghiacci: ed è senza neve, tutto essicato, scavato,
screpolato dal vento. L’aria lavora la pietra come l’acqua il fondo dei
torrenti, la rode, la morde, la lima, la spacca. La parete orientale
del picco ha le rughe profonde, le ferite, gli squarci di una vecchia
faccia di gigante alpino. La furia degli elementi ha tagliato nella
roccia le sue pagine levigate, sulle quali ha scritto la storia delle
sue lotte, dei suoi assalti. La tormenta che infuria sovente sulla
vedretta, viene a ingolfarsi in quella specie di forra e sbatte contro
l’ostacolo dell’immane pilastro.

Le nostre scolte avevano dovuto celare le tende entro i triangoli
aperti fra i blocchi granitici, perchè non fossero strappate
dall’uragano. Le avevano legate con corde, inchiodate alla roccia. Non
un filo d’erba cresce lassù, non un seme sbattuto dal vento riesce a
metter radice.

                                 * * *

Settimane e settimane trascorsero lassù, dandosi cambi frequenti,
attendendo un nemico che non si faceva vivo. I giorni di tormenta
trascorrevano bui come le notti, sotto le tende senza paglia era
un’oscurità completa. Allo scoperto, quando la tormenta saliva dalla
vedretta, o irrompeva dalle gole, avvolgendo tutto in un pulviscolo
grigio, in un nebbione pungente, che feriva a sangue la faccia e
tagliava le mani, le scolte soffocavano.

Le notti di tempesta erano atroci. Nessun lume reggeva, non si
riusciva neanche sotto la tenda ad accendere un sigaro. Le mani, i
piedi gelavano. Bisognava ravvolgersi nelle coperte umide o incrostate
di ghiaccio. Erano ore indescrivibili di attesa, di pazienza, di
resistenza, di passione. La consegna era più dura della roccia. Gli
animi più duri della consegna.

Soldati e ufficiali aggrappati alla pietra vivevano di quella profonda,
semplice, tenace vita che l’uomo porta dentro di sè, sotto l’apparenza
della vita consueta, fatta d’immaginazione, di convenzioni, di
desiderî, di capricci. In ognuno di noi sono queste riserve elementari
di energia, queste possibilità fisiche di resistenza, delle quali in
tempi comuni ignoriamo la portata. Sono forse gli avanzi dell’antica
vita selvaggia, ferina, che la fatica, la lotta per l’esistenza, la
guerra, risollevano entro di noi.

E tuttavia la resistenza lassù era tanto più dura, quanto meno poteva
volgersi contro il nemico, quanto più era contro le cose. Non la
guerra, ma la solitudine, la pietra, il freddo, la tormenta lottavano
contro i nostri. Gli uomini si dovevano misurare con le cose enormi,
impassibili, eterne, fatte per superarci nello spazio e nel tempo; che
prima o poi ci vincono tutte, perchè noi passiamo e quelle rimangono,
l’uomo soffre e quelle non sentono, l’uomo si consuma e quelle si
rinnovano o si succedono sempre.

Le nostre scolte rimasero. Si doveva rimanere lassù fermi, soli,
perchè l’ordine era questo. Non di avanzare, ma di attendere. Si doveva
obbedire.

Un giorno molto lontano, quando lo avevano fermato, quando più che
fermato, gli avevano imposto di tornare, il Generale non aveva scritto
su un foglio di carta, sul modulo di un telegramma questa parola:
Obbedisco?

Le oscure scolte dell’Adamello riconsacravano il luminoso esempio.

                                 * * *

Un giorno, verso la metà di luglio, uno degli alpini di scolta a Passo
Brizio credette vedere una pattuglia sbucare dal fondo della vedretta
di Mandrone. Era un mattino chiaro, il lastrone lucido del ghiacciaio
mandava lampi abbaglianti, che ingannavano l’occhio. Ma non c’era
dubbio: il nemico avanzava in ricognizione. La pattuglia, in fila
indiana, era di una quarantina di uomini. I nostri erano quattro.

Nessuno descriverà la gioia, l’esultanza, l’allegrezza irrattenuta,
sfrenata che si impadronì dei nostri a quella vista improvvisa. Erano
soldati soli, senza ufficiali; comandavano se stessi. Scorgevano
il nemico per la prima volta, lo vedevano avanzare su per la crosta
liscia, venir sotto tiro passo per passo, senza sospetto.

Poteva essere l’avanguardia di un nucleo più numeroso: non sarebbe
stato inopportuno mandare qualcuno al rifugio per avvertire il Comando.
Nessuno volle andare, nessuno volle muoversi dal posto.

Di balzo i quattro si sparpagliarono su per il crostone di Punta
Garibaldi, ognuno si acquattò dietro un ronciglio, col fucile fra le
ginocchia, i pacchi delle cartucce a portata di mano, per terra. Erano
tutti tiratori scelti, sicuri del fatto loro.

Quando ebbero misurata a occhio la distanza aprirono un fuoco calmo,
avvicendato. Tirava l’uno e taceva, poi tirava l’altro da un altro
punto, poi il terzo, poi il quarto. Non c’era fretta, e non bisognava
neanche spaventare il nemico, facendogli credere che molti fossero alla
difesa del passo: nel qual caso la colonna avrebbe forse ripiegato
rapidamente. Si doveva capire che si trattava solo di quattro fucili
contro quaranta. Gli assalitori dovevano essere attirati dalla scarsità
numerica dei difensori, nella speranza di sopraffarli e di giungere
al passo dall’alto del quale avrebbero potuto esplorare la nostra zona
circostante al rifugio.

Ecco, le prime pallottole fischiarono sul passo, andarono a
schiacciarsi con un tonfo chioccio contro le rocce. Cercavano i nostri.

Dalle buche del torrione questi aggiustavano il tiro in tutta calma,
dandosi la voce, cominciando a contare quelli che si vedevano cadere.
Furono quattro, poi altri quattro, poi altri quattro ancora che si
afflosciarono sul ghiaccio, e non si mossero più. Allora i superstiti
cominciarono a indietreggiare. A un tratto uno si mise a fuggire,
un altro lo seguì, gli altri tennero dietro. Alcuni erano feriti,
camminavano zoppicando, senza più volgersi, senza più sparare.

E i nostri cominciarono a bersagliarli di grida e di urla. Pur
scaricando i fucili, li chiamavano indietro, li sfidavano a salire, a
venire a prendersi il passo.

Quelli, a uno a uno scomparvero donde erano saliti. I compagni caduti
rimasero sul ghiaccio; strane apparizioni di morte in un quadro di
fulgori abbaglianti, divini, che nessun episodio di strage aveva mai
turbato.

Solo allora le quattro scolte, scendendo per le scalinate della roccia,
si accorsero di perdere sangue. Erano state tutte e quattro ferite.

                                 * * *

Questo accadeva il 15 luglio del primo anno di guerra. Da allora
sull’immenso ghiacciaio non apparve più l’ombra di un soldato nemico.

S’entrava nella grande estate e il massiccio dell’Adamello mutava forme
e colori. Le pareti dei picchi si spogliavano delle nevi; ai soffi del
vento caldo scrollavano a lembo a lembo la candida pelliccia. Nelle
anfrattuosità delle selle, nelle fenditure riposte restavano lucide
striature e sparsi candori. Il nero e il bianco s’avvicendavano, la
roccia erompeva dallo scintillio monotono dell’inverno. E le vedrette,
sul cui piano s’erano sciolte le nevi, si tingevano di azzurro,
balenavano alla luce. Apparivano qua e là, in forma di risucchi in una
gran distesa d’acqua, i nudi vitrei gorghi dei crepacci.

La stagione e il terreno invitavano alle escursioni alpine, e
le ricognizioni che si fecero ebbero questo carattere di _sport_
arrischiato. Il còmpito era di esplorare i luoghi e riconoscerli punto
per punto. La guerra era ancora all’inizio, l’inverno relativamente
vicino, e nessuno pensava a una occupazione del ghiacciaio. Pareva
che lo stesso nemico ne rifuggisse, poichè non si faceva vedere, ci
abbandonava tutto il deserto.

In perfetta quiete trascorse tutta l’estate e l’autunno. Alla fine
dell’anno le condizioni della montagna erano tali che l’occupazione
nostra del Passo Brizio, difficile e piena di sacrifizio, rappresentava
un còmpito per se stesso mirabile.

                                 * * *

Ma un altro, anche più grave e complesso, ci attendeva al basso. S’era
venuti nel proposito di aumentare il presidio che teneva il rifugio.
Nuove reclute arrivarono, giunsero alpini delle classi richiamate, si
deliberò di costituire un nucleo di sciatori.

Ne fu affidata l’istruzione a un giovane capitano, e tutto l’inverno le
nuove truppe lo passarono in esercitazioni. Squadre volanti partivano
dal rifugio, si sparpagliavano sulle nevi, risalivano i costoni
intorno, a destra e a manca del passo che rappresentava l’estrema
occupazione nostra; si allenavano. Erano un pugno di uomini, ma la
guerra di montagna non si fa con le grandi masse.

Molte più braccia occorrevano pei servizi di rifornimento. Si
richiedevano lavori e fatiche immense, date le distanze dal piano, le
strade solo fino a un certo punto praticabili, poi i sentieri che la
neve aveva ricoperti, le ardue pendenze, le valanghe.

Si dovettero costituire colonne di portatori, vere cordate umane per le
quali salivano i viveri, le provvigioni, gli indumenti, le coperte, le
lane, le munizioni, le armi, i materiali per le baracche. Rifornimenti
enormi erano accumulati al piano. L’amministrazione militare mandava
roba, giungevano ogni settimana offerte di privati, centinaia di
pacchi, di sacchi, di scatole, di casse: ogni tanto perveniva una serie
di nuovi oggetti, tipi di scarpe più solide, _stoks_ di occhiali, di
passamontagne, di sacchi a pelo. Si preparava la ripresa d’estate.

Soldati cadevano malati, bisognava trasportarli agli ospedali; c’erano
casi di congelamento; bisognava organizzare i soccorsi e i trasporti
solleciti. Anche i poveri morti bisognava caricare sulle barelle,
portarli in ispalla a seppellire giù nella valle, dov’è il cimitero, la
terra. Lassù non era che neve e ghiaccio.

Truppe territoriali, uomini sopra i trent’anni che non avevano
còmpiti di prima linea, vennero a dare la mano agli alpini. Con le
lunghe catene ricongiunsero giorno per giorno i posti avanzati alla
sottostante vita dei villaggi e dei paesi. Centinaia di uomini andavano
e venivano nel più crudo inverno, sulla neve, fra la neve, nella
tormenta, pei valichi stretti e rischiosi, su per le falde impervie
come muraglie, strapiombanti l’una sull’altra. Erano giornate intere
di marcia; notti trascorse alla meglio, dopo le fatiche del giorno,
ritorni lenti e guardinghi giù pei pendii diroccati verso le sedi
più comode, che anche a valle s’andavano costruendo per opera d’altri
innumerevoli lavoratori.

                                 * * *

Non appena fu possibile si provvide a una teleferica. Si trasportarono
le macchine, migliaia di metri di corda di ferro, l’altro necessario.
Alpini e territoriali si aiutarono a vicenda. Tonnellate d’acciaio
furono così trasportate passo per passo, si portarono su gli appoggi e
le travature: la macchina ancora smontata, pezzo per pezzo, chilogramma
per chilogramma, fu fatta salire: in pochi giorni la prima teleferica
funzionò. Abbreviava di circa tre ore il cammino.

Si provvide alla costruzione della seconda. I Comandi non perdevano
un giorno, l’Amministrazione mandava quel che si chiedeva, tutte le
autorità agivano con energia anche sugli ingegneri borghesi. Si fissò
il numero dei giorni nei quali la seconda linea doveva essere pronta.
Il trasporto dei materiali fu facilitato dal funzionamento della prima
e in pochissimo tempo la seconda teleferica funzionò.

Senza indugio si iniziarono i lavori per una terza, la più lunga di
tutte. Un altro motore salì, salirono le corde e i carrelli, furono
costruiti altri due capannoni, e la terza linea era pronta quando già
si cominciava a provvedere per la quarta.

La guerra usciva anche lassù dal puro sforzo muscolare, dalla
rudimentale fatica umana, per assumere il suo aspetto di organizzazione
e di lotta meccanica. Era la guerra ordinata e precisa, macchinosa,
agglomeratrice di trovati, di produzioni, di capitali, quale si svolge
per tutta l’Europa. Noi la facevamo in alta montagna, la spingevamo
audacemente verso le creste che si perdono nel tumulto caliginoso delle
nubi.

                                 * * *

Ci rivediamo ancora in cammino, per un sentiero che s’inerpica da prima
in mezzo a boscaglie, contro il corso di un torrente. Poco fa erano
prati verdi intorno a noi: la primavera sta salendo dal fondo della
valle. Poi l’erba muore, la vegetazione dirada; i muletti scalpitano
sul suolo fangoso, nevoso. A un tratto l’ondata d’una valanga ci ferma
il cammino. Si abbandonano le cavalcature, si prosegue a piedi, lenti
lenti, per raggiungere la prima teleferica.

Il carrello sale ondeggiando, quasi mordendo con la ruota il filo.
Sotto di noi si spalanca un abisso vertiginoso, s’apre l’occhio
candido di un lago incrostato dal gelo. Tutto rimpicciolisce, si perde
lontano. La rotella della teleferica stride, manda un respiro sforzato,
affannato. Pare che si debba arrestare ogni poco, e qualche volta
accade che ci si fermi a mezza via per una lieve stanchezza del motore.
Il sottostante vuoto assume allora proporzioni più paurose e vaste, si
soffre un attimo la tentazione di saltare fuori.

Quando il vento soffia impetuoso, le corde di ferro stridono e
sibilano, il carrello ondeggia follemente nel vuoto, come un sughero
nella tempesta. Eppure lungo la guida aerea salgono senza interruzione
viveri e rifornimenti d’ogni sorta, quintali di legno e di ferro,
di arnesi, di sci, di maglie, pellicce, pale, zappe, piccozze. E
discendono i feriti e i malati rapidamente, che prima bisognava portare
in ispalla per decine di ore di cammino.

Le _corvées_ continuano a salire per i sentieri, a svolgersi lente
e faticose. Ne vediamo una dall’alto: una fila nera di formiche nel
bianco, carica ognuna del suo fuscello e del suo granello. È una vista
che induce nell’animo una commozione senza parole.

Ci si sente diventare più modesti quassù, più pensosi e più buoni.
Un sentimento di devozione, di rispetto, di riconoscenza devota
cresce nell’animo verso i nostri fratelli. Non è il tramonto grigio
e malinconico che induce questi pensieri, ma la scena che abbiamo
d’intorno.

La seconda teleferica ci attende. Il carrello è partito poc’anzi,
carico di viveri. Si allontana verso le nubi, scompare. Piano, piano,
un rettangolo nero spunta giù dalla nebbia, si avvicina quasi col moto
strano d’un grosso ragno appeso ad un filo. Reca un carico strano,
allungato. Quando il carrello si ferma compaiono le aste gialle di una
barella, sulla quale un corpo umano è avviluppato.

La barella affidata a due sci è deposta sulla neve. Gli scarponi
ferrati, d’un colore bruno, di cuoio tutto bagnato, sporgono fuori
delle coperte. La faccia è velata: nessuno la scopre. Le mani chiuse
nei guanti sono composte sul petto in un segno di croce. Due giri
di corda passano attorno al cadavere, lo fermano alla barella. Un
biglietto sotto la corda reca nome, cognome, qualità del caduto. È un
alpino di Edolo andato volontario. Ha compiuto dieci mesi di guerra,
ha offerto alla patria tutta la sua anima, tutta la sua fatica mortale;
ora riposa, raccolto in poco spazio come quando si sta per lasciare il
mondo e cercare la quiete dentro la terra.

Quattro soldati, senza parlare, prendono in mano le funicelle; a passi
lenti, sulla neve, trascinano la slitta, scendono verso la stazione
dell’altra teleferica.

Lo stesso carrello ci prende e ci solleva. Noi seguiamo dall’alto in
silenzio il convoglio dell’oscuro eroe che scende verso la valle.

                                 * * *

Il primo nucleo di sciatori fu pronto verso la metà di marzo — che a
quelle altezze è fitto inverno.

Era, sul terreno quanto mai duro a praticare, una truppa leggerissima,
uno stormo di gente volante: i cavalleggeri della montagna. (Avevano ai
piedi le alette gialle o nere dei volatori del Nord: i legnetti sottili
e lunghi, dal becco ricurvo, di tempra fine come il più nobile acciaio.
A mezzo la stretta assicella s’imposta lo scarpone chiodato, massiccio
come uno zoccolo: le stringhe allacciano il collo del piede, il peso
della persona va leggero sulla neve). Erano alpini scelti, bergamaschi
e bresciani.

Fu dunque ordinata per il venti di marzo una ricognizione in forze su
tutta la zona del ghiacciaio: la traversata di quella ampia terrazza
polare che la neve copriva ancora: dalla prima cancellata di monti,
cioè dal Passo Brizio, alla seconda, cioè al Passo della Lobbia Alta,
e di là alla terza, dove s’apre il Passo di Fargorida, che mena alla
nemica Valle di Genova. La sera avanti, al Rifugio, si apprestarono
alla partenza.

Tempo meraviglioso, cielo puro, freschezza luminosa di stelle, aria
calmissima. Attorno alle baracche, centocinquanta uomini, chiusi negli
scafandri di tela bianca, i cappucci sul capo, le mani inguantate, i
volti cotti dal freddo, s’aggiravano come fantasmi. Era lo stormo che
voleva alzarsi.

La partenza fu data dopo la mezzanotte. Si salì a Passo Brizio, sulla
neve gelata, che sotto i pattini crocchiava. E raggiunto il Passo,
calarono giù pel ghiacciaio, sul pendio dolce, quasi in una sospensione
di volo. Lievi pattuglie di sicurezza precedevano, ed esploravano il
campo, che appariva deserto. Si sapeva che nella prima vedretta non si
sarebbe incontrato il nemico. Si dubitava che fosse annidato al termine
della seconda. E come si giunse alla Lobbia Alta, primo obbiettivo
della ricognizione, fu dato l’_alt_: le forze si divisero in tre
colonne, che puntarono a ventaglio sul Passo di Lares e Cavento, sul
Crozzon di Lares, sul Passo di Fargorida.

S’era fatto giorno, il luogo appariva in tutta la sua miracolosa
bellezza, ampio, solenne, come un paese nuovo, vergine d’ogni traccia;
scenario luminoso, fantastico, teatro aperto alle voci sonore del
vento, alle orchestre immani delle bufere: che ora un gruppo di uomini
occupava, infinitamente piccolo nella solitudine e nel silenzio.

La guerra si presentava lassù diversa da tutte le altre parti. Gli
uomini lottano per la terra, si battono per questa crosta lavorata e
scavata, per i suoi campi recinti di siepi, arati e seminati, popolati
d’alberi e di erbe, carichi della secolare fatica umana, gravi dei
segni della nostra passione. Lassù, nulla. Il luogo non è di nessuno,
l’uomo ci passa ma non ci si radica; tutto è dimenticanza e sterminio.
Non una traccia, un segno che duri: soli i nomi delle vette, delle
vedrette, dei passi, dànno l’illusione che anche quel lembo di mondo
sia nostro, che l’uomo lo popoli. L’uomo ci passa con la sua anima,
solo, e cerca un suo simile per suscitare la guerra dalla stessa
fraternità comune.

Giunti che fummo alla terza catena, senza intoppi, senza trovare
nessuno, ci affacciammo alla sottostante valle, vedemmo in quel fondo
i segni della vita: sentieri che si perdevano lontano, macchie nere
di boschi d’abeti, un lembo di terra ancora nevosa, ma che recava le
malghe disperse, le piccole solitarie abitazioni umane, attorno alle
quali la primavera avrebbe presto scoperto i prati novelli, i pascoli
fioriti. Era uno degli angoli della cara terra del Trentino, che pareva
ci attendesse.

Il mezzogiorno era alto, e frugava coi raggi nella valle, stretta alla
testata, dominata dalla vetta impervia della Presanella, come da una
scolta; una valle tacita e povera, dove cercando con l’occhio non si
scopriva un solo nemico.

Il ritorno fu come l’andata, tranquillo. Il tempo si mantenne sereno.
E tuttavia, volgendo l’occhio da cima a cima, si aveva l’impressione
della difficoltà di una azione a quelle smisurate altezze, dove le
sorprese del cattivo tempo s’annidano quasi in ogni punto, e balzano
fuori d’un tratto, per assumere proporzioni e forme terribili.

Le nubi stagnano pigre in qualche seno riposto, sono acquattate nei
bacini profondi quasi dormissero, torpide. Si vedono i loro crini
bianchi, le code tortuose che il vento solleva in furia. Si mischiano
le nubi alle nebbie, le nevicate piovono improvvise, la tormenta
flagella intere zone, ammucchia l’oscurità sul massiccio. La montagna
si rattrappisce in un chiarore smorto, crepuscolare.

Gli austriaci conoscevano il luogo, e non avevano osato violarlo, ma la
nostra ricognizione li fece reagire.

Qualche giorno dopo, la parte del ghiacciaio dove c’eravamo avventurati
lanciò i primi segni di vita, offrì le prove d’una recente occupazione.
Dal Passo di Tòpete, imminente su Val di Genova, fu visto salire
nell’aria un filo di fumo. Movimenti minuscoli di pattuglie si
svolgevano anche sulla seconda linea, specie a Lobbia Alta: si videro
sulla neve numerose piste.

Attraverso il deserto i due nemici cominciavano veramente a
fronteggiarsi: si avvicinavano, si osservavano: s’iniziava un contatto
che avrebbe ben presto suscitato un’azione.

                                 * * *

Da parte loro essa era più facile. Più rapidi e brevi sono i
rifornimenti per Val di Genova. La via più lunga, più aspra è la
nostra. Ma questo è il proprio della guerra italiana: non ci spaventò
altrove, non ci fermò sull’Adamello. Anzi, poichè il nemico usciva dai
ricoveri, meglio farglisi incontro, azzuffarsi.

La prima linea fu rafforzata, fu studiata ed eseguita l’impostazione di
alcuni pezzi. Si accrebbero i depositi delle armi e dei viveri; munite
le truppe d’ogni conforto, si equipaggiarono splendidamente, e fu
decisa pel 12 aprile la prima vera azione: la conquista della linea di
mezzo, che sarebbe stata battuta dai più alti cannoni d’Europa.

Le truppe non erano mai state così belle. La presenza del nemico le
infervorava: non si sentivano più sole: non si trattava più di avanzare
nel deserto. La montagna era un campo di azione.

L’11 aprile, a sera, dal rifugio muove una grossa colonna di sciatori,
per portarsi al Passo di Brizio. Il tempo era coperto, ma poichè
bisognava operare di sorpresa, nessuno desiderava il sereno.

Al Passo di Brizio, quando i primi si affacciarono alla cresta
rocciosa, nella notte buia, furono schiaffeggiati dal vento. Fu un
trapasso brusco, una specie di assalto improvviso. Questa volta il
ghiacciaio non ci voleva. Il suo saluto non poteva giungerci più
ostile.

Gli uomini stentarono a valicare quel punto. La bufera ci s’ingolfava,
ributtava addietro come per furia di ondate. Pareva di scendere dal
vertice di uno scoglio in un mare burrascoso. Il terreno diroccia a
picco, frana, come una sponda a perpendicolo. La neve, i ghiacci, le
pietre fanno impasto, e si sdrucciolava, bisognava aggrapparsi con le
mani, calarsi adagio; a ogni passo si rischiava di rotolare.

Si calò, e ci si raccolse più a basso, dove il piano del ghiaccio
comincia a distendersi. Ma lo sguardo si perdeva in un rammulinamento
furioso. Si dovettero subito abbassare gli occhiali per non avere gli
occhi feriti dagli aghi della tormenta. I ghiaccioli schiaffeggiavano
la pelle, come manate di pezzi di vetro lanciate con forza da tutte le
parti.

In queste difficoltà si formarono tre colonne, che da quel punto si
mossero, divergendo, affidate all’istinto delle guide. Era passata la
mezzanotte.

Andarono per qualche tempo ognuno per avvicinarsi al punto convenuto.
Non era possibile orizzontarsi se non palpando il terreno, seguendone i
molli ondulamenti che dànno la fisionomia alla vedretta. Ma la tormenta
operava con stordimento sui sensi. Gli uccelli si perdono nella
tempesta, si persero anche i nostri. Le tre colonne, dopo avere piegato
a destra, forse nella direzione più forte del vento, andate per un
lungo tratto alla deriva, giravano su se stesse. All’alba, schiaritosi
il tempo, i nostri si ritrovarono vicini.

Fu dato l’ordine di comporre quattro colonne e di riacquistare il tempo
trascorso. Tornava il sereno. La sorpresa veniva a mancare, ma si andò
avanti ugualmente. Il nemico forse allora cominciava a vederci, ma non
tirava ancora. Si profilavano le loro sentinelle sul Passo di Lobbia
Alta; e noi avanzavamo bianchi nel bianco, gli zaini e i fucili chiusi
nelle fodere di tela, perchè non facessero macchia, cogli scafandri
ingannatori.

Una prima colonna sale per Monte Fumo, un’altra pel Dosson di Genova,
una terza tenta la Cresta della Croce; una quarta la Lobbia Alta.
Questi reparti salendo dovevano biforcarsi, espandersi, per procedere
verso la vetta all’aggiramento dei nuclei nemici. Questi come ci
videro salire aprirono il fuoco. Erano acquattati alti fra le rocce,
scaricavano giù fucilate e raffiche su raffiche di mitragliatrici.

Fu allora che le nostre artiglierie cominciarono a batterli, aprendo
la strada ai nostri che si inerpicavano cogli sci. Approfittavano
dell’aria limpida a nostro vantaggio.

Inerpicati com’erano a ventaglio su per i vari crostoni, i nostri
s’andavano stringendo a tenaglia addosso al nemico. Andavano su così:
una raffica di fucileria e uno sbalzo. Un’altra raffica e un altro
sbalzo. La conquista delle quattro posizioni progrediva uniforme,
pareva regolata sul cronometro.

I pezzi spostavano i tiri da punta a punta, battendo la resistenza
nemica più dura, facendo volare qualche mitragliatrice.

Sul Dosson di Genova fu intimata ai nemici la resa a tre metri di
distanza: si invitarono a darsi prigionieri. Ma un colpo partì dalla
loro parte a bruciapelo, e allora con una scarica pulimmo la posizione.

Uno sciatore che precedeva di qualche metro la pattuglia si trovò di
fronte, improvvisamente, tre o quattro austriaci. Vedendosi solo,
gridò: “Avanti la compagnia!” colla baionetta innastata. I nemici
sorpresi alzarono le mani e gli si diedero prigionieri.

Sulla Cresta della Croce, un caporale avendo avvistato un punto adatto
per impostarci una mitragliatrice, fattosi avanti con le bombe a
mano, le gittò su coloro che lo occupavano, li uccise e disperse, fece
piazzare l’arma, e la mise in azione.

Prima di sera tutta la linea assalita, che oggi teniamo saldamente, era
in nostro potere.

                                 * * *

Si sono prese a occhio le misure, non sono venti metri quadrati.
Bisognerà dormire qui in sei.

Per la cena si sono dovute disporre due serie, come nei
_Wagons-Restaurants_, poichè tutti non ci si stava. Ora portano fuori
la tavola e mettono su i letti. Non si dormirà certo bene come al
Rifugio.

Che dormita al Rifugio, in quella cuccetta di legno, che veniva fuori
dalla parete, come una cabina di bastimento! Ce n’erano altre otto
attorno a noi, e vaporava un calduccio che ristorava. Un professore
di greco, che ai bei tempi della scuola batteva i più grossi filologi
tedeschi sul campo della restaurazione dei testi monchi, allungato
nel suo rettangolo pareva una di quelle statue che si posano sui
sarcofaghi: gli occhietti semichiusi, il volto soffuso del sorriso
serafico del pedante ingegnoso e fine, filava a mezza voce esametri
su esametri di Omero. Avevamo assaporato, anzi c’eravamo nutriti di
uno di quei sonni ristoratori che tolgono dieci anni di sulle spalle e
venti dall’anima. E di buon mattino s’era ripresa la salita verso il
ghiacciaio; attraversata la prima vedretta, eravamo giunti nel mezzo
del teatro della guerra.

I letti che ora si apprestano sono questi: tante barelle, coi pattini
sotto. Le stanno infilando di traverso per l’uscio, a una a una, le
distendono sul pavimento di tavole. Come le tele erano ricoperte
di neve, l’hanno dovute scrollare: c’è rimasta l’incrostatura del
ghiaccio, ma per raschiare che si faccia col paletto, non vuole
andarsene. Si stenderanno due coperte sopra, in vece del materasso, e
delle nostre giunture sarà quel che Dio vuole.

Pensiamo un po’! Gli alpini che ci hanno fornita questa sontuosa
baracca di legno tolta a un Comando austriaco, sono là, nella
notte piena di nevischio, entro grotte, aperte nella neve. Dormono
impacchettati nelle coperte umide. Sono quindici giorni che salgono,
che combattono, che vigilano. Sono quelli che hanno preso la seconda
linea, quasi tutta la terza. Gli attacchi nostri del 29 aprile e del
30 ci hanno dato in mano quasi intero il terzo ed ultimo sbarramento
del ghiacciaio. Restano alcuni posti nemici nel mezzo della linea, che
andremo a prendere fra cinque o sei giorni.

Ora ch’hanno distese le barelle sul tavolato ci si può anche
distendere. Ma uno alla volta, perchè tutti dentro non ci si sta.

Vestiti, s’intende; tolti i soli scarponi che la marcia nella neve ha
inzuppati; e due soldati ci rinfagottano fra le coperte, come tante
mummie grottesche, col passamontagna in capo, le mani nei guantoni
di lana. Verso il mattino, se non fa freddo, sono sempre quei dieci
gradi sotto zero. Quando gli alpini escono dalle loro buche, trovano
la coperta distesa la sera sulla bocca della caverna, dura come un
lastrone di zinco.

— Soldato, fammi il piacere di stendere anche l’impermeabile sulle
coperte. Mi piove addosso.

Sul tetto della baracca il tepore scioglieva la neve: era uno
stillicidio sulle mie spalle.

— E voi come state?

— Così, così.

— Io ho le estremità gelate.

— L’umido della tela della barella comincia a passare le coperte.

— Buona notte.

— Non sarà una buona notte.

Per fortuna, ai nostri piedi ardeva una stufetta portatile, a petrolio.
Aveva certi quadretti di vetro rossi, pareva una lanterna e diffondeva
nel dormitorio un mite chiarore.

                                 * * *

Dopo un po’: _cr cr cr cr cr cr_..... Il telefono.

Ci eravamo allogati nella baracca del centralino (voglio dire che
in quei venti metri quadrati si facevano i pasti, si dormiva e si
raccoglievano tutte le comunicazioni telefoniche del vasto settore).

_Cr cr cr cr cr cr_; chioccio chioccio.

Il soldato telefonista stava per prendere sonno, s’era allungato sulla
branda.

_Cr cr cr cr cr cr_.....

— Pronti! Pronti! Centralino. Chi sei? Scuoti il microfono, non
si capisce un accidente. Prontiiiii! Comando?, sta bene. Ti metto
in comunicazione. No. Sì. “La compagnia ha avuto questa notte il
cambio”..... Nevica..... virgola..... La terza teleferica ha avuto
una interruzione di circa un’ora. Punto. Ciao. _Cr cr cr cr cr cr cr
cr_.....

Il telefonista torna alla sua branda. La stufa borbotta, come una
pentola in bollore, ripiena di fagiuoli.

Dove siamo? in Russia? Al Polo Nord? Che siamo? Esploratori
dell’Artico o dell’Antartico? Ma! Senti quello come russa! Beato lui!
Sull’impermeabile piove, piove. Le gocce cadono l’una dopo l’altra,
ritmicamente, come da una grondaia. Fuori s’ode l’urlo della tormenta,
che scorrazza sulla vedretta e viene a sbattere contro la baracca.
Qualche spiritello maligno zufola alle fessure. Quando ancora la
baracca era senza uscio, si doveva stare molto peggio. Allora la
tormenta entrava dentro, la mattina ci si trovava con le coperte tutte
bianche, impaccati nel gelo. La situazione è migliore assai.

— Dormi tu?

— Io no.

— Hai visto l’onorevole come resiste, a queste fatiche?

— Come è andato via e come è venuto qui a balzi, dalla Lobbia Alta!

— Un vecchio alpino, quello!

— Un bel sergente.

— E quel tenente volontario, che ha fatto il bagno sulla neve!

— Quello è un tipo! Sai che ha preso parte anche lui alla conquista
della terza linea, senza essere del battaglione? Era venuto quassù per
servizio. Quando ha saputo che c’era qualche cosa in aria, s’è fatto
dare sette uomini e su, alla carica, per un roccione a nord di Passo
di Cavento. Pensa: sette uomini! Andavano su a balzi: si fermavano ogni
tanto per riprendere fiato, per cercare un passaggio. “Avanti ragazzi!”
Un soldato non si voleva muovere. “Va su, che fai?” Lo prende per il
cappuccio, lo scuote, si abbassa per guardarlo in faccia. Era morto!

— _Cr cr cr cr cr_.....

Il telefonista si rialza.

— Ma è così tutta la notte?

— Tutta la notte. Pronti! Va bene. Qui la tormenta fino a poco fa.
Adesso si deve essere rasserenato. Sì, sì, sì..... Faremo verificare la
linea appena sarà giorno. Ciao.

— _Cr cr cr cr cr cr cr cr cr cr cr cr_.

— Di’ un po’, e il colonnello, che ti pare?

— Quello è un uomo!

— Hai visto che occhi dolci in quella faccia dura come il legno?

Li tiene nel pugno tutti, dal primo all’ultimo, i suoi uomini,
ufficiali e soldati! Quello che vuole vuole. Quando il tenente gli ha
detto: “Signor colonnello, due alpini della compagnia che ha ricevuto
il cambio, sono mezzo svenuti”, hai sentito lui? “Non è vero; nel
mio battaglione non è mai svenuto un alpino, in vent’anni che ho di
carriera”. Lui gli uomini li tiene su con una parola, con un’occhiata.
Vedrai come li spazza gli austriaci, fra qualche giorno!

— Sì, ma io ho le ginocchia intormentite.

Una voce assonnata: — E se ve la finiste una buona volta? Non potreste
provarvi a dormire, come facciamo noi?

— Ha ragione. Proviamo a dormire.

Ma piove sempre sull’impermeabile, e giù pel collo s’infiltra il freddo
frizzante dell’alba. La stufa non borbotta più, ha consumato tutto il
petrolio, si è spenta. Per fortuna, fuori comincia a schiarire. Con
l’aria gelata scocca per le fessure la luce. L’interno della baracca
s’illumina. Quella è la parete destinata alla cucina. I fornelli, i
piatti, tegami e tegamini, uno zampone appeso allo spago. Là è una
mensola con un par di occhiali gialli, una rivoltella nella busta di
cuoio, un par di grappette fra alcuni oggetti di cancelleria, una
macchina fotografica. A quest’altra parete, cappotti di pelliccia,
passamontagne, mantelli impermeabili.....

Un colpo di cannone: un proietto che passa alto alto nella parabola
sibilante. Un pezzo grosso!

_Cr cr cr cr cr cr cr._

— Pronti! Sì, ha sparato ora. No, è il..... Sopra i tremila metri!
Scuoti il microfono. Pronti. È il pezzo postato sopra i tremila
metri..... Va bene. Ti metto in comunicazione con la batteria.....




DON BIGOLIN

                                                         Aprile 1916.


                                             _A Giorgio Bardanzellu._

Pare ci fosse un cappellano in un reggimento dei nostri molto avanzato
in Valle Lagarina, il quale si chiamava don Bigolino. Anzi, più breve:
don Bigolin.

Sulle labbra dei soldati, degli ufficiali e dell’altra gente del
luogo, il nome o nomignolo che fosse sonava ogni volta al passare
rapido rapido d’una tonaca, che veniva di chi sa dove, che andava chi
sa dove, che si vedeva in varie ore del giorno un po’ dappertutto. In
paese i ragazzi dicevano: “Ecco don Bigolin”. E la tonaca scantonava
per le viuzze. Le donne che lavano i panni entro la vasca, alzavano il
capo quando sentivano il _fru-fru_ del panno, e don Bigolin passava.
Lungo la strada, dove sono i paletti con su scritto “passaggio battuto
dall’artiglieria nemica”, anche di lì passava don Bigolin, di pieno
giorno, col suo solito passetto affrettato, ma non per le parole
scritte sul paletto. Più avanti, dove i territoriali lavorano, e ogni
tanto, al fischio delle granate, si rimbucano entro le grotte, la
tonaca di don Bigolin sventolava. Gli artiglieri inginocchiati attorno
alla coda dei pezzi mascherati, tirando la cordicella per rispondere
alle missive nemiche, vedevano con la punta dell’occhio il cappellano
che batteva il sentiero scoperto, e procedeva oltre. Quando, molto più
avanti, i camminamenti nostri scavati nella sabbia erano ancora stretti
stretti, e bisognava in certi punti camminare di sbieco, i soldati con
l’elmetto vedevano passare anche da quelle parti, rialzando con le mani
la tonaca, l’irrequieto cappellano.

Più avanti ancora, dove i camminamenti sboccano nelle trincee e fra
le corone dei sacchetti s’aprono le fenditure degli osservatori in
cemento o quelle quadrate, in legno, le guardie che stanno all’agguato
col fucile in pugno e le bombe allineate sulle mensole, all’altezza
del petto, volgendosi si trovavano alle spalle don Bigolin. Nelle ore
calme, come nei giorni più caldi, don Bigolin era sempre in giro di
qua e di là, in un punto o nell’altro della zona, ed era sempre quella
tonaca, sempre quel passetto rapido, sempre quella vocetta di saluto
e di sorpresa, e, con quel suo essere dappertutto, pareva avesse del
leggendario e del fantastico. Questi era don Bigolin.

Di qui venne che un cannoncino austriaco, che tirava sulle nostre
posizioni da posizioni non precisate, e mandava i suoi colpi anche
lui dappertutto, improvvisi anche quelli e senza conseguenze, come
il _fru-fru_ della tonaca del cappellano, avesse dai soldati il nome
di costui, e si chiamasse senz’altro, don Bigolin. Chi fu il primo a
trasferire a un cannoncino il nome di un buon servo di Dio, non si sa,
e non si saprà mai. Nulla è più misterioso della prima origine delle
parole. Ora in Val Lagarina don Bigolin è nome comune: dal cannoncino
austriaco che tira ora da un punto ora dall’altro, si è trasferito a
più d’uno dei nostri che gli rispondono. Di dove precisamente, è un
mistero profondo. Noi si vede dove arrivano, e non si deve cercare
altro.

Ci sono dinanzi a Rovereto, dei pezzi che hanno ben altra importanza.
Coni Zugna e Zugna Torta, — che a guisa di sperone, si spingono fra Val
Lagarina e Vallarsa fin sulla bella città in mano al nemico, dividendo
le due magnifiche strade che da Rovereto si partono per raggiungere
l’una Verona e l’altra Vicenza — devono essere pieni di grossi calibri
nostri, che dànno alla guerra d’assedio una maestà terribile e sonante.
Non per nulla abbiamo cacciato gli austriaci di qui: credo bene per
mettere qualcosa di grande nelle piazzole e negli appostamenti che essi
s’erano preparati lassù. Ma accanto ai pezzi grossi, i nostri vari don
Bigolin conservano il proprio ufficio particolare che assolvono con
impegno.

Proprio su Mori, che noi ci siamo lasciati alle spalle per inoltrarci
a monte dell’Adige, con un sistema di camminamenti, di trincee e
reticolati, s’erge e strapiomba sul paesetto abbandonato il Biaena: una
di quelle posizioni austriache che vi fanno pensare all’impossibilità
di un’avanzata. Il monte su in vetta è forato, e i buchi delle
cannoniere accennano dall’alto, giù dal regno delle nuvole. Più in
basso, pei canalotti, lungo i costoni ora lisci ora scabri, per le
schegge e i macigni, per i sentieri e i ripiani, s’abbarbicano le
difese nemiche. S’appostano i tiratori, si snodano i camminamenti, si
annidano altri pezzi, si stendono in brevi linee le trincee. Tutta
questa roba ci pende sul capo, e dovrebbe impedirci di muovere un
passo. Ebbene, laggiù in fondo alla valle, sulla riva del fiume, sotto
quelle difese aeree che paiono appostamenti di cacciatori, che sono
veri nidi di falchi, la nostra avanzata quasi tocca Rovereto. Quando il
nemico tenta di disturbare i lavori, questo cannoncino, o quello va coi
suoi colpi su per le rocce del Biaena, a scovare il disturbatore.

                                 * * *

Da Mori si vede su pel Biaena un camminamento nemico; deve essere un
modesto sentiero, dove passano le truppe loro che vanno e vengono da un
tratto di trincea. Per coprire il passaggio, l’hanno coperto con una
fila di graticci, di quelli che servono all’allevamento dei bachi. Un
muretto di cannucce, giallognolo, leggero, che appena resiste al vento
di montagna. Dietro quello schermo passano non veduti: ma don Bigolin
sale a trovarli di quando in quando, e apre nel graticcio una falla.
In altro punto un loro sentiero è mascherato da una cortina di frasche:
e don Bigolin rovescia le frasche. Allora quelli s’indispettiscono e a
loro volta tirano. La lite s’ingaggia fra i piccoli pezzi. Se non cessa
intervengono i grossi.

Basta una fucilata a far nascere uno scompiglio. Una pallottola scatena
una tempesta. La valle rintrona per ore di ululi e di boati, gli echi
si sbattono da parete a parete, coprono il vasto profondo mormorìo
del fiume, trasportano la guerra in fondo ai burroni, la sollevano
ad altezze candide di nevi e di nubi. Alle batterie di Valle Lagarina
fanno presto compagnia quelle di Vallarsa, e Rovereto e la sua bella
conca sono in piena guerra d’assedio.

                                 * * *

Dinanzi a Rovereto, come dinanzi a Gorizia, si è a poche centinaia
di metri dai borghi. Sulle sponde dell’Adige e su quelle dell’Isonzo
siamo risaliti a monte con quei lenti, prudenti passi che nella guerra
moderna movono avanti agli stessi uomini le trincee. Fin dove giungono
i campi, gli orti, le sparse propaggini dei suburbi, le prime case,
siamo giunti noi strisciando, appiattandoci, sprofondando nei lunghi
camminamenti tortuosi scavati nella terra o nella sabbia, sotto i
bracci distesi dei filari, lungo le siepi di biancospino, fra le radici
dei susini, dei peschi, dei meli.

Stratificazioni molli e profonde ha lasciate l’Adige súbito a valle
di Rovereto. Un soffice giacimento di arena si è accumulato ai piedi
delle montagne rocciose, dirupate, che si erigono come baluardi della
difesa nemica. Sotto un velo di terriccio fertile, dato tutto alla
vegetazione, si è trovato scavando questo strato di sabbia nel quale la
nostra avanzata ha proceduto con lavori di approccio silenziosi.

                                 * * *

Chi venga qui dal fronte carsico, ha l’impressione quasi di un’altra
guerra. Le sponde dell’Adige fin presso le linee nostre più avanzate,
sono ricreative al paragone di quelle dell’Isonzo. Bel fiume è l’Adige
e si svolge fra pareti di roccia e piani verdi come una vena azzurra
che si disegni vigorosa in un bel corpo. L’Adige ha un aspetto di forza
e di letizia insieme, e intona mille episodi idillici. La sua corrente
non separa due nemici. Per lungo tratto è unicamente nostra, attraversa
le nostre città, specchia i nostri villaggi, le rustiche case, i bei
campi dove il lavoro ferve ininterrotto, e gira le alte nere ruote dei
nostri mulini e degli orti.

Verso Rovereto, i colpi di cannone fioccano; ma non si trovano
le rovine dei paesi che l’Isonzo costeggia o bagna. Qualche casa
scoperchiata, un muro sforacchiato da un finestrone rotondo,
irregolare, il cornicione d’un campanile sfrangiato, qualche fossa
orlata di terra nera, smossa di recente e che s’apre lungo i sentieri
o in mezzo all’abbandono dei campi. Sono i segni della guerra, ma non
della devastazione, dello spopolamento, del terrore. La popolazione
rimane ad abitare le case, a lavorare i campi, ad accudire alle proprie
faccende. Sono bambini che giocano, donne che lavano curve su una vasca
o vanno alla fontana col carico dei bei secchioni di rame lucente.
Sono contadini che menano il carro coll’unico bove aggiogato fra le due
stanghe che si riuniscono sul davanti a punta di timone. Tutta questa
gente è sotto il tiro, vive nel pericolo, e non ci bada. La guerra
passa loro accanto, ma non li caccia e non li schiaccia. Traversano i
passaggi comunemente colpiti, rimangono lunghe ore in zone scoperte,
non si dànno pensiero di quel che accade.

Questo è anche un effetto della montagna. La pianura è terribile
perchè ogni suo punto può essere individuato, bersagliato, colpito.
I monti hanno dei fianchi scoscesi, anfrattuosi; hanno una fronte ma
anche una schiena, hanno delle rughe profonde, una vegetazione folta,
un rivestimento denso; hanno mille angoli morti, nei quali si annida
la pace, il placido idillio dell’erba col ruscello, della cascatella
col musco, della zolla col sole. Le gole rombano, riecheggiano al
tuono delle artiglierie, ma la montagna mormora e sospira da tanti
piccoli angoli calmi, che empie solo il mormorio dell’acqua cadente,
il borbottio della roggia e del canaletto, lo strepito lene, uguale,
monotono della fontana.

                                 * * *

La conquista di Coni Zugna e di Zugna Torta è stata per noi di
un valore inestimabile. Ci ha permesso di andare innanzi in Valle
Lagarina, lungo l’Adige, e contemporaneamente in Vallarsa, per le
due strade alle quali accennammo, che muovono da Verona e da Vicenza
e convergono a Rovereto. In Vallarsa siamo passati proprio sotto
l’immenso forte del Pozzacchio, che è tutta una montagna scavata a
fortezza; gli austriaci ne volevano fare una porta chiusa per sempre a
noi; non sono riusciti a fornirla a tempo di truppe e di cannoni. Don
Bigolin ci avrebbe aiutato poco da quella parte, se il Pozzacchio fosse
stato pronto nel maggio del 1915!

Chi da Valle Lagarina passi in Vallarsa e salga a visitare i lavori
interrotti sul grosso cocuzzolo del monte, che doveva difendere
Rovereto sbarrando la rotabile che porta da Vicenza e da Schio per il
pian delle Fugazze, resta attonito dinanzi alla enormità del disegno,
alla maestosa potenza di quell’abbozzo di forte. Una intera montagna
è stata scavata per annidarci le più potenti artiglierie di cui
l’Austria dispone. Chi ha visto a Siracusa le Latomie può farsi un’idea
dell’immensità di quest’opera, nelle cui grotte ampie, ciclopiche,
lugubri come catacombe si sarebbero facilmente adunate provviste
inesauribili di proiettili di maggiori calibri, capaci di sostenere una
guerra senza limiti di tempo. Il Pozzacchio doveva essere un caposaldo
della difesa delle terre italiane aggiogate all’Impero. Così com’è
rimasto a mezzo deve essere costato milioni.

La fortezza immane è in nostro possesso, e le nostre truppe l’hanno
sorpassata di parecchi chilometri. Anche da quella parte esse stringono
Rovereto dappresso, con opere d’approccio che il nemico vede ogni mese
crescersi sotto gli occhi.

La sua rabbia deve essere stata grande, se proprio in questo settore ha
creduto di dover sperperare contro di noi una cinquantina di colpi di
quell’unico pezzo da 420 che esso abbia finora rivelato lungo tutta la
linea del fronte. Povero pezzo, deve essere ormai fuori uso. E doveva
essere malandato quando intraprese il compito vano, se quasi tutti i
proiettili che lanciò caddero senza esplodere, sulla viva roccia. Ne
abbiamo veduto uno in una sella di monte, lungo, lucido, rossastro,
rimasto lì sugli scogli come un cetaceo arenato. Pieno di polvere e di
spocchia, grottesco, nella sua fine, più innocuo assai di un piccolo
don Bigolin che sentivamo correre in aria mentre eravamo chini a
guardarlo.




AUTOCARRI

                                                         Maggio 1916.


                                                       _A Gino Piva._

Improvviso, verso sera, era giunto l’ordine di tenersi pronti alla
partenza. Per dove, si ignorava, ma chi pensò all’Albania e chi disse:
“Ci mandano nel Trentino”. I comunicati cominciavano a dare notizie
dei primi movimenti dell’offensiva; qualche cosa di grosso stava per
accadere lassù; eravamo al principio di una nuova fase della guerra.
Benchè fosse recente l’episodio di Monfalcone, dove gli austriaci
avevano tentato di rovesciare le nostre difese per infiltrarsi
nel paese e prenderci alle spalle, ed erano stati trattenuti e
poi ributtati in mischie sanguinose da ondate di fantaccini e di
bersaglieri; benchè da qualche giorno, su tutta la linea del Carso,
dalla groppa di Sei Busi alle cime del S. Michele, e contro il Podgora
e il Sabotino e giù nell’imbuto di Plava, le artiglierie nemiche
scaraventassero tempeste di proiettili, che pareva preludessero ad un
generale attacco; — pure si cominciava a sentire che il fronte vero
si spostava dall’Isonzo verso le valli del lontano saliente trentino.
I più pensavano che si sarebbe corsi là a far argine contro la nuova
pressione.

Si trattava di alcune sezioni di autocarri, che fino allora avevano
fatto servizio un po’ qua, un po’ là sull’Isonzo, raccolte in uno
dei tanti parchi automobilistici organizzati su quel fronte. Come in
Francia, alla Marna e a Verdun, si operava la mobilitazione dei motori,
una delle più interessanti della guerra moderna.

E per alcune ore il reparto fu tutto in movimento. Forse, dal principio
della guerra non s’era più veduta una cosa simile. Si stava proprio
costituendo un fronte nuovo e pareva d’essere nel maggio dell’anno
avanti, in quel movimento grandioso e folto, in quella novità di
notizie e di ordini, in quella viva e pungente incertezza del domani
che sbriglia le fantasie ed eccita i sentimenti, come fa sempre la
guerra quando è di movimento e di avventura, e serba agli uomini
l’allettamento dell’ignoto e della sorpresa.

Conduttori e meccanici che da mesi e mesi facevano sempre, su per
giù, la stessa vita misurata alle esigenze d’uno stesso servizio,
benchè avessero finito la loro giornata, si preparavano allegri a
una partenza che li avrebbe condotti chi sa dove per altre strade, in
settori diversi. Sotto le tettoie era un andare e venire di macchine
e di uomini: chi insaccava la propria roba, chi veniva dall’avere
disdetto la propria stanza, chi provvedeva al completo rifornimento;
sotto i cofani sollevati si ripassavano i carburatori o le candele, per
terra erano latte di benzina, di olii, di grassi, cumuli di copertoni
vecchi e nuovi, pacchi di camere d’aria, pezzi di ricambio, cassette
spalancate che lasciavano vedere gli arnesi meccanici, i martelli,
le chiavi, le leve. Nei magazzini, in mezzo all’abbondanza strepitosa
d’ogni cosa, si eseguivano i necessari prelevamenti, con quella furia
un po’ materiale ch’hanno sempre i conduttori delle grosse macchine, e
che la fretta del momento moltiplicava.

Verso le otto, la colonna cominciò a formarsi lungo la strada
nell’ordine regolamentare. Man mano che le macchine erano pronte,
uscivano dal parco, si raccoglievano a sezione, l’una dietro l’altra,
ogni sezione al comando del proprio ufficiale. Alle otto e mezzo il
comandante del reparto passò in rassegna le vetture e comunicò il luogo
di destinazione. Si doveva andare verso Padova.

I conduttori erano al volante, i meccanici girarono le manovelle, i
motori s’accesero con un lungo rispondersi di scoppi: parve lungo la
strada una enorme esplosione, e al fischio di segnale le vetture di
testa si mossero, e le altre dietro, prendendo subito le distanze. Il
lungo treno s’allontanò nel polverone.

                                 * * *

Lasciavano, non senza una punta di nostalgia — cominciavano a sentirla
ora che se ne allontanavano — il fronte nel quale avevano fatto
servizio, chi da qualche mese e chi dal principio della guerra. Erano
fra essi alcuni partiti da Bologna proprio un anno prima: e avevano
fatto parte di una famosa colonna di trecento autocarri, che occupava
dieci chilometri di strada. Erano arrivati a Padova tutta bianca,
con le rose di maggio legate a mazzi sui volanti e sulle scuffie,
avevano portato lo strepito della guerra attraverso il Veneto verde
e cantante, avevano raggiunto e sorpassato le colonne delle fanterie,
i reggimenti di cavalleria che andavano all’invasione. Erano ricordi
lontani lontani, ma indimenticabili, l’aurora luminosa della campagna,
l’entusiasmo diffuso delle truppe e delle popolazioni, dei contadini,
al di là delle siepi, delle donne che lavoravano i campi coi nastri
tricolori al petto, dei ragazzi che gridavano al passaggio dei treni:
Evviva Trieste! Poi erano venuti i giorni gloriosi e gravi del giugno
e del luglio, quando l’esercito si batteva eroico e furibondo contro
un nemico che cresceva di numero, di forza e di difese; poi l’altra
offensiva memorabile dell’ottobre e novembre, poi la sosta invernale,
la guerra lenta ed aspra, la resistenza faticosa e tenace, la volontà
di vincere indurita, divenuta cupa e profonda, fatta più solenne da
tante prove e tanto sacrificio di uomini, di compagni e di amici.

Era gente che la conosceva la guerra sull’Isonzo, che s’imboscava nel
pericolo ogni giorno ed ogni notte. Conoscevano palmo per palmo la
strada di Plava; i parecchi chilometri di nastro, che girano su se
stessi come un serpente perfido, sotto il tiro delle mitragliatrici
puntate, dei cannoncini, dei fucili; sotto il tiro degli _shrapnel_;
con quelle svolte senza un metro di muretto ai lati, che hanno la gola
dell’Isonzo spalancata sotto; e bisogna passare di lì, la notte, a lumi
spenti, fra le pallottole che vi cercano, al lume dei razzi accesi
sulle trincee nemiche del Kuk. Gente che aveva avuto il coraggio di
rimanere lì ferma ventiquattr’ore per tirare su una macchina uscita
dalla strada, che aveva rischiato cento volte la pelle per riparare un
guasto al motore, pur di non abbandonare la propria vettura.

Altri avevano per mesi e mesi battuto le strade del Sabotino, di
Lucinico e del basso Isonzo, sulle quali ogni cento metri è un picchio
di granata, dove si passa in mezzo alle rovine squallide dei paesi
distrutti, delle case che hanno i tetti rovesciati sulla via, che hanno
i piani sprofondati nelle cantine, che fumano d’incendi nella pianura
vigilata dagli osservatori nemici. Erano le loro strade di ogni giorno,
il pane quotidiano dei loro motori. Proprio così: gli imboscati in
tutti i pericoli. Bella gente che ci passava in mezzo tenendosi ferma
al volante, con la destra alla leva dei cambi, l’occhio alla strada,
l’orecchio al motore, e tutto il rimanente a torno non conta nulla.

Andavano ora verso un fronte sconosciuto, incontro ad altri pericoli,
verso altre strade, sulle quali il nemico cominciava forse allora
a regolare i suoi tiri, rompendo le massicciate coi marmittoni che
precipitano a capofitto di sopra i mille metri, ululando.

                                 * * *

Si fece sera nelle terre del Friuli. I paesi erano addormentati;
qualche ritardatario su un uscio, qualche piccola luce trapelante dalle
imposte.

La colonna passava con un frastuono assordante, tremavano i vetri, si
scoteva l’acciottolato. La luce dei fanali era velata dal polverone, i
vetri dei fanali erano divenuti quasi opachi.

Andavano così, a circa quindici chilometri l’ora sempre disposti
ordinatamente; cento metri fra sezione e sezione, e trenta metri fra
vettura e vettura. C’erano macchine da 25-35, che raggiungono anche i
50 chilometri; tipi 18 B. L., 17 A, 15 Ter. Si regolava il passo sulle
vetture meno potenti.

E s’entrò a notte alta nelle terre del Veneto, in quella gran dolcezza
di strade elastiche e pulite come piste, nella campagna verde e quieta,
rigonfia di vegetazione, attraverso paesi e cittadine che sorridono dai
giardini pieni di fiori, dalle ville settecentesche disposte sui balzi
dei poggi.

A quando a quando un tratto di strada coperto di ghiaia minuta, un
viale alberato che pareva condurre in un parco, pieno di frescura, un
biancheggiare di grappoli d’acacie che venivano a sbattere contro gli
scuffioni di tela.

Ed ecco che da altre strade, altre colonne di autocarri cominciavano
a sboccare, alcune che tornavano dalle prime linee lontane, altre
che si dirigevano verso quelle, le vetture già cariche di truppa.
L’alba spuntava e venivano avanti i carrozzoni traboccanti di elmetti
turchini, di canne di fucile, di braccia, di volti, di grida festose,
di canti. E di fiori innumerevoli.

Il giorno avanti le popolazioni avevano coperto di rose, di garofani
i soldati che andavano su, alle difese. Reggimenti interi, intere
brigate fluivano, un torrente di uomini senza fine, che centinaia di
motori erano corsi a prendere nei vari accantonamenti della pianura,
e che sballottavano da dieci, da quindici ore via per le strade che
s’irraggiano verso le alture. Si poteva arguire che verso tutta la zona
minacciata migliaia di autocarri erano in moto.

A un bivio entrò nella corrente una colonna infinita di vetture nuove,
che venivano da qualche deposito di riserva. Recavano centinaia di
latte di essenza. Interi parchi si spostavano, era una improvvisa
mobilitazione nel cuore della guerra che dura da un anno: una
esplosione di nuove energie intatte, una messa in azione fulminea di
riserve.

E a un passaggio a livello la cancellata chiusa arrestò per alcuni
minuti tutto il movimento. Transitavano a poca distanza l’uno
dall’altro treni anch’essi carichi di soldati, poi uno carico di
cannoni. I pezzi, i cassoni erano velati di fronde e di erbe.

Veniva da un tanto movimento, da un tale flusso di forze, di macchine,
di mezzi, un senso di energia e di sicurezza. Di contro l’offensiva
nemica, sorgeva naturalmente, a poco a poco per molte vie, per le più
oscure vie, l’entusiasmo della ripresa, la febbre della rivincita,
l’allegro impeto della vendetta.

Le notizie dei nostri ripiegamenti erano giunte molto vaghe a quelle
truppe, spostate dalle retrovie lontane, e che non conoscevano il
fronte. I più credevano ancora che in poche ore la situazione si
sarebbe capovolta; il fatto è che non chiedevano nulla, non volevano
saper nulla, andavano cantando là dove c’era bisogno di loro, a formare
il nuovo argine, a segnare i nuovi confini.

Si respirava un’atmosfera di riscossa attorno a quelle decine di
migliaia di uomini, che il fronte diverso rinnovava, come andassero
allora per la prima volta alla guerra.

La colonna giunse il mattino alla prima destinazione, e i conduttori
ebbero un’ora di tempo per rifocillare se stessi e rifornire le
macchine, prima di caricare le truppe.

                                 * * *

La lunga colonna, come fu carica, ebbe ordine di ripartire senza
indugio. I conduttori, al volante da più di dodici ore, avevano
gli occhi sbarrati dal sonno e dalla fissità, calcarono il piede
sull’acceleratore e il treno uscì di sotto il viale alberato, le cui
fronde dovevano celare agli aeroplani nemici i nostri concentramenti.

Centinaia di cittadini acclamavano ai partenti. La bella città veneta
non dormiva da più notti, era tutta una attesa e una passione. Ma
gli animi fidavano nella sorte; persuasi che si sarebbe fermato il
nemico. Il suo primo balzo in avanti era certamente dato, ma la guerra
è fatta di alterne vicende. Si erano vedute andare su tante migliaia
di uomini che le speranze avevano una ragione d’essere più solida dei
facili dubbi, degli scoramenti vili. Del ripiegamento delle truppe sui
due settori vicini, d’Arsiero e d’Asiago, non erano giunte al piano
che notizie contraddittorie. Ora tutta la massa umana si rinnovava,
andavano su contingenti freschi, bei volti sereni di soldati,
artiglierie di diversi calibri. Sui treni ferveva una mobilitazione
grandiosa, si parlava di centinaia di convogli arrivati e ripartiti,
tutti destinati al trasporto delle forze.

Le strade che dalla pianura conducono all’altipiano e ai valichi aperti
nella barriera montana che separa l’Italia dalle fortificazioni di
Lavarone a destra e più a sinistra da quelle di Rovereto, man mano
che le colonne coi rincalzi procedevano, rigurgitavano sempre più di
movimento. S’era nelle retrovie immediate della guerra, e il flusso e
riflusso delle truppe e dei borghesi riempivano da un capo all’altro i
larghi nastri candidi, sui quali picchiava il sole, dai quali fumava la
polvere sollevata da un tanto traffico.

Il ritorno dei reggimenti che avevano avuto il comando di ripiegare
avveniva in ordine.

Lassù nei boschi fervevano ancora mischie disperate, lotte di piccoli
nuclei per difendere i pezzi e i convogli fino all’ultimo minuto,
cannoni fatti saltare quando la fanteria nemica era a poche centinaia
o decine di metri, calibri difesi con le mitragliatrici, coi fucili,
colle baionette: ci si batteva ormai più per i pezzi che non per la
vita, più per proteggere i compagni che ripiegavano che non per aprire
un varco a sè stessi.

Gli avvallamenti del terreno, gli infiniti tronchi degli abeti, le
innumerevoli trune di pietra che avevano servito di ricovero agli
operai borghesi, le trincee costrutte dietro le linee principali,
le casette, le baracche di legno, tutto serviva di riparo, di punto
provvisorio d’arresto, di difesa. Nei boschi ululava una caccia
selvaggia di uomini e di cannoni. Dal Lavarone entravano nella foresta
migliaia di proiettili a lacerare, a squarciare, a schiacciare
le piante, il terreno. Gli immensi gentili abeti che noi avevamo
rispettati sempre, la cara profonda foresta nella quale avevamo portato
la guerra, ma senza guasti e senza rovine, scrosciava tutta come
d’inverno sotto le valanghe, presa ora sotto una valanga strepitosa,
senza posa, immane, che rovesciava giù gli alberi dalle cime, che li
svelleva come fuscelli, che li piegava gli uni addosso agli altri come
giganti feriti; e i tronchi divelti formavano nel fondo delle valli
ponticelli improvvisati, sbarravano con le loro membra enormi le strade
e i sentieri. Gli uomini ripiegavano ordinatamente e sullo straziato
cadavere della foresta.

La ritirata continuava. Sezioni stupende d’artiglieria nuova, montata
su autocarri, spiccavano tra le file degli uomini a piedi, tra le
colonne dei muletti, tra i carrozzini e le carrette che trasportavano
la roba delle popolazioni fuggiasche. Era questa forse la nota più
mesta del gran quadro di guerra.

S’era dovuto dare l’ordine di sgomberare i paesi. Quel che non s’era
mai fatto in un anno di guerra, s’imponeva da qualche giorno come una
necessità. La settimana avanti l’offensiva, il nemico aveva lanciato
su Asiago qualche grossa granata, aveva tuonato di lontano, dal di
là del confine, la prima sua feroce minaccia. C’era stata in paese
qualche vittima e qualche ferito. L’esodo era cominciato subito. Non
era più possibile la vita in un paese di qualche migliaio di anime,
ormai sotto il tiro di un pezzo della marina austriaca. S’aggiunga che
il paese non avrebbe potuto resistere a un altro bombardamento anche
per la struttura leggera e pronta all’incendio della maggior parte
delle sue abitazioni. Una bomba lanciata da qualche areoplano, che
avesse appiccicato il fuoco a una casa avrebbe facilmente provocato un
incendio generale. Le abitazioni sono contigue e le fiamme camminano
sui tetti di legno e di paglia. Cominciò dunque l’esodo da Asiago e
a un tempo dagli altri comuni dell’altipiano. Scendevano a una a una
le famiglie, calavano in una corrente continua le singole popolazioni
a occidente dell’Assa. L’altipiano si sgombrava. Verso Val d’Astico
fluiva la stessa processione.

Vecchi, fanciulli, donne e qualche malato; erano, anzi tutto le vite
che cercavano scampo. Poi, i piccoli beni che l’uomo non abbandona se
non con la morte. Si vedevano sui carrettini stracarichi gli avanzi
delle abitazioni domestiche: i materassi senza i letti, qualche arnese
da cucina, qualche rame lucente, qualche sacco pieno di abiti o di
oggetti confusi. Non erano le caratteristiche processioni dei nomadi
che non hanno casa, che hanno sempre organizzata e pronta la piccola
dimora su quattro ruote; era l’esodo di una gente che aveva sconvolto e
abbandonato le proprie dimore e recava fuggendo le testimonianze della
fretta, della confusione e dell’abbandono.

Traevano seco l’innumerevole bestiame che i pascoli fini, molli come
tappeti, alimentano attorno alle case d’ogni comune. Le mucche da
latte venivano dietro i carretti, procedevano a due a due, o a mandrie
folte. Le mammelle gialle apparivano talmente gonfie che le bestie
procedevano lente, scansandosi a fatica, intoppando la strada. Le
colonne degli autocarri subivano lunghi arresti, le mucche istupidite
dal cammino, dal frastuono andavano a urtare contro i radiatori delle
macchine, pareva non avessero la forza di trarsi in disparte. Branchi
di pecore venivano anche giù, trotterellando nel polverone. Centinaia
di vitellini, legati entro le ceste, o sprofondati tra le masserizie,
guatavano, le gambe in aria, e il muso rivolto al cielo, le strane cose
che accadevano nel mondo proprio nei giorni ch’essi erano nati. Volti
rosei di fanciulli guardavano senza nulla capire, e si passava accanto
a donne e bambini grandicelli distesi sui veicoli, sprofondati in un
sonno più forte d’ogni ansia, tranquillo, riparatore.

Non una faccia in pianto: una fermezza e pacatezza tutta campagnola, di
gente nostra che non grida, non bestemmia, non mormora. Pareva veder
passare in un gran sogno calmo, senza voci, le migrazioni usuali dei
tempi remoti. Si assisteva a uno spettacolo senza apparente dolore,
non si udiva un lagno, non si riusciva a sorprendere nemmeno sui volti
femminili un segno di sgomento o di paura. Reggeva gli animi una forza
immensa, pacata, che serviva d’esempio e conforto a noi, che salivamo
con l’animo sospeso, e il pianto alla gola.

Era la forza inesausta, inesauribile del popolo, che resta sempre la
sorgente più ricca d’energie di una nazione: qualche cosa di duro e
fermo insieme e tranquillo come la terra che si stendeva all’intorno,
come le vallate e i pascoli che non mutavano forma, e restavano uguali,
e lasciavano passare la gente tacita che scendeva, e lasciavano passare
la truppa che saliva festosa, e reggevano sulle proprie groppe i
reggimenti che cominciavano ad accampare sul verde.

Ricordo che il primo giorno si incontrò un vecchio solo che scendeva
passo passo, col proprio maiale. L’uomo aveva la barba bianca, come una
figura antica, dai tratti duri, senza eloquenza, un volto tagliato nel
legno, le scarpe grosse, i panni polverulenti, le ciglia, le labbra
polverulente, le mani, quelle aduste mani che hanno i vecchi con le
floscie rughe giallognole e le vene grosse e turchine. Veniva giù
dietro il maiale bassotto e grasso, ricascante di grasso da tutte le
parti, la testa pesante, i fianchi rotondi, le natiche sballonzolanti
sui garretti fiaccati; avanzava zoppicando, a stento, lo si sentiva
soffiare, lo si vedeva patire. Si soffermavano ogni tanto. Lo perdemmo
di vista. Quel giorno stesso al ritorno li trovammo qualche centinaio
di metri più sotto. Il giorno dopo, come risalivamo, li rivedemmo
ancora non molto lontano dal punto in cui s’erano incontrati la
prima volta, al piede di un albero, fermi tutti e due, l’uno accanto
all’altro, la bestiola distesa col muso sul margine della strada,
accosciata sul fianco, il vecchio candido seduto, solo, in silenzio.

Ma tali episodi che toccavano l’animo, man mano che si saliva
sprofondavano nel vasto quadro della guerra.

Una meravigliosa energia di uomini, l’esercito splendido e sereno
saliva all’arginatura dell’altipiano.

E la strada fremeva, tumultuava a quel passaggio d’armi, di uomini e
di canti; su per le infinite volute della salita fumava un polverone
bianco che dava imagine di un incendio diffuso nella vaporosità
avvampata del mezzogiorno di maggio.

E pareva vedere i volti accesi dal riflesso di una gran fiamma che
ardeva lassù dappertutto: che era come il fuoco dell’immensa fornace
crepitante e divoratrice.




GIUGNO VICENTINO

                                                Vicenza, giugno 1916.


                                               _A Roberto Cantalupo._

Ieri, nel pomeriggio domenicale, tutto festante di sole, pieno della
placida gaiezza di tutta una popolazione uscita all’aperto, disseminata
pei ridenti giardini, pei magnifici viali, pei verdi passeggi sereni
che si distendono sulla pianura, che si inerpicano sui colli berici
di storiche memorie, vivi oggi più che mai di reminiscenze gloriose,
cominciarono a diffondersi le prime ancora incerte vaghissime notizie
del ripiegamento nemico sulla regione dell’altipiano, su tutta la
regione dell’altipiano.

Giungevano da fonti non ancora ufficiali, serpeggiavano come sussurrii
indefinibili, come annunzi scoccati nel rapido suono di poche parole,
nella concitazione di un dialogo breve, fra gente che giungeva di là
e taluno che qui attendeva, si propagavano poi di bocca in bocca, di
crocchio in crocchio, con le inevitabili amplificazioni della fantasia
e con le innocue esagerazioni dell’animo incapace di calma, ugualmente
eccitato dai timori e dalle speranze.

Tante voci si propagano in tempo di guerra, tante invenzioni mettono
radice facilmente, tanto ondeggiare di notizie buone e di facili
sconforti aveva nelle passate settimane colpito i vicentini, che i
più si afferravano quasi ostentatamente al dubbio, alla incredulità,
come a un’àncora che dovesse conferire un po’ di stabilità agli animi
e alle menti prese nel vortice di una corrente che se veramente reale,
continua e profonda avrebbe fatto delirare di gioia la cittadinanza.

                                 * * *

Intanto le informazioni continuavano a giungere. E da più parti
giungevano; nomi di luoghi lontani si univano nella confusione
concitata dei discorsi, si parlava di una nostra azione vittoriosa sul
Cengio, di una riconquista della vetta imminente, di una pressione
fortissima verso Busibollo che avrebbe tagliato fuori le difese
nemiche già affrante da troppi giorni di combattimento; si parlava di
una nostra avanzata verso Campiello, si rivedeva con gli occhi della
mente il bel luogo così caro ai vicentini, dove la cremagliera fa
ugualmente la sua sosta, quasi a mezzo il cammino dell’altipiano, si
ripensavano i giorni tristi, ma non sconsolati dell’abbandono, della
ritirata sanguinosa, di borra in borra della regione; e di notte si
giunse perfino a parlare di Conca e Treschè e più tardi di Asiago
ripresa, rioccupata, ritenuta saldamente dai nostri. Un automobilista
giunto dopo la mezzanotte fu circondato da un crocchio di cittadini,
interrogato, premuto, quasi soffocato da una folla crescente di
nottambuli, che voleva sapere, voleva notizie certe, precise,
indiscutibili; e il soldato disse di essere arrivato veramente ad
Asiago alle quattro del pomeriggio, col proprio autocarro.

— Con questo?

— Sì, con questo.

Allora si dovè credere al testimonio semplice, all’araldo che non
poteva mentire, al soldatino che veniva proprio di là con la sua
macchina polverosa, che aveva dovuto da circa un mese abbreviare le
sue corse quotidiane, correndo sotto il fuoco nemico che precipitava
strepitoso insolente giù per le retrovie in declivio e pretendeva
di imporre con la propria violenza il timore e lo sconforto alle
popolazioni del piano. Dunque era vero quello che era stato per tutti
i vicentini e per tutti i nostri gloriosi soldati un sogno di tutte
le notti, un vagheggiato e fremente desiderio di tutti i giorni da un
mese a questa parte, ora, finalmente, era la verità, la verità semplice
e vera, quella che si ode con l’orecchio, che si diffonde con la voce
della parola, che si percepisce con la pupilla aperta, sciolta dai
veli.

Ed ecco stamane fin dalle prime ore la notizia riprese il suo corso, e
tutta la città, pel centro e pei borghi pieni di popolo disceso sulle
soglie, raccolto per le vie a domandare, a narrare, a fantasticare, a
ripetere, e finalmente a gridare di gioia, a improvvisare dimostrazioni
di entusiasmo, a urlare: _Viva l’Italia! Viva Cadorna!_

Una folla di centinaia di persone si assembrò in piazza, e la gioia di
tutta una popolazione, diciamo meglio, di tutto un popolo esplose nel
sole, nel sorriso della città ridesta a una nuova sensazione di vita,
chiamata a vivere e a godere un’ora indimenticabile di gloria.

Era proprio tutta Vicenza gaudiosa, paziente, fidente e gloriosa che
esultava stamane per le vie e per le piazze, sul limitare delle povere
case operaie e per le finestre dei palazzi meravigliosi, per le bifore
marmoree che vedono da secoli il flutto della storia passare.

                                 * * *

Attraversiamo Vicenza che s’orna, s’addobba, letteralmente si riveste
di bandiere. È una fioritura fulminea, uno scampanìo di colori che
dondolano dai balconi, dalle finestre: grandi e ricche bandiere che
palpitano come vele fresche al sole, piccole, povere bandiere di stoffa
stinta e gualcita dal tempo, che mettono una nota di popolo minuto di
piccola e buona gente, di borghesia modesta nel coro dell’esultanza
civile, italiana.

Mai Vicenza fu più esultante e bella, mai più prodigio di luci e
colori, di quadri e di sfondi d’arte, di archi e di colonne, di palagi
e di torri si offerse all’occhio del sole. Pareva che i ciuffi dei
gerani dalle bifore del 300, dalle cornici di vecchio rosso mattone,
tutto caldo di glorie gittassero nell’aria voci acute di giubilo,
squilli alti di vittoria, zampilli di giovine sangue glorioso. Su
Piazza dei Signori il mezzogiorno di giugno batteva la pietra di bianco
e grigio color freddo, scoteva l’impassibilità marmorea di quell’enorme
sala scoperta, e la vecchia torre dei Bissaro, altissima puntava al
cielo come una fiamma.

Tutte le glorie architettoniche di Vicenza, le balaustre, i balconi,
le logge, i portali, gli spaziosi cortili luminosi e armoniosi come
vani di teatri, parean corsi da un palpito di rinascenza civile, da
un fremito di umanità nuova, che rievocava tutte le grandezze d’un
tempo, tutte le lotte magnifiche e sanguigne, tutti gli splendori,
le fedi, le forze del tempo antico, guerriero e politico, artistico e
signorile. Tutto rivive nei grandi giorni, tutto ritorna l’immortale
passato. Questa è nella storia l’ora in cui si rifiacca anche una
volta l’orgoglio e la rabbia tedesca: contro questi emergenti lavori
dell’arte, contro queste rimanenze eterne della nobiltà nostra perenne,
contro queste cose che nacquero dalle anime dei nostri padri, che
furono e sono il retaggio delle loro menti, il capolavoro delle loro
mani, la loro stessa anima dalle molte vite, contro questa italianità
sacra e squillante, sempre giovane e sempre vera, dei marmi e dei
mattoni, delle linee e dei colori, dell’arte e dello spirito nostro;
proprio contro questi baluardi, contro questi segni di spiritualità
che più ci appartengono, che furono e sono e saranno la nostra forza
più franca, la ragion d’essere più profonda e più pura, contro questi
limiti divini, che non sono trincee, che non sono reticolati, nè
cavalli di frisia, nè bocche di lupo, nè altre cose orride dai più
orridi nomi, si è fermato il flutto iroso nemico, come contro una
scogliera che non si frange, che nessuna alluvione potrebbe sommergere.

Noi lo scrivemmo: verrà il giorno in cui la cieca furibonda violenza
austriaca cederà il campo al ritorno felice, alla ripresa sicura del
nostro vigore, del nostro slancio, della fede e volontà di resistere
e vincere, per difendere le nostre città e i nostri tesori, i campi
e le case, i luoghi del lavoro e della preghiera; i nostri solchi
sudati, le nostre piazze, i nostri quadri, i nostri vicoli, le nostre
strade candide fra il verde, i nostri paesi più avanti, i pascoli dei
nostri armenti più in alto, le terrazze dei nostri panorami più in
alto ancora, i nostri fiumi, la nostra acqua e la nostra terra e anche
il nostro cielo. A ogni muro, a ogni zolla abbiamo dato le radici dei
nostri germogli, qui per tutto lo spazio che appare è passo per passo
una pianticella e una pianta, un arbusto e un colosso, un fiore ed un
tronco, uno stelo e una branca della nostra crescenza, lenta, folta,
forestale di popolo. Tutto voleva abbattere il nemico, con qualche
centinaio di bocche da fuoco; tutto voleva dirompere, stroncare,
invadere, incenerire la meravigliosa foresta: ed essa era piena di
spiriti, ogni tronco era una vita viva, ogni memoria è diventata una
forza strenua, ogni cosa è tornata un’anima; non i soli generali, non
i soli soldati, non quelli unicamente che combattono, non i viventi,
non quelli che sono caduti, ma tutto il popolo, ma tutta l’anima del
popolo, ma tutta la storia del popolo ha resistito e vinto, ha fatto
impeto e breccia, ha temprato le spade, ha rifucinato i cannoni, ha
rovesciato tutta la nostra infinita anima addosso al nemico.

                                 * * *

Faccio un rapido giro per i quartieri popolari. Voglio rivedere i
luoghi dove prima conobbi la povera gente cui non si oscurò l’animo
nei giorni più bui, che accese nel suo cuore tutte le luci e tutte le
fiamme, sotto quello che ai senza fede poteva sembrare il vento della
disfatta.

Chi dimenticherà mai quelle visioni, quegli istanti, mentre le truppe
giungevano a folate di migliaia di uomini dai lontanissimi punti di
concentramento, da altri tratti del fronte, sugli autocarri squassati e
polverulenti, e traversavano questi quartieri, lambivano questi borghi
per portare soccorso ai combattenti dell’altipiano, e la popolazione
che oggi vedo sparsa per le strade in festa e rumore prima le accolse
e le coprì di fiori, di auguri, di grida di fede e di vittoria? Come
non ripensare ora, come non rivedere nella fantasia accesa le scene
memorande che allora il popolo compose a se stesso e per se stesso
nell’intrico delle sue viuzze, fra i muri di queste casupole che oggi
riecheggiano di interiezioni di gioia. In quei giorni, in quei momenti
di trepidazione si gittò la sementa che oggi fiorisce e fruttifica.

Di qui passavano le truppe che venivano dalla pianura; entravano,
dapprima per Porta Borgo Padova, traversavano la città per ponte degli
Angeli, imboccavano il corso famoso. Poi si fece fare alle colonne
degli autocarri il giro di circonvallazione, e venivano a Porta Santa
Lucia, a Porta S. Bortolo o Bartolomeo, e a Porta Santa Croce. Le
altre provenienti da Treviso passavano per Borgo Scrofe e il Viale
dell’Astichello, tra il profumo dei tigli. Tutte si congiungevano a
Santa Lucia, e i carri correvano rapidi sotto le piccole mura del 300.
Questa porta S. Bortolo è un avanzo delle vecchie mura aggiunte nel
1508 per fare argine contro le truppe di Massimiliano. Anche allora
si erano calate giù per le vie naturali dell’altipiano e del Brenta e
cozzarono contro i nostri nella battaglia del Rastello. Proprio qui,
dove comincia la fila delle case più popolari, su questa porta erano
i cannoni che respinsero, nel ’48, il 20 maggio, gli austriaci che
facevano impeto dalla strada di Bassano. E coi vicentini erano romani
e svizzeri. Ora non si vedono più, ma che lungo ammonimento lasciarono
quelle vecchie bombarde, che spinsero gli austriaci verso Verona, e
quelli tornarono il 24 a ritentare da Porta Felice, e invano, e allora
Radetzskj organizzò la famosa spedizione che venne da Montagnano e
prese Vicenza dall’alto.

Per queste stesse strade l’invasione nemica fu fermata un mese fa,
con la forza degli animi. Qui vivono famiglie di artigiani, ecco
botteguccie di falegnami, di fabbri, di calzolai, di stiratrici, di
cucitrici, di piccoli sarti. La grande industria non ha ancora messo
le sue radici qui. E gli uomini non emigravano. Lasciarono poi la
casa e la famiglia, il desco e la bottega, quando furono chiamati in
guerra. E non tutti la volevano quella partenza. Ma un anno più tardi,
come si seppe che l’altipiano stava per essere invaso fino al ciglio
suo estremo, quando si videro le cannonate balenare nella notte sulle
cime che guardano il piano; quando accorsero i soldati alla salvezza,
una improvvisa commozione umana, uno slancio trattenuto di affetto,
un sorriso e una lacrima sola si accesero su tutti i volti, al passare
delle truppe, rapido, incessante, incalzante.

Dalle casette rimaste quasi vuote di uomini validi, le donne, le
giovinette, i vecchi, i bambini si rovesciarono fuori sulle strade:
rifiorirono per le truppe tutti i giardini e i prati del maggio. Queste
donne che ora accorrono a strappare dalle mani del rivenditore la
copia del giornale che reca la laconica _Stefani_, che tirano fuori il
soldino e si raccolgono a crocchio per leggere o compitare le poche
linee dell’annunzio fausto e felice; questa gente che non aveva mai
gridato guerra, gridava ora, in una sublime anticipazione degli eventi,
vittoria!

— Bravi, bravi i nostri figlioli! Siete tutti nostri figlioli!

Era un clamore di voci, la folla accorreva attorno ai carri, li fermava.

— Benedetti da Dio!

E quelli di rimando:

— Adesso andiamo su noi, non li lasceremo passare. Vi giuriamo che non
passeranno. Contate su noi.

— Figli nostri, benedetti, benedetti!

Le fanciulle correvano verso i prati verdi lì intorno, strappavano a
furia le margherite, le erbe, tornavano sulla strada, i grembiuli pieni
di primavera, i pugni ricolmi dei più semplici colori del maggio e
infioravano i carri e i capi dei soldati: _Evviva, evviva!_

Le madri cercavano ansiose con sguardi fulminei il volto di un proprio
figlio, che forse era là in mezzo; le spose cercavano i mariti, i
fanciulli vedevano rapidamente passare il padre loro, confuso nella
schiera carreggiata del reggimento. Passavano alpini, granatieri,
bersaglieri, fantaccini delle vecchie e nuove Brigate, decine e decine
di migliaia di uomini al giorno, decine e decine di migliaia di uomini
la notte. Nel buio venivano sulle soglie coi lumi, con le candele
affondate in un imbuto di carta, perchè l’aria non scotesse e non
spegnesse la fiamma.

Le fiamme più belle non si spegnevano nei cuori.

Vidi io un mattino povere fruttivendole afferrare, le ceste delle
frutta, il loro unico capitale, e rovesciarle entro gli autocarri,
dando tutto in dono spontaneo. Vidi donnette meschine, quelle stesse
che vanno al Municipio a riscotere il sussidio settimanale, mettere
insieme a due a due i centesimi per comperare un _toscano_; e per
offrirlo a qualche soldato; una ne vidi che nello slancio dell’offerta
tanto si fece innanzi che fu urtata e rovesciata a terra da una
macchina, che per poco non le passò sul corpo; un mazzo di sigari che
aveva in mano le andò per la polvere sfasciato; ed ella si sollevò
pronta e si curvò a raccogliere, e offrì il dono ai soldati di un altro
carro sopravvenente. Chi assistendo a quelle scene di popolare pietà
non ebbe le ciglia umide, non proverà più commozione.

                                 * * *

In poco più di un mese quale e quanta mutazione di animi e di cose!

Tutto si può rendere con una parola sola: _La guerra!_ La guerra che
è un’epopea e un dramma, che ha i suoi svolgimenti pacati e lenti, e
le sue sorprese improvvise, i suoi rivolgimenti tragici, le sue ore di
sospensione e di ansia soffocante, avviliente, e i suoi ritorni fatali,
le sue conclusioni necessarie, le sue sintesi ultime, che rimangono a
chiudere la vicenda alterna degli avvenimenti singoli e minuti.

Tanto quanto si è atteso bisognava soffrire, e bisognava anche temere e
dubitare, e sentirsi il cuore in ferita e in sangue prima di giungere
a questo. La via sassosa, spinosa, intricata, nemica, che prova
le forze e gli animi bisognava percorrere e ripercorrere, cadendo,
soffermandoci, disseminando la terra di nostri caduti, seppellendo i
nostri santi morti; ma non seppellendo mai la fede, anzi sollevandola
sopra di noi, sopra tutte le venture e le sventure, più alta di ogni
caso, più splendida d’ogni luce, più terribile di ogni arma.

Mai i nostri placidi fiumi furono più pieni di storia, di destino e di
santità.




LAGHETTO DI DOBERDÒ

                                                         Agosto 1916.


                                                  _Ad Arnaldo Monti._

I soldati, ora, vanno attorno allo scoperto, vengono fuori come le
lucertole ai primi soli caldi. Fa un effetto curioso la gente che si
muove in libertà su quel terreno di insidie mortali, d’appostamenti,
fra quelle tane di accucciati e sepolti. Non s’era mai veduto.

Dal giorno in cui i primi, da una parte e dall’altra, sbucando su
dalla strada di Ronchi e dal terrapieno della ferrovia, che va per S.
Polo e Monfalcone a Trieste, e dalle case di Selz, s’erano scontrati
con gli altri, calati da Doberdò, che li aspettavano al varco, dietro
i ciglioni di pietra; da quel lontano giorno i due avversari s’erano
distesi in linea, questi di fronte a quelli e non avevano fatto che
ammucchiare pietre per coprirsi, empire sacchetti di terra, e scavare,
scavare, con le zappe, coi badili, coi picconi, talvolta perfino colle
baionette, con le bocche dei fucili e con le unghie, per ripararsi,
nascondersi. Era passato un autunno, un inverno, tutta una primavera.
Erano venute le settimane di pioggia continua: nelle buche ricolme
d’acqua gialla si pescava. Era venuta l’estate, la pietra bolliva al
sole come avesse il fuoco sotto, e le due schiere nemiche erano ancora
lì, coi fucili spianati alle feritoie, con le provviste di bombe a
mano sui parapetti e negli angoli, nel lezzo tremendo dei cadaveri
che non si possono rimovere, che gonfiano, e fanno le mani nere, come
fossero inguantate, poi calano di settimana in settimana, quasi che
gli abiti si sgonfino; si spersonano, ischeletriscono dopo qualche
mese e il vento li scuote. Ognuno aveva i suoi. Ognuno ne aveva davanti
alcuni non della sua parte. Dopo un’azione, aprendo all’occhio un varco
sottile tra sacchetto e sacchetto, si cercava lì sulla petraia gialla,
bruciata qualcuno che non era tornato, si credeva di vederlo laggiù,
disteso bocconi, col fucile per terra a pochi passi. Era, non era, come
si sarebbe potuto sapere?

Adesso si gira liberamente, si può andare dove si vuole, sporgere il
capo, camminare senza curvarsi; non s’ode più in aria il “ta-pum” che
una volta scoccava la sua minaccia di morte.

Questo sole d’agosto che batte sul pianoro liberato, s’espande
improvvisamente dolce come a primavera. Sulla faccia tormentata della
terra, sulle sue ferite aperte dove pare rosseggino grumi di sangue,
il sole comincia a risanare, a pulire, a spazzare via le sporcizie, i
lerciumi, gli avanzi ripugnanti degli scomparsi abitatori del luogo.

Sole d’agosto, che tu sia benedetto! Gli ultimi morti rimasti fra
queste pietre, scoperti, t’hanno veduto ancora. Tu li hai purificati.
La loro presenza non si fa più sentire ai vivi. Quel nemico proteso
bocconi con le braccia allargate, ha uno strano capo rossiccio, arso,
bruciato dalla vampa. Ciuffi di capelli gialli scendono sulla nuca,
come una strana parrucca. Non fa nessuna impressione il morto. Non è
più un cadavere, non è che il ricordo lontano, scolorito di un corpo.

Ora vanno in giro per le trincee nemiche ad osservare, a frugare,
a raccogliere armi, fucili, cassette di munizioni, di bombe a mano.
Camminano guardinghi, con la cautela della gente di mestiere che sa
da un pezzo che sia un campo di difesa. Guardano dove posano il piede,
certo non vanno a rovistare nel pattume.

Ogni tanto un topolino grigio sfrugola via in silenzio, fuor d’un
cencio di coperta, fuor d’una scarpa sdruscita. Anche i topi, ora
faranno pulizia. E si butterà la calce su quei letamai, si darà fuoco
ai mucchi di paglia, ai pagliericci lerci dove si dormiva martoriati
dai pidocchi. Già si è cominciato ad appicciare l’incendio qua e là,
coi fiammiferi: nella diffusa luce del pomeriggio estivo, le vampe
tremolano come ombre d’oro tenui, evanescenti. Il sole e il fuoco ti
ripuliranno, vecchio e tristo pianoro del Carso.

Come sembrano sformate, ora, svuotate d’ogni importanza, ridotte a
qualche fosso, a qualche muretto, a mucchi sconvolti di filo di ferro,
le difese della guerra atroce. Non ci voleva che una tempesta di
acciaio che ci passasse sopra, per rovesciare ogni cosa, per togliere
importanza a tutto. È un campo di cose morte, di rovine senza quasi
più significazione di vita. Rimosso il pericolo, snidata l’insidia,
cessato il bisogno di nascondersi, di ripararsi in un modo qualunque,
nulla ha più alcun valore. L’istinto della difesa rimbucava la gente:
ogni pietra aveva un compito; ogni ricovero, se anche colmo di pattume,
serviva. I fossati profondi, pure scheggiati, abbozzati, grezzi, erano
una salvazione. Lì dentro ci si viveva. Non si viveva che lì dentro.
Le buche avevano le dimensioni dei corpi. I corpi s’erano accomodati,
adattati alle buche. Prima, quei solchi erano colmi di gente, di seme
umano; ormai non sono che rughe del terreno aride, vuote; non c’è che
un guasto sterile intorno, un campo di vecchie cose, la rigattiera
della guerra. Dopo un incendio, dopo un terremoto si vede pure la gente
che va curva tra le rovine, le macerie. Ma le case anche più distrutte
conservano un’anima, mantengono qualche linea intatta, parlano del
passato come di cosa che non ha cessato la sua ragion d’essere, che in
altra forma tornerà ad esistere. Queste opere che parvero grandiose,
formidabili, immani, non presentano che una desolazione squallida.

                                 * * *

Il cuore torna a quelli che sono morti, che hanno preparato la gioia
e la vittoria di oggi, nel sacrificio; a tutti i santi e i poveretti
caduti per fare un passo avanti, qui dove noi ora camminiamo sicuri a
piedi. La più alta e durabile espressione della guerra è in questa sua
somma immensa di dolore. Ciò che si è fatto par nulla al paragone di
quello che si è sofferto. Ciò che si sa è nulla al paragone di tutto
ciò che non si racconterà più e non si saprà mai. C’è qui una religione
del dolore, più grande d’ogni storia militare.

E l’animo va verso il senso nuovo di gioia e liberazione, che non si
può reprimere nè soffocare.

La strada che sale dal piano per Doberdò, si scioglie anch’essa come da
un incubo. Rivede, dopo un anno, nella piena luce del giorno, ripassare
carri e truppe in cammino. Non udiva da tempo che il calpestio tacito,
nelle notti senza luna, di reparti nemici che andavano alle trincee e
ne venivano, di compagnie e battaglioni che si davano il cambio. Di
giorno le granate la bersagliavano, solo che un’ombra vi apparisse
sopra, solo che una figura minuscola risaltasse sullo sfondo della
sua carreggiata polverosa. Il tracciato è pieno di buche: ma centinaia
di colpi non l’hanno distrutto. Appena ricominciato il movimento, la
strada, con qualche carriola di pietrame, è tornata quello che era. Si
svolge, corre al sole, manda fumate di polvere, tagliando a una a una
le linee delle trincee, là fino alle case di Doberdò. Di là prosegue.
Le nostre truppe che avanzano la scoprono passo per passo.

È una sensazione così nuova, così forte, e piena di così strano
sapore che la si vuol godere mano mano che si procede. Pare di andare
alla scoperta di un terreno vergine. Qui non abbiamo ricordi nè
riallacciamenti col passato. Quelli di noi che in tempo di pace non
ci vennero mai, ora hanno il senso di scoprire tutto, di trovare cose
nuove.

Che altra cosa è la guerra quando ci si muove! Quando gli orizzonti
mutano e si lasciano i morti addietro. Nella guerra di trincea quasi
sempre si hanno davanti. Si cammina cantando. Odo canzoni attorno a
me. Il nemico non è lontano. Si sa che si ritira, ma si sa anche che
si vede ancora da qualcuna di quelle alture. Non è più sul Cosich, non
è più su quota pelata; anche quota 121 è stata sgombrata stamane. Ma
quota 144 è ancora sua. Dicono che la fanteria avanzi verso la cima.
Al di là, dal versante opposto, s’alzano fumate bianche; effetti dei
nostri tiri di sbarramento e di inseguimento. Si impedisce ai rincalzi
di venire avanti, si cerca di tagliare la ritirata ai difensori.

Di quando in quando traversa l’aria un sibilo. Più si procede e più
giungono. Ci battono. Ma è un fuoco senza persuasione, di truppe
e di batterie in ritirata. Noi si incalza. Vengono giù di corsa
alcuni autocarri della Croce Rossa: i feriti nell’azione impegnata
a Oppacchiasella, e più avanti ancora. Incontriamo reparti di un
reggimento che avevamo veduto l’ultima volta altrove, in un giorno
d’azione. Effetti della grande manovra per le linee interne, che ha
sorpreso il nemico; rinforzi venuti per la linea più breve, seguendo
la corda che regge l’immenso arco del nostro fronte. Gobbe rocciose,
bozze di spugna arida, secca, un velo di terra disteso dalle conche
dal vento; e il tormento del caldo e della sete. Agli spinelli delle
botti piene d’acqua, allineate in un campo, fanno ressa i soldati con
le borracce. Il nemico tira _shrapnel_ su quei luoghi di ristoro che ha
individuati.

Alle spalle delle truppe che incalzano, che i Comandi gettano nella
sempre più aperta spaccatura del fronte, per premere il nemico su tutta
la linea, per ributtarlo senza soste verso le sue difese a tergo,
a oriente del vallone, contro le alture di Medeazza, che saranno il
pernio più vicino al mare della nuova resistenza, fluisce l’ondata
dei carriaggi, gli approvvigionamenti, le batterie, le munizioni. La
mostruosa organizzazione tutta si sposta, dalle sedi di Comando agli
osservatori di batteria, dai depositi alle pattuglie di punta. Gli
uomini sono come i tentacoli più sensibili e prensili, avvolgenti e
penetranti del mostro che si muove con la sua vasta mole, sulle strade,
pei sentieri, pei dosserelli erbosi, attraverso la scarsa vegetazione
arborea, che i tiri della nostra artiglieria hanno rasa, rotta,
bruciata. Ma tutto questo fra poco ripullulerà. C’è una vegetazione
folta di erba attorno alle rovine delle prime case di Doberdò.

                                 * * *

Il paese è una desolazione. Non una casa che nasconda la propria
rovina. Ci si è tirato dentro con le grosse artiglierie, come in un
bersaglio. Doberdò era un luogo di concentramento e di passaggio per
le truppe austriache della difesa di Sei Busi e di Selz. Molte di
quelle case aperte, squarciate, sono delle tombe: sotto le macerie
si ritroveranno delle ossa, delle armi, forse anche qualche pezzo
d’artiglieria. Dalla chiesa il nemico tirava con un medio calibro. La
facciata è crollata, la chiesa s’apre come il vano d’un palcoscenico.
Nel mezzo è un cumulo di rovine alto molti metri.

Le case scoperchiate, sventrate, afflosciate su sè stesse, senza più il
sostegno di una parete valida. È la insulsa tristezza degli abbandoni
remoti che non hanno più colore. Un tritume, un seccume di avanzi
tormentati all’infinito da nuove esplosioni, coperti, soffocati da
sempre nuove ricadute di pietre, di sassi, di mattoni, di calcinacci,
di polvere. Vecchie tombe di case scoperchiate e inaridite, senza
episodi. Silenzio. Non s’ode che il cigolìo di un fanale arrugginito
rimasto appeso al suo braccio, all’angolo di una casa. L’ultimo avanzo
della illuminazione stradale di Doberdò. Una granata ha colpito anche
quello, lo ha dimezzato, non è rimasta che una porzione dello scheletro
lieve: cigola ai buffi del vento che viene dall’Adriatico.

Di tutto il paese di una volta, che aveva da essere ridente, non
restano che gli alberi. Gli abitanti sono stati i primi ad essere
spazzati via: poi se ne sono andate a una a una le case; ora se ne
sono andate le truppe loro. Ma i gelsi sono ancora qui, quasi tutti in
piedi. Hanno resistito all’abbandono degli uomini; un po’ intristiti
dall’incuria di quattordici mesi; hanno resistito ai bombardamenti che
facevano crollare le case attorno ai loro tronchi; si sono salvati.
Allargano le fronde, un po’ scarne, di un verde malato, sui resti
bassi delle dimore umane. Ci vuole più furia di ferro e di fuoco a
distruggere un filare di gelsi che a polverizzare un paese.

                                 * * *

A oriente di Doberdò le tre groppe del Crni Hrib, uno dei punti di
appoggio della seconda linea nemica, anch’esso crollato. La battaglia
infuria più oltre, al di là di Oppacchiasella, e a sud sulle alture di
quota 144, che il nemico difende da alcuni elementi di trincee a mezza
costa. Fra quota 144 e il paese, s’apre come una pupilla il laghetto,
orlato di rive flaccide, pantanose. Qualche batteria avversaria manda
rari _shrapnel_ a sfiaccarsi fra i molli canneti.

Paiono gli ultimi radi fumacchi di un incendio, le cui vampate hanno
ormai attraversato il vallone.




PRIGIONIERI AUSTRIACI

                                                       Novembre 1916.


                                                 _A Mario Missiroli._

Erano circa duecento, stesi per terra, falciati l’uno accanto all’altro
da un sonno più pesante della morte. Parevano cadaveri. L’abbandono,
il rilasso dei loro corpi non mostravano più nulla di volontario,
di mosso, di vivo. Ci sono posture nel sonno che rivelano ancora il
pensiero, o qualche cruccio della veglia, o la serenità del riposo,
o la quiete dolce, il sogno. Quelli erano corpi inanimati, senza più
nessun appiglio alla vita, nessun ricordo e nessuna plastica, allineati
per quattro o cinque lunghe file, tutti voltati sullo stesso fianco,
gli uni agli altri accostati, aderenti, stretti come salme deposte in
poco spazio per essere inumate in una fossa comune. Certo non l’ala
di un sogno affiorava dai giacenti; non si udiva un respiro levarsi
di sotto quei cenci che li avviluppavano, li fasciavano come corpi
induriti di mummie. Erano i loro cappotti turchini, dai baveroni
rialzati, che li coprivano fin sopra la testa: qualche mento con la
barba lunga veniva fuori qua e là, qualche pezzo di faccia dalla carne
pallida, cerea, o il giallore di una calvizie untuosa, o le occhiaie
profonde intorno alle palpebre chiuse, scavate sotto la fronte come in
un defunto. Le gambe s’allineavano come tronchetti di legno, ingrossate
dalle fasce fangose; e sporgevano i piedi chiusi negli scarponi di
cuoio buono che hanno i nostri nemici e che durano addosso ai cadaveri
per mesi e mesi: talvolta sui terreni dove i morti non si sono mai
potuti seppellire, rimangono a calzare agli scheletri le ossa dei
piedi.

C’era una umanità immensa, dantesca, in tutta quella carne prosternata
al suolo in attesa di una occulta remota resurrezione. E nella notte,
gli alberi a torno apparivano anch’essi senza vita e senza nome,
forme imprecise, nere, levate come scheletri su quella specie di umano
strame. E dentro il recinto non era che quella miseria, e l’odore del
branco putrido e l’albore della pacifica luna. Era un rilievo degno
della mente di Dante. Erano anime che venivano dall’inferno, scampate
alle bolge e alle doline del Carso, sfuggite al fuoco che piove lassù
a larghe falde sulla landa della nostra caccia selvaggia e della loro
condanna e del martirio. Erano lì come in un vestibolo di pace, sulla
terra che è l’avanzo di un parco, disseminata di paglia, di stracci, di
scatolette di carne in conserva. C’erano dei fanali azzurri appesi agli
alberi, fiochi come i lumicini che vegliano i malati, inutili, che si
perdevano nella chiarità lunare.

E quelli erano i prigionieri del giorno stesso, che avevano addosso la
cappa ferrea della fatica, sotto la quale non si potevano più muovere.
S’erano lasciati cadere lì allo scoperto, meccanicamente addossati
come per non soffrire il freddo pungente dell’alba, con le teste posate
sulla terra, come si trovano i morti. Non s’erano nè fatto nè cercato
un giaciglio, avrebbero preso sonno sulle più dure pietre, avevano lo
sfinimento, l’abbrutimento come capezzale, come materasso e coperta.
Si vedeva ch’erano affondati in un sonno cupo, senza risentimento e
senza intoppo, quasi presi in braccio dalla terra materna, che è la
genitrice eterna, dalla quale si esce, alla quale si ritorna, nella
quale si rimane poi per sempre quando ogni altro appoggio e abbraccio
e consolazione umana è finita per sempre. La terra che era per la loro
infinita stanchezza come il pane solo per la loro fame, come l’acqua
sola per la loro sete.

Quelli erano i combattenti di ventiquattr’ore prima, che avevano
sparato sui nostri soldati usciti fuori dalle trincee, che ne avevano
anche ucciso qualcuno, che avevano preparato dolore e lagrime alle
nostre madri. Erano lì, riposavano. Avevano salva la vita che è ancora
un bene sulla terra. Taluno di loro interrogato appena preso intorno
a quel che pensasse della guerra, aveva risposto: Per noi la guerra
è finita. Tutto quel che sarebbe accaduto dopo la loro partenza dalle
linee perdute, non li riguardava affatto: diventava una faccenda per
gli altri. E nella totale assenza di ogni altro sentimento che non
fosse di questa liberazione intera, suprema, avevano parlato.

                                 * * *

Scampavano chi da uno, chi da due anni di guerra. Non avevano più altre
memorie che di guerra. Chi aveva fatto tre campagne, chi quattro:
parlavano della Serbia e della Galizia, dei Carpazi e del Trentino,
dove i loro battaglioni erano stati richiamati e sbattuti, dove erano
stati decimati e rifatti, donde erano tornati, come onde di un mare in
tempesta. Avevano corso tutte le linee ferroviarie dell’Impero, nei
lunghi treni che portano di qua e di là il nerbo delle offensive, e
poi i soccorsi febbrili sulle retrovie dei fronti rotti o minacciati.
Avevano combattuto d’inverno e d’estate, s’erano trovati di fronte
sempre nuovi nemici, s’erano trovati di fianco commilitoni sempre
nuovi, dalle favelle incomprese. Erano la storia viaggiante di tutte
le spedizioni militari dell’Austria. Avevano combattuto in Serbia
senza trincee, riparando il capo dietro un sasso qualunque: avevano
combattuto sui Carpazi nevosi nei rigidi inverni, con la morte nelle
carni, nelle ossa; erano stati mandati ora sul Carso, nella bolgia più
orrida di tutta la loro guerra.

Alcuni di costoro erano stati veduti e descritti da Wiegand mentre
tornavano dai trinceroni di Sei Busi, di Selz e del Cosich: gente che
aveva incrostata sul volto la maschera di terrore della guerra: la
carne dei loro compagni aveva appestato la conca di Doberdò, aveva
riempito i cimiteri sparsi sui luoghi dove oggi sono i nostri soldati.
Erano i testimoni della nostra guerra terribile, dicevano senza
esitazione che di tutti i fronti il nostro è quello dove si vive e si
muore più tragicamente di tutti. Parlando delle campagne sul fronte
russo, i contadini accennavano con poche parole alle terre distese, su
cui marciando avevano posato il piede, in cui avevano potuto scavare le
trincee con la vanghetta, su cui i proiettili affondano nella mollezza
del terriccio e dei solchi. Ma qui sul Carso avevano trovato la pietra
che vola in schegge sotto gli scoppi e dissemina e centuplica la
strage, come se ogni lastra d’acciaio riscoppiasse a mitraglia.

E avevano narrato il martirio della resistenza su linee che non erano
ancora pronte e finite: specie le più avanzate, contro le quali
le nostre fanterie avevano sferrato l’assalto, dopo due giorni di
bombardamento distruggitore. Chi aveva potuto trovare una caverna vi si
era imbucato, e non se ne era più mosso: era stato fatto prigioniero
dai nostri. Altri avevano avuto ordine di non arrendersi, di lottare
fino alla morte, così com’erano, allo scoperto o quasi, dietro alcuni
muretti di divisione tra campo e campo. Altri assicuravano che gli
ufficiali li avevano abbandonati in massa il giorno prima, lasciando
l’ordine di ripiegare lentissimamente, passo per passo, ricostruendo
difese improvvisate ad ogni opportunità che offrisse il terreno. Ad
alcuni era stato detto che le loro retrovie erano bombardate da nostre
granate asfissianti, e che perciò non pensassero nemmeno a fuggire,
perchè avrebbero trovato nella fuga la più atroce delle morti. Ad altri
erano state affidate le mitragliatrici, con l’ordine di scaricarle non
appena si mostrassero le nostre truppe: la grande arma con la quale il
nemico cerca di controbilanciare l’effetto spaventoso delle bombarde
italiane.

Interrogato in quali condizioni si trovasse Comen, un prigioniero aveva
dichiarato che tutti i Comandi n’erano scappati, cacciati dal nostro
fuoco. Altri parlavano della linea di Kostanjevica, come della vera
linea loro di difesa, senza interruzioni, ricca di caverne, munita
di saldi punti d’appoggio, in complesso durissima. Ma annunciavano
anche che i nostri calibri la tormentavano intensamente. Alla domanda
se avessero sofferto la fame, rispondevano che da qualche tempo
nell’esercito austriaco si gode del buon raccolto fatto quest’anno
in Ungheria. Ma negli ultimi due giorni moltissimi non avevano più
ricevuto il pane nè il rancio perchè il nostro fuoco d’interdizione
aveva impedito tutti i rifornimenti. E finalmente interrogati su
quel che si dice e pensa nel campo avversario della nostra continua
pressione e della nostra attuale offensiva, alcuni avevano risposto che
ogni giorno si attende una ripresa a fondo delle nostre operazioni,
che le preoccupazioni sono molte e vive, che l’animo delle truppe è
incerto, e che se noi fossimo giunti a Kostanjevica, essi avrebbero
dovuto poi ritirarsi su Adelsberg. Insistevano specialmente sulla
gravità delle perdite subíte sotto i nostri bombardamenti furibondi.

                                 * * *

Questo ed altro avevano detto nei primi rapidi interrogatorii, subito
dopo essere calati giù in branco, per le strade carsiche che qualche
mese fa essi stessi o i loro commilitoni avevano disperatamente difese.
Quanti di quelli che noi vedevamo lì non erano passati in formazione di
plotoni e di compagnie su per la strada di Doberdò, dove ora corrono
i nostri autocarri, o per le strade di San Martino e di Castelnuovo,
dove ora s’odono i dialoghi dei soldati delle nostre centurie? Quanti
di quelli che giacevano a terra, ridotti come cenci, senza più forma e
senza più forza, non avevano tenuto per mesi e mesi le trincee al di
qua del Vallone, ora vuote, abbandonate, imbiancate alla calce come
luoghi d’infezione, corse nei lunghi silenzi da frotte fameliche di
topi?

Erano, quei prigionieri ai quali non si sarebbe dato un soldo,
nient’altro che i soldati dell’Austria, che avevano combattuto fino a
ieri come combattono i nostri nemici, tenacemente; senza speranza di
vittoria, ma senza rilasso. E duri alle fatiche fino all’estremo. E fin
quando sono sotto la sferza dell’aguzzino, disciplinati e feroci. Poi,
caduti prigionieri, perdono ogni carattere, ogni coesione, quasi ogni
fisionomia militare e d’un tratto rendono a chi li guarda l’imagine
degli elementi diversi dell’impero.

Ora, non parevano più che avanzi di uomini. Nel silenzio raccolto del
luogo, una bestialità stanca e greve li accomunava, come capi di un
gregge, distesi in lunghe file sulla terra che era già stata la loro,
donde s’eran dovuti ritirare, che avevano abbandonata a noi, e sulla
quale ora ritrovavano, tornando, una notte di requie.


  FINE




INDICE


  Fra gli uomini rossi (_a Vincenzo Valducci_)               PAG. 1
  Vele latine (_a Sante Solazzi_)                                31
  Un dottore (_a mio zio Giovanni_)                              47
  Sulle terre invase (_a Giulio Bechi_)                          67
  Due muli e una carretta (_a Enrico Bettazzi_)                  85
  Ritorno in trincea (_ad Alighiero Castelli_)                  103
  Fra Globna e Zagora (_a Gino Berri_)                          121
  Il “Diario di trincea” di Renato Serra                        155
  Mattino di battaglia (_ad Achille Benedetti_)                 177
  Alle trincee di Selz (_alla memoria di Gigi De Prosperi_)     193
  Sui ghiacci dell’Adamello (_alla memoria del Generale
    Carlo Giordana_)                                            213
  Don Bigolin (_a Giorgio Bardanzellu_)                         245
  Autocarri (_a Gino Piva_)                                     257
  Giugno vicentino (_a Roberto Cantalupo_)                      275
  Laghetto di Doberdò (_ad Arnaldo Monti_)                      289
  Prigionieri Austriaci (_a Mario Missiroli_)                   301





Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici.





*** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI DI GUERRA ***


    

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limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or
unenforceability of any provision of this agreement shall not void the
remaining provisions.

1.F.6. INDEMNITY - You agree to indemnify and hold the Foundation, the
trademark owner, any agent or employee of the Foundation, anyone
providing copies of Project Gutenberg™ electronic works in
accordance with this agreement, and any volunteers associated with the
production, promotion and distribution of Project Gutenberg™
electronic works, harmless from all liability, costs and expenses,
including legal fees, that arise directly or indirectly from any of
the following which you do or cause to occur: (a) distribution of this
or any Project Gutenberg™ work, (b) alteration, modification, or
additions or deletions to any Project Gutenberg™ work, and (c) any
Defect you cause.

Section 2. Information about the Mission of Project Gutenberg™

Project Gutenberg™ is synonymous with the free distribution of
electronic works in formats readable by the widest variety of
computers including obsolete, old, middle-aged and new computers. It
exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations
from people in all walks of life.

Volunteers and financial support to provide volunteers with the
assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s
goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will
remain freely available for generations to come. In 2001, the Project
Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure
and permanent future for Project Gutenberg™ and future
generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see
Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org.

Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation

The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit
501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the
state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal
Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification
number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by
U.S. federal laws and your state’s laws.

The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West,
Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up
to date contact information can be found at the Foundation’s website
and official page at www.gutenberg.org/contact

Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg
Literary Archive Foundation

Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread
public support and donations to carry out its mission of
increasing the number of public domain and licensed works that can be
freely distributed in machine-readable form accessible by the widest
array of equipment including outdated equipment. Many small donations
($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt
status with the IRS.

The Foundation is committed to complying with the laws regulating
charities and charitable donations in all 50 states of the United
States. Compliance requirements are not uniform and it takes a
considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up
with these requirements. We do not solicit donations in locations
where we have not received written confirmation of compliance. To SEND
DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state
visit www.gutenberg.org/donate.

While we cannot and do not solicit contributions from states where we
have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition
against accepting unsolicited donations from donors in such states who
approach us with offers to donate.

International donations are gratefully accepted, but we cannot make
any statements concerning tax treatment of donations received from
outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff.

Please check the Project Gutenberg web pages for current donation
methods and addresses. Donations are accepted in a number of other
ways including checks, online payments and credit card donations. To
donate, please visit: www.gutenberg.org/donate.

Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works

Professor Michael S. Hart was the originator of the Project
Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be
freely shared with anyone. For forty years, he produced and
distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of
volunteer support.

Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed
editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in
the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not
necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper
edition.

Most people start at our website which has the main PG search
facility: www.gutenberg.org.

This website includes information about Project Gutenberg™,
including how to make donations to the Project Gutenberg Literary
Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to
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